Trama del Poema
È l'opera intorno a cui il Monti lavorò più lungamente, poiché vi pose mano nel 1784, al tempo del suo soggiorno in Roma, e vi tornò sopra per aggiungere, correggere, mutare e rimutare, fino agli anni estremi; malgrado ciò il poemetto, pubblicato la prima volta a Milano nel 1832, ci è giunto incompiuto, diviso in tre canti che abbracciano circa duemila endecasillabi.
È opinione diffusa che il poeta si sia indotto a comporlo per desiderio di celebrare il tentativo, compiuto dal pontefice Pio VI, di prosciugare le paludi pontine; un tentativo non nuovo, che era già stato di consoli e di imperatori romani. Ma se tale può essere considerato l'avvio occasionale dell'opera, al modo medesimo in cui l'editto di Saint-Cloud lo fu forse per i Sepolcri di Ugo Foscolo, ben altri interessi urgevano nell'animo del Monti; si offriva a lui infatti l'occasione di immergersi, di calarsi nel mondo favoloso dei miti, il mondo più vero della sua poesia.
Immagina il poeta che vivesse presso Terracina, all'alba della vita e del mondo, una leggiadrissima ninfa, Feronia, schiva di nozze, solo innamorata dei fiori che crescevano per sua cura in quella terra; fiori delicati, gentili, cui si aggiungeva il profumo dei cedri e del melograno, mentre i salici piangenti parevano piegarsi alla terra come per atto d'amore. La dolce Feronia fu vagheggiata perfino da Giove, ed a lui, apparsole in forma di giovinetto, corrispose: divenne così dea, adorata da molte popolazioni, mentre intorno ai suoi giardini sorgevano ricche e popolose città. Ma ciò suscitò la gelosia di Giunone, che, dopo aver cacciato la rivale, riversò nei luoghi fioriti di primavera la furia di molti torrenti, l'Ufente, l'Astura, il Ninfeo. Le acque irruppero nella campagna, allagando e distruggendo: non rimase che un paludoso deserto, una distesa di terra senza vita. Nella tempesta perirono anche Timbro e Larina, giovinetti a cui sorrideva prossimo il giorno del'e nozze.
Da tanta devastazione, da così grande rovina era scampato solo il bosco di Feronia; ma l'inesorabile Giunone, aiutata questa volta da Vulcano, fece sì che gli zolfi e gli asfalti sotterranei, accesi dalle scintille del dio, esplodessero con terremoto orrendo, e che ogni cosa fosse divelta, frantumata, che delle città non restassero se non miseri avanzi.
Non rimase infatti che una landa sterile, una terra senza più case, senza più abitatori; unico, volle la Parca risparmiare il cane Melampo, una sorta di novello ed infelicissimo Argo, che, immemore del cibo, fra le macerie ricercando a lungo I andò col furto il suo signor sepolto.
Dall'alto dell'Olimpo, Giove volse allora lo sguardo alla valle divenuta un mare di limo, una spenta palude, e comandò a Mercurio di discendere sulla Terra per salvare almeno il tempio della dolce Feronia; per suo volere, sarebbe sorta colà una stirpe di eroi, dominatori del mondo, e vi avrebbero avuto il culto tutte le divinità dell'Olimpo. Intanto Feronia, scacciata da Giunone, dopo esser caduta semiviva al piede di un'elce, viene accolta nella casa del contadino Lica, dove si reca Giove stesso per confortarla, e per profetizzarle che sarebbero risorte le città distrutte ed innalzati a lei nuovi altari: dapprima per opera di alcuni illustri romani, Appio, Cetego, Augusto, infine per desiderio di Pio, un pontefice che diran Pio le genti, e di quel nome / sesto sarà.