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Gabriele D'Annunzio
LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI



























































































LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI





la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, che siano commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”. Così, come si è visto, D’Annunzio disegna cicli di romanzi, che però spesso non porta a termine; con intenti del genere affronta la produzione drammatica; nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale, che esaurisca tutto il reale.
Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone (gli ultimi due volumi portano già la data editoriale del 1904: i titoli derivano dai nomi delle Pleiadi). Ma anche questa costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912, raccogliendo le Canzoni delle gesta d’oltremare, dedicate all’impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non vennero mai scritti.
Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi. L’opera presenta subito un’evidente novità formale: D’Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso risponde al carattere intrinseco del poema, che si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico (il sottotitolo è infatti Laus vitae, Lode della vita). L’intento di D’Annunzio è quello del poema totale, che dia voce alla sua ambizione “panica” a raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vita e del mondo (in greco pan significa tutto). Ne deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie e ridondanti.
Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel 1895. L’”io” protagonista si presenta come eroe “ulisside”, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime, divino, all’insegna della forza e della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge nella realtà moderna, nelle “città terribili”, le metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove, immense potenzialità vitali. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza, equivalente a quella dell’Ellade, ed i “mostri” del presente divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza internazionale, i capitani d’industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti energie, che possono essere indirizzate a fini feroci ed imperiali.
Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, D’Annunzio aveva affidato all’intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, aprendo la strada a una nuova èlite aristocratica, facendo rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo Rinascimento e cancellando così un presente infame. La contrapposizione alla realtà moderna era ancora violenta, radicale. Ora, con Maia, si ha una svolta di centottanta gradi: nel mondo moderno D’Annunzio scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, l’epica delle grandi imprese industriali e finanziarie. Ma, come dietro al vitalismo del superuomo si scorge pur sempre l’attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto.
Nel secondo libro, Elettra, l’impianto mitico, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto all’oratoria della propaganda politica diretta. La struttura ideologica del libro ricalca quella di Maia. Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappongono ad un polo negativo, un presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita da una serie delle liriche sulle Città del silenzio. Sono le antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna, che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica: quel passato su cui si dovrà modellare il futuro. Medio Evo e Rinascimento italiani sono dunque l’equivalente funzionale dell’Ellade classica in Maia. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del Risorgimento (La notte di Caprera, dedicata a Garibaldi). Cantando questo passato glorioso, D’Annunzio si propone esplicitamente, non più dietro allusioni mitiche, come vate di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi dell’Italia.
Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo, polemico e profetico, si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; al motivo dell’azione energica, un atteggiamento di evasione e contemplazione. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani alle coste tirreniche tra la Marina di Pisa e la Versilia: le liriche si ordinano quindi in un disegno organico, che segue la parabola della stagione, dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, a consentire la pienezza vitalistica: l’io del poeta si fonde col fluire della vita del Tutto (si ricordi il significato del greco pan, che era anche il nome di una divinità agreste, in cui si incarnava la potenza della natura), si identifica con le varie presenza naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e potenziandosi all’infinito in questa fusione ad attingendo ad una condizione divina. Sul piano formale, alla turgidezza enfatica di Maia e alla rimbombante retorica di Elettra succede una ricerca di sottile musicalità, che tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica, con l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini tra loro rispondenti.
Per questo Alcyone è la raccolta poetica che è stata più celebrata dalla critica, specie da quella di orientamento idealistico, legata al gusto della lirica novecentesca: è stata vista quale poesia “pura”, sgombra dal peso dell’ideologia superomistica e delle sue finalità pratiche, immune dalla retorica e dall’artificio, rispondente al nucleo più genuino dell’ispirazione del poeta, il rapporto sensuale con la natura. In realtà Alcyone si inserisce perfettamente nel disegno ideologico complessivo delle Laudi. L’esperienza panica cantata dal poeta, lungi dall’essere “pura” di ideologia, non è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo, creatura d’eccezione, è concesso di “trasumanare”, di “indiarsi” al contatto con la natura, attingendo ad una vita superiore, al di là di ogni limite umano; e il gioco straordinario delle immagini, la trasfigurazione musicale della parola sono resi possibili, nella visione dannunziana, solo da una sensibilità privilegiata, più che umana. Solo la parola magica del poeta-superuomo può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura (si veda La pioggia nel pineto), raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose. Ne manca in Alcyone la ripresa diretta di certi motivi ideologici largamente sfruttati negli altri due libri delle Laudi: l’esaltazione di una violenta vitalità “dionisiaca”, la prefigurazione di un futuro di rinata romanità imperiale, l’”ulissismo”, cioè la febbre di vivere tutte le esperienze.
Alcyone di D’Annunzio, accanto alla poesia di Giovanni Pascoli, si pone così, nei suoi risultati migliori, come capostipite della poesia italiana del Novecento, con un’analoga funzione di prefigurare soluzioni formali a venire.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Alle Pleiadi e ai Fati

Gloria al Latin che disse: «Navigare
è necessario; non è necessario
vivere». A lui sia gloria in tutto il Mare!

O Mare, accenderò sul solitario
monte che addenta e artiglia te (leone
sculto da qual Ciclope statuario?)

un salso rogo estrutto col timone
e la polèna della nave rotta,
che ha la tortile forma del Tritone.

Il ricurvo timon per cui condotta
fu la nave nell'ultima procella
con la barra tra l'una e l'altra scotta,

la divina figura onde fu bella
contra il flutto la prua sotto il baleno
della nube che vinto avea la Stella,

ardere voglio avverso il Mar Tirreno,
l'ornamento superbo e il rude ordegno,
le Pleiadi invocando al ciel sereno.

Crepiterà nel fuoco il salso legno,
su la cervice del leon proteso;
e taluno vedrà di lungi il segno

insolito e dirà: «Qual mano acceso
ha il rogo audace? Quale iddio su l'erte
rupi nel cuore della fiamma è atteso?».

Non un iddio ma il figlio di Laerte
qual dallo scoglio il peregrin d'Inferno
con le pupille di martìri esperte

vide tristo crollarsi per l'interno
della fiamma cornuta che si feo
voce d'eroe santissima in eterno.


«Né dolcezza di figlio...» O Galileo,
men vali tu che nel dantesco fuoco
il piloto re d'Itaca Odisseo.

Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
e debile il tuo gesto. Eccita i forti
quei che forò la gola al molle proco.

L'àncora che s'affonda ne' tuoi porti
non giova a noi. Disdegna la salute
chi mette sé nel turbo delle sorti.

Ei naviga alle terre sconosciute,
spirito insonne. Morde, àncora sola,
i gorghi del suo cor la sua virtute.

Di latin sangue sorse la parola
degna del Re pelasgo; e il sacro Dante
le diede più grand'ala, onde più vola.

Re del Mediterraneo, parlante
nel maggior corno della fiamma antica,
parlami in questo rogo fiammeggiante!

Questo vigile fuoco ti nutrica
il mio vóto, e il timone e la polèna
del vascel cui Fortuna fa nimica,

o tu che col tuo cor la tua carena
contra i perigli spignere fosti uso
dietro l'anima tua fatta Sirena,

infin che il Mar fu sopra te richiuso!

L'annunzio

Udite, udite, o figli della terra, udite il grande
annunzio ch'io vi reco sopra il vento palpitante
con la mia bocca forte!
Udite, o agricoltori, alzati nei diritti solchi,

e voi che contro la possa dei giovenchi, o bifolchi,
tendete le corde ritorte
come quelle del suono tese nelle antiche lire,
e voi, femmine possenti in oprare e partorite,
alzate su le porte,
e voi nella luce floridi, e voi nell'ombra curvi,
fanciulli loquaci, vecchi taciturni,
o vita, o morte,

uditemi! Udite l'annunziatore di lontano
che reca l'annunzio del prodigio meridiano
onde fu pieno tutto quanto
il cielo nell'ora ardente! V'empirò di meraviglia;
v'infiammerò di gioia; vi trarrò dalle ciglia
il riso e il pianto.
Salirà dai profondi cuori un grido immenso
come quel che improvviso tonò nel silenzio
del giorno santo.

Ornate di purpuree bende il giogo oneroso,
delle più fresche erbe gli alari che il fuoco ha róso
nel fervido camino;
sospendete alla trave arida la ghirlanda aulente,
coronate la fronte del toro, il vaso lucente,
la pietra del confino.
La bellezza del mondo sopita si ridesta.
Il mio canto vi chiama a una divina festa.
Nelle vostre rene rudi, ecco, il mio canto versa
un sangue divino.

Udite, udite, o figli del Mare, udite il grande
annunzio ch'io vi reco sopra il vento giubilante
con la mia bocca sonora,
nudi nell'ombra cerula delle vele mentre vibra
come nella selva il curvo legno per ogni fibra
da poppa a prora
e il pino dischiomato che per l'alto sal viaggia
pur anco geme in lunghe lacrime la selvaggia
gomma onde il cuor gli odora,

uditemi! Io vi dirò quel che da voi s'attende,
le vostre sorti auguste, la deità che in voi splende
e il Mar che è divino ancóra.

Gittate le reti su i giardini del Mare
ove rose voraci s'aprono tra il fluttuare
dell'erbe confuse;
cogliete il ramo vivo nella selva dei coralli
ove fremono eretti gli ippocampi, cavalli
esigui, e le meduse
trapassano in torme leni come in aere nube;
cogliete i fiori equorei, molli come le piume,
dolci come le ciglia chiuse;

fioritene ogni albero, fioritene ogni antenna,
il timoniere alla barra, il gabbiere alla penna,
e il piloto che sa i cieli,
e i bracci dell'àncora tenace che sa gli abissi,
e le escubie, occhi della nave aperti e fissi
verso i lontani veli
ove s'asconde l'isola felice o la tempesta!
Il mio canto vi chiama a una divina festa.
La bellezza del mondo sopita si ridesta
come ai dì sereni.

Mentì, mentì la voce dinanzi alle dentate
Echìnadi tonante nella calma d'estate
verso la nave. Il giorno
spegneasi entro quell'acque, fumido; come una pira
ardea Paxo; Achelòo, pensoso di Deianira
e del divelto corno
dalla forza d'Eràcle nell'iterata lotta,
respirava per la sua vasta bocca nel mare e sola
la sua brama era intorno.
O padre fecondatore dei piani, re violento, atroce
sposo, testimonio eterno sei tu. Mentì la voce
che gridò: «Pan è morto!».

Ma pieno era il giorno, ma era a sommo del cerchio

il Sole, il maestro dell'opre eccellenti, lo specchio
infaticabile degli umani,
l'amico delle fonti, la chiara faccia, il puro
occhio che vede tutte le cose (udite, udite!); e tutto
il silenzio dei piani
l'adorava offerendo al suo fuoco le messi
altrici delle stirpi, i mietitori genuflessi
dalle consacrate mani,

e le falci terribili, e i vasi d'argilla proni
onde l'acqua trasuda, simili alle fronti
madide nella fatica,
tramandati dai padri nella forma immortale,
e i rossi carri aspettanti il peso cereale
fermi presso la bica,
e le chiome delle femmine seguaci, e le criniere
dei cavalli furibondi sotto la sferza crudele
e la schiuma di quel furore, e le preghiere
grandi su l'opra antica.

Pieno era il giorno, o figli, era il Sole imminente;
e tutto il silenzio dei mari l'adorava offerendo
al suo fuoco l'aroma
del sale purificante, la felicità dell'onda,
della rupe immobile, dell'alga vagabonda,
della ferrea prora,
il promontorio fulvo come leone in agguato
con proteso l'artiglio, il golfo dominato
dalla città che dolora
nelle sue mura ansiosa, e i vitrei meandri
delle correnti, e i gemmei limitari degli antri
che solo il vento esplora.

Tutto era silenzio, luce, forza, desìo.
L'attesa del prodigio gonfiava questo mio
cuore come il cuor del mondo.
Era questa carne mortale impaziente
di risplendere, come se d'un sangue fulgente
l'astro ne rigasse il pondo.

La sostanza del Sole era la mia sostanza.
Erano in me i cieli infiniti, l'abondanza
dei piani, il Mar profondo.

E dal culmine dei cieli alle radici del Mare
balenò, risonò la parola solare:
«Il gran Pan non è morto!».
Tremarono le mie vene, i miei capelli, e le selve,
le messi, le acque, le rupi, i fuochi, i fiori, le belve.
«Il gran Pan non è morto!»
Tutte le creature tremarono come una sola
foglia, come una sola goccia, come una sola
favilla, sotto il lampo e il tuono della parola.
«Il gran Pan non è morto!»

E il terrore sacro si propagò ai confini
dell'Universo. Ma gli uomini non tremarono, chini
sotto le consuete onte.
Tutte le creature udirono la voce
vivente; ma non gli uomini cui l'ombra d'una croce
umiliò la fronte.
Ed io, che l'udii solo, stetti con le tremanti
creature muto. E il dio mi disse: «O tu che canti,
io son l'Eterna Fonte.
Canta le mie laudi eterne». Parvemi ch'io morissi
e ch'io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi:
«Canterò, Signore».

Dissi: «Canterò i tuoi mille nomi e le tue membra
innumerevoli, perocché la fiamma e la semenza,
l'alveare ed il gregge,
l'oceano e la luna, la montagna ed il pomo
son le tue membra, Signore; e l'opera dell'uomo
è retta dalla tua legge.
Canterò l'uomo che ara, che naviga, che combatte,
che trae dalla rupe il ferro, dalla mammella il latte,
il suono dalle avene.

Canterò la grandezza dei mari e degli eroi,

la guerra delle stirpi, la pazienza dei buoi,
l'antichità del giogo,
l'atto magnifico di colui che intride la farina
e di colui che versa nel vaso l'olio d'oliva
e di colui che accende il fuoco;
perocché i cuori umani, come per un lungo esiglio,
hanno obliato queste tue glorie, Signore, e che il giglio
dei campi è un gaudio eterno». E il dio mi disse:
«O figlio,
canta anche il tuo alloro».

LIBRO PRIMO

MAIA - Prima parte

Laus vitae

I.

O Vita, o Vita,
dono terribile del dio,
come una spada fedele,
come una ruggente face,
come la gorgóna,
come la centàurea veste;
o Vita, o Vita,
dono d'oblìo,
offerta agreste,
come un'acqua chiara,
come una corona,
come un fiale, come il miele
che la bocca separa
dalla cera tenace;
o Vita, o Vita,
dono dell'Immortale
alla mia sete crudele,
alla mia fame vorace,
alla mia sete e alla mia fame

d'un giorno, non dirò io
tutta la tua bellezza?
Chi t'amò su la terra
con questo furore?
Chi ti attese in ogni
attimo con ansie mai paghe?
Chi riconobbe le tue ore
sorelle de' suoi sogni?
Chi più larghe piaghe
s'ebbe nella tua guerra?
E chi ferì con daghe
di più sottili tempre?
Chi di te gioì sempre
come s'ei fosse
per dipartirsi?
Ah, tutti i suoi tirsi
il mio desiderio scosse
verso di te, o Vita
dai mille e mille vólti,
a ogni tua apparita,
come un Tìaso di rosse
Tìadi in boschi folti,
tutti i suoi tirsi!

Nessuna cosa
mi fu aliena;
nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo, mondo
Laudata sii, Diversità
delle creature, sirena
del mondo! Talor non elessi
perché parvemi che eleggendo
io t'escludessi,
o Diversità, meraviglia
sempiterna, e che la rosa
bianca e la vermiglia
fosser dovute entrambe
alla mia brama,

e tutte le pasture
co' lor sapori,
tutte le cose pure e impure
ai miei amori;
però ch'io son colui che t'ama,
o Diversità, sirena
del mondo, io son colui che t'ama.

Vigile a ogni soffio,
intenta a ogni baleno,
sempre in ascolto,
sempre in attesa,
pronta a ghermire,
pronta a donare,
pregna di veleno
o di balsamo, tòrta
nelle sue spire
possenti o tesa
come un arco, dietro la porta
angusta o sul limitare
dell'immensa foresta,
ovunque, giorno e notte,
al sereno e alla tempesta,
in ogni luogo, in ogni evento,
la mia anima visse
come diecimila!
È curva la Mira che fila,
poi che d'oro e di ferro pesa
lo stame come quel d'Ulisse.

Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Ah perché non è infinito
come il desiderio, il potere
umano? Ogni gesto
armonioso e rude
mi fu d'esempio;
ogni arte mi piacque,

mi sedusse ogni dottrina,
m'attrasse ogni lavoro.
Invidiai l'uomo
che erige un tempio
e l'uomo che aggioga un toro,
e colui che trae dall'antica
forza dell'acque
le forze novelle,
e colui che distingue
i corsi delle stelle,
e colui che nei muti
segni ode sonar le lingue
dei regni perduti.

Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l'ardore
che il sogno eguagliò l'atto.
Laudato sii, potere
del sogno ond'io m'incorono
imperialmente
sopra le mie sorti
e ascendo il trono
della mia speranza,
io che nacqui in una stanza
di porpora e per nutrice
ebbi una grande e taciturna
donna discesa da una rupe
roggia! Laudato sii intanto,
o tu che apri il mio petto
troppo angusto pel respiro
della mia anima! E avrai
da me un altro canto.

II.

Io nacqui ogni mattina.
Ogni mio risveglio
fu come un'improvvisa
nascita nella luce:
attoniti i miei occhi
miravano la luce
e il mondo. Chiedea l'ignaro:
«Perché ti meravigli?».
Attonito io rimirava
la luce e il mondo. Quanti
furono i miei giacigli!
Giacqui su la bica flava
udendo sotto il mio peso
stridere l'aride ariste.
Giacqui su i fragranti
fieni, su le sabbie calde,
su i carri, su i navigli,
nelle logge di marmo,
sotto le pergole, sotto
le tende, sotto le querci.
Dove giacqui, rinacqui.

Mi persuase i sonni
il canto della trebbia,
il canto dei marinai,
il canto delle sartie al vento,
l'odore della pece,
l'odore degli otri,
l'odore dei rosai,
il gemitìo del siero
giù dai vimini sospesi
nella cascina, la vece
delle spole nei telai
notturna, il ruggir cupo
dei forni accesi,
il favellar leggero

dell'acque pei botri,
il battere della maciulla
nell'aia. E parvemi talora
su quei familiari
suoni farsi un alto silenzio
e riudire il lontano
canto della mia culla.

Mi destò il Sole
raggiandomi la faccia.
Vidi per le trame
delle mie palpebre il fulgore
del mio sangue. Il mozzo
pendulo dal cordame
gittò a me supino
il suo grido, il suo grido
annunziatore;
e rise il lieve lido
come un labbro su la bonaccia.
Le secchie all'alba nel pozzo
traboccanti d'acqua ghiaccia
con lor croscio argentino
suscitaron nel mio vigore
nudo il brivido salubre
del lavacro mattutino.
Le allodole gloriose
in alto in alto in alto
dalla rocca dell'Azzurro
mi chiamarono al grande assalto.

I poledri violenti
su la prateria molle,
irsuti il pel selvaggio,
coperti di rugiade
come i bruchi villosi
in fondo alle corolle,
m'annitrirono su i vènti
che parean recarmi il sentore

degli ippòmani favolosi
forte come un beveraggio.
Cantò: «Ben venga maggio!»
dal colle di ginestre
chiaro la teoria
coronata di canestre
votive, e per le contrade
e per l'anima mia
trionfò Prosèrpina in veste
tosca obliando Ade.
Quante voci, quanti richiami,
quanti inviti nell'aurore
belle! Ma ebbi altri risvegli.

Ebbi un letto vasto,
sacro all'amor cieco
e al perspicace
odio; vasto sì che giacersi
potessero con meco
e con la mia donna
la forza e la grazia,
la crudeltà e la froda,
la voluttà e la morte.
Tra l'una e l'altra colonna
pendeva una cortina
grave che copria d'ombra
il rito infecondo
e la carne sazia,
quando la concubina
seduta su la proda
mi guatava in silenzio
con i suoi occhi instrutti
nella cui notte ingombra
io vedea passar gli antichi
mostri e gli eterni lutti.

Io t'abbandonai,
O mia carne, t'abbandonai

come un re imberbe abbandona
il suo reame alla guerriera
che s'avanza in armi
tremenda e bella,
ond'ei teme e spera.
Ella s'avanza
vittoriosa,
tra moltitudini in festa
che di tutti i lor beni
fan conviti al suo passare.
Attonito trasale
il re dolce, e la sua speranza
ride al suo timore;
ché non sapea di tanta
gioia e di tanta fame
ricchi i suoi schiavi,
non sé tanto possente
né di tanto feroci spini
pieno il suo dolce cuore.

Io ti saziai,
o mia carne, ti saziai
come l'alluvione
sazia la terra
che più non la riceve
ed è sommersa.
Fiumi perigliosi
precipitarono ruggendo
sopra di te perduta.
Fosti talora
come uva premuta
da fiammei piedi;
talora come neve
segnata di vestigia
cruente, d'impronte oscure;
talora come inerte
gleba; e parvemi ch'io sentissi
in te serpere ignote

radici e udissi lunge
stridere su la cote
forse una scure.

Furonvi donne serene
con chiari occhi, infinite
nel lor silenzio
come le contrade
piane ove scorre un fiume;
furonvi donne per lume
d'oro emule dell'estate
e dell'incendio,
simili a biade
lussurianti
che non toccò la falce
ma che divora il fuoco
degli astri sotto un cielo immite;
furonvi donne sì lievi
che una parola
le fece schiave
come una coppa riversa
tiene prigione un'ape;
furonvi altre con mani smorte
che spensero ogni pensier forte
senza romore;

altre con mani esigue
e pieghevoli, il cui gioco
lento parea s'insinuasse
a dividere le vene
quasi fili di matasse
tinte in oltremarino;
altre, pallide e lasse,
devastate dai baci,
riarse d'amore sino
alle midolle,
perdute il cocente
viso entro le chiome,

con le nari come
inquiete alette,
con le labbra come
parole dette,
con le palpebre come
le violette.
E vi furono altre ancóra;
e meravigliosamente
io le conobbi.

Conobbi il corpo ignudo
alla voce, al riso,
al passo, al profumo. Il suono
d'un passo sconosciuto
mi fece ansioso
quasi melodìa che s'oda
giungere nella remota
stanza per chiuse porte
a quando a quando, e il cuore anela.
Risa belle, io già dissi il vostro
numero, io vi lodai diverse
come le sorgenti
della terra, come le piogge
nelle stagioni!
Io dissi la vostra essenza
invisibile, profumi,
le vostre mute effusioni
che pur vincono i torrenti
nella rapina! Ma la voce
avrà da me un canto
più glorioso.

Furonvi città soavi
su colli ermi, concluse
nel lor silenzio
come chi adora;
furonvi palagi
snelli su logge aperte

ad accoglier l'aria
come chi respira,
sacri alle Muse;
furonvi orti irrigui,
paradisi recinti
come labirinti
con una porta sola
e mille ambagi,
ove l'aura piega
ogni stelo e s'invola
come chi fa ghirlande
e non le lega;
vi furono bevande,
frutti, musiche pe' nostri agi;
e le melancolie.

III.

O notte d'estate fra l'altre
memoranda per la bellezza
indicibile onde rifulse
nell'ombra la mia persona
mortale, quasi fosse in lei
espressa l'effigie divina
del Desiderio, sotto i muti
baleni che facean del cielo
estremo una fucina ardente!
Nessuno comprenderà mai
perché nel semplice atto umano
io mi sentissi così bello
per tutto l'esser mio: l'eguale
dei Giovini trasfigurati
nei miti eterni della grande
Ellade. Per un'ora fui
l'eguale dei trasfigurati
Giovini alle soglie dei boschi
e sul margine delle fonti:
nell'ombra calda e sotto i muti

lampi bello indicibilmente.

La luna era trascorsa;
dietro le opache cime
vanito era il suo breve incanto.
L'orrore medusèo
parve impietrare
la faccia sublime
della notte. Non canto,
non grido s'udiva. Rare
gemevan l'aure. Boote
guardava l'Orsa;
e lacrimava il coro
delle Pleiadi belle
ai ginocchi del Toro;
ed Orione in corsa
veniva armato d'oro
su le tristi sorelle;
ed Erigone pura,
in disparte e con elle,
versava anche il suo pianto.
Così viveva la gran notte,
qual la mirò dai monti Orfeo.

Viveva d'una vita
altissima taciturna
e sacra, come quando
l'apollinea prole
invocò: «M'odi, o iddia,
desiderabile, di negro
peplo vestita, cinta
di astri, inspiratrice degli inni,
madre dei sogni, urania
e terrestre, generatrice
di tutte le cose,
ricchissima, oblìo delle cure,
persuasiva, m'odi!».
Eran nel mio petto gli inni.

Ma intenti i miei occhi
erano all'orizzonte
ultimo che fervea come
se vi sfavillasse ignìto
e vivido su la vulcania
incude un cuor di titano
con un palpito immenso.

«O cuore titanico» dissi
«formidabile, palpitante
al confine del cielo,
te anche arde e torce
il desiderio onde anelo
come s'io morissi?
Per quale amante?
Per quale dominio?
Per quale morte?
Che vuoi? che vuoi?
Ovunque il tuo affanno
apre solchi d'arsura
che all'alba le rugiade
non addolciranno.
Ah che anch'io questa notte
saprei morir come gli eroi,
uccidere un re nel suo letto
o tra le spade,
sciogliere una cintura forte
come quella che alla Terra
cingono gli antichi mari!»

Immobile su la soglia
io guatava con occhi arsi,
sentendo in me parole alzarsi
confuse, come chi delira.
Dietro di me la casa umana,
spenta e di cure ingombra,
ove dormivano i servi,
gemeva a quando a quando vana

come una lira senza nervi.
E parve a un tratto, lontana
con la sua doglia
senza ritorno, lasciarmi
nella solitudine solo.
Il mio palpito stesso
e la rapidità dei lampi
si confusero allora;
furono una forza concorde
che lottò con la più alta ombra,
toccò Galassia e i campi,
agitò il sonno dell'Aurora,
svegliò tutte le corde.

E io dissi: «O mondo, sei mio!
Ti coglierò come un pomo,
ti spremerò alla mia sete,
alla mia sete perenne».
E d'essere un uomo
più non mi sovvenne,
poi che il mio cuor palpitava
su la terra e nel cielo
con un palpito sì grande.
E io dissi: «O figlie d'Atlante,
Atlantidi, corona ardente
delle Pleiadi, o Taigete,
o Elettra, o Celeno,
Merope fosca, e tu, Maia
dall'affocata faccia,
Asterope, Alcyone,
scendete ai miei giardini!».
E così dicea vanamente
per tendere le braccia,
per volontà di chiamare,
per amor dei nomi divini.
Il silenzio era vivo
come un'anima sparsa
che ascolti e attenda

senza respiro.
Un'ala si mosse,
una foglia cadde,
un calice si schiuse,
traboccò una fonte,
una lingua lambì l'acqua,
un'orma calcò l'erba,
un balzo ruppe uno stelo,
un foco vano rigò l'aria,
un odor si diffuse
umido nella caldura.
Tutti i miei sensi
vigilavano, nell'attesa
della gioia oscura.
Una bellezza
indicibile io sentìa
spandersi per le mie membra,
come chi trasfigura.

«Che vuoi? che vuoi?»
Immobile stetti
come i simulacri esangui;
poiché ogni cosa
attraeva il mio gesto
ma il mondo parea vanire.
«Che vuoi? che vuoi?»
Dalle mie stesse vene
pareami essere attorta
l'anima come da mille angui
con torride e gelide spire,
«Che vuoi? che vuoi?»
E un lampo discoperse
la vite meravigliosa,
gravida di grandi
grappoli, frondosa
di fosche fronde,
con le radici immerse
nelle virtù profonde.

«Morire o gioire!
Gioire o morire!»

Ah, poter di côrre
dal ciel più lontano
un pugno d'astri
pareami fosse
nella mia mano
fatta onnipossente
dal cor che in me fervea!
E il grappolo più grande
colsi avidamente,
che pesava d'ambrosia
come la mammella
ineffabile d'una dea
data all'adolescente
per gioire e morir quivi.
Gli acini eran vivi
d'inesausto calore
alle mie dita di gelo.
Sentii ne' precordii l'odore
del pampino lacerato
come d'un velo
arcano che si fendesse.

O Vita, quel parvemi il primo
e l'ultimo tuo dono,
e che i miei giovini denti
mai polpa d'opimo
frutto avesser morso
né mai bevuto agreste
sorso le mie labbra sanguigne.
L'odore di tutte le vigne
sentii ne' precordii capaci
e di tutti i mosti il sapore,
ebbi le vendemmie spumanti
di tutti gli autunni feraci
nel cuore, e le feste i canti

l'urto dei piè danzanti il suono
dei flauti frigi, e Lesbo
rossa di faci pel natale
del vino e l'onda corale
e il passo del lidio coturno,
o Vita, quando la mia bocca
vergine di baci
diedi al tuo grappolo notturno.

Allora, come una statua
dalla voluttà della Notte
espressa, una forma
silenziosa
biancheggiò nell'ombra
terribile; e trasalii.
Una luce fatua
sorse come una colonna
tremante nell'ombra
soffocata; e trasalii.
Non dissi: «O donna,
chi sei tu?». Non chiesi:
«D'onde venuta,
di quali iddii
messaggera?». Ma la conobbi
subitamente, muta
ed eloquente.
Per sentieri profondi
tratta me l'avea sola
dall'armonia dei mondi
il Desiderio.

Non dissi: «Parla!».
Ma mi volsi a ghermire
il suo corpo discinto,
che fresco sentii quasi fosse
balzato da polle rupestri.
Né per baciarla
la bocca detersi

dal succo del grappolo molle;
ché il divino Istinto mi volle
dei due beni diversi
comporre una gioia infinita.
O Vita, o Vita!
O notte d'estate fra l'altre
memoranda, in cui la mia carne
compì l'umano atto fugace
sotto la specie dell'Eterno!
O notte in cui viver mi parve
figurato nel violento
mito che divennemi un segno
sacro per le vie della terra
ove tolsi tutti i miei beni!

IV.

E come l'esule torna
alla cuna dei padri
su la nave leggera:
il suo cor ferve innovato
nell'onda prodiera,
la sua tristezza dilegua
nella scìa lunga virente:
io così sciolsi la vela,
coi compagni molto a me fidi,
in un'alba d'estate
ventosa, dall'àpula riva
ove ancor vidi ai cieli
erta una romana colonna;
io così navigai
alfin verso l'Ellade sculta
dal dio nella luce
sublime e nel mare profondo
qual simulacro
che fa visibili all'uomo
le leggi della Forza
perfetta. E incontrammo un Eroe.


Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge e bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l'isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d'argentea cintura
precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili vènti,
silenzioso; e il pìleo
tèstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l'occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l'infaticata
possa del magnanimo cuore.

E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano, i bei doni
d'Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l'Eroe;
ma solo ei tolto s'avea l'arco
dell'allegra vendetta, l'arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del dì, quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell'arco e con la nera

sua nave, lungi dalla casa
d'alto colmigno sonora
d'industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l'implacabile Mare.

«O Laertiade» gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell'Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
«o Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancóra.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!»
Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volse egli il capo
canuto; e l'aletta vermiglia
del pìleo gli palpitava
al vento su l'arida gota
che il tempo e il dolore
solcato aveano di solchi
venerandi. «Odimi» io gridai
sul clamor dei cari compagni
«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l'arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco.
Ma, s'io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua.»
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il fólgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. E io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d'un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell'Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell'incude!
E contemplai, di contro
a Same dai foschi cipressi,
Itaca petrosa,
il Nèrito aspro nudato,
la patria angusta

di quella incoercibile Forza.
E veder parvemi il tetto
securo, la soglia polita,
le stanze purgate dai morbi
con fumido solfo,
le fanti dai cinti vermigli
intente a forbir seggi e deschi
con le spugne lor cavernose
o a torcere i lor fusi
versatili o a scardassare
le lane, e la tarda nutrice
Euriclèa che valse già venti
tauri, e l'economa Eurinòme,
e Femio il cantore, e nell'orto
cinto di pruni Laerte
curvo a rincalzare l'arbusto.

Or la figlia d'Icario
guatava la torma dell'oche
clamose beccare dal truogo
il biondo fromento, e niuna
aquila calata dal monte
franger la cervice alle imbelli
come nel sogno antico.
Ma il talamo vasto,
tutto di legno d'olivo
lavorato di man dello sposo,
confitto con chiovi d'argento
saldamente al ceppo natìo
che abbarbicato era con ferme
stirpi alla durezza terrestre,
il talamo antico d'Ulisse
anco una volta deserto
si stava, e per sempre,
sotto la pelle bovina
cui rodean le vigili tarme.
«Deh, un qualche iddio mi rapisca,
O mi fieda Cintia d'un telo!»


Rammaricavasi acerba
la moglie incorrotta. E la casa
di strepitosi chieditori
sonante e di danze e conviti
ripensava ella nel tristo
suo petto. E improvviso a rancore
pestifero cedea
la più che ventenne costanza!
Fatta era l'alta reina
simile a femmina ancella,
poiché queste dicea parole:
«Deh, avess'io scelto a marito
il più ricco e valente
dei Proci, accolto avessi il figlio
di Polibo Eurìmaco o il figlio
d'Eupite Antinòo,
e seco passata io fossi
ad altra dimora, più tosto
che attendere l'uomo cui solo
è talamo grato la tolda
a sciogliervi il cinto dell'onda!».

E il savio Ulissìde
Telemaco dal suo seggio
coperto di velli manosi
governava i porcari.
E il pallido adipe, onde un disco
recato avea Melanzio ai Proci
con la panca e la pelle
e la brace perché si scaldasse
e ugnesse e ammollisse il nervo
dell'arco nel dì della strage,
l'adipe grave su l'epa
cresceva e pe' lombi e nel collo
del savio Ulissìde.
E partiva il suo letto
di belle coltrici adorno
con una florida fante


ei che, ospite imberbe, mirato
avea splendere Elena a Sparta
e ricevuto il bel peplo
da Elena e bevuto il nepente
di Elena alla mensa ospitale.

«Contra i nembi, contra i fari,
contra gli iddii sempiterni,
contra tutte le Forze
che hanno e non hanno pupilla,
che hanno e non hanno parola,
combattere giovami sempre
con la fronte e col pugno
con l'asta e col remo
col governale e col dardo
per crescere e spandere immensa
l'anima mia d'uom perituro
su gli uomini che ne sien arsi
d'ardore nell'opre dei tempi.
Sol una è la palma ch'io voglio
da te, o vergine Nike:
l'Universo! Non altra.
Sol quella ricever potrebbe
da te Odisseo
che a sé prega la morte nell'atto.»
Tali volgea pensieri
il Re sul ponto oscurato.

O Itaca dura di rupi,
l'ombra che tu protendesti
nell'occaso del Sole
tal fu per l'anima mia
qual pel figlio della dogliosa
nereide lo stigio lavacro!
Caduto era ogni soffio.
Nelle anse di Same sonore
placavasi il rombo
come nelle ritorte

bùccine quando il dio cessa
d'enfiarle col labbro salino.
Simili a sarisse di bronzo
nel macigno confitte
i lacrimabili cipressi,
interrotto il gemito amaro,
parevano pronti a ferire.
Scorgeasi la glauca Zacinto
lungi, e il Cillene, e la costa
crassa cui nutre di molta
rapina il selvaggio Achelòo.

Salir vidi un placido fumo
allora, di tra gli oleastri
che coronan col segno
del buon lottator la Petrosa;
e dolsemi il cor dentro al petto,
ché pel sangue mi corse
pensier della madre lontana,
pensier delle dolci sorelle
e del mio focolare.
E m'apparve il bel fiume ove nato
fui di stirpe sabella,
Aterno di rossa corrente
cui cavalca il ponte construtto
di carene di travi
d'ormeggi, spalmato di pece,
in vista al monte nevoso
che ha forma d'ubero pieno.
E la tomba m'apparve sul poggio
chiomante di pini, ove il padre
riposa le sue grandi ossa
ond'io m'ebbi tempra sì dura.

E dissi nell'ombra: «O sorelle,
tre come le porte del tempio,
tre come il trifoglio dei paschi,
tre come le Càriti leni,

la prima dai floridi ricci
salubre qual cespo di menta
in docile rio, la seconda
a me simigliante nel vólto
ma quasi d'un velo soffusa
argenteo sì ch'io mi creda
specchiarmi in sul fare dell'alba
a un fonte di acque serene,
la terza dagli occhi bovini
robusta qual fu giovinetta
la figlia di Rea, della madre
sostegno ridente, o mie dolci
sorelle, non io vi obliai
e di me voi favellate
nel vespero forse, dal tetto
arguto di nidi guardando
verso l'Adriatico Mare.

Pur, se taluna di voi
improvviso mirasse
l'aspetto della mia
Libertà, d'orror tremerebbe
e di spavento, perduto
credendo il fratello suo caro,
per sempre perduto;
né più oserebbe toccarmi
né dirmi parola di pace.
E bagnerebbe di pianto
le incolpabili mani
materne, alla misera donna
pregando l'oblìo del suo nato.
E lo stranier che merca
e froda al publico sole,
il falso mendico che ostenta
nel trivio l'ulcera immonda,
il marinaio rissoso
che batte il fanciullo e il vegliardo
parrebbero a quella men empii

del caro fratello perduto!

Gèniti d'un grembo, d'un sangue,
d'un atto d'amore noi siamo,
sorelle. E, se penso le vene
su la vostra tempia non cinta
più cerule e tenui dell'ombre
cui le frondi pie dell'ulivo
fan sul vello dell'agna
che pasce da presso, io sorrido
d'una tremante dolcezza
e le medesime vene
guardo ne' miei pallidi polsi,
che battono sì violente
di desiderio implacato.
E le mie virtù, i miei vizii,
i miei delitti, i miei gaudii
letiferi, i miei operosi
tormenti, le occulte mie glorie,
i sogni indicibili, tutto
il fiume rapace del mio
essere tingemi i polsi
di quel vostro azzurro sì lieve!

O consanguinei fiori,
o pure ghirlande sospese
alla fronte del focolare,
s'io torni ove nacqui,
in tema starò sorridente
dinanzi alla vostra allegrezza
come il viandante che sosta
e parco è di chiare parole
ché agli ospiti cela il suo stato.
Ma tu, o madre mia forte,
che mi generasti con tante
grida nel mese fecondo
che da Marte si noma,
entrando il Sole nel segno

dell'Ariete durocozzante,
mentre passavan sul nostro
tetto col volubile nembo
i pòllini di primavera,
tu subitamente svelato
m'accoglierai tutto qual sono
nella luce del tuo dolore.

Qual sono, per te sarò sacro,
per te gloriosa in patire
e resistere, o madre!
E tu, che immota rimani
a costringer nelle tue braccia
come in ferrea zona la casa
fenduta dai fulmini, il soffio
dell'immenso mondo
in me sentirai vorticoso,
senza terrore, e tutto
saprai, pur quello che ignoto
mi sta nel profondo, pur quello
che sta nel Futuro, inspirata
di conoscenza celeste.
E mi dirai: «O figlio,
t'ho fatto di vita sì breve
e d'insaziabile cuore!
Giusto è che tanto t'affretti
a cercare a lottare a volere,
lontan dalla madre
che farti non seppe immortale».

Gloria al tuo capo, o madre!
Sii tu testimone sublime
di mia verità sotto il cielo.
O Solitaria,
o Dolorosa,
o Paziente,
non sono io forse il tuo grido?
Il tuo inconsapevole grido

che, riconosciuto, si spande
su gli uomini e reca ai più puri
la tua speranza divina.
O madre, sia gloria al tuo capo!».
Queste la mia tristezza
diceva parole, nell'ombra
d'Itaca aspra di rupi.
E parve dal mare profondo
salirmi al petto una forza
silente, in cui palpitavan le amiche
Pleiadi, quando a notte
supino, col vólto alle stelle,
giacqui presso l'Occhio di prua.

V.

Dal golfo corintio,
dal cuore dell'Ellade il vento
soffiò contra l'Occhio di prua,
cangiò gli oleastri
d'Itaca, piegò i cipressi
di Same, fe' simile il mare
all'irta di fiocchi
egida cui Pallade scuote.
Ed era il meriggio,
l'ora di Pan, l'ora grande.
Il Sole era al colmo dei cieli
ignudo; e tutto era chiaro
d'intorno, presso e lontano;
e l'anima mia come l'orbe
dell'incorruttibile Etra
tutta era di cristallo
e d'oro sospesa in su l'acque.
E il grido sonò: «Sciogli! Allarga!
Su le scotte di randa! Borda
randa! Su le drizze di fiocco!
Issa fiocco!». E il legno garriva.


Il legno gemeva cricchiava
rombava; la verga bicorne
strideva alla trozza:
la forte ralinga batteva
l'aere qual furia pennata
di libertà sotto pugni
di ghermitori tenaci;
sinché contra l'albero a pioppo
ghindata fu tra fondo
e testiera, ordita la scotta
al paranco. E l'àurica vela
fu gonfia d'un alito immenso,
più bella di tutte le cose
d'intorno apparite,
più di noi che l'aprimmo
libera, più pura e innocente
del cielo, una vergine forza,
un desiderio pudìco,
un arco acceso d'amore
pel suo segno, un candido spirto
tra il duplice Azzurro tutt'ala!

Egidarmata Atena,
ben tu ci volesti avverso
il vento perché nell'approdo
alla tua terra natale
io memore fossi
che sol nella lotta è la gioia.
Parea che l'aspra
tua verginità palpitasse
presente nell'ombra
della gran randa solare
e che tu vigilassi
co' tuoi occhi cesii l'alterna
opra dei naviganti
e tu le imprimessi in silenzio
la tua misura divina.
Obliqua la nave, inclinata

sul fianco, in un solco di spume
fervide, prueggiava
giugnendo l'altura del vento
avverso qual carro la cima
di ripido monte. «Orza! Poggia!»

E la verga biforca
passava rombando fischiando
sopra le nostre fronti
chine; e tutta la ben costrutta
compagine sotto lo sforzo
risonava come una cetra.
percossa; e l'opposto
bordo attignea quasi l'acqua
come avido labbro che sia
per bevere il sale. Era l'opra
agevole e lieve qual gioco.
Aperto era il novo
cammino alla rapida prua,
come nel coro segue
l'epòdo alla duplice strofe.
Itaca Same Zacinto
s'inazzurravano a poppa,
cangiate in elisia corona;
Oxia pareva un'ara
ancor rosea della ecatombe,
l'Àraxo un trofeo di Titani.

Oh perìstrofe gioiosa
verso la pampìnea Patre!
Ora meridiana
d'inimitabile vita!
Levità della carne,
freschezza dell'anima nova,
rinascimento argentino!
Non rugiada al solstizio
su prato di salvie e di timi
fu mai sì gemmante

come l'anima mia che il Sole
beveva inesausta. «O dio Sole,
tu la bevi ed ella rinasce,
tu l'ardi ed ella s'irrora.
Antico tu sei, ella è sempre
recente. Tu due e due volte
trasmuti la faccia del mondo,
ma la stagione che in lei
cresce è diversa: non estate
non primavera, ma una
felicità più novella.»

L'aroma dei canti
futuri parea nel respiro
alitarmi. E io dissi:
«O Ineffabile, o Ignoto,
il nome per te troveranno
i miei canti futuri,
il nome e la lode per sempre!».
E la nave era parte
di me, la vela erami ala
su l'òmero, la prua
era la cima del cuore
sagliente, il lungo proteso
bompresso era il segno
della fecondante potenza.
E come a un amplesso d'amore
io tendeva al lito ricurvo,
portato dal cielo e dal mare.
O Ellade, e io credetti
che dal tuo grembo di marmo
avuto avrei finalmente
il figlio che invoco immortale!

Torrido soffio affocante
qual fiato di mille fornaci
su l'acqua del porto oleosa
e corrotta; lezzo di tetre

cloache, di putridi frutti,
di torbidi fumi, di fecce,
di sevi, di spezie, di vini,
d'acri fermenti, d'umani
sudori; terribili pietre
consunte dal traffico immondo,
riarse da Sirio, insozzate
dall'escremento dell'ebre
ciurme, dei cavalli, dei buoi
stupiti ancor barcollanti
in lungo rullìo di tempesta;
tristi anelli di nero ferro,
ormeggi più tristi
che vincoli di prigionieri;
man tese di mendicanti,
riso ambiguo di prossenèti,
e frode e fame in agguato:

tale m'apparve all'approdo
l'antica città degli Achei
artefice di diademi
e di vestimenta soavi.
Per le vie bianche, sotto
nembi di polve una bara
misera fra roche preghiere
recava il cadavere esangue
dal vólto scoperto
simile al giallore del croco.
Alzato il teologo macro
su la piazza pulverulenta
a lenoni e vinai disvelava
con stridula voce il mistero
del dio senza muscoli. E i preti
scaltri, nelle tuniche sparse
d'untume nauseabondi,
al loquace inesperto
sorridean d'un perfido riso
pettinando con l'unghie


approdo all’ideologia superomistica coincide con
L'
ricurve le luride barbe.

Diana Lafria, scomparso
era il tuo tempio agile a specchio
del golfo. Correa per ladre
mani pecunia dolosa,
più vile del cencio e del timo.
Oh effigie di gloria
nel chiaro metallo battuto,
quadriga trionfale,
deità astata, spica
opima, prora invitta,
terrestre e marina potenza
nel fermo rilievo inconsunto,
propagata bellezza
di acropoli vittoriose!
Non gli Apolloniasti
su le triere dipinte,
né i mercatanti di Tiro
nel segno d'Eràcle, né i Coi,
né i Rodii, né gli Ateniesi
di belle parole eran quivi;
ma frode e fame in agguato.

E nella notte illune,
quando s'accesero i fari
e il libico soffio si spense
e i siderei fochi
incoronarono i monti
e s'udi lontana la voce
del mare di là dai macigni
dei moli, noi tristi ridendo
e cantando seguimmo
il prossenèta per cupi
angiporti graveolenti
in cerca di meretrici.
E disse un de' cari compagni,
mentre un gabbier fulvo e nerbuto

receva il suo vin resinato
alla soglia del lupanare
tra afa d'amaro sudore:
«La résina geme dai pini
dell'Ida, ove Paris pascendo
i buoi sogna Elena di Sparta
che ancóra ei non vide, promessa!».

I marinai dal collo
ignudo, gli stradiotti
bracati, i battellieri
dal braccio di bronzo e dal dorso
incurvo, le flosce bagasce
dalle guance rosse di fuco
vile, i bardassoni più molli
delle femmine esperti
in muovere l'anca, la schiuma
del porto, la melma del trivio,
i nativi e i metèci
e gli stranieri approdati
da un'ora, accesi di foia,
tumultuavano al lume
fumido delle lucerne
grasse, tracannavano il vino
malvagio e la mastica arzente,
mercavano copula e lue
per mezza dramma. E gli sguardi
come i getti della saliva
lucean sul carnaio in fermento.

Quivi, al dir del buon prossenèta,
giunta era una donna di Pirgo
formosa, nel fiore degli anni.
Ma non degnava ella beare
di sua forma l'ebra ciurmaglia
nella fumosa taverna
aspra d'urli rauchi e di pugni
percossi. In penetrale

remoto, su candido letto,
ella attendea lo straniero
opulento, il navarca
magnanimo, o l'alto signore
dei latifondi patrensi.
Salimmo allora la scala
di putrido legno, varcammo
la soglia segreta; e la donna
di Pirgo ci apparve nell'ombra
del letto, piccola e pingue,
simile a gravida capra
dalle molte mammelle
olente dell'irco suo sposo.

Niuno di noi appressarsi
ardiva alla femmina elèa.
Ma uno dei cari compagni
le parlò con attico accento:
«O femmina elèa,
non nel Minyeio d'Omero,
nell'ingiocondo Anigro
che scorre tra il Minthe e il Lapitha,
bagnasti il fior di tue membra?».
Ridemmo in giovine coro.
Ella gustar l'attico sale
non seppe, e scagliò contra noi
l'ingiuria e i sandali. Allora
ci ritraemmo, con nari
occluse giù per la scala
di putrido legno. Repente
brancolò nell'acre
tenebra ver noi una mano
ignota. Qual voce d'antico
sepolcro imprecava per fame
novella? Ristemmo, perplessi.

Al breve bagliore
scorsero i nostri occhi mortali

l'eterna tartarea faccia
d'Atropo che taglia lo stame,
dell'inevitabile Mira?
Sparvero l'inganno dell'ora
presente, l'angustia del luogo,
il turpe clamore degli ebri;
e tutti i secoli muti
che avean travagliato quel vólto,
incanutito quel crine,
sfatto quella bocca vorace,
smunto quel seno infecondo,
curvato quel dorso di belva,
scarnito quell'avida branca,
sepolto nell'orbita cava
quell'occhio ancor semivivo
senza cigli ingombro di sanie
e lacrimoso di sangue,
i millennii d'onta e di lutto
oppressero il cuor mio vivente.

E l'anima mia nel mio cuore
tremò d'infinita tristezza,
come innanzi all'aspetto senile
d'una già cognita gente,
di sùbito apparsomi in fondo
al funebre specchio dei tempi.
Ma risero i cari compagni.
E nell'artiglio proteso
dalla famelica lèna
io posi ridendo una dramma.
Mormorò ella parole
buie tra le vacue gengive
con la sua voce di tomba.
La grande sua bianca criniera
si dileguò nella notte.
E noi scendemmo la scala
di putrido legno. Cedette
un de' gradi all'urto del piede,

s'infranse con gemito. Oh dolce,
dalla soglia del lupanare,
mirar le vergini stelle!

E disse un de' cari compagni
tornando alla nave ancorata:
«Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno,
che fatta è serva millenne
d'una meretrice di Pirgo».
Vidi il pastor frigio su l'Ida
pascere col flauto l'armento
all'ombra dei pini chiomosi,
innanzi che in talamo eburno
ei s'avesse Elena di Sparta.
E disse il compagno: «L'estremo
Eroe cui ella soggiacque
nomavasi, come l'idèo
rapitor suo primo, Alessandro.
Su quella zona terrestre
che si protende arenosa
tra il Mediterraneo Mare
e il Mareotide Lago,
il giovine Eroe la premette;
e fu la lor prole Alessandria».

Alessandria! Alessandria!
La forza la gioia la gloria
del trionfatore d'imperi
e il van balbettìo faticoso
del calvo grammatico! Io dissi
meco: «Se ancóra l'impronta
dei lombi divini rimane
laggiù nella sabbia palustre,
io andrò andrò adorante».
Parlava la voce del sogno.
«Votò l'Eroe la sua vasta
coppa. Meditò taciturno.

Votare la coppa ei soleva
dopo sovrumane fatiche.
Da lui stanco il vino traeva
una onniveggente potenza.
Ei vide le Forze immortali
salir dalla terra e dal ponto.
Tra il Mediterraneo e il Lago
segnò taciturno le sorti
della Città nascitura.

I Continenti oscurati
eran sotto l'ombra degli alti
pensieri. Ei vedea la ricchezza
dei regni versarsi infinita
su l'Arcipelago azzurro,
dalla Città nascitura
come da corno inesausto.
E vennegli Elena per l'acque
dai lidi argivi incurvati
secondo la forma del labbro
ledèo; sorridendo gli venne
Elena di Sparta che Achille
bramò; venne a lui col nepente
la bianca Tindaride; venne
recando nel cinto il profumo
dell'Ellade caro al signore
dell'Asia. E il Macedone scosse
la figlia di Zeus nudata
su le fondamenta fatali.
E fu quegli l'estremo
Eroe cui ella soggiacque.

Poi fu polluta per notti
e notti, tra il sangue e l'incendio,
dai centurioni di Roma,
premuta fu sotto le squamme
delle loriche pesanti.
Punsero l'ispide barbe

la sua mammella rotonda
che dava la forma alle coppe
d'avorio pei conviti
dei re. Nel suo ventre convulso
ruggire s'udì la lussuria
come rombo in conca marina.
Da sola ella fu la suburra
aperta all'esercito in foia.
Fu manomessa dai servi,
dai ladroni, dagli omicidi,
dai profanatori di tombe,
dai mercenarii fuggiaschi.
Calpesta in polvere e in fango,
lambì con la lingua lasciva
le calcagna dei violenti.

Soffiò dovunque il suo fiato
come insanabile peste.
Accrebbe i nomi del vizio.
Fece innumerevoli i nomi
e i modi, maestra di spintrie
pei Cesari enfii di murene
e roscidi di purulenza.
Vecchia d'indicibil vecchiezza,
tentò se le mille sue rughe
servir potessero a qualche
più mostruosa lascivia;
ma, come in solchi di sabbia
sol cresce la crambe marina,
crebbevi sol la vergogna.
E fu di postriboli cencio,
nettò dai vòmiti i letti,
gittò nel rigagno del vico
le rosse urine e lo sterco,
spezzò il suo ultimo dente
per rodere gli ossi ed i tozzi
contesi alla cagna scabbiosa.


Or tu la vedesti alla porta
di quella femmina elèa,
crinita di grande canizie.
Fu sua sapienza la frode,
sudore di opere infami
ne' secoli fu suo lavacro;
e tuttavia biancheggiare
or noi la vedemmo nell'ombra!
Come neve su volutabro
sta su lei la grande canizie:
attonito l'occhio la mira.
Ahi fior di bianchezza sublime
che alle Scee mirarono i Vegli!
Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno.»
Così, questo sogno sognando
nell'amarissimo cuore,
tornammo alla nave ancorata.
E poi ci colcammo sul ponte,
il sonno invocammo dall'Orse.
Tal fu la notte di Patre.

VI.

Il fiato degli uomini vili
fuggimmo, l'odore e il clamore
degli Efimeri imbelli
che quivi apparivano come
la lebbra sul sen di Afrodite,
la stupidità su la fronte
di Pallade, negli occhi
di Febo la sanie cruenta.
O vigne immense eguali,
pascoli d'api, coi verdi
pampini illanguiditi
dall'aridità presso il mare
ceruleo dove Zacinto
ignuda natava in silenzio

come la sirena delusa
che virtù non ebbe d'attrarre
ai carmi la nave d'Ulisse!
O grappoli sparsi in su l'aie
quadrate per cuocersi al sole,
densi e violacei come
il crine sul collo di Saffo!

Cipresso, e parvemi allora
soltanto conoscer la tua
meditabonda bellezza,
commisto al palmite ricco,
sul fianco dei colli silenti,
su le correnti dell'acque,
in contro al zaffiro sublime
dei monti creati alle soglie
dell'aria dal flauto di Pan!
Oleandro, e allora t'elessi
in riva ai ruscelli fiorito
per inghirlandar la mia Musa
che ama danzare e lottare,
che tratta l'incudine e il sistro,
che onora la grazia e la forza,
che loda il pastore e l'eroe;
t'elessi, oleandro, ti colsi
per redimir le mie tempie
di rose e d'alloro in un ramo.
Non mai parso m'eri sì bello!
E un altro da me canto avrai.

Peregrinammo da Patre
alla città santa d'Olimpia,
al tempio di Zeus Cronide
con chiusa l'offerta nel cuore.
E tacita era la via;
e il Sole inclinavasi all'onda
occidua, con riaccesa
divinità, Elio nomato

per noi, Elio d'Eurifaessa.
Ed èramo senza parola,
tacenti, ma d'una celeste
melodìa pieni il petto
mortale. E talora dai monti
aerei venivan messaggi
per l'aere; e noi rendevamo
l'orecchio, attoniti, ai suoni
di Pan. Disse un de' cari
compagni: «Nel plenilunio
che segue il solstizio d'estate
la Festa ha principio». S'udiva
dietro a noi fragore di carri.

E d'improvviso tutta
la valle echeggiò di fragore
come d'un émpito d'acque
irrompenti da cataratte
aperte su l'Elide. E il grido
umano e il nitrito anelante
squillavano sopra il fragore.
«Per vincere vincere vincere!»
E ci volgemmo. E vedemmo
tra nembi di splendida polve
una moltitudine immensa
d'uomini, di cavalli,
di carri condotta da mille
Vittorie che armavano il cielo
d'un fremito aquìleo, nube
di penne di pepli di chiome
impetuosa volante
in aura di giovinezza.
«Per vincere vincere vincere!»
E tutto il Peloponneso
tremò come foglia di gelso.

Era su la via santa
la forza dell'Ellade, mossa

da un ramo d'ulivo selvaggio!
Era il fior della stirpe
quadruplice, la concorde
e discorde anima ellèna
protesa verso il serto
leggiere d'ulivo selvaggio!
Ionii e Dorii, Eolii ed Achei,
il sangue d'Atene di Sparta
di Tebe d'Elice d'Ege;
le genti insulari di Nasso
di Sèrifo d'Andro, di tutte
le Cicladi; e i potenti
di terra lontana, i tiranni
sicelii, i re di Cirene,
i grandi oligarchi
delle città di Tessaglia
e quei di Metaponto di Velia
di Sibari di Posidonia
ambivan l'ulivo selvaggio!

E gli alti carri dipinti
recavan le offerte votive:
le decime tolte al bottino,
le arche di cedro e d'avorio,
le tavole i tripodi i vasi
le lampade d'oro e d'argento,
i tori e i cavalli di bronzo,
i rudi colossi di pietra
avvolti in lini trapunti,
e le spugne il nitro la cera
la pece gli aròmati gli olii.
E tutti, città, re, strateghi,
atleti, sacravan le offerte
per vincere o per aver vinto
nello stadio o in pugna campale.
Gli Eretrii i Sicionii i Messenii
grondavano ancóra di sangue.
Le prede raccolte a Platèa

eran fuse in un simulacro.
La strage l'onta il servaggio
facean trionfali i metalli.

O Temistocle insonne,
del gran Laertiade alunno,
spada battuta a freddo,
noi ti vedemmo sul carro
che Atene ti diede, ben saldo
come su trireme rostrata;
e in te l'acuto sorriso
era qual tempra nel ferro.
E te, Pericle, anche vedemmo,
o artefice della saggezza,
te nato d'occulta sirena
e di colui che a Micale
fu vincitore nel nome
d'Ebe giovinetta ridente;
te anche vedemmo, che avevi
nel gesto nel passo nel verbo
nella cesarie ornata
l'ordine divino onde fulge
la pura colonna
nei Propilèi di Mnesìcle,
nel Partenone d'Ictìno.

Ma Alcibiade, lo snello
pantère versicolore
che Diòniso amico
èccita col batter del piede,
l'auriga che al carro dall'asse
d'oro agitava i cavalli
più rapidi, chiamammo
per nome. Grandissime offerte
ei seco recava, ricchezze
insigni, per dare
per dar grandemente. Io gli chiesi:
«E alla Vita che tanto

ti diede, or tu che darai?».
«Darò la mia statua scolpita
dalle mie mani.» «E qual gioia
ti parve più fiera?» «La gioia
d'abbattere il limite alzato.»
«Qual fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio,
il rischio dagli occhi irretorti.»
«La buona virtù?» «Il piè leggero,
Ospite, il mio piè leggero!»

E gli strateghi i navarchi
gli arconti passavano in carri
dall'aureo timone, e i cantori
i sapienti gli alunni
di Clio gli artefici esperti
di tutte le forme, coloro
che foggiavan la sorte
d'un popolo vivo, coloro
che animavan l'umida argilla
col pollice nudo, coloro
che trasfiguravan gli aspetti
dell'Essere con l'eloquenza.
E vedemmo Erodòto
dagli occhi d'intento fanciullo,
che seco recava al consesso
dell'Ellade i rotoli gravi
di gloria come i fiari
son pregni di miele. Vedemmo
Ippia e Gorgia, vedemmo
Demòstene Isòcrate Lisia;
invocammo Pindaro invano.

Ma splendean come astri nell'etra,
come le Pleiadi e l'Orsa,
nella moltitudine immensa
quattordici atleti. Il fulgore
dei sette e sette epinicii
ardea nell'eroico sangue.

Perpetuavasi il ritmo
dell'olimpica Ode
nei polsi del pùgile. L'ala
della triade sagliente
armava i mallèoli certi
al corritore del lungo
stadio. Ecco il bello Efarmosto
d'Opunte, Ergotèle d'Imera,
Psaumida di Camarina.
Ecco Agesia Siracusano
della profetica gente
iamide, di Sòstrate prole.
Ecco Alcimedonte egineta,
d'Egina dai grandi navigli,
della blepsiade gente.

E d'improvviso apparve
fiammeo di porpora coa,
pari a inestinguibile vampa,
nella moltitudine solo,
più solo dell'aquila a sommo
del monte, il monarca degli Inni.
«Aquila, aquila» io dissi
«onde torni sì radiante?
M'odi! Rispondi! Per gli astri,
pei vulcani, pei lampi,
per le meteore, per tutto
ciò che arde, per la sete
del Deserto e il sale del Mare,
odimi, volgiti all'ansia
pedestre. Ch'io senta il tuo sguardo
e il tuo grido fendermi il petto!
Aquila, onde vieni?» «Dal Sole.
Battei l'ali su la cervice
del suo corsiere più bianco
per affrettar la sua corsa
all'ultimo Vertice azzurro.»


VII.

Non templi non are non tombe
non statue votive, non greggi
di vittime, non teorie
solenni lungh'esso il Pecile,
né il coro dei bronzei fanciulli
sacrato al Dio da Messana
né l'opra di Càlami offerta
da Agrigento, né il toro
degli Eretrii, né la Vittoria
di Naupatto ammirammo
giungendo ai piedi del Cronio
pinifero; ma una bellezza
virginea come un canto
partènio, diffusa
nella placida sera,
c'indusse una sùbita pace
nel cuore, e il tumulto si tacque.
E sol riudimmo vegnente
dai gioghi d'Arcadia il messaggio
di Pan che conduce
ne' tempi il Ritorno eternale.

Arcadi monti, alpe d'Acaia,
messenie cime, o chiostra
della valle sacra,
vivere mi sembraste
voi contenendo la voce
della placida sera,
vivere come i seni
delle vergini intatte
che cantano il canto partènio!
Un melodioso respiro
parea muovere i grandi
lineamenti all'intorno
e, come per una bocca
dischiusa, il visibile suono

volgersi al ciparissio golfo
in figura di fiume
declive e l'Alfeo violento
inebriato d'amore
con Aretusa giacersi
quivi in sul medesimo letto
obliando il corso rapace.

Eternità del Canto!
Concava tutta la valle
come la testudine d'Erme,
d'innumerabili corde
fatta immensa, cantava
ancóra il callinico inno
ai Giovini vittoriosi.
La lotta dell'invide stirpi
placavasi nella bellezza.
Nell'armonia numerosa
posava la rapida forza.
L'orma dei cursori
avea la forma del plettro.
Il disco lanciato
cangiavasi in ala robusta.
Il pentatlo e il pancrazio
erano i fulcri dell'Ode,
come il tripode solido regge
lo spirto prenuncio dei fati.
«O Ellade» io dissi «il tuo Coro
è più delle stelle perenne!»

E, poi che al Cronio la notte
gemmò di stelle la fronte,
solo discesi là dove
il Clàdeo breve si mesce
all'Alfeo tortuoso,
verso le pietre infrante
che mute dormivan sul suolo
augusto, simili a torme

di atleti dalle bianche
clamidi nella vigilia
dei Giuochi sotto il plenilunio
d'ecatombeone giacenti.
Quasi un baglior d'occhi insonni
parea palpitar nelle moli
dissepolte; e d'orrore
tremavami l'anima in petto,
andando, ché toccar temea
col piede incauto la vita
eroica meditante
al conspetto degli astri
lo sforzo per l'alba ventura.

Tra le mozze colonne
del tempio di Era m'apparve
la tavola d'oro e d'avorio
opra del sottile Colòte,
ove gli Ellanodici
ponean le corone d'ulivo
selvaggio. Alle nari
mi giunse l'odor delle calde
ceneri sacrificali
che faceano un tumulo ingente.
Vestito di lino era il mio
silenzio. Giammai nei perigli
l'anima mia s'era armata
di sì vigile ardire
come in quell'ora di sogni
tra quelle notturne ruine;
ma quasi un marmoreo rigore
parea m'occupasse la carne
mortale. Guardai le mie mani
ignude e di pallido marmo
le conobbi al lume del cielo.

E l'ambiguità della morte
e della vita, fra i templi

abbattuti, fra i dubii
aliti, fra i sogni creati
e distrutti, fra le parvenze
intermesse, mi fece
immobile innanzi alle accolte
ceneri delle ecatombi
che insanguinato aveano l'ara
di Zeus nelle remore
olimpiadi e nudrito
il suo inesplebile fuoco.
«O Zeus, Tiranno più grande,
sei dunque caduto per sempre?
Te sire di tutte le voci
terribili il grido iterato
dalla scitica rupe
sconvolse? Lo scaltro ti vinse,
che il muscolo e l'adipe ascosi
avea nella pelle del toro
per sottrarre l'ostia al Potente?

Gli Efimeri onorano il càuto
Ribelle, obliosi del tuo
Ordine puro che solo
generò l'Universo!
La piaga che sanguina e pute
nell'egro fegato, sotto
il rostro del vùlture adunco,
ai lamentevoli figli
del Rimorso e della Paura
la piaga la piaga stridente
ahi più venerabile sembra
che la solitaria tua fronte
onde balzò l'unica nata
Pallade Atena dagli occhi
chiari vergine prode
artefice meditabonda
patrona dei vertici forti
nemica del cieco tumulto

lucida regolatrice
del combattimento ordinato
che reca al sicuro trionfo!

L'odor della carne corrotta,
del sudore anèlo,
della febbre, dell'agonia,
della putredine ha vinto
l'ambrosia della tua chioma
su' tuoi grandi pensieri
ondeggiante, o Generatore
incorruttibile. E i servi,
i liberati servi
inclini al sentier consueto
del fango, che ne' lor cuori
ignavi agognan pur sempre
il servaggio, scagliano contro
a te la saliva e l'ingiuria.
E il lor fiato perverso
appesta fin l'aer montano
intorno alla scitica rupe
onde il tuo Nemico furace
nauseato vomisce
su loro. E l'Oceano lava
la graveolente lordura.

O Zeus, padre del Giorno
sereno, quanto più bello
del vincolato ululante
Giapètide parveti il monte
silenzioso, di vaste
vertebre, fresco di polle
invisibili, aulente
d'inespugnabili fiori!
Numerava il piagato
con rauca voce i tuoi molti
delitti; e tu sorridevi,
nella tua superbia, più puro

dell'aerea rugiada
però che ciascun tuo desìo
si mirasse perfetto
nell'atto e ciascuna tua stilla
di sangue fosse un'eterna
volontà protesa a un supremo
Ordine e sol d'armonia
si nudrisse la creatrice
tua gioia, d'aurora in aurora.

Zeus, se più bella ti parve
dell'Uom vincolato la rupe
alta silente nell'etra,
più bella dell'Uom crocifisso
è la croce, segno del Fuoco
primiero ch'espressero gli Arii
dal ramo duplice attrito.
Deposto il cadavere molle
fu di sul segno infamato;
ma i cinerei servi
moltiplicarono il tristo
simulacro in tutte le vie
della Terra ove i carri
falcìferi della Potenza
profondato aveano le rote
sonore e le falci corusche
nel carname dei vinti.
O Zeus, o Zeus, t'invoco.
Risvégliati, afferra il domani!
La fiamma urania ti sia
vomere a solcare la Notte.

Travaglia travaglia la Notte,
o Re folgorante! Sovverti
la tenebra! Fendi il pallore!
Tu solo mondare la Terra
dal cumulato escremento
puoi, come la noce dal mallo

se per la tua grandezza
è come la stilla di latte
espressa dal fico immaturo
Galassia che immensa biancheggia.
O Zeus, Tiranno più grande,
tu carico di delitti
e d'oltraggi, ingombro di prede,
tu solo sei l'alta Innocenza.
Risolleva l'Olimpo
e poi risorridi alla Terra.
E, come a sua donna l'amato
offre una cintura più bella,
rinnova per lei l'orizzonte
cui volgere io possa la prora
scolpita cantando il mio canto!»

Così pregai nel mio cuore
notturno, fra i dischi
delle colonne atterrate
che un dì avean chiuso il portento
fidiaco. «FIDIA FIGLIUOLO
DI CARMIDE ATENIESE
MI FECE.» E, come il tremante
artefice innanzi al compiuto
simulacro, attesi nel tuono
il consentimento divino.
Ma silenzioso fu il cenno
del dio che vivea nel mio petto
e nella olimpica notte.
E della notte remota
sovvennemi, del giovinetto
deliro che s'ebbe i due doni
da Libero e da Citerea,
il tumido grappolo e il seno
femineo, quando
laggiù su l'incude celeste
sfavillava il cuor del titano.


E dissi: «O Zeus, tu anche
tu anche mandami un segno
su le vie della Terra.
Per togliere tutti i miei beni,
per cogliere tutti i miei pomi,
improbe fatiche sopporto,
mostri multiformi combatto
che mi precludono i varchi,
ma più terribili quelli,
ahi, ch'entro me di repente
insorgono dalle profonde
oscurità dove torpe
il fango delle geniture!».
E, movendo i passi per l'Alti,
scorgere parvemi l'ombra
dell'indovino di Zeus,
il responso udire improvviso
«Combattere e vincere i mostri
non ti varrà su la Terra
se trasfigurarli non sai,
Aedo, in fanciulli divini».

E i campani d'un gregge
sonavan tra i marmi abbattuti.
Subitamente si tacque
in me l'audace tumulto,
come se la preghiera
accolta mi fosse e compiuto
il desiderio e mutato
già l'orizzonte in cintura
più bella e mondata la Terra
e disvelata la faccia
di Pan che conduce
nei tempi il Ritorno eternale.
E un fanciullo pastore
m'apparve, il pastore del gregge:
simile a riflesso di stella
in tremule acque m'apparve

il puerile sorriso.
Al lume dei cieli
biancheggiar vidi i suoi denti
puri nel saluto venusto:
sentii la rugiada cadere.

Volto avea Boote l'obliquo
timon del plaustro fra i Trioni.
Sì lucida era la notte
che gli arbori su le colline
leggere di là dall'Alfeo
segnavano l'ombre
visibili. Tanto era dolce
il lineamento dei gioghi
che parea, come il fiume,
continuamente fluire.
Giaceva sul dorico tempio
il gregge lanoso;
gli umili velli ed i marmi
augusti in tepore spirante
parean convivere. Tutto
era plenitudine e pace:
non morte, non ruina:
armonia di forme perfette,
concordia del Coro infinito.
Necessità, come l'urto
del piè nella danza tu eri!

Su l'erba colcato il pastore
poggiava il florido capo
al tronco d'un platano. E quivi
io vigile stetti al suo fianco
in silenzio. Ed èramo volti
ai monti d'Arcadia, all'indizio
del di nascituro. E il fanciullo
mordeva mentastro odoroso,
scendendogli il fiore del sonno
su' cigli virginei. Caddegli

il ramicello selvaggio
dalla bocca aulente che al fiato
eguale si schiuse. La valle
parve tutta allora una cuna
divina per quella innocenza.
Vidi su i vertici l'Alba
avvolgere al piè della Notte
il lembo del suo primo velo.
D'amore tremai come s'ella
ver me si piegasse e dicesse:
«O tu che m'attendi, io ti cerco!».

VIII.

Alba apparita dal sacro
Cillene, il mio canto novello
salire a te non si ardisce;
ma tu risplendi per sempre
su le mie sorti guerriere
freschissima confortatrice!
Da te beve come da un fonte
l'arsura della battaglia.
Stendere tu suoli il tuo velo
su la mia febbre animosa.
Ti guardo allor che il periglio
è presente, ti guardo
allor che mi stringe il dolore,
ti guardo allor che m'accingo
a scuotere l'anima mia
come arbore troppo gravato
di frutti maturi,
e dico: «Il mio giorno incomincia»
con ineffabile gaudio
entro me udendo il respiro
lene del divino fanciullo.

Lui sotto il platano, ancóra
dormente, lasciai tra il suo gregge

nell'Alti. E come dal cavo
còrtice sgorga la copia
del miele e liquida cola
giù pel tronco insino alla ceppa:
la flava ricchezza adunata
dall'api sembra una gomma
pingue che gema dal cuore
dell'arbore, dono agli umani:
così la sua grazia facea
ricco il platano sterile
e quasi apparia stirpe d'oro
prodotta co' i rami e le frondi
naturalmente alla luce.
Tacito partìimi, nudato
i piedi, per mezzo la bianca
strage dei marmi, scendendo
a riva. E la veste di lino
erami grave. Mi scinsi.
Palpitai nell'aere chiaro.

Con qual grido in me riconobbi
l'antica natura dell'acqua
scagliandomi nella corrente
del mitico Alfeo!
Correva quel fiume in gran letto
ghiaioso ardente consparso
di platani di tamerici
d'oleandri selvaggi;
e le cicale col canto
e col susurro le frondi
accompagnavano il croscio
robusto del rapitore.
«Io Arethusa, io Arethusa!»
Agili guizzavan nel gelo
i muscoli all'impeto avverso
resistendo; ma d'improvviso
per tutta la carne un'azzurra
fluidità mi ricorse

e i muscoli furon su l'ossa
come i fili dell'acqua
turgidi contra le selci.

E non più lottar volle il corpo
a nuoto ma cedere tutto
alla rapina sonora,
ma essere quella rapina,
ma perdere il limite umano,
espandersi fino all'alpestre
origine, correre a valle
dal monte, ritorcersi in lunghi
meandri, polire le rupi,
l'erbe inclinare, i campi
rodere, scalzar le radici,
detergere il gregge, di schiume
fervere, tingersi di cielo,
splendere di raggi, gonfiarsi
di tributi limosi,
il limo deporre, chiarirsi
com'aere gelido, in ogni
goccia crescere impeto e brama,
contro il Mar che agguaglia afforzarsi
di rapidità, fiume eterno
persistere nell'amarezza.

«O Alfeo d'Aretusa, più vaste
correnti solcan le valli
terrestri, il Tànai estremo
dirime innumere stirpi,
termine d'imperi è il profondo
Istro, il settemplice Nilo
trasmuta le arene in immense
biade e specchia ardui sepolcri.
Ma sol tu sei regnatore
nel mito, bel re cristallino!
I più grandi beve per sempre
l'inevitabile ponto.

Morte informe in pèlaghi estingue
tanta forza irrigua. Tu solo,
rena d'amore immortale
palpitante nell'amarezza,
tu solo persisti e trascorri,
puro qual nascesti dal fonte,
al segno del tuo desiderio
lontano. O Alfeo d'Aretusa,
ch'io sia come te nel mio mare!»

Mi mossi allora, temprato
dal limpido gelo, mi mossi
ai dissepolti simulacri
che il triste ricovero chiude.
Pio pellegrino, le rose
del laurigero oleandro
e il fior violetto dell'agno-
casto io colsi tra le ruine.
Tutta la valle ardeva
di fiamma cerula, e il canto
delle cicale era come
il suono del foco celeste,
talor come il crèpito chiaro
degli arbusti arsi, dei fumanti
aròmati. La magra terra
fumava ed auliva d'incensi
come il sommo dell'ara.
La cenere delle ecatombi
svegliarsi pareva in faville.
Tintinno di tetracordi
era il vento etesio nei pini.

O Ippodàmia, nel rotto
fronte del Tempio giacente,
io vidi te sola
tra Pelope e i quattro cavalli,
orrendo virgineo silenzio
chiuso nella gravezza

del dorico peplo. Constretta
nelle pieghe rigide come
nelle ferree dita del Fato
eri, o figlia d'Enomào.
Ma il pensier tuo, sotto i folti
riccioli simili alle uve
della bimare Corinto
mèta alla corsa fatale,
immobile vivea
nel fiammeo soffio dei quattro
corsieri già pronti col carro.
E non ebbe il Cillene
non il Taigeto un abisso
terribile come il tuo grembo
intatto che Pelope amava.

Perché di sùbito amore
anch'io t'amai, genitrice
d'Atreo? Perché nella memoria
mi giganteggia il tuo peplo
simile alla scorza d'un mondo?
L'imagine in te ritrovai
della perigliosa Bellezza
che di sé m'accese e m'accende,
virginea nel rigore
del suo vestimento ordinato,
urna di tutti i mali,
profondità di dolore
e di colpa, remota
cagione di lutti infiniti,
funesto silenzio ove rugge
ebro di lussuria e di strage
l'umano mostro nudrito
d'inganni pel labirinto
dei tempi. L'aspetto sublime
dell'Ombra cui l'arte m'è fisa
in te raffiguro, Ippodàmia.


Tra l'eroe preparato
e la fremente quadriga
tu stai, piena il fianco regale
di fertilità spaventosa,
guatando la via dove spenti
caddero sotto le ruote
dei carri i tuoi chieditori.
E il tuo padre in segreto ha fame
di te; e il Tantalide è certo
di premerti, al tramonto
del sole, nudata e superba
sopra le sue pelli di belve.
E tu sei vergine ancóra;
la tua cintura ti cinge
di sopra il ventre velato,
come il cerchio tacito gira
a sommo del gorgo.
Ma Tieste e Atreo nascituri
e la cruenta progenie
e il peso carnal dei delitti
già t'affaticano il grembo.

E dalla tua bianchezza
immobile, o Statua sculta
pel fronte sereno del Tempio,
erompe il furor degli Atridi,
propagansi l'odio fraterno
e la libidine incesta
e l'ebrietà dell'eccidio
e i singulti e gli ululi e i lagni
che trae dalle fauci umane
la cieca percossa del Fato.
O Ippodàmia, e lungi
alla tempesta dei mali
nella dolce luce un divino
cigno canta il suo giovenile
inno verso la Morte.
«Recate i canestri! Versate

sul fuoco l'orzo lustrale!
Conducete vittima all'ara
me trionfatrice dell'alta
Ilio! Coronatemi il capo!
All'Ellade io do la mia vita.»

Chi dunque canta? La stirpe
di Pelope, Ifigenìa,
l'Atride cara ad Achille,
ebra di gloria, futura
luce dell'Ellade, innanzi
alla moltitudine in arme,
andando pel florido prato
verso il bosco sacro
d'Artèmide. «Per la mia patria
e per tutta l'Ellade io muoio!
Ma degli Argivi alcun non mi tocchi.
Tenderò la gola in silenzio.»
Ed Achille, preso il canestro,
tolta l'acqua, circa l'altare
corre invocando la dea
per le navi e per l'aste.
Rapisce la dea, sotto il ferro
del sacrificatore,
la vergine intatta. Prodigio!
Su l'altare palpita occisa
la grande cerva montana.

In alto, per l'incolpato Etra,
per la via de' vènti e degli astri,
la suora d'Apolline reca
nelle candide braccia
la nata del sangue d'Atreo,
o Ippodàmia, lei dormiente
adagia su i gradi del tempio
tàurico fatta più bella!
Tal, figlia d'Enomao, che stai
tra l'eroe preparato

e i quattro corsieri anelanti,
videro i miei occhi novelli
illuminarsi l'antico
mistero cui veste il tuo peplo.
Un'armonia inaudita
congiunse allora nel sogno
la rigidità del tuo marmo
alla flessibile forza
in me viva; e sorsero accordi
senza numero belli
tra i miei spini e i miti divini.

Ma la parola dell'uomo
è tarda in seguir dagli abissi
ai vertici l'avvolgimento
dell'anima alata.
Espressa in ardore di suoni
non ho la figura che nutro
della mia midolla più forte,
o Statua scura pel fronte
sereno del Tempio,
né detto perché la tua fredda
pietra si muti ai miei occhi
nella sostanza infiammata
cui l'arte mia teme e travaglia.
Chi mai dunque sotto il velame
scoprirà l'imagine ascosa?
Forse colui che, esperto
e vigile, ode in un soffio
del vento rivivere i morti,
rigiugnersi le parentele
obliate, sotto l'incauta
prole ansare il sen della Terra.

IX.

E l'Erme prassitelèo
sul fulcro quadrato mi parve

men virile, quasi fior molle
di grazia feminea, quasi
desiderabile amàsio,
andrògina forma venusta,
poi che saziato mi fui
di grandezza e di lutto.
Il torace il ventre ed il pube
non marmo erano ma carne
cedevole. Il nitido capo
dai riccioli corti, recline
verso Diòniso infante,
nella levità del sorriso
e dell'ombre era ambiguo
tra il sogno e la vita, siccome
quel del pastor duplice alato
che guida le anime all'Orco
e il rapito armento al suo antro.
Dai ginocchi agli òmeri in ritmi
leggeri saliva la forza.

Ma, poi che da banda mi trassi
e riguardai, la forza
si palesò nella guisa
che l'arco allentato si tende.
I lombi gagliardi, le cosce
nervose, le reni falcate
e salde, la cervice
robusta eran degni del dio
enagònio. Gravando
sul piè manco il peso del corpo
divino, ei reggeva col braccio
inflesso il pargolo ignudo.
Ei giovine assunto alla forma
perfetta portava il nascente
germe inteso a spandersi in gioia,
a sorgere nella pienezza
dell'essere e della potenza.
Così per visibili segni

raffigurata mi parve
nel Divenire Eterno
l'immortalità della Vita.

«O figlio di Maia» pregai
«figlio dell'Atlantide Maia
dall'affocata faccia,
che onoro notturna fra gli astri
Pleiade dai sandali belli
dal crin di giacinto, che invoco
fra le sue sorelle celesti,
odimi, o Criseotarso,
Amico degli uomini. Scendi
dal fulcro quadrato,
àrmati del pètaso il capo,
allaccia gli aurei talari
ai mallèoli, teco togli
la verga di tre rampolli,
la lunga clamide, l'arpe
lunata, la borsa capace,
e vieni tra gli uomini. Sei
pur sempre il lor nume operoso,
il dio dal gran cuore, l'artiere
infallibile. Vieni!
Udrai e vedrai maraviglie.

O Agorèo, cui piacque
trattar con vólto benigno
i mercatori in piazza
solleciti intorno alle biade
dell'Attica magra, la Terra
è oggi un'àgora immensa
ove non si tendono reti
di belle parole ma guerra
si guerreggia furente
per la ricchezza e l'impero.
Duci di genti son fatti
i tuoi mercatori ingegnosi,

duci inesorabili e insonni
dal breve motto che scrolla
cumuli enormi di forza.
Sul flutto dell'oro
ondeggian le sorti dei regni.
Come l'aere l'acqua ed il fuoco,
fatto è l'oro un periglioso
elemento che ha i suoi nembi,
i suoi vortici, le sue vampe.

O Infaticabile, e sonvi
terre novelle, agitate
dall'alito aspro dell'antico
Ocèano, dove l'umana
opera è qual rabida febbre.
Il vento è qual bronzo che squilli,
il vento è qual riso che rida
qual gioia che canti
su la magnificenza e l'onta
degli atti. Il verbo è una lama
aguzzata a duplice taglio.
La gara, che tu proteggevi
nelle fulve palestre,
divora le vie strepitose.
Gli uomini dalla mascella
belluina e dal mento
di selce màsticano l'ansia
qual foglia amara d'alloro.
La Volontà reca intrecciati
a sé il Dominio e il Piacere
come i serpi al tuo caducèo.

L'Istinto è un impeto sagliente,
un ariete caloroso
dalle inesauste reni,
che si precipita sopra
la vita e l'assale
e la copre e sì la feconda

reluttante o sommessa.
Passan talora su le rosse
città nuvole di speranze,
quasi tempesta di ali;
e s'empion d'un rombo gli orecchi
degli uomini maraviglioso,
ch'è il rombo degli inni futuri.
Le mammelle irrìgue
della Terra moltiplicarsi
paiono alla cresciuta
avidità della prole.
Il Destino toglie da tutti
gli spazii i suoi limiti, vinto
e respinto per sempre
dalla libertà degli eroi.

O Macchinatore, e una stirpe
di ferro, una sorta di schiavi
foggiata nella sostanza
lucente de' clìpei dell'aste
degli schinieri, una serva
moltitudine di Giganti
impigri obbedisce ai fanciulli
e alle femmine, meglio
che su triere veloce
al celeùste la ciurma
unta di olio d'oliva.
E non il flauto né il canto
regola il moto con ritmo
eguale; ma una potenza
che non falla, simile al sano
cuore nel petto dell'uomo,
pulsa in quelle ossature
polite e circola in ogni
membro con giro iterato
accelerando il lavoro.
Gran fremito scuote le case.


M'odi. Il gesto del paziente
ilota, che trita la spelta
o il latte agita nel secchio
o scardassa le lane,
s'immilla ne' ferrei bracci
nelle ruote dentate
ne' lunghi cuoi serpentini
che per girevoli dischi
trascorrono propagando
l'impulso ai congegni sottili
onde l'informe sostanza
esce trasfigurata
come da industria sagace
d'innumerevoli dita.
O Erme, i telai della lidia
Aracne diurni e notturni,
ove come rondini argute
volavan le spole,
travagliano senza canzone
di vergine e senza lucerna,
soli in ordin lungo strependo.

Il sudore d'Efèsto
su la piastra imposta all'incude
profuso, è ormai vano
o Erme, ché nelle fucine,
come la man puerile
incide la tenera canna
o divide le fibre
del cortice lieve, l'ordigno
facile taglia distende
assottiglia fóra contorce
per mille guise il metallo
ammassato in solidi pani.
Odimi, o Inventore.
E i magli, i magli più vasti
delle rupi che il lacertoso
Ciclope scagliò contra Ulisse

tuo caro, invisibile pugno
solleva e precipita in ritmo
agevolmente come
il fanciullo manda e ribatte
volubile palla per gioco.

Gioco di fanciullo era a poppa
del nautico pino il chenisco,
l'anitrella scolpita
nella curva trave spalmata
perché galleggiasse in eterno.
O Erme, nave catafratta
or galleggia e naviga senza
vele né remi. Discende
pel pendìo dello scalo
nel mare compagine eccelsa
come cittadella munita,
corbame e fasciame di ferro
testudinato di piastra
a martello più salda
che orbe di settemplice scudo.
Gran torri soperchiano il vallo.
La carena ha un cuore di fuoco
onde creasi la propulsante
virtù dell'ali marine
che tùrbinan sotto la poppa
tra ruota e timone sommerse.

Atto alla guerra e alla pace,
minaccioso d'armi tonanti
o dei doni onusto che all'uomo
fa la veneranda Demetra,
il colosso equoreo solca
pèlaghi ed ocèani, varca
gli eurìpi i bòsfori i sacri
istmi che l'uom frale recise
come tu dio con l'arpe
il collo d'Argo tutt'occhi.

Oltre le Caspie Porte,
oltre l'Atlante ove il coro
delle Esperidi per sempre
si tace, oltre la piaggia
del Cinnamomo trapassa.
Lascia l'iperbòreo lito
ove non più danza e canta
Apolline dall'equinozio
di primavera insino
al levar delle Pleiadi
re dei conviti soavi.

Di Taprobane a Ierne
di Cerne all'Ocèano Eoo
la sua scìa grande orla i lembi
di quel mondo che t'appariva
nel volo, o Alipede, quale
macedone clamide stesa.
Ma di là dalla piaggia d'Eea,
di là dall'estremo Occidente,
ove Elio sommerge i cavalli,
trapassa ad attingere un altro
mondo che sotto altre stelle
si giace in duplice forma,
simile a un'ala d'uccello
e simile a un'orsa poggiata
le zampe nell'artico gelo.
E il certo piloto
disegna nell'acque un cammino
ben cognito a tutte le prore,
sì che traccia su traccia
persistevi qual nelle vie
frequenti il solco dei carri.

O Egemonio, m'odi.
Nel mare è il certame dei regni.
Il mare implacabile prende
e scevera, senza fallire,

le virtù delle stirpi
nel tempo. Più della terra
antico, nudrito di morti
ma di nascimenti fecondo,
più della terra è bello,
più della terra è sicuro.
I morti non rende, ma rende
l'amore a chi l'ama tenace.
La Speranza che stette
al fianco dell'uomo animoso
curva su la rate pelasga,
la selvaggia compagna
cui contra l'occhio aguzzato
la palpebra rossa
arrovesciavano i vènti,
or fatta è donna imperiale
Thalassia nomata su i vènti.

Nel trono ella sta d'Amfitrite.
Catenata sembra la Gloria
tra le sue tempie. Il suo seno
è una primavera anelante.
Il suo palpito si ripercuote
dai golfi e dai bòsfori azzurri
del Mediterraneo Mare
sino ai promontorii nimbosi
della barbarica Ierne.
Bùccine di mille Tritoni
non vincono il chiaro clangore
della sua tromba di bronzo.
L'odono i popoli forti:
cantando l'inno dei Padri,
spingon rivali nel flutto
ruggente le navi di ferro;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.
Polèna a ogni prora novella
è il cuore vermiglio dell'uomo

inalzato sopra la Morte.

Odimi, o Enagonio.
Il Taigeto ha i segugi
più ardenti; ha Sciro le capre
dalle mamme irrigue di latte
più pingue; Argo, le armi;
Tebe, i carri; ma la Sicilia
ferace dà le quadrighe
magnifiche, i bene bardati
corsieri dal piè di tempesta.
Ne' tuoi stadii l'asse tutt'oro
guizza come folgore in nube.
La Rapidità dalle nari
di fiamma par su le tue mete
lasciar vestigia d'incendio.
Ierone di Siracusa,
Senòcrate di Agrigento,
Cromio d'Etna, fior di Sicilia,
contendon la palma agli Elleni.
Pindaro diademato
offre agli eroi trionfali
la grande coppa dell'inno.

Non l'ebrietà della strofe
né fronda di quercia d'olivo
di pino s'attendono, o Erme,
i conduttori dei carri
igniti cui circo e vittoria
è l'Orbe terrestre! Nel pugno
non reggon le redini anguste,
non figgono alle cervici
dei cavalli lo sguardo.
Governano ordigni più snelli
che il tèndine equino
ma possenti più ch'epitagma
scagliato nella battaglia.
Scrutano lo spazio ventoso,

i piani i fiumi i monti
che valicheranno. Obbedisce
il pulsante metallo
al tocco infallibile. Foschi
son gli intenti vólti, notturni
come il vólto di Ade re d'Ombre
che trae Persefóne piangente.

Traggono il pianto e l'affanno
degli uomini i lor negri carri,
il male degli uomini stretti
e misti nell'alito impuro,
il dolore e tutti i suoi frutti
sopportano, o Erme, il piacere
e i suoi fiori senza radici,
e l'avida gioia
e il desiderio feroce
e gli inestricabili nodi
delle anime chiuse nei corpi
ignavi, e gli intorpiditi
crimini dall'unghie rattratte,
e le volontà rilucenti
nei sogni come in guaine
diàfane, e l'opere nate
da ieri, e i messaggi dei cuori
fraterni, e la copia dei beni
giocondi trasportano, o Erme:
le rose dei liti solari
al gelo dell'Isole Scàndie.
Tonando passano, in lungo
ordin su cento e cento ruote
concordi, con nubi e faville
per traccia, passano a vespro
nei piani onde fuma sommossa
dal diurno travaglio
la fecondità delle glebe.
Sùbita s'aderge in orgoglio
la stanchezza dell'uomo

e guata la porpora immensa
del cielo, ove come in sanguigna
promessa di vita più bella
par che s'addentri col peso
la creatura dell'uomo.
Cade la notte. O perla,
o lacrima d'Espero ardente!
S'accendono i fari. Nei porti
le ciurme si scagliano all'orgia.
Le città splendono di febbri
come un astro è cinto di aloni.
Col rombo il tràino amplia la notte.

Odimi, precipite Nunzio,
alto Messaggero celeste.
L'aere notturno e diurno
palpita di umani messaggi.
Commessa al silenzio dell'Etra
la parola attinge i confini
remoti. Serpeggia silente
pei bàratri equorei, sotto
i nettunii pascoli; emerge
lungi perfetta nei segni,
narra gli eventi, conduce
le imprese, congiunge le stirpi,
infèrvora i forti alla gara.
La voce, la voce sonora,
formata dal labbro spirante,
in cavo artificio s'ingolfa,
di sillaba in sillaba vibra
tacitamente lontana,
ravvivasi come in profonda
bùccina e favellare
l'ascolta l'orecchio inclinato.

O Viale, come le vene
per entro ai marmi di Sparta
e del Tènaro folte

son le vie frequenti e insuete
ond'è variegata la Terra.
Ma la mobile fiamma,
che tu eccitavi nel petto
del viatore, divampa
e grandeggia in cuor dell'eroe
novello che vede la Gloria
accosciata come la Sfinge
nell'immensità dei deserti
o presso le occulte sorgenti
dei fiumi o su i mari di gelo.
Non di parole tebano
enigma propone la belva
ma chiede, o Erme, la chiave
sacra che vedesti nel pugno
dell'antichissima Gea!
D'ossa lùcono i milliari
degli spaventosi cammini.

O Citaredo primo,
tu il bene che supera tutti
désti all'uomo quando la cava
testudine nata nei monti
facesti sonora, le canne
trasverse inserendo nei fóri
tra l'un margine e l'altro,
poi sul graticcio spandendo
la pelle di bue, configgendo
a sommo del guscio i due bracci,
questi poi giugnendo col giogo.
Tra l'osseo giogo e l'estremo
labbro della scaglia montana,
come il nervo tra i corni
dell'arco, tendesti minuge
di agnelli bene attorte.
Sette ne tendesti, o figliuolo
di Maia, per onorare
le Pleiadi belle nell'Etra.

E la tua cheli selvaggia
fu compagna al canto dell'uomo.
Or l'uomo, emulando gli audaci
tuoi spiriti, seppe di legni
di nervi di crini di pelli
d'avorii di metalli
una multiforme crearsi
e multànime gente
canora che popola e gonfia
la profonda orchestra occultata,
ove non più la thyméle
santa òccupa il centro del cerchio
né più presso l'ara l'aulete
dalla phorbéia di cuoio
col duplice flauto accompagna
le strofe e la danza corale.
E non il cristallo del cielo
né il sinuoso velario
acceso dai raggi s'allarga
su la moltitudine intenta;
ma simile ad alto sepolcro
è il notturno teatro
concluso e in sé stesso rimbomba.

Come nei mari le prime
onde squammose all'urto
dell'euro inarcan le schiene,
s'ergono e spumano, il rugghio
e il tuono avvicendano a corsa,
di procella tumide in vasti
cumuli precipitando
con un rapimento improvviso;
come nei boschi le prime
faville accendono i coni
aridi, le morte frondi,
crescono in pallide fiamme,
serpeggian pe' vepri, gli arbusti
mordono, il cuor selvaggio

attingono carco d'aromi,
conflagrano subitamente
fragorose verso la nube,
irraggian per tutta la valle
il fulgore e il terrore;
così dall'orchestra prorompe
l'impeto sinfoniale.

O Maestro dei Sogni,
m'odi. E i Sogni inani, i tuoi lievi
simulacri della quiete,
le tue mute imagini erranti,
giganteggiano a un tratto
con vólti di bragia,
s'armano d'una ossatura
erculea, grande hanno il fiato
e polsi hanno violenti
per stringere l'anima umana
e scuoterla dalle radici
e svèllerla e darla al ludibrio
dei desiderii! E l'Amore,
o Erme, il giovinetto cnidio
triste come un rogo consunto
ascolta per entro a' capegli
che sono un unguento stillante;
languisce in un freddo sudore;
poi vuota la tazza che gli offre
la Morte, ove tutti i piaceri
spremuti fanno un sol tòsco.

Padre d'Ermafrodito,
non tu creasti l'oscuro
Andrògino al far della notte,
ebro di melodìa
in un torrente di suoni
premendo l'amata da tutti
Anadiomene d'oro?
Noi anche, ahi sì brevi, sul lito

d'Eternità sognammo
le mescolanze vietate,
sdegnando di saziarci
pur sempre con la dolcezza
dei consueti giacigli.
L'opera attendemmo diversa,
nata da un'incognita febbre,
fatta di dolore e di gioia,
pallida di ricordanze
ma di presagi animosa,
recante in sé la promessa
e il compimento, sorella
delle Stagioni divine.

O Psicagogo, se all'Ade
squallido condurre dovessi
tu l'anima mia, se condurre
dovessi tu l'Ombra del mio
canto su l'asfòdelo prato
incontro a Saffo sublime
dal crin di viola che forse
m'attende, alla riva del Lete
t'indugeresti, io penso,
vedendo in me trasparire
queste tante ignote ricchezze.
E direbbemi alate
parole la tua maraviglia:
«Ombra, per la luce soave
onde vieni, sosta, ch'io miri
da presso la tua opulenza.
Come arbore sei, che curvato
abbia lungamente i suoi rami
nel lidio Pattòlo e gravato
ne sorga e si mesca il metallo
regale alla polpa dei frutti.

Tanto adunque sopra la Terra
deserta d'iddii può la vita

anco esser ricca, Ombra d'aedo?
Parte alcuna in te riconosco
di ciò che fu nostro, se indago;
ed è la tua parte di gioia,
la tua purità sorridente.
Ma innumerevoli sono
le cose novelle che ignoro,
e le geniture dei mostri
che pur non sembran pesare
alla levità del tuo passo.
Ombra, non sarà che tu getti
questa abondanza all'oblìo.
Non varcherai la riviera.
Qui farai sosta con meco.
Proteggerti vuole il Parente
della Cetra; ché forse
talor ti sovvenne del dio
Intercessore ed alcuna
dottrina apprendesti da lui.

Di congiugnimenti maestro
fui, di concordie divine
compositore sagace,
perito d'innesti immortali,
per moltiplicar la mia forza,
aedo, e la mia conoscenza.
Penetrabile fui e fecondo.
Come nella mia dolce Arcadia,
dopo il verno, ai tepidi giorni
quando muovon le gemme,
il colono fende la scorza
dell'arbore e v'incastra la marza
acciocché in essa si alligni:
la pianta inframmessa le vene
sparge nell'altra e s'appiglia;
vigoreggia il succhio, il sapore
del frutto si fa generoso:
così, con arte inserendo

nella mia sostanza diverse
deità, m'accrebbi di varia
potenza, molteplice ed uno.

La verginità cruda e invitta
di Pallade a me collegata
mi fece più destro in trar prede,
e nella tetràgona pietra
io fui pe' mortali Ermatena.
Al Cintio lungescagliante
ond'ebbi la verga trifoglia,
cui diedi la cheli soave,
mi strinsi con patto fraterno;
e quindi Ermapòlline fui.
Infondermi il sangue feroce
dell'uccisore di mostri,
dell'eroe muscoloso
dalla fronte angusta, volli io
Argicida; e fui Ermeràcle.
E con altri iddii mi confusi;
né sdegnai gli iddii bestiali,
dalla testa di cane, dal becco
di sparviere, dalle mascelle
di leone, estrani, onde fui
Ermanubi, Ermitra, Ermosiri.

Ma da due comunanze
m'ebbi più gran copia di forze
segrete e di gioie profonde
e di visioni sublimi,
Ombra d'aedo che ascolti.
M'accomunai con l'Amore,
col nume che fu nel principio,
che sarà nella fine.
Con Eros confusi il mio sangue,
col bellissimo fiore
cui era devota la schiera
sacra degli efebi tebani;

e fui pe' mortali Ermeròte.
M'accomunai col Silenzio
io signor del discorso
ornato, dell'insidiosa
facondia. Ermarpòcrate fui,
col dito premuto sul labbro
eloquente; ma tenni
ai miei piedi il vigile gallo
che col grido annunzia l'aurora.

Così tutto attrassi e composi
in me, tutto abbracciai,
di congiugnimenti maestro,
perito d'innesti immortali.
Or io mi penso, Ombra d'aedo,
che ben conoscesti quest'arte
tra gli uomini se cumulata
hai tanta ricchezza
nell'anima tua giovenile.
Per ciò ti concedo che sosti
sul lito del fiume torpente
e d'umane cose favelli
col dio. Non bevere l'onda
obliosa, ma, se la sete
ti arda, io voglio offerirti
il pomo granato che aperse
Core, di Demetra la figlia
pura, con le chiare sue dita.
Ne prese tre soli granelli:
Aidòneo re sorridea.
Bella era la bocca di Core».

E io ti direi rispondendo:
«O Intercessore benigno,
poiché tu concedi ch'io teco
favelli alla riva del Lete
io tutte le cose dell'uomo
ti svelerò, esule dio.

Ma soffri che un'Ombra d'aedo
interroghi l'alto Parente
della Cetra! Ermerote
io ti chiamerò, Ermerote,
bel sangue commisto d'Amore.
Tu conducevi Euridice
per mano su i violetti
asfodilli, e Orfeo t'era innanzi
coronato di cipresso
e di mirto il capo suo d'oro.
E intorno era sacro silenzio
ma ad ogni passo silente
gemere s'udia la gran cetra
sospesa al fianco d'Orfeo...
Non così fu, Ermerote?

Sentisti tu tremare
la man di colei che traevi
dall'Ade su i cari vestigi?
E obliato non hai ogni altro
tremito di carne mortale
tu che i miseri uomini ignudi
avvincevi ai supplizii?
Intorno era sacro silenzio,
ma s'udia nel Tartaro lungi
rombare la ruota aspra d'angui
cui tu avvincesti Issione.
Ed ei si volse, ei si volse,
Orfeo si volse! La donna
perduta fu, dallo sguardo
perduta! Ritrarla dovevi
nelle inesorabili fauci.
Mirasti i due vólti, e quegli occhi?
Euridice! Orfeo! Notte eterna.
Ah parlami di quel dolore,
di quella bellezza, Ermerote!
E poi fa ch'io beva l'oblìo.»

Un prezioso ed interessante documento autografo del grande poeta indirizzato ai suoi compagni d'armi e che rappresenta un'interessante fonte per lo studio del singolare ed intenso coinvolgimento di D'Annunzio nelle vicende belliche e per una più approfondita conoscenza del suo complesso profilo umano e letterario.