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TOMMASO CAMPANELLA



POESIE FILOSOFICHE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Tommaso Campanella:
pensiero e opera
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TOMMASO CAMPANELLA  - POESIE FILOSOFICHE
Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi rit roviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea(materia).
Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus’ che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).

- La religione e la politica
In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l’unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.

- La Città del Sole
Campanella fu autore anche di un'importante opera di carattere utopico, ovvero La Città del Sole.
Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell'utopismo campanelliano è da annoverare anche la Nuova Atlantide di Bacone. L 'utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere.

- Interpretazioni storiografiche del pensiero politico
L'incertezza è già evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della  tradizione cristiana e medioevale.
Per Silvio Spaventa Campanella è il "filosofo della restaurazione cattolica", in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: "Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.

- Onorificenze e dediche
A Reggio Calabria gli sono stati intitolati il Convitto nazionale e il liceo classico cittadino.

- Curiosità
Campanella, dopo essersi finto pazzo nelle carceri di Castello Nuovo, riferendosi agli inquisitori, disse ad un aguzzino: "Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?". Il motto inciso sul simbolo personale di Campanella (una campanella che allude alla necessità di svegliarsi dal sonno dell'ignoranza e dall'accidia) è: "Non tacebo", cioè "Non tacerò", o meglio, "Non riusciranno a farmi tacere". Esiste una versione cinematografica de La città del Sole. Diretta da Gianni Amelio nel 1973, vince il Gran Premio del Festival di Thonon-Les-Bains dell'anno successivo.
1
Proemio

    Io, che nacqui dal Senno e di Sofia,
sagace amante del ben, vero e bello,
il mondo vaneggiante a sé rubello
richiamo al latte della madre mia. 4
Essa mi nutre, al suo marito pia;
e mi trasfonde seco, agile e snello,
dentro ogni tutto, ed antico e novello,
perché conoscitor e fabbro io sia. 8
Se tutto il mondo è come casa nostra,
fuggite, amici, le seconde scuole,
ch’un dito, un grano ed un detal ve ’l mostra. 11
Se avanzano le cose le parole,
doglia, superbia e l’ignoranza vostra
stemprate al fuoco ch’io rubbai dal sole. 14

1. «Senno» è l’intelletto eterno. «Sofia», la sapienza creata, diffusa in ogni ente, che, impregnata dall’intelletto divino, partorisce i veri sapienti, ma da sé, i sofisti e rubelli a se stessi, in quanto creati da Dio.
8. Dal divino senno aiutato, il savio penetra, con esso lui, quasi volando, tutte le cose fatte e future.
9. Questo verso contiene tutta la loica e tutti sillogismi, che dalla parte al tutto ci guidano a sapere.
10. «Scuole seconde» sono quelle che non da Dio nella natura imparano, ma da’ libri degli uomini, parlanti come opinanti di proprio capriccio, e non come testimonianti di quello che imparâro nella scuola di Dio.
11. Col dito replicato si fa il palmo, dal palmo il braccio, dal braccio la canna, ed ogni numero crescente. Col grano replicato, i pesi; col detale riempito, le misure. E questo è il modo di loicare più noto in matematica.
12. Le parole non arrivano a dir l’essenza delle cose; né tutte le cose note hanno la lor propria voce, e l’ignote nulla: talché la deficienza, l’equivocazioni e sinonimità fan doglia a’ savi, che veggono non potersi sapere; superbia a’ sofisti, che mettono il saper nelle parole; ignoranza a tutti.
14. Prometeo rubbò il fuoco, e fu però carcerato nel Caucaso, perché facea...


2
A’ poeti

   In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e ’l senno in sottigliezze,
l’amor in zelo, e ’n liscio la beltate, 4
mercé vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtù, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate. 8
Son più stupende di Natura l’opre
che ’l finger vostro, e più dolci a cantarsi,
onde ogni inganno e verità si scuopre. 11
Quella favola sol dèe approvarsi,
che di menzogne l’istoria non cuopre
e fa le genti contra i vizi armarsi. 14

Come scrisse l’autore nella sua Poetica, i poeti moderni hanno con le bugie perniciose contrafatto le virtù, ed ornato i vizi colla veste di quelle. E grida lor contro, che tornino al prisco poetare. E perché pensano che le favole sono degne di cantarsi per l’ammirazione, dice che più mirabili sono l’opere di Natura. E qui condanna Aristotile, che fece la favola essenziale al poeta: poiché questa si deve fingere solo dove si teme dir il vero per conto de’ tiranni, come Natan parlò in favola a David; o, a chi non vuol sapere il vero, si propone con gusto di favole burlesche o mirabili; o a chi non può capirlo, si parla con parabole grosse, come Esopo e Socrate usâro, e più il santo Vangelo. Talché l’autore lauda quella favola solo che non falsifica l’istoria, come è quella di Dido in Virgilio bruttissima; ed ammonisce la gente contra i vizi proprii o strani, e l’accende alla virtù. Laonde questo ultimo verso dicea nel primo esemplare: «E fa le genti di virtù infiammarsi».
3
Fede naturale del vero sapiente

   Io credo in Dio, Possanza, Senno, Amore,
un, vita, verità, bontate, immenso,
primo ente, re degli enti e creatore.
Non è parte, né tutto, inciso o estenso,
ma più somiglia al tutto, ond’ogni cosa 5
partecipò virtute, amore e senso.
Né pria, né poi, né fuor, l’alma pensosa
(ché ’n vigor, tempo e luogo egli è infinito)
può andar, se in qualche fin falso non posa.
Da lui, per lui e ’n lui vien stabilito 10
smisurato spazio e gli enti sui,
al cui far del nïente si è servito.
Ché l’unità e l’essenza vien da lui;
ma il numero, e che questo non sia quello,
da quel, che pria non fummo, restò in nui. 15
Lo abborrito niente fa il düello,
il mal, le colpe, le pene e le morti.
Poi ci ravviva il divino suggello,
participabil d’infinite sorti,
Necessitate, Fato ed Armonia 20
Dio influendo, che su’ idea trasporti.
Quando ogni cosa fatta ogn’altra sia,
cesserà tal divario, incominciato
quando di nulla unquanche nulla uscìa;
di voglia e senno eterno destinato, 25
che in meglio o in peggio non pôn far mutanza,
sendo esso sempre morte a qualche stato.
Prepose il minor bene a quel ch’avanza,
e la seconda legge alla primera,
chi diè al peccato origine ed usanza. 30
Poter peccare è impotenza vera.
Peccato atto non è: vien dal nïente;
mancanza o abuso è di bontà sincera.
Vero potere eminenza è dell’ente:
atto è diffusïon d’esser, che farsi 35
fuor della prima essenza non consente.
Necessità amorosa sol trovarsi
nel voler credo: ma di vïolenta
l’azioni e passïon non distrigarsi.
La pena a’ figli da’ padri se avventa, 40
la colpa no, se da voglia taccagna
imitata non è, poiché argomenta;
ma dalla prole a’ padri torna e stagna,
chi di ben generar non fan disegno
e trascurâro educazion sì magna. 45
Ma colpa e pena alla patria ed al regno,
che di tempo e di luoco non provvede
e di persone, che fan germe degno.
Perché dell’altrui pene ognuno è erede:
non lo condanna ignoranza o impotenza, 50
ma voglia mal oprante in quel che crede.
Dall’ingannati torna la sentenza
agl’ingannanti, che ’l Padre occultâro
a la fanciulla ancor nostra semenza.
Bisogno e voluntà, non senso raro 55
mirando, spesso rispose il pio Padre
là dove e come i figli l’invocâro.
Talché, barbare genti [ed idoladre],
se operaste giustizia naturale,
non siete esenti dalle sante squadre. 60
Vivo, e non morto, un padre universale,
non parzïal, né fatto esser Dio mai,
a chi s’annunzia più scusa non vale.
Al che aspettato e’ venne in tanti guai,
commosso dagli nostri errori e danni, 65
come per tutte istorie ritrovai,
contra sofisti, ipocriti e tiranni,
di tre dive eminenze falsatori,
a troncar la radice degli inganni.
Voi falsi sempre sol, commentatori, 70
additaste per «tata» alli bambini
voi stessi e li serpenti e statue e tori.
Poi contra i sensi proprii a’ peregrini
non bastò dir che la saetta vola,
ma che sia uccello, e Dio gli enti divini. 75
Perdé la Bibbia la mosaica scuola
al tempo d’Esdra . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I proprii Farisei Cinghi sortìo,
Amida i bongi di Chami e Fatoche, 80
l’altro emisfero in empietà finìo.
Utili a tutti, chiare leggi e poche
per l’arte abbandonâro: la natura,
perché nel primo seggio le rivoche,
delle scïenze ognun vuol ch’abbia cura; 85
non le condanna con le false sètte,
ch’abboriscon la luce e la misura.
Ammira il sol, le stelle e cose elette
per statue di Dio vive e cortigiani:
adora un solo Dio, ch’un sempre stette. 90
Scuola alza e regno a Dio da questi vani:
servir a Dio, in comunità vivendo,
è proprio libertà di spirti umani.
La santa Chiesa, il Primo Senno avendo
per maestro, e ’l libro che Dio scrisse, quando 95
compose il mondo, i suoi concetti aprendo,
sette sigilli or or disigillando,
chiamerà tutto l’universo insieme
al tempio vivo dove va rotando.
Né a Dio, né al tutto, male al mondo preme, 100
ma sì alle parti, donde egli è diverso;
ma ride al tutto la parte che geme.
Ogni cosa è immortale in qualche verso;
sol l’alme vanno d’uno in altro mondo,
Letteratura italiana Einaudi 8
secondo i merti, più opaco o più terso, 105
finito in questo ognuna il proprio tondo,
u’ gli spiriti sciolti han le lor vie
che portan del fatal ordine il pondo,
ed il giudicio aspettan del gran die.

Propone in questo canto quel ch’egli crede, per metafisico sillogismo, di Dio e delle sue opere nella natura e arte; e a dichiararlo ci bisogna tutta la sua Metafisica.
1. Predicati essenziali di Dio, noti in Metafisica.
5. Simiglianza e dissimiglianza sua col tutto.
8. Infinità di tempo, di luogo e di vigore in Dio.
11. Come gli enti sono nello spazio, base dell’essere, così questa in Dio.
15. Perché le cose non sono infinite, ma mancano da Dio, participano il non essere e la divisione; donde nasce il numero e la contrarietà, e da questa i peccati e le pene naturali, e poi morali; perché l’anima cede al contrasto contra la legge.
21. Morendo le cose, rinascon altre secondo l’idea che, con li strumenti universali di Dio, Fato, Armonia e Necessità, si imprime sempre in ogni materia; talché ci è trasmutazione e non morte.
24. Si finirà il mondo e sue trasmutazioni, quando ogni cosa sarà fatta ogni cosa; e cominciò, quando di nulla cosa ancora era stata fatta nulla cosa. Vedi la Metafisica.
27. La volontà e sapienza divina non può mutarsi: perché ogni mutamento è qualche morte della cosa che si muta, o in meglio o in peggio.
30. Che cosa originò il peccato.
33. Poter peccare è impotenza, e il peccato è difetto, non effetto, e abuso del bene.
36. Il potere è primalità in metafisica, e l’atto è diffusion dell’essere: che pur fuor di Dio, né senza Dio non può farsi, come si fa il peccato.
39. Necessità spontanea è nel volere: ma nell’oprare si truova anche violenta, e più nel patire. Sol la volontà dunque è libera, perché da Dio solo è mossa con soavità.
48. Il padre deve portar la colpa e la pena del figlio peccante per suo difetto, ché mal lo generò o mal l’allevò: ma il figlio, non la colpa, ma la pena solo dal padre trae. E la patria, che ha più senno, è obbligata ad ambedue mali, che non provvede alla generazione ed educazione, secondo scrisse l’autore nel libro detto La Città del Sole e negli Aforismi politici.
51. Nullo è condannato per non potere fare o per non sapere la vera fede, ma solo per non osservare quello che sa o vede esser vero doversi osservare.
54. Gli eresiarchi ingannatori patiranno la pena dell’ingannati; ma questi son salvi, se non possono da sé arrivar al vero, né son persuasi da chi lo sa ragionevolmente, e son pronti alla verità persuasa.
57.Dio rispose nelli oracoli a chi l’invocò con buon zelo, ignorando che quelli eran de’ demoni, e spesso a chi lo sapea; ma peroché vide esser necessario così al governo di qualche imperio o persona. Così pur dice san Tomaso, Secunda secundae, questione.
60. A chi osserva la legge di natura, ignorando quella della grazia, non si nega il Paradiso.
63. A chi s’annunzia il vero Dio con ragione, non resta più scusa d’ignoranza, né di non pigliar i sacramenti.
66. Venne Dio ad incarnarsi e insegnarci la verità, come fu il desiderio di tutti gli uomini; e questo si truova in Platone e Cicerone, nonché ne’ profeti e sibille.
69. Sofisti contra la sapienza, ipocriti contra la bontà, tiranni contra la potenza, princìpi metafisicali, s’armâro; e le falsificâro, fingendosi di quelle ornati.
72. Li commentatori fecero le eresie; e alli uomini, che cercavano qual è il padre Dio, altri dissero che Dio era il serpente, altri la statua, altri il vitello, altri se stesso, e gli fecero idolatrare; e poi fecero gli dèi metaforici dèi veri.
77. Qui manca, ed era scritto come si fece l’adulterazione della Bibbia e del Vangelo per li eresiarchi con sofismi; e poi soggionge che ogni legge d’altri legislatori arrivò ad aver Farisei, Saducei...
83. Condizioni delle vere leggi, e come si guastano, mentre la natura all’arte pospongono.
87. Contra la legge di Macone, che abborrisce le scienze naturali, perché la sua falsità non si scuopra.
90. La natural legge ammira il cielo e le stelle come divine, ma un solo Dio vero conosce.
93. Fa scuola a Dio, e non alli uomini; ama il vivere in comunità, e questa esser la vera libertà, secondo la Città del Sole.
96. La scuola della natura ha il Primo Senno per maestro e per libro il mondo, dove Dio scrisse vivamente i suoi concetti.
99. Aspetta la revelazione della verità, qual sia la vera legge, quando si farà universal concilio, ed una fede ed un pastore.
102. Il male non è essenziale, perch’a Dio ed al mondo non è, ma solo alli particulari. Il caldo è male al freddo, non al mondo, a cui pur serve la morte continua delle parti, come a l’animale quella del cibo.
105. Tutte le cose sono immortali in idea ed universalità e per successione. L’anime non muoiono, ma cambiano paese, od al Cielo ovvero all’Inferno.
109. Tocca alli angeli guidar l’anime, e son parti eminenti del Fato divino; e l’anime aspettan il giudizio universale, come argumenta Atenagora, per ragion di providenza e di giustizia.

4
Del mondo e sue parti

   Il mondo è un animal grande e perfetto,
statua di Dio, che Dio lauda e simiglia:
noi siam vermi imperfetti e vil famiglia,
ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto. 4
Se ignoriamo il suo amor e ’l suo intelletto,
né il verme del mio ventre s’assottiglia
a saper me, ma a farmi mal s’appiglia:
dunque bisogna andar con gran rispetto. 8
Siam poi alla terra, ch’è un grande animale
dentro al massimo, noi come pidocchi
al corpo nostro, e però ci fan male. 11
Superba gente, meco alzate gli occhi
e misurate quanto ogn’ente vale:
quinci imparate che parte a voi tocchi. 14

In questo sonetto dichiara che l’uomo sia, come il verme nel nostro ventre, dentro il ventre del mondo; ed alla terra, come i pidocchi alla nostra testa; e però non conosciamo che ’l mondo ha anima ed amore, come i vermi e gli pidocchi non conoscono per la piccolezza loro il nostro animo e senso; e però ci fan male senza rispetto. Però ammonisce gli uomini ch’e’ vivano con rispetto dentro il mondo, e riconoscano il Senno universale e la propria bassezza, e non si tengano tanto superbi, sapendo quanto piccole bestiuole e’ sono. Lette

5
Anima immortale

   Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro
tanto, che quanti libri tiene il mondo
non saziâr l’appetito mio profondo:
quanto ho mangiato! e del digiun pur moro. 4
D’un gran mondo Aristarco, e Metrodoro
di più cibommi, e più di fame abbondo;
disïando e sentendo, giro in tondo;
e quanto intendo più, tanto più ignoro. 8
Dunque immagin sono io del Padre immenso,
che gli enti, come il mar li pesci, cinge,
e sol è oggetto dell’amante senso; 11
cui il sillogismo è stral, che al segno attinge;
l’autorità è man d’altri; donde penso
sol certo e lieto chi s’illuia e incinge. 14

In questo sonetto parla l’anima, e riconosce se stessa immortale ed infinita, per non saziarsi mai di sapere e volere. Onde conosce non dalli elementi, ma da Dio infinito essa procedere; a cui s’arriva col sillogismo, come per strale allo scopo, perché dal simile effetto alla causa si va lontanamente; s’arriva con l’autorità, come per mano d’altri si tocca un oggetto, ancora che questo sapere sia lontano e di poco gusto. Ma solo chi s’illuia, cioè chi si fa lui, cioè Dio, e chi s’incinge, cioè s’impregna di Dio, vien certo della divinità e lieto conoscitore e beato: perché è penetrante e penetrato da quella. «Illuiare» e «incingersi» son vocaboli di Dante, mirabili a questo proposito.

6
Modo di filosofare

   Il mondo è il libro dove il Senno Eterno
scrisse i proprii concetti, e vivo tempio
dove, pingendo i gesti e ’l proprio esempio,
di statue vive ornò l’imo e ’l superno; 4
perch’ogni spirto qui l’arte e ’l governo
leggere e contemplar, per non farsi empio,
debba, e dir possa: – Io l’universo adempio,
Dio contemplando a tutte cose interno. – 8
Ma noi, strette alme a’ libri e tempii morti,
copïati dal vivo con più errori,
gli anteponghiamo a magistero tale. 11
O pene, del fallir fatene accorti,
liti, ignoranze, fatiche e dolori:
deh, torniamo, per Dio, all’originale! 14

In questo sonetto mostra che ’l mondo è libro e tempio di Dio, e che in lui si deve leggere l’arte divina ed imparare a vivere in privato e ’n pubblico ed indrizzare ogni azione al Fattor del tutto; e non studiare i libri e tempii morti delli uomini, ch’anteponghiamo al divino empiamente, e ci avviliamo l’animo, e cadiamo in errori e dolori e pene, le quali ormai doverebbono farci tornar all’original libro della Natura, e lasciar le sètte vane e le guerre gramaticali e corporali. E di ciò scrisse nel libro Contra Macchiavellisti.

7
Accorgimento a tutte nazioni

   Abitator del mondo, al Senno Primo
volgete gli occhi, e voi vedrete quanto
tirannia brutta, che veste il bel manto
di nobiltà e valor, vi mette all’imo. 4
Mirate poi d’ipocrisia, che primo
fu divin culto, e santità con spanto
l’insidie; e di sofisti poi l’incanto,
contrari al Senno, ch’io tanto sublimo. 8
Contra sofisti Socrate sagace,
contra tiranni venne Caton giusto,
contra ipocriti Cristo, eterea face. 11
Ma scoprir l’empio, il falsario e l’ingiusto
non basta, né al morir correre audace,
se tutti al Senno non rendiamo il gusto. 14

Parla a tutte le nazioni, mostrando che la tirannia falsificò in sé il valore, la sofistica il senno, la ipocrisia la bontà. Contra sofisti nacque Socrate, contra tiranni Catone; ma cristo dio contra ipocriti, che sono i pessimi, disputò più che contra ogni altro: perché in questo vizio s’inchiude il primo e ’l secondo. Ma non basta ch’e’ ci abbia scoperto la verità di tre vizi contrari alla Trinità metafisicale e teologale, se non rendiamo il gusto tutti al Senno vero, ch’è la Sapienza divina incarnata, che col gusto, più che con l’orecchio, internata ci persuade. Vide Metaphysicam.

8
Delle radici de’ gran mali del mondo

   Io nacqui a debellar tre mali estremi:
tirannide, sofismi, ipocrisia;
ond’or m’accorgo con quanta armonia
Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi. 4
Questi princìpi son veri e sopremi
della scoverta gran filosofia,
rimedio contra la trina bugia,
sotto cui tu, piangendo, o mondo, fremi. 8
Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,
tutti a que’ tre gran mali sottostanno, 11
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d’ignoranza, radice e fomento hanno.
Dunque a diveller l’ignoranza io vegno. 14

Perché l’autore scrisse in Metafisica di tre primalità o proprincìpi (ché così chiama la Potenza, la Sapienza e l’Amore) e tutti i mali del mondo pendono dalla tirannide, falsa possanza, e dalla sofistica, falsa scienza, e dall’ipocrisia, falso amore, dice che Temi con ragione gl’insegnò questa filosofia nuova. Themis è la dea della giustizia, che dava li oracoli in Grecia, secondo scrive Ovidio, e si piglia per la Sapienza divina. «Trina bugia» sono qui detti tre mali oppositi alla Trinità metafisicale e teologale; e son più nocivi che la impotenza, ignoranza ed odio, opposti e manifesti vizi. E, perché omnis peccans est ignorans in eo quod peccat, secondo i filosofi e teologi; e da questa ignoranza, che par sapienza di Stato, nasce l’amor proprio, ch’è cieco, radice e fomento di tutti i peccati, come dalla vera sapienza l’amor oculato, quia ignoti nulla cupido: però egli, svellendo l’ignoranza, fa conoscer i veri vizi e le vere virtù, ed a questo fine è nato ogni savio. Onde Salomone: «In multitudine sapientium sanitas orbis terrarum».


9
Contra il proprio amore scoprimento stupendo

   Credulo il proprio amor fe’ l’uom pensare
non aver gli elementi, né le stelle
(benché fusser di noi più forti e belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare. 4
Poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle.
Poi il restringemmo a que’ di nostre celle.
Sé solo alfin ognun venne ad amare. 8
E, per non travagliarsi, il saper schiva;
poi, visto il mondo a’ suo’ voti diverso,
nega la provvidenza o che Dio viva. 11
Qui stima senno l’astuzie; e perverso,
per dominar, fa nuovi dèi. Poi arriva
a predicarsi autor dell’universo. 14

Qui mostra il sonetto presente, che dal proprio amore è venuto che gli uomini hanno fatto onorare e stimarsi come dèi, cioè Giove, Ercole; e che primamente ci fa pensare che ’l cielo e le stelle non hanno senso e che sono nostri servi; cosa riprovata da lui in libro De sensu rerum e ’n Metafisica. E che Dio disse a Moise che son fatti in ministerio nostro, come quando nostri servi servono anche a’ nostri cavalli e cani, e però non sono inferiori ad essi. Dopo questo, fece che ogni nazione pensa che l’altre sien barbare e dannate all’Inferno, e noi soli salvi; e non vede il cieco amore, che Dio è Dio di tutti. E ’n ciò son condannati assai gli Ebrei, che negan la salute a’ Gentili, così detti quasi gentaglia e volgo. Poi ci fa pensare che soli noi monaci ci salviamo; ed ogni città tratta da barbara l’altre vicine ed a torto ed a dritto cerca di dominarle. Da questo mancamento d’amor comune viene che niuno ama se non se stesso e, per farsi troppe carezze, lascia la fatica dello studio nella vera sapienza; e, vedendo le cose, a rispetto suo, andare a caso, quia ignorantia facit casum, si pensa che non ci sia Dio che provvede al tutto, a cui rispetto non ci è caso, quia nihil praeter eius intentionem aut voluntatem. Laonde viene a stimar per Dio suo la propria astuzia macchiavellescamente e, quando può, si fa adorar per Dio, credendo che non ci sia il Dio vero, ed ogni cosa indrizza al proprio utile, e fa idolatrar la gente.

10
Parallelo del proprio e comune amore

   Questo amor singolar fa l’uomo inerte,
ma a forza, s’e’ vuol vivere, si finge
saggio, buon, valoroso: talché in sfinge
se stesso annicchilando alfin converte 4
(pene di onor, di voci e d’òr coverte).
Poi gelosia nell’altrui virtù pinge
i proprii biasmi, e lo sferza e lo spinge
ad ingiurie e rovine e pene aperte. 8
Ma chi all’amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli
e con Dio di lor beni gioie prende. 11
Tu, buon Francesco, i pesci anche e gli uccelli
frati appelli (oh beato chi ciò intende!);
né ti fûr, come a noi, schifi e rubelli. 14

Questo sonetto ci avvisa che l’amor proprio ci fa schifar la fatica, e però divegniamo inabili. E poi, perché ci amiamo troppo, vedendo che le virtù son quelle che conservan l’uomo, ci fingiamo almeno virtuosi; e questo fingersi quel che non siamo, è un annicchilamento di quel che siamo, assai penoso. Ma questa pena è coverta d’onori falsi, d’adulazione e da ricchezze di fortuna, ne’ prìncipi più che in altri. Dopo, conoscendo essi che gli veri virtuosi son come testimoni della falsa virtù loro, entrano in gelosia di Stato, e vengono ad uccider ed ingiuriar le genti buone, ed insidiarle, e rovinare quelle e sé e la repubblica. All’incontro, l’amor universale vero, divino, stima più il mondo che la sua nazione, e più la patria che se stesso: tutti tiene per fratelli, gode del ben d’altri, vi cessa la penosa invidia e gelosia; e così viene a goder d’ogni bene come del proprio, a far bene a tutti ed esser poi signor di tutti per amore ed innocenza, non per forza. E porta l’esempio di san Francesco, che chiamava i pesci e gli uccelli fratelli suoi, e gli liberava quando erano presi; onde arrivò a tanta innocenza, che l’ubbidivano gli animali. Così a san Biagio ed altri santi; e così sarebbe stato nel secolo d’oro, se Adamo non peccava.

11
Cagione, perché meno si ama Dio, sommo bene, che gli
altri beni, è l’ignoranza

   Se Dio ci dà la vita, e la conserva,
ed ogni nostro ben da lui dipende,
ond’è ch’amor divin l’uom non accende,
ma più la ninfa e ’l suo signor osserva? 4
Ché l’ignoranza misera e proterva,
chi s’usurpa il divin, per virtù vende;
ed a cosa ignorata amor non tende,
ma bassa l’ale e fa l’anima serva. 8
Qui, se n’inganna poi e toglie sostanza
per darla altrui, ne’ vili ancor soggetti
ci mostra i rai del ben, che tutti avanza. 11
Ma noi l’inganno, il danno (ahi, maladetti!)
di lui abbracciamo, e non l’alta speranza
de’ frutti e ’l senso degli eterni oggetti. 14

In questo sonetto dichiara che l’ignoranza, predicata per bontà da’ falsi religiosi, è causa di non conoscer Dio, né amarlo (quia ignoti nulla cupido) più che gli beni umani e vili. Dove amor bassa l’ale e fa l’anima schiava di cose frali; e pure in questi oggetti frali ci inganna, ché ci toglie la sostanza e ’l seme per generar altri: onde dicono i Platonici: «subdola Venus non providet natis, sed nascituris; ideo aufert ab illis substantiam, ut det his». E pur in questo amor basso carnale Dio ci mostra gli suoi raggi, ch’è la bellezza, detta «fior della bontà divina», che ci leva di sembianza in sembianza a cognoscer il Sommo Bene. Ma noi, stolti, più presto attendiamo al danno e l’inganno che ci fa amore, che alla speranza delli oggetti eterni, che ci porge la beltà; e, come le bestie, non pensiamo all’immortalità, dove tende amore, ma al gusto, che ci fa languidi, ci toglie gli spiriti, ci ammala e consuma, non sapendo ch’è un presaggio del gusto vero ed ésca per poterci ingannare; per la qual cosa ci mugne Dio amore a far un cacio di nuovo uomo: «Sicut lac mulsisti me» dice Iob.

12
Fortuna de’ savi

   Gran fortuna è ’l saper, possesso grande
più dell’aver; né i savi ha sventurati
l’esser di vil progenie e patria nati:
per illustrarle son sorti ammirande. 4
Hanno i guai per ventura, che più spande
lor nome e gloria; e l’esser ammazzati
gli fa che sien per santi e dèi adorati,
ed allegrezza han da contrarie bande: 8
ché le gioie e le noie a lor son spasso,
come all’amante pare il gaudio e ’l lutto
per la sua ninfa: e qui a pensar vi lasso. 11
Ma il sciocco i ben pur crucciano, e più brutto
nobiltà il rende, ed ogni tristo passo
suo sventurato fuoco smorza in tutto. 14

Non esser vero che gli savi sono sventurati. Anzi, tutte le sventure essere a loro venture, e le noie e le gioie ben loro. Ma gli ignoranti dalle sventure subito son disfatti, e dalle venture più infelici diventano, e più mostrano la loro stoltizia e dappocaggine in ogni evento.

13
Senno senza forza de’ savi delle genti antiche esser
soggetto alla forza de’ pazzi

   Gli astrologi, antevista in un paese
costellazion che gli uomini impazzire
far dovea, consigliârsi di fuggire,
per regger sani poi le genti offese. 4
Tornando poscia a far le regie imprese,
consigliavan que’ pazzi con bel dire
il viver prisco, il buon cibo e vestire.
Ma ognun con calci e pugni a lor contese. 8
Talché, sforzati i savi a viver come
gli stolti usavan, per schifar la morte,
ché ’l più gran pazzo avea le regie some, 11
vissero sol col senno a chiuse porte,
in pubblico applaudendo in fatti e nome
all’altrui voglie forsennate e torte. 14

Parabola mirabile per intendere come il mondo diventò pazzo per lo peccato, e che gli savi, pensando sanarlo, furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro avviso.

14
Gli uomini son giuoco di Dio e degli angeli

   Nel teatro del mondo ammascherate
l’alme da’ corpi e dagli affetti loro,
spettacolo al supremo consistoro
da Natura, divina arte, apprestate, 4
fan gli atti e detti tutte a chi son nate;
di scena in scena van, di coro in coro;
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatal libro ordinate. 8
Né san, né ponno, né vogliono fare,
né patir altro che ’l gran Senno scrisse,
di tutte lieto, per tutte allegrare, 11
quando, rendendo, al fin di giuochi e risse,
le maschere alla terra, al cielo, al mare,
in Dio vedrem chi meglio fece e disse. 14

Gli corpi esser maschere dell’anime, e che non fanno l’uficio suo primiero, ma artificiale, scenico, secondo il destino divino ordinò non sempre esser re chi è vestito di maschera regia. Ma, rendute le maschere alli elementi, saremo ignudi e vederemo in Dio, luce viva, chi meglio fece il debito suo; e però tra tanto bisogna aver pacienza ed aspettare la conoscenza della comedia nel giudizio universale.

15
Che gli uomini seguono più il caso
che la ragione nel governo politico,
e poco imitan la natura

   Natura, da Signor guidata, fece
nel spazio la comedia universale,
dove ogni stella, ogni uomo, ogni animale,
ogni composto ottien la propria vece. 4
Finita questa, come stimar lece,
Dio giudice sarà giusto ed eguale;
l’arte umana, seguendo norma tale,
all’Autor del medesmo satisfece. 8
Fa regi, sacerdoti, schiavi, eroi,
di volgar opinione ammascherati,
con poco senno, come veggiam poi 11
che gli empi spesso fûr canonizzati,
gli santi uccisi, e gli peggior tra noi
prìncipi finti contra i veri armati. 14

La comedia dell’universo sta pur nella Metafisica. La politica nostra è di quella imitazione. E spesso imita falsamente, onde avvengono tanti mali. E Dante disse:
Se ’l mondo sol laggiù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, saria buona la gente;
ma voi torcete alla religïone
tal ch’era nato a cingersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada.

16
Re e regni veri e falsi e misti,
e fini e studi loro

   Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in veritate,
per l’una e l’altra Augusto e Mitridate,
Scipio e Gioseppe in parte, e parte senza. 4
Cerca il principe spurio la semenza
delle genti stirpar a regger nate,
come Erode, Melito, e l’empio frate
di Tito, e Caifa, ed ogni ria potenza. 8
Chi si conosce degno di servire,
persegue chi par degno da imperare:
di virtù regia è segnale il martìre. 11
Questi regnan pur morti, a lungo andare:
vedi i tiranni e lor leggi perire,
e Pietro e Paulo in Roma or comandare. 14

In questo si scorge tutta la politica vera e falsa e mista. Nelli Aforismi politici l’autore pose altri re per natura, altri per fortuna, altri per l’una e l’altra, altri in tutto, altri in parte; e come gli spurii cercano estinguere i veri signori con la regola del Macchiavello: «ecce heres, occidamus eum»; e che il vero principe col sangue sigilla il principato: «animam suam ponit pro ovibus». E però Macone è spurio, che recusò il martirio; e che gli prìncipi veri dopo la lor morte anche signoreggiano, e più; e perché Macone domina ancora, in quanto disse qualche verità, e per flagello, egli è principe di fortuna.

17
Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere

   Chi pennelli have e colori, ed a caso
pinge, imbrattando le mura e le carte,
pittor non è; ma chi possede l’arte,
benché non abbia inchiostri, penne e vaso. 4
Né frate fan cocolle e capo raso.
Re non è dunque chi ha gran regno e parte,
ma chi tutto è Giesù, Pallade e Marte,
benché sia schiavo o figlio di bastaso. 8
Non nasce l’uom con la corona in testa,
come il re delle bestie, che han bisogno,
per lo conoscer, di tal sopravvesta. 11
Repubblica onde all’uom doversi espogno,
o re, che pria d’ogni virtù si vesta,
provata al sole, e non a piume e ’n sogno. 14

Si pruova con esempi naturali non esser re chi regna, ma chi sa, può e vuole regnar bene. Pallade e Marte son la virtù militare e la prudenza umana: Giesù è la virtù e sapienza divina. E chi di queste è vòto, non è re. Se l’uomo non nasce con la corona, come il re de’ pesci, dell’api e degli uccelli, questo è segno che all’uomo si convenga vivere in repubblica, perché la natura non ci dà re: ovvero che non alla vesta e corona si deve mirare ed alla successione, ma alla virtù provata in azioni sante ed eroiche; e così poi deve essere eletto a re.

18
A Cristo, nostro Signore

   I tuo’ seguaci, a chi ti crocifisse
più che a te crocifisso, simiglianti,
son oggi, o buon giesù, del tutto erranti
da’ costumi, che ’l tuo senno prescrisse. 4
Lussurie, ingiurie, tradimenti e risse
van procacciando i più stimati santi;
tormenti inusitati, orrori e pianti
(tante piaghe non ha l’Apocalisse), 8
armi contra tuoi mal cogniti amici,
come son io. Tu il sai, se vedi il cuore:
mia vita e passïon son pur tuo segno. 11
Se torni in terra, armato vien’, Signore,
ch’altre croci apparécchianti i nemici,
non Turchi, non Giudei: que’ del tuo regno. 14

Questo è chiaro per sé, e si vede che gli seguaci di Cristo somigliano a’ suoi persecutori. Dio ci provveda.

19
Alla morte di Cristo

  Morte, stipendio della colpa antica,
dell’invidia figliuola, e del nïente
tributaria, e consorte del serpente,
superbissima bestia ed impudica: 4
credi aver fatta l’ultima fatica,
sottoposto al tuo regno tutto l’ente,
contra l’Omnipotente omnipotente?
Falsa ragion di Stato ti nutrica. 8
Per servirsi di te scende all’abisso,
non per servir a te: tu l’armi e ’l campo
scegli, e schernita se’ da un crocifisso. 11
S’e’ vive, perdi; e s’e’ muore, esce un lampo
di deità dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han più scampo. 14

San Paolo disse: «Stipendium peccati mors». La Sapienza: «Invidia Diaboli mors introivit». Che sia figlia del niente, è dichiarato in Metafisica. Come Cristo vinse la morte morendo, è noto tra’ teologi, ed io non dichiaro qui se non i sensi occulti e proprii dell’autore.

20
Nel sepolcro di Cristo, Dio nostro,
a’ miscredenti

   O tu, ch’ami la parte più che ’l tutto
e più te stesso che la spezie umana,
che i buon persegui con prudenza vana,
perché al tuo stato rio rendon mal frutto, 4
ecco li Scribi e Farisei del tutto
disfatti, ed ogni setta empia e profana,
dall’Ottimo, che i buoni transumana,
mentre in sepolcro a lor pare distrutto. 8
Pensiti aver tu solo provvidenza,
e ’l ciel, la terra e l’altre cose belle,
le quali disprezzi, starsene senza? 11
Sciocco, d’onde se’ nato tu? Da quelle;
dunque ci è Senno e Dio. Muta sentenza:
mal si contrasta a chi guida le stelle. 14

Questo sonetto è chiaro e pio e sagacissimo, atto a persuadere tutti quelli che vivon per ragion di Stato umana e prudenza carnale macchiavellescamente, a riconoscere la vera vita; e che pur in questo mondo è meglio patir male, che farne; e che in sé, o ne’ posteri, subito il malfattore va in rovina per voler di quello, chi regge il mondo ed è sconosciuto da’ rettori mondani.

21
Nel sepolcro di Cristo

  Quinci impara a stupirti in infinito,
che l’Intelletto divino immortale,
perché divenga l’uom celestïale,
si sia di carne (oh santo Amor!) vestito; 4
ch’egli sia anciso da’ suoi, e seppellito;
che poi sen venne a vita trionfale
e ascese in Cielo; che ciascun fia tale,
chi s’è con lui per vivo affetto unito. 8
Che chi muore pel caldo di ragione,
sofisti atterra, ipocriti e tiranni,
che vendon l’altrui mal per divozione; 11
che ’l giusto morto i vivi empi condanni,
or fatta legge al mondo ogni sua azione,
e egli giudice al fin degli ultimi anni. 14

Il sonetto è chiaro: desidera attenzione ed osservanza, riconoscimento ed imitazione.

22
Nella resurrezione di Cristo

   Se sol sei ore in croce stette Cristo,
dopo pochi anni di fatiche e stenti,
ch’e’ soffrir volle per l’umane genti,
quando del ciel fece immortal acquisto; 4
che ragion vuol ch’e’ sia per tutto visto
sol pinto e predicato fra tormenti,
che lievi fûr presso a’ piacer seguenti,
finito il colpo rio del mondo tristo? 8
Perché non dire e scriver del gran regno,
ch’e’ gode in cielo e tosto farà in terra
a gloria e laude del suo nome degno? 11
Ahi, folle volgo, ch’, affissato a terra,
se’ di vedere l’alto trionfo indegno,
onde sol miri al dì dell’aspra guerra! 14

Il sonetto riprende coloro che sempre a Cristo crucifisso, e non resuscitato, mirano. E così san Bernardo nel Sermone di Pasqua.

23
Al Primo Senno

Canzone prima

Madrigale 1

   Illustra, o Primo Senno, il senno mio,
tu che inspiri il sapere all’universo,
come dal Primo Amore
e dal Primo Valore
vien ogni possa e voglia: tu il mio verso 5
fa di te degno e del mio gran desio.
Che se Necessitate
influsso è di Possanza
e di Amor Armonia,
da te dipende il Fato e l’ordinanza. 10
Tu reggi Amor, guidi la Potestate
ed ogni ierarchia,
tu, giudice ed autor di veritate.

In questo primo madrigale della prima canzone fatta alla Sapienza Eterna, e’ l’invoca, e la chiama «Primo Senno», donde tutto il saper degli enti deriva, perché l’autore scrisse ch’ogni cosa sente più o meno, quanto basta alla sua conservazione, come appare da’ libri De sensu rerum. E perché nella sua Metafisica pone tre proprincìpi dell’essere, Possanza, Senno, Amore, da’ quali ogni potere e sapere ed appetito viene agli enti secondi; e da questi proprincìpi nasce la Necessità dalla Potenza, il Fato dalla Sapienza e l’Armonia dall’Amore, e son chiamate «influenze magne»: però col suo influsso onora la Sapienza invocata e le dice ch’essa regge Amore, perché senza lei è cieco, ed essa guida la Possanza, che senza lei non produce, ma strugge le cose. E s’è provato in Metafisica che queste primalità si trovan l’una nell’altra, benché procedan l’una dall’altra.

Madrigale 2

   Era il Senno degli enti da principio,
ed era appresso Dio, era Dio stesso,
sì come era il Potere
e l’Amor, che tre vere
preminenze dell’essere io confesso, 5
degli enti tutti un interno principio,
onde ogni parte e tutto
puote, ed ama, e conosce
essere ed operare;
segue le gioie e fugge dall’angosce; 10
strugge il nemico, per non esser strutto,
e ’l simil sa cercare:
dal che fu il mondo in ordine ridutto.

Mostra che ’l Senno è eterno, ed è Dio, e quel che l’Evangelo chiama «Verbo di Dio». E che ’l Potere e ’l Volere sono in Dio eterni ed un essere, e ch’ogni ente partecipa di queste tre primalità o preminenze internamente, sia semplice o sia composto, secondo appare in Metafisica. Poi lo mostra dall’azioni e passioni, e simpatie ed antipatie, che le cose sentano. E che dal senso vien distinto il mondo. Il fuoco va in suso, perché sente il cielo amico, e fugge la terra, sentita da lui per nemica; e le cose terrestri vanno a basso; ed ogni simile al suo simile, e fugge il contrario. Talché disse il vero Anassagora, che l’intelletto distingue il caos: ché, se le cose non partecipassero da lui il sentimento, tutte si fermerebbono dove sono; e non ci sarebbono moti, né azione, né passione, né generazione, senza senso di gioia e di dolore.

Madrigale 3

   Autor dell’universo e di sue parti
fu il Senno, a cui Natura è quasi figlia,
l’arte nostra è nipote,
che fa quel che far puote,
l’idee mirando, che la madre piglia 5
dall’avo, che d’un’arte fe’ tante arti.
Però sé sente ed ama
per essenza e per atto
ogn’ente, e l’altre cose,
in quanto sente sé mutato, e fatto 10
quelle per accidente. Indi odia e brama
chi a male o ben l’espose.
Talché il mutarsi in noi saper si chiama.

Dio, Primo Senno, mirando nelle sue idee, fece tutti gli enti. La Natura, ch’è arte divina inserta nelle cose, è figlia del Senno; e però, mirando all’idee di quello, essa fa le cose naturali. L’arte nostra, ch’è natura estrinseca, fa le cose artificiali, mirando all’idee espresse dalla Natura sua madre, insegnata dal Senno, suo avo, che fece tante arti, cioè naturali e postnaturali. Talché ogni ente naturale conosce se stesso ed ama se stesso di conoscimento ed amore interno e segreto, e poi ama le altre cose e le sente, in quanto sente se stesso mutato in quelle; perché il sentire è passione, secondo Aristotile e ’l Telesio. Ma Aristotile vuol che sia total informazione; Telesio poca immutazione: donde si giudica il tutto poi per sillogismo subitaneo. L’autore vuol che sia essere, e che ’l patire e l’immutarsi servano a far che la virtù conoscente sia esso oggetto, e così lo conosce e giudica. E, perché non si fa del tutto quello, però debolissima è la conoscenza nostra, corta e lontana.

Madrigale 4

   Ma non del tutto, ché sarìa morire
in sé e farsi altro, come legno fuoco.
Ma di poca mutanza
si nota, per sembianza,
che il resto è, addoppiando molto o poco. 5
Letteratura italiana Einaudi 34
Dunque saper discorso è del patire.
Ma lo Senno Primero,
che tutte cose feo,
tutte è insieme, e fue:
né, per saperle, in lor si muta Deo, 10
s’egli era quelle già in esser più vero.
Tu, inventor, l’opre tue
sai, non impari; e Dio è primo ingegniero.

Séguita a dire che ’l sentire non è mutarsi totalmente, ché questo sarebbe morte; ma che sia percezione di poca mutazione, dalla quale poi argomenta il tutto, come, dal poco calor che ci imprime il sole, argomentiamo della sua possanza, e poi daogni simile il suo simile. E questo discorso è sentire nel simile o nella parte in quanto simile, come scrisse in primo Metaphysicae. Poi dice che Dio, sendo fattor di tutte le cose, è in sé tutte cose eminentemente ed idealmente; talché, per saperle, non gli bisogna mutarsi in esse, come facciamo noi, ché già è esse. E ’l suo sapere è atto senza passione e senza discorso. E lo rassomiglia all’inventor d’una cosa, ch’e’ non impara da altri, ma altri da lui, dopo ch’è fatta. Se ben l’ingegniere umano mira nella Natura, pure, rispetto alli uomini, è autore primo. Ma Dio è primo ingegniere avanti la natura: però sa il tutto, l’insegna e non l’impara.

Madrigale 5

   Come le piante al suolo, i pesci all’acque,
le fiere all’aria e li splendori al sole
han sì continovate
le vite, che, staccate,
si svanisce il vigor, riman la mole: 5
così al Senno Primo unito nacque,
come è bisogno e quanto
per conservarsi, ogn’ente
con più o manco luce;
Tommaso Campanella - Poesie
Letteratura italiana Einaudi 35
Tommaso Campanella - Poesie
e, da lui svélto, ignora, muore e mente: 10
né si annullando e varïando manto,
quel che può, si riduce,
come ogni caldo al sole, al Senno santo.

Tutti gli enti sono uniti al Primo Ente, come gli splendori al sole, però tanto quanto bisogna a loro il senso per vivere: ondepiù e meno luce ricevono; e, da quella staccati, divengon bugiardi, ignoranti ed annicchilati nell’esser ch’e’ hanno; e, quando muoiono, non s’annullano, ma variano forma, e sempre si riducono all’essere, ché fuor dell’essere non possono andare. E, come il calor torna al sole, così il sapere d’ogni ente contende tornar al Primo Senno, onde deriva. Quis intelliget?

24
Canzone seconda

Madrigale 1

   La luce è una, semplice e sincera
nel sole, e per se stessa manifesta,
ch’è di sé diffusiva
e moltiplicativa,
agile, viva ed efficace e presta; 5
tutto vede e veder face in sua sfera.
Poi, negli opachi mista
corpi, vivezza perde,
né per sé si diffonde.
Di color giallo, azzurro, rosso e verde 10
prende nome, secondo l’ombra trista
più o meno la nasconde,
né senza il primo lume può esser vista.

Questa comparazione è notissima a chi sa che la luce è simile al Senno, secondo Salomone, e ch’essa è il primo colore, che per sé si vede e fa veder gli altri enti, di cui si riflette tinta, ed entra negli occhi con la tintura di quelli. Onde san Paolo: «Omne quod manifestatur, lumen est». E questo scrisse l’autor contra Aristotile, che fa il colore oggetto della vista, e non sa che ’l colore è luce imbrattata dalla nerezza della materia e smorta. Nota anche che la luce sente e vede più che noi, secondo l’autore nel terzo De sensu rerum, e che s’allegra, diffonde, ecc.

Madrigale 2

   Così lo Senno in Dio senza fin puro,
moltiplicabile, unico e veloce,
tutto ad un tratto vede,
forma, insegna e possede;
detto qua Verbo, e in ciel di miglior voce. 5
Partecipato poi dal mondo oscuro
e di finita forza,
teme, ama, odia ed obblia;
né più Dio, ma vien detto
Natura, Senno, Ragion, Fantasia. 10
E secondo più o men dura ha la scorza
o più e manco è schietto,
più o manco sa; ma in Dio più si rinforza.

Qualità del Senno Eterno simile alla luce, e del senno creato simile al colore, ch’è luce partecipata. E che, secondo la scorza corporea più o men ottusa, più o men sa. E che, da Dio guidato, come il color dalla luce, si rinforza e si fa visibile e conoscente ed attivo, poiché si vede quanto sanno più gli discepoli di Dio che degli uomini. Nota che, da ciò che Dio partecipato non vien detto Dio, ma Senno, ecc., si può argomentare che la mente nostra sia una luce o colore partecipante dell’esser divino od esso Dio partecipato, ecc. Theologiza et laetare.

Madrigale 3

   Spirto puro, qual luce, di tutti enti
ben s’inface, e gli intende in quella guisa
ch’essi in se stessi sono;
ed a sorgere è buono
a giudicar, di quel che gli si avvisa, 5
il resto e gli simìli e i differenti.
Ma l’impuro infelice,
qual rossor rosse scorge
le cose, e non come enno,
e d’una in altra sembianza mal sorge: 10
laonde il natural mentire indice,
ma non lo scaltro, un senno
di natura corrotta e peccatrice.

Bisogna ben notare questo madrigale, dove si mostra che lo spirto puro, come luce s’infà (afficitur, vocabolo nuovo) di tutt’i colori e gli rappresenta come sono, così egli di tutti gli enti; e però gli giudica come sono, e non sa mentire, né vuole. Ma lo spirto impuro, fuliginoso, non si infà se non come egli è infatto; e, come il rosso occhiale rappresenta le cose rosse, e non quali sono, così l’impuro le sente, e però è per natura mendace. Ed è segno di natura corrotta e viziosa, quando mente non per industria, bisogno e sagacità, ma naturalmente in tutte le cose suol mentire.

Madrigale 4

   Chi tutte cose impara, tutte fassi,
qual Dio, ma non del tutto ed in essenza,
com’è la Cagion prima.
Ch’alma di tanta stima
far cose vive sol con l’intendenza 5
potria e del spazio comprendere i passi;
quanti il freddo e caldo hanno
gradi, e momenti il moto,
e del tempo gli instanti;
quanti angeli, e vie il lume, e corpi ha il vòto; 10
le riforme, che a lor vengono e vanno,
i rispetti, e sembianti;
quanti atomi in ogni ente e come stanno.

L’uomo, che tutte le cose impara, si fa, qual Dio, tutte cose; e questo lo dice Dionisio Areopagita, allegato pur da san Tomaso. Ma non però è Dio, sì perché non può tutte imparare, sì perché non si fa tutte per essenza, com’è Dio ogni cosa per essenza eminentemente. E chi fosse tale, saperebbe ogni cosa; saperebbe tutto ’l libro avanti che lo leggesse, e sol con l’intelligenza potrebbe far le cose; come le fa Dio, chi è esse, onde le fa senza fatica.

Madrigale 5

   Chi che si sia purissimo, dappoi
ch’averia conosciuto tutte cose,
non si potria dir certo
d’una sola esser certo,
quant’arti, parti e rispetti Dio pose 5
in lei, co’ tanti ognor divari suoi.
Ch’ e’ non è dentro a quella,
e sé dentro a sé ignora:
onde con sua misura,
non con quella dell’esser, certo fôra, 10
se tutto s’internasse. L’uom, la stella,
l’angel, ogni fattura
diverso han senso pur d’ogni cosella.

Quantunque uno spirto purissimo imparasse tutte le cose, non saperebbe una sola, secondo nel primo della Metafisica s’è provato. Perché in quella non può internarsi, e saper quanti atomi ha, e come situati, e quali rispetti con le cose tutte, e col passato e ’l futuro. E, se pur s’internasse, men la saperebbe, poiché se stesso intra se stesso non conosce. Né con la misura dell’essere la saperebbe, ma con la sua, le più alte più bassamente, le più basse più altamente, ecc., ecc., quia recipiuntur secundum modum recipientis. E però ogni ente ha particolar modo di scienza d’ogni minuta cosa, secondo la Metafisica dell’autore.

25
Canzone terza

Madrigale 1

   Tanto senno have ogn’ente, quanto basta
serbarlo a sé, alla specie, al mondo; a cui
per tanto tempo è nato,
per quanto Dio ha ordinato
pel Fato, a cui serviamo più ch’a nui: 5
ond’altri in fior, altri in frutto, altri guasta
di noi nel materno alvo.
Come, per uso vario,
facciam pur noi dell’erbe,
cui pare ingiusto il nostro necessario; 10
così a noi, mentre s’offre or folto or calvo,
par che ragion non serbi
il fatal capo, che ’l mondo tien salvo.

Mostra ch’ogni ente ha tanto sapere, quanto basta a conservarsi per quanto tempo Dio conobbe esser utile alla spezie ed al mondo, a cui serve ogni parte; e non si può trapassare il Fato divino, a cui serviamo più che a noi. Onde, come noi mangiamo l’erbe in fiori o in frutti e quando ci piace, e questo pare ingiusto ad esse erbe, ché le uccidiamo e lor togliamo il seme e li figli; così il mondo per Fato uccide noi, o bambini o fatti uomini o vecchi, secondo il bene del tutto; e questo ci par contra ragione, che ’l Fato ci mostra la fronte calva o crinuta, secondo gli piace per util del mondo. «Fronte capillata est, post haec occasio calva»; a che allude questa rima.

Madrigale 2

   Cosa stupenda ha fatto il Senno Eterno,
ch’ogni ente, benché vil, non vuol cangiarsi
con altri; onde s’aiuta
contra ’l morir che ’l muta;
ma vorria e crede solo in sé bearsi, 5
ché ignora l’altrui ben, sape il suo interno.
O somma Sapïenza,
che di nostra ignoranza
si serve a far ciascuno
felice e lieto, e l’universo avanza. 10
Gabbia de’ matti è il mondo; e, se mai senza
di follie fosse, ognuno
s’uccideria, anelando a più eccellenza.

Dice che, se gli enti ignobili conoscessero l’esser de’ nobili, s’ucciderebbono per mutarsi in quelli, e ’l legno vorrebbe esser fuoco, e la terra, ed ogni corpo più vile. Ma, perché per segreto senso sente sé solo, ed ha il gusto del suo essere, ch’è partecipazion di divinità, non vorrebbe mai morir e pensa bearsi solo nel suo essere. E però si vede che Dio, per farci vivere contenti, si serve dell’ignoranza nostra per quanto tempo gli piace che si serbi ogni ente. Dunque il mondo è gabbia de’ matti; e, se non fosse così, ognun s’ucciderebbe per migliorare. Ma, come matti, ci tegniamo esser più che dèi. «Unicuique proprius olet crepitus» disse Plauto.

Madrigale 3

   La fabbrica del mondo e di sue parti
e delle particelle e parti loro;
le varie operazioni,
che han tutte nazïoni
degli enti nostri e del celeste coro; 5
vari riti, costumi, vite ed arti
de’ passati e presenti,
degli astri e delle piante,
de’ sassi e delle fiere;
tempi, virtuti, luoghi e forme tante; 10
le guerre e le cagion de gli elementi
noti chi vuol sapere,
ch’ e’ nulla sappia, e non con finti accenti.

Mai l’uomo non può arrivar a dire: «unum scio, quod nihil scio», con verità e non con umiltà falsa, se non quando averà saputo quanto contiene questo madrigale: perché da questo conosce che più cose assai gli restano a sapere, e che queste neanche sa, perché vede tanta la sua ignoranza d’esse, per la varietà e piccola penetrazione in loro, che s’accorge poi bene non veramente sapere. E questo è ’l sapere al quale può arrivare l’uomo perfettissimo, secondo la Metafisica dell’autore. E Socrate lo seppe. E san Paolo disse: «Qui putat se scire, nondum novit quantum oporteat illum scire».

Madrigale 4

   Spirto puro e beato solo arriva
a sì saggia ignoranza; né può farsi
puro chi non è nato
per colpa altrui o per fato.
Può di natura il don più raffinarsi 5
con gli oggetti e con l’arte educativa,
e farsi ampio e chiaro;
ma non leggier, di greve,
se di savi e di eroi
senno e forza ogn’alunno non riceve. 10
Né si trasfonde, se fiacco ed ignaro
figlio fanno; onde puoi
considerare altronde don sì caro.

Chi può arrivar a sapere che non si sa, è puro e beato di natural beatitudine. Però non si può questo sapere dalli altri, ma solo credere, perché non possono farsi lo spirto animale puro, che somministra all’anima infusa da Dio il sapere degli oggetti. Dice che l’arte e gli oggetti affinano il sapere e lo specificano, ma non lo generano, come pensò Aristotile; e questo è in Metafisica disputato. E come tutti hanno tanto senno, quanto basta ad ubbidir la legge, ch’è sapienza del comune, e però non sono scusati gli impuri. Poi mostra che la sapienza non s’impara né si trasfonde per generazione, poiché gli figli e discepoli delli sapienti ed eroi non sono tutti sapienti e valorosi. Dunque è dono divino travasato per loro.

Madrigale 5

   La purità natia dunque si tira
dall’armonia del mondo e d’ogni corda,
che vario suon disserra,
tesa in cielo ed in terra;
e chi sa ingenerarla, a lor s’accorda, 5
dove, onorato, Dio sua grazia aspira.
Oh felice soggetto,
degno di favor tale,
che Dio in lui di sé goda!
Poscia è felice chi tanto non vale, 10
se, ascoltando, s’unisce a quel perfetto.
Ma d’ogni ben si froda,
chi nato è impuro e schifa il saggio e schietto.

Assai difficile è a dire come dall’armonia del cielo e della terra e delli secondi enti co’ primi avviene la purità dello spirto sensitivo, e come si può far generazione perfetta sotto certi luoghi e stelle e tempi, secondo che l’autore scrive nella Città del Sole. E che Dio, onorato in cercar la sua grazia per ragion naturale da lui seminata, infonde il suo aiuto, ed unisce l’anima immortale a spirito puro, e fa uomini divini. E ch’egli è ottimo e purissimo, chi per sé tutto sa, e quel che non si sa intende. A questo segue in grado chi crede al purissimo, ma chi non crede al savio e puro intelletto è disutile a sé ed agli altri. Ed Esiodo disse: «Optimus ille quidem», ecc., «Proximus» ecc., «At qui nescit», ecc.
26
Introduzione ad Amore, vero Amore

   Il vero amante sempre acquista forza,
ché l’immagine amata e la bellezza
l’anima sua raddoppia; donde sprezza
ogn’alta impresa ed ogni pena ammorza. 4
Se amor donnesco tanto ne rinforza,
quanta gloria darìa, gioia e grandezza,
unita per amor, l’eterna Altezza
all’anima rinchiusa a questa scorza? 8
L’anima si farìa un’immensa spera,
che amar, saper e far tutto potrebbe
in Dio, di maraviglie sempr’altèra. 11
Ma noi siamo a noi stessi lupi e zebbe,
senza il vero Amore, luce sincera,
ch’a tanta altezza sublimar ne debbe. 14

Egli è vero che l’amante si raddoppia, perché si fa essa cosa amata, onde divien forte ad ogni alta impresa per la divinità della beltà amata a lui unita. Or, s’egli è così, molto più la beltà eterna fa l’uomo invitto, che di lei s’innamora; e però gli amici di Dio con la fede viva, amorosa traspongono i monti, trasmutan le cose, fermano il sole, come Giosuè. Ma noi siamo lupi del nostro bene, e pecore divorate dal nostro lupino amore, e privi della sincera luce d’Amor divino, che ci può deificare e farci comandare a tutte le creature.

27
Contra Cupido

   Son tremila anni omai che ’l mondo cole
un cieco Amor, c’ha la faretra e l’ale;
ch’or di più è fatto sordo, e l’altrui male,
privo di caritate, udir non vuole. 4
D’argento è ingordo e a brun vestirsi suole,
non più nudo fanciul schietto e leale,
ma vecchio astuto; e non usa aureo strale,
poiché fûr ritrovate le pistole, 8
ma carbon, solfo, vampa, truono e piombo,
che di piaghe infernali i corpi ammorba,
e sorde e losche fa l’avide menti. 11
Pur dalla squilla mia sento un rimbombo:
– Cedi, bestia impiagata, sorda ed orba,
al saggio Amor dell’anime innocenti. 14

Qui si mostra che l’Amor cieco fu deificato nel secolo rio, e che poi peggiorò nell’età nostra tenebrosa; ed ora sta per tornar al mondo il vero Amore, savio e puro, secondo che e’ predice del secolo d’oro futuro, dopo la caduta dell’Anticristo. Vedi gli Profetali. Le sottigliezze del sonetto noti un altro, ch’io solo dico il senso occulto e nuovo.

28
Canzon d’amor secondo la vera filosofia

Madrigale 1

   Udite, amanti, il mio cantar. Sempr’era
l’Amor universal, s’egli Dio spinse
a far il mondo, e non forza o bisogno.
La sua Possanza a tanta opra l’accinse,
però che dentro a sua infinita spera 5
la prima Sapïenza, ond’io ciò espogno,
previde che potea starvi l’essenza
de’ finiti enti, e disse: – Or vi ripogno. –
Ché Amor, a cui ogni essere è bontate
ch’al Senno è veritate, 10
vita alla Potestate,
l’antevista possibile esistenza
repente amò: tal ch’e’, c’ha dipendenza
dal Senno e dal Poter, la volve a loro:
ché poter e saper essi non ponno 15
quel che non vonno. Dunque insieme adoro
Possanza, Senno, Amor, Primo Ente e Donno.

Senza invocazione comincia la canzone d’Amore; e mostra che sia eterno, perch’egli spinse Dio a far il mondo. Perché quel che era possibile essere, Dio buono amò che fosse, come col Sapere avea previsto e col Potere fece. Onde conchiude che Amor nasce dal Potere e dal Sapere eternamente, e che il Potere e ’l Sapere non possono né sanno, se non vogliono: dunque pendono anch’essi d’Amore. Onde si vede che Possanza, Sapienza ed Amore sono un Primo Ente, ed in ogni ente son primalità, secondo la Metafisica. Qui ci son sensi mirabili.

Madrigale 2

   Il perfetto animal, ch’or mondo è, pria
era confusïon, quasi un grand’uovo,
in cui la Monotriade alma parente,
covando, espresse il gran sembiante nuovo.
Però Necessità, Fato, Armonia 5
influendo, il Poter, l’Amor, la Mente
sopiti sciolse a farsi, in membra tante,
natura, fabbri intrinsechi e semente.
Onde ogn’ente è perch’esser può, sa ed ama.
Non può, ignora o disama 10
chi al morir si richiama;
il che di vita in vita è gire errante,
ché la spera vital sempr’è più innante.
Ma le tre influenze abbreviâro
il saper delle parti, ond’esse, incerte 15
degli altri esseri e vite, solo amâro
la propria ed abborrîr di farsi esperte.

Mostra che ’l caos ha preceduto, almeno d’origine, se non di tempo, e che Dio Monotriade lo ridusse ad ordine e fece il mondo; e ch’influendo il Fato, l’Armonia e la Necessità, sciolse gli sopiti proprincipii partecipati, che son Possanza, Senno ed Amore, e gli fece diventare natura e fabbri e semente delle cose. E pruova ch’ogni ente sia d’essi composto, perché è in quanto può e sa e vuole essere; e se perde il potere o il sapere o ’l voler essere, subito muore o si trasmuta. E questo è passar di vita in vita; perché l’acqua, fatta fuoco, vive la vita di fuoco; e non si può andar fuori della sfera dell’essere, secondo l’autore ed Agostino, De cognitione verae vitae. E, perché il Fato, l’Armonia e Necessità abbreviâro il saper degli enti secondi, non sanno il gusto dell’altra vita ch’a lor succede, e però non amano morire e trasmutarsi mai.

Madrigale 3

   Il Primo Ente divino, uno, immortale,
tranquillo sempre, è l’infinito Bene,
proprio oggetto adeguato del su’ Amore.
Or, perché ogn’esser da quel primo viene,
è buono e lieto oggetto naturale 5
del proprio amor, talch’egli ama il Fattore,
se stesso amando, di cui è certa imago.
E però s’ama d’infinito ardore,
bramando farsi infinito ed eterno,
ché è tal l’Autor superno. 10
Quinci nasce odio interno
contra ’l morire in chi non è presago
d’esser vicin più al primo, ond’è sì vago,
ch’anzi odiar sé, che lui, può, Bene immenso.
Del Ben il senso amor spira per tutto; 15
ma alle parti mortai del male il senso,
per parzïale amor, l’odio ha produtto.

Come il Primo Essere è Sommo Bene, adeguato oggetto del proprio amore, così ogni secondo essere è adeguato ben del proprio amore; e da qui si scorge che viene dal Primo Essere, perché ama esser sempre ed infinito ogni ente, come è Dio; talché, amando sé, più ama Dio. Questo è provato in Metafisica. Mostra poscia l’odio nascer dall’amor dell’essere, che fa odiar il non essere, e solo si truova negli enti secondi particulari, che possono non essere. E ’l senso dell’essere spira amore, e ’l senso del male, ch’è ’l non essere, spira l’odio. Deus autem nihil odit quae fecit.

Madrigale 4

   Dio cosa nulla odia, ché affanno e morte
da lor non teme; ma sua vita propia,
da lor partecipata, in sé vagheggia,
tutte avendo per buone, e bench’inopia
di più sembianza sua nell’alme torte 5
si dica odiar, e’ non langue o vaneggia,
ch’indi e’ ben non mendìca, e n’ha a dovizia
per sempre dar; ma il suo Fato pareggia,
con ta’ detti odii e morti, l’Armonia
di sua gran monarchia. 10
Né ’l mondo, a chi ben spia,
odia sue parti; ma prende a letizia
lor guerre e morti, che fanno a giustizia
in altre vite, dove gli è mestiero.
Così il pan duolsi e muore, da me morso, 15
per farsi e viver sangue, e questo io chiero;
poi muore il sangue alla carne in soccorso.

Dio non odia le cose, perché l’ha fatte e non teme mal da loro. Odia solo il mancamento del bene in noi, ch’è il peccare: e questo è non ente. Ma questo odio non è con languidezza e vanità, come in noi passione afflittiva; ma con questo odio fa che i mali del mondo faccino armonia al suo regno. E pure il mondo tutto non odia le sue parti, e le cose che muoiono in esso, sono per sua vita: come il pane muore nel nostro corpo e si fa sangue, e ’l sangue muore e si fa carne; e queste morti e vite particolari servono alla vita del tutto.

Madrigale 5

Cosa mala io non truovo a Dio ed al mondo,
né téma o gelosia; ma da fiacchezza
nacquero delle parti, o dal difetto
di quel ch’a molti è gioia o sicurezza.
Una comun materia ha il spazio tondo, 5
di cui far regno amò, stanza e soggetto,
ogni attivo valor per eternarsi.
Dal che Necessità punse l’affetto
del consimile a far lo stesso, e guerra
pone il Fato, e disserra 10
l’Armonia cielo e terra.
Ecco lite d’amor per amor farsi.
Con re il re pugna, non con Davo; ed arsi
gli enti ha il fuoco, per fuoco amico farli;
e la terra vorria che fusser sui. 15
E dal non esser nasce il contrastarli;
dall’esser, amicizia, e un di dui.

Dunque conchiude che a Dio ed al mondo non ci è male; dunque, né odio, né gelosia; e dichiara l’origine di questi affetti essere la fiacchezza propria o ’l difetto del bene frale. E lo mostra nel mondo, dove il caldo e ’l freddo presero nimicizia per amore di far sua la materia, insufficiente alla loro voglia infinita; e come da tal amore nacque la lite e l’odio; e di tal odio si serve il Fato a far gli elementi ed elementati; e che non ci è guerra tra contrarî, ma tra simili, perché uno è Dio, e non fece cose contrarie, ma simili. La contrarietà nasce dal contrasto del regnare sopra la materia. Il caldo e ’l freddo son ambi attivi, incorporei. E dal non essere nasce il contrasto, ché ’l caldo non è freddo e teme esser fatto non caldo; e dall’esser qual è l’altro, l’amistà ed unità.

Madrigale 6

   Amor, che dal Valor e Senno Primo
procede e lega que’ con dolce nodo,
del Sommo Ben, ch’è l’esser suo mai sempre,
è voluntate e gaudio sopra modo
di sé a sé, sicur ben, sempre opimo. 5
Amor, infuso del mondo alle tempre,
del suo gaudio e comodo è pur desire,
che nel futuro mai non si distempre,
ond’egli perda il sembiante divino.
Ma l’amor, che ’l destino 10
fe’ alle parti meschino,
più tosto è desiderio che gioire
del proprio ben, che va sempr’ al morire.
Amor dunqu’è piacer d’immortal vita
in tutti: ma chi in sé perderla sente, 15
la cerca altronde, e ’l consiglio l’invita
a trovar via di non morir repente.

L’Amor divino, ch’è lo Spirito Santo inteso personaliter ed appropriate, e non essentialiter, è un gaudio e volontà gioiosa senza misura, a sé di sé, id est del proprio essere, che è il sommo bene di esso Primo Ente e di tutti gli altri. Perché il gioire è amor dell’obbietto unito alla potenza; il desiderio è amor dell’obbietto non posseduto. E però l’amor infuso al mondo, benché sia in parte gioire dell’esser che ha, nondimeno è pur desiderio di perpetuar quel che ha, perché non l’ha da sé, ma da Dio, a cui solo è amor gioia senza desio. Il terzo amore è delle parti mortali del mondo, e più desiderio che gioire, se bene alcun gioire del proprio essere; ma il desiderio di non perderlo lo affligge. Distinti gli tre amori, definisce amore esser, non desiderio, ma piacer di vita immortale in tutti, ed anche in Dio: ma chi non l’ha da sé, teme perderla, ed invita il consiglio a trovar via di non perderla. E questo, quando è saggio, gli dice che s’accosti a Dio immortale per immortalarsi; quando è stolto, a’ beni mortali.

Madrigale 7

   L’Inopia dunque, pregna dal Consiglio,
regenera amor fieri, ardenza e fame,
cupidigia, appetito e zel di quelle
cose ch’intraman della vita il stame.
Onde il sol mangia la terra, e di piglio 5
ella al ciel dà e vorria mangiar le stelle.
Fa di tal guerra e di lor semi il Fato
spirti, umor, pietre, animai, piante; ed elle
mangiansi l’una l’altra: ove amor fassi
gioir, mentre rifassi 10
pian pian quel che disfassi.
Ché gioia del sentirsi esser serbato
atto è; e ’l dolor, del sentirsi turbato,
cui sommo è ben la conservazïone
e sommo mal è lo distruggimento. 15
Però diciam le cose male o buone,
ch’a lor son via, cagion, mostra e fomento.

Non affermò ch’amor sia desiderio, perché questo è sua specie, com’appar nella seconda parte della sua Metafisica; ed ora dice che l’Inopia produce Amore, impregnata dal Consiglio, secondo la favola di Platone. Ma, con verità, l’Inopia non è madre d’Amore, ma la voluttà, come ivi pruovò, atteso che non [si] ama, perché non si ha, la cosa, ma perché si ha. Solo il desiderio ha per nutrice, non per madre, l’Inopia; perché non desideriamo la cosa perché non l’abbiamo, ma perché è gioiosa: e di questa Inopia non nasce Amore verace, ma bastardo, cioè la fame, la gelosia, l’avarizia. E mostra questi affetti tra gli elementi, onde nasce la guerra; e della guerra si serve il Fato a far gli enti secondi. Li quali pur si mangiano l’un l’altro, come gli elementi; e, nel rifacimento dell’essere, si ritrova amor esser gioire. E diffinisce che cosa è gioire o voluttà, e che cosa è dolore, e qual è il sommo bene e ’l sommo male, e che le altre cose si dicono buone o male rispetto a quelli, per analogia.

Madrigale 8

   Del nemico la fuga, o la vittoria,
e del cibo il restauro non bastando
ad eternar, il Senno amante, visto
che ’l sol produce, la terra impregnando,
tante sembianze, revocò a memoria 5
l’arte divina, e ’l mortal sesso misto
partìo in due, che sembra terra e sole,
servendosi del caso; ond’ha provvisto
che, d’essi uniti, Amor, per be’ lambicchi,
virtù vital dispicchi, 10
chi d’esser gli fa ricchi,
morendo in sé, nella futura prole,
per questo amata più ch’amante; e suole
qui Amor, vòlto in gioir, scordarsi il Senno,
come fan gli altri dell’Inopia figli, 15
seguendola in più e meno: onde vizi enno,
come virtuti son presso a’ consigli.

Con stupendo artificio dichiara come l’eternità, oggetto d’Amore, non si potendo tra mortali aver dalla vittoria o fuga del contrario, né dal ristoro del cibo (perché, se non si muore per quello, si muore per questo, ché ’l cibo, mentre si trasostanzia in noi, ci diminuisce, con la reazione, la natura; e, se pur questo non fosse, è necessario che si rompa qualche vaso, a lungo andare, e si muoia, secondo che Galeno dice, benché di contrarî non fossimo composti): per questo la natural Sapienza divise l’animale in maschio e femmina, servendosi del caso (ché la femmina a caso nasce, intendendo sempre la natura fare il più perfetto, ch’è il maschio), mirando all’arte divina, che nel mondo pose cielo e terra, maschio e femmina. E così mostra come, per lambicciuoli de’ vasi genitali, natura trasmanda il seme dall’uno all’altro, che poi si fa un simile a’ generanti, e gli rende immortali per successione della prole, la quale per tal causa è più amata ch’amante; ed amor discende e non ascende. Poi mostra come Amor, sentendo la gioia della conservazione nell’atto venereo, si scorda del Senno, onde nacque; come fan gli altri figli dell’Inopia, che sono l’avarizia, ambizione, fame, che per poco senno sono vizi, e col senno sono virtuti.

Madrigale 9

   Però, dovunque Amor del suo ben scorge
segnale alcun, che Bellezza appelliamo,
pria che lasci pensar s’ivi s’asconda
il ben che ’l serva, accorre; e qui pecchiamo,
ché fuor di tempo e luogo, o più o men porge 5
l’idea vitale, o in terra non feconda;
dove pur, preparata al gran fin, gioia
sentendo, in più error grande si profonda,
ch’ella d’Amor sia oggetto e fin sovrano,
non saggio e ésca e mezzano 10
del viver sempre. Ah insano
pensier, che ogni viltà produce e noia!
Né cieca legge smorza tanta foia,
ma il gran Saper, d’Amor viste ir l’antenne
al non morir: il che fra noi mancando, 15
all’alto volo gli veste le penne
d’eternità, ch’andiam quaggiù cercando.

Come Amor, seguendo la bellezza, segnale del bene che ci conserva, senza far giudicio del male in quello nascosto tra ’l bene caduco, corre a quello; e qui si pecca, perché si getta il seme fuor di tempo, o di luogo, o del vaso in cui si fa la generazione. E, perché si sente pur gioia, che la Natura prepose a questo atto per ésca, viene a cader in error più grande, perché stima esser fin d’Amore la bellezza, la quale è mezzo, saggio ed ésca al vero fine, che è il bene della conservazione. Né può la legge umana dissuadergli questo gusto vano senza frutto di prole, che ci immortala. Ma il Senno, vedendo che Amor tende all’immortalità, ci china l’ale poi per arrivar ad eternarsi in un altro modo e con verità, la quale in queste ombre del viver per successione noi andiamo cercando.

Madrigale 10

   Visto gli eroi e filosofi più pruove
che ’l cibo e ’l generar fallano spesso,
e ’l figlio tralignante perdé al padre,
invece di servar, l’esser commesso,
punti d’Amor divin (cui par che giove 5
più propagar le cose più leggiadre),
sprezzâr la parte per lo tutto; e ’l seme,
pria in tutti gli enti la Bontà lor madre
mirando, amando han sparso e la sembianza
di lor senno e possanza, 10
di Dio ampliati ad usanza,
in tutto almen l’uman genere insieme,
in detti, in fatti ed opre alte e supreme.
E preser l’alme belle ad impregnare
di lor virtù, che trae di vaso in vaso 15
lor vita, ma pur manca a lungo andare,
ché solo Dio resiste ad ogni caso.

Dice che, vedendosi mancar la conservazione in sé o ne’ figli, perché tralignano o non gli potemo avere, gli filosofi e gli eroi si consultâro ad eternarsi in fama, e fecero gesti eroici e beneficii immortali al mondo, scrivendo, dicendo ed operando cose grandi. Talché lasciâro la sembianza loro, non ne’ figli, ma nelle memorie, e l’amplificâro per tutto il genere umano, e pigliâro figli di virtù, e non di carne, ad allevare ed amare; li quali eternano la lor sembianza e nome. Ma pur questo modo d’eternità manca, poiché Pitagora e tanti filosofi ed eroi non hanno più vivo il nome, ché si perderono i libri e statue loro. Dunque, solo Dio resiste a tutti casi, che non ha composizione d’essere e non essere, come gli secondi enti, secondo la Metafisica dell’autore dichiara.

Madrigale 11

   Te Amor, sfera infinita, alma e benigna,
che ’n ciel di copia, in noi d’inopia hai centro,
circondato dal cerchio sensitivo,
onde chi sente più, più ama e gode,
io, che son teco a tutte cose dentro, 5
canto, laudo e descrivo.
Per te si abbraccia il van le cose sode,
e le virtù la mole, onde consiste
dell’universo l’ordine, distinto
per te di stelle e d’uomini dipinto. 10
Per te si gira il sol, la terra piglia
vigor, onde poi tante cose figlia.
Per te contra la morte si resiste
e contra il mal, che tanto ci scompiglia.
Tu autor di gentilezza, 15
distruttor di fierezza;
da te son le repubbliche e gli regni
e l’amicizia, ch’è un amor perfetto
che contra il male accomuna ogni bene.
Tu se’ d’eternità frate alla spene, 20
soprabbondanza di eterno diletto.
Tu vinci la Possanza e l’Intelletto.

In questa mirabile conclusione lauda Amore: lo chiama sfera immensa, che in cielo ha il centro di copia, in terra d’inopia; e con tutto ciò ella è circondata dalla sfera della Sapienza, perché dove ci è più sapere, ci è più amore; più aman le piante che le pietre, più di quelle gli animali, più di questi l’uomo. Poi dice come Amor fa che il vacuo tiri a sé gli corpi, e la materia le virtù agenti; che per lui fu distinto il mondo, e per lui nasce ogni cosa, e si fugge la mortalità e ’l male; ch’egli unisce le repubbliche, e’ regni e l’amicizia, la quale è un perfetto amore, che accomuna gli beni tutti, per conservar gli amici insieme contra il male; ch’è quasi fratello della speranza, la quale è spirata dalla Voluttà eterna; che vince la Possanza e ’l Sapere. Qui ci vuol la Metafisica.

29
Della bellezza, segnal del bene,
oggetto d’amore

Canzone

Madrigale 1

   L’Amor essenzïal, cui son radici
Senno e Valor nativi, donde in terzo
s’integra ogni esser, si conserva e chiama
bontà, verità e vita: a grande scherzo,
in voglie accidental, diffonditrici 5
dell’essere, come arbor, si dirama,
o perché in sé l’ha a perdere, o per mostra
di suo’ beni a bear altri chi s’ama.
Talché un Cupido in Ciel di Copia nasce
gioiendo; e con ambasce 10
qui d’Inopia un, che pasce
pur letizia di vincere la giostra
contra il morire in questa bassa chiostra.
Or fra le cose ancor, che tutte buone
a sé, al mondo e a Dio, perché salute 15
sono all’altre o fatal destruzïone,
puose un gran segno la Prima Virtute.

Amor essenziale è quello col quale ogni ente ama se stesso, e nasce dal potere e sapere l’esser proprio. E questo amor si divide quasi in rami di amor accidentale, ch’è quello col quale amiamo le altre cose, perché amiamo noi stessi. Queste voglie di diffondersi in altro sono, perché muoiamo in noi e cerchiamo vivere in figli o in fama, o perché cerchiamo a far bene ad altrui. E Dio si diffonde solo per bene nostro in noi, ché non può ricever bene, ma darne solo. Però dall’Amor essenziale nasce Cupido in Cielo, di Abbondanza, che dona ad altrui bene; ed uno in terra, d’Inopia, che cerca ricever beneficio ed immortalità, onde per questo ci dà gioia. E, perché tutte le cose son buone ad altri, ad altri male, benché a sé ed a Dio ed al mondo tutte son buone, Dio, per farci conoscer qual cosa ci è buona, ci pose il segnale, ch’è la bellezza; e, per conoscere il male, puose per segnale la bruttezza.

Madrigale 2

   Bellezza dunque è l’evidente segno
del bene, o proprio all’ente in cui risiede,
o di ben ch’indi può avvenire a cui
par bello, o d’ambi; e d’altri può far fede.
Ecco, la luce del celeste regno, 5
beltà semplice e viva, mostra a nui
gran valor, che ci avviva e giova a tanti:
sol brutta all’ombra, bel degli enti bui.
Di serpi e draghi il fischio e la bravura
e la varia pittura 10
a noi ci fan paura,
gli rendon brutti, e tra lor belli e santi.
L’umiltà di cavalli e di elefanti,
segnal di servitù e di poco ardire,
fa brutta a loro, ma a noi bella vista 15
del poter nostro e ben di lor servire.
L’altrui virtù al tiranno è brutta e trista.

Che bellezza sia segno del bene che sta dentro il bello, o del bene ch’ad altri può recare, o di tutta e due, come quella della luce; o del bene strano, come la ferita è segno del valor del feritore. E però questa bellezza non è se non rispettiva, come le serpi sono belle alle serpi, a noi brutte; e gli cavalli mansueti a sé fanno male, perché si rendono nostri schiavi, ed a loro debbono esser brutti, ma a noi belli per lo bene ed utile, che ne caviamo, e perché conoschiamo il nostro valor sopra loro. E così al tiranno par brutta la virtù altrui, in quanto è segno della propria rovina; ché gli virtuosi s’oppongono a loro, non gli viziosi; ma questi lor paion belli, perché gli conservano in dominio. Sol brutta all’ombra: la luce par bella a’ nostri spiriti, che sono di natura lucidi, ma alla terra par brutta ed alle tenebre, le quali sono bellezza alla terra ed alle cose buie, cioè oscure.

Madrigale 3

   Bella ogni cosa è dove serve e quando,
e brutta dov’è inutile o mal serve,
e più s’annoia; e pur l’altrui bruttezze
bello è vedere, e guerra in mar che ferve,
perché tua sorte o virtù vai notando, 5
impàri a spese altrui mire prodezze.
Brutto è, s’augura a noi male o rimembra,
vedere infermi, povertà ed asprezze.
Il bianco, che del nero è ognor più bello,
più brutto è nel capello, 10
ché addita testé avello;
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
note d’ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarìan laide. E negli occhi il color giallo, 15
di morbo indicio, è brutto; e bel nell’auro,
ch’ivi dinota finezza e non fallo.

Mostra le maniere della bellezza in tutte cose per sé o per altri; e come ella stessa è brutta o bella, secondo è segno di bene o di male, a chi però è segno: onde veder guerre in terra e naufragi in mare è bello, perché rappresenta il mal di cui noi siamo esenti; e non aver male è bene; e pur mostra la virtù di travaglianti, ed a noi la nostra fortuna buona. Onde [a] veder gli mali de’ nemici ci paion belli più; e quel che ci ricorda il nostro male è brutto, come il veder infermità, povertà, ecc. La bianchezza è bella per sé; ma perché ci ricorda ne’ capegli la vecchiaia e la morte, è brutta; ma non, se ci mostra la prudenza del vecchio. Però le brutte membra di Socrate e di filosofi paion belle a chi considera quelle come segnali di stravagante ingegno; ed in una ninfa sarebbono brutte. Così il colore giallo nell’oro è bello e nell’occhio è brutto, perché qui morbo, là finezza dinota.

Madrigale 4

   S’ella nota ogni ben, strano o natìo,
e prìncipi son Senno, Amor e Forza,
giocondi sempre ed utili ed onesti,
cui le virtù son figlie e gli altri scorza;
chi più senno, alta possa ed amor pio 5
mostra, è beltà più illustre: ond’i gran gesti,
spontanee morti e cortesie d’eroi
paion sì belli, e mai non son infesti.
Di savi le dottrine, leggi e carmi
(ond’io posso eternarmi 10
e l’altrui glorie e l’armi,
e far gli altri prudenti a viver poi)
son le più ampie bellezze fra noi.
Bello è la nave o il cavalier armato
veder, in cui più forze addoppia l’arte; 15
ma più Archimede saggio opporsi al fato,
franger le navi, e trasvolar, di Marte.

Qua mostra qual è maggior o minor bellezza, perché gli principali beni sono la Possanza, la Sapienza e l’Amore: quelli segnali che più additano questi beni, più bellezza sono. E nota che questi tre primi beni sono utili ed onesti e piacevoli insieme; e le virtù sono figlie loro, perché alla integrità della virtù si ricerca il potere, il sapere e ’l volere in farsi e bene operare, secondo la nostra filosofia. Dà, per esempio di bontà d’Amore, gli atti cortesi; di Possanza, gli atti eroici; di Sapienza, le dottrine de’ savi; e par che nell’esempio d’Archimede, che fece tanto col senno, anteponga il senno alla forza, con Salomone, perch’egli guida la forza. Ed in Metafisica dice che dalla Possanza nasce il Senno, e d’ambidue Amore, e che sono tutti insieme. La disputa è lunga: colà si vegga. Nota che gli altri beni sono scorza ed apparenza delli tre beni primi, non figli.

Madrigale 5

   L’Arte divina negli enti rinchiusa,
che Natura appelliam, gli esempi prende
da Dio per farli; e la nostra da lei.
Però il soggetto brutti o bei non rende
nostri artificii; lo imitar gli accusa. 5
Così degli aurei li marmorei dèi
più bei puon dirsi, arte maggior mostrando,
e più Tersite in scena che gli Atrei.
E di Dante l’inferno più bel pare,
ch’e’ più ’l seppe imitare, 10
che ’l paradiso. E care
voci e sensi traslati enno, ampliando
l’ingegno e ’l ben incognito illustrando;
se no, fien vane, o bei drappi in Gabrina,
che segnalano il mal del bene in loco, 15
e fan bruttezza doppia tanto fina,
quanto il papato a chi deve esser cuoco.

Mostra qua la bellezza artificiale non consistere nello soggetto materiale, ma nell’imitazione; la quale è arte figlia della Natura, donde piglia le idee, come la Natura da Dio: ed eccellente in arte è chi meglio imita. Però più bella è una statua di marmo scolpita da saggio scultore che una d’oro da goffo scultore, perché è segnale di più arte. E l’arte è il ben che ci conserva; è Tersite buffone, in scena bene imitato, più bello d’Agamennone re, mal imitato; e l’inferno di Dante è più bel del suo paradiso. Poi dichiara perché le voci e gli sensi traslatati, che sono le metafore e le favole de’ poeti, paion begli; e dice che sono begli, perché amplificano il sapere dire una cosa in più modi, e perché manifestano con la similitudine la cosa ignota; la quale, in quanto saputa, è ben dell’intelletto, benché in sé ria. E quando non amplificano né dichiarano, sono brutti gli traslatati, come gli drappi di Gabrina vecchia dell’Ariosto, vestita di vesti belle; ed è come il papato in chi deve essere cuoco, dove fa bruttezza doppia: ché mostra mal governo e mal’elezione, e di due bande ignoranza, rovina, ecc.

Madrigale 6

   Or, se beltade è di bontà apparenza,
sarà oggetto a quei sensi sol, che lungi
scorgono, come all’occhio ed all’udito,
cui la ragione e i sensi interni aggiungi.
Ma del gusto e del tatto alla potenza, 5
e d’ogni senso, in quanto è [a] tatto unito,
il bello è bene, e se, com’ella aspira,
Sofia s’accoppia al Senno suo marito.
Così beltà di ninfa, al vago in atto
d’amor ristretta affatto, 10
di dì o di notte fatto,
passa in giocondo ben. Donde ella aspira
bontà fruisce Amor, bellezza ammira.
Bell’è la melodia, ma, quando s’ode
dentro al mobile spirto, si fa dolce, 15
se quel moto amplia, ond’ e’ vive e gode;
ma il strano offende, e lo sbatte, e non molce.

Dichiara che, sendo beltà un segnale del bene, non si può dire bella una cosa, se non rispetto a chi di lontano la sente per mezzo di quel segnale. Però all’udito ed alla vista, che di lungi sentono, il bello è oggetto; e così all’intelletto e sensi interiori, che di fuori hanno l’oggetto. Ma a’ sensi che hanno l’oggetto a sé unito, il bello non è bello, né si dice «bello», ma «buono», «dilettevole». Questo si pruova per esempio di tanti che sentono gran diletto quando contemplano, e ’l Verbo divino si congiunge a lor Sofia, che è il senso interno umano; e san Bernardo nella Cantica dice di sé molte sperienze, e l’autor in Metafisica di sé. Poi porta l’esempio d’amor volgare, che, unendo la donna amata all’amante in atto venereo, si dice «buona e dilettosa», non «bella». Poi lo mostra nella melodia, che di fuori è bella, e dentro l’orecchio si dice «soave», perché muove lo spirito, lo purga ed amplifica, e l’invita al moto, sua operazion vitale; ed, al contrario, il sòno stridente o grosso lo divide per punta e lacera, o lo sbatte al concavo del cerebro, e si dice «malo», e di fuori «brutto». E tutto questo madrigale consiste in quel verso: bontà fruisce Amor, bellezza ammira.

Madrigale 7

   D’ogni ben che conserva in qualche foggia
l’essere in sé, ne’ figli o nella fama,
beltà il segno si dice: ma la forma
per più propria beltà si pregia ed ama,
perché la virtù scuopre, ch’intra alloggia, 5
come la mole agli usi suoi conforma,
l’avviva e tempra con arte e possanza.
Ma, se mal serve all’uso di chi informa,
come goffo giubbon fa laido volto,
segnal d’ingegno stolto, 10
o di poter non molto,
chi non poté o non seppe ben sua stanza
formar; onde è di vita rea speranza.
Ma, s’ella è brutta fuori e bella dentro,
come in Esopo, industria asconde e vita. 15
Peggio è, se è bello il cerchio e brutto il centro;
pessima è, quando è d’ambi mal fornita.

Dichiara che, quantunque sia beltà segno d’ogni bene che ci conserva o in noi o ne’ figli o nella fama o nella conservazione d’altri, nulladimeno la forma esteriore si conosce tra gli uomini volgari per beltà più propriamente, parlando secundum nos, non secundum naturam. E rende la causa: perché la forma ci dà avviso della virtù nativa che fabbricò il corpo e lo avviva, se lo seppe e puoté far buono al suo uso. Ma, se non serve bene all’uso, cioè se avesse una gamba grossa che non può camminare, un naso torto che non piglia gli odori di ritorno, un occhio che sia impannato ecc., pare il volto laido e brutto; come un giubbon che non sta bene addosso di chi lo porta. Talché dà segno che dentro quel corpo ci sia poca arte e possanza a fabbricarlo ed usarlo; dunque, poca vita e conservazione. Ma, quando di fuori è brutto e dentro è ben formato il corpo, nasconde virtù buona e non la scuopre, come una casa di fuori mal fabbricata e dentro ben ornata: tal fu Esopo e Socrate. Ma peggio è, se di fuori è bello e dentro mal formato, come Nerone; pessimo, se dentro e fuori è mal formato, come Zoilo, perché addita nullo bene del formatore.

Madrigale 8

   Beltà composta ne’ corpi ricerca
procerità e di membri simmetria,
gagliarda agilitate e color vivi,
di moti e gesti a tempo leggiadria.
Più i maschi che le femmine Dio merca 5
con ta’ segni, onde son più belli e divi;
però più amati, e quelle amanti piue.
Dunque nani, egri, tronchi e goffi, privi
son parte di bellezza, e vecchi e smorti,
grossi, deboli e storti, 10
e pigri, male accorti.
Se brutto in nulla alcuno al mondo fue,
tenner tutte virtù le celle sue.
Pur ogni bello è fior di qualche bene,
e d’alcun bello è fior la venustate. 15
Di tutti quello e questa a mentir viene,
ché sta in note all’altrui gusto formate.

Qui dichiara quante parti e misture e condizioni ricerca la beltà corporale, della quale di sopra parlò. Nota che tutti gli membri e colori ben posti non fan bello un nano, perché la piccolezza dinota mancanza di potere. Né pur le donne, che son pigre al moto, perché dinota fiacchezza. Né si ha sconcertati gli gesti, che denota spirito ignaro a muover le sue strumenta; et sic de caeteris. Qua si vede che più segnali di bene hanno i maschi, cioè sono più begli, perché hanno note di valore e senno più che le femmine; e però più sono amati, che non aman quelle. Nota quella sentenza: che, se un uomo dentro e fuori è tutto ben formato, senza nulla bruttezza, è ottimo e dotato di tutte virtù naturalmente. Questa total bellezza vogliono che sia stata in giesù, Dio incarnato, ed in Adamo, fatto della man di Dio. Poi dice che la beltà in ogni modo, o tutta o parziale, è segno di qualche bene, e la venustà, ovvero graziosità, è segno di qualche bello; ma né anche beltà di tutti beni, né venustà d’ogni bello, perché spesso sono testimoni falsi. Finalmente dichiara che la venustà consiste in certi segni ed atti formati al gusto solo di quel che par grazioso, e non di tutti; perché quello è atto ad infarsi bene di tal atto, e non gli altri.

Madrigale 9

   Giovane bella, sugosa e valente
promette lunga vita, e nutrimento
al seme, ed a noi gioia, onde può tanto.
Se poi non truovi sì dolce il contento,
com’ella addita, par brutta repente; 5
e se fraude, fierezza e stranio ammanto
l’infetta sì, che più nuoce che giuova,
par brutta come un simulato santo.
Ricchezze e onor, di virtù testimoni,
son be’, ma più i demòni, 10
che que’ dati a’ non buoni,
ché di commun rovina son gran pruova.
Bello è il mentir, se a far gran ben si truova.
Or, s’ogni cosa in noi può, al mal soggetti,
bella in qualch’uso farsi, a Dio ed al mondo, 15
dove ha infiniti ognuna usi e rispetti,
quanto fien belle, e più l’Autor giocondo!

Dice che può tanto innamorarci la bella donna sugosa e valente, perché ci dà segno di vita in sé molta, ed a noi di poterci servare e nutrire il seme, in cui viviamo, morendo in noi; e di darci gusto in atto venereo, oltre ch’addita il senno e virtù del Creatore in ben formarla. E poi scuopre la bellezza essere segnale; perché, se truovi poi la donna bella essere scostumata, o rognosa dentro, o con lisci falsi imbellettata, o senza quel gusto che speravi, subito ti par brutta, come Tamar ad Ammone. Gli onori e ricchezze paion belli a tutti; ma, quando sono in man di scelerati, paion brutti, perché sono segno di poter rovinare sé, noi e la repubblica. Pur la menzogna, detta a tempo di far gran bene, par bella, come fu quella d’Ulisse a Polifemo e di Sifra e Puha a Faraone. Quindi conchiude ch’a Dio ed all’universo ogni cosa è bella, perché sempre serve a qualche uso, avendo poi detto che, sendo buona a qualche uso, ogni cosa par bella in quello, come il cacare è bello all’infermo, quando per quello sa ch’ e’ ha da risanare ecc. Dunque, avendo ogni cosa usi infiniti nel mondo, è bellissimo il mondo in tutto e per tutto, e più il suo Fattore, che conosce questi segnali.

Madrigale 10

   Guerre, ignoranze, tirannie ed inganni,
mortalità, omicidii, aborti e guai
son begli al mondo, come a noi la caccia,
giuochi di gladiatori e pazzi gai;
arbor uccider per far fuoco e scanni, 5
uova e polli, onde il corpo si rifaccia;
far vigne, selve ed api, e tôr lor frutti,
reti, qual ragno che le mosche allaccia;
finger tragedia, se in vita anch’allegra,
passando ogni morte egra, 10
più parti al mondo allegra.
Ma più bello è che paian mali e brutti;
se non, in caos torneremmo tutti.
Alfin questa è comedia universale;
e chi filosofando a Dio s’unisce, 15
vede con lui ch’ogni bruttezza e male
maschere belle son, ride e gioisce.

Mirabil dottrina contra Epicurei, che ogni cosa al mondo sia bella e buona, ma solo alla parte paia brutta. E che gli mali sono buoni al tutto; come a noi la caccia, ch’è rovina delle belve, pur par bella; e ’l tagliar legni e mangiar gli animali e tôrre il frutto agli arbori ed all’api: e questo par brutto a loro, ma a noi bello, perché così ci conserviamo. E ne dona molti esempi; e dice ch’al mondo tante morti e mali respettivi sono, e servono alla vita del tutto; e sono come una tragedia finta ch’ a noi par bella, secondo si dirà nella Canzone del dispregio della morte. E che non solo è bello al mondo il brutto, ma più bello è ch’una cosa paia brutta all’altra; altrimenti niuna contrasterebbe all’altra, cesserebbe l’azione e la generazione, e tornerebbe il mondo in caos. Poi insegna che questi mutamenti del mondo sono atti di comedia divina. E che gli mali e le bruttezze sono maschere belle; e che ciò conosce chi s’unisce a Dio, e con lui le mira, e ride della comedia. Qui ci è gran sale e consiglio.

Madrigale 11

   Canzon, se volontario ogn’ente onora
bellezza per natura e non per legge,
di’ ch’ella sia di quel, che ’l tutto regge,
trasparente splendor, ch’ogni bontate
derivamento è di Divinitate, 5
che bea col bene e col bello innamora.
Ond’eretica invidia e stolta accora
gli sprezzator di quella,
ch’al gran Dio ne rappella
da’ morti ed a man fatti simolacri, 10
mostrando in tutte cose
di Dio immaggini vive e tempii sacri,
quanto Senno e Possanza in farle puose.

Dice nella fine di questa canzone, che la beltà s’ama sponte, e non per legge data dalla repubblica, ma naturale. Onde si vede che sia cosa divina e splendor di Dio per sé amabile, perché la bontà, di cui ella è segno, è un derivamento o partecipamento di Divinitate; la quale col bene ci fa beati e col bello ci fa innamorare di sé. E che sia eretica invidia quella che sorge contra beltà, poich’ella ci richiama al fattor Dio, e da’ simolacri vani e morti de’ libri umani e scuole e ricchezze umane ci ritira a possanza di Dio, che puose in far le creature sue; le quali sono immagini, vestigi e tempii vivi del Fattore a chi ben stima. Cantò Petrarca una cosa tale, ma assai più bassamente che l’autor nostro.

30
Canzon del sommo bene, oggetto d’amor naturale

Madrigale 1

   Ogni cosa si dice bella o brutta
in quanto bene o male rappresenta.
Ogni cosa si dice mala o buona
in quanto causa, dispone o fomenta
immortal vita o morte, in parte o tutta. 5
Ché sommo bene o sommo mal consona:
quello oggetto final di tutti amori,
e questo tutti gli odii muove e sprona.
Ogni altro bello e ben or s’ama e prezza,
ed or s’odia e disprezza, 10
e par malia e bruttezza
o al medesmo o a diversi amatori,
ch’al ben sommo ora spine ed or son fiori;
che a nullo ente unqua annoia e sempre rape
tutti, ch’è per sé buono sempre e solo. 15
Quanto s’opra, si può, s’ama e si sape,
s’indrizza a lui, sì come fuoco al polo.

Perch’il sommo bene è la conservazione immortale, e ’l sommo male la destruzione, le altre cose si dicon buone o male in quanto dispongono, o causano, o fomentano la vita o la morte; e belle o brutte in quanto sono segnali di bene o di male. E però ogni cosa par buona o mala, bella o brutta al medesimo o a diversi, secondo che reca o mostra bene o male. Ma la vita immortale a nullo par brutta, né mala mai; e quanto operiamo, sappiamo o possiamo o vogliamo, ci indrizziamo a tal sommo bene, com’ogni fuoco va al sole ecc. Ma in Dio solo si truova per sé vita immortale; però egli è il sommo ben di tutti gli enti.

Madrigale 2

   Cercar il cibo e prepararlo al ventre,
Palla seguire e Venere in gran pena,
e la propria sostanza in lei deporre;
città abitar, che tanti gusti affrena;
pugnar per lei, e ben far ad altri; mentre 5
sommo ben non movesse il senno a tôrre
tante briglie, vorria prenderle nullo.
Ma il viver sempre, ch’indi viensi a côrre,
in sé o nella fama o nelli figli,
dolzor diede a’ perigli 10
ed agli agi scompigli.
Così noi or la sferza, or il trastullo,
perch’egli impari, usiamo col fanciullo.
Palla dunque non ha, Venere o Bacco
gioie per sé, ma a questo fin più altero: 15
onde attuffan, s’è vòto o colmo il sacco;
e spesso è lor preposto il dolor fiero.

Mostra che la vita sia il sommo bene, poiché lo studio delle scienze, ch’è Pallade, e di Venere, ch’è il far figli, e di viver nella repubblica, e pugnar e morir per quella, son per tal fine di viver sempre in sé o ne’ figli o nella fama: ciò che fa gli pericoli gioiosi e gli spassi odiosi in quanto quegli servano e questi strugghino. E che il sommo bene ci guida a sé con tali gioie e dolori, come noi il fanciullo con le carezze e con la sferza. E che la sapienza non è sommo bene, né la voluttà, come pensò Aristotele ed Epicuro; perché questi sono ordinati al sommo bene e lo seguono. Onde Venere e Palla ci attuffano o addolorano, e ’l dolore è anteposto alla voluttà che ci corrompe; ma la
vita mai ci dà altro che gioia, se ben può senza quella essere vita.

Madrigale 3

   Se, di vivere in scambio, alcun s’uccide,
se stesso o i figli o l’opre sue famose,
lo fa per migliorar di vita, essendo
il viver nostro e delle nostre cose
morir continovo, che mai non side 5
senza mutarsi, o mancando o crescendo;
ed ogni mutamento è qualche morte,
uno stato acquistando, altro perdendo
d’atto, o di quale, o di quanto, o di essenza.
E se con vïolenza 10
si fa, reca doglienza;
e gioia, fatto con natural sorte.
Quel che fu o sarà a ciascun par forte
e l’esser sol presente è certo e piace;
e se repente a forza il muta, duolsi, 15
sì che il morir comun manco gli spiace
che ’l proprio; ch’è ’l mutar, com’io raccolsi.

Risponde all’obbiezione, che si può fare contra la vita posta per sommo bene, poiché molti uccidono sé o i figli, come Catone e Bruto, o l’opere famose in chi s’immortalano, come Virgilio comandò che la sua Eneida fosse bruciata. Rispondendo, dice che la vita nostra sempre si muta. E ch’ogni mutamento è qualche morte o d’essenza, o di qualità, o d’atto; e, se si fa con violenza, reca dolore; se con modo, allegria. E che par male il passato o il futuro essere, donde o a che ci abbiamo a mutare; ma il presente piace, perché è certo. E però par morte una mutanza grave; e si fugge più che la morte, ch’è la mutanza a tutti comune. E nel seguente madrigale dichiara questo per esempi.

Madrigale 4

   La servitute all’animo gentile
morte propria è, che d’uom lo cangia in bruto,
e i suoi studi ed azioni in pecorine.
E per men mal Caton s’ammazza; e Bruto
moria ne’ figli tralignanti, vile 5
fatto il suo gran sembiante; onde lor fine
diè, qual Marone al suo libro dar volle
pieno d’error, di sua fama rovine.
Viver per fama infame è vita amara,
morte all’alma preclara, 10
che sprezzando ripara
più vera vita in gloria. Ove il Nil bolle
s’uccise un elefante, e Neron molle,
e di Siam le donne non volenti
sopravivere al vago. A tai più propia 15
par morte mutar stato che elementi.
Pensa altri in fama o in ciel vivere a copia.

Pruova quel che disse con esempi di quegli che s’uccisero per non viver vita ch’all’esser loro parea morte; e di chi uccise gli figli, perché la vita sua, in quelli sendo a lui dissimile, era morte; e di chi l’opere sue, stimandole erronee, volle estinguere per non morire infame. Quindi si vede che l’autor crede Virgilio aver fatto molti errori nella Eneida e che sperava ammendarli; e nella Poëtica esso gli nota. E come la fama infame è simile alla vita vile e servile. Poi adduce esempi di quelli che s’uccidono, perché credono esser più morte il viver senza quel ben che posseggono, che morire; o perché si credono eternarsi in fama o in Dio, e perch’amore nasce dal sapere, secondo che l’uomo sa, vuole ed opra.

Madrigale 5

   Ma nullo annicchilarsi unquanche intese,
se non alcuni stolti di Narsinga,
che solo in «niba» credono posarse
senza affanni. Sentenza che lusinga
chi sommo mal la doglia esser contese, 5
che a noi guardiana della vita apparse,
e di Natura medicina e sferza.
Così, se non si mangia per gustarse,
né Venere per sé Natura fece,
ma per servar la spece, 10
a noi stimar non lece
la voluttà Bontà prima, ma terza,
che segue all’esser bene; e pria anche scherza
con tal presagio il Ben dell’universo,
perch’ogni ente si serbi a lui e propaghi. 15
Nel che, non d’arte errante, al buio immerso,
ma di Natura ogni senso n’appaghi.

Dice che, se ben molti scelsero la morte come manco male, la scelsero come mutazion di vita, ma non come annicchilazione; se bene alcuni dell’Indie Orientali credono che l’annicchilazione sia l’ultima felicità, perché in quella sola pensano non trovarsi male. E questi non sanno quel che sia l’annicchilazione, e l’apprendono come mancanza solo di male, secondo in Metafisica disputa l’Autore. Poi dice che non sarà per questo il sommo male il dolore, come alcuni Epicurei stimano; ma è guardiano della vita, perché, se non ci dolessimo, ci lasceremmo uccider da ogni cosa.
   nota: Poi pruova che la voluttà non è Sommo Bene, poiché non si mangia per quella; né si usa il coito per quella, ma per servar la spezie. Ed è ’l terzo, perché prima è il bello, poi il buono, poi il giocondo, benché suole esser primo quando ci adesca a cercar il bene essa voluttà. E questo fa il Ben Sommo del mondo, perché tira le cose alla cura del conservarsi, quanto a lui è mestiero (cioè al mondo), con la sferza del gusto e del disgusto. E ciò mostra la Natura, e non il senso nostro, che solo al gusto attende.

Madrigale 6

   Ricchezze, sangue, onor, figli e vassalli
per ben dà il Fato; e pur rovina a molti
son al nome, alla patria ed al composto;
e fan gli animi ansiosi, vili e stolti.
Del corpo i ben, che ’l ciel per meglio dàlli, 5
sanità, robustezza e beltà, tosto
si perdon anche, o perdon chi l’abusa,
quando il ben grande al piccolo è posposto.
Fra tutti beni le virtù dell’alma
ottengono la palma; 10
onde in corso ed in calma
regge gli altri, e di mal mai non si accusa.
D’esser virtute ogni potenza è esclusa
senza il senno, di lor guida e misura;
né il suo senno tien l’ente che ha l’idea, 15
specifica bontà, in più e manco impura;
onde è a sé malo e strutto, e non si bea.

Propone che gli beni di fortuna spesso sono mali, e struggono invece di conservare; ma quegli del corpo sono migliori, ma pure sono soggetti all’abuso. Quegli dell’anima sono ottimi, ché reggon gli altri e non sono soggetti ad abuso. Poi dice che la virtù non solo è facoltà, ma senno insieme; ed altrove dice senno ed amore, perché far bene senza volerlo fare, non è atto di virtù. Poi dice: quello ente che ha la natura impura, più o men della sua idea declinante, non ha il suo senno vero, e per sé è strutto ed inetto a conservarsi bene; il che chiama «bearsi». Ed altrove disse, che col senso della legge si bea chi ha il suo impuro.

Madrigale 7

   Il ben ch’all’altrui vivere s’applica,
in sé o ne’ discendenti, utile è detto
dall’uso; e dall’onore in fama, onesto.
D’essi appresi esce l’allegria, il diletto,
il ricco danno, e dolce la fatica. 5
S’alcun atto è nocivo e disonesto
e par giocondo, avvien ch’ivi fu misto
più ben con male; e quel nasconde questo.
Dunque ogn’onesto ed utile è gioioso
in che serba, e doglioso 10
in che strugge; e dir oso
che senz’essi piacer mai non fu visto.
Se piace l’acqua all’egro, onde è più tristo,
giova al spirto, o alla lingua ove ha angoscia;
ma, perché enno assai parti, se a più nòce, 15
s’ammalan tutte per consenso poscia;
ond’essa perde d’utile la voce.

Distingue il ben esterno in utile ed onesto, e mostra che ’l giocondo esce da loro posseduti in re od in spe. E che non si distinguono, come pensò Aristotile; e che non si truova giocondità senza utile in qualche maniera. E lo pruova per esempio dell’infermo. E che il male ch’è nel ben giocondo, è per accidente, non per sé; ma la voluttà è buona per sé, in quanto è sapor dell’essere, che per sé è l’ottimo.

Madrigale 8

   La dolorosa vita non si fugge,
se non in quanto è morte: ch’essa doglia
senso è del mal, ch’almen morte minaccia,
o fa alla parte dov’è, benché soglia
tutte serbar, se ’l mal qui unito strugge. 5
Onde i dolori il senno accorto abbraccia
per gioire, e molto mal per più gran bene;
e ’l ben par mal, se più di mal procaccia.
Viver dunque secondo il senno insegna
felicità si tegna; 10
per cui saper convegna
tutte le cose che ’l mondo contiene,
quanto fan di timor, quanto di spene.
Ma, perché manca ogni conservamento,
ché noi siam parti per lo tutto fatte, 15
e per Dio il tutto, il sennoamante, intento,
per farsi divo, a quanto può, combatte.

Che se la voluttà non per sé s’ama, neanche per sé si fugge il dolore, se non in quanto è morte al tutto o alla parte dolente; e che per accidente spesso è vita, come la voluttà per accidente è morte; e che questo sta al senno, di conoscer quando il dolor dà vita o morte, e così la voluttà. Talché conchiude che la vita felice consista in viver secondo il senno, e che per questo si conviene saper tutte le cose che giovano e nuocono nel mondo. Poi conchiude che ogni conservazione manca, perché sono fatte le parti del mondo per lo tutto, e ’l tutto per Dio, e fatalmente si mutano; il che è morire. Però tanti filosofi si forzâro a farsi divi, accostatisi a Dio, che solo può eternare ogni vita.

Madrigale 9

   Canzon, dirai che l’uom sol fa beato
il senno, senza cui gli ben son mali,
né si sente il gioir; ma seco pure
il mal fia ben. Né senso han l’alme impure,
ma veggon con gli occhiali 5
le cose in altra guisa ch’elle stanno.
Né purità può aver chi non è nato
per sé, ma ad uso di que’ che più sanno;
talché si fa felice
sol oprando quel che ’l saggio ci dice. 10
Assai sa chi non sa, se sa obbedire.
Tutto infelice fia chi non ascolta,
ma nacque per servire
in quel mal, che ben fia di gente molta.
Forse fia in altre parti puro poi, 15
ché in varie forme s’occulta e rinasce,
e sol d’eternità l’esser si pasce;
ché il bene e ’l mal son dolci a’ denti suoi.

In questo commiato dice che il senno fa sentire il bene e convertire il male in bene; dunque, egli è causa di beatitudine. E che non hanno senno vero l’alme impure, ma veggono le cose impuramente, ed adulteratamente giudicano. E che per natura s’ha la purità. E che gli nati impuri sono all’uso de’ savi creati. E che assai sanno, se sanno ubbidire, e ’n ciò si beano con quelli. Ma chi neanche sa ubbidire, è nato per servire ad altri, facendo male; perché il male serve al mondo per esercizio, pena e per migliorarsi. E che forse un ente trasmutato sarà puro in un altro essere formale, lo quale è corruttibile: e solo eterno è l’essere, che ha per dolce il bene e ’l mal delle seconde cose, intendendo il lor fine.

31
Del Sommo Bene metafisico

Canzone

Madrigale 1

   L’Essere è il Sommo Ben, che mai non manca,
e di nulla ha bisogno, e nulla pave.
Amanlo tutti sempre; e’ sol se stesso,
perché non ha maggior, né più soave.
S’egli è infinito, noi di morte affranca, 5
ché fuor non ha, né dentro a lui framesso
puote il Nïente star. Né dunque alcuna
cosa s’annulla, ma si cangia spesso.
Lo spazio immenso all’esser d’ogni cosa
è base in lui nascosa, 10
che solo in sé riposa,
da cui, per cui e in cui son tutte in una;
e da cui lontanissima è ciascuna
da infinito finita; e perch’è incinta
e cinta, è vicinissima anche, stante 15
in lui viva e per lui, s’è per noi estinta,
come pioggia nel mar mai non mancante.

L’Esser universale nell’essere e causare propone per Sommo Bene: di cui proprio è che sia indeficiente e di nullo abbia bisogno o paura, né ami, né intenda altro che se stesso; ma, amando ed intendendo sé, ama ed intende tutte cose per sé. E perch’è infinito, non può dentro né fuor di lui stare il Niente. Dunque, nulla cosa s’annicchila per morte, ma si trasmuta solo. Poi mostra che la base dell’esser creato sia lo spazio universale, tenuto da certi Arabi per Dio, e ’l quale, secondo noi, è in Dio; da cui, in cui e per cui ecc. Nota com’ogni ente è intra Dio, ed è cinto ed incinto di lui, e pure da lui è lontanissimo, perché è finito, e quello infinito. E come le cose muoiano, in Dio vivendo; come una gocciola d’acqua, gittata in mare, muore e vive.

Madrigale 2

   Come lo spazio tutti enti penètra,
locando, e d’essi insieme è penetrato;
così Dio gli enti interna, e ’l spazio, e passa,
non come luogo, né come locato,
ma in modo preeminente; donde impetra 5
lo spazio d’esser luogo, e ’l corpo massa,
e l’agenti virtù d’esser attive,
e gli composti in cui l’idea trappassa.
E perch’egli è, ogni ente è per seguela,
qual splendor per candela; 10
ma si occulta e rivela
in varie fogge, in cui sempre si vive,
come atomi nell’aria. In fiamme vive
spiace a’ legni mutarsi, e d’esser vampe
godon poscia, ch’amor, virtute e senso 15
dell’esser proprio han tutte le sue stampe,
per quanto è d’uopo, dall’Autor immenso.

Dio, simile allo spazio, che penetra tutte le cose, e ’n lui sono internamente tutte. Ma Dio, non come luogo, né come locato contiene le cose, o è nelle cose, ma in certa maniera eminentissima, dalla quale il luogo prende l’esser luogo, e la materia l’esser materia, e gli composti l’idea della composta loro. E perché Dio è, ogni ente è per conseguenza, come per candela lucente è lo splendore conseguente: non per natura, ma per volontà di Dio e come in Dio. S’ascondono in Dio quando paion non esser, e si rivelano a noi quando hanno l’essere sensibile. Poi dice che, mutandosi ogni cosa, non s’annicchilano, ma godono pur dello essere in che si mutano; perché ogni ente ha il potere, il sapere e l’amor di se stesso, secondo l’idea donde provengono.

Madrigale 3

   L’uom fu bambino, embrione, seme e sangue,
pane, erba ed altre cose, in cui godeva
d’esser quel ch’era, e gli spiacea mutarsi
in quel ch’è mo: e quel ch’ora gli aggreva,
di farsi in fuoco, in terra, in topo, in angue, 5
poi piaceralli; e crederà bearsi
in quel che fia, ché in tutti enti riluce
la Idea divina, e pel dimenticarsi.
Dunque nullo ama quel che amar gli pare:
altro patire o fare, 10
che ’l suo esser sa dare.
Ch’un sia due, osta il tutto; e chi esser duce
vuole, è, in quanto è simile, o produce
imago, onde tal si ama; e non è, in quanto
guastarsi in quel ch’è duca abborre, ed anco 15
v’è quell’altro, talch’egli è un altro tanto;
e ’l savio è tutti, ancor di morte franco.

Leggi, per intender questo, il secondo libro della seconda parte della Metafisica. Per esempio, dell’uomo, in quanto animale, mostra che, quando una cosa è, gode del suo essere e gli spiace mutarsi. E però è da stimarsi che, quando era un altro ente, come a dir pane, non gli piacea diventar carne di uomo; ed or ch’è, gli piace. Così dopo morte non gli spiacerà esser altro ente, ed ora gli spiace diventar quello: e poi vorrà esser verme che nasce del nostro corpo. E questo piacere avviene, ché in tutti luce la Idea divina, e per la dimenticanza dell’esser passato migliore ed ignoranza del futuro. Dunque non è vero ch’alcun ente ama non esser quel ch’è. E pur chi desidera esser re o duca, non in vero lo desidera, perché desidererebbe mutarsi in altro; e non può esser due. Talché s’adempie il desio in quanto è per similitudine intesa ed amata, e non in quanto non è, né vuol esser, mutato. Però il savio, che tutte cose sa, è tutte cose, senza mutarsi.

Madrigale 4

   Non fece gli enti per vivere in loro,
qual padre in figli o maestro ne’ scolari;
né per far mostra altrui delle sue pompe,
ch’altri non vi era, e gli architetti rari
non mostran a una polce un gran lavoro, 5
né cerca onor chi in sé non si corrompe.
Or chi dirà perché, se ’l Senno Eterno
di tanto arcano il velame non rompe?
S’ e’ fu sempre, il Nïente non fu mai;
e tutti enti son rai 10
del Primo, in cui trovai
mondi, virtuti e idee, nel suo interno
fatti e rifatti in più fogge ab aeterno,
nuove agli enti rifatti, a’ fatti antiche;
figure ed ombre di sacre esistenze, 15
chi nella Prima son una ed amiche,
quantunque abbian tra lor varie apparenze.

Ogni ente genera un altro per immortalarsi in quello, non potendo in sé, o per fama, qual maestro ne’ discepoli. Perché dunque fece Dio il mondo? Se tu dici: – Per mostrar la gloria sua, – dimando: – A chi, se non ci era altro Dio? – Né si può dire: – Per mostrarlo a noi, – ché non eravamo. E, sendo noi come polci a rispetto suo, come può esser ch’a noi si avesse a manifestare? Tanto men, ch’onor è rimedio contra la morte, che a lui non tocca (a). Poi mostra che mai non fu il Niente; e che gli enti tutti son raggi d’esso Ente; e che in Dio ci sono mondi infiniti e cose per idea, che, in quanti modi possono esser fatti e rifatti temporalmente, rilucono in lui eternamente; perché non solo sa quel ch’è, ma quel ch’è possibile ad essere secondo il suo potere, ch’è infinito ed innumerabile. E comesono uno in lui ecc.

(a) Questi dubbi si risolvono nella Metafisica.

Madrigale 5

   Se ’l fuoco fosse infinito, la terra
non vi sarìa, o cosa confine e strana.
Se Dio è infinito ben, non si può dire
che vi sia morte o male o stigia tana,
se non per ben di chi e’ per meglio serra. 5
Rispetto è, non essenza, il mal, se mire
dolce al capro, a noi amara la ginestra.
Se ta’ rispetti averan da finire,
il caos sol d’ogni gioia poi s’imbeve,
come ferro riceve 10
il fuoco, e ’l freddo neve.
E questo è bello alla virtù maestra,
com’è bel che ’l distingua la sua destra.
Che maraviglia s’alcuno s’ammazzi?
Lo guida il Fato con occulto incanto 15
per la gran vita, ove enno i mali e i pazzi
semitoni e metafore al suo canto.

Pruova che, sendo Dio bene infinito, non ci è male, né dentro né fuor di lui, né morte, né inferno, se non in quanto è buono esso inferno e morte per punire il male, e perché d’una cosa nasca un’altra. Poi mostra che ’l male è solo rispetto a chi è male, ma non a Dio, né al tutto. E che ad un altro è bene quel che a noi è male. Poi dice che, se mancheranno gli rispetti, mancherà il male, ed ogni cosa sarà una, perché il non essere distingue le cose tra loro, che l’una non è l’altra. Dunque il caos è tutto gioia, non vi essendo contrarietà, ma unità. E che a Dio, comunque sarà, sia bello; e che la distinzione e ’l male sono come semitoni e metafore, belle nel poema, bench’ in sé vizi; e però s’uccide alcuno per Fato a ben del tutto.

Madrigale 6

   L’alme, in sepolcri portatili ed adri
chiuse, dubbie di morte fa ignoranza
d’esser futuro e del passato obblio.
Così più galeotti, per sconfidanza
di miglior vita, e ’n prigion servi e ladri 5
contentarsi, che uscir odian, vidi io.
Or l’alma, che nel corpo opaco alberga,
se stessa ignora, e l’altre vite, e Dio;
onde per buchi stretti affaccia, e spia
che cosa essa alma sia, 10
come ivi e perché stia.
Regge ella il corpo e nutre, e con sua verga
guida; né sa in che modo il quieti e l’erga,
ch’ e’ non traspare; ed essa è breve luce.
Così chi opera al buio, sé non vede 15
né l’opra sua; onde al balcon l’adduce,
e mira in altri, argomenta e rivede.

Rende ragion perché spiace il morire, sendo una morte la vita presente, e la trasmutazione facendosi spesso in meglio; e dice che l’alma sta nel corpo, suo sepolcro portatile ed oscuro, e non sa il passato essere, né il futuro, e si contenta del presente; come molti galeotti e carcerati hanno a male d’uscire di tal vita infelice, perché non conoscono, né sanno vivere in altra. Che l’alma dunque stia in sepolcro, lo pruova perché essa non vede se stessa; né quel che fa essa dentro il corpo sa, né come lo muove, ferma e nutrica; e però esce a due pertugi, che sono gli occhi, e spia in altri dell’opere sue o del suo proprio essere. Questo fu detto ancora nella Canzone del disprezzo della morte.

Madrigale 7

   Se di piante e di bruti e gli uman spirti
formano al buio ospizi tanto adorni,
e gli reggon con arte a loro ignota,
è forza che tu, Dio, che in lor soggiorni,
gli guidi, e gli enti sien, per obbedirti, 5
come penna a scrittor, ch’è cieca, e nota;
o come è il corpo all’alma, e l’alme all’Ente
Primo, senza di cui non si fa iota.
Esser, poter, saper, amar, far, sono
passioni in noi e dono, 10
ed azioni in Dio buono,
che, amandose e sentendose, ama e sente
tutte cose, che ’n lui son conoscente.
Gode di lor comedia, ché la festa
fan dentro a lui; e da lor gioia non prende; 15
ma e’, gioiendo, a lor la dona, e presta
senso ed amor, mentr’ e’ s’ama e s’intende.

Qui pruova che Dio sia in tutte cose, come autore e rettore di tutte le nostre operazioni. Che se l’alme delle piante e de’ bruti animali formano allo scuro corpi con tanto magistero e simmetria, è forza dire che gli guida qualche senno, che tutto vede e può, come la penna è mossa dallo scrittore. E questo pure afferma san Tomaso, benché Scoto si discosti da lui. Nota che ’l potere, il sapere, l’amore e l’essere in noi sono dono d’altrui, e quasi passione: e ’n Dio solo azione ed abbondanza. E che Dio, amando e conoscendo se stesso, e godendo di se stesso, dona a tutti gli enti la conoscenza, l’amore e ’l gioire; e che si fa questa festa delle cose, o comedia, in Dio. Beato chi intende con pratica quel che si dice in questi versi!

Madrigale 8

   Ma noi, finiti, anzi in prigion, prendiamo
di fuor, da chi ci batte le pareti,
ov’entra per vie strette, il saper corto
e falso, onde voi, falsi amor, nasceti.
Quinci aer, terra e sol morti stimiamo, 5
chi han libero il sentir, non, qual noi, morto;
e però amiam chi in carcere ci serba,
e chi ci rende al cielo odiamo a torto.
Burle, onde ’l Fato i nostri e i solar fuochi
ritiene in stretti luochi, 10
quanto è uopo a’ suoi giuochi.
Mai non si muore. Godi, alma superba!
L’obblio d’antica ti fa sempr’acerba.
Oh, felice colui, che sciolto e puro
senso ha, per giudicar di tutte vite! 15
Che, unito a Dio, per tutto va sicuro,
senza temer di morte, né di Dite.

Altamente séguita a dar la differenza tra noi e Dio, dicendo che noi siamo finiti e non infiniti, carcerati nel corpo e non liberi: però, non come Dio da sé, ma prendiamo il sapere dalle cose che battono le mura del nostro carcere, ove ci entra per stretta via de’ sensi. Tutte le mura sono il tatto; gli altri sensi sono forami. E che di questo saper corto e falso nasce amor corto di cose poco buone, e falso ancora, ed un giudicio, che non abbia sapere chi non sta carcerato come noi; onde stimiamo insensati il cielo e la terra. E questo è una burla, che ci fa il Fato, perché non vogliamo morire fin quando pare a lui per ben del tutto. Poi parla all’anima superba, che sta lieta che non si muore; e pone la felicità in chi sa giudicare tutte le vite, ed a Dio s’unisce, e seco tutto vede, può ed ama, e s’assicura dalla morte e dall’inferno, accostatosi al’immortale Sommo Bene.

Madrigale 9

   Canzon, riconosciamo contra gli empi
l’Autor dell’universo, confessando
belle, buone e felici l’opre sue
tutte, in quanto [ed] a lui sono ed al tutto
parti, rispetti e frutto 5
sì giusto, ch’un sol atomo mutando,
girìa in scompiglio. E sempre fia chi fue;
dal che farsi contento,
più che non sa volere, ogn’ente io sento:
come tutti direm con stupor, quando 10
di Lete aperto fia il gran sacramento.

In questo stupendo commiato conchiude che non ci sia male, né bruttezza, se non rispettiva tra l’una parte e l’altra, ma non al tutto, a cui ecc. Dice pure che tanto bene è aggiustato l’universo, ch’un solo atomo mutandosi, tutto si scompiglierebbe, come un orologio. Questo vedi nella Metafisica. Poi dice: «sempre fia quel che fue», con Salomone: «Quid est quod futurum est, nisi quod factum est?». E che però ogni ente è immortale in qualche guisa, ché solo si muta, non s’annicchila. E che però gli enti sono più contenti che non sanno volere, poiché in tante vite vivono per successione, nel tutto una. E che, quando sarà aperto il sacramento del fiume dell’obblio, detto Lete da’ poeti, tutti confesseremo questa verità: ma, fra tanto che questo segreto è ascoso, ci par morire, perché nullo ente si ricorda quel che fue; e tutti, morendo, passano per Lete, cioè per obblio.
32
Della nobiltà e suo’ segni veri e falsi

Sonetto

   In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade; e frutta e cresce
col ben oprare; e questo sol rïesce
di lei testimon ver, com’esser deve. 4
Ma la ricchezza è assai fallace e lieve,
se a luce da virtù propria non esce.
Il sangue è tal, che a dirlo me n’incresce:
ignorante, falsario, inerte e greve. 8
Gli onor, che dar dovrebbon più contezza,
con le fortune tu, Europa, misuri,
con gran tuo danno, che ’l nemico apprezza. 11
Giudicar l’arbor da’ frutti maturi,
non d’ombre, frondi e radici, sei avvezza:
poi, perché tanta importanza trascuri? 14

La nobiltà dal senno e dal valore nasce, e con l’operare bene si nutrisce; e che l’operazione buona è suo testimonio vero, e non la ricchezza, né l’onore; ma peggiore il sangue. Poscia dice, che l’onor doverebbe esser più certo testimonio della nobiltà; ma questo si dà oggi a chi è più ricco in Europa. E che il Turco, nostro nemico, meglio di noi mira solo alla virtù, e non al sangue, poiché nobilita gli schiavi; e qui nota quel ch’in Politica pruova l’Autore, che, se ’l Turco conoscesse la virtù vera, solo per questo buon uso sarebbe padron del mondo.

33
Della plebe

   Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze; e però stassi
a pesi e botte di legni e di sassi,
guidato da un fanciul che non ha possa, 4
   ch’egli potria disfar con una scossa:
ma lo teme e lo serve a tutti spassi.
Né sa quanto è temuto, ché i bombassi
fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa. 8
   Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona
con le man proprie, e si dà morte e guerra
per un carlin di quanti egli al re dona. 11
   Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,
ma nol conosce; e, se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra. 14

Della bestialità del popolaccio nissuno ha scritto con tanta verità e con tanto artificio. E come, a chi gli dice suo bene e mostra il suo podere, e’ se gli volge contra; è proprio bestia varia e grossa. Cosa stupenda: questo è fatto per chi vuol trattar con la moltitudine cose utili a quella. E tutta l’istoria di Moise mostra quanto quel popolaccio ebreo fu bestia in attraversarsi sempre contra i suoi liberatori.

34
Che la malizia in questa vita e nell’altra ancora è danno,
e che la bontà bea qua e là

   Seco ogni colpa è doglia, e trae la pena
nella mente o nel corpo o nella fama:
se non repente, a farsi pian pian mena
la robba, il sangue o l’amicizia, grama. 4
   Se contra voglia seco ella non pena,
vera colpa non fu: e se ’l tormento ama,
ch’è amaro a Cecca e dolce a Maddalena,
per far giustizia in sé, virtù si chiama. 8
   La coscïenza d’una bontà vera
basta a far l’uom beato; ed infelice
la finta ed ignorante, ancor ch’altera. 11
   Ciò Simon Piero al mago Simon dice,
quando volessim dir che l’alma pèra,
ch’altre pur vite e sorti a sé predice. 14

Notabile sonetto per far conoscere, che il male punisce l’uomo da sé subito e che, quando non è vero male, non porta pena contra il volere. E che la coscienza netta può bear l’uomo. E, quantunque l’alma fosse mortale, è più beato chi vive bene e puramente, che gli malfattori. Questa sentenza è di san Piero in san Clemente Romano, dove risponde a Simon mago, che dicea che con la speranza dell’altra vita perdiamo la presente. E nell’ultimo verso pruova che sia immortale, perché essa alma ha tali sillogismi efficaci a provarlo; e trovansi oltre le profezie e religione.

35
Che ’l principe tristo non è mente
della repubblica sua

   Mentola al comun corpo è quel, non mente,
che da noi, membra, a sé tutte raccoglie
sostanze e gaudi, e non fatiche e doglie:
ch’esausti n’ha, come cicale spente. 4
   Almen, come Cupido, dolcemente
ci burlasse, che ’n grembo della moglie
getta il sangue e ’l vigor, che da noi toglie,
struggendo noi, per far novella gente. 8
   Ma, con inganno spiacevole, in vaso
li sparge o in terra, onde non puoi sperare
alcuna ricompensa al mortal caso. 11
   Corpo meschin, cui mente ha da guidare
piccola in capo piccolin, c’ha naso,
ma non occhi, né orecchie, né parlare. 14

Arguto e dotto modo di mostrare che il principe epicureo macchiavellesco è mentola, e non mente, del corpo della repubblica, secondo doverebbe essere, come gli filosofi dicono; se bene l’autore dice che il re è cuore o testa, ma anima è la religione, contra Aristotile, nel libro della Monarchia del Messia. Questo sonetto vuol attenzione. Nota con che arguzia dice che la mentola di Cupido almeno dà gusto, se ben c’inganna con falso gusto per tôrci la sostanza e far altri uomini di quella; ma il principe tristo ci mangia con disgusto, e senza speme di frutto; pensa, perch’è cieco, senza lingua e senza orecchie.

36
Agl’Italiani, che attendono a poetar
con le favole greche

Canzone

Madrigale 1

   Grecia, tre spanne di mar, che, di terra
cinto, superbia non potea mostrare,
solcò per l’aureo vello conquistare
e Troia con più inganni e poca guerra;
poi tutto ’l mondo atterra 5
di favole, e di lui succhia ogni laude.
Ma Italia, che l’applaude,
contra se stessa e contra Dio quant’erra!
Ella, che mari e terra, senza fraude,
con senno ed armi in tutto il mondo ottenne, 10
e del cielo alle chiavi alfin pervenne!

8. Si duole l’Autore che gli Italiani cantano le bugie de’ Greci, e non le sue veritadi. Non cantano gli Greci altro che l’impresa dell’aureo vello e di Troia con falsità.
11. Le chiavi di san Piero in Roma; che, dopo essere stata padrona del mondo terreno, si stima ora esser del celeste.

Madrigale 2

   Cristoforo Colombo, audace ingegno,
fa fra due mondi a Cesare ed a Cristo
ponte, e dell’Oceano immenso acquisto.
Vince di matematici il ritegno,
de’ poeti il disegno, 5
de’ fisici e teologi, e le prove
Letteratura italiana Einaudi 94
d’Ercol, Nettunno e Giove.
E pur vil Tifi in ciel gli usurpa il regno,
né par che a tanto eroe visto aver giove
e corso più con la corporea salma, 10
che col pensier veloce altri dell’alma.

8. Tifi fu quel nocchiere famoso degli Argonauti, che andâro al vello d’oro.
11. Più vide Cristofano Colombo, genovese, con gli occhi, e più col corpo corse, che non fecero gli poeti, filosofi e teologi, Augustino e Lattanzio, con la mente, che negâro l’antipodi.

Madrigale 3

   A un nuovo mondo dài nome, Americo,
nato nel nido de’ scrittori illustri,
che tu, vie più che gli altri, adorni e illustri;
né pur poeta hai di tua gloria amico.
Ché ’l favoloso intrico 5
de’ falsi greci dèi e mentiti eroi
tutti gli ha fatti suoi.
Caton predisse questo velo antico
che Grecia oppone, o Italia, agli occhi tuoi,
che assicura gli barbari a predarne 10
l’arme, la gloria, lo spirto e la carne.

1. Americo Vespucci, fiorentino, dopo Colombo navigò e scoperse tutta la terra ferma del Nuovo Mondo, e la chiamò «America» da sé.
2. Firenze è nido de’ scrittori acuti ed industriosi: poeti, oratori, filosofi, ecc.
9. Caton predisse che Grecia con sue fallacie, come Plinio narra, avea a rovinar l’Europa.

Madrigale 4

   I gran dottor della legislatura
Giano, Saturno, Pitagora e Numa,
Vertunno, Lucumon, la dea di Cuma,
Timeo e altri infiniti chi gli oscura?
Italia, sepoltura 5
de’ lumi suoi, d’esterni candeliere;
ond’oggi ancor non chiere
il Consentin, splendor della natura,
per amor d’un Schiavone; e sempre fere
con nuovi affanni quel di cui l’aurora 10
gli antichi occùpa, e Stilo ingrato onora.

1-4. Nomina i legislatori d’Italia e gli filosofi antichi.
8. Il Telesio proibito fu per invidia d’alcuni, «donec expurgetur» ecc.
11. Son più che venti anni che sempre è travagliato esso Autore da invidi con carceri e persecuzioni, per ben fare a chi non merita e pe’ peccati suoi ancora. Egli è da Stilo, città di Calabria, a cui, ecc.

Madrigale 5

   Privata invidia ed interesse infetta
Italia mia; né di servir si smaga
chi d’ignoranza e discordia la paga,
e la propria salute le ha interdetta:
virtù ascosta e negletta 5
a te medesma, e nota a tutto ’l mondo
sotto ’l bello e giocondo
latino imperio: che di gente eletta
fu in lettere ed in arme più fecondo
che l’universo tutto quanto insieme 10
con verità, ch’or sotto ’l falso geme.

Madrigale 6

   Locri, Tarento, Sibari e Crotone,
Sannio, Capua, Firenze, Reggio e Chiuse,
Genova e l’altre, di gloria deluse,
fa da sé ognuna a Grecia paragone;
Roma no, che s’oppone 5
a tutto ’l mondo insieme, a tutte cose:
ma pur le favolose
o vere laudi greche a sé pospone
Venezia, onor di virgini e di spose:
nuota in mar, rugge in terra e vola in cielo, 10
pesce, leon alato col Vangelo.

Mostra che ogni città di queste si può agguagliare a tutta Grecia, e Roma al mondo. Chi sa le istorie, ne giudichi. Dice che Venezia pure lascia dietro a sé tutte le laudi di Grecia per virtù politica, le armi e dottrine, e per essere miraculosa: ch’è pesce in mare, rugge in terra come leone, e fa l’insegna del leon di san Marco, e tiene il Vangelo, che illumina il mondo.

Madrigale 7

   Ercole e Giove rubba e gli altri dèi
Grecia e lor gesti d’Assiria e d’Egitto:
e poi l’imprese e nomi anc’have ascritto
a vil Tebani, Cretensi ed Achei.
Tu, che verace sei, 5
Platon, ciò affermi; e le scïenze, ch’ella
falsamente sue appella,
confusi i tempi e l’istorie da lei
falsificate, ammira; e sé, novella,
mentir non dubbia aver principio e nome 10
dato alle genti di canute chiome.

Ercole fu libico, dico l’eroe: Giove fu assirio, e gli Greci se gli usurpano a sé, facendogli di Tebe e di Candia; così gli altri dèi ecc. Platone dice: «Graeci, semper estis pueri» ecc. E che sono novelli, e si fanno autori del mondo; che Pirra e Deucalione ecc. Questi furono Noè e Rea ecc. Mira le storie greche fallaci. «Quicquid Graecia mendax Audet in historiis», ecc., dice Giovenale. Chi legge sa quanto gli Greci hanno rovinato il mondo con le favole loro. Dalle Antichità di Gioseppe si corregge la perversità de’ Greci ecc.

Madrigale 8

   Se l’altre nazïon, con più vergogna
spesso Italia a tal favole soscrisse;
cui leggi ed arti e sacrifici disse
Noè, che Giano fu senza menzogna.
Chi più intender agogna, 5
sien Fabi o Scipi o altri, ecco una sola
romulea famigliola
di numero e virtude, a quanti sogna
eroi Grecia cantando, sopravola.
Generosi Latini, i vostri esempi 10
sien vostra tèma contra i falsi e gli empi.

37
D’Italia

Sonetto

   La gran donna, ch’a Cesare comparse
sul Rubicon, temendo a sé rovina
dall’introdotta gente pellegrina,
onde ’l suo imperio pria crescer apparse, 4
   sta con le membra sue lacere e sparse
e co’ crin mozzi, in servitù meschina.
Né già si vede per l’onor di Dina
Simeone o Levi più vergognarse. 8
   Or, se Gierusalemme a Nazarette
non ricorre, o ad Atene, ove ragione,
o celeste o terrestre, prima stette, 11
   non fiorirà chi ’l primo onor le done;
ché ogni Erode è straniero, e mal promette
serbar il seme della redenzione. 14

Questo sonetto è fatto perché l’intendano pochi; né io voglio dichiararlo. L’istoria di questa donna, che comparse a Cesare in visione, passando il Rubicon, fiume di Cesena, per venir contra il senato, è Italia col capo suo, Roma. L’istoria di Dina sverginata da Sichem e vendicata da Simeon e Levi, figliuoli di Giacob, che dinotano il sacerdozio e ’l popular dominio, sta nel Genesi, ed oggi ecc. «Gierusalem» vuol dire vision di pace, e Roma è suo figurato. «Nazaret» vuol dir fiore, e «Atene» similmente. Qui legit intelligat. Vide Dante, in Paradiso, canto 9. Erode, perché finse serbar il seme ecc.

38
A Venezia

   Nuova arca di Noè, che, mentre inonda
l’aspro flagel del barbaro tiranno
sopra l’Italia, dall’estremo danno
serbasti il seme giusto in mezzo all’onda,
   qui di discordia e di servitù immonda 5
invïolata, eroi chi ponno e sanno
produci sempre: onde a ragion ti fanno
vergine intatta e madre alma e feconda.
   Maraviglia del mondo, pia nepote
di Roma, onor d’Italia e gran sostegno, 10
de’ prencipi orologio e saggia scuola,
   per mai non tramontar se’, qual Boote,
tarda in guidare il tuo felice regno,
di libertà portando il pondo, sola.

   4. Quando Attila, detto nelle istorie «flagel di Dio», distrusse Aquileia e Padova, le reliquie degli abitanti si fuggîro nel seno del mare Adriatico, e fabbricâro Venezia in mezzo all’acque, che, come nuova arca di Noè, serbò il seme italico ecc.
   8. Nota che Venezia mai fu soggetta né a cittadini né a forestieri, e però «vergine» si dice, come Ezechiele chiama Gierusalem «puttana d’Assiri», e Dante Italia «bordello» de’ forestieri che la soggiogâro.
   9-10. Nella Canzone ad Italia si vede perché Venezia è «maraviglia» ecc.; «nepote di Roma», perch’è figlia di Aquileia, colonia romana.
   13. Nota che tutte le repubbliche sono tarde in deliberare, per gli molti consigli: ma Venezia ha il primato in questo, ed è simile a Boote, che per la tardanza non tramonta mai; e Venezia pe’ consigli si mantiene in vita e libertà.
   14. In questo tempo, che tutto il mondo è schiavo, gran pondo è potere essere libero.

39
A Genova

   Le ninfe d’Arno e l’adriatica dea,
Grecia, che tenne l’insegne latine,
le contrade siriache e palestine,
e l’onda eussina e la partenopea,
   l’audace industria tua regger dovea, 5
che superolle; e d’Asia ogni confine,
d’Africa e d’America le marine,
e ciò che senza te non si sapea.
   Ma tu, a te strana, le vittorie lasci
per piccol premio ad altri, però c’hai 10
debole il capo e le membra possenti;
   Genoa, del mondo donna, se rinasci
di magnanima scuola, e non avrai
schiave a’ metalli le tue invitte genti.

   1. Ninfe d’Arno sono Pisa, Livorno ecc., superate da Genova; e Venezia, che fu astretta a mandarle carta bianca, benché Genova, avendole preso tutto lo Stato e ’l mare, restò perditrice per un archibugio, primo visto in Italia, adoperato contra l’armata genovese ch’entrava trionfante in Venezia.
   2. L’imperio di Costantinopoli pur fu preso da’ Genovesi.
   3. E molti paesi di Soria.
   4. Il mar Nero, dove è Caf, loro colonia; e ’l re di Napoli fu preso da’ Genovesi e dato al duca di Milano.
   8. Per Cristofano Colombo, che scoperse la navigazione al... ecc., e fu genovese, doverebbe essere signora di queste Indie Occidentali.
   11. Genova quanto ha preso, l’ha dato a’ prìncipi stranieri per danari; e ciò avviene perché la Repubblica è povera, e gli privati ricchi, contra la ragion di Stato.
   14. Nota il suo bisogno a farsi reina del mondo.

40
A Polonia

   Sopra i regni, ch’erede fan la sorte
di lor dominio, tu, Polonia, t’ergi,
che, mentre ’l morto re di pianto aspergi,
dal figlio ad altri lo scettro trasporte, 4
   dubbiosa che non sia quel saggio e forte;
ma in più cieca fortuna ti sommergi
scegliendo, incerta s’aduni o dispergi,
prencipe di ventura e ricca corte. 8
   Deh! cerca fuor di zelo in umil tende
Caton, Minoi, Pompili e Trismegisti,
ché Dio a tal fin non cessa mai di farne. 11
   Questi fan poche spese e molti acquisti,
immortali intendendo che gli rende
virtù e gran gesti, non gran sangue e carne. 14

Piacque sempre a’ savi che il re si facesse per elezione e non per sorte d’eredità; però Polonia sopra gli altri s’erge, che lo fa per elezione. Nondimeno non lo fa come doverebbe, perché non cerca sapienti e forti uomini, ma prìncipi grandi e re di gran sangue, onde cade in error peggiore. Nota che Dio non cessa mai di far uomini atti al regno, perché, tenendo cura di noi, è necessario che a ciò provveda; ma noi ecc. Vedi la Politica dell’Autore, e quel che dice: che gli savi credono immortalarsi con gesti eroici, e bearsi benefacendo alla repubblica, non per la nobiltà della carne e sangue, in cui si fidano gli prìncipi del mondo fatti a caso.

41
A Svizzeri e Grisoni

   Se voi più innalza al cielo, o ròcche alpestre,
libertà, don divin, che sito altero,
perché occupa e mantien d’altri l’impero
ogni tiranno con le vostre destre? 4
   Per un pezzo di pan di ampie finestre
spargete il sangue, senza far pensero
se a dritto o a torto uscite all’atto fero;
onde il vostro valor poi si calpestre. 8
   Ogni cosa è de’ liberi; alli schiavi
nobile veste e cibo, come a voi
la croce bianca e ’l prato, si contende. 11
   Deh! gite a liberarvi con gli eroi;
gite omai, ritogliendo a’ signor pravi
il vostro, che sì caro vi si vende. 14

Loda i Svizzeri e Grisoni di fortezza corporale e fede, e gli biasima che, sendo essi liberi, mantengono l’altre nazioni in servitù, con farsi mercenari de’ tiranni, nonché de’ buoni prìncipi, e senza pensare pigliano impresa giusta o ingiusta. Poi mostra a loro che per questo sono tenuti per plebei e servi, poiché non possono aver la croce di Malta, che si dà solo a’ nobili, né luogo di vivere in campagna, stando ristretti nell’Alpe altissime, tra Italia e Francia. Poi l’invita alla vera libertà ed a ritogliere a’ tiranni quel ch’è loro. Vedi l’Ariosto, che dice una simile cosa a’ Svizzeri, e gli invita contra il Turco tiranno, biasimandogli che in Italia eran mercenari de’ lupi.

42

   Sonetto cavato dalla parabola di Cristo
in San Luca, e da San Giacomo dicente:
«fides sine operibus mortua est» ecc.,
e da Sant’Augustino: «ostende mihi fidem tuam,
ostendam tibi opera mea».

   Da Roma ad Ostia un pover uom andando
fu spogliato e ferito da’ ladroni:
lo vider certi monaci santoni
e ’l cansâr, sul breviaro recitando.
   Passò un vescovo e, quasi nol mirando, 5
sol gli fe’ croci e benedizïoni:
ma un cardinal, fingendo affetti buoni,
seguitò i ladri, lor preda bramando.
   Alfin giunse un Tedesco luterano,
che nega l’opre ed afferma la fede: 10
l’accolse, lo vestìo, lo fece sano.
   Chi più merita in questi? chi è più umano?
Dunque al voler l’intelligenza cede,
la fede all’opre, la bocca alla mano;
   mentre quel che si crede, 15
s’a te ed agli altri è buono e ver, non sai:
ma certo è a tutti il vero ben che fai.

43
Contra sofisti ed ipocriti, eretici e falsi miracolari

   Nessun ti venne a dir: – Io son tiranno –,
né il sa dir; né dirà: – Son Anticristo –;
ma chi è più fino, scelerato e tristo,
per santità ti vende il proprio danno. 4
   Ma il baro, la puttana e ’l saccomanno,
d’astuzie sì divote mal provvisto,
si crede esser peggior, ché agli altri è visto;
e poco è il male, in cui poco è l’inganno. 8
   Ti puoi guardar: son facili a piegarsi
questi, e i Samaritani a’ Farisei,
che sé ingannano e gli altri, Dio prepose. 11
   Né a voce, né a’ miracoli provarsi
bontà si dèe, ma in fatti: tanti dèi
questa falsa misura in terra pose. 14

8. «Publicani et meretrices praecedent vos in regno Dei» fu detto a questa gente.
13. «Non qui dicunt: – Domine, Domine, et nonne in nomine tuo prophetavimus et miracula fecimus? – sed ab operibus cognoscetis eos». Tutta la dottrina di questo sonetto si truova nel Vangelo.

44
De’ medesimi

   Nessun ti verrà a dire: – Io son sofista –;
ma di perfidie la scuola più fina
larve e bugie sottil dà per dottrina,
e vuol esser tenuta evangelista. 4
   Ma l’Aretino con sua setta trista,
che bevetter di Cinici in cantina,
di sue ciarle mostrando fiori e spina,
di bene e mal ci fa tutto una lista, 8
   per giuoco, non per fraude; ed ha a vergogna
parer men tristo degli altri, c’han doglia
che di tant’arte si scuopra la fogna; 11
   onde serran le bocche altrui, e si spoglia
ognor il libro, e veste di menzogna,
citato in testimon contra lor voglia. 14

Coll’esempio dell’Aretino, che fu scelerato scoperto, e prese il bene e ’l male in un fascio per scherzo, e non vendette la sua scelerataggine per santità, ma per quel ch’era, mostra che sono più tristi gli ipocriti, che fingono santità per ingannare, e non vogliono che la lor arte si scuopra, e vorrebbono tutti libri che avvertiscono i loro vizi essere spenti. Questo dice anche san Gregorio nel Pastorale.

45
Contra gli ipocriti

   Gli affetti di Pluton portan al cuore,
il nome di Giesù segnano in fronte,
perché non siano lor malizie cónte
a chi gli guarda dalla scorza in fuore. 4
   O Dio, o Senno e sacrosanto Ardore,
d’ogni possanza larghissimo fonte,
dammi le forze, c’ho le voglie pronte,
onde ognun vegga a chi fa tanto onore. 8
   Lo zel ch’io porto al tuo benigno nome
ed alla verità sincera e pura,
questo veggendo, fa ch’io mi dischiome. 11
   Chi può più comportar tanta sciagura,
che sacrosanto e divino si nome
chi spoglia pur gli morti in sepoltura? 14

46
Il «Pater Noster»
Orazione di Giesù Cristo

   Padre, che stai nel ciel, santificato
perché sia il nome tuo, venga oramai
il regno tuo; che in terra sia osservato
il tuo voler, sì come in ciel fatto hai.
E ’l cibo all’alma ed al corpo pregiato 5
danne oggi; e ci perdona obblighi e guai,
come noi perdoniamo agli altri ancora.
Né ci tentar; ma d’ogni mal siam fuora.

47
Sonetto trigemino sopra il «Pater Noster»

   Vilissima progenie, con che faccia
del Padre, che sta in ciel, vi fate figli,
se, schiavi a’ vizi, a can sète, a conigli,
c’han scorza d’uom a guisa di lumaccia?
   Ché ’l pecoreccio per virtù si spaccia 5
dagli astuti sofistici consigli,
che di tal bestie son gli aurati artigli,
ciò al Sommo Padre insegnando che piaccia.
   Mira ben, ignorante, qual buon padre
soggetta i figli a peggior, né a simìle; 10
né pur al capro le caprigne squadre.
   Se angeli non avete, il vostro ovile
regga il senno comun: perché idoladre
dall’uom scorrete ad ogni cosa vile?

4. Gli uomini schiavi de’ vizi, e di gente viziosa adulatori, sono indegni d’invocar Dio Padre.
8. Di ciò essere causa le parole de’ sofisti ed ipocriti, che ci predicano l’ignoranza per sapienza e l’umiltà pecorina per santità, ed hanno escluso l’umiltà magnanima apostolica.
11. Che, sì come il padre carnale non fa i figli suoi schiavi de’ servi, né di peggior uomini ch’essi sono; né può un capro comandare alle capre, ma il capraro, ch’è di specie superiore: così gli uomini non devono servire a’ vizi ed a sofisti, ipocriti ecc., che son peggior di noi, perché Dio Padre ciò non vuole, se non alle volte per gastigo nostro solamente.
12-13. Che gli angeli, di specie superiori a noi, debbono governarci, overo uomini angelici di senno e sacerdoti divini, secondo l’Autore nella Monarchia ecc.; e, questi mancando, si deve vivere in repubblica, col senno comune reggendosi.
14. Dalla servitù degli uomini s’incorre alla servitù delle bestie e pietre: vedi l’Antimacchiavello dell’Autore.

48
Sonetto secondo del medesimo soggetto

   Dov’è la libertà e ’l valor gentile,
ch’a tanta figliolanza si conviene?
Dell’uom figlio non è pulce, se bene
nasce da lui, ma chi animo ha virile. 4
   Se principe di grande o basso stile
cosa comanda opposta al Sommo Bene,
chi di voi la ricusa? o non si tiene
felice a farla, e dimostrarsi umìle? 8
   Dunque, agli uomini, a’ vizi ed a’ metalli
con l’animo e col sangue voi servendo,
ma a Dio solo in parole e per usanza, 11
   siete d’idolatria nel golfo orrendo.
Ahi! s’ignoranza indusse tanti falli,
tornate al Senno per la figliolanza. 14

In questo sonetto, seguente al primo nel medesimo soggetto, mostra che a chi è figlio di Dio conviene essere libero da’ vizi e da signori viziosi, in quanto viziosi. E che non è figlio di Dio chi nasce da Dio, poiché le pulci nascono dalla carne umana, e non però sono uomini, né figli d’uomo. Poi mostra che tutti siamo idolatri, mentre serviamo agli uomini ed alle monete ed a’ vizi con l’animo e col sangue, ma a Dio solo con parole e per usanza; e che, per tornar alla figliolanza divina, è necessario ritornare al Senno, donde siamo traviati.

49
Sonetto de l’istesso

   Allor potrete orar con ogni istanza
che venga il regno, ove il divin volere,
come si fa nelle celesti sfere,
si faccia in terra e frutti ogni speranza. 4
   Ché i poeti vedran l’età ch’avanza
ogn’altra, come l’òr tutte minere;
e ’l secolo innocente, che si chere
ch’Adam perdéo, darà la pia possanza. 8
   Goderanno i filosofi quel stato
che d’ottima repubblica han descritto,
che in terra ancora mai non s’è trovato; 11
   e i profeti in Sion, fuor di dispitto,
lieto Israel da Babilon salvato,
con più stupor che l’esito d’Egitto. 14

In questo terzo sonetto per consonanza di voce e di soggetto dice che potremo pregare: «Adveniat regnum tuum, ut voluntas tua fiat in terra, sicut fit in coelo», quando tornassimo alla figliolanza per mezzo del Senno, e che gli desideri d’ogni nazione e professione saranno adempiti; che gli poeti vedranno il secolo d’oro da lor cantato, e gli filosofi lo stato de optima republica da essi descritta, e gli profeti Israel liberato da Babilonia con più miracoli dell’esito d’Egitto, secondo che scrive Isaia ed Ezechiele. Vedi gli Articoli profetali dell’Autore.

50
Sonetti alcuni profetali

   Mentre l’aquila invola e l’orso freme,
rugge il leon e la cornacchia insana
insulta l’agno, in cui si transumana
nostra natura, e la colomba geme; 4
   mentre pur nasce la zizania insieme
col buon frumento nella terra umana,
nutricasi la setta empia e profana,
che ’l ben schernisce della nostra speme; 8
   ché ’l giorno vien che gli fieri giganti,
famosi al mondo, tinti di sanguigno,
a cui tu applaudi con finti sembianti, 11
   rasi di terra al Tartaro maligno
fien chiusi teco negli eterni pianti,
cinti di fuoco e d’orrido macigno. 14

Questi animali dinotano gli principati, ch’hanno in terra i sofisti e gli tiranni macchiavellisti, che si burlano del Vangelo ecc. e della vera filosofia ecc. Questi sono gli giganti, che cercano solo fama in questo mondo: «potentes a seculo viri famosi», come dice Moise.

51
Sonetto secondo

   – La scuola inimicissima del vero,
dal principio divino tralignante,
pasciuta d’ombre e di menzogne tante
sotto Taida, Sinon, Giuda ed Omero, 4
   – dice lo Spirto – a riveder l’impero
tornando in terra il Senno trïonfante,
l’ampolla del quinto angelo versante
giusto sdegno, terribile e severo, 8
   di tenebre fia cinta; e l’impie labbia,
le lingue disleal co’ fieri denti
stracceransi l’un l’altro per gran rabbia. 11
   In Malebolge gli animi dolenti,
per maggior pena, dall’arsiccia sabbia
vedran gli spirti pii, lieti e contenti. – 14

4. Questi sono gli quattro Evangeli del secolo tenebroso di Abaddon.
11. Vedi ne’ Profetali dell’Autore.
12. Malebolge è un girone dell’Inferno secondo Dante.

52
Sonetto terzo

   Se fu nel mondo l’aurea età felice,
ben essere potrà più ch’una volta,
ché si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando ’l giro ov’ebbe la radice. 4
   Ma la volpe col lupo e la cornice
negano questo con perfidia molta:
ma Dio che regge, e ’l ciel che si trasvolta,
la profezia e ’l comun desir lo dice. 8
   Se, infatti, di «mio» e «tuo» sia ’l mondo privo
nell’util, nel giocondo e nell’onesto,
cangiarsi in Paradiso il veggo e scrivo, 11
   e ’l cieco amor in occhiuto e modesto,
l’astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e ’n fratellanza l’imperio funesto. 14

Volpe è l’ipocrita, lupo il tiranno e cornice il sofista ecc. Che dopo la caduta dell’Anticristo sarà in terra il secol d’oro, preludio del celeste regno; e vien provato ne’ Profetali da molti santi; e perché non piace a chi gode di questo secolo tenebroso presente. Nota con san Crisostomo e Platone che tutti mali pendono dal «mio» e «tuo»; e che come si viverà in comune si pruova ne’ Profetali; e v’è l’idea nella Città del Sole, fatta dall’Autore.

53
Invitato a scriver comedie,
rispose con questo sonetto pur profetico

   Non piaccia a Dio che di comedie vane
siam vaghi noi, ne’ tragici lamenti
studiosi, e nelle scuole di tormenti,
del fine instante delle cose umane. 4
   Il giorno vien che le sètte mondane
batte e riversa, e mette gli elementi
sottosopra per far lieti e contenti
gli spirti, vòlti alle rote sovrane. 8
   Vien l’altissimo Sire in Terrasanta
a tener corte e sacro consistoro,
come ogni salmo, ogni profeta canta. 11
   Ivi spander di grazie il suo tesoro
vuol nel suo regno, proprio seggio e pianta
del divin culto e dell’età dell’oro.

54
Sopra i colori delle vesti

Sonetto

   Convien al secol nostro abito negro,
pria bianco, poscia vario, oggi moresco,
notturno, rio, infernal, traditoresco,
d’ignoranze e paure orrido ed egro. 4
   Ond’ha a vergogna ogni color allegro,
ché ’l suo fin piange e ’l viver tirannesco,
di catene, di lacci, piombo e vesco,
di tetri eroi e d’afflitte alme intègro. 8
   Dinota ancora la stoltizia estrema,
che ci fa ciechi, tenebrosi e grami,
onde ’l più oscuro il manco par che prema. 11
   Tempo veggo io ch’a candidi ricami,
dove pria fummo, la ruota suprema,
da questa feccia, è forza ne richiami. 14

I colori, de’ quali si diletta ogni secolo e nazione, mostrano i costumi di quella. Ed oggi tutti amano il nero, proprio della terra, e della materia e dell’inferno, di lutto e d’ignoranza segno. Che il primo colore fu il candido celeste, si vede nelle istorie di Roma; poi rosso nella bellica crudeltà; poi vario nelle sedizioni; poi venne il bianco a tempo di Giesù Dio, e tutti battezzati prendevano la veste bianca, e da quella per vari colori siamo ora arrivati al nero. Dunque, torneremo al bianco, secondo la ruota fatale. E così pruova ne’ Profetali, che i cardinali vestiranno di bianco.

55
Sopra i medesimi colori

   Veggo in candida robba il Padre santo
venir a tener corte, e i senatori
con lui di simili abiti e colori,
e ’l bianco Agno immortal sedergli a canto.
   E finir di Giovanni il lungo pianto, 5
avendo il gran Leon giudeo gli onori
d’aprir il fatal libro, uscendo fuori
il bianco corridor del primo canto.
   Le prime anime belle in bianche stole
incontran lui, che, su la bianca nube, 10
vien cinto da’ suo’ bianchi cavalieri.
   Taccia il popol moresco, che non vuole
udir il suon delle divine tube.
L’alba colomba scaccia i corbi neri.

4. Dall’Apocalisse: «in stolis albis» ventiquattro seniori e gli compagni dell’esercito del Verbo di Dio.

56
Sonetto sopra la congiunzion magna,
che sarà l’anno 1603 a’ 24 di dicembre

   Già sto mirando i primi erranti lumi,
sopra il settimo e nono centenario
dopo alcuni anni, insieme in Sagittario
raccozzarsi, a mutar legge e costumi. 4
   E te, Mercurio, che l’impresa assumi
di promulgar, qual pronto segretario,
quel che poi leggi nell’eterno armario
già statuirsi ne’ possenti numi; 8
   sul merigge d’Europa, nel tuo giorno,
nella decima casa, eccovi in corte;
e ’l sol vosco consente in Capricorno. 11
   Oh, voglia Dio ch’ i’ arrivi a sì gran sorte,
di veder lieto quel famoso giorno
c’ha a scompigliare i figli della morte! 14

Il 1603 si compone di sette e nove centinaia, numeri fatali, e del tre, numero perfettissimo, quando questa congiunzione si fece, e prima la dipinse l’Autore. Vedi il pronostico di questo, che fu la revoluzion della natività del Messia; e si truova nel 15° capitolo de’ Profetali.

57
La detta congiunzione cade nella revoluzione
della natività di Cristo

   Del spazio immenso a’ siti originali
del ciel stellato i cardini congiunti
(donde or per molti gradi son disgiunti)
eran di Cristo nelle ore natali; 4
   mutava l’anno e i secoli mortali
Febo, di Capricorno ne’ due punti,
dov’ora il veggo; e, nel primo raggiunti
trigono, i lumi erranti principali 8
   in mobil segni han l’assidi; e ’n consiglio
seco han Mercurio; e presto vien più grande
a lor poi Marte a ponere scompiglio. 11
   Ecco ceder le sètte empie e nefande
al Primo Senno; e, s’io fuor di periglio
sarò, predicherò cose ammirande.

58
Sonetto cavato dall’«Apocalisse»
e Santa Brigida

   Molti secoli son, che l’uman germe,
vinto dal rio costume, al mondo diede
genti doppie di sesso e doppia fede,
pronti agl’inganni, alle virtuti inferme. 4
   In mezzo a tanti mali io per vederme,
stavo piangendo, ed ecco che s’avvede
Europa in parte, dove men possiede
ambo gli porti di lussuria il verme. 8
   Quel che aspettavan tutti vati insieme,
veggo più venti correre a vendetta
contra la belva onde Natura geme. 11
   Un destrier bianco il suo cammino affretta,
di nostra redenzion verace speme:
l’adultera il destin, temendo, aspetta. 14

59
Sopra la statua di Daniele

   Babel disfatta, che fu l’aurea testa,
venne l’argenteo petto, Persia; a cui
ventre e cosce di rame siete vui,
Macedoni; a cui Roma ultima resta. 4
   Fûr due gambe di ferro note in questa;
ma le dita han di terra i piedi sui,
significando i regni or sparti e bui,
di chi fu schiava, ed or donna funesta. 8
   Ahi, terra arsiccia, donde sempre fuma
vanagloria, superbia e crudeltate,
che infetta, acceca, annegrica e consuma! 11
   Ma voi la Bibbia e Danïel negate
per schifar questo: ch’è vostra costuma
coprirvi di menzogna e falsitate. 14

Qui legit, intelligat.

60
Al carcere

   Come va al centro ogni cosa pesante
dalla circonferenza, e come ancora
in bocca al mostro, che poi la devora,
donnola incorre timente e scherzante; 4
   così di gran scïenza ognuno amante,
che audace passa dalla morta gora
al mar del vero, di cui s’innamora,
nel nostro ospizio alfin ferma le piante. 8
   Ch’altri l’appella antro di Polifemo,
palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta
il laberinto, e chi l’Inferno estremo 11
   (ché qui non val favor, saper, né pièta),
io ti so dir; del resto, tutto tremo,
ch’è ròcca sacra a tirannia segreta. 14

È chiaro.

61
Di se stesso

   Sciolto e legato, accompagnato e solo,
gridando cheto, il fiero stuol confondo:
folle all’occhio mortal del basso mondo,
saggio al Senno divin dell’alto polo. 4
   Con vanni in terra oppressi al ciel men volo,
in mesta carne d’animo giocondo;
e, se talor m’abbassa il grave pondo,
l’ale pur m’alzan sopra il duro suolo. 8
   La dubbia guerra fa le virtù cónte.
Breve è verso l’eterno ogn’altro tempo,
e nulla è più leggier ch’un grato peso. 11
   Porto dell’amor mio l’imago in fronte,
sicuro d’arrivar lieto, per tempo,
ove io senza parlar sia sempre inteso. 14

1. Mira quante contraposizioni sono in questo sonetto!
14. In Paradiso non si parla se non con l’intendenza. Vedi la Metafisica.

62
Di se stesso quando ecc.

   D’Italia in Grecia ed in Libia scorse,
bramando libertà, Catone il giusto;
né potendo saziarsene a suo gusto,
sino alla morte volontaria corse.
   E ’l sagace Annibàl, quando s’accorse 5
che schifar non potea l’imperio augusto,
l’anima col velen svelse dal busto.
Onde anche Cleopatra il serpe morse.
   Fece il medesmo un santo Maccabeo;
Bruto e Solon furor finto coperse, 10
e Davide, temendo il re geteo.
   Però, là dove Iona si sommerse
trovandosi, l’Astratto, quel che feo
al santo Senno in sacrificio offerse.

Titolo: Quando bruciò il letto e divenne pazzo, o vero o finto. «Stultitias simulare in loco, prudentia est», disse il Comico; e de iure gentium i pazzi son salvi. L’istorie di questo sonetto sono assai, e note.
13. Essendo condannato a’ remi ecc.

63
  
  A certi amici, uficiali e baroni, che,
per troppo sapere, o di poco governo
o di fellonia l’inculpavano

   Non è brutto il Demòn quanto si pinge:
sta ben con tutti, a tutti, cortesia:
la più sentenza eroica è la più pia:
un piccol vero gran favola cinge. 4
   Il paiuol della pentola più tinge;
nera chiamarla dunque non dovria.
Libertà bramo, e chi non la desia?
ma il viver sporca chi per viver finge. 8
   – Chi si governa mal, spesso si duole. –
Se pur lo dite a me, ditelo a tanti
gran profeti e filosofi ed a Cristo. 11
   Né il saper troppo, come alcun dir suole,
ma il poco senno degli assai ignoranti
fa noi meschini e tutto il mondo tristo. 14

Questo è assai noto ed arguto e vero. Si pensa il volgo che per poco cervello sono mal trattati i savi, e che non si sappiano governare; e non veggono che condannan i Santi e Cristo, che pur patirono la morte ecc. Ma per l’ignoranza di quegli molti, «qui nesciunt quid faciunt», e non per il saper loro. Vedi la Metafisica in questo punto.

64
A consimili

   Ben seimila anni in tutto ’l mondo io vissi:
fede ne fan l’istorie delle genti,
ch’io manifesto agli uomini presenti
co’ libri filosofici ch’io scrissi.
   E tu, marmeggio, visto ch’io mi ecclissi, 5
ch’io non sapessi vivere argomenti,
o ch’io fossi empio; e perché il sol non tenti,
se del Fato non puoi gli immensi abissi?
   Se a’ lupi i savi, che ’l mondo riprende,
fosser d’accordo, e’ tutto bestia fôra;
ma perché, uccisi, s’empi eran, gli onora?
   Se ’l quaglio si disfà, gran massa apprende;
e ’l fuoco, più soffiato, più s’accende,
poi vola in alto e di stelle s’infiora.

Mirabile risposta a’ predetti argomenti, con ragioni vive contra i reprensori.
4. Quanta istoria un uomo sa, tanti anni ha, secondo che l’Autore espose.
5. Marmeggi sono i vermi nati dentro il cacio, che si pensano non ci esser altra vita né paese che ’l lor cacio.
11. Mostra che la morte di savi è la felicità del mondo, ovvero sanità; e che, morti, sono venerati da chi gli riprende.
14. La metafora del quaglio e del fuoco soffiato sono notabili a chiarire il fine de’ travagli de’ savi, ordinato dal Fato divino.

65
Orazione a Dio

   Tu, che, forza ed amor mischiando, reggi
e muovi gli enti simili e diversi,
ordinati a quel fine, ond’io scoversi
il Fato, l’Armonia di tutte leggi; 4
   s’è ver che i prieghi di cosa correggi
non decretata negli eterni versi,
ma solo i tempi prosperi e perversi
d’affrettar o tardar ne privileggi; 8
   così prego io, che tant’anni mi truovo
di sciocchi e d’empi favola e versaglio,
e nuove ingiurie e pene ognora pruovo: 11
   allevia, abbrevia, Dio, tanti travagli;
ché tu pur non farai consiglio nuovo,
se a libertà antevista quinci saglio. 14

4. E’ si è provato in sua Metafisica che tutti gli enti dal dolore e dalla voluttà sono spinti ad operare, e che tutti da un Senno ad un fine da lui inteso sono indirizzati.
8. E’ pare che Dio ammenda le preghiere contrarie al Fato della sua volontà, perché non fa cosa ab aeterno non voluta e prevista.

66
A Dio

   Come vuoi ch’a buon porto io mi conduca,
se de’ compagni dati io veggio a prova
altri infedeli, e chi fede ha, si trova
che senno in lui pochissimo riluca?
   e ’l fido e saggio, come lepre in buca, 5
timor nasconde, o fugge, e non mi giova;
e, se l’audacia in tal virtù si cova,
cattività ed inopia le manuca?
   L’onor tuo, l’util mio, la ragion sprezza
vaneggiante l’aiuto, che m’invii, 10
per cui m’annunzi libertà e grandezza.
   Credo e farò, se gli empi vòi far pii:
ma vorrei, per alzarmi a tanta altezza,
ch’io m’intuassi, come tu t’immii.

4. Gli amici o sono infedeli o di poco senno; e se hanno l’uno e l’altro, sono timidi; e se sono fedeli, savi e coraggiosi, sono incarcerati e poveri. Così furono tutti gli amici dell’Autore, che guastarono ogni suo pensier grande.
11. Questo aiuto è uno, che predisse a lui le cose come messo da Dio, se bene ingannato dal Demonio.
14. Questo verso è dantesco, e molto a proposito per la scambievole penetrazione di Dio con esso noi.

67
Ad Annibale Caracciolo, detto Niblo,
scrittor d’egloche

   Non Licida, né Driope, né Licòri
pôn mai, Niblo gentil, farti immortale,
se d’amor infinito oggetto eguale
l’ombre non son, né gli cadenti fiori. 4
   La bellezza, che in altri ammiri e adori,
nell’anima tua diva più prevale;
per cui lo spirto mio spiega anche l’ale
verso le note degli eterni ardori. 8
   Illustra dunque quel che ’n te risplende
con l’amor di virtù che mai non manca,
e laudi immense da Dio solo attende. 11
   Di far conto con gli uomini omai stanca
l’anima mia, la tua richiama, e rende
alla scuola di Dio con carta bianca. 14

Si va alla scuola di Dio con carta bianca, quando si cerca la verità, secondo che da lui è insegnata. Ma, quando si cerca secondo la dicono li scrittori, come Aristotile, Platone o Scoto ecc., si va col conto fatto, e non si impara mai la pura verità ecc.

68
Al Telesio cosentino

   Telesio, il telo della tua faretra
uccide de’ sofisti in mezzo al campo
degli ingegni il tiranno senza scampo;
libertà dolce alla verità impetra. 4
   Cantan le glorie tue con nobil cetra
il Bombino e ’l Montan nel brettio campo:
e ’l Cavalcante tuo, possente lampo,
le ròcche del nemico ancora spetra. 8
   Il buon Gaieta la gran donna adorna
con dïafane vesti risplendenti,
onde a bellezza natural ritorna; 11
   della mia squilla per li nuovi accenti,
nel tempio universal ella soggiorna:
profetizza il principio e ’l fin degli enti. 14

Questi sono accademici, discepoli del gran Telesio, ch’uccide Aristotile, tiranno degli ingegni umani. Ma il Gaieta, che scrisse della bellezza, avanzò tutti, secondo ch’ e’ dice in Metafisica. Ma esso Autore, filosofo de’ princìpi e fini delle cose, rinnovò la filosofia, ed aggiunse la metafisica e politica ecc., e la accoppiò con la teologia.

69
A Ridolfo di Bina

   Senno ed Amor, innanzi a primavera
degli anni tuoi, t’han dato, o Bina, l’ale
a volar con Adam, guida fatale,
per molti spazi della nostra sfera. 4
   Così s’arriva alla virtute intiera,
virtù ch’a voi dà gloria, e morte al male:
mal, che gran tempo te, Germania, assale:
Germania, che de’ suoi figli dispera. 8
   Ma in te grazie divine, eroica prole,
leggendo il cielo, scorge il senno mio;
deh! lascia al volgo errante ciance e fole. 11
   Tu, con animo ardente, altiero e pio,
bandisci guerra alle falsarie scuole,
ch’io vincitor ti veggo, e veggo in Dio. 14

2. Cavalier tedesco, che con Tobia Adami, per filosofare, da’ sedici anni si pose a scorrere il mondo, e visitò l’Autore; il qual conobbe nella sua natività in lui ingegno sublime e singulare; ed introdotto alla sua filosofia, l’esortò a seguire il corso fatale.

70
A Tobia Adami filosofo

   Portando in man la cinica lucerna,
scorri, Tobia, l’Europa, Asia ed Egitto;
finché i piedi d’Ausonia in luogo hai fitto,
dov’io, nascosto in ciclopea caverna, 4
   fatal brando a te tempro in luce eterna
contra Abaddon, ch’oscura il vero e ’l dritto,
di quanto in nostra scuola già s’è scritto
a gloria di chi noi fece e governa. 8
   Contra sofisti, ipocriti e tiranni
d’armi del Primo Senno ornato vai
la patria a liberar di tanti inganni. 11
   Mal, se torci; gran ben, s’indrizzerai
virtute, diligenza, ingegno ed anni
verso l’aurora degli eterni rai. 14

Accenna a un sogno o visione d’una spada grande e mirabile con tre triplici giunture ed armi, ed altre cose, trovate da Tobia Adami, che l’Autore interpretò delle sue Primalità ecc.
71
Sonetto nel Caucaso

   Temo che per morir non si migliora
lo stato uman; per questo io non m’uccido:
ché tanto è ampio di miserie il nido,
che, per lungo mutar, non si va fuora. 4
   I guai cangiando, spesso si peggiora,
perch’ogni spiaggia è come il nostro lido;
per tutto è senso, ed io il presente grido
potrei obbliar, com’ho mill’altri ancora. 8
   Ma chi sa quel che di me fia, se tace
Omnipotente? e s’io non so se guerra
ebbi quand’era altro ente, ovvero pace? 11
   Filippo in peggior carcere mi serra
or che l’altr’ieri; e senza Dio nol face.
Stiamci come Dio vuol, poiché non erra. 14

Conforto infelice del corporeo senso atterrito dalla ragione, che non si uccida pensando scampare i guai; contra Seneca ed altri, che la morte chiamano «quiete», non sapendo che cosa è senso.

72
Lamentevole orazione profetale
dal profondo della fossa dove stava incarcerato

Canzone

Madrigale 1

   A te tocca, o Signore,
se invan non m’hai creato,
d’esser mio salvatore.
Per questo notte e giorno
a te lagrimo e grido. 10
Quando ti parrà ben ch’io sia ascoltato?
Più parlar non mi fido,
ché i ferri, c’ho d’intorno,
ridonsi e fanmi scorno
del mio invano pregare, 10
degli occhi secchi e del rauco esclamare.

Madrigale 2

   Questa dolente vita,
peggior di mille morti,
tant’anni è sepelita,
che al numero io mi trovo
delle perdute genti, 5
qual, senza aiuto, uom libero, tra morti,
di morte e non di stenti:
a’ quali il mio composto
sol vive sottoposto,
nel centro ad ogni pondo 10
di tutte le rovine, ahimè, del mondo.

Madrigale 3

   Gli uccisi in sepoltura,
dati da te in obblio,
de’ quai non hai più cura,
de’ sotterranei laghi
nell’infimo rinchiuso 5
di morte fra le tenebre sembro io.
Qui un mar di guai confuso,
pien di mostri e di draghi,
. . . . . . . .
sopra di me si aduna, 10
e ’l tuo furor spirando aspra fortuna.

Madrigale 4

   Dagli amici disgiunto
sono, e opprobrio al mio sangue,
di scorni e d’orror punto,
che fiutar non mi vuole;
né potrebbe, volendo, 5
me abbominato qual pestifero angue;
e ’l tradimento orrendo
lor fai apparir sole
verso cotanta mole
di paure e di affanni, 10
perch’io mendìco sol qui pianga gli anni.

Madrigale 5

   Signor, a cui son figlie
le pietose preghiere,
le tue gran maraviglie
e grazie in me non mostri;
faraile a’ morti note? 5
o il fisico a cantar tue glorie altere
risuscitar gli puote?
o fia ne’ ciechi chiostri,
chi narri gli onor vostri?
o qui al buio alcun scerne, 10
tra obblio e perdizion, tue pruove eterne?

Madrigale 6

   Quinci io pur sempre esclamo,
sera e dì ti prevengo:
– Libertà, Signor, bramo –
e tu pur non m’ascolti,
ma volgi gli occhi altrove. 5
Povero io nacqui, e di miserie vengo
nutrito in mille prove;
poscia, tra i saggi e stolti
alzato, mi trasvolti
con terribil prestezza 10
nella più spaventevole bassezza.

Madrigale 7

   Sopra me si mostrâro
tutti gli sdegni tuoi,
tutti mi circondâro,
come acqua tutti insieme;
ahi come stansi fermi! 5
né che m’aiuti alcun permetter vuoi.
. . . . . . . . . .
La gente del mio seme
m’allontanasti, e preme
duro carcer gli amici; 10
altri raminghi vanno ed infelici.

Madrigale 8

   Va’, amaro lamento,
tratto di salmodia,
ch’è d’altri profezia,
ma di me troppo assai vero argomento.
Vanne allo Spirto Santo, 5
di cui se’ parto santo:
forse avrà per sua figlia alcun contento,
che non merta il mio accento.

Questa canzone è parte cavata dal Salmo: «Domine deus, salutis meae» ecc., e la manda allo Spirto Santo.

73
Orazioni tre in salmodia metafisicale
congiunte insieme

Canzone prima

Madrigale 1

   Omnipotente Dio, benché del Fato
invittissima legge e lunga pruova
d’esser non sol mie’ prieghi invano sparsi,
ma al contrario esauditi, mi rimuova
dal tuo cospetto, io pur torno ostinato, 5
tutti gli altri rimedi avendo scarsi.
Che s’altro Dio potesse pur trovarsi,
io certo per aiuto a quel n’andrei.
Né mi si potria dir mai ch’io fosse empio,
se da te, che mi scacci in tanto scempio, 10
a chi m’invita mi rivolgerei.
Deh, Signor, io vaneggio; aita, aita!
pria che del Senno il tempio
divenga di stoltizia una meschita.

In questo primo madrigale di questa canzone mirabile confessa che sempre fu esaudito al contrario da Dio; e che però e per la legge fatale, che non si rompe mai, non doverebbe più pregare: ma, vedendo che non ci è altro rimedio, né altro Dio a chi ricorrere, torna alle orazioni solite, con pentirsi di questo, di dire che, se ci fosse altro Dio, anderebbe a quello ecc. Egli par diventar pazzo; e che l’anima sua, tempio della Sapienza divina, si fa meschita di stoltizia.

Madrigale 2

   Ben so che non si trovano parole
che muover possan te a benivolenza
di chi ab aeterno amar non destinasti;
ché ’l tuo consiglio non ha penitenza,
né può eloquenza di mondane scuole 5
piegarti a compassion, se decretasti
che ’l mio composto si disfaccia e guasti
fra miserie cotante ch’io patisco.
E se sa tutto ’l mondo il mio martoro,
il ciel, la terra e tutti i figli loro, 10
perché a te, che lo fai, l’istoria ordisco?
E s’ogni mutamento è qualche morte,
tu, Dio immortal, ch’io adoro,
come ti muterai a cangiar mia sorte?

Qua argomenta ch’e’ non dovesse pregare: primo, per lo Fato risoluto nell’eterna volontà; secondo, perché non ci è eloquenza che possa persuader Dio; terzo, perché quel che vuol dire, lo sa tutto il mondo, tanto più Dio che lo fa o permette, ecc.; quarto, perché non può mutarsi, s’egli ha così ordinato: perché ogni mutamento è qualche morte, secondo sant’Augustino; dunque ecc. Queste ragioni sono risolute in Metafisica e Teologia; ed appresso risponde in parte.

Madrigale 3

   Io pur ritorno a dimandar mercede,
dove il bisogno e ’l gran dolor mi caccia.
Ma non ho tal retorica, né voce,
ch’a tanto tribunal poi si confaccia.
Né poca carità, né poca fede, 5
né la poca speranza è che mi nuoce.
E se, com’altri insegna, pena atroce,
che l’anima pulisca e renda degna
della tua grazia, si ritrova al mondo,
non han l’Alpe cristallo così mondo, 10
ch’alla mia puritade si convegna.
Cinquanta prigioni, sette tormenti
passai, e pur son nel fondo;
e dodici anni d’ingiurie e di stenti.

Dice che ritorna a pregare, confidato non in retorica né in argomenti, ma nella fede e speranza e carità, che non gli mancava, e ne’ tormenti lunghi ed atroci, che poteano averlo purificato e reso degno e congruo d’essere esaudito. E pure s’inganna, come mostra nella Canzone a Berillo.

Madrigale 4

   Stavamo tutti al buio. Altri sopiti
d’ignoranza nel sonno; e i sonatori
pagati raddolcîro il sonno infame.
Altri vegghianti rapivan gli onori,
la robba, il sangue, o si facean mariti 5
d’ogni sesso, e schernian le genti grame.
Io accesi un lume: ecco, qual d’api esciame,
scoverti, la fautrice tolta notte
sopra me a vendicar ladri e gelosi,
e que’ le paghe, e i brutti sonnacchiosi 10
del bestial sonno le gioie interrotte:
le pecore co’ lupi fûr d’accordo
contra i can valorosi;
poi restâr preda di lor ventre ingordo.

Narra che, stando il mondo nello scuro, e facendo tanto male ognuno al prossimo, e che gli sofisti ed ippocriti, predicando adulazioni, fanno dormir il mondo in queste tenebre; egli, accendendo una luce, ebbe contro gli ingannati e l’ingannatori ecc.; e che quelli, come pecore accordate co’ lupi contra gli cani, son devorate poi da’ lupi, secondo la parabola di Demostene.

Madrigale 5

   Deh! gran Pastor, il tuo can, la tua lampa,
da’ lupi omai difende e da’ ladroni.
Fa noto il tutto all’ignorante gregge;
ché se mia luce e voce, pur tuoi doni,
lasci spacciare per peccato in stampa, 5
più dannato fia il sole e la tua legge.
Ma, s’altra colpa è pur che mi corregge,
sai che non può volarsi senza penne
della tua grazia; né, senza, io le merto.
Pur sempr’ho l’occhio al tuo splendor aperto; 10
che fallo è il mio, se dentro egli non venne?
Ma sciogli Bocca, e fai tuo messaggero
Gilardo; e con qual merto?
Màncati la ragion forse o l’impero?

Prega che Dio manifesti al popolo ch’egli è luce e cane, e non larva e lupo ecc.; e che la luce solare e la legge divina pur saranno presi per oscurità e per nequizia, se chi dice il vero è talmente afflitto ecc. Poi dice che, se ci è qualche peccato ch’egli non vede in sé, per lo quale pate, che gli dia la grazia di uscirne; perché non si può volar senza l’ali della grazia di Dio, né si può la grazia meritare se non per grazia. E ch’egli solo s’apparecchia a riceverla. Poi s’ammira che liberò Bocca, e fece suo profeta un altro tristo senza meriti.

Madrigale 6

   Parlo teco, Signor, che mi comprendi,
e dell’accuse altrui poco mi cale.
Io ben confesso che del mondo hai cura
e ch’a nulla sua parte vogli male;
quantunque, a ben del tutto che più intendi, 5
senza annullarle, le muti a misura:
in che consiste proprio la Natura;
e tal mutanza male e morte noi
di qualità o di essenza sogliam dire,
ch’è del tutto alma vita e bel gioire, 10
bench’alle parti tanto par ch’annoi.
Così del corpo mio più morti e vite
veggo andare e venire,
di parti a ben del tutto in vita unite.

Mostra che questi argomenti gli fa a Dio, che sa, quel che dice, non dirlo d’animo eretico. E poi confessa che Dio regge il tutto, e che muta le cose con misura, e che la mutazione pare male e morte a noi, che parti siamo del mondo, se bene al tutto è vita e giocondità; come nel corpo nostro più morti e vite ci sono, mentre il cibo si trasmuta in tante particelle, e parte del corpo esala in aere ecc., e pure fanno una vita del tutto composto.

Madrigale 7

   Il mondo, dunque, non ha male; ed io
di mali innumerabili sto oppresso
per letizia del tutto e d’altre parti.
Ma, se alle particelle hai pur concesso
d’invocar chi l’aiuta «proprio Dio», 5
ché a tutti gli enti il tuo valor comparti
e le mutanze lor con segrete arti
addolcisci, amoroso temperando
Necessitate, Fato ed Armonia,
Possanza, Senno, Amor per ogni via; 10
m’è avviso, ch’a pregarti ritornando,
truovi rimedio alcun, che rallentarmi
possa la pena ria,
o ’l dolce crudo amor di vita trarmi.

Conchiude che, se ’l mondo non ha male, ma egli, ch’è parte di quello, patisce per ben del tutto e dell’altre parti (come la pecora per cibar il lupo, ed ogni parte del mondo offesa chiama in aiuto altre parti simili, come Dio proprio, perché Dio in quelle l’aiuta, mentre a tutte donò Potere, Sapere ed Amore, e le temperò con Fato, Necessità ed Armonia); dunque e’ deve pur pregare Dio, e non cessare, perché ci dia rimedio contra la pena, o ci tolga l’amor crudele del vivere, che gli dona più pena che la morte stessa ecc. Nota ch’è dolce l’amor della vita e crudele, perché, se quello non fusse, non ci dispiacerebbe la morte, né gli guai.

Madrigale 8

   Cosa il mondo non ha che non si muti,
né che del suo mutarsi non si doglia,
né che del suo dolersi Dio non preghi.
Fra’ quali molti son cui avvenir soglia,
che, come tu ab aeterno vuoi, l’aiuti; 5
e molti ancora, a cui l’aiuto neghi.
Come dunque io saprò per cui ti pieghi,
s’io presente non fui al consiglio antico?
Argomento verace alfin m’addita
che quella orazïon sia esaudita, 10
che con ragione e puramente io dico.
Così spesso, non sempre, nel tuo volto
sentenza è diffinita,
che ’l campo frutti ben, s’egli è ben cólto.

Dice che tutti gli enti pregano Dio nel suo modo, che loro tolga le pene: onde san Paolo, Ad Romanos: «Omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc». E che Dio esaudisce molti secondo ch’e’ destinò, e molti no; e che, non sapendo s’egli era destinato d’esser esaudito, s’appiglia al partito di pregare ancora. Perché per buon argomento conosce che la dimanda ragionevole e con purità deve essere esaudita, come il campo ben cultivato fa frutto; e si spera il frutto con ragione, benché Dio avesse disposto altrimenti, ma che Dio proprio pare che voglia anche tal fruttare ecc.

Madrigale 9

   Del mio contrito e ben arato suolo
la coltura mi reca gran speranza,
ma più lo sol del Senno che ’l feconda,
che molte stelle forse sopravanza,
esser predestinato sopra il polo, 5
che la preghiera mia non si confonda,
e ch’abbia il fine, a cui di mezzi abbonda
pur da te infusi e previsti ab aeterno.
Con condizion pregò Cristo, sapendo
che schivar non potea il calice orrendo. 10
E l’angel suo rispose: al gran governo
convenir ch’egli muoia. Io senza prego,
risposta ricevendo
dal mio diversa, che sovente allego.

Conchiude che, sendo egli contrito e cultivato come il campo, può sperar aiuto da questa orazione; ma più lo certifica il senno che Dio l’infuse, o per profeti gli avvisa ecc., e ch’, avendo mezzi per gran fine, arriverà a quel fine che le virtù dategli da Dio ricercano. E che, se bene Cristo non fu esaudito nella morte, e l’angelo gli rispose che dovea morire, pregò con condizione: «si fieri potest». Ma e’ prega senza condizione, e l’angelo gli risponde che sarà esaudito. Questo fu inganno del Demonio, e non angelo. Nota quanto ci vuol a digiudicar se saremo esauditi.

Madrigale 10

   Canzon, di’ al mio Signor: – Chi per te giace
tormentato in catena intra una fossa,
dimanda come possa
volar senza ale. O manda, o tu insegna
come la ruota fatale è ben mossa, 5
e se si truova in ciel lingua mendace. –
Ma parrai troppo audace,
senza l’altra, ch’or teco uscir disegna.

Manda la canzone a Dio, che gli dica che non può volare senza l’ali della sua grazia, e che gli mandi un angelo, od egli stesso l’insegni se la ruota della Fortuna va con ragione, poich’egli può patire senza ragione ed altri sguazzare senza merito ecc. E come, avendoli rivelato la libertà, si truova bugia in cielo. Questo fu ’l Diavolo, e non un angelo. Poi dice ch’aspetti la seconda canzone a questo proposito, più umile.

74

Canzone seconda
della medesima salmodia

Madrigale 1

   Se ha’ destinato ch’io ben sparga il seme,
avrai forse voluto che ben mieta:
perché dunque sì tarda il giusto fine?
Perché le stelle fai e più d’un profeta,
i tuo’ doni e scïenze vani insieme? 5
Perché le forze e le voglie divine
il nemico schernisce? e le rovine,
ch’a lui si converrian, a me rivolve?
Perché tra ’l Fato un’animata terra
bestemmia e nega Dio, s’egli non erra, 10
e me che t’amo in tante pene involve?
Quando ignorai e negai, molto impetrai
con chi il tuo nome atterra;
or ch’io t’adoro, vo traendo guai.

Quattro dimande argute e dolenti fatte a Dio, difficili a sciôrre, come quella di Ieremia: «Iustus es, Domine, si disputem tecum» ecc. Ma più è questa: che sia nell’ordine fatale, bene ordinato da Dio, alcuno che bestemmia Dio; e come ciò possa essere. La risposta ci è nell’Antimacchiavellismo d’esso Autore. Poi dice che Dio l’esaudì in altri travagli, quando era poco cristiano; ed ora s’ammira che, risoluto ad essere buono, non è esaudito.

Madrigale 2

   Se tu già m’esaudisti peccatore,
perch’or non m’esaudisci penitente?
Perch’a Bocca, il tuo Nume dispregiante,
le porte apristi, e me lasci dolente,
preda al nemico e riso al traditore? 5
Così m’hai dato il corridor volante?
Ogni tiranno è contra i tuoi costante,
e ’n ben trattar chi a’ suo’ piaceri applaude;
e tu gli amici tuoi sempre più aggravi,
e nel lor sangue l’altrui colpe lavi. 10
Che maraviglia se cresce la fraude,
moltiplicano i vizi e le peccata?
Ché, ad onta nostra, i pravi
si vantan, che dài lor vita beata.

Segue le medesime dimande. E come liberò quel tristo, che apostatò poi, ed egli fu ingannato da chi volea liberarlo. Poi dice che, sendo gli amici di Dio sempre afflitti, però sono pochi: il che disse Salomone in Ecclesiaste: «Quia eadem cunctis eveniunt, corda filiorum hominum implentur malitia» ecc., e perché «vidi iustos, quibus mala eveniunt, malos autem, qui ita securi sunt ac si bene egissent».

Madrigale 3

    Io con gli amici pur sempre ti scuso
ch’altro secolo in premio a’ tuoi riserbi;
e che i malvagi in sé sieno infelici,
sempre affligendo gli animi superbi
sdegno, ignoranza e sospetto rinchiuso; 5
e che di lor fortune traditrici
traboccan sempre al fine. Ma gli amici,
se, quelli dentro e noi di fuor, siamo
tutti meschini, chieggon la cagione,
che fa nel nostro mal tue voglie buone; 10
che se gli altri enti e noi, figli d’Adamo,
doveamo trasmutarci a ben del tutto
di magione in magione,
perché non fai tal muta senza lutto?

Risponde che a’ buoni s’aspetta un’altra vita in premio. E che di più in questa vita gli tristi sono più puniti in verità, che gli buoni internamente, bench’e’ non paia; come pur disse san Piero a Simon mago ecc. Ma di ciò nasce maggior dubbio: perché Dio fa che ci sia tanta meschinità tra buoni e malvagi? E se la mutazione fa questo, perché non ordinò che le cose si mutino senza sentir dolore?

Madrigale 4

   Senza lutto se fosse, senza senso
sarian le cose e senza godimento,
né l’un contrario l’altro sentirebbe,
né ci sarìa tra lor combattimento,
né generazïone, e ’l caos immenso 5
la bella distinzione assorbirebbe.
E pur nel punto che mutar si debbe
la cosa, uopo è che senta, perch’all’altra
resista e faccia ch’ella si muti anco,
secondo il Fato vuol, né più né manco, 10
chi regge il mondo. Or qui tuo senno scaltra.
Io, teco disputando, vinto e lasso
cancello, e metto in bianco
le mie ragioni; in altro conto passo.

Risponde che, se la mutazione fosse senza doglia, non ci sarebbe senso di piacere. E così non combatterebbono gli enti contrari, e non si farebbe generazione, e ’l mondo tornerebbe caos. E poi risponde, che pure nel punto del mutamento, quando par che Dio dovesse levare il senso del dolore, è necessario che ci sia, perché resista quel ch’è travagliato e muore al travagliante, e si temperi in quel modello che intende Dio operante con tale ordine del suo Fato. Stupenda risposta! E poi dice che non sa che dire a Dio, in questo; e passa in altre sue opinioni sopra ciò ecc.

Madrigale 5

   Solevo io dir fra me dubbiando: – Come
d’erbe e di bruti uccisi per mia cena
non curo il mal, né a’ supplicanti vermi
dentro a me nati do favor, ma pena;
anzi il sol padre e terra madre il nome 5
struggon de’ figli e i lor composti infermi;
così Dio non sol pare che s’affermi
che del mal nostro pietade nol punga,
ma ch’egli sembri il tutto; onde ne goda
trarci di vita in vita con sua loda, 10
che fuor del cerchio suo mai non si giunga. –
O pur, che in Dio fosse divario dolce,
dissi ragion men soda,
come in Vertunno è, che ’l nostro soffolce.

Dice ch’e’ solea immaginarsi che Dio fa come noi a’ vermi nati dentro il corpo nostro; che gli uccidiamo e non sentiamo i prieghi loro; o come il sole e la terra uccidono gli secondi enti da lor generati. E che Dio sia il tutto, e gode che dentro a lui si mutino senza annullarsi le cose, ma passano sempre in vario essere vitale ecc. O che Dio pure si mutasse, ma con dolcezza, come si favoleggia di Vertunno e Proteo, e che dal suo mutamento dolce nasce il nostro mutamento; e così l’affanno per conseguenza a noi, sendo noi parti, e non il tutto.

Madrigale 6

   Or ti rendo, Signor, fermezza intègra:
ché i prieghi e ’l varïar d’ogni ente fue
da te antevisto, e non ti è un iota nuovo,
ch’un tuo primo voler possa or far due.
D’essere e di non essere s’intègra: 5
per l’un la fermo, per l’altro la muovo,
che da te sia, da sé non sia, la truovo;
per sé si muta, e per te non s’annulla
la creatura; e stassi, te imitando;
e mutasi, tua idea rappresentando, 10
ché in infinite fogge la trastulla,
per non poterla tutta in un mostrare;
infinità mancando
a questa, nel cui male il tuo ben pare.

Corregge la falsa opinione predetta, dicendo che Dio è immutabile, e le orazioni non poter dal suo primo volere mutarlo, perché già avea antevisto i prieghi nostri, e determinato se era bene esaudirle o no. Poscia mostra che il mutamento non viene dall’essere, né da Dio, ma dal nostro non essere; e che, sendo noi composti di ente e niente, quello da Dio ricevuto e questo da noi, sempre torniamo al niente, e Dio ci tiene che non ci annulliamo. E questo ritenimento è figurarsi con nuova idea sempre; e che la creatura sendo finita, e l’idea infinita, non può in una sola mutazione tutta parteciparla; e però Dio lascia questa mutazione del niente, servendosi a bene dell’ente, ecc.

Madrigale 7

   Le colpe di natura (ancor dichiaro),
in cui si fondan l’altre del costume,
per la continoa guerra, ch’indi avviene
che l’un l’altro non è, non dal tuo Nume,
ma dal nïente origine pigliâro. 5
Né toglier la discordia a te conviene,
né far che l’un sia l’altro, perché ’l bene
di tanti cangiamenti sarìa spento,
né la tua gloria nota in tante forme
gioiose mentre stanno a te conforme, 10
dogliose mentre vanno al mutamento,
dove il niente le chiama. Ond’io veggio
che il tuo Senno non dorme;
ma io, in niente assorbito, vaneggio.

Dichiara che gli peccati della natura, in cui sono fondati pur quelli del costume, ch’è abuso d’essa natura razionabile, non vengono da Dio, ma dalla guerra de’ contrari; e la guerra viene da niente, perché l’uno non è l’altro. Vedi la Metafisica per questo. E poi dice che non par bene, come alcuni Epicurei dicono, che Dio tolga la guerra tra gli elementi e tra gli elementati; perché mancherebbe la mutazione e la rappresentazione della gloria divina in tanti successi d’essere, li quali sono giocondi, mentre sono simili a Dio. Onde tutti bramano essere; e la doglia solo nasce quando vanno al non essere ed al morire, dove il niente gli chiama; e Dio non lascia annicchilarsi, ma passare in altri essere.

Madrigale 8

   Sì come il ferro, di natura impuro,
sempre s’arruggia e ’l fabbro invita all’opra,
così le cose, dal nïente nate,
tornan sempre al nïente; e Dio sta sopra,
ché non s’annullin, ma di quel che fûro 5
in altro essere e vita sien recate.
S’ e’ fregia nostra colpa e nullitate,
Dio ringraziar debbiam, non lamentarci;
ed io, vie più che gli altri, che son meno,
onde di guai mi truovo sempre pieno. 10
Ma, se de’ pannilini i vecchi squarci
carta facciam, che noi di morte rape
d’eternitade al seno,
che fia di me, se Dio di noi più sape?

Séguita a mostrare che Dio si serve della nostra mutazione e nientità a mostrare altre ricchezze d’essere; e che non possiamo lamentarci di lui se siamo travagliati e muoiamo, perché questo viene dal nostro non essere, non dal suo essere. E poi dice che, sendo egli partecipe di molto niente, come gli guai mostrano, non deve lagnarsi. Alfine si conforta che, se de’ stracciati panni si fa da noi carta per scrivere ed eternarsi in scrittura, tanto più Dio de’ suoi maltrattamenti e stracciato corpo potrà fare cosa immortale, e glorificarlo in fama ed in vita celeste ecc., perché sarebbe sciocco, non sapendosi servire del male in bene più che noi ecc.

Madrigale 9

    – Ma perché più degli altri io fui soggetto
alle doglienze della vita nostra?
– Ché in questa o in altra aspetti miglior sorte,
e in quelli forza e in te saper Dio mostra.
– Ma perché l’una e l’altro io non ho stretto? 5
– Ché se’ parte e non tutto. – E perché forte
fu e savio chi a Golia donò la morte?
– Quel ch’era in lui, in te non è or bisogno.
– Perché così? – Ché l’ordine fatale
ottimo il volle, che Dio fece tale. – 10
Miser, so men quanto saper più agogno!
Miserere di me, Signor, se puoi
far corto e lieve il male,
senza guastar gli alti consigli tuoi!

Fa un dubbio: perché fu più soggetto delli altri a’ guai? E risponde: perché aspetta miglior sorte in questa e nell’altra vita, e perché Dio negli altri mostra il suo potere, facendogli meno soggetti a’ guai, e ’n lui il suo sapere. E contra questa risposta argomenta: per che causa David fu sapiente e forte? Risponde che fu così necessario in quello, e non ora in esso Autore. E, replicando, dice che l’ordine fatale così portò, ordinato ab aeterno. E perché ciò poco s’intende, conchiude che quanto più vuol sapere di questi segreti, meno ne sa. Però si volta a pregare simplicemente che Dio l’aiuti senza guastare i suo’ disegni ecc.

Madrigale 10

   Canzon, di’ al mio Signor, ch’io ben conosco
ch’ogni cosa esser puote
migliore a sé, ma non all’universo;
ch’ e’ già sarìa disperso,
se uguali al sol fussero l’altre ruote 5
del mio desir non vòte.
Ma più ho da dirli. Aspetta
la tua terza sorella, che non tarda;
sarai in mezzo eletta
e più a grazia impetrar forse gagliarda. 10

Manda questa orazione a Dio, con dire che ben vede come per se stesso e’ potrebbe star meglio, ma non per tutto ’l mondo, perché il mondo sarebbe guasto, se tutti i pianeti e la terra fossero eguali al sole, e non patissero, come non pate il sole; talché il desiderio loro non s’adempie, né quello dell’Autore, per ordine divino. E poi si prepara alla terza canzone di questa medesima materia.

75

Canzone terza
della medesima salmodia

Madrigale 1

   Vengo a te, potentissimo Signore,
sapientissimo Dio,
amorosissimo Ente primo ed uno:
miserere del nostro antico errore;
cessi omai l’uso rio; 5
non sia più l’uno all’altro uomo importuno;
tornin, dove io gli aduno,
alla prima Ragion tua; donde errando,
siamo trascorsi a diverse menzogne,
talché ognun par ch’agogne 10
farsi degli altri Dio, gli occhi abbagliando
al popol miserando,
già di cieca paura
sforzato a perseguir chi ben gli adduce;
ond’io sto in sepoltura, 15
perché lor predicai la prima luce.

Prega Dio che tutti torniamo tanto alla legge naturale, che [a] quella di Dio, e che cessi la idolatria, le sètte false e le guerre cominciate per ragione di Stato e la diversità de’ principati; e che sia una gregge, un pastore ed una fede. E narra i mali avvenuti dalla divisione d’essa fede naturale, e più gli proprii: per che fa ricorso a quella ecc.

Madrigale 2

   Per l’Unità ti priego viva e vera,
per cui disfarsi stimo
la discordia, la morte e l’empio inganno;
per la Possanza universal primera,
e per lo Senno primo 5
e per lo primo Amor, ch’un ente fanno:
togliene omai quel danno,
che da valor, da senno e d’amor finti,
tirannide, sofismi, ipocrisia,
spande pur tuttavia; 10
che l’alme e i corpi a pugna cieca ha spinti
fra lacci e laberinti,
ove par che sia meglio
non veder l’uscio a chi forza non have;
e me n’hai fatto speglio,
quando senz’arme m’hai dato la chiave.

Lo prega per gli epiteti suoi eminentissimi: Unità, contraria alla discordia, alla morte ed allo tradimento; per la Possanza, Senno ed Amore; che ci toglia i danni venuti da finta possanza, finto senno e finto amore. Donde è nata la pugna cieca, che ci facciamo male l’un l’altro senza intendere perché, poiché spesso sono carcerati quegli che dicono il vero, e sono tenuti per eretici, come san Paolo da Nerone e san Piero ecc. E come in questo laberinto non giova vedere il vero a chi non è armato, perché più è afflitto dall’ingannati e dall’ingannatori, come disse nel sonetto «Gli astrologi» ecc.

Madrigale 3

   Per le medesme eminenze ch’io soglio
dir di se stesse oggetti,
essenza, verità e bontade insieme,
ti prego, s’io di maschere le spoglio,
quella colpa rimetti, 5
che tôrre i falsi dèi dall’uman seme
vantansi, e più ci preme.
Chi vide ch’unquanco in terra si faccia
il tuo voler, sì come si fa in cielo?
chi d’ignoranza il velo, 10
chi il giogo sotto gli empi, che n’allaccia,
in fatti rompe o straccia?
Sol libertà può farci
forti, sagaci e lieti. E ’l suo contrario
valere a consumarci 15
di sei milla anni mostra il gran divario.

Prega per gli oggetti delle eminenze metafisicali già dette, le quali e’ spoglia di maschere, scoprendo la tirannia e la sofistica e la ipocrisia ecc., che Dio voglia perdonare a tutto il mondo, e far che si faccia in terra il suo volere come si fa in cielo, e che cessi l’ignoranza, la tirannia e la ipocrisia. E che questo non possa essere, se Dio non ci mette in libertà di peccato e di signoria, che possiamo e sappiamo dire il vero. E che gli falsi dèi promettano tutti la beatitudine, e mai non s’è vista ancora. Però debba provvedere il vero Dio.

Madrigale 4

   Poi ti prego, ti supplico e scongiuro
per l’influenze magne,
Necessità, Fato, Armonia, che ’l regno
dell’universo mantengon sicuro,
tue figlie, non compagne; 5
per lo spazio, ch’è base al tuo disegno;
per la mole all’ingegno,
pel caldo e per lo freddo, d’elementi
gran fabbri, e per lo cielo e per la terra,
pe’ frutti di lor guerra; 10
pel tempo e per le statue tue viventi,
stelle, uomini ed armenti,
per tutte l’altre cose;
per Cristo, Senno tuo, Prima Ragione,
che dalle sorti ascose 15
spezzi la crudel mia lunga prigione.

Prega per l’influenze magne, Necessità, Fato ed Armonia, che guidano il mondo, come influenze ed effetti di Dio, e non come cause, né concause del suo governo. E questo dice contra i Gentili. Poi prega per tutti gli enti fisici, per lo spazio, per la materia, per lo caldo e freddo, per lo cielo e terra, per la generazione che fanno pugnando, per lo tempo, per le statue di Dio vive, che sono ecc., e per tutte le cose. Alfin conchiude come la Chiesa, per Cristo, Verbo e Sapienza di Dio, rompa la sua prigionia ecc.

Madrigale 5

   Se mi sciogli, io far scuola ti prometto
di tutte nazïoni
a Dio liberator, verace e vivo,
s’a cotanto pensier non è disdetto
il fine a cui mi sproni; 5
gl’idoli abbatter, far di culto privo
ogni dio putativo
e chi di Dio si serve e a Dio non serve;
pôr di ragione il seggio e lo stendardo
contra il vizio codardo; 10
a libertà chiamar l’anime serve,
umiliar le proterve.
Né a’ tetti, ch’avvilisce
fulmine o belva, dir canzon novelle,
per cui Siòn languisce. 15
Ma tempio farò il cielo, altar le stelle.

Mira qual voto grande d’animo divinissimo! E’ pretende fare a Dio una scuola di tutto il mondo, se Dio lo aiuta. Nota che Dio si deve adorar in spiritu et veritate, e non in tetti di fango, che i fulmini e gli nidi d’uccelli scherniscono. E così Dio disse ad Isaia: «quam domum aedificabitis» ecc., e san Stefano. Ma la Chiesa di Cristo tiene questi, non perché Dio sia legato in loro, ma perché s’unisca il popolo in carità per la conoscenza e culto comune. «Beato chi intende come s’adora!» dice san Bernardo.

Madrigale 6

   Deh! risorga a pietà l’Amor eterno,
e l’infinito Senno
proponga l’opra al gran Valor immenso,
che il duro scempio del mio lungo inferno
vede senza il mio cenno: 5
sei e sei anni che ’n pena dispenso,
l’afflizion d’ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de’ sciocchi,
il sol negato agli occhi, 10
i nervi stratti, l’ossa scontinoate,
le polpe lacerate,
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso, e ’l timor crudo,
e ’l cibo poco e sporco; 15
in speme degna di tua lancia e scudo.

Narra ed amplifica la preghiera con tanti guai, che patia dentro quella fossa dopo dodici anni continovi ecc. I tormenti sono noti.

Madrigale 7

   Farsi scanni gli uman corpi a’ giganti,
gli animi augei di gabbia,
bevanda il sangue, e di lor prave voglie
le carni oggetto, e le fatiche e i pianti
giuoco dell’empia rabbia, 5
maniche a’ ferri usati a nostre doglie
l’ossa, e le cuoia spoglie;
de’ nostri sensi, testimoni e spie
false contra noi stessi; e ch’ogni lingua
l’altrui virtute estingua, 10
e fregi i vizi lor con dicerie,
vedrai da queste arpie
più dal tuo tribunale.
Che pel tuo onor, mia angoscia se non basta,
ti muova il comun male, 15
a cui la providenza più sovrasta.

Narra tutti i guai, che da’ tiranni sono avvenuti a tutti uomini nel tempo presente e passato, e così da’ sofisti ed ipocriti. E nota che in senso mistico e metafisico dice assai, parlando di tutte le parti del nostro corpo serventi a quelli; ma con verità delle false adulazioni e testimonianze, e che Dio ne vede più ch’egli dice: e però si muova pel ben comune di tutti, se non per lui si muove ecc.

Madrigale 8

   Se favor tanto a me non si dovea
per destino o per fallo,
sette monti, arti nuove e voglia ardente
perché m’hai dato a far la gran semblea,
e ’l primo albo cavallo, 5
con senno e pazienza tanta gente
vincere? Dunque, mente
tanto stuol di profeti che tu mandi?
ed ogn’anima santa, che già aspetta
veder la tua vendetta, 10
falsa sarà per gloria di nefandi?
Più prodigi e più grandi
il tuo Nume schernito,
qual muto idolo, agogna oggi, che quei
ch’ i mostri han sovvertito 15
di Samaria, d’Egitto e di Caldei.

Dice che Dio, avendogli fatto tanti favori di dargli nuove scienze, sette monti in testa prodigiosi, e volontà di fare la scuola del Primo Senno per divino instinto, e ’l cavallo bianco, ch’è l’ordine sacerdotale dominicano, e ’l vincere tanti tormenti e tormentatori, ciò è segno che Dio l’abbia da liberare per qualche gran cosa. E questo mostra da’ profeti e santi: vedi Brigida, Vincenzo, Catarina; e dal desiderio comune ecc. Poi dice che più miracoli ci vogliono a questo tempo, che non quando Moise ed Elia, e Daniele ecc. vinsero. Perché Dio è tenuto come idolo muto, secondo ch’ e’ dice a santa Brigida ecc.

Madrigale 9

   Tre canzon, nate a un parto
da questa mia settimontana testa,
al suon dolente di pensosa squilla,
ch’ostetrice sortilla,
ite al Signor, con facce e voce mesta 5
gridando miserere
del duol, che ’l vostro padre ange e funesta.
Né sia chi rieda a darmi altra novella
dal Rettor delle sfere
che ’l fin promesso dell’istoria bella 10
(sia stato falso o vero il messaggiere),
cantando: – Viva, viva Campanella! –

Dà commiato a tutte le tre canzoni, fatte in un tempo stesso ed in un soggetto, come tre sorelle d’un parto ecc. Dice che non tornino senza il fine promesso in certe visioni, che si canterà – Viva Campanella – nel fine di questo suo carcere, e cose altre mirabili, ch’egli dice nell’Antimacchiavellismo; e ch’e’ fu deluso dal Diavolo ecc.

76
Quattro canzoni.
Dispregio della morte

Canzone prima

Madrigale 1

   Anima mia, a che tanto disconforto?
forse temi perir tra immensi guai?
Tema il volgo. Tu sai
dirsi morir chi fuor del suo ben giace.
Se nulla in nulla si disfà giammai, 5
non può altronde, chi a sé pria non è morto,
morte patir o torto,
né temer guerra chi a se stesso ha pace.
Non ti muova argomento altro fallace.

Se ente alcuno non s’annicchila, bisogna dire che la morte sia mutazione; e che morto è ’n verità chi sta fuor del bene a sé conveniente, e non chi è mutato in altro ente.

Madrigale 2

   Se nativa prigion te non legasse,
legar non ti potria l’empio tiranno,
ch’ e’ non può far tal danno
a’ sciolti venti, agli angeli, alle stelle.
Solo a lui male i tuoi tormenti fanno, 5
ma a te ben, come se ti liberasse,
o ti risuscitasse,
chi da sepolcro o da prigion ti svelle;
ché l’uno e l’altro son l’umane celle.

Il tiranno fa torto, ma non male, anzi ti sprigiona o risuscita; peroché il corpo è prigionia, secondo san Paolo e Trismegisto, e carcere oscuro. E perché siamo carcerati nel corpo, possono gli uomini carcerarsi ancora. Onde i venti e gli angeli non possono da noi essere carcerati. Talché non deve temersi il morire, ma stimarsi fine di prigionia e di morte ecc.

Madrigale 3

   Dentro il gran spazio, in cui lo mondo siede
tutto consperso di serena luce,
che ’l sommo Ente produce,
e di vive magion lucenti adorno,
dove han gli spirti repubblica e duce, 5
in libertà felice: sol si vede
nera la nostra sede.
Dunque, de’ regni bianchi, ch’ella ha intorno,
fu a’ peccatori esilio e rio soggiorno.

Il mondo è tutto luminoso, e tutte le stelle in lui lucono, e sono stanze di angeli o di loro repubblica; e fra queste stelle solo la terra si vede in mezzo nera. Dunque questa terra è il carcere de’ demoni e dell’anime; e non fu fatta da Dio lucente per tal fine.

Madrigale 4

   Il centro preme in sempiterna notte
sotto ogni pondo i più rubbelli; e ’l giro
or letizia, or martiro,
or tenebra ed or lume al mondo apporta,
che i proprii dal comun carcer sortîro; 5
né, quindi uscendo, in nulla son corrotte.
Ma chi scende alle grotte,
tornar non può, perché ivi al doppio è morta;
e chi va in alto, al carcer odio porta.

I demoni stanno nel centro, l’anime nella circonferenza tra il bene e ’l male, dove hanno sortito il carcere proprio, dalla terra pigliando il corpo suo, la quale è carcere comune; e però, morendo l’uomo, l’anime non muoiono. E se bene non tornano a farsi vedere da noi, questo è perché quelle che vanno al centro sono proibite, e quelle che vanno al cielo odiano di tornare a vedere i carceri e guai ecc., se Dio non l’arma di virtù contra quelli.

Madrigale 5

   Se lo spirto corporeo, che ’l calore
ne’ bruti e pur negli uomini ha produtto,
sempre esala al suo tutto,
né riede a noi, quantunque esca a dispetto,
ignorando ch’a gaudio va dal lutto: 5
vie più la mente, che di lui men muore
tornando al suo Fattore,
poi, saggia e sciolta, fugge il nostro tetto:
avviso che non erri al coro eletto.

8. Qui pruova a minori ad maius che l’anima de’ morti non torna al cadavero, poiché lo spirito animale, ch’esce con lutto e si fa aria, pur non vuol tornare.
9. La bruttezza della terra fu avviso alli angeli che non errassero, se al suo centro non volean venire; e così è pure mo a noi.

Madrigale 6

   È tutto opaco il corpo che ti cinge,
e sol ha due forami trasparenti;
né in lor le cose senti,
ma sol le specie, e non qua’ son, ché l’onda
le fa, il cristallo e ’l corno differenti, 5
che ’l lume che le porta àltera e tinge.
Né pur tuo specchio attinge
a veder l’aria sottil che ’l circonda,
né gli angeli, né cosa più gioconda.

Dice all’anima che il carcere suo è tutto opaco, e solo ha due forami trasparenti, che sono gli occhi; pe’ quali neanche le cose si veggono, ma le immagini, entranti con la luce di lor tinta, e di più alterata dalle tuniche degli occhi e dagli umori, cioè corneo, uveo, acqueo, cristallino; talché non si possono vedere come sono. Né pur vede l’aria sottile, né gli angeli, che ci stanno sempre avanti, per la grossezza di queste tuniche ecc.

Madrigale 7

   Indebolite luci e moti e forze
delle cose, che batton la muraglia
del carcer che n’abbaglia,
sentiamo noi, non le possenti o dive;
perché sfarìan la nostra fragil maglia. 5
Né virtù occulta ammetton le sue scorze,
che per noi non si ammorze:
poche sembianze e di certezza prive
solo ha chi meglio tra noi parla e scrive.

Vuol dire che le cose manifeste a noi sono occulte, perché non siamo atti a sentire la luce del sole possente, né gli moti del cielo, né la possanza del fuoco senza consumarci, e molto meno di Dio e degli angeli. Né pur sentiamo le virtù occulte e deboli delle erbe, perché non possono arrivare a muover lo spirito serrato in tante scorze del corpo, pria che per noi si ammorzino, così che non si possano far sentire. Dunque il saper de’ più savi consiste in alcune sembianze, non nelle cose; e quelle, prive di certezza, perché mostrano poco e quasi di lontano e per mezzi grossi del corpo.

Madrigale 8

   Qual uomo a volo non vorria levarsi,
o più saltar a giugner? Ma nol lascia
questa di morti cascia.
Va col pensiero a più parti del mondo,
dove esser brama; ma la grossa fascia 5
non vuol che vada, né possa internarsi
— — — — -
Dunque tien l’alma il tenebroso pondo,
l’allegrezza, i desiri e i sensi in fondo.

Ogni uomo vorrebbe arrivar col corpo dove va col pensiero, né può internarsi dentro le cose a saperle. Dunque ci proibisce il corpo il sapere, e ’l desiderio e ’l ben desiderato. Il perché e’ ci fa male tanto; e non lo conosciamo, desiderando vivere in lui ecc.

Madrigale 9

   Di’: come al buio hai tu distinto l’ossa?
i nervi soprasteso alle giunture?
tante varie testure
di vene, arterie e muscoli formasti,
le viscere, le fibre e legature? 5
come il bodel si piega, stringe e ingrossa?
come, di carne rossa
vestendo il tutto, la testa scarnasti?
come il caldo obbedia? come il frenasti?

Se l’alma non sa come s’è fabbricato il corpo, né come fece tante membra a tanti usi, né come si frena il calore ecc., è segno ch’essa non fece il corpo.

Madrigale 10

   Non mi risponder quel ch’impari altronde
e nell’anatomia, ché non è tuo
cotal saper, ma suo,
di chi t’avvisa: e pur t’inganni spesso,
come n’hai sperimenti più che duo. 5
Or, se [in] te ignori ciò che ’l corpo asconde
e in altri spii, risponde
non essere, a chi al buio sta, concesso
veder che fa, né il luogo, né se stesso.

Dice che l’alma non deve rispondere a tal dimanda, per quello ch’impara di fuori, ché non è suo sapere di quel che fa dentro a sé. Il che s’ella l’ignora, ignora se stessa, non sapendo che cosa è anima, né come sta nel corpo. Deve confessare che sta in carcere oscuro; e perché chi sta all’oscuro non vede se stesso, né il luogo dove sta, né quello ch’esso fa, così l’anima ignora sé, e ’l corpo, e l’opere sue proprie che fa in lui ecc.

Madrigale 11

   Pur, se ’l vario nutrir t’ha fatto porre
la fabbrica in obblio, di’ mo: in che modo
il nutrimento sodo
all’ossa tiri, ed a’ nervi il viscoso,
ed agl’impuri vasi feccia e brodo? 5
Come odi, e vedi, e pensi, quando a scôrre
ten vai nell’alta torre?
Di’: il respirar, e ’l polso stretto e ondoso
come dài al spirto, fatica e riposo?

Non può dir l’anima che si scordò della fabbrica del corpo per la fatica del nutrimento, poiché neanche sa dire quello ch’essa fa in nutrire il corpo, e come seguestra il puro dallo impuro, e tira ad ogni membro quel che fa per sua sostanza, né come si respira o si dorme o si vigila. Dunque ecc.

Madrigale 12

   Tu non sai quel che fai, ch’altri ti guida,
come al cieco chi vede apre ’l cammino.
Il tuo carcer sì fino
per tu’ avviso e suo giuoco il Sir compose.
Libera hai volontà sol, don divino, 5
per meritar, pigliando scorta fida,
no’ Macon, Cinghi o Amida,
ma chi formò tua stanza e l’altre cose;
e perché prezzi il ben, tra guai ti pose.

Dunque si conchiude che l’anima è guidata d’altri, come il cieco nell’opere sue. E ch’altri gli fabbricò il corpo, e ch’ella è soggetta in tutto, e solo libera di volontà per meritare, se scerrà la legge di Dio per scorta, e non quella di Macone, di Cinghi e d’Amida e di simili legislatori falsi. E però fu carcerata a operare, e non per pena sola, come pensò Origene. Vedi l’Antimacchiavellismo.

77

Canzone seconda
del medesimo tema

Madrigale 1

   Quante prende dolcezze e meraviglia
l’anima, uscendo dal gravante e cieco
nostro terreno speco!
Snella per tutto il mondo e lieta vola,
riconosce l’essenze, e vede seco 5
gli ordini santi e l’eroica famiglia,
che la guida e consiglia,
e come il Primo Amor tutti consola,
e quanti mila n’ha una stella sola.

Quel che l’anima vede e conosce uscita dal corpo, contra quelli che nel corpo la fanno più scienziata.

Madrigale 2

   Questo, ch’or temi di lasciar, albergo
tanto odierai, che, se: – Di ferro e vetro
per non sentir ferètro
né scurità, né doglia, – Dio dicesse –
tel renderò, ed in lui torna; – a tal metro, 5
crucciata, del voler voltando il tergo:
– In pianto mi sommergo –
risponderesti; salvo se ’l rendesse
tutto celeste, qual Cristo s’elesse.

Che l’anima, uscita dal corpo, non vuol tornare in lui, benché gli fosse fatto duro qual ferro e trasparente qual vetro, per non sentir morte né oscurità; e solo vorrebbe riaverlo, se fosse fatto glorioso come quello di Cristo risorgente: perché così non sarebbe all’alma impedimento, ma fregio ecc.

Madrigale 3

   Mirando ’l mondo e le delizie sacre
e quanti onor a Dio fan gli almi spirti,
comincerai stupirti
come egli miri pur la nostra terra
picciola, nera, brutta e, più vo’ dirti, 5
dove ha tante biastemme orrende ed acre,
che par che si dissacre;
dove sta l’odio, la morte e la guerra,
e l’ignoranza troppo più l’afferra.

Che l’alma, scarcerata dal corpo, si stupisce come Dio tenga conto della terra nostra, avendo tante delizie divine in cielo ecc., e qua tante bruttezze e peccati ecc.

Madrigale 4

   Vedrai pugnar contro la terra il cielo,
e ’l caldo bianco e la freddezza oscura,
e che d’essi Natura,
per trastullo de’ superi, ne forma
vento, acqua, pianta, metal, pietra dura; 5
del ciel scordarsi il caldo, e contra ’l gelo
vestirsi terren velo,
e come a suo’ bisogni lo conforma;
e che doglia e piacer gli enti trasforma.

Che l’alma sciolta vede la pugna degli elementi, e come la natura forma di essi tanti corpicelli per trastullo de’ superi, e come il caldo resta nel suo contrario a semenzire. E come la trasformazione è guidata dall’amore e dall’odio, ma non nel modo d’Empedocle, ma della Metafisica dell’Autore.

Madrigale 5

   Possanza, Senno, Amor da Dio vedrai
participar il tutto ed ogni parte;
ed usar la Prima Arte
Necessitade, Fato ed Armonia,
per cui tanta comedia orna e comparte, 5
a Dio rappresentando giuochi gai;
e divin fiati e rai
(che son l’anime umane) a’ corpi invia
per far le scene con più leggiadria.

L’alma sciolta vede anche la dependenza degl’influssi magni dalle primalità; e come il Primo Senno ordina la comedia universale con tante maschere di corpi; e, per nobilitare le scene, ci traveste le alme immortali umane.

Madrigale 6

   Fia aperto il dubbio, che torce ogn’ingegno:
perché i più savi e buoni han più flagelli,
e fortuna i più felli?
Ché Dio a que’ die’ le parti ardue del gioco,
per trarli a maggior ben da’ lordi avelli; 5
e del suo mal goder lascia chi è degno.
E n’ho visto pur segno,
più indotti e schiavi e impuri amar non poco
l’error, la prigionia e l’infame loco.

Risponde alla domanda di Epicuro e di tutti savi e di David e Ieremia: – Perché Dio dona travagli a’ buoni e fortuna a’ rei? – dicendo ch’a quelli diede la parte più ardua della comedia universale per premiargli poi, ed a questi lascia godere questa vita, perché è morte e degna di loro; e si pruova per esempio de’ vili, schiavi e carcerati, che si vendono più volte in galea, e non sanno vivere altrove, e godono di tal vita impura.

Madrigale 7

   Il giuoco della cieca per noi fassi:
ride Natura, gli angeli e ’l gran Sire,
vedendo comparire
della primera idea modi infiniti,
premiando a chi più ben sa fare e dire. 5
Se i nostri affanni son divini spassi,
perché vincer ti lassi?
Miriamo i spettator, vinciam le liti
contra prìncipi finti, stravestiti.

Come tra gli uomini e le cose basse si fa il giuoco della cieca e si travestono l’idee in varie fogge; e ride Dio e la Natura e gli angeli, e preparano premio a chi più sa ben fare e dire. E non ci è risposta più acuta di questa tra savi. Dunque, solo i nostri affanni sono giuoco di Dio, e sperano premio, ed è stoltizia fuggirgli tanto.

Madrigale 8

   Il carcere, che ’n tre morti mi tieni
con timor falso di morir, dispreggio.
Vanne al suolo, tuo seggio,
ch’io voglio a chi m’è più simile andarmi.
Né tu se’ quel che prima ebbi io, ma peggio, 5
che sempr’esali, e rifatto altro vieni
da quel che prandi e ceni:
onde lo spirto tuo nuovo ognor parmi.
Or perché temo in tutto io di sbrigarmi?

Si risolve sprezzare il corpo, che ci tiene in tre morti con timor di morir falso. E poi non è lo stesso corpo in cui fu posta l’alma, perché sempre altro si perde esalando, altro si rifà del cibo: e così lo spirto animale ancora. Però è pazzia far tanta stima di questo nostro vivo male ecc.

78

Canzone terza
del medesimo tema

Madrigale 1

   Piangendo, dici: – Io ti levai, – mia testa;
le man: – Scrivemmo –; i piè: – T’abbiam portato.
Dispregiarne è peccato.
Di più, te il dolor stringe e ’l riso spande;
ti prende obblio ed inganno, ché se’ un fiato, 5
e la puzza greva, odor cresce e desta,
che sparso in aere resta;
perché noi, gloria, Venere e vivande
sprezzi, ove certo vivi, e molto, e grande?

Dopo la risoluzione di abbandonare il corpo, fatta nella canzone precedente, qua risponde in favore del corpo o di ogni membro, che sia peccato sprezzar tanto buon compagno; e poi gli vuol mostrare ch’essa sia un fiato mortale corporeo, poiché il riso e la doglia lo mostrano, e la puzza ch’aggrava lo spirito, e l’odor che lo cresce e sveglia. Però par bestialità sprezzare il corpo, ove si vive certo e ci è gusto e gloria, per un’altra vita incerta ecc.

Madrigale 2

   – Compagno, se in obblio le doglie hai posto,
quando di terra in erba e in carne sei
fatto di membri miei,
pur questa obblierai, ch’or ti martìra,
di farti terra; e poi godrai di lei. 5
Per farne altri lavori ha Dio disposto
disfare il tuo composto;
ma in tutto il Primo Amor dolcezza spira.
Poi sarai mio, se ’l tutto al tutto aspira.

Risponde l’anima al corpo, consolandolo, che, se gli dispiace tanto il morire e scompagnarsi di lei, pur altre volte fu morto e trasmutato: quando si fece di terra erba, e d’erba cibo, e poi carne degli membri umani; ed in tutte queste trasmutazioni ha sentito dolore, perché ogni cosa sente. E se di tal dolore s’è scordato, gli dice che pure si scorderà di questo, ch’averà della separazione sua. E che, fattosi terra, goderà poi d’esser terra, come ogni ente del suo essere. Poi lo consola che sarà riunito nel fine del mondo, poiché ogni cosa desidera il suo tutto, e l’uomo tutto è in anima e corpo. Onde si pruova la resurrezione.

Madrigale 3

   S’or debbo a ciò che fosti e sarai mio,
porterò un monte: ma l’Arte soprana
quanto ti trasumana,
staremo insieme: né pensar ch’io tema
disfarmi in nulla o in cosa da me strana. 5
L’animal spirto, in cui involto sono io,
prende inganno ed obblio,
ed io per lui: quando egli cresce e scema,
patisco anch’io, ma non mutanza estrema.

In questo madrigale segue a rispondere che l’alma non è obbligata al corpo, perché, se quanto fu e sarà suo corpo deve ella prezzare, sarebbe bisogno portare un monte grandissimo; perché, mangiando, nuove particelle si aggregano al corpo, ed altre esalano. Talché ella non può tutto quello che fu suo, seco avere, ma quanto l’arte divina risusciterà: vide divum Thomam, in tertia parte. Poi risponde all’argomento fatto contra la sua immortalità, dicendo che le passioni predette sono nello spirito corporeo, veicolo della mente da Dio infusa, e non nella mente, se bene essa ne partecipa da lui, ecc.

Madrigale 4

   Desir immenso delle cose eterne
e ’l vigor, per cui sempr’alto più intendo,
e terra e ciel trascendo,
se nulla eccede di sue cause il fine,
mostran che d’aria e dal sol non dipendo, 5
né di cose caduche, ma superne.
Ecco che mi discerne
da te, ch’ami e sai solo il tuo confine;
e pur gran pruove d’altre alme divine.

L’intendere ed appetere l’infinito mostrano che l’anima non dipende dagli elementi, perché nessun effetto si leva sopra la sua causa, e che abbia origine da Ente infinito immortale. E pur le sperienze de’ santi e la religione vera comprovano lo stesso ecc. Nota che l’alma parla al corpo ancora, e gli fa questi argomenti, e ch’essa non è qual lui, ecc.

Madrigale 5

   La morte è dolce a chi la vita è amara;
muoia ridendo chi piangendo nasce;
rendiam queste atre fasce
al Fato omai, ch’usura tanta esige,
ch’avanza il capital con tante ambasce. 5
L’udito, i denti vuol, la vista cara.
Prendi il tuo, terra avara,
perché me teco ancor non porti a Stige.
Beato chi del tempo si transige!

Chiaro e stupendo detto dell’anima risoluta a morire, come rende il corpo alla terra ed al Fato; ch’egli cerca l’usura della vita che imprestò al corpo: or vuole doglie, or l’udito, or la vista ecc.; e questa usura avanza il capitale. Vedi l’Axioco di Platone.

Madrigale 6

   Tu, morte viva, nido d’ignoranza,
portatile sepolcro e vestimento
di colpa e di tormento,
peso d’affanni e di error laberinto,
mi tiri in giù con vezzi e con spavento, 5
perch’io non miri in ciel mia propria stanza,
e ’l ben ch’ogn’altro avanza:
onde, di sua beltà invaghito e vinto,
non sprezzi e lasci te, carbone estinto. –

Epiteti propriissimi del corpo; e contra le sue lusinghe e timori resoluzion veracissima dell’alma che gli parla.

79

Canzone quarta
del medesimo tema

Madrigale 1

   Filosofia di fatti il Senno vuole,
che l’ultime due tuniche or mi spoglia,
ch’è del viver la voglia
e d’aver laude scrivendo e parlando.
Doglia è lasciarle. Ma smorza ogni doglia 5
chi nella mente sua il gran Senno cole,
seco vuole e disvòle,
di lui se stesso in se stesso beando.
Onor non ha chi d’altri il va cercando.

Mostra in questo madrigale primo, che il Senno, di cui è amor la filosofia, non vuole parole solamente, ma fatti; e che, per operar bene e sprezzare i guai e la morte, è necessario spogliarsi del desiderio della vita e della gloria, che sono le due ultime tuniche che lascia il filosofo, secondo Platone; e però chi di queste è spogliato, ogni travaglio piglia a bene, e la morte stessa. Onde in tal contentezza diventa beato, volendo e disvolendo con Dio ciò ch’adiviene. Conchiude che il vero onor è dentro la coscienza, e chi si conosce buono e savio non cerca l’onor d’altri, che dicano ch’egli è buono e savio, poich’esso lo sa, e Dio e gli angeli. Dunque gli ambiziosi sono senza onor proprio sempre.

Madrigale 2

   Se fusse meglio a tutto l’universo,
alla gloria divina ed a me ancora,
ch’io di guai fosse fuora,
liberato m’avria l’Omnipotente;
ch’astuzia e forza contra lui non fôra. 5
Tiranno, incrudelisci ad ogni verso;
sbrani e mangi il perverso:
ché non è mal là dove Dio consente.
Non doni legge al medico il languente.

Vero argomento che, se non viene cosa senza Dio, il carcere di esso autore sarebbe già finito: perché contra Dio non può la violenza ed astuzia di quelli che lo tenevano carcerato in una fossa, dove fece queste quattro canzoni. Però si risolve voler la morte, se a Dio piace. I guai sono medicina. E ch’egli, infermo, non deve dar legge a Dio, suo medico.

Madrigale 3

   Empio colui non sol, ma ancora stolto,
che, ’n croce giubilar Piero ed Andrea
veggendo, e che si bea
Attilio ne’ tormenti e Muzio e Polo,
non sa avanzar la setta epicurea, 5
che sol piacer ha del piacer raccolto,
traendo gaudio molto,
pur come fan gli amanti, anche dal duolo;
ché ’l Primo Amor ci leva a tanto volo.

Non solo eresia, ma pazzia pare che l’uomo, vedendo tanti santi ed eroi godere degli tormenti ed eternarsi in Dio e nella fama, non sa far lo stesso nell’occasione, e pigliar allegrezza anche dagli affanni, come gli apostoli: e gli innamorati godono patir per la loro diva. Dunque l’Amor divino più ci alza a questo gaudio anche ne’ travagli. Onde si condanna Epicuro e ’l macchiavellismo, che non sanno cavar piacere e gaudio dagli affanni, ma solo dalle prosperità, come le bestie, le quali deve avanzar l’uomo savio ecc.

Madrigale 4

   Fuggite, amici, le scuole mondane;
alto filosofar a noi conviensi.
Or, c’han visto i miei sensi,
non più opinante son, ma testimonio,
né sciocche pruove ho de’ secreti immensi. 5
Già gusto quel che sia di Cristo il pane.
Deh! sien da noi lontane
quelle dottrine, che ’l celeste conio
non ha segnato; ch’io vidi il Demonio.

Richiama gli amici alla scuola di Cristo, poich’egli ha conosciuto per esperienza esser vero l’altro secolo dopo la morte, ed ebbe molte visioni manifeste al senso esteriore, e gli demoni lo travagliarono e vollero ingannarlo, fingendosi angeli. Ed allora fece questa canzone, e si dedicò tutto alla religione vera. E predica agli altri che la sua sperienza è vera, e non di femminella, né d’uomo deluso, ma di filosofo, ch’andò investigando questa verità, ed allora scrisse l’Antimacchiavellismo.

Madrigale 5

   Credendosi i demòn malvagi e fieri
indiavolarmi con l’inganni loro,
benché con mio martoro,
m’han fatto certo ch’io sono immortale;
che sia invisibil più d’un consistoro; 5
che l’alme, uscendo, van co’ bianchi e neri,
e co’ fallaci e veri,
a cui più simil le fe’ il bene e il male,
che più studiâro in questa vita frale.

L’utilità, la quale e’ cavò d’aver visto gli diavoli e trattato con esso loro, è ch’egli s’accertò che ci sieno anche degli angeli ed un’altra vita; e che però trattano con gli uomini, perché alla schiera de’ buoni o rei ha l’uomo d’aggregarsi dopo la morte, secondo a chi si fece simile di loro con le operazioni buone o rie. Appartenghiamo dunque ad un’altra vita. Se no, perché tratterebbono con esso noi?

Madrigale 6

   Altri spinge a servir Dio vil temenza,
altri ambizione di Paradiso,
altri ipocrito viso;
ma noi, ch’è Primo Senno e Sommo Bene
amabile per sé, tenemo avviso, 5
a cui farci conformi è preminenza,
bench’avessim scïenza
che n’abbia scritti alle tartaree pene.
Nel Primo Amor null’odio por conviene.

Che, datosi l’uomo al culto divino, non deve servir Dio per timore dell’inferno, né per amor della gloria ch’aspetta; che questo servire è vile, di schiavo o di mercenario, secondo che dice san Bernardo. Ma deve servire a Dio perch’è Sommo Bene, degno di sommo amore; e queste speranze debbono essere seconde, e non prime, secondo l’intenzione. E, se pure pensassimo andare all’inferno e lo sapessimo, dovremmo servire a Dio, perché questo è il vero Paradiso; se ben pare schifiamo l’inferno: perché chi s’accosta al Sommo Bene, non può cadere in male.

Madrigale 7

   Chi dagli effetti Dio conoscer brama
per seco unirsi e lodarlo, sia certo,
come in me sono esperto,
delle sue colpe segreto perdono
conseguisce e scïenza dell’incerto. 5
Dio osserva la pariglia: ama chi l’ama,
e risponde a chi il chiama.
Odia, disprezza il mal, sendo uno e buono;
chi a lui si dona, lo guadagna in dono.

Conchiude quel che ha provato, che Dio perdona i peccati e l’esaudisce, ed invocato risponde, ed insegna con più amore che il padre, e più presto che gli diavoli. E che noi non siamo intesi né veggiamo, perché trascuriamo il suo culto, e non lo chiamiamo per ben nostro e per vero amore, né ci diamo in tutto e per tutto a lui. Ma chi si dà a Dio, guadagna Dio e se stesso.

Madrigale 8

   Se mai fia ch’uomo ascolte
queste sotterra ed in silenzio nate
rime mie sventurate,
pria che nascan, sepolte,
pensier muti e costume; 5
ch’io non ragiono a caso,
ma sperïenza e Nume
e legge natural m’hanno persuaso.

Nel prender commiato dice che queste rime sono fatte in una fossa, e però sepolte avanti che nate; ed esorta le genti a mutar vita e sospetto, perché non si è mosso a parlar così, se non per esperienza, e per Nume divino che l’ha insegnato, e per ragion naturale filosofica; ed assicura tutti del vero.

80
Canzone a Berillo di pentimento
desideroso di confessione ecc.,
fatta nel Caucaso

Madrigale 1

   Signor, troppo peccai, troppo, il conosco;
Signor, più non m’ammiro
del mio atroce martiro.
Né le mie abbominevoli preghiere
di medicina, ma di mortal tosco 5
fûr degne. Ahi, stolto e losco!
Dissi: – Giudica, Dio, – non – Miserere. –
Ma l’alta tua benigna sofferenza,
per cui più volte non mi fulminasti,
mi dà qualche credenza 10
che perdonanza alfin mi riserbasti.

Parla a Dio e riconosce quelli peccati che gli parean atti meritorii.

Madrigale 2

   Quattordici anni invan patisco (ahi lasso!),
sempre errore accrescendo
a me stesso, ed agli altri persuadendo
ch’io per difender verità e giustizia
da Dio, c’ho sconosciuto, sia qua basso, 5
qual Cristo, eletto sasso
a franger l’ignoranza e la malizia.
Or ti vorrei pregar che, per discolpa
di tanti errori, accetti tante pene;
se non è nuova colpa 10
chieder ch’agli empi guai segua alcun bene.

Madrigale 3

   Io merito in nïente esser disfatto,
Signor mio, quando penso
l’opere prave mie e ’l perverso senso.
Poi, mirando ch’io son pur tua fattura,
che tocca riconciarla a chi l’ha fatto, 5
ch’io bramo esser rifatto
nel tuo cospetto nuova creatura,
questa sola ragion sola mi resta.
Onde sol fine al mio lungo tormento
chieggio, non quella festa, 10
né del prodigo figlio il gran contento.

Madrigale 4

   Io mi credevo Dio tener in mano,
non seguitando Dio,
ma l’argute ragion del senno mio,
che a me ed a tanti ministrâr la morte.
Benché sagace e pio, l’ingegno umano 5
divien cieco e profano,
se pensa migliorar la comun sorte,
pria che mostrarti a’ sensi suoi, Dio vero,
e mandarlo ed armarlo non ti degni,
come tuo messaggiero, 10
di miracolo e pruove e contrassegni.

Niuno deve predicare novità o cose donde pensa che s’abbia a migliorare la repubblica, se da Dio visibilmente non è mandato e, come Moise, armato di miracoli e contrassegni ecc.

Madrigale 5

   Altri il Demonio, altri l’astuzia propia
spinse a far cose nuove,
permettente colui che ’l tutto muove,
per ragion parte chiare e parte oscure.
Laonde chi di senso ha maggior copia, 5
spesso sente più inopia,
empiendosi di false conghietture,
che i divi ambasciator sien anche tali;
e la bontà di Dio, che condescende
e si mostra a’ mortali, 10
disconosce, discrede e non intende.

Come quelli che predicarono novità, non tutti furon da Dio mandati, ma dal Demonio, come Macometto e Minos; altri dalla prudenza, come Pitagora ecc.; onde molti pensano che anche Moise e gli profeti sieno così venuti, e s’ingannano.

Madrigale 6

   Osserva, uomo, osserva quella legge,
nella qual nato sei:
prencipe e sacerdoti sienti dèi,
e i lor precetti divini, quantunque
paiano ingiusti a te ed a tutto il gregge; 5
se Dio, per cui si regge,
diluvi, incendi e ferro usa quandunque
par giusto, e così que’ ministri d’ira.
Dove Dio tace e vuole, taci e vogli;
con voti al porto aspira, 10
schifando via, non offendendo, i scogli.

Che l’uomo deve comportare i tiranni, mentre da Dio sono permessi, il quale usa questi flagelli e fuoco e peste e guerra; e dove non ti dice altro, sta chieto, prega ecc., e non ti mettere ad aiutare con novità ecc.

Madrigale 7

   Chi schernisce i decreti, ovvero ammenda,
o col peccato scherza,
o di quel gode, o per la prima sferza
da errar non fugge più che dal colùbro,
o l’occulta giustizia non gli è orrenda: 5
costui misero intenda
ch’è preso all’ami; e que’ ch’al lido rubro
ostinati perîr, giungi al mio esempio.
Quanto ha il peccato in sé bruttezza e puzza
pria non conosce l’empio 10
che, qual Antioco, inverminisce e puzza.

8. Grande avvertimento e chiaro.
11. Mira quando uno empio arriva a conoscer il peccato.

Madrigale 8

   Ma tu quei miri, che peccano impune,
lieti e tranquilli sempre;
ma non penètri le segrete tempre
dell’uomo interïor, e però sparli;
ché forse è di quel mal, che pensi, immune; 5
o pene ha più importune,
sdegno, sospetto, zelo, interni tarli;
né guardi il fine, né le divine ire,
quanto più tarde, tanto più gagliarde.
O ciò ne forza a dire: 10
– Necessario è l’Inferno, che sempre arde. –

Nota che non segue, perché non si vede la pena de’ malvagi, che però ella non ci sia, sendo o occulta o futura; o e’ non sono tristi come a te pare. O vero questo è, perché conosciamo che ci resta la giustizia dell’altro secolo, e crediamo l’Inferno ecc.

Madrigale 9

   Tardi, Padre, ritorno al tuo consiglio,
tardi il medico invoco;
tanto aggravato, il morbo non dà loco.
Quanto più alzar vo’ gli occhi al tuo splendore,
più mi sento abbagliar, gravarmi il ciglio. 5
Poi con fiero periglio
dal lago inferïor tento uscir fuore
con quelle forze che non ho, meschino.
Meschino me, per me stesso perduto!
Ché l’aiuto divino, 10
che sol salvarmi può, bramo e rifiuto!

Mira come la risoluzione di viver bene è impedita da’ mali abiti; come cerca con la prudenza umana uscir da quel male, donde non può umanamente.

Madrigale 10

   Desio di desiar tue grazie tengo:
certa, evidente vita,
quando voglia possente a te m’invita,
e quando è fiacca, avaccio sento il danno;
su l’ale del voler non mi sostengo 5
rotte e bagnate. Vengo
a que’ favor, che sì pregar mi fanno:
– Deh! pregate per me voi, ch’io non posso,
voi, Piero e Paolo, luminar del cielo,
Radamante e Minosso 10
della celeste legge e del Vangelo. –

Vedendo che ha il desiderio di desiderare, ma non del desiderato aiuto, e che quando si movea a Dio, subito sentia aiuto, e quando la voglia era lenta, sentia il danno, si risolve di dimandare aiuto ecc.

Madrigale 11

   Merti non ho per quelli gran peccata,
che contra te ho commesso.
Madre di Cristo, e voi che state appresso,
spirti beati, abitator del lume,
che ’l mondo adempie e sol la terra ingrata 5
ancor non ha purgata;
prego contra ragion, contra il costume,
ch’al vostro capital fiero inimico
impetrate da lui qualche perdono,
ch’ a’ peccator fu amico; 10
poiché tra gli empi il maggior empio io sono.

Madrigale 12

   Ah, come mi sta sempre innanzi agli occhi,
come mi fere e punge!
Come l’alma dal corpo mi disgiunge,
e la fiducia dall’alma mi svelle
il gran fallo mio, gli atti miei sciocchi! 5
– Tu, chi mi senti e tocchi,
aria, tu, vivo ciel, voi, sacre stelle,
e voi, spirti volanti dentro a loro,
ch’or m’ascoltate, ed io non veggio voi,
mirate al mio martoro; 10
di voi sicuri, pregate per noi. –

Madrigale 13

   Canzon grave e dolente
delle mie iniquitati,
corri a Berillo vivo, da Dio eletto
a purgar l’alme da’ brutti peccati.
Di’ che la mia si pente; 5
ch’ e’ faccia il sacro effetto,
invocando per me l’Omnipotente.

3. Berillo è don Basilio di Pavia, di santità e carità ed amicizia singolare con esso lui.

81
Della prima possanza

Canzone

Madrigale 1

   Le potestati umane tanto m’hanno
travagliato, ch’omai vengo a pensare,
ch’io peccai contra te, Possanza Prima;
però che di Saturno più d’un anno
tutto del Senno Primo a contemplare 5
mi diedi, e al Primo Amor volsi ogni rima,
di te tanto scrivendo
quanto per lor ti intendo,
di cui dovevo far principal stima.
Or io volgo il mio stile 10
alla tua dignitade,
perdon chiedendo umìle
ed aiuto, o Suprema Podestade.

Dovea l’Autore, per ordine metafisico, scrivere della Prima Possanza avanti che del Primo Senno. Ma non ne parlò mai, senon in questa canzone, pentitosi d’aver in trenta anni, ch’èl’anno saturnino, scritto e parlato solo d’Amore e del Senno. Ed ora chiede perdono e domanda aiuto alla Possanza dentro la stessa fossa ecc.

Madrigale 2

   Dove manca possanza, il patimento
ch’al non esser le cose sempre tira,
abbonda, e ’l caso avverso, ed ogni male;
onde io tant’anni mi truovo scontento.
A te, Valor, dunque, oggi alzo la mira, 5
a cui soggiace ogni forza fatale:
ché ’l Senno e l’Amor pio,
com’or ben confesso io,
senza la tua difesa poco vale.
Può amar chi ha potenza 10
e sa chi può sapere,
ed è chi aver può essenza;
dunque, ogni quiddità vien dal Potere.

4. I guai che vengono per mancanza di Potere.
13. E’ pruova che dal Potere viene l’Essere, l’Amare e ’l Sapere.

Madrigale 3

   L’intrinseco poter fa che sossista
ogn’essere; e l’estrinseco il difende,
si è d’altri, o parte, e non da sé, né tutto.
Sta il mondo e gli enti magni in questa lista,
a cui precede chi da nullo pende, 5
Dio, che interno valor solo ha per tutto.
Ma può, se poter vuole
e se poter sa; e suole
(in sé volgendo quel che ’n lui è produtto)
saper, se puote ed ama; 10
e voler, se può e sape.
Dunque «tre in un» si chiama,
e distinzion d’origine sol cape.

Ha bisogno di poter estrinseco chi è parte e non tutto, o procede d’altri, e non da sé. Intrinseco l’ha il mondo, e forse gli angeli in parte: se bene da Dio hanno l’essere, e ’l potere per conseguenza, pure possono sempre essere, per quel che Dio gli donò essere, come totale e come da sé. Ma Dio solo è vero potere interno. Ma, perché Dio può volendo e sapendo, e sa potendo e volendo, e vòle potendo e sapendo, per questo è in tre uno, e solo si distingue per le relazioni d’origine. Vedi questa sottile disputa nella seconda parte della Metafisica dell’Autore.

Madrigale 4

   Possanza e Senno producono Amore
unitamente; e però tutte cose
aman l’esser, però che sanno e ponno,
ma sanno perché ponno solo. Autore
dunque del Senno primo ben si pose 5
il primario Poter, degli enti donno.
Ma, perché regge amando
ed opera insegnando,
e l’esser, quando è desto e quando è in sonno,
d’essi tre si compone, 10
saran tre preminenze,
d’ogni effetto e cagione
semplici metafisiche semenze.

L’Amor procede dalla Conoscenza e dalla Potenza, ma la Conoscenza dalla Potenza. Dunque la Potenza precede tutte le primalità metafisiche; ma, perch’essa non è Potenza senza Senno e senza Amore, però sono tutti tre preminenze, e semi, e cause metafisicali di tutte le cause e causati fisici ecc. Vedi la Metafisica.

Madrigale 5

   È, ciò ch’è, perché puote, sape ed ama;
non è, quel ch’esser non può, ignora o abborre,
per sé, o per forza d’altri, o del Primo Ente,
ch’è monotriade. E quel ch’all’esser chiama,
partecipando tre eminenze, corre, 5
pur limitato sempre dal nïente,
all’esser suo finito,
che sta in quello infinito
esser, eterno, solo, independente,
che creò, come base 10
d’ogni essenza seconda,
lo spazio, immenso vase,
ch’è penetrato, penetra e circonda.

Pruova che l’essere viene dal potere, sapere ed amare, e ’l non-essere dal non-potere, non-sapere ed odiare per sé, ma dal Primo Ente per accidente, in quanto toglie il potere o il sapere o l’amore, ma non lo annichila. E che, nascendo da lui, piglia ogni ente partecipazione di queste tre primalità; ma, finite, vengono a lui per la partecipazion del niente, che ha le sue opposte primalità; e che pure l’ente nato sta nel Primo Ente, e non fuori. E che il luogo è base dell’essere delli secondi enti, che penetra incorporalmente, e penetrato è corporalmente e cinge tutto.

Madrigale 6

   Quando di contener virtù donasti
al luogo, e dal tuo Senno senso prese,
e dall’Amor amor di farsi pieno,
la gran mole corporea ingenerasti,
delle virtuti agenti atta all’imprese, 5
in due triadi consimili a quel seno.
Poscia i maschi, possenti,
che di lei due elementi,
cielo e terra, formâro: e del più e meno
di lor gare e rovine 10
ogni mistura uscìa,
Dio influendo a tal fine
Necessitate, Fato ed Armonia.

Dice come Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza ed Amore; e che dentro a quello pose la materia, ch’è la mole corporea, consimile al seno, cioè al luogo, in due triadi, cioè nel potere, sapere ed amare, e nella lunghezza, larghezza e profondità, ecc. Nella materia poi Dio seminò due maschi principii, cioè gli attivi, caldo e freddo, perché la materia e ’l luogo sono femmine, passivi principii. E questi maschi d’essa materia divisa, combattendo, formâro due elementi, cielo e terra, gli quali combattendo tra loro, della languida fatta virtù loro nascono i secondi enti, per guida avendo della generazione le tre influenze, Necessità, Fato ed Armonia, che portan l’idea.

Madrigale 7

   La vita, agli enti varii che seguiva,
era virtute, in quanto da te nacque.
Ma quel che dal non esser timor venne,
ogni vizio produsse, e la nociva
ragion di Stato, e poi ’l mal proprio piacque, 5
che ’l senso indi impotente a ciò s’attenne.
Ma, se ti svegli omai,
in meglio muterai
natura madre e i figli, come accenne.
L’impotenza e ’l peccato 10
tôrrai da’ senni umani;
tutti in un lieto stato
gl’imperii adducerai varii profani.

Che la virtù venga dall’entità, che sono Valore, Senno ed Amore, e gli vizi dal timore del non-essere, perché da questo è nata la pugna degli elementi, e poi la ragion di Stato, ogni ente volendo esser sempre, e distruggere quel che l’impedisce l’essere in qualche modo. Quindi piacque a tutti il proprio male, perché il senso, partecipando il non-essere proprio, non conosce gli altri modi d’essere, e crede solo il suo essere ottimo, e sprezza per il suo anche il divino essere. Poi dice alla Prima Potenza che si pieghi a migliorare la natura e gli enti naturali, e levar l’impotenza, l’ignoranza ed odio, onde nasce il peccato; e condurre il mondo sotto una legge ed uno imperio, perché così cessa la ragion ria di Stato.

Madrigale 8

   Darai alla vita di durar virtute,
forza alla legge, che ’l gran Senno mise,
vigor all’amicizie, d’amor prole.
Senza te gli enti han le bontà perdute;
venner l’insidie e l’unità divise, 5
ch’invidia partorîro e false scuole:
timidità e pigrizia,
sconfidenza, avarizia,
viltate e crudeltà, che starsi sole
non san l’una dall’altra. 10
Ma, dove è tua fortezza,
ogni natura è scaltra,
né teme il male, onde di farne sprezza.

Mirabilmente mostra come, tornando il Valore, dona vita all’essere da lui nato, forza alla legge nata dal Senno, vigor all’amicizia nata d’Amore. E che la bontà è perduta per mancamento di essa potenza senza valore; perché chi non ha valore, s’appiglia all’insidie; e la divisione, che disunisce lo essere e la possanza, genera invidia fra gli enti impotenti e divisi, e diverse sètte e scuole false; poi il timore, la pigrizia, la sconfidenza, l’avarizia, la viltà, che sempre è accompagnata con la crudeltà, perché teme da ogni cosa e vorrebbe tutti gli enti morti ed estinti, perché non gli dien paura. Ma dove ci è valore, v’è industria e coraggio, e chi non teme il male d’altri, neanche ne fa ad altri. Nota che da’ mali degli elementi passa a’ mali degli uomini, perché questi in quegli si fondano.

Madrigale 9

   Canzon, di’ al Poter Primo
che per mancanza sua sto in tal paura,
che meditar non posso la Scrittura.
Traggami da questo imo
inferno. Ed in effetto, 5
se tutto il mio soggetto
ei non sarà, me stesso empio condanno
da mo al perpetuo lagrimoso affanno.

Scrisse nella fossa questa canzone, e non tanto lunga quanto quella d’Amore e del Senno, perché stava quasi disfatto. E promette, uscendo, complire; e n’è uscito otto mesi da poi, se bene ci stette tre anni ed otto mesi. Non so se ha poi serbato questo voto, se bene so che in Metafisica scrisse assai della Potenza, e di Dio cose altissime ecc.

82
Sonetto
della Providenza

   La fabbrica del mondo e di sue parti,
e di lor particelle e parti loro
gli usi accertati, il mirabil lavoro
pòn, saggio Autor, buon senza fin provarti. 4
   Poi gli abusi de’ bruti e di nostre arti,
de’ mali il gaudio e de’ buoni il martoro,
l’errar ciascun dal fine, a me ch’ignoro,
dicon che ’l Fabbro dal Rettor s’apparti. 8
   Possanza, Senno, Amor, dunque, infinito
commette altrui il governo e si riposa:
dunque si invecchia o si fa negligente? 11
   Ma un solo è Dio, da cui sarà finito
tanto scompiglio, e la ragion nascosa
aperta, onde peccò cotanta gente. 14

Dice in questo mirabile sonetto che la costruzione del mondo e delle parti e l’uso loro mostrano che sia Fattor loro un infinito Senno ottimo. Ma poi gli abusi de’ bruti e nostri ecc. mostrano ch’altro ci governi men savio principe. E questo lo dice dubitando. E poi argomenta che non può essere. E conchiude che questi mali sono per qualche disegno di Dio, e che saranno da quello tolti, e levato l’argomento donde pecca Epicuro e tanti filosofi e nazioni intere.

83
Della possanza dell’uomo

   Gloria a colui che ’l tutto sape e puote!
O arte mia, nipote – al Primo Senno,
fa’ qualche cenno – di su’ immagin bella,
ch’uomo s’appella.
   Uomo s’appella chi di fango nacque, 5
senza ingegno soggiacque, – inerme, ignudo:
patrigno crudo – a lui parve il Primo Ente,
d’altri parente.
   D’altri parente, a’ cui nati die’ forza
bastante, industria, scorza, – pelo e squame. 10
Vincon la fame, – han corso, artiglio e corno
contra ogni scorno.
   Ma ad ogni scorno l’uomo cede e plora;
del suo saper vien l’ora – troppo tarda;
ma sì gagliarda, – che del basso mondo 15
par dio secondo.
   E, dio secondo, miracol del primo,
egli comanda all’imo, – e ’n ciel sormonta
senz’ali, e conta – i suoi moti e misure
e le nature. 20
   Sa le nature delle stelle e ’l nome,
perch’altra ha le chïome – ed altra è calva;
chi strugge o salva – e pur quando l’eclisse
a lor venisse,
   quando venisse all’aria, all’acqua, all’humo. 25
Il vento e ’l mar ha domo, – e ’l terren globbo
con legno gobbo – accerchia, vince e vede,
merca e fa prede.
   Merca e fa prede; a lui poca è una terra.
Tuona, qual Giove, in guerra – un nato inerme; 30
porta sue inferme – membra e sottogiace
cavallo audace.
   Cavallo audace e possente elefante;
piega il leon innante – a lui il ginocchio;
già tirò il cocchio – del roman guerriero: 35
ardir ben fiero!
   Ogni ardir fiero ed ogni astuzia abbatte,
con lor s’orna e combatte, – s’arma e corre.
Giardino, torre – e gran città compone
e leggi pone. 40
   Ei leggi pone, come un dio. Egli astuto
ha dato al cuoio muto – ed alle carte
di parlar arte; – e che i tempi distingua
dà al rame lingua.
   Dà al rame lingua, perch’ha divina alma. 45
La scimia e l’orso han palma, – e non sì industre,
che ’l fuoco illustre – maneggiasse; ei solo
si alzò a tal volo.
   S’alzò a tal volo, e dal pianeta il tolse;
con questo i monti sciolse, – ammazza il ferro, 50
accende un cerro, – e se ne scalda, e cuoce
vivanda atroce;
   vivanda atroce d’animai che guasta.
Latte ed acqua non basta, – ogn’erba e seme
per lui; ma preme – l’uve e ne fa vino, 55
liquor divino.
   Liquor divino, che gli animi allegra.
Con sale ed oglio intègra – il cibo, e sana.
Fa alla sua tana – giorno quando è notte:
oh, leggi rotte! 60
   Oh, leggi rotte! ch’un sol verme sia
re, epilogo, armonia, – fin d’ogni cosa.
O virtù ascosa, – di tua gloria propia
pur gli fai copia.
   Pur gli fai copia, se altri avviva il morto; 65
passa altri, e non è assorto, – l’Eritreo:
canta Eliseo – il futuro; Elia sen vola
alla tua scuola:
   alla tua scuola Paolo ascende, e truova
con manifesta pruova – Cristo a destra 70
della maestra – Potestade immensa.
Pensa, uomo, pensa!
   Pensa, uomo, pensa; giubila ed esalta
la Prima Cagion alta; – quella osserva,
perch’a te serva – ogn’altra sua fattura, 75
seco ti unisca gentil fede pura,
e ’l tuo canto del lor vada in più altura.

71. Fare miracoli è proprio di Dio; e pure ciò ha concesso all’uomo; e così l’andare in Cielo.
77. Finalmente dice all’uomo che conosca la propria nobiltà, e che s’unisca a Dio, se vuole essere signore di tutte le cose create, sendo amico d’esso vero Signore. E però dobbiamo lodarlo più che le altre creature, perché siamo di loro più nobili ecc.

84
Salmodia che invita le creature in commune
e gli primi enti fisici a lodar Dio

   Belle, buone e felici e senza ammenda,
onde laude si renda – al Creatore,
che tanto amore – ed arte in farle pose,
son tutte cose.
   Voi, tutte cose, a celebrar invito 5
colui, che n’ha largito – ciò che siamo,
poi che eravamo – nulla. E per memoria,
cantiamo in gloria.
   Cantiamo in gloria Dio, Prima Potenza,
Dio, Prima Sapïenza, – Amor Primero, 10
Ben vivo e vero, – senza fin giocondo.
Cominci il mondo,
   cominci il mondo, statua altèra e degna
di lui che sempre regna – e gran trofeo,
di ciò che feo – armario sacrosanto, 15
un nuovo canto.
   Di’ un nuovo canto tu, che l’universo
penetri, ad ogni verso – penetrato,
spazio, al creato – esser base immota,
che giace o mota. 20
   Se giace o mota, la corporea mole,
unita o sparta, cole – l’alta Idea,
per cui si bea – di forme ognor novelle,
soavi e belle.
   Soavi e belle pompe del gran Dio, 25
lodate il vostro e mio – Signor, di cui
uscendo nui, – fu il tempo, ch’è il successo
degli enti, espresso.
   Fu agli enti impresso anche ’l vigor nativo
che dal nascer descrivo – poi Natura, 30
interna cura – ed arte, che dà loro
quel Dio ch’adoro.
   Quel Dio, ch’adoro, a voi laudar conviensi,
calor e freddo, immensi – di possanza,
per cui sostanza, – guerreggiando, fue 35
partita in due.
   Partite in due dunque i vostri accenti,
magnifici elementi, – Cielo e Terra,
dalla cui guerra – poi nasce ogni misto,
che Dio ha provvisto. 40
   Dio ha pur provvisto che l’un porti ’l giorno,
l’altro la notte, intorno – raggirando,
manifestando – il Creator sovrano
di mano in mano.
   Di mano in mano, voi, tenebre e luce, 45
cantate il sommo Duce, – e voi, quiete
e moto, avete – parte in tanto carme
per più svegliarme.
   Per più svegliarme, raro e denso, estreme
tempre, mentre uno teme – e l’altro spera, 50
prendete sfera – di sorti diverse,
e cause avverse.
   Fra cause avverse e simili, adornate,
Fato, Necessitate – ed Armonia,
che Dio v’invia – in ogni parte e tutto 55
ciò che ha costrutto.
   Ciò che ha costrutto in Dio si sta e si muove,
e con secrete pruove – ancora sente
la Prima Mente – e, come sa, l’adora;
ed in lui vive, benché par che mora, 60
grazie a colui che sempre mi ristora.

61. Conchiude ch’ogni ente sta in Dio e conosce Dio nel suo modo, chi naturale, chi razionale, chi più, chi meno ecc.; e così l’adorano, e non muoiono mai, ma solo si trasmutano, vivendo sempre in lui.

85
Salmodia che invita il cielo e le sue parti
ed abitatori a lodar Dio benedetto

   Dal ciel la gloria del gran Dio rimbomba:
egli è sonora tromba – a pregi tanti;
i lumi stanti – e que’ ch’errando vanno
musica fanno.
   Musica fanno per ogni confino, 5
dove il calor divino – il ciel dispiega,
ed Amor lega – tante luci, e muove
altronde altrove.
   Altronde altrove tutti van correndo,
te, Dio, benedicendo – e predicando, 10
dolce sonando, – ch’ogni moto è suono,
come io ragiono.
   Così io ragiono. Ahimè! ch’udir non posso;
ch’innato rumor grosso – è, che m’occùpa
l’orecchia cupa, – ed un molino vivo 15
me ne fa privo.
   Se mi fa privo, voi, spiriti eletti,
che non siete soggetti – a corpo sordo,
fate un accordo – al suon di tai strumenti
co’ vostri accenti. 20
   Co’ vostri accenti sacri, intellettuali,
d’una spiegando l’ali – in altra stella,
vostra favella: – Santo, santo, santo! –
dicete intanto.
   Dicete intanto, ardenti Serafini, 25
sagaci Cherubini, – e giusti Troni,
Dominazioni, – Virtù e Potestati
e Principati;
   principïate, Arcangeli, e seguite,
Angeli, che venite – a darmi aiuto. 30
Da voi, perduto – il corpo, in Cielo accolte
son l’alme sciolte.
   O alme sciolte, o patriarchi grandi,
profeti venerandi, – in cortesia,
la salmodia – di Davide canoro 35
dicete in coro.
   Dicete in coro, apostoli, che ’l mondo
vinto e reso fecondo – di virtuti,
e risoluti – fatto avete noi
di seguir voi. 40
   Di seguir voi gli martiri non tardi,
con l’animo gagliardi – e sparso sangue,
fan che non langue – la musica nostra
nell’alta chiostra.
   Dall’alta chiostra, con varie dottrine, 45
anime pellegrine – confessare
odo per mare, – per terra e per cielo
vero il Vangelo.
   Vero il Vangelo voi, vergini caste,
virilmente provaste – a chi udir vuole: 50
l’eterea mole – or per questo e le stelle
son vostre celle.
   Oh sante celle, murate di luce,
che ’l passar vi conduce, – non ritiene,
ad ogni bene! – E quelle vie di latte 55
per voi son fatte.
   Per voi son fatte le scene e l’istorie
delle divine glorie, – ché a mirarle
e celebrarle – vi dà il primo fuoco
possanza e luoco. 60
   Per ogni luoco Dio quant’have in mente
vuol che si rappresente – in cielo. E poi
de’ segni suoi – tu, suolo e mar, ti adempi
di tempi in tempi.
   Di tempi in tempi Ariete, Cancro e Libra 65
e Capricorno vibra – l’alte idee,
quante si dèe – all’arte; a la natura
virtù e figura,
   virtù e figura per il sol deriva,
statua, immagin più diva – del Monarca, 70
lucerna ed arca – di deitate in suso,
padre quaggiuso.
   Padre è quaggiuso, che la terra impregna,
perch’ a’ figli sovvegna. – Poi la luna
virtute aduna – d’ogni stella, e dice 75
esser nutrice.
   È ben nutrice amorosa e veloce:
se ’l gielo e l’ardor nuoce, – il fa soave.
Or sembra nave, – or globo, or mezzo tondo
per ben del mondo. 80
   Per ben del mondo ne’ splendor superni
degli enti non eterni – è misurato
la vita e ’l stato; – e nelli sacri giri
parmi che ’l miri.
   Parmi ch’io miri quella provvidenza, 85
chi da tanta eloquenza – si celèbra.
Mia squilla è ebra – per troppo desio
di cantar vosco, o stelle, il grande Dio:
gloria all’omnipotente Signor mio!

16. Perché non si sente da noi la musica del cielo, come il molinaro non ode le parole ecc.
17. Parla agli angeli.
25. I nove cori degli angeli secondo san Dionigi, e conformi alle metafisiche primalità.
30. Gli angeli della ultima ierarchia amministrano le cose nostre.
34. Parla a’ santi del Vecchio Testamento.
37. Poi a quegli del Nuovo. Mirabile encomio degli apostoli.
41. A’ martiri.
46. A’ confessori.
49. Alle vergini.
52. Le stelle sono celle dell’anime beate, che non ritengono né il moto né la vista, ma più la aiutano.
56. La Galassia essere fatta per via de’ santi spiriti, fu opi- nione anche di Pitagora; e ’nvero senza tal fine non par che si possa di lei dire cosa probabile, oltre quello che dice l’Autore per la varietà degli enti inferiori in Filosofia.
57. Scene ed istorie chiama l’esistenza e la diversità degli enti.
64. Nota come le cose si multiplicano da Dio negli angeli, dagli angeli nel cielo, dal cielo in terra e mare.
66. Pe’ quattro segni cardinali le influenze più scendono con l’idea.
74. Encomio vero del sole in cielo e ’n terra.
77. Della luna l’uso ecc.
80. La luna col calor blando apre e fa esalare il calor robusto, e mitiga il freddo grande, e con la varietà di sue facce lucenti fa la varietà in terra, e gli tempi ecc.
84. Che ne’ moti delle stelle stia la misura delle cose e vite inferiori, altrove s’è detto, e Platone ed Aristotile lo confermano.
89. Commiato della canzone, parlando alle cose chiamate alla glorificazion di Dio.

86
Salmodia che invita la terra e le cose
in quella nate a lodar Dio, e declara
lor fine e la providenza divina

   La terra nostra di far giuoco e festa
nullo tempo si resta – al sommo Dio;
da che l’unìo – l’amor, pésola in mezzo,
gioisce al rezzo.
   Gioisce al rezzo, e ’l circondante caldo 5
schifando, viver saldo – e freddo gode;
rendendo lode – all’Eterno, eternarsi
vuol, non disfarsi.
   Vuol non disfarsi; e ’l sol vorria disfarla
non per odio; per farla – mole amica, 10
seco l’intrica, – e con focose braccia
cinge ed abbraccia.
   Cinge ed abbraccia anch’ella lui nel seno:
ché, schifandolo, pieno – pur se ’l vede
di calor: fede, – che al destin più incorre 15
chi più l’abborre.
   Chi più l’abborre, poscia più l’aggrada;
che sua fuga sia strada – a quel s’ammira.
Ch’alla sua mira – e gloria gli rivolge
chi il mondo volge. 20
   Chi il mondo volge così fece madre
la terra, e ’l sole padre – d’infinita
prole, ch’addita – del Primero Ingegno
l’arte e ’l disegno.
   L’arte e ’l disegno su esaltate, o monti, 25
della gran madre pronti – alle difese,
ossa distese, – e fini a’ regni nostri:
stanza a’ gran mostri.
   Stanze a’ gran mostri e piccioli prestate,
acque, che circondate – il nostro suolo: 30
voi date il volo – a’ pesci ed alle navi,
sì in terra gravi.
   La terra aggravi, e pur non la sommergi,
tu, ocean, che t’ergi – sì superbo.
Per divin verbo – dal suo ventre uscisti, 35
e ’l mondo unisti.
   Tu ’l mondo unisti, ch’è il primo animale.
Tra l’etra spiritale – e ’l terren grosso
sangue ti posso – dir, che nutre, e viene,
va tra le vene. 40
   Va tra le vene e per li fonti spiccia,
dove la terra arsiccia – ha più bevuto;
indi il perduto – alle campagne rende;
poi in alto ascende.
   In alto ascende a far giuoco al Signore 45
col terrestre vapore – insieme misto;
or stella è visto, – ed or, come bombarde,
rimbomba ed arde.
   Rimbomba ed arde ed atterrisce gli empii.
Non perdona agli tempii, – o vivi o morti. 50
Tu, Dio, n’esorti – a be’ celesti nidi
con questi gridi.
   Con questi gridi gli animai richiami,
perché non restin grami – alle tempeste.
Gioconde feste – agli angeli, a’ demòni 55
fatiche doni.
   Fatiche doni con saper immenso
sotterra al fuoco accenso, – che fracassa,
cuoce e relassa, – e dentro fa i metalli,
fuor monti e valli. 60
   Co’ monti e valli, e fiumi e mar, distingui
i paesi: altri impingui, – altri fai macri,
e dolci ed acri – agli abitanti vari
più necessari;
   più necessari e più capaci ancora 65
di vite, che si fôra – ugual per tutto;
e perché tutto – pur le cose stesse
non producesse;
   ma producesse biade la campagna,
s’alzasse alla montagna – il fummo e l’onda: 70
arte profonda – di doppi lambicchi
per farci ricchi.
   Per farci ricchi altrove oro ed argento
nasce; altrove frumento, – augelli e fiere,
rivi e peschiere, – macchie, salti e boschi, 75
perch’io ’l conoschi.
   Perch’io conoschi, l’alta Cagion Prima
fa mancar al mio clima – molte cose.
Commerzio puose, – amor e conoscenza
tal Providenza. 80
  Tal Providenza in due quadranti opposti
fa che in su il mar s’accosti: – in uno bolle,
l’altro s’estolle – per l’acque pendenti,
là concorrenti.
   Son concorrenti di diversi fianchi 85
in cui avvien che manchi: – e in tutti lidi
sei ore vidi – alzarsi e sei abbassarsi,
per più avvivarsi.
   Per più avvivarsi fa il medesmo l’aria,
e pur qual mar si varia, – dove accolti 90
son vapor molti, – che capir non ponno,
e spazio vonno.
   E spazio vonno, e spazio van cercando,
purgando, ventilando, – trasferendo
e convertendo – il fummo in util pioggia: 95
stupenda foggia!
   Stupenda foggia, ch’a più parti giove.
Fiere ed augelli altrove – e pesci porta:
le navi esorta – al corso, noi a consulta;
altri sepulta. 100
   Altri sepulta in sonno ed altri in sabbia;
svelle arbori con rabbia – e gran citati.
Son fecondati – i campi, ove dolce aura
il verde innaura.
   Fa verdi, innaura e purpuree le nubbi 105
il sol, perch’io non dubbi – or, che più pèra
la nostra sfera – in mare: in suo ben vale
ciò che in su sale.
   Quando in su sale, in grandini s’ingroppa
grosso vapor, che scoppia – in caldo loco; 110
ma non a poco a poco, – qual la neve,
che il freddo beve.
   Il freddo beve, e si congela in brina
quel ch’aura mattutina – o sera agguaglia,
come si quaglia – in pioggia il fummo, e cade 115
dolce alle biade.
   Per far le biade e’ manca nell’Egitto,
onde il Nil fu prescritto – che inondasse,
che Assur fruttasse – e l’India in questa guisa,
che Dio n’avvisa. 120
   Dio pur n’avvisa, che l’Arabia ottenne
solo rugiada, e fenne – incenso e manna,
nettarea canna, – e ragia, di che degni
fûr i miei regni.
   Tutti anche i regni han piani, balze e selve, 125
pasto e casa di belve. – Oh, maraviglia!
quanta famiglia – per te, Signor, nasce,
si cresce e pasce.
   Si cresce e pasce di liquor terrestre
il ferro, il sasso alpestre; – un grasso e molle 130
l’erbe satolle, – immobili animali.
Fa’ a que’ c’han l’ali,
   a que’ c’han l’ali, a chi serpe, a chi anda
foglie, radici, ghianda, – grani e pomi;
altri ne domi, – altri armi, altri fai inermi, 135
né senza schermi.
   Hanno per schermi i ricci e gli arboscelli
spine contra gli augelli, – asini e bovi;
altura trovi – in querce, abbeti e faggi
per tali oltraggi. 140
   Per tali oltraggi han le quaquiglie e i pini
guscio; e vesti d’uncini – contra i colpi,
che ghiro non le spolpi, – han le castagne;
ma pur le fragne.
   Però le fragne, ché Dio ha destinato 145
ch’ogni ente non sol nato – sia d’ogn’altro,
ma l’uno all’altro – sia cibo ed avello,
or questo, or quello.
   Ma questo e quello, resistendo, addita
godersi in ogni vita, – che Dio dona: 150
e, perch’è buona – ogn’altra viva norma,
pur si trasforma.
   Chi la trasforma con tanta sua laude,
che sieno molti gaude – gl’innocenti:
pochi possenti – orsi e leon vedrai, 155
pecore assai.
   Pecore assai, che dal caldo e dal gelo
solo difende il pelo. – Frutti e fiori,
tu, fronda, onori: – a’ timidi è soccorso
la tana e ’l corso. 160
   Le tane e ’l corso ha il cervo, il lepre, il capro:
corna il bue: sanne l’apro: – onghie il cavallo:
vivezza il gallo, – ch’al fiero leone
spavento pone.
   Spavento pone all’elefante il drago. 165
Oh, spettacolo vago – di lor gesti!
Falcon, tu avesti – rostro, e duro artiglio
l’aquila e ’l niglio.
   L’aquila e ’l niglio han pur la vista acuta,
come il can lunge fiuta – la sua preda; 170
perché provveda – ode lontano il lupo
al ventre cupo.
   Pel ventre cupo ha forza la balena,
molta astuzia ha la iena, – industria l’ape.
Oh, come sape – politìa e governo, 175
d’està e d’inverno!
   D’està e d’inverno han città le formiche;
stanze altri sempre apriche – si procaccia;
va il ragno a caccia, – e si fa rete [e] stanza
di sua sostanza. 180
   Di sua sostanza si circonda e cova,
prende l’ali, e fa uova – quindi uscendo,
varie vivendo – vite un verme: ahi lasso!
Oltre io non passo.
   Oltre io non passo, non posso; assai ignoro 185
l’anatomia, il lavoro, – fraudi ed ire,
gioie e martìre – di quanti il mar serra,
l’aria e la terra.
   O aria, o terra, o mar, mirar potrei
ne’ vostri colisei – ta’ giuochi io sciolto! 190
Ma chi è sepolto – in corpo, sol s’accorge
che poco scorge.
   Se poco scorge, potrà dirne meno.
Ma il sermon vostro appieno – a tutti è aperto;
non è coperto – a nazïone alcuna 195
sotto la luna.
   Sotto la luna il nostro dir trascenda
al Re della tremenda – maestate.
Transumanate – menti, voci e note:
ite al Signor, che tutto sape e puote. 200

6. La terra sta pésola in mezzo al mondo, unita dall’amor della conservazione, e gode del freddo per contrastare al sole caldo, che vuol disfarla.
8. Le cose, volendo esser sempre, com’è Dio, lodano ed amano Dio in questo atto.
10. Il sole, non per odio per sé, ma per amore, age contra la terra.
12. Nota come il sole abbraccia la terra per farla cielo, e come ella abbraccia il sole, mentre lo fugge e combatte, perché unisce il calor dentro sé; circondandolo col freddo, più lo rinforza; dal che si vede ch’ella, fuggendo il fato, incorre in quello, e così tutti gli enti ecc.
20. Stupenda cosa, che poi aggrada quel che prima abborre, perché diventa natura, e si perde il senso d’altro miglior essere; e pure s’ammira che, fuggendo, incorre nel mal fuggito e poi amato. E questo è per divino ordinamento, onde adiviene che il sole sia padre e la terra madre del mondo e delle cose, nelle quali riluce l’arte divina.
25. Parla a’ monti, che, con tante utilità a chi servono, mostrano i primi la divina arte.
32. L’uso dell’acque. Le navi in esse leggiere sono, e gravi in terra.
36. Nota come l’oceano esce dalla terra come sudore; e per legge naturale del Verbo Eterno non sommerge la terra, ma non per miracolo nuovo, com’altri dicono. E come il mare unisce le nazioni con la navigazione.
40. Nota che di più unisce il cielo con la terra esso mare, perché, se quello non fosse, non si farebbono vapori, e si spartirebbe l’un dall’altro. E come e’ nutrica la terra e l’etera.
44. Vedi come si lambica, e va sopra i monti, e poi scende per fiumi e piogge, e ritorna in circolo.
48. Non fa consistenze di comete e di tuoni e di piogge, se non è misto il vapor acqueo col terreo, cioè il sottile col grosso. Vedi la Filosofia.
52. Nota l’uso de’ tuoni, da nullo così altamente cantato; e come l’Autore truovò la causa finale di tutti gli enti secondi, ignota alli antichi, assai desiderata da Socrate. Vedi Platone in Phaedone.
60. Uso del fuoco intra la terra.
64. Come la varietà della terra sia utile alla varia vita di vari enti.
66. Come è più capace, sendo montuosa ed avvallata, che piana o tonda.
68. Mira che i diversi climi per diverso calore variati, e gli diversi siti producono la diversità degli enti, onde noi conoschiamo la divina arte, di virtù multiplicissima.
72. Nota come del fummo si fa l’acqua nelle caverne de’ monti, e più dell’acqua del mare lambicata come per spogna o per feltro.
80. Come Dio dispose che non in ogni paese ogni cosa necessaria nasca, perché andassimo cercando, e così conoscessi- mo Dio in tante opere sue, e con le altre genti facessimo commerzio.
84. Dell’uso mirabile del flusso e reflusso del mare e dell’aria, secondo la nostra Filosofia, non inteso dagli antichi come si faccia, né per che fine.
95. L’uso de’ venti.
102. Il vento, portando gli odori e ’l freddo e ’l caldo, tira gli animali a’ diversi paesi, e di più le navigazioni; ed invita a consulta il vento freddo e forte, che unisce i spiriti dentro. Ma il grosso australe fa dormire, ed in Libia atterra nel sabbione i passaggieri.
104. Uso dell’aura.
107. Come il sole fa l’iride, segno di pace.
112. De’ grandini e loro differenza dalle nevi.
116. Della rugiada e brina.
120. Providenza divina che nell’Egitto, mancando vapor atto a farsi pioggia, ci sia l’inondazione del Nilo, e così nell’Indie del Pegù e Menan, e ’l Tigri in Assiria.
124. Come l’Arabia solo ha la rugiada, e però fa incenso, manna ecc.; e che la Calabria ha la stessa grazia della manna e zuccaro.
130. Donde si nutrisce il ferro e li metalli.
131. E donde l’erbe, le quali sono fatte per gli animali, e questi per gli uomini, e l’uomo per gli angeli, e questi per Dio. E nota come le piante altre son domestiche, altre silvestri, altre armate di spine, altre disarmate ecc.
145. Come non giova la difesa, se non quanto Dio ha destinato, così agli animali com’agli arbori.
147. E come l’uno è sepolcro dell’altro, che si mangia.
152. E che la resistenza degli enti al morire sia argomento che ogni vita sia buona; e come finalmente pure si muta in altra vita, perché in tutto riluce l’Idea divina.
156. Nota che gli animali crudeli sono pochi, e gli innocenti assai.
168. Nota la difesa di tutti animali e piante in che consista.
180. Quale animale di che sensi prevale.
183. Questo verme è quello che fa la seta, e si serra nel cucullo, e poi esce alato ecc.
185. Essere impossibile dire de’ costumi de tutti gli animali ecc., e delle loro parti ed uso.
192. Dice che, stando l’alma sepolta nel corpo, non può sapere le cose del cielo e della terra e l’uso loro; ma assai scorge, mentre conosce che non può sapere e non presume di dire quello che non sa, come se ’l sapesse. Vedi la canzone del Primo Senno.
199. Commiato.
APPENDICE
DELLE TRE ELEGIE FATTE
CON MISURA LATINA


87
Al senno latino

Ch’ e’ volga il suo parlare e misura di versificare dal latino al barbaro idioma

  Musa latina, è forza che prendi la barbara lingua:
quando eri tu donna, il mondo beò la tua.
   Volgesi l’universo: ogni ente ha certa vicenda,
libero e soggetto ond’ogni paese fue.
   Cogliesi dal nesto generoso ed amabile pomo. 5
Concorri adunque al nostro idioma nuovo.
   Tanto più, che il Fato a te die’ certo favore,
perché, comunque soni, d’altri imitata sei:
   d’Italia augurio antico e mal cognito, ch’ella
d’imperii gravida e madre sovente sia. 10
   Musa latina, vieni meco a canzone novella:
te al novo onor chiama quinci la squilla mia,
   sperando imponer fine al miserabile verso,
per te tornando al già lagrimato die.
   Al novo secolo lingua nova instrumento rinasca: 15
può nova progenie il canto novello fare.

Questi versi sono fatti con la misura latina elegantemente, cosa insolita in Italia.
Notasi che bisogna accommodarsi al tempo, e che i Latini s’abbassino alla lingua introdotta da’ barbari in Italia; e la loda ch’è mista, com’inserto chi fa meglior frutto, e ch’Italia sempre è imitata, comunque ella parli. Il che è segno e causa d’imperio, perché l’imitato dona legge agl’imitanti. Poi si vede che, facendo novelle rime e modi di poetare, sperava dar fine al vecchio secolo, in cui piangeva intra la fossa, ecc.

88
Salmo CXI

Beatus vir qui timet, etc.

   Quegli beato è, del Signor c’ha santa temenza;
sicuro e lieto il fa sua legge pia.
   Di costui in terra alligna il seme potente,
del giusto il germe ognor benedetto fia.
   Ne’ cui bei tetti ricchezza e gloria abonda, 5
in tutti tempi alberga la giustizia.
   Pur ne le tenebre a’ santi il bel lume si mostra
del pietoso Dio splendido tuttavia.
   Giocondo è sempre il donator largo e benigno;
dal buon giudizio non si rimove mai. 10
   Il suo nome mai non potrà estinguere morte,
né mala fama teme, e vittorioso vola.
   Sta nel Signor fermo e sempre di speme ripieno:
non si movrà innanzi ch’ogni nemico pèra.
   Il suo divise, e mangiâro i poveri amici; 15
gloria subblima il corno potente suo.
   Il che vedendo poi, il peccator tristo s’adira,
dibatte i denti, e pur rabioso crepa.
   Del giusto, ancor che al tardo, il disegno riesce,
e de’ malvagi l’empia voglia père. 20

89
Al Sole

Nella primavera, per desio di caldo

   M’esaudì al contrario Giano. La giusta preghiera
drizzola a te, Febo, ch’orni la scola mia.
   Veggoti nell’Ariete, levato a gloria, ed ogni
vital sostanza or emola farsi tua.
   Tu subblimi, avvivi e chiami a festa novella 5
ogni segreta cosa, languida, morta e pigra.
   Deh! avviva coll’altre me anche, o nume potente,
cui più ch’agli altri caro ed amato sei.
   Se innanzi a tutti te, Sole altissimo, onoro,
perché di tutti più, al buio, gelato tremo? 10
   Esca io dal chiuso, mentre al tuo lume sereno
d’ime radici sorge la verde cima.
   Le virtù ascose ne’ tronchi d’alberi, in alto
in fior conversi, a prole soave tiri.
   Le gelide vene ascose si risolvono in acqua 15
pura, che, sgorgando lieta, la terra riga.
   I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo;
a’ minimi vermi spirito e moto dài.
   Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive:
invidio, misero, tutta la schera loro. 20
   Muoiono in Irlanda per mesi cinque, gelando,
gli augelli, e mo pur s’alzano ad alto volo.
   Tutte queste opere son del tuo santo vigore,
a me conteso, fervido amante tuo.
   Credesi ch’ogge anche Giesù da morte resurse, 25
quando me vivo il rigido avello preme.
   L’olive secche han da te pur tanto favore:
rampolli verdi mandano spesso sopra.
   Vivo io, non morto, verde e non secco mi trovo,
benché cadavero per te seppelito sia. 30
   Scrissero le genti a te senso e vita negando,
e delle mosche fecerti degno meno.
   Scriss’io ch’egli erano eretici, a te ingrati e ribelli;
m’han sotterrato, vindice fatto tuo.
   Da te le mosche e gl’inimici prendono gioia; 35
esserti, se séguiti, mosca o nemico meglio è.
   Nullo di te conto si farà, se io spento rimango:
quel tuo gran titolo meco sepolto fia.
   Tempio vivo sei, statua e venerabile volto,
del verace Dio pompa e suprema face. 40
   Padre di natura e degli astri rege beato,
vita, anima e senso d’ogni seconda cosa;
   sotto gli auspici di cui, ammirabile scola
al Primo Senno filosofando fei.
   Gli angelici spirti in te fan lietissima vita: 45
a sì gran vite viva si deve casa.
   Cerco io per tanti meriti quel candido lume,
ch’a nullo mostro non si ritenne mai.
   Se ’l Fato è contra, tu appella al Principe Senno,
ch’al simolacro suo grazia nulla nega. 50
   Angelici spirti, invocate il principe Cristo,
del mondo erede, a darmi la luce sua.
   Omnipotente Dio, gli empi accuso ministri,
ch’a me contendon quel che benigno dài.
   Tu miserere, Dio, tu chi sei larghissimo fonte 55
di tutte luci: venga la luce tua.

2. Il Sole è insegna della semblea d’esso Autore.
3. Tutti gli effetti che fa il Sole la primavera.
32. Dicono molti che la mosca è più nobile del Sole, perché ha anima. E l’Autore dice che il Sole è tutto senso e vita, e la dà agli enti bassi.
39. Titoli del Sole, dati dall’Autore.
56. Solo desidera vedere la luce del Sole, che, dentro alla fossa stando, non potea veder mai. E dice al Sole che, s’ e’ non può, egli appelli a Dio, Primo Senno; e così si volge a Dio dal Sole, e prega che gli dia la sua luce, che gli negano i ministri della giustizia finta in terra, ecc.



POESIE NON COMPRESE
NELLA «SCELTA»

I. POESIE GIOVANILI

90
Sulla penna

   Mentre vissi, o signor, tacqui e fui muta,
e parlo or che di vita priva sono;
m’è d’uopo aver la lingua mia feruta
nel mentre che io parlo o che ragiono;
son bianca, e pur di nero io vo pasciuta 5
e neri ancor tutti i miei figli sono;
io bramo all’opre mie ben spesso il sale:
istromento son io di bene e male.

91
Tasso, i leggiadri e grazïosi detti

   Tasso, i leggiadri e grazïosi detti
de’ duoi maggior della tosca favella
dilettan ben, perché la vesta è bella,
onora l’esquisiti alti concetti; 4
   ma via più giova il fuoco de’ lor petti,
onde nell’alma a virtù non rubella
nasce il soave ardor e la fiammella
ch’è propria dei ben nati spirti eletti. 8
   Voi gli aggiungete e trapassate in dire,
ma il cor per l’ale vostre ancor non sente
ergersi al ciel e punger da giuste ire. 11
   Deh! quando fuor della smarrita gente
ci sentirem dal vostro stil rapire
al degno oggetto dell’umana mente? 14

92
Olla Lutherus erat...

   Olla Lutherus erat fervens aquilonis ad oram;
illinc in mundum panditur omne malum.

93
O servili petti...

   O servili petti, perché la gloria tanta
de’ nostri antichi fate che non vi mova?

94
All’Accademia d’Avviati di Roma

   Voi, peregrini ingegni, anime belle,
chiamate al natural divino oggetto,
ben dovreste scaldar il vostro petto
ai rai di lui, ch’illumina le stelle.
Egli è di carmi e di rime novelle 5
amoroso e dignissimo soggetto,
talché venir faravvi onta e dispetto
delle vili arti e frivole novelle.
Che giova sempre d’imaggini e d’ombre
essere amanti, senza saggia téma 10
d’adunar quanto un’atra notte sgombre?
Per Dio, il piacer, il pro, l’onor vi prema;
né più il vulgar error le menti ingombre:
volgete gli occhi alla Virtù Suprema.

95
Ad un novo alumno della religione
di Somaschi

   O di novella pianta or or inserta
del sommo Sire al nobile giardino
germe più bello, in cui, se dal mattino
conosco il giorno, la speranza è certa, 4
   pregoti, essendo al cominciar de l’erta,
ravvìvite di Spirito divino,
ch’ogni parte del mondo, ogni confino
alita, quanto ciascun ente merta. 8
   Apri la mente al suo calor fecondo,
ché frutti produrrai d’eterna fama,
purgate le caligini del mondo. 11
   Il vaneggiante spirto a sé ti chiama
con lusinghe bugiarde e spasso immondo:
vedi ove asconde sua maligna brama. 14

96
Io, ch’oggi d’Artemisia lascio il nome

   Io, ch’oggi d’Artemisia lascio il nome,
finito il corso del natio costume,
e mi consacro al pio celeste Nume,
cui son mie voglie omai soggette e dome, 4
   e rendo al mondo le caduche some
presso la guida dell’Eterno Lume
ch’all’alto volo mi vestì le piume,
spogliati i panni e le superbe chiome: 8
   chieggio licenzia a voi del sangue mio:
altro padre, altra madre a me conviene,
altre suore e fratelli ed altro zio. 11
   Entro fra sacri ferri e pie catene;
a tutti dico addio; parenti, addio:
a rivederci presso al Sommo Bene. 14

97
A Roma

   Da le arme ai corpi e dagli corpi alle alme
sorse l’imperio tuo già, Roma altiera,
quando tua spada veloce e severa
ti die’ mille trionfi e mille palme. 4
   Lasciasti poscia le ferrigne salme
(onde ognun ti stimò pazza e leggiera)
al mondo da te vinto; e la via vera
prendesti opposta, di cui tanto calme, 8
   per vincerlo di nuovo, e dolcemente.
Deh! non pianger l’imperio, Italia mia,
ch’oggi l’hai vie più certo e venerando; 11
   e sola avrai assoluta monarchia
in austro, borea, levante e ponente,
seguendo Roma il suo fato ammirando. 14

98
Roma a Germania

   Viveano, senza di natura il lume,
di caccia e di rapina le tue genti;
le selve avean per stanze con gli armenti:
io ti purgai del selvaggio costume, 4
   Germania; e poscia, a fin non ti consume,
ti donai leggi, e t’allevai con stenti:
ti renunziai l’imperio, e gli altri ho spenti,
quando fui seggio dell’eccelso Nume. 8
   Poi ti evangelizzai l’eterna pace.
Che più far ti potevo? Ma tu, ingrata,
or m’abbandoni, superba ed audace, 11
   nuova Samaria o Grecia empia, malnata,
cui il vaneggiar con sua ruina piace.
Verrà, e ben presto, a te la lor giornata. 14

99
Sonetto fatto sopra un che morse
nel Santo Offizio in Roma

   Anima, ch’or lasciasti il carcer tetro
di questo mondo, d’Italia e di Roma,
del Santo Offizio e della mortal soma,
vattene al Ciel, ché noi ti verrem dietro. 4
   Ivi esporrai con lamentevol metro
l’aspra severitate, che ne doma
sin dalla bionda alla canuta chioma,
talché, pensando, me n’accoro e ’mpetro. 8
   Dilli che, se mandar tosto il soccorso
dell’aspettata nova redenzione
non l’è in piacer, da sì dolente morso 11
   toglia, benigno, a sé nostre persone,
o ci ricrei ed armi al fatal corso
c’ha destinato l’Eterna Ragione. 14

100
A Cesare d’Este,
che ritenea Ferrara contro al Papa

   Tu, che t’opponi alla promessa eterna,
che fe’ Cristo a sua sposa, del retaggio
del mondo tutto, ch’a lei giuri omaggio
baciando i piedi di chi la governa: 4
   l’arme la man, la man la virtù interna
non sai che regga? Dunque, qual vantaggio
hai di milizia per cotanto oltraggio,
che contro Dio avvilita non si scerna? 8
   L’argento e l’oro, tua più vil speranza,
fian preda e forza all’esercito santo:
lascia, meschin, sì stolta tracotanza. 11
   Vedrai quel muro, in cui ti fidi tanto,
venirti a dosso: in ciel se farai stanza,
cadrai pur giù nel sempiterno pianto. 14

101
Sovra il monte di Stilo

   Monte di Magna Grecia, ch’al gran seme
non misto a gente unqua a virtù rubella,
in Stilo, patria mia, nel tempo ch’ella
siede nel lido ove l’Ionio freme, 4
   doni albergo secur, sì che non teme
d’Annibale la gente cruda e fella,
che per tutto scorrea dalle castella,
predando i mari e le campagne insieme; 8
   Parnasso, Olimpo e Campidoglio scorgi
sotto di te, per me lodato tardi
di ciò e dell’erbe ch’ai fisici porgi, 11
   ch’assicurasti poi Ruggier Guiscardi,
fuor che i tuoi dii, sant’Angelo e san Giorgi,
rifiutando a tal uopo armi e valguardi. 14

102
Deh! mira, ingrato, su quell’alto legno

   Deh! mira, ingrato, su quell’alto legno,
coronato di spine, in alto asceso,
chi per dar vita a te, dal Ciel disceso,
vestir manto terren non ebbe a sdegno. 4
   Giunto poi di sua vita a certo segno,
fu da gente plebea legato e preso,
battuto, strascinato e vilipeso:
e, morto, di Pluton discese al regno. 8
   Indi, al prefisso termine risorto,
per liberarci da mortal periglio,
mostra il fianco squarciato e lui sol morto. 11
   Volgi dunque ver lui devoto il ciglio
ché vita ti può dar nonché conforto,
benché non sia dal Padre Eterno il figlio. 14



II. POESIE DEL CARCERE

103
Sonetto sopra il presente stato d’Italia

   Il fato dell’Italia oggi dipende
dall’esser vera o falsa rebellione
questa, ch’ a’ Calavresi Carlo impone,
e Sciarava, che ’l Regno e ’l Re n’offende. 4
   E s’il Conte, che regge, ancor pretende
che lor finte ragion sian vere e buone,
entrando in parte dell’esaltazione
che dal mal nostro ognun di loro attende, 8
   più grave fia l’antevista ruina
(dice lo spirto), perché il giusto sangue
a vendetta movrà gli uomini e Dio. 11
   Ahi cieca Italia nella tua rapina!
sin quando il senno tuo sopito langue?
s’io ben ti desiai, che t’ho fatt’io? 14

104
Sonetto sopra il Salmo
«Saepe expugnaverunt me» etc.,
applicandolo l’autore a se stesso

   Spesso m’han combattuto, io dico ancora,
fin dalla giovanezza; ahi, troppo spesso!
Ma d’espugnarmi non fu lor concesso,
ch’è Dio che mi sostiene e mi rincuora. 4
   Sopra le spalle mie, quasi ad ogn’ora,
fabricando processo con processo,
han prolungato il lor maligno eccesso;
ma la spada del Ciel per me lavora. 8
   Vicino è ’l dì, che le cervici altiere
e i colli torti e le lingue bugiarde
farà pasto di tigri, orsi e pantere: 11
   qual fièn de’ tetti, ch’in nascendo s’arde
pria che si colga e maledetto père,
son verso Dio le tirannie più tarde. 14

105
Sonetto in lode di carcerati e tormentati
per difesa dell’innocenza

   Veggio spirti rivolti al Creatore
schernir tormenti e morte, del tiranno
armi sovrane, e scherzar con l’affanno,
onta e dispetto del moresco core. 4
   Di libertà e ragion tanto è l’ardore,
che dolcezza il dolor, ricchezza il danno,
seguendo l’orme di color che sanno,
stimano, armati di gloria ed onore. 8
   Rinaldi, il primo, sei notti e sei giorni
vince i tormenti antichi e i nuovi sprezza,
onde Calavria se ne fregi ed orni. 11
   Fan doi germani all’orrida fierezza
del mostro di Granata gravi scorni,
esempio agli altri d’invitta fortezza. 14

106
Madrigale in lode di Maurizio Rinaldi

   Generoso Rinaldi,
vera stirpe del sir di Monte Albano,
ristorasti l’onor di tutto ’l Regno;
e di Giudei ribaldi
mettesti a terra il consiglio profano 5
e l’orgoglio moresco e ’l fiero sdegno.
Rendesti al Re di fideltate il pegno,
soffrendo tricent’ore
con magnanimo core
tormenti inusitati, solo e ignudo, 10
se non che Dio di onor ti fece un scudo.

107
Madrigale di palinodia

   Vilissimo Rinaldi,
vera stirpe di Cacco, empio, inumano,
vituperasti tutto quanto il Regno;
e di Giudei ribaldi
mettesti in alto il consiglio profano 5
e l’orgoglio moresco e l’alto sdegno.
Rendesti al Re d’infideltate il pegno,
negando con vil core
l’onor di tricent’ore;
mostrasti ch’eri di virtude ignudo; 10
ma vil timor di morte ti fu scudo.

108
Sonetto fatto sopra li segni
con suoi appendici

   Toglie i dì sacri il Tebro e calca Roma,
Lombardia il Po. Più volte il sol s’oscura.
Scorpion e Tauro cangiano figura.
Stelle son viste con l’accesa chioma.
   Dell’una e l’altra Sicilia gran soma 5
l’Inferno inghiotte. Ogni erba fresca e dura
ràdeno i bruchi. Mostra la natura
novelli mondi e la barbarie doma.
   La giustizia si compra e ’l Verbo santo
sotto favole e scisme ognor si vende. 10
Il premio a’ buoni usurpa il ricco manto.
   Non c’è profeta: è anciso, ove s’intende.
Ben diecemila miglia dal suo canto
Febo calato a terra si comprende.
A poco a poco rende 15
sua vita il mondo al primo Creatore;
viene il giorno fatale al malfattore;
ritorna il Redentore
a riveder il conto del suo gregge.
Par mal annunzio a chi lo guida e regge 20
con durissima legge;
e perché taccia il vero in carcer tetro
io sto; ma, con san Paolo e con san Pietro,
canto un occulto metro,
che nel secreto orecchio alle persone 25
la campanella mia fa che risone:
ch’or l’Eterna Ragione
pria tutti i regni uman compogna in uno,
che renda il caos tutte cose all’uno.

109
Sonetto contro don Aloise Sciarava,
avvocato fiscale in Calavria

   Campanella d’eretici e rubelli
capo in Calavria mai non s’è trovato;
ma l’infamaron, per raggion di Stato,
Ruffi, Garaffi, Morani e Spinelli; 4
   ma tutti Giudi e tutti Achitofelli
Sciarava granatese ha superato,
giudice, parte e testimonio entrato,
e boia più crudel. Ché, disser elli, 8
   nato d’uom moro e femina marrana
(descendenti dal perfido ebraismo,
venuti a forza alla fede cristiana), 11
   scommunicato e puzza d’ateismo,
mostro, ignorante, senza mente umana.
Quinci Carlo potea far sillogismo. 14

110
Sonetto contro il medesimo

   Mentre l’albergo mio non vede esangue
e gli spirti poggiar tremanti al cielo,
l’empio mostro, che, sotto a finto zelo,
la sua grandezza cerca nel mio sangue, 4
   di rabbia scoppia, si spaventa e langue;
muta sembiante il suo volpino pelo;
va a torno, informa, accusa e cangia stelo,
come aggirato vien dal perfido angue. 8
   Dio par che dorma, e ’l suo bianco campione
da falsi testimoni oppresso giaccia,
che vendono il suo mal per devozione. 11
   Deh, Signor forte, in me volgi tua faccia,
da’ autorità più espressa al mio sermone,
ond’i ministri di Satàn disfaccia. 14

111
Sonetto in lode di Spagnuoli

   Sciarava m’incitò ch’io maledica
il governo e l’eserciti di Spagna.
– Meglio è – diss’io – che muto mi rimagna
che ciò, Dio non volendo, faccia o dica. – 4
   O figli di Iafet, o gente amica
all’altissimo Sir, possente e magna
d’armi e consiglio in mar e alla campagna,
Dio mi comanda ch’io vi benedica. 8
   Di Sem nei padiglion tenendo il campo,
i figlioli di Cam ti serviranno:
non ti capen doi mondi; il terzo nasce. 11
   S’a quello interno lume, ond’io m’avampo,
gli aquilin d’Austria fissi guarderanno,
del sol, com’hanno il giro, aràn le fasce.

112
Sonetto di rinfacciamento
a Musuraca

   Temendo il tuo signor possente e forte
dici che mi tradisti, o Musuraca:
scusa, che solo i parasiti placa
della fortuna nell’ingiusta corte. 4
   Ma perché pria le vesti mi trasporte?
perché in legarmi il tuo stuolo s’indraca?
perché tua industria alla mia morte vaca?
perché sul capo mio giochi a la sorte? 8
   La vita, che dovevi al padre mio,
così la rendi, sconoscente, ingrato?
Ben ti castigarà l’infamia e Dio. 11
   Ahimè! che, a tempo d’infelice stato,
resta di amico, di giusto e di pio
solo il nome, in coverta del peccato. 14

113
Sonetto fatto a tutti i carcerati
per la medesima causa

    La favella e ’l commercio vi si nega
e la difesa, a voi, spiriti eletti;
perché sol la virtù de’ vostri petti
l’orgoglio del tiranno affrena e lega. 4
   E s’a fin alto carità vi piega
i corpi sparsi e gli uniti intelletti,
saran, qual fu la croce, benedetti
le forche, il fuoco, gli uncini e la sega! 8
   È ’l bel morir che fa gli uomini dèi,
ove solo il valor saggio e virile
della sua gloria spiega i gran trofei. 11
   Qui dolce libertà l’alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe ancor il Paradiso vile. 14

114
Sonetto in lode di fra Domenico Petrolo

   Venuto è ’l tempo omai che si discuopra,
Petrolo mio, l’industrïosa fede
che serbasti all’amico, e già si vede
ch’a tutte l’altre questa tua va sopra. 4
   Mortifera, infedel, empia, ingrata opra
far simolasti, ch’a lui vita diede,
deluso il sdegno di gente, che crede
che tal sofisma di terra lo cuopra. 8
   Prodigo del tuo onor e della vita
per l’altrui vita, hai d’ognun più gran fama,
che gli die’ aperta, ben pugnando, aita. 11
   Di cerberi e bilingui cupa brama
schernisci or saggio. È sentenza finita:
va felice ogni cosa a chi ben ama. 14

115
Alli defensori della filosofia greca

   Spirti ben nati nella santa scola
del Senno Eterno e verità divina,
la cui vita nel mondo è pellegrina,
e come vento se ne fugge e vola, 4
   onde avvien che sua luce unica e sola,
che gli intelletti rischiarando affina,
con l’empia turba povera e meschina
par che schifiate, e la bugia v’invola? 8
   Non guardi a dietro chi a solcar la terra
ha posto mano; né del mondo curi
chi morto è al mondo, ove il mortal s’afferra. 11
   Deh mirate, per Dio! quanto s’oscuri
la fede, onde giuraste di far guerra
a’ disleali spiriti ed impuri. 14

116
Sonetto alla Beata Ursula napolitana,
a cui si raccommanda

   Vergine, che ravvivi il sangue santo
dell’illustre senese Caterina,
nostra sorella, e della gran reina
d’undecimila porti il nome e ’l vanto; 4
   pregoti, per l’onor del sacro manto,
di cui spogliato incorsi in gran ruina,
muova, pregando, la Mente divina
a compassion del mio angoscioso pianto. 8
   Ché, tu ascendendo alla celeste corte,
io restarò per testimonio fido
di tua bontà, scampato dalla morte; 11
   e canterò, tornando al mio bel nido,
il fin de’ miei travagli, e buona sorte
per gloria tua, con memorando grido. 14

117
Sonetto al signor Giovan Leonardi,
avvocato de’ poveri

   Ai spirti illustri del seculo antico,
stentando, ogni poeta aguaglia i soi;
ma or il vero è comparso per noi
santo Leonardo, in sì noioso intrico, 4
   d’offizio, nome e portamenti: io dico
il difensor commune, a cui sol poi,
degno di Cristo e degl’invitti eroi,
il titulo «de’ poveri» gli è amico. 8
   Sembra un leon ardente, che si muove
a guerreggiar: da bocca gli esce vampa
di leggi, d’argomenti e d’altre prove. 11
   Ciò ch’egli scrive, a noi libertà stampa;
ciò ch’egli parla, nostra vita piove,
contra l’ombra di morte accesa lampa. 14

118
Sonetto primo
in lode di fra Pietro Presterà da Stilo

   Sino all’Inferno un cavalier seguio
l’avventurato amico a grand’impresa:
ma più la bianca fede contrapesa
del tuo spirto leal, fra Pietro mio. 4
   Se canta il gallo, e ’l caso avvien più rio,
di me infelice sempre alla difesa
d’amor più ardente si dimostra accesa,
vincendo i colpi del mostro restio. 8
   Frati, amici, parenti, chi mi nega,
chi più ingrato mi trade e mi maligna,
chi non volendo nel mio mal si piega. 11
   Solo il travaglio e la rabbia maligna
titulo in fronte del tuo onor dispiega,
re della fede, che mai non traligna. 14

119
Sonetto secondo
in lode del medesimo

   Dunque, furor divin, ch’al volgo appare
follia, Presterà mio, t’infiamma e guida.
Chi d’immortal tanto valor si fida
degno carme poter dunque trovare? 4
   Con lor cadesti per risuscitare
tanti eroi, redentor sorgendo e guida;
traditoresca, ingrata ed omicida
setta atterrasti e d’iracundia un mare. 8
   Gli orribil mostri e ’l serpentin bilingue
dove son or? dov’è l’ebraico stuolo?
dov’è ’l moresco? e i lor bugiardi offici? 11
   Fedel combattitor, mai non s’estingue
più il nome tuo, poiché serbasti solo
virtù, religïon, patria ed amici. 14

120
Sonetto primo
in lode del reverendo padre
fra Dionisio Ponzio

   Cantai l’altrui virtuti; or me ne pento,
Dionigi mio: non avean senno vero,
com’or la tua, ch’avanza anch’il pensiero,
contemplo senza voce, afflitto e lento. 4
   Maraviglia! sì orrido tormento,
che disnodava il corpo tutto intiero
di membro in membro, l’animo severo
schernia, quasi dicendo: – Io non ti sento. – 8
   In me tanto martìr io non soffersi,
ch’in te stava il valor e ’l senno mio,
e solo al viver tuo fûr ben conversi. 11
   S’ a te par, io men vado, o frate, a Dio;
né chieggio marmi, né prose, né versi;
ma, tu vivendo sol, viverò anch’io. 14

121
Sonetto secondo in lode del medesimo,
equiparandolo al marchese di Vigliena

   Qual di Vigliena il sir, sperando al frutto
de’ nostri tempi, in sue membra disfatto
fu il Ponzio mio, e con più terribil atto
transumanato, e ’n sua gloria ridutto, 4
   ch’era lo spirto in ogni parte tutto
del mio Dionigi mille pezzi fatto,
con funi insin all’ossa stretto e tratto,
in una volta per mille distrutto. 8
   – Misericordia! – i spiriti d’Averno
allor gridâro, stupendosi come
tanto tormento non avea l’Inferno. 11
   Sfogâro mille Spagne e mille Rome,
al tuo martìr unite, l’odio interno.
Viva del Ponzio la virtude e ’l nome! 14

122
Sonetto terzo in lode del medesimo,
alludendo alle sue arme, fatto nel tempo
della sua confronta

   Qual feroce leon, ch’in più catene
insidie umane, ma non forza stringe,
e, per dar gusto, muro forte cinge,
all’uom e alla fortuna con sue pene: 4
   se stuol di can plebbei, latrando, viene
per noiarlo, a difesa non s’accinge,
ma col ruggito e fiero aspetto spinge
la vil canaglia che valor non tiene; 8
   tal fu Dionigi in mezzo a tanti Ebrei
congiurati all’estrema sua ruina,
come contra Sanson gli Filistei. 11
   L’arme ponziane veggendo, indovina,
chi vince a scacchi, il fin de’ versi miei:
dama fece il leon la sua pedina. 14

123
Sonetto fatto in lode di tre fratelli Ponzio

   Valor, Senno, Bontate io adoro in Cielo,
che fanno in tre persone una sostanza,
ond’ho l’amar, il saper, la possanza,
quanto dell’esser mio velo e revelo. 4
   L’altra, c’ho in terra con simile stelo,
ond’ho la vita, gli atti e la speranza,
è la trina ponziana fratellanza
per valor grande, per senno e buon zelo. 8
   Ferrante con Dionigi e Pietro fanno
un composto d’amor saggio e possente;
ed io sto in mezzo a ciò che ponno e sanno. 11
   Taccia de’ Gerïon l’antica gente:
ch’or le tre ierarchie mirando stanno
la lor sembianza con l’Omnipotente. 14

124
Sonetto al Papa

   Tu sei del sommo Iddio vicario in terra,
Clemente; e perché lasci il Campanella
da Marrani e Giudei, gente rubella
all’altissimo Sir, metter sotterra? 4
   Non vedi congiurati a farli guerra
i nemici alla patria Italia bella,
ch’egli al valor antico rinovella,
dove il zelante suo parlar s’afferra? 8
   Né contra Dio, né contra il Re congiura
chi i ribaldi ministri suoi riprende,
né chi predice lor trista ventura. 11
   Geremia e Michea via più gli offende,
Briggida con Gioachim: pigli la cura
pria contra lor, chi contra quel pretende. 14

125
Sonetto in lode del signor Cesare Spinola

   Pompa della natura, onor d’Iddio,
splendor d’Italia e di sue ninfe Adone,
tra’ cavalier magnanimo campione,
difensor di virtù, Spinola mio, 4
   t’offero, ringraziando, in atto pio
sacrifizio di musico sermone
del Campanella per la defensione
contra lo stuol traditoresco e rio. 8
   La porta apristi donde il Ciel l’inspira
forza, amor, vita al sentimento afflitto,
d’invidia e gelosia vincendo l’ira. 11
   Convenia sol al tuo valor invitto
tanta impresa per lui, che ’l mondo ammira
più ch’i gran savi suoi Grecia ed Egitto. 14

126
In lode di don Francesco di Castiglia

   L’arbor vittorïoso di Castiglia,
ch’Italia e Spagna e un nuovo mondo adombra,
nel cui tronco innestata più grand’ombra
spanda l’austrïaca imperial famiglia, 4
   n’ha dato un germe, che tutto assomiglia
al suo lignaggio, fuor che non ingombra
paesi e regni, anzi egli da sé sgombra
cure sì grevi e al vero ben s’appiglia. 8
   Don Francesco è costui, che, sconosciuto,
su l’Adige e ’l Sebeto va cantando
or donne sante, or suoi cocenti amori, 11
   or l’Antïochia vinta, in stil più arguto,
or false corti ed ingrate abiurando.
Che fiano i frutti suoi? Questi son fiori. 14

127
Sonetto al signor principe di Bisignano

   D’Italia e Spagna e dell’altro emispero
presso a Filippo, monarca sovrano,
primo signor è quel di Bisignano,
per cui l’affanno mio parmi leggiero. 4
   Ch’essendo stato un uom di tanto impero,
diece e diece anni, senza colpa, invano,
sol per sua larga e generosa mano,
nel carcer, dov’io sto, dolente e fiero; 8
   pur, quando piacque al Ciel il suo ritorno
di dolce libertà all’amata luce,
privo degli anni e di prudenza adorno, 11
   cessò ragion di Stato, che produce
a Dio nemici, a noi danno, al Re scorno.
Gran forza e speme tanto esempio adduce! 14

128
Sonetto in lode del signor Troiano Magnati

   Glorïoso signor, ch’il nome porti
del cavallo troian, dove i magnati
suoi Grecia ascose pronti, apparecchiati
sovra Asia a vendicar gli antichi torti, 4
   il valor di Diomede dentro apporti,
d’Ulisse il senno e quegli accenti grati,
di Menelao il sembiante e i modi ornati
ed ogn’altra virtù degli altri forti. 8
   Del che m’avveggo io come Laocoonte,
ma non con l’odio suo, non col destino;
ché ammiro ed amo le tue virtù cónte. 11
   Anzi umilmente pregando m’inchino:
apra il fianco fatal, vendichi l’onte
fatte a tanti virtuosi e a me meschino. 14

129
Sonetto alla signora donn’Ippolita Cavaniglia

   Per conquistar d’Ausonia il più bel regno,
e poi adornarlo, Alfonso ne traspianta
da Valenza la ricca e nobil pianta,
cui Ferdinando die’ luoco più degno. 4
   Qui tai frutti apportò, ch’umano ingegno,
qual sovra gli altri meglio scrive o canta,
di poter raccontarli non si vanta.
Che farò io, che puoca virtù tegno? 8
   Ippolita, germoglio più gentile
de’ Cavanigli rami, tu mi dona
di Petrarca o Maron l’invitto stile, 11
   o pur del Sannazzaro, che l’intuona
tant’altamente, ch’il mio verso umile
sol le tue grazie in me tante risuona. 14

130
Sonetto alla medesima

   Ippolita magnanima, in cui serba
l’alto valor de’ Cavanigli tuoi
della virtù i tesori, e amor gli suoi,
come in un seme suo sta tutt’un’erba; 4
   hai presenza degnissima e superba,
che sembra armato esercito d’eroi;
maestosa bellezza, donde puoi
saldar ogni dolore e piaga acerba. 8
   Generosa pietà, man liberale
al Sommo Ben ti fan simil cotanto,
che nata contro al mal ti giurarei. 11
   Libero conversar, animo hai santo,
favellar grazïoso e celestiale.
L’altre, femine son; tu donna sei. 14

131
Madrigale alla signora donna Ippolita

   Bastava che pietosa
le mie doglie mirassi a ricrearmi,
onde tuo servo eterno ne restassi,
o donna generosa;
ma mille grazie e benefizi farmi 5
volesti ancor. Felici ferri e sassi,
che stringete i miei passi,
ringraziar non poss’io,
né gioir del sol mio:
ringrazio voi, e di voi più non mi doglio.
Sol non poter servirla ho gran cordoglio.

132
Sonetto alla signora Olimpia

   Donna, ch’Olimpia, dal monte onde Giove
e ’l cielo stesso il suo nome riceve,
degnamente sei detta, il camin greve
di tanta altezza a disperar mi muove. 4
   Poi dal tuo sommo un dolce fonte piove
d’umanità, che fa agevole e breve
l’impresa immensa e la mia voglia lieve:
onde m’accingo a far le prime prove. 8
   Picciolo don ti mando, ma ben pegno
d’animo grande, onde virtù n’è vaga
tanto più, quando Amor ha nel suo regno. 11
   Sul monte Olimpo un picciol ramo paga
d’oliva i vincitor, trïonfal segno:
tu, ch’in te vinci me, così t’appaga. 14

133
Sonetto alla signora donn’Anna

   Se agli altri sei, con sincopata voce,
donna Anna, domina anima a me sei,
che signoreggi tutti i pensier miei
e rendi il viver mio tardo e veloce. 4
   Dominio, ahi, tirannesco! ahi, vita atroce!
ché, volendo bearmi, non mi bei.
Bellezza e nobiltà, ch’agli alti dèi
converrebbe, hai superba, ch’a me nòce. 8
   Superba, no, magnanima, appellarte,
ond’a picciol valor forse non miri,
dovevo, e saggia per natura ed arte; 11
   pur, benché tal virtù tant’alto aspiri,
dalla vera clemenza non si parte,
ond’anche spero requie ai miei sospiri. 14

134
Invitato a cantar le laudi di Cesare,
cantò così

   In stile io canterei forse non basso,
e farei molli i più rigidi cori,
signor Aurelio, se tempi migliori
lo spirto avesse, tormentato e lasso. 4
   Ma a me non lice più gire in Parnasso,
né d’olive adornarmi, né d’allori,
che in atra tomba piango i miei dolori,
sol pianto rimbombando il ferro e ’l sasso. 8
   Dite or, ch’io ascolto voi, canoro cigno,
cui avvien che in pene e pure in morte canti
Cesare invitto e vincitor benigno? 11
   Troppo lungi son io dai pregi e vanti
d’uom sì felice, a cui tutto è maligno
quanto adopran qua giù le stelle erranti. 14

135
Populo, che di Dio la sepultura

   Populo, che di Dio la sepultura
venisti a visitar, pria visitato
da lui nel petto, dove sta serrato
lo spirto tuo, com’in pregion oscura, 4
   di pianger il tuo fallo prendi cura,
per cui nell’Inferno egli è penetrato,
ma libero di morte e di peccato,
dove la tua salvezza opra e procura. 8
   Di sospiri e di lagrime confuse
nel tuo volto fontana oggi si scerna,
populo ingrato; non usar più scuse; 11
   sìeti dolce onorar questa caverna,
piangendo amaramente, ove s’inchiuse
chi solo ti può dar la vita eterna. 14

136
Titulo di vittoria, pan di vita

   Titulo di vittoria, pan di vita,
d’uom vero e vero Dio sostanza e segno
della gloria immortal, donato in pegno
ad ogn’alma di te quaggiù nutrita, 4
   non potea ritrovar la via infinita
delli seculi eterni umano ingegno
senza l’aiuto tuo, senza il sostegno:
tanto la perdizion l’avea impedita. 8
   Chi a te s’accosta, sente alzarsi a volo
(secreto dei miracoli divini!),
gustando te, fin al celeste suolo. 11
   Degno sei, Signor mio, ch’a te s’inchini
il ciel, la terra e ’l Tartaro; ché, solo
vincitor, passi tutti i lor confini. 14

137
Grecia, tre spanne di mar, che, di terra

   Grecia, tre spanne di mar, che, di terra
cinto, superbia non potea mostrare,
solcò per l’aureo vello conquistare
e Troia con più inganni e puoca guerra.
   Poi di menzogne e favole ne atterra 5
tutte le nazïon per inalzare
sue false laudi. Or, standola a mirare,
contra sé Italia e contra Dio quanto erra!
   Ella, che trïonfò del mondo tutto
con senno ed armi sotto la gran Roma, 10
dove anco ha Dio suo tribunal costrutto;
   ella, che novi mondi trova, e doma
dell’Ocean vago ogni tremendo flutto
(impresa che trascende ogni gran soma)!
Né pur s’ammira o noma 15
Cristofaro Colombo, il cui sagace
valor sapïentissimo ed audace
ne schernisce e disface
di fisici, teologi e poeti
i libri, e i matematici decreti, 20
Erculi, Giovi e Teti,
veggendo e’ più con la corporea salma
che col pensier veloce altri dell’alma,
degno d’eterna palma.
Ad un mondo dài nome tu, Americo, 25
del nido a’ buon scrittor cotanto amico;
ma il favoloso intrico
de’ falsi eroi e de’ bugiardi dèi
fa che senza poema ancor tu sei.
Quanti dir ne potrei! 30
Il gran dottor della legislatura,
Pittagora, e ’l suo Numa, chi l’oscura?
Italia, sepoltura
dei lumi suoi, d’esterni candeliere,
onde il gran Cosentin oggi non chiere, 35
e lo Stilense fere
di nuovi affanni, di cui sol l’aurora
gli antichi occupa, e quella patria onora,
che poi lui disonora.
Colpa e vergogna della nostra gente, 40
che al proprio mal, all’altrui ben consente,
né pur anche si pente!
Privata invidia ed interesse ammaga
Italia mia, né mai più si dismaga
di servir chi la paga 45
d’ignoranza, discordia e servitute,
sempre contrarie alla commun salute!
Ahi! nascosta virtute
a te medesma, e nota a tutto il mondo,
sotto l’imperio soave e giocondo 50
del Lazio almo e fecondo
di prole generosa, poich’ e’ solo
in lettere ed in arme fe’ più stuolo
che l’universo insieme
con verità, ch’or sotto il falso geme. 55

138
Sonetto fatto al signor Petrillo

   Bellissimo fanciullo oggi è comparso,
qual luce all’oscurissima mia vita,
temperando la mia doglia infinita,
in sue domande onestamente scarso. 4
   Ché, veggendo il mio senno vano e sparso,
ch’a nuovo carme inabile s’addita,
il vecchio canto a ripigliar m’invita:
proposta veramente d’Anacarso. 8
   Glorïoso garzon, che ’l cor mi pungi,
di castissimo amor usando l’arco,
e nuovo senno al mio perduto aggiungi, 11
   carme ti rendo, d’ogni gusto parco,
ch’esce da bocca di dolcezza lungi,
ch’agli ultimi sospiri è fatta varco. 14

139
Sonetto fatto al medesimo

   Spirto ben nato, la bellezza è un fiore
dell’interno valor, ch’in noi riluce
per la massa corporea, onde produce
a chi vi mira stimoli d’amore. 4
   Presso a puoch’anni, quel ch’appar di fuore,
ritorna dentro al suo primiero Duce,
s’a lui apportò ben con la sua luce;
se non, del tutto poi svanisce e more. 8
   Dunque veggiate di donarla a cambio
con chi vi dà virtù, bontate e senno,
non frivole novelle in contracambio; 11
   le quai, send’ombra, deleguar si denno,
pria che proviate in sì noioso scambio
quanti rei tradimenti vi si fenno. 14
III. POESIE D’AMORE



140
Sonetto fatto dall’autore sopra il giuoco di dadi applicandolo a se stesso

   Segnando sua fortuna sopra un punto,
guadagnar sempre il giocator si vede
che quei gli arride in faccia, e sopra siede
al segno opposto il dado al giuoco assunto. 4
   Travolgendosi poi, resta compunto
di danno e scorno, e quanto manco cede
tanto più perde, e ’l miser non s’avvede,
finché tutt’il suo aver riman consunto. 8
   Così, avend’io delle mie estreme imprese
nella mia vaga dea fisso la sorte,
sto bene, ho nunzi buon, se m’è cortese: 11
   se mi si asconde o fa le ciglia torte,
novelle ho male e sento mille offese,
ostinato a seguirla insino a morte.

141
Sonetto nel quale si ringrazia amor d’aver ferito con li suoi dardi l’amante

   Qual grazia o qual destin alto ed eterno
mi scorse a rimirar quegli occhi, ond’io
ne meno l’alma in sì dolce desio,
che mal nel viver mio più non discerno? 4
   Passata la tempesta e l’aspro verno
di quei sospir, che già doglioso e rio
ferno un tempo mio stato, or lieto e pio,
mi dona Amor nuovo piacer interno. 8
   Talché, o soave giorno, o cari strali,
che mosse la mia donna in mezzo al core,
quando prima ver’ lei le luci apersi! 11
   Oh, se mi desse il Ciel tanto favore,
che potessi mostrarvi, egri mortali,
a pieno il mio contento in dolci versi! 14

142
Sonetto nel quale si manifesta
l’inestricabil laberinto d’amore

   Quando primieramente nel bel volto
fui mosso a guardar voi, cara nemica,
parmi dicesse Amor: – Con gran fatica,
misero, da tal nodo sarai sciolto. – 4
   Ed or da tanta pena fosse tolto
pur finalmente il cor, e quell’antica
mia voluntà, cui spesso Amor implica,
cessasse dal desir sì cieco e stolto! 8
   Lasso! invan mi ritiro all’alto poggio
della ragion, ché già cinto d’intorno
mi preme l’avversario d’ogni parte. 11
   Non fuggir, non schivar, non altro appoggio
trovo alla mia salute; e pien di scorno
convien mi renda, e più non provi altr’arte.

143
Sonetto sopra un laccio di capelli

   Con tante spesse reti e stretti nodi,
quante Amor fabricar mai ne sapesse,
poi che al regno durissimo successe
della Necessità, ninfa, mi annodi. 4
   Ed io, che tue bellezze, glorie e lodi
nella mente profonda porto impresse,
e le virtuti insieme ond’egli intesse
tanto lavoro con occulti modi, 8
   di tuoi capegli un laccio dimandai
(come ogni affetto il simile richiede)
per segno di miei dolci lunghi guai. 11
   Compita ancor non è la mia mercede,
se pria Vulcan, per non disciôrci mai,
còlti in sua rete entrambi non ci vede. 14

144
Donna, che in terra fai vita celeste

   Donna, che in terra fai vita celeste
sotto la guida di colui, che in Cristo,
amando, trasformossi, e tale acquisto
feo, che di crocifisso alfin si veste; 4
   tu fai grand’opre sì conformi a queste,
che spirto acceso al mondo non s’è visto
tanto d’amor divin all’altro misto
che l’anime subleva afflitte e meste. 8
   Per ringraziar, non per lodarti, io vegno;
ché non può lingua umana pienamente
narrar le tue virtuti a parte a parte. 11
   Stella dian, ora, al mio fragil legno
che solca un mar d’affanni, onde non parte
l’occhio del mio desire e della mente. 14

145
Parve a me troppo, ma alla cortesia

   Parve a me troppo, ma alla cortesia
di lei fu puoco in sogno consolarmi;
onde volle anco vigilando darmi
quel ben che sopra gli altri si desia. 4
   Sì che, mancando ogni consiglio e via,
io stando dentro agli ferrati marmi,
ella fuori, d’amor prendemmo l’armi.
Alta dolcezza entrambi ne assorbìa. 8
   – L’orto ameno – dissi io; ella: – La chiave
dammi, cor mio –; e tal gioia n’avvinse,
che ’l morir ci parea bello e soave. 11
   Quando l’alme trasfuse risospinse
muro interposto, ah ben noioso e grave!
che amor soverchio in tutto non ci estinse. 14

146
Sonetto fatto sopra un presente di pere mandate all’autore dalla sua donna, le quali erano tócche dalli denti di quella

   Le stampe delle perle, donde il fiato,
che mi dà vita, sue figure imprime,
nelle pere mandommi fresche e prime:
don fra gli amanti assai cupidi amato. 4
   Grato odor, dolce umor v’era innestato,
ché delle rose sue sparser le cime
d’amor un mare e sue ricchezze opime:
don, cui gustando, io diventai beato. 8
   Quand’io m’avveggio, benché tardo omai,
che solo amor può darci il Sommo Bene,
lo qual filosofando io non trovai, 11
   se virtù di mutar fanciulla tiene
pere in ambrosia e i tristi in giorni gai,
cangiar vita e costume or mi conviene. 14

147
Sonetto di sdegno

   Donna, dissi talor che gli occhi vostri
eran del ciel due fiammeggianti stelle:
dicolo ancor, ma di quell’empie e felle
ch’apportan peste, ira, serpenti e mostri. 4
   E dissi ch’eran fiamme: or, con inchiostri,
che sian fiamme il redico, ma di quelle
che tormentan l’inique alme rubelle,
sulfuree e smorte, ne’ tartarei chiostri. 8
   E dissi che il sembiante e che il crin era
di dea: or questo affermo, ma d’Averno,
di Tesifon, d’Aletto e di Megera. 11
   Il vero allor conobbi, il vero or scerno;
vera fu allor mia voce, or anco è vera:
ché allor voi Paradiso, or sete Inferno. 14

148
Sdegno amoroso

   Queste d’ira e di sdegno accese carte,
che d’un ingrato cuor son arme ultrici,
legga chi fugge Amore, e vegga in parte
i frutti suoi, l’infedeltà d’amici,
com’io per breve amor diffuse e sparte 5
lagrime ho tante, amare ed infelici.
Or, se ferimmi Amor, odio mi sana,
ché d’un contrario l’altro s’allontana.

   Di te vorrei lagnarmi, ingiusto Amore,
poiché fusti principio al pianger mio; 10
teco le mie querele e ’l mio furore
con giusto ardir di vendicar desio;
a te del mio penar pena maggiore
conviensi; e ’l vuole e la natura e Dio,
ché, se fusti cagion ch’io amassi altrui, 15
or tu devi soffrir gl’inganni sui.

   Tu con l’aurato strale al manco lato
mi facesti, crudel, profonda piaga;
tu ne traesti il cor vinto e legato,
dandolo in preda a dispettosa maga, 20
che cela il finto amore e simolato
sotto l’imagin sua, che mille immaga:
immaga mille, e mille amori agogna;
a nullo osserva fede, a sé vergogna.

   Dunque doveasi un tal ricetto a tanta 25
grandezza del mio cuor, ch’ama in eterno?
Empio! tu ’l sai con quant’onor, con quanta
fede osservai le leggi e ’l tuo governo:
governo iniquo, ov’ il velen s’ammanta
tra puoco dolce, ov’è sol frode e scherno! 30
ingiuste leggi, in cui s’è terminato
che si debba ferir un disarmato!

   Sol mi debbo lodar che pur talvolta
ivi pervenni ove tu scherzi e ridi.
Ma che miracol fu, se molta e molta 35
turba nel luogo stesso ergi ed affidi?
e qual obbligo fia, se rotta e sciolta
la fé dell’empio cor subito vidi,
e quinci e quindi i fraudolenti amori
divisi e sparsi in velenati cuori? 40

   A te dunque mi volgo, ingorda arpia;
di te giusta cagion ho di dolermi.
Misera! or chi ad amar si mosse pria?
Pria tu, che l’amor tuo festi vedermi
e con lettere e segni; il cielo udìa 45
d’Amore i colpi e i fragili tuoi schermi,
e con tanti sospir, con tai parole,
che fatto avriano in giù calar il sole.

   Ahi, quante volte le rilessi il giorno
e quante volte accesero i desiri! 50
Le baciava talor, talor intorno
l’irrigava di pianto, e co’ suspiri
poi l’asciugava. Allor palese fôrno
le mie pene amorose, i miei martìri.
Esse ben sanno il fido petto mio, 55
esse l’instabiltà del tuo desio.

   Non ti ricordi in quanti effetti e modi
io t’ho fatto palese il rïamarti?
Vuoi che racconti forse, o pur che lodi
che oprato ho quel c’ho più potuto oprarti? 60
Or che cagion, che disciogliessi i nodi,
t’ho dato io mai? di che potrai lagnarti,
se non c’hai puoco amato e falsamente,
avendo fisso in mille cuor la mente?

   Fra mille un solo è quel ch’in tutto ha spento 65
quel puoco amor che simolando andavi.
Ahi! misera infedele, hai ardimento
di rivolger più gli occhi ove miravi?
Dispergi, ingrata, ogni tua speme al vento,
ché non terrai più del mio cor le chiavi: 70
ama gli amanti tuoi, ama quell’uno,
che mostra amarti più che amò ciascuno.

   Io più non amo; anzi, d’amore invece,
odio quanto più posso, e fuggo e schivo.
Sieguati pur chi vuole; a me non lece 75
seguirti più: più sarò lieto e vivo,
vivo marmo sarò; ché tal mi fece
il tuo tepido amor e semivivo.
Così liquido umor suol congelarsi
in duro ghiaccio, e appena può disfarsi. 80

   Quest’ultime parole e quest’estreme
note sian fine a quel düello antico;
e, se fia ch’io per altri sudi o treme,
cercarò fede all’amoroso intrico.
Bastami sol, per or, che non mi preme 85
cura d’Amor, ma me di me nutrico.
E veggio ben c’ho navigato invano;
amai sol ombre e fui dal ver lontano.

149
Sonetto fatto dall’autore sopra un bagno mandatoli dalla sua donna, nel quale ella s’era prima lavata

   La faccia di madonna, che di Dio
sola può dirsi imagin vera in terra,
e le man, providenza che non erra,
bagnate in atto a me cortese e pio: 4
   tolsi l’acqua, applicaila al corpo mio,
già fracassato dopo lunga guerra
per gran tormento ch’ogni forte atterra,
del medesmo liquor bevendo anch’io. 8
   Miraculo d’amor stupendo e raro!
Cessò la doglia, io diventai più forte,
le piaghe e le rotture si saldâro. 11
   Sentendo in me le sue bellezze assorte,
le viscere, gioendo, trapassâro
in lei, mia dolce vita, dalla morte. 14

IV. POESIE D’AMORE
SCRITTE AD ISTANZA DI F. GENTILE E ALTRI

150
Convenir troppo l’effetto e l’affetto

   Convenir troppo l’effetto e l’affetto
al tuo nome, o Gentil, ne fa gran fede
Amor, che in gentil cuor solo risiede,
che fatto ha tempio suo tuo gentil petto; 4
   dove altamente il simulacro eretto
di Flerida, ch’ogni altra bella eccede
quant’ogni stella il sol, render si vede
la magion lieta, e lieto l’architetto. 8
   Ond’io m’inchino a lei, e per lei ti priego
ch’a lei e a te e a noi gentil ti mostri,
il fatal pazzo Campanella aitando. 11
   Dio ti guardi Flerida e dal suo niego:
apri il balcone; ond’ei, senno acquistando
dal su’ amor, canti con più gloria i vostri. 14

151
Madrigale fatto ad istanza del signor
Francesco Gentile

   Quando parla uom mortale,
pria l’aer muove e poi l’orecchio intuona;
indi lo spirto sue figure accoglie.
Ma pria l’anima assale,
quando Flerida mia canta o ragiona. 5
La dolce voce invola le mie voglie,
ché dell’udir le soglie,
e sì soavemente,
passa, che non si sente,
come fa Dio in noi; ond’io revelo 10
ch’ella donna non sia, ma dea del cielo.

152
Amor, nei gesti vaghi e riverenti

   Amor, nei gesti vaghi e riverenti
che la Flerida mia non abbia pare,
d’un neo sul bel ginocchio il fai notare,
sostegno de’ leggiadri movimenti. 4
   Che ’l lampeggiar del riso e i grati accenti
e i dolci baci in terra posson fare
un paradiso di dolcezze care,
col neo sul labro, per prova non menti. 8
   Per cui m’additi un altro anche fiorito
vezzoso dio sul consecrato fonte
dell’immortalitate all’appetito. 11
   Tai del sommo ben mio tre note cónte
di delizie nel pelago io smarrito
per stelle osservo d’un tanto orizzonte. 14

153
Madonna, han scritto che l’umana testa

   Madonna, han scritto che l’umana testa
il ciel sembri, del cui bel Paradiso
la bocca è fonte, gli occhi stelle, e ’l viso
dove il folgore nasce e la tempesta; 4
   Dio, la ragion che sempre mai sta desta;
gli angeli, i spirti che portano avviso;
e ’l resto e quel di sotto han poi diviso
con bella somiglianza e manifesta. 8
   L’umana terra sta nell’uman centro,
che del suo paradiso il fonte asconde;
son gambe, piè, man, braccia, arte e sostegno. 11
   Però de’ nèi che porti, dui, nati entro
l’acque de’ Paradisi, hanno il fior, donde
lontan, sterile resta il terzo segno. 14

154
Sorgi, Flerida mia

   Sorgi, Flerida mia,
ch’io sento risanarme; onde, tu essendo
e tu insieme ed io, forz’è che torni
al tuo vigor di pria,
sì come penavo io, tu ancor patendo, 5
tu sol, che fai i miei giorni
tutti sereni e adorni.
Ciò ch’a te piace e giova,
in me ancor si ritrova.
Passi il tempo fatal del nostr’affanno, 10
venga il sperato ben del novell’anno.

155
Il biondo Apollo e ’l coro di Parnasso

   Il biondo Apollo e ’l coro di Parnasso,
il fonte pegaseo, gli verdi allori,
Pindo, Elicona cantin vostri onori;
e «Flerida» risuoni ogn’antro e sasso. 4
   Tu, d’ogni vil pensier, nonch’atto basso
schiva, tu sola ordisci alti lavori;
e per te avvien che Lete strida e plori,
mentre al Cielo veloce muovi il passo. 8
   Flerida sii, cor mio, perch’altri pianga
d’invidia e gelosia, ma io teco rida,
ancor se ben di lungi e ’n spirto giunto. 11
   A quel seno divino, ove s’annida
grazia, virtù e beltà, fruisca a un punto
quel ch’altri presso stenta, e a pianger sfida. 14

156
Sonetto alla signora Giulia

   Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore,
mia propria essenza, in cui mi trasformai,
sei, Giulia mia; sì ben altro non mai
porto in bocca, nell’animo e nel core. 4
   Né sol di me lo spirital valore
in te han converso i tuoi benigni rai,
ma la carne anche e l’ossa, ond’io restai
gioco, iride, umbra, luna, imago, ardore. 8
   Vivo io, non io, ma tu vivi in me stesso;
tu ti chiami Gentil, io del Gentile,
cioè dell’esser tuo titulo e segno. 11
   Deh! m’avess’anche il mio fato concesso
ch’in te foss’anco il mio restante umìle
transumanato dall’Eterno Ingegno. 14

157
Madrigale alla signora Giulia

   Stia pur giù lia e Rachele,
e alle bellezze sovrumane e sole
di Giulia mia cedan, che ’l nome il vole.
Sette e sett’anni ambroggia e dolce mèle
sono per servir lei, e cento, e mille, 5
tutti sono d’amor suavi faville,
perché servir sì gran beltà infinita
è sempiterna gioia, eterna vita.

158
Sonetto alla signora Maria

   D’amor oggetto e di bontà evidenza
beltà si dice, o bella ninfa mia:
bontà non ci è, se non ci è cortesia,
né amar si deve chi d’amor è senza. 4
   Sei bella ed hai sovrana intelligenza
dell’amorosa legge; e perché pia
non mi ti mostri? T’appellan Maria,
nome di gran pietà: dov’è l’essenza? 8
   Deh! non si dichi mai che ’l volto e ’l nome
belli ritenghi sol, l’alma, gli affetti
contrari essendo, ch’io creder nol voglio. 11
   Se mi reputi indegno di te, come
pria mi degnasti? Dunque uopo è ch’aspetti
nova arte di pietate al mio cordoglio? 14

159
Madrigale fatto ad istanza del signor
Francesco Gentile alla signora Maria

   Tutta leggiadra e bella
sei, dolce anima mia,
piena di grazia e di beltà; ma ria,
se ben del ciel sei luminosa stella.
Ché, avendo il volto e ’l nome 5
di pietade e dolcezza,
se poscia il cuor dentro ritien fierezza,
ognor di biasmo ed onte carchi some.
Non stanno ben insieme
bellezza e crudeltade, 10
perché l’una ci toglie libertade,
e l’altra affatto nostra vita preme.
Sii dunque a me, cor mio,
d’amore e cortesia
verace albergo, se vera Maria; 15
ché mal senza di te viver posso io.

160
Madrigale

   Non fu pensier villano,
che pose freno all’alto mio desire
o dubbitò di vostra gentilezza,
dolce signor sovrano.
Né a cotanto voler mancò l’ardire; 5
ma per l’inusitata sua vaghezza,
fûrno i miei spirti sparti
sino all’estreme parti;
e quanto più raccôr io lor volevo,
tanto più li perdevo. 10
Quando sentii dal cielo occulto canto:
– Non violar tu quest’albor sacrosanto. –
Io rispondevo in pianto.
Ei soggionse che ’l côrre d’un sol fiore
senz’altro frutto, fia mio eterno ardore. 15

161
Sonetto d’Orazio di G. a don G. d’A.

   – Gli occhi vostri... – diss’io; quivi perdei
la voce, ch’era a celebrarvi uscita,
quando bocca più degna e più gradita
replicò con stupor gli accenti miei. 4
   Quasi volesse dir: – Sciocco, tu sei
bastante a rimirar luce infinita? –
Oltre passando poi, restò smarrita
l’anima in grembo a pensier tristi e rei. 8
   Allor, qual uom che teme ingiuria o danno,
nulla risposi; ond’or dubbie parole
mi dan continuo ed angoscioso affanno. 11
   Ch’io volea dir: – Le luci ardenti e sole
di bei vostr’occhi, alma real, qui fanno 14



V. SEI SONETTI POLITICI


a) CINQUE SONETTI POLITICI
CONSERVATI A NEW YORK

162
A Roma

   Regina eri del mondo, oggi sei madre
dove ogni savio d’ogni gente arriva,
se sorte d’ogni sorte non ha priva
come la mia, a dignità leggiadre. 4
   Tutte difensi le cristiane squadre
di Tebro latti a la famosa riva;
l’infedel prende da te fede viva.
Taccian le lingue venenose et adre. 8
   Fondò in te il regno l’inventor del vino
pontefice primero, a cui successe
la Monarchia fatal poi di Quirino. 11
   Cesare il tutto a quel gran fin poi resse
ch’ebbe fermezza nel gran Costantino,
celeste seggio, che Dio in terra elesse. 14

163
A Spagna

   Da levante a ponente caminando
la Monarchia del mondo a te fin venne
e per oltre passar pose le penne
onde vai tutta la sfera girando. 4
   Con quattro scalzi donar morte e bando
a popoli infiniti ti convenne.
Meraviglia di Dio, che ti sostenne
che vai ad un gregge tutti congregando. 8
   Dio trova i mezzi a chi promette il fine,
onde ne’ gran principii d’ogni Impero
diede armi nove e arti pellegrine. 11
   Tu de la calamita hai l’uso altiero,
le stampe e l’archibuggi, opre divine,
onde hai per tutto il corso sì leggiero. 14

164
Ad Inghilterra

   Se Pietro e Paolo, che fur gli architetti
di santa Chiesa, in terra oggi calasse,
cosa non trovarebbe ch’ammendasse
se non gli abusi de’ sensi imperfetti. 4
   Ma voi negate, Inglesi maledetti,
non sol che la fè santa in lei durasse,
ma ancor la politia; e ciò vi bastasse,
che mal contra voi stessi sete affetti, 8
   se, negando l’umana libertate,
perché ad Arrigo lussuria la tolse,
d’essere bestie o schiavi confessate. 11
   Già tra gli uomini Cesare v’accolse,
tra santi figli Gregorio: ove andate?
A Cam, ch’al padre beffando si volse? 14

165
Sonetto gemino profetale fatto da fra Thomaso Campanella nell’anno 1614

   Non guasta i suoi disegni per li vostri
l’Altissimo, o Savoia, o Veneziani.
L’ultima monarchia data è a l’Ispani:
vedi la Biblia e i Profetali nostri. 4
   Scrittura è in ciel pur con divini inchiostri
ch’in Saggittario i pianeti soprani
ricongiunse in lor pro: né fati vani
ci aggiunser novi mondi, stelle e mostri. 8
   Si divide la Francia e si prepara
ad obbedirli: e l’italica gente
con suoi capi a chinarsi anche s’impara. 11
   Germania spagnolizza, e di ponente
ogni paese e di levante a gara.
Mia Squilla è sfortunata, ma non mente. 14

166
Sonetto 2°

   Veggio il tempo promesso omai presente
ch’Abramo in David sia del mondo erede,
di Grecia e Gerosolima a la sede
ritornano i pastor: Giudea si pente. 4
   Contra Turchia con Spagna unitamente
l’Etiope, il Mosco e ’l Persa andar si vede.
Il Giapponese e ’l Catain già crede.
Gloria Patri a cantar l’India consente. 8
   Nell’anno mil seicento vinti quattro
d’Italia in Tracia et Asia scorre e vince
l’altier duca Giron angel di Marte. 11
   Gira in Egitto vincitor da Battro,
Marocco e Fez di fellonia convince;
vorrà più far: ma il ciel di terra il parte. 14



b) SONETTO DI PALINODIA A VENEZIA


167
Solo Cam con la sua progenie immonda

   Solo Cam con la sua progenie immonda
ch’al gran padre, nel vin sepolto, fanno
vergogna e vituperio, ora in te stanno;
ché ’l seme giusto è uscito omai da l’onda. 4
   Tu nave or di Caronte, ch’a la sponda
tartarea guidi nell’eterno danno
tante alme tristi, che piangendo vanno
la tua brama d’un obolo profonda. 8
   Da questa metamorfosi ognun puote
scorger che ’l Ciel sdegnato a voi l’ingegno,
per punir vosco tutta Europa, invola. 11
   Ecco dal polo andar lunge Boote,
ed a l’altro emisfero il santo regno
dal fiero drago; e Dio far nova scola. 14



VI.VERSI LATINI DEGLI ULTIMI ANNI



168
Disticon pro rege Gallorum

   Turca necem fratri, Nero matri, insontibus infert;
sontibus at Gallus parcit utrisque pius.

  «Il Turco dà la morte al fratello innocente, Nerone
all’innocente madre;
ma il Gallo, pio, risparmia ambedue i colpevoli».




SCELTA
D’ALCUNE
POESIE FILOSOFICHE
DI
SETTIMONTANO SQUILLA
CAVATE DA’ SUO’ LIBRI
DETTI
LA CANTICA
CON L’ESPOSIZIONE


A’ MIE’ SIGNORI ED AMICI OSSERVANDISSIMI
IL SIGNOR GUILIELMO DE LA WENSE, ECC.,
DON CRISTOFORO BESOLDO
E
GIOVAN VALENTINO ANDREA
QUESTA OPERA D’UN RARO INGEGNO ED AMICO
OFFERO E RACCOMANDO
IO TOBIA ADAMI.
DI PARIGI, L’ANNO 1621.


Amici miei, io vi fo un presente, non del mio, ma d’un amico che conoscete. Dono piccolo nell’apparenza, ma grande veramente nella sua realtà. Io l’ho giudicato degno de’ vostri belli spirti, e so che voi ne farete stima secondo il merito d’esso. Il parlare stretto talvolta e filosofico, e più con la naturalezza ed accortezza calabrese che con l’eleganza toscana adornato, non vi disturbi, che gli altissimi concetti qui proposti vi sieno meno piacevoli e gustosi. Io son certo che, né lo muroqøkion di Dario, né l’Omhroqøkion d’Alessandro conteneva cose più eccellenti. Nel resto il Primo Senno, che fa gli suo’ raggi tanto illustri e chiari, come per la Prima Possanza ci ha fatto d’una istessa spezie, così ci unisca nel suo santo Amore; ed io per servirvi sarò sempre
il vostro.


1 - 25
26 - 31
32 - 70
71 - 86
87 - 139
140 - 168
169
ECLOGA

CHRISTIANISSIMIS REGI ET REGINAE
IN PORTENTOSAM DELPHINI,
ORBIS CHRISTIANI SUMMAE SPEI,
NATIVITATEM.
FRATRIS THOMAE CAMPANELLAE,
ORDINIS PRAEDICATORUM, SAECULORUM EXCUBITORIS,
CANTUS.
CUM ANNOTATIONIBUS DISCIPULI


AL RE E ALLA REGINA CRISTIANISSIMI
PER LA PRODIGIOSA NASCITA DEL DELFINO,
SUPREMA SPERANZA DEL MONDO CRISTIANO.
CANTO DI FRA TOMMASO CAMPANELLA,
DELL’ORDINE DEI PREDICATORI,
VEDETTA DEI SECOLI,
CON ANNOTAZIONI DI UN DISCEPOLO.


ECLOGA
IN PRINCIPIS GALLIARUM DELPHINI
ADMIRANDAM NATIVITATEM
VATICINIIS ET DIVINIS ET HUMANIS
CELEBERRIMAM

   Pierides Calabrae, quae lactavere Maronem,
me senio spolient, iubeantque redire iuventam
magna sonaturo. Redeunt Saturnia regna
et nova progenies coelo demittitur alto,
vatum ut praedixit sanctum ac venerabile carmen, 5
signaque de Superis praedicta patentia monstrant.
Aethereum mutant solium, terraeque propinquant
Phoebus et asseclae, astronomorum lege revulsa,
myriadem undecimam millenorum (aspice!)
       passuum;
insolitas fruges Arctos, gnomonque dat umbras. 10
Hinc Tropici strinxere viam, metamque vagantum;
circulus obliquus iam intersecat aequidialem
ante gradus plures, quam sueverat; unde videmus
cardineos punctos signum praecesse fere unum;
tantumdemque vices anni invertuntur, et ultra 15
absidum eorum sedes fixarumque figurae.
Haec, nascente Deo, sensit clam machina mundi
temporibus facienda palam, cum maximus heros
surgeret et cunctos populos conflaret in unum
Christiadum: hunc nobis orientem et signa
        ferentem 20
certa sui adventus tandem fatalia pando,
Cassiopes Cycnique novis pridem excitus astris,
ille ego fatorum explorator notus in orbe.
Quo die ego natus, venisti in luminis oras,
instaurare ego Musas, tu nova saecula rerum, 25
portentose puer, quem expectavere parentes
ante diu et praeter spem, cum sterilesceret aetas,
anxietasque hominum peteret miracula Divos,
quo meliores anni tristia fata levarent,
quando medelas iam tellus defoeta negabat, 30
illaque praesertim, quae afflictis gaudia rebus
Christigenarum nunquam non adduxerat olim,
Gallia bellipotens, decorata charismate sceptrum,
quo durante queat nemo spem ponere. Iamque
affulges, spes nostra, puer. Ludovicus et Anna 35
(Iustitia illi agnomen, huic dat Gratia nomen)
te genuere pii, cum mundus utramque cupiret.
Hoc donum Aeterni Ratio dat, Patris imago,
per quam saecla creat, recreatque cadentia, per quam
olim homines rationales natura creavit, 40
gratia Christicolas fecit. Regemque supremum
tu istorum signas proprio ter nomine, Christe:
Christe Deus, qui christum hominem de chrismate coeli
Sequanicis facis in terris, remanente per aevum,
(queis iactare potest se donis natio nulla). 45
Tu addis, ne soboles sit defectura per aevum,
restituisque tuis charis solamina Gallis.
– Gloria, laus et honor! –, tibi cantent omne per aevum
Gallia et illius reparandus viribus orbis.
   Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem: 50
bis denis mater te suspiraverat annis;
deflexit precibus Coelum, Superosque coëgit.
Incipe, parve puer, risu cognoscere patrem:
seditione dolis ictus pater intus et extra,
victor semper, victus nunquam: huic tu alta laborum 55
finis, virtutum heres sexaginta piorum
et quatuor regum, felici sidere natus.
Imperii fines genitor, gazasque superbas
quadragies auxit tibi, materiamque paravit,
ceu Salomoni David, vates, musicus et rex, 60
conderet ut templum, populosque vocaret in unum.
Tanta figura notat te mox, labentibus annis,
amplificare Dei cultum, regnumque beatum,
non modo de Solymis, cunctis de gentibus auctum.
Laetum Urbanum, orbis pastorem, hinc cerno
        ferentem 65
munera sacra tibi; eius enim mens conscia fati est.
   At summi regis Richelieus fidus Achates
praeparat imperio prudens molimina tanto;
cuius in ingenio coëunt ventura peractis,
omnia quo possit, si scirent posse ministri. 70
Campanella novum Musarum consecrat agmen;
Gallia festivos ludos accendit et ignes;
spesque suas Itali munus dant; Roma triumphos,
palmarum augurium offert; gens exosa pavores
addit, amicitiam, lustrandique orbis elenchos. 75
Auroramque suae noctis Germania miscet,
multiplicesque ictus, reboantia fulmina belli.
Vah, formidatus Mahometes, tempus adesse,
cum sibi Gallorum promittunt arma ruinam,
dinumerans crebro, propria in formidine sentit. 80
Dicite: – Io! –, populi, quibus aurea saecula reddit
angelus ecce novus celso de sidere Martis,
iustorum Ecclesiae lumen, defensor et ordo,
Numine ab aeterno egressae Rationis amator,
poena tyrannorum atrox, haereseosque flagellum, 85
Turcarum exitium, vitiorum terror et ingens
virtutis templum, cuius pro limine scriptum est:
«BELLORUM FINIS PAX. Per me iam itur in illam:
itur et in quo laetentur moerentia saecla,
dum felicem sperant regressum ossa animorum». 90
   Tunc nostra invenient veracia dicta quietem:
ipse, triumphatis Capitolia ad alta sophistis
victor agam currus Musarum, vindice Gallo.
Nunc patriam fugimus: sed non sine numine Divum.
Dum canerem fato titubantia moenia mundi, 95
territa me afflixit senis Hispania lustris
(regibus haud rarum!) immeritis decepta ministris
(felix si nostris aptasset vocibus aures!):
frustraque Italia (heu!) discors plorabat alumnum.
   Radices altas cum egisset Palladis arbos, 100
vellere sacri Agni, Polyphemi tutus ab antro
efferor, et Romam me traxit amator amantem
Orpheus aevi nostri, Melchisedech et Apollo:
nec servare potest (obstabat coeca potestas)
tempore ab insano, noctis redeuntis amico. 105
Invidia, ambitio, ignorantia suscitat iras
monstrificas iterum, quatientes robora vitae.
Sic erat in fatis; non hoc potuere maligni;
Galliam enim profugus, tutum virtutis asylum,
magni olim Caroli sedem fortisque Pepini, 110
cogor adire pii Ludovici sidere fausto:
libertas fugiens ubi me expectabat amantem,
fatales nutus reserare, et dona Minervae
iam renovata dare, et nascentem cernere prolem
instauraturam quicquid desiderat orbis. 115
Regibus Austriacis quae olim instrumenta parabam
orbis ad imperium, ignarus, molesque superbas
deberi nato video de stirpe Pepini,
ut vates cecinere recens, repetita poëtis.
Et quam in vanum rex cupit aedificare Suecus 120
admirandam urbem, Solis de nomine dictam,
me signasse tibi, puer, alto ex corde resigno.

   Dicite, Pierides Calabrae, quae tempora rerum
tantarum signata manent in vertice Olympi.
Tres cum dimidio postquam regnaverit annos, 125
cornibus invisis nunc extemploque videndis,
bestia sanctorum blasphemans nomina et aedes,
seria ridiculis maculans et sacra prophanis,
quae faciem est Orcus, vulpis cor, Cerberus ora,
foeminei sceleris vis, cercopithecus Apella, 130
scurra leves animos cerebroso aenigmate fallens
(omnibus arridens, dicteria dicit in omnes),
quod Daniel scripsit, flatuque occidet Iesus,
tunc monstrum infelix sacrata decidet arce:
monstrum horrendum, immane, ingens, cui lumen
       ademptum; 135
confundit tempus Christique et Abaddonis arma.
Contingentque Agno sextum reserante sigillum.
   Sospitat alma Salus vitam, firmatque per annos
quinque animae sedem herois, floresque praeibunt
indolis egregiae, praeclarae vis animaï 140
mirificat dotes, decimoque implentur in anno,
formosi ante omnes mortales corporis almi,
et speciosa dabunt aevo spectacula nostro.
Ipse tamen castis tantum dabit oscula Musis:
bellorum ac pacis condiscet funditus artes; 145
quicquid coelum celat, tellus, humor aquaï
producunt, animo leget, et systemata rerum
sentiet, astrorumque vias, quincuplicis orbis
mirificos nexus, fatum sortesque latentes.
Ter quinis vicibus remeat dum Phoebus, ab Austro 150
aut patris aut nati clanget fastidia Mavors.
At post mille dies heroica gesta replebunt
orbem terrarum: quibus usque verenda vetustas
fortis Alexandri, Poenorum, fama Quiritum,
cedet, et Herculeae palmae laudesque silebunt. 155
Monstra cadent: Geryonis opes, Maurusia regna
parebunt Gallis generosis; Graecia compos
libertatis erit caute, ne disceret ultra
fallere vel Francos, neve exsecrare Latinos.
Prima sed Italiae stimulabit cura salutis 160
Christiadum ultorem, armipotentem, ubi Christus
       habenas
imperii statuit, fidei sophiaeque tribunal,
et Carolum supra reges erexit; ibidem
Francorum monumenta manent et fama coruscat.
Terque novem vicibus fidei imperiique rebelles 165
barbariemque domant. Aequat victoria coelo
te, Ludovice pater, cum Alpes glaciesque pererras
supra aquilas velox, fortis supraque leones,
Italiae libertatem fulcire ruentem.
Exempla impellent natum virtutis avitae; 170
adde, quod ingenio pollent et robore nostri;
gesta tua illustrare valent et reddere firma:
vis est Italiae quicquid splendescit Iberus.
Quam grati fuerint Gallis, docuere poëtae
Ausonii: en nostros Pompeios atque Metellos 175
Caesareosque tacent fastos, et Gallia tantum
cumque suis Carolis, Orlandis atque Rinaldis
et Godofredis dicitur ipsorum ore rotundo.
   O me, si tunc vixero, terque quaterque beatum!
Adiiciam stimulos primos conatibus altis. 180
At, si me rapient Superi, te, Maxime, posco
per genitorem, per Coelum, per Numina sancta:
vulnera, scissuras, discordia membra reiunge
sub Patre apostolico. Ah, Pietas, permitte canentes
fatidicos animos: quo me rapis, Itala mater? 185
   Praestantem aspicio uxorem formaque virilem
adscitam iuveni, non tempore prorsus eodem:
munere Coelicolum tua semper lilia florent.
Et cum signiferum vicies peragrarit Apollo,
pellet ab Europa Mahometem Gallica virtus, 190
Deltaque et Aethiopes prisco de more piabunt,
suspensam cytharam repetet Iudaea salictis,
quae incepere pii reges, complente nepote.
Hunc post bis denos octavo fortiter anno
cerno repurgantem mundum; ritusque profanos 195
Tartarus, et Persae, Chinarum rex et Eoi
sub duce deponent Gallo, Christumque sequentur.
Tunc Calabras pinus Sylae, abietesque superbas
aequora sulcantes sine vento et remige proris,
vectantes iustorum vim procul ambitus orbis 200
undique conspiciet; tellusque reperta Columbo,
dicta ab Americo, Ausoniis heroibus, addet
diligere asseclas Christi, exonerata dolore
quo natis effossa suis cruciata tremiscit.
At, cum terrarum fines penetraverit omnes 205
Christiferae classis longe lateque potestas,
littore Erythreo Solymis vicina quiescet,
denaque principio finem tua lustra reiungent.
Exultant Libani colles, Iordanis et undae,
et carmen Davidis recinit celeberrima Sion. 210
Cantabit Gallus: – Sua Petrus corriget ultro –;
cantabit Petrus: – Gallus super evolat orbem,
subiicit et Petro, et Petri aurigatur habenis. –
Vae, qui inter Petrum et Gallum zizania miscent!
Felices animae, quas aetas illa moratur 215
cernere apostolicos Petri Paulique triumphos,
Ecclesiaeque resurgentis fulgentia regna
angelico candore novae, gestamine Franco.
Cui non aurea saecula, quae aurea lilia monstrant,
purpureae vestes, quae mutabuntur in albas, 220
forte repugnabunt, si quis bene mystica sentit.

   O pietas, o prisca fides, o candida corda,
lugentum ignorantumque atri abiere colores.
Exulet impietas, fraudes, mendacia, lites,
nec timeant agnive lupum, aut armenta leonem; 225
inque bonum populi discent regnare tyranni,
ocia cessarunt et cessavere labores:
nam labor est iocus, in multos partitus amice,
quippe unum agnoscent omnes patremque Deumque.
Conciliabit amor fraternus cognitus omnes; 230
gentium enim historicus communis surget, et omnes
historias mundi conflabit: natio quaeque
qua serie ab Noë et Adam pervenere priores
cuique sui ad nos, quae fuerit mutatio rerum,
undeque relligio passa est discrimina tanta, 235
audiet, et suavi lachrymantur amore vicissim.
Convenient reges, populorumque agmina in urbem
(«Heliacam» dicent), quam construet inclytus heros.
Et templum in medio statuet coelestis ad instar,
praesulis aulam summi, regificumque senatum, 240
sceptraque regnorum Christi deponet ad aras,
illaque iura dabit, quae olim docuere prophetae:
– Divini cultus reges decet esse ministros:
fas erit et pax, si plebs inferiora capessit.
Plebem animo dico: studiosi caetera norunt. – 245
Sic ait et, grates referens, Christumque precatus,
clavigerum venerans patrem, exhortabitur omnes.
Unanimes populi cantantes «Gloria Patri»,
perpetuum alleluia sonent, pacemque beatam.
His pius exactis, persolvet vota parentum. 250

1. Idest Musae Ennii Calabri: Horatius, libro IV, ode 8, et Ovidius.
1. Quoniam Maro Ennii lector assiduus et imitator, ex Vita Virgilii.
4. Versus Virgilii, in Ecloga III, consimilis huic.
5. Sibyllae et prophetae, a Balaam usque ad nos, vaticinantur de Christi Dei ortu, vita et fine, cuius eventa Virgilius in Augustum aut in natum Pollionis ignarus transtulit. De Christo vaticinia verificantur in suo ortu inchoative; in corpore suo, quod est Ecclesia, consecutive et completive; etenim priores «passiones et posteriores glorias» praedixerunt (I Petr., I, [11]).
6. Ex observatione Copernici et Regiomontani et Tychonis, ignarorum mysterii, sed non eventuum, sex signa interitus mundi, et illum praecedentis universalis mutationis rerum, et Ecclesiae ampliationis per totum mundum.
9. Planetae sunt a Christo ad nos propiores facti telluri 110 millia passuum. Propterea foecundatum est solum boreale, producitque vinum et fruges, quae non ante: ex Plinio, XVIII. Umbra nunc terrae amplificat lunae eclipses.
11. Solis via, quae sub Ptolomaeo, anno 139 post Messiam, spatiabatur a zodiaco gradibus 23, minutis 52, nunc est 23 et 28.
13. Zodiacus aequatorem secabat in prima stella Arietis, nunc in secunda Piscium. Ergo cardines aequinoctii et solstitii anticipant gradus 28.
14. Annus diminutus est ex anticipatione et circulo viae solis angustiore facto.
16. Absides, in quibus planetae elevantur et deprimuntur, olim semper stabiles, iam 34 gradibus praeveniunt ex Copernico, Tychone et Keplero. Ergo asterismus Arietis est in Tauro, Tauri in Geminis, etc.; quae omnia temporibus priscis reputabantur immutabilia. Haec «signa in sole, luna et stellis» sunt (Luc., XXI, [25]).
17. Ex Aggaeo propheta et Hipparco mathematico, sed dubitabatur. Vide Metaphysicam autoris, libro XI.
18. Nunc Copernicus et Tycho et alii patefecerunt haec miracula, occulta tunc temporis, quoniam adhuc Christi virtus occultabatur et patiebatur usque ad adventum Antichristi.
20. Post flagellum haereticorum et Turcarum, renovationem saeculi hoc tempore faciendam ex praefatis signis et coniunctione magna in primo trigono a magno heroë Antonius Arquatus et Cardanus expectant. Similiter sancta Catharina Senensis in Epistola ad suos, Avenionem; et beatus Raymundus Capuanus; Ambrosius episcopus Compsanus; et sancta Brigida, libro VIII, cap. 77, et Extravagantibus, 78; et abbas Ioachim In Apocalypsim, III parte, et in Introductorio; et ibidem Seraphinus Firmanus; et sanctus Vincentius Ferrerius allegatus ibi ab eodem; et in collectis a fratre Rusticiano; et Savonarola in Oraculis a fratre Luca Bethino; et Hieronymus Benivenio; et beatus Dionysius Carthusianus in tertia Revelatione; et sanctus Bernardinus Senensis in Sermonibus; et cardinalis Cusanus, De novissimis; et Paulus Scaligerus in Collectione. Quod haec favent, et non repugnant bullis, vide autorem in Quaestione pro bullis.
21. Quamvis Copernicus et alii doceant coacti praesentes coelestium exorbitantias, tamen paralogizant, petentes principium et non causas pro causis. Solus autor ostendit in Metaphysica et in Astronomicis et in Prophetalibus haec esse signa praedicta «in sole, luna et stellis» (Luc., XXI, [25]) vigilantibus data: dormientibus vero «sicut fur in nocte» venient (I Thess., V, [2]).
23. Autor novorum siderum ex ortu (nedum cometarum) in sedili Cassiopeae et Cycni pectore excitatus est ad considerandum mutationem coelestium, quam Aristoteles et alii (ut praedixit Petrus, Epistola II [III, 7]) negaverant futuram, Evangelium affirmaverat, Gregorius Magnus proximam praedixit, revelatam hoc tempore, quo princeps Delphinus completurus mysterium: ex autoris Prophetalibus.
24. Natus die Dominico 5 Septembris 1638. Autor vero die etiam Dominico 5 Septembris 1568.
27. Instauravit enim omnes scientias iuxta naturam et Scripturam; Delphinus vero saecula instaurabit, natus post parentum coniugium anno vigesimo tertio, precibus et votis piorum.
28. Partus sterilium vel sterilescentium, et precibus impetrati et praenunciati, portentosi.
33. Gallia enim semper liberavit Italiam, Romam et Ponteficem summum de manibus Gothorum, Longobardorum, Sarracenorum, haereticorum, infidelium, aliorumque persecutorum.
33. Cuius rex, primogenitus Ecclesiae, habet charisma sanandi strumosos in signum quod in eo spes viva Ecclesiae, cuius sunt charismata dotes Christi, servatur in aeternum, et ex illa nascetur qui Ecclesiam sublevabit.
34. Quod facturus Delphinus creditur, tum ex temporis opportunitate, quae coelo nunc signatur, ut in Prophetalibus, tum ex communi expectatione; itidem ex novis stellis et cometis, et coniunctionibus magnis reductis ad primum trigonum; item ex recentibus sibyllis Brigida, Catharina et Geltrude, hoc tempus designantibus; item ex miranda prole sterilescentium, qualiter editi sunt Isaac, Ioannes Baptista et Samuel, mirificam lucem mundo portantes; item quia impetratus est a Deo votis et precibus parentum signatorum et in nomenclatura.
37. Ex patre agnominato Iuxto, et ex matre Anna, idest Gratia hebraice, nominata. Item quia est de stirpe Pepini et Caroli Magni et liliorum, de quibus oriturum instauratorem orbis praedixit Bomechobus, episcopus Patarae, Sibylla Tiburtina, abbas Ioachim Super Apocalypsim, Cataldus Finius in collectis oraculis ab anonymo, folio 62, et in oraculo Gallico ultimo, et lamina abbatis Hydruntini.
38. Ratio, Sapientia, Verbum Dei, nunc Christus dicitur post incarnationem, ex Augustino, Iustino, Origene.
41. Ideoque dicimur rationales ab illo, ut autor est naturae, et Christiani, ut autor gratiae: ex Iustino, Hieronymo et Origene et Augustino.
42. A quo supremus Christianorum rex Gallus dicitur «Christianissimus», «très chrestien».
43. Chrismate, idest unctione coelitus delata in ampulla, qua reges Galli sacrantur ex tempore sancti Remigii usque ad nos. Et dum durat, durat spes in Gallis: ex Dan., IX, [24]; Oseae, III.
45. Charisma publicum et chrisma coeleste nulla natio habet, licet solo charismate se iactet Anglus, postquam aliquam partem Galliae occupavit. Ergo ut Gallus, non ut Anglus. Si vera ferunt.
50. Virgilii carmen poëticum et propheticum, nulli conveniens magis quam Delphino nostro.
59. Hoc tempore novit Gallia quantum potest: nam ex uno millione cum dimidio, exacto sub Francisco I, auctoque ad decem milliones sub ultimo rege Valesiorum, nunc ad 40 milliones ascendit (ex autore in dedicatoria ad dominum Bullionem, aerario praefectum) longe minori gravamine quam coeteris in regnis. At, cum alat Gallia 20.000.000 hominum, ex singulis centenis sumendo unum, colligit 200.000 strenuorum militum stipendiatorum commode perpetuoque; propterea omnes terrae principes metuunt nunc magis a Gallis, quam unquam, aut ab aliis; paratur enim illi regnum universale.
61. Comparationes inter Ludovicum XIII et David regem Iudaeorum, et inter Salomonem et Delphinum.
62. «Omnia in figura contingebant illis»: Apostolus, I Cor., X, [11].
64. Quod faciendum erat a regibus Iudaeis in Iudaea tantum, hoc in toto orbe a rege summo Christianorum fiendum praesignabatur: Amos, IX, [12]; et Psalm., LXXI, [8]; et Tob., XIII, [4]; Ezech., XXXIV, [23].
70. Si qualia sunt consilia domini Cardinalis, tales essent et fideles executores, libertas saeculi et gloria Gallorum ascendissent ad summum.
77. Cum novum paratur imperium, nova arma fato dantur. Nunc Germanus Delphino offert bombardas semel oneratas decies illico explodentes globos.
80. Habent Turcae in suis vaticiniis, quod imperium Mahometis sit delendum a Gallis; idem praedixere abbas Ioachim, Bomechobus, Sibylla Tiburtina, Cataldus Finius; item, ex IX libro Augustini, De Antichristo anonymus, folio 11.
97. Autor non peccavit in Hispanos, pro quibus scripsit multa deceptus, ut Virgilius de Salonino. Sed Hispania, illusa terrore praesagii novarum rerum et dolis ministrorum, ipsum vexavit viginti septem annos in ergastulo.
102. Ut Ulysses ex antro Cyclopis vestitus pelle ovina exivit immunis, ita autor Agni sacri, idest Christi.
108. Fato urgebatur autor renovare scientias in carcere otiosus, transvehi Romam et profugere in Galliam, ubi illas panderet, et «signa in sole, luna et stellis» posita a Christo, palliata ab astrologis, revelaret, cum nasceretur qui renovaturus orbem esset.
117. In libro De monarchia Hispanorum et in Panegyrico autoris.
119. Non modo Sibyllae, prophetae veteres renovationem saeculi praedixerunt, sed etiam novi, ut Brigida, Catharina, Hieronymus Savonarola, Vincentius Ferrerius, Ioachim, Dionysius Carthusianus, ac etiam poëtae, ut Virgilius, et noviter Dantes et Ariostus et Petrarcha.
121. Rex Suetiae Civitatem Solis, descriptam ab autore miro libello, putavit sibi aedificandam esse, deceptus astrologismo Tychonis.
124. Quibus temporibus, quae accident a Delphino in orbe. Coniecturae, praesertim ex bonis autoribus, sufficiunt ad poëticum praesagium.
127. Antichristus septiceps in Daniele et Apocalypsi duplex est, mysticus et physicus. Mystici capita sunt septem: Gentilismus, Phariseismus, Graecismus, Aristotelismus, Talmudismus, Mahometismus, Achitofellismus. At haereticismus tertia est bestia bicornis, ex sanctis Bernardino, Epiphanio, Vincentio, Augustino, ex synodo Parisiensi, abbate Ioachimo, ex I Ioan., II, [18]: «Novissima hora et multi Antichristi». Physici septem erunt regna septem, quae in Mahomete [fundantur], vero Antichristo, iuxta Annii et Ioachimi et Aureoli expositionem, vel praecursore maximo: cuius septem sunt reges, videlicet Turcarum, Persarum, Zagatainorum, Fezitarum, Mogorum, Adelitarum et Praecopitarum, ex Prophetalibus autoris.
134. Haec omnia in Daniele continentur, et Apocalypsi, Isaia et Evangelio; et certo, aut mysticus, aut verus, hoc tempore cadit, aut Mahometes praecursor, ut Ioachim, Catharina, et Brigida, et alii supra citati.
136. Difficile est distinguere tempora, quoniam simul sub sigilli quinti fine clam Christus parat suos milites et Abaddon, angelus niger, antichristianos. Sequentur autem bella et mox renovationes saeculi post casum capitis Antichristi maximi: ex sancto Bernardino et Prophetalibus autoris; et in fine aurei saeculi, conditi sub rege Gallo maximo, exurget Gog et Magog, cauda Antichristi.
137. Septem sigilla in septem Ecclesiae aetatibus aperiuntur, in Apocalypsi. Iam sumus in fine quintae, iuxta sanctum Vincentium, et Seraphinum Firmanum, et doctores omnes, vel in principio sextae, iuxta Ioachimum. In sexta cadit Antichristus mysticus, aut Mahometes, aut verus.
148. Ex mathematicis sunt multa corpora magna unum facientia corpus, sive mundum.
149. Mundi quinque compenetrantes et compenetrati, anteriores et interiores sibi invicem, existentias rerum tuentes, idest situalis, materialis, mathematicus, mentalis et archetypus, ex autore in decimo Metaphysicae.
159. Quoniam Graeci Francorum exercitum, ad recuperationem Terrae Sanctae transfretantem, dolis et venenata farina impetiverunt per invidiam, et Latinam Ecclesiam damnant, ut haereticam.
169. Mirifica haec expeditio Ludovici XIII decantatur a poëtis Italis.
178. Dantes, Ariostus, Tassus et Boiardus, Itali, canunt gesta Gallorum.
192. Ex Psalm., CXXXVI, [2].
199. Arcanum navigandi sine vento et remigio aperitur in Civitate Solis ab autore.
204. Americani oderunt Christianos, quia ab eis in auri fodinis includuntur.
207. Ecclesia incepit ab Ierusalem et in Ierusalem, pervagato ambitu orbis, redibit, iuxta expositores Apocalypsis, autorem in Prophetalibus et Cornelium Mussum.
218. Pontifex et Cardinales utentur albis vestibus, sicut angeli in resurrectione; nunc autem rubris, quoniam in passione sumus adhuc: ex Prophetalibus autoris.
218. Insigne gestamen Francorum candor, Hispanorum rubor.
232. Hic putatur fore Elias ab Hebraeis; nobis vero quicunque insignis: ex Historiographia autoris.
250. Quoniam omnes fere reges Galliae curaverunt recuperationem Terrae Sanctae et renovationem saeculi, praesertim sanctus Ludovicus IX: quas Delphinus hic solus tandem perficiet.

TRADUZIONE

ECLOGA
PER LA MIRABILE NASCITA
DEL PRINCIPE DELFINO DI FRANCIA
CELEBERRIMA
PER VATICINI DIVINI ED UMANI

Le Muse della Calabria, che allattarono Marone,
mi spoglino della vecchiaia e facciano ritornare la
giovinezza
mentre sono in procinto di cantare grandi cose.
Tornano i regni di Saturno
e una nuova progenie dall’alto del cielo discende,
come predisse il carme santo e venerabile dei vati 5
e come indicano predetti ed evidenti segni che
provengono dai Superi.
Febo e i seguaci, infranta la legge degli astronomi,
mutano il loro soglio etereo, e si avvicinano alla terra
(guarda!) di undicimila miglia;
insolitamente dà messi la zona Artica, e ombre lo
gnomone. 10
Per questo i Tropici hanno ristretto la via e la meta
delle stelle vaganti;
lo zodiaco ormai interseca l’equatore
parecchi gradi prima del consueto; onde vediamo
che i punti cardinali si sono spostati avanzando quasi
di un segno zodiacale;
e di altrettanto sono mutate le vicende delle stagioni, e
perfino 15
le posizioni delle assidi planetarie e le costellazioni
delle stelle fisse.
Mentre nasceva il Signore, la macchina del mondo
occultamente avvertì queste cose
come destinate a palesarsi col tempo, quando un
grandissimo eroe
sarebbe sorto e avrebbe composto in uno tutti i popoli
dei Cristiani: questo eroe io rivelo nascente per noi e
alfine 20
recante segni certi e fatali del suo avvento:
io, che, già da tempo stimolato dalle nuove stelle
apparse in Cassiopea e nel Cigno,
sono scrutatore dei fati noto nel mondo.
Nel giorno in cui io nacqui tu sei venuto alle rive della
luce,
io per rinnovellare le Muse, tu per instaurare un’epoca
nuova, 25
o prodigioso fanciullo, che i genitori aspettarono
per l’addietro lungamente e oltre ogni speranza,
mentre la loro età diventava sterile
e l’angoscia degli uomini chiedeva miracoli alla
divinità,
sì che migliori anni mitigassero il loro triste destino,
giacché la terra isterilitasi ormai non offriva rimedi: 30
e specialmente quella Francia che sempre in passato
aveva recato gioia a situazioni disperate della
Cristianità,
la Francia possente in guerra, il cui scettro è dotato
di carisma,
tale che, finché esso dura, nessuno può abbandonare
la speranza.
E ora tu fulgido appari, speranza nostra, o fanciullo.
Luigi ed Anna 35
(la Giustizia dà a quello il soprannome, a questa la
Grazia il nome)
pii, ti generarono, mentre il mondo all’una e all’altra
anelava.
Questo dono dà la Ragione dell’Eterno, immagine del
Padre,
mediante la quale egli crea i secoli e li fa risorgere
quando cadono,
mediante la quale un tempo la natura creò gli uomini
razionali, 40
e la grazia li fece Cristiani. E il supremo re
di costoro tu, o Cristo, fregi tre volte del tuo nome:
o Cristo Dio, che nella terra della Senna ungi
quest’uomo
con un crisma celeste, che dura nel corso del tempo
(doni dei quali nessun’altra nazione può gloriarsi). 45
Tu aggiungi che la prole non abbia ad estinguersi nel
corso del tempo
e ridai sollievo ai tuoi cari Francesi.
– Gloria, lode e onore! – a te cantino attraverso ogni
tempo
la Francia e il mondo, che è destinato ad essere
rinnovato dalla forza sua.
Comincia, o fanciullino, a riconoscere col sorriso
tua madre: 50
per vent’anni tua madre ti ha sospirato;
ha piegato con le preghiere il Cielo e ha obbligato i
Superi.
Comincia, o fanciullino, a riconoscere col sorriso tuo
padre:
colpito da sedizione e inganni all’interno e fuori, tuo
padre
fu vincitore sempre, vinto mai: per lui tu sei l’alta fine 55
dei travagli, tu, erede delle virtù di sessantaquattro
pii sovrani, nato sotto felice stella.
Il tuo genitore ingrandì per te i confini del dominio
e di quaranta volte i tesori superbi, e preparò i
materiali,
come Davide, vate, musico e re, fece per Salomone, 60
affinché edificasse il tempio e unificasse i popoli.
Una prefigurazione di tanta importanza indica che tu
presto, col trascorrere degli anni,
amplifichi il culto di Dio e il regno beato,
costituito non solo dagli Ebrei, ma da tutte le genti.
Vedo che, lieto di ciò, Urbano, pastore del mondo, ti
porta 65
doni sacri; la sua mente infatti è consapevole del
destino.
Ma il Richelieu, fido Acate del re supremo,
prepara saggio la laboriosa fondazione d’un impero
così grande;
nel suo ingegno il futuro si collega agli eventi già
compiuti:
quindi tutto egli potrebbe, se gli esecutori sapessero
potere. 70
Campanella consacra la nuova schiera delle Muse;
la Francia dà avvio a festevoli giochi e fuochi;
e gli Italiani porgono in dono le loro speranze; Roma
offre
trionfi, palme augurali; una gente piena di odio
aggiunge
timori, amicizia e avvertenze per l’esplorazione della
terra. 75
E la Germania unisce l’aurora che sorge sulla sua notte
e i molteplici colpi, rimbombanti fulmini di guerra.
Oh! Il temuto Maometto, spesso facendo il conto,
sente nel proprio timore che s’approssima il tempo
per il quale le armi dei Francesi promettono la sua
rovina. 80
Esclamate: – Evviva! –, o popoli, per i quali, ecco
ripristina
l’età dell’oro l’angelo nuovo che scende dall’alta stella
di Marte,
il lume della Chiesa dei giusti, il loro difensore e capo,
l’amante della Ragione ch’è emanata dal Nume eterno,
l’atroce pena dei tiranni e il flagello dell’eresia, 85
la rovina dei Turchi, il terrore dei vizi e l’immenso
tempio della virtù, sul cui limitare sta scritto:
«FINE DELLE GUERRE E LA PACE. Per me ormai si va in
quella:
e si va là dove devono allietarsi le età della mestizia,
mentre sperano il felice ritorno delle anime i corpi dei
morti». 90
Allora le mie veritiere parole troveranno requie:
io stesso, debellati i sofisti, sull’alto Campidoglio
guiderò vittorioso il carro delle Muse, sotto la
salvaguardia del re di Francia.
Ora fuggiamo la patria: ma non senza il volere della
divinità.
Mentre preannunziavo il fatale vacillare delle mura del
mondo, 95
la Spagna spaventata mi travagliò per sei lustri
(cosa non rara per i re!): era ingannata da spregevoli
ministri
(beata lei, se avesse prestato orecchio alle mie
parole!):
e invano l’Italia (ahimè!) discorde piangeva il figlio.
Dopo che l’albero di Pallade ebbe messo profonde
radici, 100
sotto il vello del sacro Agnello, venni condotto fuori
dall’antro
di Polifemo al sicuro, e a Roma mi trasse, riamando
me che lo amavo,
l’Orfeo del nostro tempo, il Melchisedech e l’Apollo:
ma non poté salvarmi (lo impediva un cieco potere)
dalla follia di un tempo favorevole al tornare della
notte. 105
Invidia, ambizione, ignoranza suscitano di nuovo
ire mostruose, che scuotono le forze della vita.
Così era decretato nei fati: non ebbero questo potere i
maligni.
Sono costretto difatti a venire, profugo, in Francia,
sicuro asilo della virtù, un tempo sede di Carlo
Magno 110
e del forte Pipino, sotto la stella fausta del pio Luigi,
fuggendo là dove la libertà aspettava me che l’amo,
per svelare i segni fatali, e dispensare i doni di Minerva
ormai rinnovellati, e veder nascere il rampollo
che compirà tutto ciò che desidera il mondo. 115
Quegli strumenti per l’impero universale che un
tempo io, ignaro,
apprestavo per i re Austriaci, e le strutture superbe,
vedo che sono destinati a colui che discende dalla
stirpe di Pipino,
come di recente hanno annunciato i vati ed è stato
ripetuto dai poeti.
E quella che invano il re di Svezia brama edificare, 120
la città mirabile, denominata dal Sole,
dichiaro dal profondo del cuore che per te, o
fanciullo, io l’ho tracciata.
Dite, o Muse della Calabria, i periodi degli eventi
così grandi che stanno tracciati sulla cima
dell’Olimpo.
Dopoché avrà regnato per tre anni e mezzo, 125
con le corna ora invisibili, ma che senza indugio
dovranno essere vedute,
la bestia che bestemmia i nomi e le dimore dei santi,
che macchia le cose serie con le ridicole e le sacre con
le profane,
che è Orco nella faccia, volpe nel cuore, Cerbero nelle
bocche,
violenza di femminile scelleratezza, Apella scimmia
dalla lunga coda, 130
il buffone che inganna le menti fatue con delirante
enigma
(a tutti sorridendo, motti pungenti pronuncia contro
tutti),
il mostro funesto, del quale scrisse Daniele e che Gesù
ucciderà con un soffio, allora crollerà giù dalla rocca
consacrata:
il mostro orrendo, immane, enorme, cui fu tolta la
vista; 135
il tempo confonde le armi di Cristo e quelle di
Abaddon.
E queste cose avverranno mentre l’Agnello
dischiuderà il sesto sigillo.
L’alma Salute salvaguarda la vita e irrobustisce per
cinque anni
la sede dell’anima dell’eroe; e presto spunteranno i
fiori
dell’indole egregia; la forza dell’anima eminente 140
rende meravigliose le doti, che attingono il
compimento nel decimo anno,
del corpo vivido, che in bellezza sopravanza tutti i
mortali,
e offriranno al nostro tempo uno spettacolo splendido.
Egli tuttavia darà baci soltanto a caste Muse:
imparerà a fondo le arti di guerra e di pace; 145
coglierà con la mente tutto ciò che il cielo cela,
la terra e l’acqua producono, e comprenderà i sistemi
delle cose,
e i percorsi degli astri, i mirabili nessi
del quintuplice mondo, il fato e le sorti latenti.
Ritornando Febo per la quindicesima volta, dal
mezzogiorno 150
Marte annuncerà con clangori crucci o per il padre o
per il figlio.
Ma dopo mille giorni le eroiche gesta riempiranno
il globo terrestre: ad esse cederà sempre il passo
la veneranda antichità dell’animoso Alessandro, dei
Cartaginesi,
la fama dei Quiriti, e le palme e le lodi di Ercole
saranno ridotte al silenzio. 155
I mostri cadranno: la potenza di Gerione, i regni di
Mauritania,
saranno sottomessi ai nobili Francesi; la Grecia otterrà
la libertà con precauzioni, affinché non impari
nuovamente
a ingannare i Francesi e ad esecrare i Latini.
Ma per prima spronerà il vendicatore della Cristianità,
possente 160
in armi, la sollecitudine per la salvezza dell’Italia, ove
Cristo
pose le redini dell’impero, il tribunale della fede e
della sapienza,
ed elevò Carlo sopra i re; ivi stesso
permangono i monumenti dei Francesi e la loro fama
risplende.
E per ventisette volte essi domano i ribelli della
fede 165
e dell’impero e la barbarie. La vittoria ti uguaglia al
cielo,
o Luigi padre, mentre attraversi le Alpi e i loro ghiacci,
superando le aquile in velocità e i leoni nella forza,
e accorri a sostenere la libertà dell’Italia che va in
rovina.
Gli esempi del valore avito saranno incitamenti per
tuo figlio; 170
aggiungi che i miei compatrioti sono ricchi d’ingegno
e di energia;
essi sono capaci di illustrare le tue gesta e renderle
perenni:
è vigore d’Italia tutto quello di cui risplende la Spagna.
Quanto grande sia la loro gratitudine verso i Francesi,
i poeti
d’Italia l’han mostrato: tacciono i nostri Pompei e
Metelli 175
e le glorie cesaree, e solamente la Francia
coi suoi Carli, Orlandi e Rinaldi e Goffredi
viene cantata dalla loro voce armoniosa.
O me beato, tre e quattro volte, se allora sarò vivo!
Fin dal principio contribuirò alle alte imprese coi miei
incitamenti. 180
Ma, se mi rapiranno i Superi, a te, o Massimo, chiedo,
per il genitore, per il Cielo, per la santa divinità:
le ferite, le scissure, le membra discordi ricongiungi
sotto il Padre apostolico. Ah, Pietà, concedi che
vaticini
il fatidico animo: dove mi rapisci, o itala madre? 185
Vedo una sposa eletta e di bellezza virile
unita in nozze al giovane, ma non proprio nello stesso
tempo:
per dono dei Celesti i tuoi gigli sempre fioriscono.
E quando Apollo avrà percorso lo zodiaco per venti
volte,
il valore dei Francesi scaccerà Maometto
dall’Europa, 190
e il delta del Nilo e gli Etiopi celebreranno i riti
secondo il costume antico,
la Giudea ripiglierà la cetra sospesa ai salici,
il nipote portando a compimento le imprese
cominciate dai pii sovrani.
Nel ventottesimo anno lo vedo, mentre purifica
arditamente il mondo; e i re dei Tartari e dei
Persiani, 195
dei Cinesi e dell’Oriente, sotto la guida del re francese,
abbandoneranno i riti profani e seguiranno Cristo.
Allora il giro del mondo vedrà da ogni parte i pini
calabresi
della Sila e gli abeti superbi solcare i mari con le prore,
senza vento e senza rematori, trasportando lontano200
la forza dei giusti; e la terra scoperta da Colombo,
denominata da Amerigo, eroi italici, aggiungerà
l’amore per i seguaci di Cristo, liberata dal dolore
per il quale, scavata dai suoi figli, è tormentata e
trema.
Ma, quando la potenza della flotta portatrice di
Cristo 205
sarà pervenuta, in lungo e in largo, a tutti i confini del
mondo,
si fermerà presso i lidi del Mar Rosso, vicino a
Gerusalemme,
e il tuo decimo lustro riunirà la fine al principio.
Esultano i colli del Libano e le onde del Giordano
e la celeberrima Gerusalemme fa risuonare il carme di
Davide. 210
Canterà il Gallo: – Pietro si correggerà
spontaneamente –;
canterà Pietro: – Il Gallo si leva a volo sul mondo,
e lo sottomette a Pietro, e procede retto dalle redini di
Pietro. –
Guai a coloro che fra Pietro e il Gallo seminano
zizzania!
Felici le anime che quell’età avvincerà 215
con lo spettacolo dei trionfi apostolici di Pietro e di
Paolo,
e dei fulgidi regni della Chiesa risorgente,
nuova per angelico candore, in accordo con le insegne
francesi.
Con cui non contrasteranno per avventura l’età d’oro
che gli aurei gigli indicano, né le vesti purpuree, che
saranno 220
mutate in bianche, se ben s’intendono i mistici sensi.
O pietà, o antica fede, o candidi cuori,
i foschi colori del pianto e dell’ignoranza sono spariti.
Esulino l’empietà, le frodi, le menzogne, le liti,
e non temano gli agnelli il lupo, né gli armenti il
leone; 225
e per il bene del popolo apprenderanno a regnare i
tiranni;
cessarono gli ozi e cessarono le fatiche:
difatti il lavoro, amichevolmente spartito fra molti, è
gioco,
giacché tutti riconosceranno uno solo e come padre e
come Dio.
L’amore fraterno, una volta che sia stato conosciuto,
concilierà tutti; 230
sorgerà difatti uno storico comune dei popoli e unirà
tutte le storie del mondo: ogni nazione apprenderà per
quale
seguito di generazioni la progenie degli antenati di
ciascuno
è arrivata da Noè e da Adamo fino a noi, quale è stata
la mutazione
delle cose e per quali cause la religione ha sofferto
divisioni 235
così grandi, e versano lacrime di dolce vicendevole
amore.
Si aduneranno i re e le schiere dei popoli in una città
(«Eliaca» la chiameranno), che costruirà l’inclito eroe.
E innalzerà nel mezzo un tempio, a guisa di quello del
cielo,
reggia del sommo sacerdote e regale senato, 240
e deporrà gli scettri dei regni davanti agli altari di
Cristo,
ed emanerà quelle leggi che un tempo insegnarono i
profeti:
– È giusto che i ministri del culto divino siano re:
la legge divina e la pace saranno realizzate, se la plebe
si rivolge a cose inferiori.
Di quella che è plebe nell’animo io parlo: i dotti
conoscono il resto. – 245
Così dice e, rendendo grazie, e dopo avere implorato
Cristo,
venerando il padre che porta le chiavi, incoraggerà
tutti.
Unanimi i popoli, cantando il «Gloria Patri»,
facciano risuonare un perpetuo alleluia e l’encomio
della pace beata.
Col compimento di queste gesta il pio scioglierà i voti
dei genitori. 250

TRADUZIONE NOTE

1. Cioè le Muse del calabrese Ennio: Orazio, libro IV, ode 8, e Ovidio.
1. Perché Marone fu lettore assiduo e imitatore di Ennio, secondo la Vita di Virgilio.
4. Un verso di Virgilio, nell’Ecloga III, è del tutto simile a questo.
5. Le Sibille e i profeti, da Balaam fino a noi, profetizzano nascita, vita e fine di Cristo Dio; gli eventi suoi Virgilio, ignaro, trasferì ad Augusto o al figlio di Pollione. I vaticini riguardanti Cristo si verificano nella sua nascita in modo iniziale; nel suo corpo, che è la Chiesa, come séguito; difatti predissero le antecedenti «sofferenze e le successive glorie» ( I Petr., I [11]).
6. Secondo le osservazioni di Copernico e Regiomontano e Ticone, ignari del senso segreto, ma non degli avvenimenti, sei sono i segni della fine del mondo e della mutazione universale delle cose che la precede e dell’espansione della Chiesa sopra tutta la terra.
9. Da Cristo a noi i pianeti si sono avvicinati alla terra di 110 000 passi. Perciò il terreno boreale è divenuto fecondo e produce vino e messi che per l’addietro non produsse: secondo Plinio, XVIII. Adesso l’ombra della terra amplifica le eclissi di luna.
11. Il cammino del sole, che ai tempi di Tolomeo, 139 anni dopo l’avvento del Messia, si discostava dallo zodiaco di 23 gradi e 52 minuti, ora se ne discosta di 23 e 28.
13. Lo zodiaco intersecava l’equatore nella prima stella d’Ariete, ora nella seconda dei Pesci. Quindi i cardini dell’equinozio e del solstizio anticipano di 28 gradi.
14. L’anno s’è abbreviato a causa dell’anticipazione e perché l’orbita del sole si è ristretta.
16. Le assidi, nelle quali i pianeti s’elevano e s’abbassano, sempre fisse un tempo, si sono già spostate innanzi di 34 gradi secondo Copernico, Ticone e Keplero. Perciò la costellazione d’Ariete è al posto del Toro, quella del Toro nei Gemelli ecc: mentre tutte nei tempi antichi erano reputate immutabili. Questi sono i «segni nel sole, nella luna e nelle stelle» (Luc., XXI, 25).
17. Secondo il profeta Aggeo e il matematico Ipparco, ma la cosa era messa in dubbio. Vedi la Metafisica dell’autore, al libro XI.
18. Adesso Copernico e Ticone ed altri hanno svelato questi miracoli, occulti in quel tempo, perché la virtù di Cristo se ne stava ancora nascosta e pazientava fino all’avvento dell’Anticristo.
20. Dopo il flagello degli eretici e dei Turchi, Antonio Arquato e Cardano aspettano una rinnovazione del secolo, che deve essere effettuata in questo tempo da un grande eroe, secondo i segni predetti e la congiunzione magna nel primo trigono. Similmente si esprimono santa Caterina da Siena nella Lettera ai suoi, in Avignone; e il beato Raimondo da Capua; Ambrogio vescovo di Conza; e santa Brigida, nel libro VIII, cap. 77, e nelle Extravaganti, 78; l’abate Gioacchino nella sua esposizione dell’Apocalisse, III parte, e nell’Introduzione; e sul medesimo argomento Serafino da Fermo; e san Vincenzo Ferrer, allegato dal predetto nello stesso luogo e nelle profezie raccolte da fra Rusticiano; e il Savonarola nell’Oracolo pubblicato da fra Luca Bettini; e Gerolamo Benivieni; e il beato Dionigi il Certosino nella terza Rivelazione; e san Bernardino da Siena nei Sermoni; e il cardinal Cusano nel Sui novissimi; e Paolo Scaligero nella Raccolta. Circa il fatto che queste cose favoriscono e non sono in contrasto con le bolle pontificie, vedi la Questione in favore delle bolle dell’autore.
21. Benché Copernico ed altri riconoscano, perché vi sono costretti, le attuali deviazioni dei moti celesti, tuttavia paralogizzano incorrendo in petizioni di principio e non individuando le cause vere. Solo l’autore nella Metafisica e nell’Astronomia e negli Articoli profetali mostra che questi sono i segni preannunciati «nel sole, nella luna e nelle stelle» (Luc., XXI, [25]), dati per coloro che vigilano; per coloro che dormono verranno invece «come un ladro nella notte» ( I Thess., V [2]).
23. L’autore fu spronato dall’apparizione di nuove stelle (nonché di comete) nel seggio di Cassiopea e nel petto del
Cigno a considerare la mutazione di cose celesti, che Aristotele e altri (come predisse Pietro, Epistola II, [III, 7]) avevano escluso che potesse avvenire, mentre il Vangelo l’aveva data per certa, Gregorio Magno la predisse come prossima: essa si è rivelata nel nostro tempo, nel quale il principe Delfino sta per adempiere il mistero: dai Profetali dell’autore.
24. Nato di domenica, il 5 settembre 1638. Anche l’autore è nato di domenica, il 5 settembre 1568.
27. Rinnovò difatti tutte le scienze secondo la natura e la Scrittura; rinnoverà, invece, il secolo il Delfino, nato ventitré anni dopo le nozze dei genitori, per le preghiere e i voti dei pii.
28. I parti di donne sterili o che sterili stanno diventando, e ottenuti con le preghiere e preannunciati, sono portentosi.
33. Difatti la Francia ha sempre liberato l’Italia, Roma e il sommo Pontefice dalle mani dei Goti, dei Longobardi, dei Saraceni, degli eretici, degli infedeli e di altri persecutori.
33. Il cui re, primogenito della Chiesa, ha il carisma di risanare gli scrofolosi, come segno che in lui la viva speranza della Chiesa, della quale sono carismi le doti di Cristo, si conserva in eterno, e da essa Francia nascerà colui che soccorrerà la Chiesa.
34. Si crede che farà questo il Delfino, sia per il favore delle circostanze, che ora è indicato dal cielo, come dissi negli Articoli profetali, sia per la comune aspettazione; parimenti per le nuove stelle e comete, e per le congiunzioni magne ritornate al primo trigono; così pure per le recenti sibille, Brigida, Caterina e Geltrude, che designano il tempo presente; ancora, perché è mirabile la prole di genitori che stanno per diventare sterili: che è il modo in cui furono generati Isacco, Giovanni il Battista e Samuele, che portavano al mondo meravigliosa luce; e ancora perché fu impetrato da Dio con voti e preghiere di genitori contraddistinti anche dai nomi.
37. Da padre soprannominato il Giusto e da madre il cui nome è Anna, cioè, in ebraico, Grazia. E ancora, perché è della stirpe di Pipino e di Carlo Magno e dei gigli, dai quali predissero che sarebbe nato il rinnovatore del mondo Bomecobo vescovo di Patara, la Sibilla Tiburtina, l’abate Gioacchino in Sopra l’Apocalisse, Cataldo Finio negli oracoli raccolti da un anonimo, al foglio 62, e un recente oracolo francese e la piastra dell’abate di Otranto.
38. La Ragione, la Sapienza, il Verbo di Dio, ora, dopo l’incarnazione, si chiama Cristo, secondo Agostino, Giustino, Origene.
41. E perciò da lui siamo detti razionali in quanto è autore della natura, e Cristiani in quanto è autore della grazia: secondo Giustino, Girolamo e Origene e Agostino.
42. Dal quale il supremo fra i re cristiani, quello di Francia, è detto «Cristianissimo», «très chrestien».
43. Col crisma, cioè con l’unguento disceso dal cielo in un’ampolla, col quale i re di Francia vengono consacrati dal tempo di san Remigio ai nostri giorni. Fintantoché dura, dura la speranza nei Francesi: secondo Dan., IX, [24]; Osea, III.
45. Nessun’altra nazione ha il carisma pubblico e il crisma celeste, benché del solo carisma si vanti il re d’Inghilterra da quando occupò qualche regione della Francia: dunque come francese, non come inglese. Se dicono la verità.
50. Verso poetico e profetico di Virgilio, che a nessuno si confà maggiormente che al nostro Delfino.
59. Nell’età presente la Francia ha conosciuto quanto sia grande il proprio potere: difatti, da un milione e mezzo riscosso sotto Francesco I e aumentato a dieci milioni sotto l’ultimo re della dinastia dei Valois, ora è salita a quaranta milioni (come l’autore ha indicato nella sua dedicatoria al signor di Bullion, ministro del tesoro), sebbene il gravame fiscale sia di gran lunga minore che negli altri regni. E giacché la Francia nutre 20 000 000 di abitanti, prendendone uno ogni cento, raccoglie 200 000 soldati valorosi, pagati facilmente e senza interruzione; per questo tutti i principi della terra hanno paura dei Francesi ora più che mai e più di quanto abbiano temuto altri popoli; si prepara difatti per la Francia il regno universale.
61. Paragoni fra Luigi XIII e Davide, re dei Giudei, e fra Salomone e il Delfino.
62. «Ogni cosa avveniva ad essi in prefigurazione»: l’Apostolo, I Cor., X [11].
64. Ciò che doveva esser fatto dai re Giudei soltanto nella Giudea costituiva prefigurazione di ciò che avrebbe dovuto esser fatto nell’intero mondo dal re supremo dei Cristiani: Amos, IX, [12]; e Psalm., LXXI, [8]; Tob., XIII, [4]; Ezech., XXXIV, [23].
70. Se i fedeli esecutori avessero qualità adeguate ai disegni del signor Cardinale, la libertà di questa età e la gloria dei Francesi sarebbero già ascese al punto più alto.
77. Quando si prepara un nuovo impero, nuove armi sono date dal destino. Ora un Tedesco offre al Delfino bombarde che, caricate una sola volta, sparano subito dieci palle.
80. Nei vaticini dei Turchi sta scritto che l’impero di Maometto deve essere distrutto dai Francesi; la medesima cosa predissero l’abate Gioacchino, Bomecobo, la Sibilla Tiburtina, Cataldo Finio; parimenti l’anonimo, in Sull’Anticristo, al foglio II, basandosi sul libro IX di Agostino.
97. L’autore non ha commesso alcuna mancanza verso gli Spagnoli, a pro dei quali molte cose ha scritto, ingannandosi, come Virgilio riguardo a Salonino. Ma la Spagna, indotta in
errore dalla paura, che provava per il presagio dei nuovi eventi, e dai raggiri dei suoi ministri, lo tormentò per ventisette anni in carcere.
102. Come Ulisse uscì indenne dall’antro del Ciclope indossando una pelle di pecora, così l’autore coperto da quella
dell’Agnello sacro, cioè Cristo.
108. L’autore era stimolato dal fato a rinnovare le scienze nell’inazione del carcere, a trasferirsi a Roma e a rifugiarsi in Francia per esporle e per rivelare «i segni nel sole, nella luna e nelle stelle» posti da Cristo, nascosti dagli astrologi, mentre nasceva colui che avrebbe rinnovato il mondo.
117. Nel libro Della monarchia di Spagna e nel Panegirico dell’autore.
119. Non soltanto le Sibille, i profeti antichi predissero la rinnovazione del mondo, ma anche i recenti, come Brigida, Caterina, Girolamo Savonarola, Vincenzo Ferrer, Gioacchino, Dionigi il Certosino, e finanche i poeti, come Virgilio, e recentemente Dante e Ariosto e Petrarca.
121. Il re di Svezia, ingannato dall’astrologare di Ticone, credette che da lui stesso dovesse essere edificata la Città del Sole, descritta dall’autore in un meraviglioso libretto.
124. In quali tempi, quali cose accadranno nel mondo ad opera del Delfino. Le congetture, particolarmente se desunte da buoni autori, sono sufficienti per un presagio poetico.
127. L’Anticristo dalle sette teste nel libro di Daniele e nell’Apocalisse è duplice: mistico e fisico. Le sette teste di quello mistico sono: il Gentilismo, il Farisaismo, il Grecismo, l’Aristotelismo, il Talmudismo, il Maomettismo, l’Achitofellismo. L’ereticismo invece è la terza bestia che ha due corna, secondo i santi Bernardino, Epifanio, Vincenzo, Agostino, secondo il sinodo di Parigi, l’abate Gioacchino, secondo il testo di I Ioan., II, [18]: «È l’ultima ora e molti sono gli Anticristi». Le sette teste di quello fisico saranno sette regni che [si fondano] in Maometto, il vero Anticristo, secondo l’interpretazione di Annio e di Gioacchino e dell’Auriol, o il suo massimo precursore: sette sono i suoi re, ossia dei Turchi, dei Persiani, dei Tartari Zagatai, degli abitanti di Fez, del Gran Mogor, di Adel e dei Tartari Precopiti, secondo gli Articoli profetali dell’autore.
134. Tutte queste cose sono contenute nel libro di Daniele, e nell’Apocalisse, e nel libro d’Isaia e nel Vangelo; e certo esso, o mistico, o vero, cade in questo tempo, o il suo precursore Maometto, come ritengono Gioacchino, Caterina e Brigida e gli altri sopra citati.
136. È difficile distinguere i tempi perché contemporaneamente, verso la fine del quinto sigillo, Cristo prepara occultamente i suoi soldati, e Abaddon, l’angelo nero, gli anticristiani. Seguiranno guerre e, subito dopo, i rinnovamenti del secolo, successivamente alla caduta della testa del massimo Anticristo: secondo san Bernardino e gli Articoli profetali dell’autore; e alla fine del secolo d’oro, fondato sotto un grandissimo re di Francia, sorgeranno Gog e Magog, coda dell’Anticristo.
137. Nell’Apocalisse i sette sigilli s’aprono nelle sette età della Chiesa. Già siamo alla fine della quinta, secondo san Vincenzo e Serafino da Fermo e tutti i dottori, o al principio della sesta, secondo Gioacchino. Nella sesta cade l’Anticristo mistico, o Maometto, o il vero.
148. Secondo le matematiche, ci sono molti corpi grandi che costituiscono un unico corpo, ossia il mondo.
149. I cinque mondi compenetranti e compenetrati, anteriori e interiori a se stessi vicendevolmente, che assicurano le esistenze delle cose, cioè il mondo situale, materiale, matematico, mentale e archetipo, secondo l’autore nel decimo libro della Metafisica.
159. Perché i Greci per invidia colpirono con inganni e farina avvelenata l’esercito dei Francesi che attraversava il mare per la riconquista della Terrasanta, e perché condannano la Chiesa latina come eretica.
169. Questa meravigliosa spedizione di Luigi XIII viene celebrata dai poeti italiani.
178. Dante, Ariosto, Tasso e Boiardo, italiani, cantano le gesta dei Francesi.
192. Secondo Psalm., CXXXVI, [2].
199. Il segreto del navigare senza vento, né remi è svelato dall’autore nella Città del Sole.
204. Gli Americani odiano i Cristiani, perché da questi vengono rinchiusi dentro le miniere d’oro.
207. La Chiesa cominciò da Gerusalemme ed a Gerusalemme, dopo aver percorso il giro della terra, ritornerà, secondo i commentatori dell’Apocalisse, l’autore negli Articoli profetali e Cornelio Musso.
218. Il Pontefice e i Cardinali useranno vesti bianche, come gli angeli nella risurrezione; ora, invece, usano le rosse, perché siamo ancora nella passione: secondo gli Articoli profetali dell’autore.
218. Ornamento distintivo dei Francesi è il candore, degli Spagnoli il rosso.
232. Gli Ebrei ritengono che questi sarà Elia; noi, invece, qualunque uomo insigne: secondo la Storiografia dell’autore.
250. Poiché quasi tutti i re di Francia, e specialmente san Luigi IX, ebbero a cuore la riconquista della Terrasanta e la rinnovazione del mondo: entrambe solo questo Delfino le condurrà finalmente a termine.


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