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Canto Primo

Già vinta dell'inferno era la pugna,
e lo spirto d'abisso si partìa
vota stringendo la terribil ugna.

Come lion per fame egli ruggìa
bestemmiando l'Eterno, e le commosse
idre a del capo sibilar per via.

Allor timide l'ali aperse e scosse
l'anima d'Ugo alla seconda vita
fuor delle membra del suo sangue rosse

e la mortal prigione ond'era uscita
subito indietro a riguardar si volse
tutta ancor sospettosa e sbigottita.

Ma dolce con un riso la raccolse
e confortolla l'angelo beato
che contro Dite a conquistarla tolse.

E, Salve, disse, o spirto fortunato,
salve, sorella del bel numer una,
cui rimesso è dal cielo ogni peccato.

Non paventar: tu non berai la bruna
onda d'Averno, da cui volta è in fuga
tutta speranza di miglior fortuna.



Ma la giustizia di lassù, che fruga
severa, e in un pietosa in suo diritto,
ogni labe dell'alma ed ogni ruga,

nel suo registro adamantino ha scritto,
che all'amplesso di Dio non salirai
finché non sia di Francia ulto a il delitto.

Le piaghe intanto e gl'infiniti guai,
di che fosti gran parte, or per emenda
piangendo in terra e contemplando andrai.

E supplicio ti fia la vista orrenda
dell'empia patria tua, la cui lordura
par che del puzzo i firmamenti offenda;

sì che l'alta vendetta è già matura,
che fa dolce di Dio nel suo segreto
l'ira ond'è colma la fatal misura a

Così parlava; e riverente e cheto
abbassò l'altro le pupille, e disse:
Giusto e mite, o Signor, è il tuo decreto.

Poscia l'ultimo sguardo al corpo affisse
già suo consorte in vita, a cui le vene
sdegno di zelo e di ragion trafisse;

dormi in pace, dicendo, o di mie pene
caro compagno, infin che del gran die
l'orrido squillo a risvegliar ti viene.


Lieve intanto la terra e dolci e pie
ti sian l'aure e le piogge, e a te non dica
parole il passeggier scortesi e rie.

Oltra il rogo non vive ira nemica,
e nell'ospite suolo, ov'io ti lasso,
giuste son a l'alme, e la pietade è antica.

Torse, ciò detto, sospirando il passo
quella mest'ombra, e alla sua scorta dietro
con volto s'avviò pensoso e basso;

di ritroso fanciul tenendo il metro,
quando la madre a' suoi trastulli il fura,
che il piè va lento innanzi e l'occhio indietro.

Già di sua veste rugiadosa e scura
coprìa la notte il mondo, allor che diero
quei duo le spalle alle romulee mura.

E nel levarsi a volo ecco di Piero
sull'altissimo tempio alla lor vista
un cherubino minaccioso e fiero

un di quei sette che in argentea lista
mirò fra i sette candelabri ardenti
il rapito di Patmo evangelista.

Rote di fiamme gli occhi rilucenti
e cometa che morbi e sangue adduce
parean le chiome abbandonate ai venti.

Vincenzo Monti   -   Poema: IN MORTE DI UGO BASSVILLE



Di lugubre vermiglia orrida luce
una spada brandìa, che da lontano
rompea la notte e la rendea più truce;

e scudo sostenea la manca mano
grande così, che da nemica offesa
tutto coprìa coll'ombra il Vaticano;

com'aquila che sotto alla difesa
di sue grand'ali rassicura i figli
che non han l'arte delle penne a appresa,

e, mentre la bufera entro i covigli
tremar fa gli altri augei, questi a riposo
stansi allo schermo de' materni artigli.

Chinarsi in gentil atto ossequioso,
oltre volando, i due minori spirti
dell'alme chiavi al difensor sdegnoso.

Indi veloci in men che nol so dirti
giunsero dove gemebondo e roco
il mar si frange tra le sarde sirti.

Ed al raggio di luna incerto e fioco
vider spezzate antenne, infrante vele,
del regnator libecchio a orrendo gioco,

e sbattuti dall'aspra onda crudele
cadaveri e bandiere; e disperdea
l'ira del vento i gridi e le querele.

Sul lido intanto il dito si mordea
la temeraria Libertà di Francia,
che il cielo e l'acque disfidar parea.

Poi del suo ardire si battea la guancia,
venir mirando la riva? Brettagna
a fulminarle dritta al cor la lancia,

e dal silenzio suo scossa la Spagna
tirar la spada anch'essa e la vendetta
accelerar d'Italia e di Lamagna;

mentre il Tirren che la gran preda aspetta
già mormora e si duol che la sua spuma
ancor non va di franco sangue infetta,

e l'ira nelle sponde in van consuma,
di Nizza inulto rimirando il lutto
ed Oneglia a che ancor combatte e fuma.

Allor che vide la ruina e il brutto
oltraggio la francese anima schiva,
non tenne il ciglio per pietade asciutto;

ed il suo fido condottier seguiva
vergognando e tacendo, infin che sopra
fur di Marsiglia alla spietata riva.

Di ferità, di rabbia orribil opra
ei vider quivi, e Libertà che stolta
in Dio medesmo l'empie mani adopra.

Videro, ahi vista!, in mezzo della folta
starsi una croce col divin suo peso
bestemmiato a e deriso un'altra volta,

e a piè del legno redentor disteso
uom coperto di sangue tuttoquanto,
da cento punte in cento parti offeso.

Ruppe a tal vista in un più largo pianto
l'eterea pellegrina; ed una vaga
ombra cortese le si trasse a canto.

Oh tu cui sì gran doglia il ciglio allaga,
pietosa anima, disse, che qui giunta
se dove di virtude il fio si paga,

sòstati e m'odi. In quella spoglia emunta
d'alma e di sangue (e l'accennò), per cui
si dolce in petto la pietà ti spunta,

albergo io m'ebbi: manigoldo fui
e peccator; ma l'infinito amore
di quei mi valse che morì per nui.

Perocché dal costoro empio furore
a gittar strascinato (ahi! parlo o taccio?)
de' ribaldi il capestro al mio Signore,

di man mi cadde l'esecrato laccio,
e rizzarsi le chiome, e via per l'ossa
correr m'intesi e per le gote il ghiaccio.






Di crudi colpi allor rotta e percossa
mi sentii la persona a, e quella croce
fei del mio sangue anch'io fumante e rossa;

mentre a Lui che quaggiù manda veloce
al par de' sospir nostri il suo perdono
il mio cor si volgea più che la voce.

Quind'ei m'accolse Iddio clemente e buono,
quindi un desir mi valse il paradiso,
quindi beata eternamente io sono

Mentre l'un sì parlò, l'altro in lui fiso
tenea lo sguardo, e sì piangea, che un velo
le lagrime gli fean per tutto il viso;

simigliante ad un fior che in su lo stelo
di rugiada si copre in pria che il sole
co' raggi il venga a colorar dal cielo.

Poi, gli amplessi mescendo e le parole,
de' propri casi il satisfece anch'esso,
siccome fra cortesi alme si suole.

E questi, e l'altro, e il cherubino appresso,
adorando la croce e nella polve
in devoto cadendo atto sommesso,

di Dio cantaro la bontà che solve
le rupi in fonte ed ha sì larghe braccia
che tutto prende ciò che a lei si volve.

Sollecitando poscia la sua traccia
l'alato duca, l'ombre benedette
si disser vale e si baciaro in faccia.

Ed una si rimase alle vedette,
ad aspettar che su la rea Marsiglia
sfreni l'arco di Dio le sue saette.

Sovra il Rodano l'altra il vol ripiglia,
e via trapassa d'Avignon la valle
già di sangue civil fatta vermiglia;

d'Avignon, che smarrito il miglior calle,
alla pastura intemerata e fresca
dell'ovile roman volse le spalle,

per gir co' ciacchi di Parigi in tresca
a cibarsi di ghiande, onde la Senna,
novella Circe a, gli amatori adesca.

Lasciò Garonna addietro, e di Gebenna
le cave rupi e la pianura immonda
che ancor la strage camisarda accenna.

Lasciò l'irresoluta e stupid'onda
d'Arari a dritta, e Ligeri a mancina,
disdegnoso a del ponte e della sponda.

Indi varca la falda tigurina,
a cui fe' Giulio dell'augel di Giove
sentir la prima il morso e la rapina.

Poi Niverno trascorre, ed oltre move
fino alla riva u' d'Arco la donzella
fe' contra gli Angli le famose prove.

Di là ripiega inverso la Rocella
il remeggio dell'ali, e tutto mira
il suol che l'aquitana onda flagella.

Quindi ai celtici boschi si rigira
pieni del canto che il chiomato bardo
sposava al suon di bellicosa lira.

Traversa Normandia, traversa il tardo
sbocco di Senna e il lido che si fiede
dal mar britanno infino al mar piccardo.

Poi si converte ai gioghi onde procede
la Mosa e al piano che la Marna lava,
e orror per tutto, e sangue e pianto vede.

Libera vede andar la colpa, e schiava
la virtù, la giustizia, e sue bilance
in man del ladro e di vil ciurma prava,

a cui le membra grave–olenti e rance
traspaiono da' sai sdruciti e sozzi,
né fur mai tinte per pudor le guance.

Vede luride forche e capi mozzi,
vede piene le piazze e le contrade
di fiamme, d'ululati e di singhiozzi.




Vede in preda al furor d'ingorde spade
le caste chiese, e Cristo in sacramento
fuggir ramingo per deserte strade,

e i sacri bronzi in flebile lamento
giù calar dalle torri e liquefarsi
in rie bocche di morte e di spavento.

Squallide vede le campagne ed arsi
i pingui cólti, e le falci e le stive
in duri stocchi e in lance trasmutarsi.

Odi frattanto risonar le rive
non di giocondi pastorali accenti,
non d'avene, di zuffoli e di pive,

ma di tamburi e trombe e di tormenti:
e il barbaro a soldato al villanello
le mèssi invola e i lagrimati armenti.

E invan si batte l'anca il meschinello,
invan si straccia il crin disperso e bianco
in su la soglia del deserto ostello:

ché non pago d'avergli il ladron franco
rotta del caro pecoril la sbarra,
i figli, i figli strappagli dal fianco;

e del pungulo invece e della marra
d'armi li cinge dispietate e strane,
e la ronca converte in scimitarra.

All'orbo padre intanto ahi! non rimane
chi la cadente vita gli sostegna,
chi sovra il desco gli divida il pane.

Quindi lasso la luce egli disdegna,
e brancolando per dolor già cieco
si querela che morte ancor non vegna;

ne pietà di lui sente altri che l'eco,
che cupa ne ripete e lamentosa
le querimonie dall'opposto speco.

Fremé d'orror, di doglia generosa
allo spettacol fero e miserando
la conversa d'Ugon alma sdegnosa,

e si fe' del color ch'il ciel è quando
le nubi immote e rubiconde a sera
par che piangano il dì che va mancando.

E tutta pinta di rossor com'era
parlar, dolersi, dimandar volea,
ma non usciva la parola intera

ché la piena del cor lo contendea:
e tuttavolta il suo diverso affetto
palesemente col tacer dicea.

Ma la scorta fedel, che dall'aspetto
del pensier s'avvisò, dolce alla sua
dolorosa seguace ebbe sì detto:



sospendi il tuo terror, frena la tua
indignata pietà, ché ancor non hai
nell'immenso suo mar volta la prua.

S'or sì forte ti duoli, oh! che farai,
quando l'orrido palco e la bipenne...
quando il colpo fatal..., quando vedrai?...

E non finì; ché tal gli sopravvenne
per le membra immortali un brividìo,
che a quel truce pensier troncò le penne;

sì che la voce in un sospir morìo.



Canto secondo

Alle tronche parole, all'improvviso
dolor che di pietà l'angel dipinse,
tremò quell'ombra e si fe' smorta in viso;

e sull'orme così si risospinse
del suo buon duca che davanti andava
pien del crudo pensier che tutto il vinse,

Senza far motto il passo accelerava,
e l'aria intorno tenebrosa e mesta
del suo volto la doglia accompagnava.




Non stormiva una fronda alla foresta,
e sol s'udìa tra' sassi il rio lagnarsi,
siccome all'appressar della tempesta.

Ed ecco manifeste al guardo farsi
da lontano le torri, ecco l'orrenda
Babilonia francese approssimarsi.

Or qui vigor la fantasia riprenda,
e l'ira e la pietà mi sian la musa
che all'alto e fiero mio concetto ascenda.

Curva la fronte e tutta in sé racchiusa
la taciturna coppia oltre cammina;
e giunge alfine alla città confusa,

alla colma di vizi atra sentina,
a Parigi, che tardi e mal si pente
della sovrana plebe cittadina.

Sul primo entrar a della città dolente
stanno il Pianto, le Cure e la Follia
che salta e nulla vede e nulla sente.

Evvi il turpe Bisogno e la restìa
Inerzia colle man sotto le ascelle
l'uno all'altra appoggiati in su la via.

Evvi l'arbitra Fame, a cui la pelle
informasi dall'ossa e i lerci denti
fanno orribile siepe alle mascelle.

Vi son le rubiconde Ire furenti,
e la Discordia pazza a il capo avvolta
di lacerate bende e di serpenti.

Vi son gli orbi Desiri, della stolta
ciurmaglia i Sogni e le Paure smorte
sempre il crin rabbuffate e sempre in volta.

Veglia custode delle meste porte
e le chiude a suo senno e le disserra
l'ancella e insieme la riva? di Morte;

la cruda, io dico, furibonda Guerra
che nel sangue s'abbevera e gavazza
e sol del nome fa tremar la terra.

Stanle intorno l'Erinni, e le fan piazza,
e allacciando le van l'elmo e la maglia
della gorgiera e della gran corazza;

mentre un pugnal battuto alla tanaglia
de' fabbri di Cocito in man le caccia
e la sprona e l'incuora alla battaglia

un altra furia di più acerba faccia,
che in Flegra già del cielo assalse il muro
e armò di Briareo le cento braccia,

di Diagora poscia e d'Epicuro
dettò le carte, ed or le franche scuole
empie di nebbia e di blasfema impuro,

e con sistemi e con orrende fole
sfida l'Eterno, e il tuono e le saette
tenta rapirgli e il padiglion del sole.

Come vide le facce maledette,
arretrossi d'Ugon l'ombra turbata,
ché in inferno arrivar la si credette:

e in quel sospetto sospettò cangiata
la sua sentenza, e dimandar volea
se fra l'alme perdute iva dannata.

Quindi tutta per tema si stringea
al suo conducitor, che pensieroso
le triste soglie già varcate avea.

Era il giorno che, tolto al procelloso
capro, il sol monta alla troiana stella,
scarso il raggio vibrando e neghittoso;

e compito del dì la nona ancella
l'officio suo, il governo abbandonava
del timon luminoso alla sorella:

quando chiuso da nube oscura e cava
l'angel coll'ombra inosservato e queto
nella città di tutti i mali entrava.

Ei procedea depresso ed inquieto
nel portamento, i rai celesti empiendo
di largo ad or ad or pianto segreto;




e l'ombra si stupìa, quinci vedendo
lagrimoso il suo duca e possedute
quindi le strade da silenzio orrendo.

Muto de' bronzi il sacro squillo, e mute
l'opre del giorno, e muto lo stridore
dell'aspre incudi e delle seghe argute:

sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
un domandare, un sogguardar sospetto,
una mestizia che ti piomba al core;

e cupe voci di confuso affetto,
voci di madri pie che gl'innocenti
figli si serran trepidando al petto,

voci di spose che ai mariti ardenti
contrastano l'uscita e sulle soglie
fan di lagrime intoppo e di lamenti.

Ma tenerezza e carità di moglie
vinta è da furia di maggior possanza,
che dall'amplesso coniugal gli scioglie.

Poiché fera menando oscena danza
scorrean di porta in porta affaccendati
fantasmi di terribile sembianza;

de' Druidi i fantasmi insanguinati,
che fieramente dalla sete antiqua
di vittime nefande stimolati,

a sbramarsi venìan la vista obliqua
del maggior de' misfatti onde mai possa
la loro superbir semenza iniqua.

Erano in veste d'uman sangue rossa;
sangue e tabe grondava ogni capello,
e ne cadea una pioggia ad ogni scossa.

Squassan altri un tizzone, altri un flagello
di chelidri e di verdi anfesibene,
altri un nappo di tòsco, altri un coltello:

e con quei serpi percotean le schiene
e le fronti mortali, e fean, toccando
con gli arsi tizzi, ribollir le vene.

Allora delle case infuriando
uscìan le genti, e si fuggìa smarrita
da tutti i petti la pietade in bando.

Allor trema la terra oppressa e trita
da cavalli, da rote e da pedoni;
e ne mormora l'aria sbigottita;

simile al mugghio di remoti tuoni,
al notturno del mar roco lamento,
al profondo ruggir degli aquiloni.

Che cor, misero Ugon, che sentimento
fu allora il tuo, che di morte vedesti
l'atro vessillo volteggiarsi al vento?

E il terribile palco erto scorgesti,
ed alzata la scure, e al gran misfatto
salir bramosi i manigoldi e presti;

e il tuo buon rege, il re più grande, in atto
d'agno innocente fra digiuni lupi,
sul letto de' ladroni a morir tratto;

e fra i silenzi delle turbe cupi
lui sereno avanzar la fronte e il passo
in vista che spetrar potea le rupi?

Spetrar le rupi e sciorre in pianto un sasso:
non le galliche tigri. Ahi! dove spinto
l'avete, o crude? Ed ei v'amava! oh lasso!

Ma piangea il sole di gramaglia cinto
e stava in forse di voltar le rote
da questa Tebe che l'antica ha vinto.

Piangevan l'aure per terrore immote,
e l'anime del cielo cittadine
scendean col pianto anch'esse in su le gote;

l'anime che costanti e pellegrine
per la causa di Cristo e di Luigi
lassù per sangue diventar divine.

Il duol di Francia intanto e i gran litigi
mirava Iddio dall'alto, e giusto e buono
pesava il fato della rea Parigi.




Sedea sublime sul tremendo trono;
e sulla lance d'or quinci ponea
l'alta sua pazienza e il suo perdono,

dell'iniqua città quindi mettea
le scelleranze tutte; e nullo ancora
piegar de' due gran carchi si vedea.

Quando il mortal giudizio e l'ultim'ora
dell'augusto infelice alfin v'impose
l'Onnipotente. Cigolando allora

traboccar le bilancie ponderose:
grave in terra cozzò la mortal sorte,
balzò l'altra alle sfere, e si nascose,

In quel punto al feral palco di morte
giunge Luigi. Ei v'alza il guardo, e viene
fermo alla scala, imperturbato e forte.

Già vi monta, già il sommo egli ne tiene;
e va sì pien di maestà l'aspetto,
ch'ai manigoldi fa tremar le vene.

E già battea furtiva ad ogni petto
la pietà rinascente, ed anco parve
che del furor sviato avria l'effetto.

Ma fier portento in questo mezzo apparve:
sul patibolo infame all'improvviso
asceser quattro smisurate larve,

Stringe ognuna un pugnal di sangue intriso;
alla strozza un capestro le molesta;
torvo il cipiglio, dispietato il viso,

e scomposte le chiome in sulla testa,
come campo di biada già matura
nel cui mezzo passata è la tempesta.

E sulla fronte arroncigliata e scura
scritto in sangue ciascuna il nome avea,
nome terror de' regi e di natura.

Damiens l'uno, Ankastrom l'altro dicea,
e l'altro Ravagliacco; ed il suo scritto
il quarto colla man si nascondea.

Da queste Dire avvinto il derelitto
Sire Capeto dal maggior de' troni
alla mannaia già facea tragitto.

E a quel giusto simil che fra' ladroni
perdonando spirava ed esclamando:
padre, padre, perché tu m'abbandoni?

per chi a morte lo tragge anch'ei pregando,
il popol mio, dicea, che sì delira,
e il mio spirto, Signor, ti raccomando.

In questo dir con impeto e con ira
un degli spettri sospingendo il venne
sotto il taglio fatal; l'altro ve 'l tira.

Per le sacrate auguste chiome il tenne
la terza furia, e la sottil rudente
quella quarta recise alla bipenne.

Alla caduta dell'acciar tagliente
s'aprì tonando il cielo, e la vermiglia
terra si scosse e il mare orribilmente.

Tremonne il mondo, e per la maraviglia
e pel terror dal freddo al caldo polo
palpitando i potenti alzar le ciglia.

Tremò levante ed occidente. Il solo
barbaro celta, in suo furor più saldo,
del ciel derise e della terra il duolo;

e di sua libertà spietato e baldo
tuffò le stolte insegne e le man ladre
nel sangue del suo re fumante e caldo,

e si dolse che misto a quel del padre
quello pur anco non scorreva, ahi rabbia!,
del regal figlio e dell'augusta madre.

Tal di lioni un branco, a cui non abbia
l'ucciso tauro appien sazie le canne,
anche il sangue ne lambe in su la sabbia;

poi ne' presepi insidiando vanne
la vedova giovenca ed il torello,
e rugghia, e arrota tuttavia le zanne;


La "Bassvilliana"
una cantica fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione


La Bassvilliana di Vincenzo Monti (1754-1828) è forse l’opera poetica più bella che sia stata ispirata in Europa dalla reazione contro la Rivoluzione del 1789, detta francese. La stessa Contro-Rivoluzione della Vandea, nel 1793, che fu uno degli episodi insurrezionali più drammatici e più eroici fra quelli che si verificarono in un paese a eccezionale vocazione letteraria come la Francia, probabilmente non può vantare di aver ispirato una rappresentazione poetica tanto vivace per le immagini, aderente e partecipata.
Il poema In morte di Ugo Bassville, detto comunemente dall’autore stesso Cantica Bassvilliana, è il suo capolavoro di quegli anni. Esso è scritto da Monti nel 1793, sotto l’incalzare delle impressioni suscitate in lui dalla morte, nello stesso anno, di Nicolas-Jean Hugou (1753-1793), detto Bassville. Gli eventi epocali che stavano cambiando il mondo duravano già dal 1789 e nel 1792, in particolare, il Regno di Francia era entrato in guerra con l’Impero Asburgico e con il Regno di Prussia; l’assemblea legislativa aveva proclamato la Repubblica e contro i nemici della Rivoluzione si erano scatenate quelle che sarebbero passate alla storia come le stragi di settembre. La gravità di quei fatti non poteva non avere riflessi anche sulla situazione romana, dove il corpo diplomatico francese aveva infatti rapporti sempre più difficili con il governo pontificio e con la stessa realtà cittadina di ogni giorno. Qualche accadimento clamoroso si "doveva" dunque produrre e si verifica infatti il 13 gennaio del 1793. Quel giorno Bassville, emissario del governo francese, ostenta per le strade della città la coccarda tricolore della Rivoluzione, quando un colpo di pistola, partito dalla sua carrozza, porta la provocazione al culmine e scatena all’inseguimento la folla, che lo raggiunge sulla scalinata della sua abitazione e lo finisce a morte. Di lì a qualche giorno Monti trae dall’episodio l’idea di un’opera in versi capace di raffigurarne il significato — che andava al di là del fatto di cronaca in sé — e impegnata a ricollegarsi addirittura a tutta la crisi che stava allora vivendo l’Europa. La bellezza dello scritto che si forma sotto la penna dell’autore consiste proprio in questo: la Cantica rappresenta diversi momenti della Rivoluzione francese, concentrandosi sulla loro valenza filosofica e religiosa, e li espone poeticamente — così favorendone una migliore comprensione — in un susseguirsi sorprendente d’immagini piene di forza.
Il successo dell’opera è enorme: "quattordici edizioni nello spazio di soli sei mesi" informa l’autore stesso. Ovviamente oggi esprimere in poesia una presa di posizione ideologica di fronte a fatti di cronaca sarebbe inconcepibile, ma due secoli fa, in un contesto di secolari tradizioni letterarie come quello italiano, e in una società dove i mass media ancora non hanno cambiato le modalità della comunicazione culturale, la scelta non è sbagliata. Come ha mostrato lo storico della cultura fiammingo francofono Paul Hazard (1878-1944), nell’Italia della fine del 1700, che s’indigna di fronte allo scoppio e agli sviluppi dei fatti dell’Ottantanove, l’influenza della letteratura rivoluzionaria francese, esercitatasi per lungo tempo, comincia a scemare: negli Stati di tutta la penisola, e soprattutto a Roma, sede del Papato, documenta ampiamente lo studioso, si diffondono libri, stampe, opere teatrali e opuscoli, che sono effetto e causa dell’odio antirivoluzionario che si manifesta come avversione antifrancese. "Nei momenti solenni della storia italiana, le lettere si sono sempre avvicinate alla nazione", nota Hazard. La Bassvilliana, sullo sfondo di questa produzione imponente, appare come la punta dell’iceberg, il capolavoro che esprime meglio di ogni altro scritto il contesto storico e culturale, che si è appena formato e che dà alla Contro-Rivoluzione in Italia l’opera migliore di uno dei "maggiori" della letteratura. Perché le opere di Monti sono state sempre apprezzate per la perfezione dello stile, ma spesso sono state giudicate anche come non altrettanto felici quanto al contenuto; mentre, se vi è una composizione montiana che non merita certamente una simile riserva, questa è appunto la Bassvilliana, e per un chiaro motivo: proprio per l’adesione contro-rivoluzionaria che l’ispira, Monti vi riesce pieno di mordente, impegnato verso il suo tempo, poeta insomma non d’evasione, ma che guarda all’uomo e gli si fa compagno discreto lungo il cammino accidentato della sua storia.
L’immagine conduttrice del poema raffigura Bassville morto riconciliato con la Chiesa, come storicamente accadde, che ora deve espiare la propria apostasìa andando in Francia, guidato da un angelo, a vedere gli orrori che la Rivoluzione vi sta perpetrando.
Nel canto primo stanno al centro della rappresentazione le stragi, le crudeltà, gli atti sacrileghi compiuti nel nome di quella Liberté che è stata posta a principio dell’abbattimento della vecchia società e a fondamento della nuova e che — mostra il poeta — è causa di un’esperienza di straordinaria prevaricazione sociale e religiosa: "la temeraria Libertà di Francia" (v. 95), "Libertà che stolta / in Dio medesmo l’empie mani adopra" (vv. 116-117).
Nel canto secondo è di scena ancora la Liberté rivoluzionaria come fattore che ha scatenato nel popolo francese abissi d’irresponsabilità e di efferatezza: "Parigi [...] tardi e mal si pente / della sovrana plebe cittadina" (vv. 23-24); ora il "barbaro celta" (v. 212) è "di sua libertà spietato e baldo" (v. 214). Il fatto che più clamorosamente ne deriva, l’uccisione di re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) , il cui regno è il fulcro della Cristianità — "il re più grande" (v. 133); il "maggior de’ troni" (v. 191) — viene lucidamente ritratto come compiuto contro un’istituzione, la cui ragion d’essere fa tutt’uno con la religione: "la causa di Cristo e di Luigi" (v. 149).
Il canto terzo contrappone Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel modo più drammatico e allusivo. Papa Pio VI (1775-1799) vi appare come il difensore dell’onore italiano (v. 56) e la pietra angolare del sistema delle monarchie coalizzate contro la Francia (vv. 135-144; 151-165), mentre Luigi XVI è senz’altro presentato come un martire cristiano (vv. 106-144). Le responsabilità prime della Rivoluzione e del sacrificio del re vengono d’altronde attribuite agli esponenti della sovversione filosofica illuminista, ritratti come ombre che si affollano attorno al cadavere di Luigi: François Marie Arouet, detto Voltaire (1694- 1778), Denis Diderot (1713-1784), Jean-Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), Jean Jacques Rousseau (1712-1778), Jean-Baptiste D’Alembert (1717-1783), Guillaume-Thomas-François Raynal (1713-1796), Pierre Bayle (1647-1706), Nicolas Frèret (1688-1749), Cornelius Giansenio (1588-1638) e i giansenisti e, capeggiante fra tutti per empietà, Paul Heinrich d’Holbach (1723-1789), che con "orribil voce" (v. 346) svela lui stesso il senso dissacratore dell’opera: "Dio distrussi" (v. 347). La loro attività intellettuale ha posto le principali premesse della demolizione delle due architravi della società cristiana, la Chiesa e la monarchia: "il soglio [...] e la fede" (v. 254); "trono" (v. 269) e "ara" (v. 269); "il diadema [...] e la tiara" (v. 273); "regi e sacerdoti" (v. 278); "Cesare e Dio" (v. 303); "lo scettro e le stole" (v. 336).
Il canto quarto introduce infine una descrizione decisiva degli avvenimenti — la Rivoluzione è demoniaca, angelica è la Contro-Rivoluzione (vv. 13-60) — e ritrae la Rivoluzione come opposizione ai valori fondamentali del mondo cristiano, la Fede e la Carità (vv. 109-126), mentre nella parte finale fa della coalizione antifrancese degli Stati europei l’oggetto delle speranze nella riscossa della civiltà tradita (vv. 322-351).
Lo studioso francese Bruno Toppan, titolare della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana Moderna presso l’università Nancy 2, ha studiato proprio il versante contro-rivoluzionario della produzione montiana, ma ciò che sembra gli sfugga, a mio avviso, è appunto la profondità del giudizio espresso nella Bassvilliana sulla Rivoluzione dell’Ottantanove. Secondo il critico, la Cantica avrebbe gli stessi limiti della propaganda contro-rivoluzionaria della Roma e della Chiesa del tempo, da cui il poeta attinge le idee che animano l’opera. La Bassvilliana — sostiene lo studioso — "[...] non affronta le cause profonde, sociali ed economiche, di questa Rivoluzione. La sola spiegazione accolta è quella dell’erosione dei princìpi di autorità incarnati dalla monarchia e dalla religione. La sola controproposta è il ritorno ad una situazione — d’altronde mitica o utopica — da cui ogni velleità di emancipazione del pensiero sarebbe stata assente". Una critica dunque che, fra ascendenze marxiste da una parte e illuministe dall’altra, sembra trasferire su Monti e nell’ambito letterario giudizi analoghi a quelli che, a livello storiografico, sono stati spesso pronunciati sulla Contro-Rivoluzione italiana sotto il profilo storico-politico. Mi pare invece di poter rilevare che Monti, il quale ancora il 7 giugno 1794 dichiarava in una lettera di sentirsi "buon cattolico", semplicemente nel 1793, di fronte alla Rivoluzione, si trova non certo prigioniero degli schematismi di una propaganda, ma piuttosto in larga sintonìa con la coscienza nazionale dell’epoca. "Il radicamento del cattolicesimo, la presenza della Santa Sede, l’intensa opera di rinascita religiosa operata dalle congregazioni missionarie, la struttura politico-territoriale a base prevalentemente municipale, la varietà degli statuti locali, le differenze di costumi, [...] la relativa "leggerezza" degli Stati — che lasciava ancora notevole autonomia alle comunità particolari" stimolano, infatti, la reazione compatta delle popolazioni italiane. Anche l’episodio romano di Bassville è logicamente collocabile all’interno del grande, prolungato evento delle insorgenze contro-rivoluzionarie e più propriamente dell’Insorgenza italiana.
Va da sé che nello stendere la Bassvilliana Monti deve ovviamente comprendere di non potersi considerare del tutto esonerato dagli oneri metodologicamente più propri della ricerca storica, come quello di compiere ricognizioni esaurienti, di evitare semplicismi nelle interpretazioni o, nei giudizi, parzialità, moralismi, chiusure e via dicendo. Ma capisce certamente che il suo problema in quanto poeta era prima di tutto un altro: quello cioè di cogliere valore simbolico nella realtà, d’identificare "universali concreti" da rendere in immagine. Così dinanzi a un avvenimento complesso e oltretutto ancora in via di svolgimento come la Rivoluzione, Monti vede nella società tradizionale e nella società che si stava costruendo le due differenti concezioni dell’uomo, della storia, del mondo che ne stavano rispettivamente alle origini, e compie la scelta di stare dalla parte che gli appariva più vicina alla "verità delle cose". Infatti, molto chiara appare nell’autore la consapevolezza che la Rivoluzione francese è eminentemente una questione di concezione del mondo e che il concetto liberale di libertà e il filosofismo del secolo sono i punti chiave sui quali essa s’impegna, mentre la Chiesa e la monarchia sono le istituzioni contro cui essa si schiera.
Questa visione del poeta avrà d’altronde conferma nella sua produzione successiva, quando egli, passando dalla parte della Rivoluzione e accostandosi alla massoneria, non farà che parlare degli stessi argomenti delle sue composizioni precedenti, ma da un punto di vista esattamente opposto. Il 1797 già segna l’avvenuta "conversione" dell’autore che, tutto fervido ormai dei nuovi spiriti giacobini, razionalisti, anticlericali e anticattolici, imposta la parte più accesa, provocatoria della sua opera creativa sempre sui grandi problemi del dibattito culturale posto dalla Rivoluzione. Quello è inoltre l’anno in cui, all’avanzare dei francesi, Monti fugge da Roma e si trasferisce a Milano, allora capitale della neonata Repubblica Cisalpina (1797-1799), dove ormai vivrà quasi ininterrottamente fino alla fine dei suoi giorni.










ed ella, che i ruggiti ode al cancello,
di doppio timor trema, e di quell'ugne
si crede ad ogni scroscio esser macello.

Tolta al dolor delle terrene pugne
apriva intanto la grand'alma il volo,
che alla prima cagion la ricongiugne.

E ratto intorno le si fea lo stuolo
di quell'ombre beate, onde la fede
stette e di Francia sanguinossi il suolo.

E qual le corre al collo, e qual si vede
stender le braccia, e chi l'amato volto
e chi la destra e chi le bacia il piede.

Quando repente della calca il folto
ruppe un ombra dogliosa, e con un rio
di largo pianto sulle guance sciolto,

me, gridava, me me lasciate al mio
signor prostrarmi. Oh date il passo! E presta
al piè regale il varco ella s'aprìo.

Dolce un guardo abbassò su quella mesta
Luigi: e, Chi sei? disse; e qual ti tocca
rimorso il core? e che ferita è questa?

Alzati, e schiudi al tuo dolor la bocca.

Canto Terzo

La fronte sollevò, rizzossi in piedi
l'addolorato spirto, e le pupille
tergendo a dire incominciò: Tu vedi,

signor, nel tuo cospetto Ugo Bassville,
della francese libertà mandato
sul Tebro a suscitar le ree scintille.

Stolto, che volli coll'immobil fato
cozzar della gran Roma, onde ne porto
rotta la tempia e il fianco insanguinato;

ché di Giuda il leon non anco è morto;
ma vive e rugge, e il pelo arruffa e gli occhi,
terror d'Egitto, e d'Israel conforto;

e se monta in furor, l'aste e gli stocchi
sa spezzar de' nemici, e par che gridi:
son la forza di Dio, nessun mi tocchi.

Questo leone in Vaticano io vidi
far coll'antico e venerato artiglio
securi e sgombri di Quirino i lidi;

e a me, che nullo mi temea periglio,
fe' con un crollo della sacra chioma
tremanti i polsi e riverente il ciglio,

Allor conobbi che fatale è Roma,
che la tremenda vanità di Francia
sul Tebro è nebbia che dal sol si doma,

e le minacce una sonora ciancia,
un lieve insulto di villana auretta
d'abbronzato guerriero in su la guancia.

Spumava la tirrena onda suggetta
sotto le franche prore, e la premea
il timor della gallica vendetta;

e tutta per terror dalla scillea
latrante rupe la selvosa schiena
infino all'Alpe l'Appennin scotea.

Taciturno ed umìl volgea l'arena
l'Arno frattanto, e paurosa e mesta
chinava il volto la regal Sirena.

Solo il Tebro levava alto la testa,
e all'elmo polveroso la sua donna
in Campidoglio rimettea la cresta:

e, divina guerriera in corta gonna,
il cor più che la spada all'ire e all'onte
di Rodano opponeva e di Garonna;

in Dio fidando, che i trecento al fonte
d'Arad prescelse, e al Madianita altero
fe' le spalle voltar, rotta la fronte;
in Dio fidando, io dico, e nel severo
petto del santo suo pastor, che solo
in saldo pose la ragion di Piero.

Dal suo pregar, che dritto spiega il volo
dell'Eterno all'orecchio e sulle stelle
porta i sospiri della terra e il duolo,

i turbini fur mossi e le procelle
che del Varo sommersero l'antenne
per le sarde e le còrse onde sorelle

Ei sol tarpò del franco ardir le penne;
l'onor d'Italia vilipesa e quello
del borbonico nome egli sostenne.

E cento volte sul destin tuo fello
bagnò di pianto i rai. Per lo dolore
la tua Roma fedel pianse con ello.

Poi, cangiate le lagrime in furore,
corse urlando col ferro, ed il mio petto
cercò d'orrende faci allo splendore;

e spense il suo magnanimo dispetto
sì nel mio sangue, ch'io fui pria di rabbia,
poi di pietade miserando obbietto.

Eran sangue i capei, sangue le labbia,
e sangue il seno: fe' del resto un lago
la ferita, che miri, in su la sabbia.

E me, cui tema e amor rendean presago
di maggior danno, e non avea consiglio,
più che la morte combattea l'immago

dell'innocente mio tenero figlio
e della sposa, ahi lasso! ; onde paura
del lor mi strinse non del mio periglio.

Ma, come seppi che paterna cura
di Pio salvi gli avea, brillommi il core,
e il suo sospese palpitar natura.

Lagrimai di rimorso; e sull'errore
che già lunga stagion l'alma travolse
la carità poteo più che il terrore,

Luce dal ciel vibrata allor mi sciolse
dell'intelletto il buio, e il cor pentito
al mar di tutta la pietà si volse.

L'ali apersi a un sospiro; e l'infinito
amor nel libro, dove tutto è scritto,
il mio peccato cancellò col dito.

Ma giustizia mi niega al ciel tragitto,
e vagante ombra qui mi danna, intanto
che di Francia non vegga ulto il delitto.

Questi me 'l disse, che mi viene accanto
(ed accennò 'l suo duca) e che m'ha tolto
alla fiumana dell'eterno pianto.

Tutte drizzaro allor quell'alme il volto
al celeste campion, che in un sorriso
dolcissimo le labbra avea disciolto.

Or tu, per l'alto sir del paradiso
che al suo grembo t'aspetta e il ciel disserra
(proseguì l'ombra più infiammata in viso),

per le pene tue tante in su la terra,
alla mia stolta fellonia perdona,
né raccontar lassù che ti fei guerra.

Tacque; e tacendo ancor dicea: Perdona;
e l'affollate intorno ombre pietose
concordemente replicar: Perdona.

Allor l'alma regal con disiose
braccia si strinse l'avversaria al seno,
e dolce in caro favellar rispose:

questo amplesso ti parli, e noto appieno
del re, del padre il core e dell'amico
ti faccia, e sgombri il tuo timor terreno.

Amai, potendo odiarlo, anco il nemico;
or m'è tolto il poterlo, e l'alma spiega
più larghi i voli dell'amore antico.

Quindi là dove meglio a Dio si prega
il pregherò, che presto ti discioglia
del divieto fatal che qui ti lega.

Se i tuoi destini intanto o la tua voglia
alla sponda giammai ti torneranno
ove lasciasti la trafitta spoglia;

per me trova le due che là si stanno
mie regali congiunte, e che gli orrendi
piangon miei mali ed il più rio non sanno.

Lieve sul capo ad ambedue discendi
pietosa vision (se la tua scorta
lo ti consente), e il pianto ne sospendi.

Di tutto che vedesti annunzio apporta
alle dolenti: ma del mio morire
deh! sia l'immago fuggitiva e corta.

Pingi loro piuttosto il mio gioire,
pingi il mio capo di corona adorno
che non si frange né si può rapire.

Di' lor che feci in sen di Dio ritorno,
ch'ivi le aspetto, e là regnando in pace
le nostre pene narreremci un giorno.

Vanne poscia a quel grande, a quel verace
nume del Tebro, in cui la riverente
Europa affissa le pupille e tace;

al sommo dittator della vincente
repubblica di Cristo, a lui che il regno
sortì minor del core e della mente:
digli che tutta a sua pietà consegno
la franca fede combattuta; ed egli
ne sia campione e tutelar sostegno.

Digli che tuoni dal suo monte, e svegli
l'addormentata Italia, e alla ritrosa
le man sacrate avvolga entro i capegli,

sì che dal fango suo la neghittosa
alzi la fronte, e sia delle sue tresche
contristata una volta e vergognosa.

Digli che invan l'ibere e le tedesche
e l'armi alpine e l'angliche e le prusse
usciranno a cozzar colle francesche,

se non v'ha quella onde Mosè percusse
Amalecco quel dì che i lunghi preghi
sul monte infino al tramontar produsse,

Salga egli dunque sull'Orebbe, e spieghi
alto le palme; e, s'avverrà che stanco
talvolta il polso al pio voler si nieghi,

gli sosterranno il destro braccio e il manco
gl'imporporati Aronni e i Calebidi
de' quai soffolto e coronato ha il fianco.

Parmi de' nuovi Amaleciti i gridi
dall'Olimpo sentir, parmi che Pio
di Francia, orando, ei sol gli scacci e snidi.
Quindi ver' lui di tutto il dover mio
sdebiterommi in cielo, e finch'ei vegna,
di sua virtù ragionerò con Dio.

Brillò, ciò detto, e sparve e non è degna
ritrar terrena fantasia gli ardori
di ch'ella il cielo balenando segna.

Qual si solleva il sol fra le minori
folgoranti sostanze, allor che spinge
sulla fervida curva i corridori,

che d'un solo color tutta dipinge
l'eterea volta, e ogni altra stella un velo
ponsi alla fronte e di pallor si tinge:

tal fiammeggiava di sidereo zelo,
e fra mille seguaci ombre festose
tale ascendeva la bell'alma al cielo.

Rideano al suo passar le maestose
tremule figlie della luce, e in giro
scotean le chiome ardenti e rugiadose.

Ella tra lor d'amore e di desiro
sfavillando s'estolle, infin che, giunta
dinanzi al trino ed increato Spiro,

ivi queta il suo volo, ivi s'appunta
in tre sguardi beata, ivi il cor tace
e tutta perde del desìo la punta.









Poscia al crin la corona del vivace
amaranto immortal e su le gote
il bacio ottenne dell'eterna pace.

E allor s'udiro consonanze e note
d'ineffabil dolcezza, e i tondi balli
ricominciar delle stellate rote.

Più veloci esultarono i cavalli
portatori del giorno, e di grand'orme
stampar l'arringo degli eterei calli.

Gioiva intanto del misfatto enorme
l'accecata Parigi; e sull'arena
giacea la regal testa e il tronco informe;

e il caldo rivo della sacra vena
la ria terra bagnava, ancor più ria
di quella che mirò d'Atreo la cena.

Nuda e squallida intorno vi venìa
turba di larve di quel sangue ghiotte,
e tutta di lor bruna era la via.

Qual da fesse muraglie e cave grotte
sbucano di Mineo l'atre figliuole,
quando ai fiori il color toglie la notte,

ch'ir le vedi e redire e far carole
sul capo al viandante o sovra il lago,
finché non esce a saettarle il sole;
non altrimenti a volo strano e vago
d'ogni parte erompea l'oscena schiera;
ed ulular s'udiva, a quell'immago

che fan sul margo d'una fonte nera
i lupi sospettosi e vagabondi
a ber venuti a truppa in su la sera.

Correan quei vani simulacri immondi
al sanguigno ruscel, sporgendo il muso,
l'un dall'altro incalzati e sitibondi.

Ma in guardia vi sedea nell'arme chiuso
un fiero cherubin, che, steso il brando,
quel barbaro sitir rendea deluso.

E le larve a dar volta, e mugolando
a stiparsi, e parer vento che rotto
fra due scogli si vada lamentando.

Prime le quattro comparian che sotto
poc'anzi al taglio dell'infame scure
l'infelice Capeto avean tradotto.

Di quei tristi seguìan l'atre figure
che d'uman sangue un dì macchiar le glebe
là di Marsiglia a nelle selve impure.

Indi a guisa di pecore e di zebe
venìa lorda di piaghe il corpo tutto
d'ombre una vile miserabil plebe;
ed eran quelli che fecondo e brutto
del proprio sangue fecero il mal tronco
che diè di libertà sì amaro il frutto.

Altri forato il ventre ed altri ha cionco
di capo il busto, e chi trafitto il lombo,
e chi del braccio e chi del naso è monco;

e tutti intorno al regio sangue un rombo,
un murmure facean che cupo il fiume
dai cavi gorghi ne rendea rimbombo.

Ma lungi li tenea la punta e il lume
della celeste spada, che mandava
su i foschi ceffi un pallido barlume.

Scendi, pleria dea, di questa prava
masnada i più famosi a rammentarme,
se l'orror la memoria non ti grava.

Dimmi, tu che li sai, gli assalti e l'arme
onde il soglio percossero e la fede,
e di nobile bile empi il mio carme.

Capitano di mille alto si vede
uno spettro passar lungo ed arcigno,
superbamente coturnato il piede,

E costui di Ferney l'empio e maligno
filosofante, ch'or tra' morti è corbo,
e fu tra' vivi poetando un cigno.

Gli vien seguace il furibondo e torbo
Diderotto, e colui che dello spirto
svolse il lavoro e degli affetti il morbo.

Vassene solo l'eloquente ed irto
orator del Contratto, e al par del manto
di sofo ha caro l'afrodisio mirto;

disdegnoso d'aver compagni accanto
fra cotanta empietà, ché al trono e all'ara
fe' guerra ei sì, ma non de' santi al santo.

Segue una coppia nequitosa e rara
di due tali accigliate anime ree,
che il diadema ne crolla e la tiara.

L'una raccolse dell'umane idee
l'infinito tesoro e l'oceàno
ove stillato ogni venen si bee.

Finse l'altra del fosco americano
tonar la causa, e regi e sacerdoti
col fulmine ferì del labbro insano.

Dove te lascio, che per l'alto roti
si strane ed empie le comete, e il varco
d'ogni delirio apristi a' tuoi nipoti?

E te che contro Luca e contro Marco
e contro gli altri duo così librato
scocchi lo stral dal sillogistic'arco?

Questa d'insania tutta e di peccato
tenebrosa falange il fronte avea
dal fulmine celeste abbrustolato;

e della piaga il solco si vedea
mandar fumo e faville; e forte ognuno
di quel tormento dolorar parea.

Curvo il capo ed in lungo abito bruno
venìa poscia uno stuol quasi di scheltri,
dalle vigilie attriti e dal digiuno.

Sul ciglio rabbassati ha i larghi feltri,
impiombate le cappe, e il piè sì lento,
che le lumacce al paragon son veltri.

Ma sotto il faticoso vestimento
celan ferri e veleni; e qual tra' vivi,
tal vanno ancor tra' morti al tradimento.

Dell'ipocrito d'Ipri ei son gli schivi
settator tristi, per via bieca e torta
con Cesare e del par con Dio cattivi.

Sì crudo è il nume di costor, sì morta,
sì ripiena d'orror del ciel la strada,
che a creder nulla e a disperar ne porta.

Per lor sovrasta al pastoral la spada,
per lor tant'alto il soglio si sublima,
ch'alfine è forza che nel fango cada.

Di lor empia fucina uscì la prima
favilla, che segreta il casto seno
della donna di Pietro incende e lima.

Né di tal peste sol va caldo e pieno
Borgofontana, ma d'Italia mia
ne bulica e ne pute anco il terreno.

Ultimo al fier concilio comparìa,
e su tutti gigante sollevarse
coll'omero sovran si discoprìa

e colle chiome rabbuffate e sparse,
colui che al discoperto e senza téma
venne contro l'Eterno ad accamparse;

e ne sfidò la folgore suprema,
secondo Capaneo, sotto lo scudo
d'un gran delirio ch'ei chiamò sistema

Dinanzi gli fuggìa sprezzato e nudo
de' minor spettri il vulgo: anche Cocito
n'avea ribrezzo, ed abborrìa quel crudo.

Poich'ebber densi e torvi circuito
il cadavero sacro, ed in lui sazio
lo sguardo, e steso sorridendo il dito;

con fiera dilettanza in poco spazio
strinsersi tutti, e diersi a far parole,
quasi sospeso il sempiterno strazio.

A me (dicea l'un d'essi), a me si vuole
dar dell'opra l'onor, che primo osai
spezzar lo scettro e lacerar le stole.

A me piuttosto, a me che disvelai
de' potenti le frodi (un altro grida)
e all'uom dischiusi sul suo dritto i rai.

Perché l'uom surga e il suo tiranno uccida,
uop'è (ripiglia un altro) in pria dal fianco
dell'eterno timor torgli la guida.

Questo fe' lo mio stil leggiadro e franco
e il sal samosatense, onde condita
l'empietà piacque e l'uom di Dio fu stanco.

Allor fu questa orribil voce udita:
i' fei di più, che Dio distrussi: e tacque;
ed ogni fronte apparve sbigottita.

Primamente un silenzio cupo nacque,
poi tal s'intese un mormorìo profondo,
che lo spesso cader parea dell'acque

allor che tutto addormentato è il mondo.

Canto Quarto

Batte a vol più sublime aura sicura
la farfalletta dell'ingegno mio,
lasciando la città della sozzura.

E dirò come congiurato uscio
a dannaggio di Francia il mondo tutto:
tale il senno supremo era di Dio.

Canterò l'ira dell'Europa e il lutto,
canterò le battaglie ed in vermiglio
tinto de' fiumi e di due mari il flutto.

E d'altro pianto andar bagnata il ciglio
la bell'alma vedrem, di che la diva
mi va cantando l'affannoso esiglio.

Il bestemmiar di quei superbi udiva
la dolorosa; ed accennando al duce
la fiera di Renallo ombra cattiva,

come, disse, fra' morti si conduce
colui? Di polpe non si veste e d'ossa?
Non bee per gli occhi tuttavia la luce

E l'altro: La sua salma ancor la scossa
di morte non sentì; ma la governa
dentro Marsiglia d'un demòn la possa;
e l'alma geme fra i perduti eterna–
mente perduta: né a tal fato è sola,
ma molte che distingue ira superna.

E in Erebo di queste assai ne vola
dall'infame congrega, in che s'affida
cotanto Francia, ahi stolta!, e si consola.

Quindi un demone spesso ivi s'annida
in uman corpo, e scaldane le vene,
e siede e scrive nel senato e grida;

mentre lo spirto alle cocenti pene
d'Averno si martira. Or leva il viso,
e vedi all'uopo chi dal ciel ne viene.

Levò lo sguardo: ed ecco all'improvviso,
là dove il cancro il piè d'Alcide abbranca
e discende la via del paradiso,

ecco aprirsi del ciel le porte a manca
su i cardini di bronzo; e una virtude
intrinseca le gira e le spalanca.

Risonò d'un fragor profondo e rude
dell' Olimpo la volta, e tre guerrieri
calar fur visti di sembianze crude.

Nere sul petto le corazze, e neri
nella manca gli scudi, e nereggianti
sul capo tremolavano i cimieri;




e furtive dall'elmo e folgoranti
scorrean le chiome della bionda testa
per lo collo e per l'omero ondeggianti.

La volubile bruna sopravvesta
da brune penne ventilata addietro
rendea rumor di pioggia e di tempesta.

Del sopracciglio sotto l'arco tetro
uscìan lampi dagli occhi, uscìa paura,
e la faccia parea bollente vetro.

Questi, e l'altro campion seduto a cura
dell'estinto Luigi, angeli sono
di terrore, di morte e di sventura.

Venir son usi dell'Eterno al trono,
quando acerba a' mortai volge la sorte
e rompe la ragion del suo perdono.

D'Egitto il primo l'incruente porte
nell'arcana percosse orribil notte,
che fur de' padri le speranze morte,

L'altro è quel che sul campo estinte e rotte
lasciò le forze che il superbo Assiro
contro l'umile Giuda avea condotte.

Dalla spada del terzo i colpi usciro,
che di pianto sonanti e di ruina
fischiar per l'aure di Sion s'udiro,

quando la provocata ira divina
al mite genitor fe' d'Absalone
caro il censo costar di Palestina.

L'ultimo fiero volator garzone
uno è de' sei cui vide l'accigliato
Ezechiello arrivar dall'aquilone,

in mano aventi uno stocco affilato
e percotenti ognun che per la via
del Tais la fronte non vedean segnato.

Tale e tanta dal ciel se ne venìa
dei procellosi arcangeli possenti
la terribile e nera compagnia;

come gruppo di folgori cadenti
sotto povero ciel, quando sparute
taccion le stelle e fremon l'onde e i venti.

Il sibilo sentì delle battute
ale Parigi: ed arretrò la Senna
le sue correnti stupefatte e mute.

Vogeso ne tremò, tremò Gebenna
e il Bebricio Pirene, e lungo e roco
corse un lamento per la mesta Ardenna.

Al lor primo apparir dier ratto il loco
l'assetate del Tartaro caterve,
un grido alzando lamentoso e fioco.

Come fugge talor delle proterve
mosche lo sciame che alla beva intento
sul vaso pastoral brulica e ferve,

che al toccar della conca in un momento
levansi tutte, e quale alla muraglia,
qual si lancia alla mano e quale al mento:

tal si dilegua l'infernal ciurmaglia;
ed altri una pendente nuvoletta,
d'ira sbuffando, a lacerar si scaglia;

sovra il mar tremolante altri si getta,
e sveglia le procelle; altri s'avvolve
nel nembo genitor della saetta;

si turbina taluno entro la polve,
e tal altro col guizzo del baleno
fende la terra e in fumo si dissolve.

Dal sacro intanto orror del tempio uscièno
di mezzo all'atterrate are deserte
due donne in atto d'amarezza pieno.

L'una velate e l'altra discoperte
le dive luci avea, ma di gran pianto
d'ambo le gote si parean coverte.

Era un vel bianco della prima il manto,
che parte cela e parte all'intelletto
rivela il corpo immaculato e santo.




Una veste inconsutile di schietto
color di fiamma l'altra si cingea,
siccome il pellican piagata il petto.

E nella manca l'una e l'altra dea
e nella dritta in mesto portamento
una lucida coppa sostenea.

E sculto ciascheduna un argomento
avea di duolo, in bei rilievi espresso
di nitid'oro e di forbito argento.

In una sculto si vedea con esso
il figlio e la consorte un re fuggire,
pensoso più di lor che di sé stesso;

e un dar subito all'arme ed un fremire
di cruda plebe, e dietro al fuggitivo,
siccome veltri dal guinzaglio, uscire;

poi tra le spade ricondur cattivo
e tra l'onte quel misero innocente,
morto al gioire ed al patir sol vivo.

Mirasi dopo una perversa gente
cercar furendo a morte una regina,
dir non so se più bella o più dolente;

ed ancisi i custodi alla meschina,
e per rabbia delusa, orrendo a dirsi!,
trafitto il letto e la regal cortina.

V'era l'urto in un'altra ed il ferirsi
di cinquecento incontra a mille e mille,
e dell'armi il fragor parea sentirsi.

Formidabile il volto e le pupille,
la Discordia scorrea tra l'irte lance,
tra la polve, tra 'l fumo e le faville

e i tronchi capi e le squarciate pance,
agitando la face che sanguigna
de' combattenti scolorìa le guance.

Vienle appresso la Morte che digrigna
i bianchi denti, ed i feriti artiglia
con la grand'unghia antica e ferrugigna;

e pria l'anime felle ne ronciglia
fuor delle membra, e le rassegna in fretta
fumanti e nude all'infernal famiglia;

poi, ghermite le gambe, ne si getta
i pesanti cadaveri alle spalle,
né più vi bada, e innanzi il campo netta.

Dietro è tutto di morti ingombro il calle:
il sangue a fiumi il rio terreno ingrassa,
e lubrico s'avvia verso la valle.

Scorre intorno il Furor coll'asta bassa,
scorre il Tumulto temerario, e il Fato
ch'un ne percuote ed un ne salva e passa;

scorre il lacero Sdegno insanguinato,
e l'Orror co' capelli in fronte ritti,
come l'istrice gonfio e rabbuffato.

Al fine in compagnia de' suoi delitti
vien la proterva Libertà francese,
ch'ebbra il sangue si bee di quei trafitti.

E son sì vivi i volti e le contese,
che non tacenti ma parlanti e vere
quelle immagini credi e quell'offese.

Altra scena di pianto, onde il pensiere
rifugge e in capo arricciasi ogni pelo,
nella terza scultura il guardo fere.

Sacro a all'inclita donna del Carmelo
apriasi un tempio, e distendea la notte
sul primo sonno de' mortali il velo:

se non che dell'oscure artiche grotte
languìan le mute abitatrici al cheto
raggio di luna indebolite e rotte.

Strascinavasi quivi un mansueto
di ministri di Dio sacro drappello,
ch'empio dannava popolar decreto.

Un barbaro di lor si fea macello:
ed ei, che schermo non avean di scudo
al calar del sacrilego coltello,




pietà, Signor, porgendo il collo ignudo,
Signor, pietà, gridavano: e venìa
in quella il colpo inesorato e crudo.

Cadean le teste, e dalle gole uscìa
parole e sangue, per la polve il nome
di Gesù gorgogliando e di Maria.

E l'un su l'altro si giacean, siccome
scannate pecorelle; e fean ribrezzo
l'aperte bocche e le riverse chiome.

La luna il raggio ai visi esangui in mezzo
pauroso mandava e verecondo,
a tanta colpa non ben anco avvezzo;

ed implorar parea d'un vagabondo
nugolo il velo ed affrettar raminga
gli atterriti cavalli ad altro mondo.

Chi mi darà le voci ond'io dipinga
il subbietto feral che quarto avanza,
sì ch'ogni ciglio a lagrimar costringa

Uom d'affannosa ma regal sembianza,
a cui, rapita la corona e il regno,
sol del petto rimasta è la costanza,

venìa di morte a vil supplizio indegno
chiamato, ahi lasso!, e ve 'l traevan quelli
che fur dell'amor suo poc'anzi il segno.

Quinci e quindi accorrean sciolte i capelli
consorte e suora ad abbracciarlo, e gli occhi
ognuna avea conversi in due ruscelli.

Stretto al seno egli tiensi in su i ginocchi
un dolente fanciullo; e par che tutto
negli amplessi e ne' baci il cor trabocchi,

e sì gli dica: Da' miei mali istrutto
apprendi, o figlio, la virtude, e cògli
di mie fortune dolorose il frutto.

Stabile e santo nel tuo cor germogli
il timor del tuo Dio, né mai d'un trono
mai lo stolto desir l'alma t'invogli.

E se l'ira del ciel sì tristo dono
faratti, il padre ti rammenta, o figlio:
ma serba a chi l'uccide il tuo perdono.

Questi accenti parea, questo consiglio
proferir l'infelice, e chete intanto
gli discorrean le lagrime dal ciglio.

Piangean tutti d'intorno; e dall'un canto
le fiere guardie impietosite anch'esse
sciogliean, poggiate sulle lance, il pianto.

Cotai sul vaso acerbi fatti impresse
l'artefice divino; e, se vietato,
se conteso il dolor non gliel avesse,

il resto de' tuoi casi effigiato
v'avria pur anco, o re tradito, e degno
di miglior scettro e di più giusto fato.

E ben lo cominciò: ma l'alto sdegno
quel lavoro interruppe, e alla pietate
cesse alfin l'arte ed all'orror l'ingegno.

Poiché, di doglia piene e d'onestate,
si fur l'alme due dive a quel feroce
spettacolo di sangue approssimate,

sul petto delle man fero una croce;
e, sull'illustre estinto il guardo fise,
senza moto restarsi e senza voce,

pallide e smorte come due recise
caste viole o due ligustri occulti
cui né l'aura né l'alba ancor sorrise.

Poi con lagrime rotte da' singulti
baciar l'augusta fronte, e ne serraro
gli occhi nel sonno del Signor sepulti;

ed, il corpo composto amato e caro,
vi pregar sopra l'eterno riposo,
disser l'ultimo vale, e sospiraro.

E quindi in riverente atto pietoso
il sacro sangue, di che tutto orrendo
era intorno il terreno abbominoso,




nell'auree tazze accolsero piangendo;
ed ai quattro guerrier vestiti a bruno
le presentar spumanti; una dicendo:

sorga da questo sangue un qualcheduno
vendicator, che col ferro e col foco
insegua chi lo sparse: né veruno

del delitto si goda, né sia loco
che lo ricovri: i flutti avversi ai flutti,
i monti ai monti, e l'armi all'armi invoco.

Il tradimento tradimento frutti:
l'esiglio, il laccio, la prigion, la spada
tutti li perda e li disperda tutti.

E chi sitìa più sangue a per man cada
d'una virago, ed anima funébre
a dissetarsi in Acheronte vada.

E chi, riarso da superba febre,
del capo altrui si fea sgabello al soglio
sul patibolo chiuda le palpèbre,

e gli emunga il carnefice l'orgoglio:
né ciglio il pianga; né cor sia che, fuora
del suo tardi morir, senta cordoglio.

La veneranda dea parlava ancora;
e già fuman le coppe, e a quei campioni
il cherubico volto si scolora;

pari a quel della luna, allor che proni
ruota i pallidi raggi e in giù la tira
il poter delle tessale canzoni.

E l'occhio sotto l'elmo un terror spira,
che buia e muta l'aria ne divenne,
e tremò di quei sguardi e di quell'ira.

Dei quattro opposti venti in su le penne
tutti a un tempo fer vela i cherubini,
ed ogni vento un cherubin sostenne.

Già il sol lavava lacrimoso i crini
nell'onde maure, e dal timon sciogliea
impauriti i corridor divini;

ché la memoria ancor retrocedea
dal veduto delitto; e chini e mesti
Espero all'auree stalle i conducea;

mentre la notte di pensier funesti
e di colpe nudrice e di rimorsi
le mute riprendea danze celesti;

quando per l'aria cheta erte levorsi
le quattro oscure vision tremende,
e l'una all'altra tenea volti i dorsi.

Giunte là dove la folgore prende
l'acuto volo e furibonda il seno
della materna nuvola scoscende,

inversero le coppe; e in un baleno
imporporossi il cielo, e delle stelle
livido fessi il virginal sereno.

Inversero le coppe; e piobber quelle
il fatal sangue, che tempesta roggia
par di vivi carboni di fiammelle.

Sotto la strana rubiconda pioggia
ferve irato il terren che la riceve,
e rompe in fumo: e il fumo in alto poggia,

e i petti invade penetrante e lieve
e le menti mortali, e fa che d'ira
alto incendio da tutte si solleve.

Arme fremon le genti, arme cospira
l'orto e l'occaso, l'austro e l'aquilone,
e tutta quanta Europa arme delira.

Quind'escono del fier settentrione
l'aquile bellicose, e coll'artiglio
sfrondano il franco tricolor bastone.

Quinci move dall'anglico coviglio
il biondo imperator della foresta
il tronco stelo a vendicar del giglio.

Al fraterno ruggito alza la testa
l'annoverese impavido cavallo
e il campo colla soda unghia calpesta.




D'altra parte sdegnosa esce del vallo
e maestosa la gran donna ibera
al crudele di Marte orrido ballo;

e, scossa la cattolica bandiera,
in su la rupe pirenea s'affaccia,
tratto il brando e calata la visiera;

e la celtica putta alto minaccia,
e l'osceno berretto alla ribalda
scompiglia in capo e per lo fango il caccia.

Ma del prisco valor ripiena e calda
la sovrana dell'Alpi in su l'entrata
ponsi d'Italia, e ferma tiensi e salda;

e alla nemica la fatal giornata a
di Guastalla e d'Assietta ella rammenta
e l'ombra di Bellisìe invendicata,

che rabbiosa s'aggira e si lamenta
in val di Susa e arretra per paura
qualunque la vendetta ancor ritenta.

Mugge fra tanto tempestosa e scura
da lontan l'onda della sarda Teti,
scoglio del franco ardire e sepoltura.

Mugge l'onda tirrena irrequieti
levando i flutti, e non aver si pente
da pria sommersi i mal raccolti abeti.
Mugge l'onda d'Atlante orribilmente,
mugge l'onda britanna; e al suo muggito
rimormorar la baltica si sente.

Fin dall'estremo americano lito
il mar s'infuria; e il Lusitan n'ascolta
nel buio della notte il gran ruggito.

Sgomentossi, ristette, e a quella volta
drizzò l'orecchio di Bassville anch'essa
l'attonit'ombra in suo dolor sepolta.

Palpitando ristette; e alla convessa
region sollevando la pupilla
traverso all'ombra sanguinosa e spessa,

vide in su per la truce aria tranquilla
correr spade infocate; ed aspri e cupi
n'intese i cozzi ed un clangor di squilla.

Quindi gemere i boschi, urlar le rupi,
e piangere le fonti e le notturne
strigi solinghe, e ulular cagne e lupi;

e la quiete abbandonar dell'urne
pallid'ombre fur viste, e per le vie
vagolar sospirose e taciturne;

starsi i fiumi, sudar sangue le pie
immagini de' templi, ed involato
temer le genti eternamente il die.

O pietosa mia guida, che campato
m'hai dal lago d'Averno, e che mi porti
a sciogliere per gli occhi il mio peccato;

certo di stragi e di sangue e di morti
segni orrendi vegg'io: ma come? e donde?
E a chi propizie volgeran le sorti?

Al suo duce sì disse, e avea feconde
di pianto la francese ombra le ciglia.
Vienne meco, e il saprai, l'altro risponde;

ed amoroso per la man la piglia.

FINE

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