- Un uomo senza famiglia
Ormai vecchio e malato da anni , senza un lavoro, una pensione, una casa, una famiglia, seduto per parecchie ore del giorno ad un tavolo all’aperto del Bar Strega di via Veneto, dove Fellini cercava l’ispirazione per la sua “Dolce vita” , ridotto ormai a larva umana (“Ora la mia giornata non è più | che uno sterile avvicendarsi | di rovinose abitudini | e vorrei evadere dal nero cerchio... | E sogno partenze assurde, | liberazioni impossibili... | Io annego nel tempo»), ridotto a macchietta di caffè, col suo cappottone scuro liso e la sua sciarpa grigia ormai consunta, che indossava sempre - anche d’estate - appartato, coll’aria disdegnosa e burbera , con la voce ormai ingarbugliata dalla paralisi, deriso e beffeggiato dai camerieri e dai garzoni, dai passanti, spesso irriso dai giovani cronisti a caccia di indiscrezioni e impertinenze, che speravano di estorcergli ancora qualche battuta sferzante, qualche sentenza fulminante, per cui andava famoso, - moriva - cinquant’anni fa , a Roma, praticamente dimenticato da tutti, Vincenzo Cardarelli , uno dei più importanti scrittori e poeti della prima metà del novecento.
I barman e i camerieri lo sfottevano chiamandolo “ professore” e non sapevano – ignari - che era stato uno dei pochi veri autentici “maestri” della nostra non eccelsa letteratura di quell’epoca .
L’ etrusco ( era nato a Corneto-Tarquinia, nell’alto Lazio, ) era sempre stato un “uomo senza famiglia” , fin da piccolissimo. Il padre, con cui era cresciuto, ( la madre se ne era andata da casa e l’aveva abbandonato in fasce ) gestiva un buffet nella piccola stazione del paese, e non aveva mai trovato il tempo di occuparsi di lui. “Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina... Conobbi altre case... Il mondo mi allevò...”
Nazareno Caldarelli (questo il nome all’anagrafe) aveva frequentato di malaggenio le scuole d’obbligo di Tarquinia , senza particolari risultati, anzi si era liberato al più presto della scuola perché non si sentiva integrato, i compagni lo sfottevano a causa di una poliomielite al braccio sinistro. Ma forse, al di là di queste frustrazioni, Cardarelli era anche un po’ misogino per sua natura («Io non crederò mai nella donna. Questa è la mia dannazione»), eppure scrisse bellissimi versi d’amore eterosessuale: “Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva”…Su te, vergine adolescente, | sta come un'ombra sacra …Se ti veggo passare/ a tanta regale distanza/ con la chioma sciolta/ e tutta la persona astata/ la vertigine mi si porta via ), versi che io , nella mia adolescenza, spesso ricopiavo sulle cartoline che mandavo alle ragazze di cui m’innamoravo praticamente ogni giorno, in quel gioco di sogni, di incantesimi e di misteri che è l’età dei primi suoni e canti d’amore.
Era uomo anonimo, da camere ammobiliate e da caffè ( “ Luce senza colore, esistenze senza attributo, inni senza interiezione, impassibilità e lontananza, ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”) , eppure fu nei caffè di Roma - in particolare - , ma anche di Firenze, di Genova e di Milano, fu nelle camere d’albergo di quelle città che scrisse le sue più belle opere – I prologhi, Viaggi nel tempo, Favole e memori , Il Sole a picco, Villa Tarantola, Il Viaggiatore insocievole, Il cielo sulle città e Astrid , scritto, quest’ultimo singolare racconto d’amore, in una pensioncina di Milano. Un idillio segnato da ombre e sottintesi, da tenera ansietà , da amaro rimpianto , forse autobiografico. Ma del resto tutte le sue poesie “ discorsive “ ( odiava questo termine con cui l’avevano bollato alcuni critici) avevano la matrice della autobiografia, nascevano da situazioni reali, esperienze dirette , come ad esempio “La circolare”. Mi sembra di rivederlo il vecchio Cardarelli che fa il giro due o tre volte con la vecchia circolare rossa di una volta e si mangia con gli occhi le belle ragazze romane ( “Era di quelle/ romane bellezze /che son rare anche a Roma , /dove mai non s’incontrano / senza un muto stupore/ . Era un grande segreto / della vita di Roma/ che m’appariva in luogo men propizio, / nella forma più degna).
- La vita l’ho castigata
vivendola
Cardarelli era stato in giovinezza un innamorato tempestoso e costantemente deluso ( “O grande ragazza crucciosa, nei cui occhi fondi si mescolano a profusione tenebre e azzurro!...Se tu sapessi quanto è l’amore che mi fa smaniare la notte nella mia camera come un albero che cerca l’aria!...O angelo nero…vergine ingiusta e dannata… Adesso capisco che tu potresti essere l’espiazione e il contagio della mia
vita”) per il quale la donna era stato “mistero senza fine bello “ attraente, luminoso, adorabile, ma anche creatura inafferrabile, volubile, sfinge e chimera. Le esperienze amorose erano state per lui sempre sofferenza e pena, poiché aveva trovato in agguato «una spaventevole divergenza», che, inevitabilmente, finisce per ingenerarsi nel rapporto fra i sessi.
Del resto era un uomo vocato alla letteratura e quindi alla solitudine. Polemista mordace, severo, uomo di risentita passione, senza amici, fragile e impassibile, la sua esistenza non poteva che essere difficile, problematica, sofferta, piena di disillusioni e umiliazioni, fino al punto di dover quasi mendicare per vivere (in una lettera del 1946 - quando il suo nome era ancora fulgido negli arenghi e nei consessi letterari ( aveva vinto il premio Bagutta, due anni dopo, nel 1948, vincerà lo Strega) – scrisse al giovane poeta Bigiaretti : “ …Languo e soffro in una cameretta esposta a tramontana …e tremo, perché non dirlo?, pensando alla morte che s’avvicina…Le mie condizioni non mi permettono di lavorare . Che fare dato che non ho il coraggio di uccidermi? Spero che (lei) possa dirmi una parola rassicurante” (Bigiaretti fece la colletta con i letterati del tempo e gli mandò qualche soldo) . Ma lui lo sapeva , fin dall’inizio, dagli esordi , che quella vita vagabonda e solitaria che si era scelto, di austera e scontrosa dignità, quella vita da “ enfant de fortune” (“Sono figlio dei tempi…mi sento come un grillo nell’uragano , come la cicala sorpresa dai primi freddi dell’autunno“) , in cui aveva tentato tutti i mestieri (fattorino, commesso di un negozio di orologi, giovane di studio presso un avvocato, sindacalista, impiegato di cantiere, e compilatore - lui che aveva fatto appena le elemetari!) - di tesi universitarie, infine cronista dell’ Avanti!) sarebbe stata “tutta d a mortificare e da reprimere in vista dell’opera che ne dovrà scaturire “, sarebbe stata “una perpetua attesa e una costante vigilia”. E c’erano giorni in cui quasi si smaterializzava, teso sul letto, sospeso e quasi inesistente, oscillava come un ago calamitato, o si sentiva come un animale ferito, una preda difficile da riavere, un essere malizioso, sempre in pericolo di sospensione e allora se ne usciva con quelle sentenze fulminanti, quelle battute sferzanti per cui andava famoso e spesso erano autoironiche: “ io la vita l’ho castigata vivendola”
- Un Socrate moderno ?
No, piuttosto un lirico inquieto pieno di grazia.
Forse – dice qualcuno – avrebbe potuto essere un Socrate moderno , con i suoi apologhi, aforisma, e le sue sentenze morali mai sottratti al controllo dell’ironia (“All’innocenza ci sono dovuto arrivare…Mi sono sempre alzato da una disfatta”; non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni; il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione” ; le parole, se hanno qualche valore , è solo in virtù dei loro sottintesi”) . I suoi maestri sono stati – e si sente – Leopardi, Baudelaire, Pascal, Nietzsche, è attraverso la loro conoscenza che Cardarelli compì il viaggio dalla passione alla ragione, senza esaltazioni spirituali o retoriche renitenze pedagogiche. La sua meditazione morale non rifiuta la fantasia; il suo naturale slancio epigrammatico, ironico, sentenzioso, è frenato da un eccezionale facoltà di concentrazione espressivo di tipo lirico. Cardarelli riesce a dare movimento visivo, ritmo musicale , esemplarità pittorica ai ricordi, ai paesaggi, ai sentimenti umani, alla realtà naturale, alla cronaca autobiografica. Per avere conferma di tutto ciò basta leggere le sue poesie, vere e proprie architetture descrittive lineari di parole umane, temporali, razionali , semplici “ in cui si rivela scrittore intensamente moderno, maestro di un’inquietudine essenziale e di una liberazione lirica nuova, piena di grazia”. Nel poeta –scrisse Sapegno – si ritrova l’uomo con i suoi umori, le sue ire, le sue avventure. Ma anche il fascino delle grandi distanze, un fuoco alto e lontano immediatamente reso dalla fermezza dell’arte. Il cuore della sua poesia rimanda in qualche modo alle “ Ricordanze” di Leopardi, “la sua grave opera più eccitante e tendenziosa”
- La Ronda
Oggi , nelle enciclopedie letterarie, Vincenzo Cardarelli è ricordato quasi esclusivamente come “ rondista” . Fu lui il fondatore de “La Ronda” , di cui facevano parte Cecchi, Bacchelli, Saffi , Barilli , Baldini e Montani, rivista nata nel 1919, che esercitò una certa influenza sui letterati d’epoca, col richiamo alla chiarezza e al rigore formale della scrittura , in un momento di estrema confusione per le sorti della nostra letteratura. “ E su quella rivista furono pubblicate le prime prose d’arte di Cardarelli. Con lui – dirà Giansiro Ferrata - era sorto il modello più puro della della prosa italiana contemporanea , in un senso evocativo ricchissimo che risplende di immagini tutte urgenti . “ La mia fiducia di creatore sta nei molti e profondi errori che ho da riparare”) . Ma era anche severo , addirittura intransigente nei suoi giudizi : “ Odio le improvvisazioni, i fuochi di paglia, i libri scritti tutti di seguito e che si leggono di un fiato”. E talora scontroso, categorico, non privo di malignità . C’era tutta un’aneddotica che circolava nei caffè di Roma per riferire le sue sentenze e le sue bruschezze . Ad un giovane critico che gli aveva dedicato un saggio totalmente laudativo e glielo portò trionfante disse: “Erano meglio i denigratori di una volta”. Ma quando era in vena aveva il dono di un’immaginazione densa, un parlare metaforico e per allusioni ( “Di ogni cosa vedo l’ombra in cui culmina“) , che ti incantava , per il suo spirito mordente ( “Il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione”) , ma anche per la sua malinconia calda e disperata ( “Le cornacchie tornano alle torri schiamazzando, con un lungo desiderio di volo). C’era in lui, dentro di lui, un gabbiano pieno di abbandoni solitari, di attese vane , di destini segnati: “ Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro, in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca…”
Non credeva che la sua vita fosse un ammasso orrendo di combinazioni, un errore mostruoso della natura, come Buzzati, ma neppure credeva all’arte come rivelazione di Dio, “e altre bubbole del genere”. “Io sono un cattivissimo uomo e forse un discreto artista. Ad ogni modo per me l’Arte è tutto , e ciò che voi dite sulle voci del cuore e del sentimento non può aver significato per me se non nell’incorruttibile regno dell’arte, che è fine a se stessa”. Credeva nella ”verità” innanzi tutto. “Noi abbiamo sete di giustizia e di verità. Poco importa i fastidi a cui questa pericolosa voglia ci espone. Siamo fatti in maniera da poter avere col prossimo , e specialmente con i nostri amici, se non rapporti chiari, onesti, leali. Non teniamo conto delle parole, ma delle azioni”.
Fu questo singolare autodidatta geniale , che amava il teatro ( scrisse di opere di Shakespeare e Ibsen sul Tempo e la Tribuna ) , e si era immerso nelle “Operette Morali” di Leopardi, nei “Poemès en prose” di Baudelaire , nelle “Illuminations “di Rimbaud , nella lettura golosa di Nietzsche, che aveva maturato una levigatezza di stile classico straordinario e una grazia evocativa rara ( ”Volata sei, fuggita/ come una colomba / e ti sei persa là, verso oriente”), che creò il punto più alto di una nuova forma d’arte, mediante una espressione di scrittura, un linguaggio che conferiva alla prosa le movenze, i sentimenti, la musicalità, il ritmo propri della stessa poesia; e fu sempre lui, per contro, a dare alla poesia un linguaggio discorsivo , “prosastico”, e , al contempo , di incontestabile classicità . “Che la mia poesia discorra non c’è dubbio. Anzi corre precisamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi…Il discorrere è privilegio dell’uomo e perciò , in grado superbo, dei poeti di tutti i tempi e di tutte le nazioni… In Dante, Petrarca, Leopardi, ragionare è sinonimo di poetare”.
- L’Etrusco fragile e
impassibile
Eccolo il Cardarelli nottambulo del caffè Aragno, col suo profilo etrusco, di cui si compiaceva , col fare sentenzioso e il dito spesso didascalicamente alzato all’insù, con la capigliatura folta e l’eloquio che egli espandeva sui più disparati argomenti, pronto nel motteggiare , ironizzare , stupire , eccolo l’ insonne animatore e protagonista assoluto della vita letteraria romana, che deambula da un caffè all’altro, con pochi compagni intellettuali (“Chi tiene un poco alla mia compagnia bisogna che si prepari a lasciarsi annullare”) . Una notte, sul grande sterrato del Corso dove sarà costruita la Galleria Colonna, vede apparire Gordon Craig avvolto in un gran mantello nero, inseguito e preso a schiaffi da Isadora Duncan, li chiama, li placa e invita entrambi al caffè, a discorrere d’arte e di danza. I due artisti ritrovano d’incanto l’armonia e il sorriso davanti ad un bicchiere di whiskey, e fanno sodalizio, discorrono tutta la notte con il poeta, ridono, si divertono, ma tutto finisce lì. Non divennero suoi amici. Del resto Cardarelli non ebbe mai discepoli , né duratori amici: “La vera amicizia è rara e difficile, i tradimenti reciproci sono sempre in agguato”. Il suo – come già detto - era un destino dì solitudine: «E’ dunque scritto che io me ne debba star solo...Quanto io sono staccato dagli uomini, nessuno Io vorrà mai credere» …«Nascita, dolore, educazione, tutto contribuì a fare di me un uomo amato da pochi, ingiuriato dai più, e compreso veramente da nessuno».
Ma se la solitudine era stata accettata, in gioventù, sotto la suggestione nicciana, con la fiera consapevolezza di essere un uomo forte, bastante a se stesso, anche se costretto presto ad ammettere i propri cedimenti, le presunzioni tramutatesi in sconfitte («Ho alle spalle il vuoto. Sono pieno di convinzioni contrastate dall'esperienza»), ora , per il vecchio Cardarelli, diventa una cosa tristissima e inaccettabile . C’è soprattutto la sua paura del tempo, come di uno spettro sempre in agguato, di un pericolo incessante, cui si associa l'idea della morte, «ingiuria suprema (“Morire , sì, / non essere aggrediti dalla morte/ Morire persuasi/ che un siffatto viaggio sia il migliore./ E in quell’istante essere allegri/ come quando si contano i minuti/ dell’orologio della stazione/ e ognuno vale un secolo” ).
Ora che sente approssimarsi il viaggio non c’è più a confortarlo quella sua grazia poetica ( “il silenzio a mezzogiorno si fa marea”), quella sua profonda capacità di leggerezza, quel piacere letterario fresco d’umanità verso i capitoli più alti e malinconici della musica dei “viaggi” e delle “ memorie”; forse ricorda ancora quello scampanio delle reti che i pescatori liguri lasciavano andare alla deriva , quell’annusare l’odore del vento d’autunno sui monti della sua Etruria , gravido di memorie, quei vagabondaggi, quei ricordi nella spettralità dell’insonnia ; non c’è più quel suo stile che sembrava un calco sulla rena, quel calore cosmico, quell’emozione visiva, quella musica che è lo sfondo bianco delle sue poesie, che porta, immobile, i più vari e delicati colori. Oh, quella liquida intimità musicale, quel guerriero etrusco che ride nello splendore della terra, che è dentro di lui , quelle ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, che sono i ricordi , quella suggestione armoniosa di ogni figura, la melodia immobile, il respiro, l’onda splendidamente trattenuti all’orlo, e quelle scoperte e reminiscenze leopardiane fuse nel sentimento e nel ritmo. Tutto ciò è diventato “ un povero autunno romano che tempesta con furia senile – e tuona con fragore – e lampeggia con improvvise accensioni di lampadina.
«La vita per me non è stata che una lunga malattia contro la quale ho sempre fortemente e astutamente lottato... Ho sempre vissuto come un convalescente...» «Quante cose cominciate | e rotte, nella mia vita!» Tutto si è concluso – sempre - con il disinganno, il distacco, gl'inevitabili addii , o con la solitaria fuga.«Oh senza sosta io vissi | ed esule dovunque...E’ rimasto «fuori dalla vita» della gente, dai segreti delle case». Il malinconico viaggiatore che sta al finestrino del treno, che oltrepassa «città fervide e ridenti ci saluta e guarda se stesso , la sua perenne insoddisfazione, le sue sospensioni, le sue cadute, le frantumazioni, la penosa ricerca di nuovi equilibri, l'irraggiungibile interezza («Le mie giornate sono | 'frantumi dì vari universi | che non riescono a combaciare. | La mia fatica è mortale»).
Cerca – impassibile e fragile – e trova , tra le tante , una parola sola : disperazione . “Dolce infinita profonda parola”. E poi , sul filo leopardiano, “ Vaga e triste è degli uomini la sorte”. Meglio la morte. Ma poi, in un soprassalto quasi giocoso e ineffabile, il vecchio profeta armato d’ironia guarda l’ultimo orizzonte , dietro i platani di Roma , socchiude gli occhi e dice: “ Per tutta la vita la fortuna mi è corsa appresso senza riuscire ad acciuffarmi” .
Roma, 22 MARZO 2012.
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