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L’Iliade è la sola epopea che ci sia restata di un patrimonio certamente cospicuo: nell’ VIII secolo prima della nostra Era, periodo del “Rinascimento greco”, l’organizzazione delle Città si accompagna ad un culto degli eroi antichi destinato a dare a ciascuna di esse prestigio e legittimità nelle sue intenzioni egemoniche. L’Ionia non lontano da Troia, dove i greci si sono insediati, sviluppa una cultura particolarmente dinamica, in particolare con la composizione di grandi poemi in esametri dattilici. È in quest’epoca senza dubbio che iniziano a circolare ovunque in Grecia delle versioni diverse dell’ Iliade. L’aedo (cantore orale) agente essenziale di questa circolazione, è un tipo di poeta cantore che attinge ad un repertorio antico ed improvvisa in modo più o meno creativo su formule prefissate. Omero fu uno di loro? Non ne sappiamo abbastanza per affermarlo o negarlo con certezza. In qualsiasi caso, la composizione dell’Iliade sembra più elaborata di ogni altra poesia trasmessa dalla tradizione orale, anche se il testo che conosciamo è stato oggetto di trascrizioni e di tagli tardivi operati dai dotti alessandrini del III e del II secolo. Questi diversi livelli temporali spiegano senza dubbio il fatto che ci sia ancora difficile percepire la vera intenzione dell’Iliade. La guerra di Troia (Ilio), di cui il pretesto è il ratto di Elena, sposa del re greco Menelao, da parte del troiano Paride, dura da nove anni quando comincia l’Iliade. Il poema non racconta né l’inizio né la fine dell’assedio di Troia da parte degli Achei: si concentra su fatti che si dispiegano su cinquantuno giorni focalizzando il racconto sull’ira di Achille e lo sviluppo degli eventi all’atto in cui egli, dopo un periodo di rinuncia alla lotta, riprende le armi per vendicare la morte dell’ amico Patroclo con conseguente morte di Ettore, quindi restituzione del suo corpo a Priamo. Le circostanze della sconfitta di Troia saranno riportate nell’ Odissea e soprattutto nell’ Eneide di Virgilio. Scrittura dell'Iliade Colpisce inizialmente l’elaborazione già “moderna” dell’epopea, segno di un intervento personale su quel che costituiva un corpus di canti tradizionali: il restringimento considerevole dell’argomento alla rabbia di Achille su una cinquantina di giorni concentra tutti gli effetti su una crisi e gli dà con il suo ferale sviluppo (la morte di Ettore) la sua conclusione e la sua morale. Il ritmo drammatico, che alterna analessi (racconto all’indietro sull’origine della guerra) e prolessi (anticipazioni sulla morte di Achille o la rivelazione da parte di Zeus sugli esiti del combattimento), mantiene vivo sapientemente l’interesse del lettore. La scrittura resta tuttavia segnata dalla tradizione dei recitativi orali degli aedi: le formule immobili (l’alba dalle dita di rosa), le scene tipiche (l’armamento dell’eroe, l’oltraggio al cadavere) corrispondono a questi riferimenti che permettevano all’ aedo di tenere il filo della sua narrazione ed al suo pubblico di seguirlo. Il lettore moderno troverà molto ripetitivi gli epiteti omerici che ricordano la genealogia degli eroi (pelide, atride etc) o gli aspetti fisici (lunga chioma, guance rosee, bianche braccia etc), e trascurerà a torto la loro importanza anche poetica. Poiché il posto accordato alle indicazioni genealogiche nel racconto dell’Iliade non deve sembrare semplicemente descrittivo o decorativo. Non soltanto identificano i personaggi, alla stregua del loro nome e la loro patria, ma li situano anche nei vari insiemi che formano il mondo omerico: dalla menzione di una relazione di parentela (Atridi, Pelidi, etc) deriva tutta una serie di altri legami di sangue, ai quali corrispondono legami sociali. La genealogia e i patronimici assegnano dunque implicitamente ad ogni personaggio una posizione particolare nel mondo eroico, e, perciò, contribuiscono a determinare il suo ruolo specifico nell’azione epica. L’impegno personale degli eroi nella lotta, per amicizia o per odio; la necessità di meritare la propria timè (onore) esprimendo il proprio valore, sono infatti i motori dell’eroismo. Quando enuncia la genealogia dei prìncipi, il poeta prepara, sottolinea, giustifica le azioni che sono oggetto della sua narrazione. Ridurre i richiami di parentela alla loro funzione descrittiva, vorrebbe dire dunque privarsi del loro potere poetico e privare il racconto di uno delle sue ossature fondamentali. Così anche l’enumerazione, il catalogo (ad esempio quello delle navi nel II libro) arrestando l’azione nei fatti la preparano; sono comunque esempi (non estranei anche alla Bibbia) di magnificazione e di solennità, tipiche della narrazione arcaica, che irretiscono e ipnotizzano ancora oggi il lettore. C’è chi ha sostenuto, a ragione, che chi non ama il catalogo delle navi dell’Iliade ( o le geneaologie del Vecchio Testamento) non ama la letteratura. Nel narrare arcaico tali ripetezioni hanno dunque una funzione iterativo-lirica: restituiscono intatto il fascino della narrazione orale, la loro funzione narcotica tesa a stordire l'ascoltatore (poi lettore), a favorirne la "sospensione dell'incredulità", ad uncinarlo definitivamente, a inscriverlo nel cerchio magico della narrazione. Le caratteristiche generali di questa scrittura sono certamente molto fedeli alle grandi leggi del genere epico (magniloquenza, gusto del meraviglioso: si osservi particolarmente la lotta di Efesto e di Scamandro nel Libro XXI). Ma si resta colpiti dalla ricorrenza di immagini naturali ed animali per esprimere l’ardore guerriero quanto dal realismo grandioso dei massacri. Queste comparazioni, queste descrizioni hanno lo scopo di impaesarci in una furia barbara nella quale il guerriero rinnega la propria umanità e, vittima e protagonista ad un tempo delle leggi spietate della natura, si avvicina allo stato ferino. Questa atmosfera eroica e bestiale, tipica della furia achillea, che però non è del tutto collimante col personaggio “umano” di Ettore (una moglie, un figlioletto in tenera età, un padre in età avanzata), sembra trovare da parte del poeta una sanzione morale che può trovare la sua piena giustificazione soltanto nella chiusa finale in cui l’eroismo è chiaramente definito come una vittoria guadagnata su sé stesso. Così la scrittura partecipa di una ridefinizione dei medesimi valori eroici. Gli Eroi La società arcaica è fortemente gerarchizzata. Al vertice sono posti dei re regionali (basileus), signori di fondi rurali, che formano una ristretta aristocrazia il cui privilegio è la funzione guerriera. La spedizione achea dell’Iliade è diretta da uno di loro, Agamennone, perché ha fornito il più grande contingente (cento navi), e soprattutto perché il suo scettro viene da Zeus stesso. Egli solo ha il carisma della sovranità. Gli altri re traggono la loro legittimità dalla loro forza e dalla stirpe dinastica da cui discendono. A Troia, la situazione non è affatto diversa: l’ordine della città è organizzato attorno al vecchio re Priamo. Tutti questi guerrieri obbediscono a valori fondamentali: themis (l’ordine delle cose, ciò che la consuetudine comanda o proibisce), timè (l’onore che situa ogni guerriero nel rango che si è meritato, col proprio merito più che con la nascita), e gli obblighi verso gli dei (i sacrifici). Questi valori garantiscono la coesione del gruppo e l’uguaglianza delle loro prerogative, anche se la qualità particolari del guerriero può farglieli trasgredire (così la rabbia di Achille contro Agamennone). Ma nell’insieme, le loro relazioni sono comandate dal cameratismo e della fedeltà, simboli di un ordine di cui Marthe Robert ci dice che l’enunciato è il primo scopo dell’epopea. I combattenti dei due campi stessi si battono nello stesso modo ed hanno gli stessi dei; entrano in uno stesso gioco, che li vede affrontarsoi come due potenze opposte, ma strettamente collegate: I Greci (Achei, la più importante famiglia etnica, Argi, Danai) Agamennone “protettore del suo popolo”, figlio di Atreo, re di Micene e di Argo, capo della confederazione achea. Di solito nominato Atride “glorioso, re dei guerrieri”. Menelao “il biondo”, fratello di Agamennone, il re dei Lacedemoni (Spartani). Achille “dal pie’ veloce”, Figlio di Peleo e della dea Teti, re dei Mirmidoni. La sua rabbia, all’inizio del poema, il suo ritiro scontroso dal combattimento quindi il suo ritorno per vendicare della morte del suo amico Patroclo, è il vero argomenti dell’Iliade.(Esplicitato nel “Proemio: «Cantami o Diva del Pelide Achille, l’ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei», etc) Ulisse “l’abile” o “l’artefice”, figlio di Laerte, re di Itaca. Si segnala per la sua astuzia e l’abilità della sua eloquenza. Aiace Telamonio, re di Salamina. Patroclo amico di Achille. Idomeneo vecchio re di Creta. Nestore, il più vecchio di tutti, ma anche il secondo per contributo di navi (80), re di Pilo. Svolge il ruolo di saggio consigliere. Diomede figlio di Tideo, amico inseparabile di Ulisse I Troiani (detti anche Teucri, ed i loro alleati Dardani e Lici) Ettore, “dall’elmo scintillante”, figlio del re Priamo e della regina Ecuba. Manifesta una grande umanità. E' ucciso da Achille. Con la restituzione del suo cadavere al padre Priamo termina il poema. Priamo re di Troia, vecchio uomo indebolito ma pieno di bontà, il cui maggior eroismo consiste senza dubbio nel dispiacere di vedere morire molti dei suoi figli (tredici l’ultimo anno dell’assedio, di cui tre in uno solo giorno). Pirro figlio di Achille, li massacra su un’ara durante il sacco di Troia. Paride (o Alessandro), fratello di Ettore. È all’origine del conflitto avendo sottratto Elena di Sparta a Menelao. Guerriero non proprio temibile, è soprattutto noto per la bellezza. Enea “consigliere dei Troiani”, figlio di Afrodite e di Anchise, capo del Dardani. Sopravvivendo al sacco di Troia, è all’origine della fondazione di Roma (Virgilio, Eneide). Sarpedonte figlio di Zeus, capo del Lici. Glauco amico di Sarpedonte. Gli dei Sono chiamati “eroi” nell’Iliade a volte tutti i guerrieri, a volte soltanto i più coraggiosi, i capi. In realtà appaiono come “eroi epici” quelli a cui il poeta ha dato la gloria attraverso i suoi canti. Ma questi eroi cantati dagli uomini a causa delle loro imprese sono gli stessi che sono oggetto di una benevolenza divina. La guerra epica non può concepirsi per i greci senza gli dei, ed occorre dunque, per comprendere il senso dell’impresa eroica, misurare il ruolo degli dei nell’azione e la loro solidarietà con il destino. Chi sono gli dei di Omero? Non si tratta di dei trascendenti, esterni al mondo: creati da potenze primordiali, non sono né eterni, né onniscienti, né onnipotenti. Gli dei dell’Olimpo formano una società che riproduce o prolunga la società umana con la sua gerarchia. Si distinguono tra loro per la differenza di grado di potere di cui ciascuno dispone, ma anche per gli ambiti diversi dove questa potenza può esercitarsi (il mare, il sottosuolo, le montagne, i boschi etc). Sono inoltre abbastanza diversi per conoscere rivalità. Il conflitto tra Achei e Troiani li divide in funzione delle loro affinità con l’uno o l’altro campo, ed anche in funzione dei loro rancori: Atena ed Hera, ad esempio, si schierano logicamente contro il troiano Paride che ha preferito loro Afrodite (nel famoso certame sulla bellezza delle tre dee). Così il combattimento degli uomini segue, nella sua incertezza, l’evoluzione dei dissidi che oppongono gli dei. Poiché “gli dei sono là, a stringere sui due eserciti il nodo della lotta brutale e del combattimento che non salva nessuno, nodo che non si scioglie ma si rompe, e che rompe le ginocchia a centinaia di combattenti”. (Libro XIII). Mai come nel Libro XX, queste “fazioni” appaiono incerte: Apollo ha contribuito alla morte di Patroclo, e Zeus, diviso tra i due eserciti, è questa volta irritato alla vista di Ettore con le armi di Achille. L’assemblea degli dei sembra a questo punto come un sommario delle forze offerte agli uomini prima che il ritorno di Achille dia una svolta decisiva alla battaglia. PRO- ACHEI – Poseidone, Atena, Hera, Hermes Efesto PRO- TROIANI– Apollo, Ares Afrodite, Artemide, Scamandro Gli interventi degli dei nel combattimento degli uomini rivelano questa presenza immanente. L’uomo omerico avverte la presenza degli dei sotto forma di impulsi improvvisi, di impulsi irrazionali, d’ardore guerriero o sotto forma di innamoramento, come anche di terrore o di vergogna. I modi d’intervento sono molteplici: indiretti, sotto forma di presagi, di sogni, il cui scopo è di illuminare gli uomini su ciò che loro accadrà o di comunicare loro la volontà divina; diretti, che costringono gli dei a nascondersi e a svelarsi tramite i loro caratteri particolari (così la mobilità di Atena contrasta con il carattere relativamente sedentario di Apollo). L’intervento degli dei si manifesta anche con i dibattiti innumerevoli che li oppongono sull' Olimpo: così i combattimenti dell’Iliade non si decidono tra uomini che calcolano, combinano, prendono una risoluzione e la effettuano, ma tra gli dei che si occupano senza tregua degli uomini e riescono sempre ad imporre la loro volontà. Gli dei si occupano d’altra parte più delle loro relazioni interne che del destino degli uomini: se li aiutano o li combattono, è spesso per regolare questioni strettamente interne all’ Olimpo (così Zeus scatena spesso la sua furia contro gli Achei perché furioso contro Hera). Ci si può chiedere se questi interventi vanno nel senso della giustizia. Zeus non agisce mai da giustiziere né da riparatore di torti. Per gli umani, l’azione degli dei può sembrare assurda o terribile. Ma dire che è immorale va nel senso di una valutazione antropomorfa dell’opera poiché oltre a questa dimensione etica, non si può trascurare la dimensione sacra del mito: il mondo degli dei è posto fuori dal controllo dell’uomo. In quest’ottica, gli dei non sono né morali, né immorali: sono gli dei. Benefici o malefici, ostili o tutelari, incarnano il volto incontrollabile del destino. La relazione degli dei col destino merita del resto di essere precisata. Il termine utilizzato nell’ Iliade è quello di “Moira”, che significa la dote assegnata ad ogni uomo, in termini di vita, di felicità e di disgrazia. Si tratta anche del destino attribuito a tutti gli umani: la morte. Ma Moira non è né destino, né predestinazione: limita la libertà umana, non la impedisce. Di più: se la libertà degli dei consiste precisamente nel fatto che accettano decreti del destino che hanno, contrariamente ai mortali, solo il privilegio di conoscere (ma non di contrastare), la libertà degli uomini consiste soltanto nel grado di accettazione di questo destino - anche controvoglia- cercando di farne il miglior impiego, tenuto conto che, quando la loro “ora” sarà scoccata, è soltanto nella memoria delle generazioni future che potranno sperare di sopravvivere. L’eroe è così il simbolo dell’uomo libero, cioè interamente uomo: colui che trionfa sulla morte e sul destino quanto lo può un mortale, non sfuggendogli, neppure sfidandolo in modo puerile, ma al contrario accettandone allo stesso tempo il rischio e la necessità. Ma questo privilegio è anche un onere ed un pericolo: un onere, perché è fonte d’angoscia e assegna una responsabilità; un pericolo, perché crea l’illusione dell’invulnerabilità e dell’onnipotenza, e dunque la tentazione di trasgredire le leggi della phusis (natura), volere invertire il corso dei fiumi, è peccare dunque di ubris (orgoglio e resistenza al destino) eccesso inevitabile con il quale gli eroi mortali, lungi dall’ eguagliarsi agli dei, cadono più in basso dell’uomo, annullano la loro differenza specifica, perdono la loro libertà, e cadono in schiavitù, nella barbarie e nella bestialità. Limite della libertà, la Moira è dunque allo stesso tempo la sua condizione di possibilità: crea lo spazio dove questa può spiegarsi e dove i mortali incontrano gli dei. È scritto infatti molte volte nell’Iliade che sono gli dei che fissano il destino degli uomini, ma gli dei non possono agire arbitrariamente contro il destino: possono soltanto sottoporvisi. Così Zeus vorrebbe salvare suo figlio Serpedonte, ma Hera lo avvisa del disaccordo di tutti gli altri dei. Inoltre desideroso di salvare Ettore, ricorre alla bilancia d’oro, che condanna l’eroe troiano, e deve obbedire. Agisce in ciò per preservare l’ordine dell’universo e non minacciare la coerenza che segna la sua supremazia. Questo limite nel potere degli dei ha una ripercussione importante sui valori eroici, poiché non si vede come un umano totalmente agito dal favore o dalla condanna divina possa esprimere le virtù che lo fanno eroe. Un passaggio significativo ci è offerto con la morte di Patroclo. L’amico di Achille constata infatti: «Ciò che mi ha battuto, è il destino sinistro (Moira); è il figlio di Leto (Apollo), è anche, tra gli uomini, Euforbo». Lo stesso evento può ricevere diverse interpretazioni secondo i livelli di reale che rispecchia. L’eroismo omerico è dunque funzione di queste tre forze che pesano sugli uomini: il destino, gli dei, gli umani, ed è in questo punto di incrocio che si manifesta la loro Aristia. L’aristia L'Aristia (aristeia) una delle grandi caratteristiche dell’Iliade, è l’affermazione di una superiorità tutta personale. È una serie di imprese compiute da un capo che si lancia con furia sulla massa dei nemici. Amplificata dal metodi propri alla retorica epica (magnificazione dell’eroe, ingrossamento del numero dei nemici, ampiezza delle metafore)
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l'alto consiglio s'adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille. E qual de' numi inimicolli? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d'Atride che fece a Crise sacerdote oltraggio. Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l'aureo scettro dell'arciero Apollo: e agli Achei tutti supplicando, e in prima ai due supremi condottieri Atridi: O Atridi, ei disse, o coturnati Achei, gl'immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade, e salvi al patrio suol tornarvi. Deh mi sciogliete la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante figlio di Giove rispettate. - Al prego tutti acclamâr: doversi il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. Ma la proposta al cor d'Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accommiatollo, e minaccioso aggiunse: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia più ti colga io mai; ché forse nulla ti varrà lo scettro né l'infula del Dio. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all'opra delle spole intenta, e a parte assunta del regal mio letto. Or va, né m'irritar, se salvo ir brami. Impaurissi il vecchio, ed al comando obbedì. Taciturno incamminossi del risonante mar lungo la riva; e in disparte venuto, al santo Apollo di Latona figliuol, fe' questo prego: Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador, Smintèo, deh m'odi. Se di serti devoti unqua il leggiadro tuo delubro adornai, se di giovenchi e di caprette io t'arsi i fianchi opimi, questo voto m'adempi; il pianto mio paghino i Greci per le tue saette. Sì disse orando. L'udì Febo, e scese dalle cime d'Olimpo in gran disdegno coll'arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all'irato un tintinnìo al mutar de' gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l'arco d'argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire. Nove giorni volâr pel campo acheo le divine quadrella. A parlamento nel decimo chiamò le turbe Achille; ché gli pose nel cor questo consiglio Giuno la diva dalle bianche braccia, de' moribondi Achei fatta pietosa. Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo levossi Achille piè-veloce, e disse: Atride, or sì cred'io volta daremo nuovamente errabondi al patrio lido, se pur morte fuggir ne fia concesso; ché guerra e peste ad un medesmo tempo ne struggono. Ma via; qualche indovino interroghiamo, o sacerdote, o pure interprete di sogni (ché da Giove anche il sogno procede), onde ne dica perché tanta con noi d'Apollo è l'ira: se di preci o di vittime neglette il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte capre accettando l'odoroso fumo, il crudel morbo allontanar gli piaccia. Così detto, s'assise. In piedi allora di Testore il figliuol Calcante alzossi, de' veggenti il più saggio, a cui le cose eran conte che fur, sono e saranno; e per quella, che dono era d'Apollo, profetica virtù, de' Greci a Troia avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo pien di senno parlò queste parole: Amor di Giove, generoso Achille, vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco. Ma del braccio l'aita e della voce a me tu pria, signor, prometti e giura: perché tal che qui grande ha su gli Argivi tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina, n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso. Quando il potente col minor s'adira, reprime ei sì del suo rancor la vampa per alcun tempo, ma nel cor la cova, finché prorompa alla vendetta. Or dinne se salvo mi farai. - Parla securo, rispose Achille, e del tuo cor l'arcano, qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo che pregato da te ti squarcia il velo de' fati, e aperto tu li mostri a noi, per questo Apollo a Giove caro io giuro: nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla, con empia mano innanzi a queste navi oserà vïolar la tua persona, nessuno degli Achei; no, s'anco parli d'Agamennón che sé medesmo or vanta dell'esercito tutto il più possente. Allor fe' core il buon profeta, e disse: né d'obblïati sacrifici il Dio né di voti si duol, ma dell'oltraggio che al sacerdote fe' poc'anzi Atride, che francargli la figlia ed accettarne il riscatto negò. La colpa è questa onde cotante ne diè strette, ed altre l'arcier divino ne darà; né pria ritrarrà dal castigo la man grave, che si rimandi la fatal donzella non redenta né compra al padre amato, e si spedisca un'ecatombe a Crisa. Così forse avverrà che il Dio si plachi. Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe il re supremo Agamennón levossi corruccioso. Offuscavagli la grande ira il cor gonfio, e come bragia rossi fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima squadrò torvo Calcante, indi proruppe: Profeta di sciagure, unqua un accento non uscì di tua bocca a me gradito. Al maligno tuo cor sempre fu dolce predir disastri, e d'onor vote e nude son l'opre tue del par che le parole. E fra gli Argivi profetando or cianci che delle frecce sue Febo gl'impiaga, sol perch'io ricusai della fanciulla Crisëide il riscatto. Ed io bramava certo tenerla in signoria, tal sendo che a Clitennestra pur, da me condutta vergine sposa, io la prepongo, a cui di persona costei punto non cede, né di care sembianze, né d'ingegno ne' bei lavori di Minerva istrutto. Ma libera sia pur, se questo è il meglio; ché la salvezza io cerco, e non la morte del popol mio. Ma voi mi preparate tosto il compenso, ché de' Greci io solo restarmi senza guiderdon non deggio; ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta preda, il vedete, dalle man mi fugge. O d'avarizia al par che di grandezza famoso Atride, gli rispose Achille, qual premio ti daranno, e per che modo i magnanimi Achei? Che molta in serbo vi sia ricchezza non partita, ignoro: delle vinte città tutte divise ne fur le spoglie, né diritto or torna a nuove parti congregarle in una. Ma tu la prigioniera al Dio rimanda, ché più larga n'avrai tre volte e quattro ricompensa da noi, se Giove un giorno l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia. E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo né gabbo tu mi fai, divino Achille, né persuaso al tuo voler mi rechi. Dunque terrai tu la tua preda, ed io della mia privo rimarrommi? E imponi che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti concedanmi gli Achivi altra captiva che questa adegui e al mio desir risponda. Se non daranla, rapirolla io stesso, sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse, o ben anco la tua: e quegli indarno fremerà d'ira alle cui tende io vegna. Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti rematori fornita or si sospinga nel pelago una nave, e vi s'imbarchi coll'ecatombe la rosata guancia della figlia di Crise, e ne sia duce alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo, o il divo Ulisse, o tu medesmo pure, tremendissimo Achille, onde di tanto sacrificante il grato ministero il Dio ne plachi che da lunge impiaga. Lo guatò bieco Achille, e gli rispose: Anima invereconda, anima avara, chi fia tra i figli degli Achei sì vile che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada in agguati convegna o in ria battaglia? Per odio de' Troiani io qua non venni a portar l'armi, io no; ché meco ei sono d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre né destrier mi rapiro; essi le biade della feconda popolosa Ftia non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi ne son frapposti e il pelago sonoro. Ma sol per tuo profitto, o svergognato, e per l'onor di Menelao, pel tuo, pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti, e a me medesmo di rapir minacci de' miei sudori bellicosi il frutto, l'unico premio che l'Acheo mi diede. Né pari al tuo d'averlo io già mi spero quel dì che i Greci l'opulenta Troia conquisteran; ché mio dell'aspra guerra certo è il carco maggior; ma quando in mezzo si dividon le spoglie, è tua la prima, ed ultima la mia, di cui m'è forza tornar contento alla mia nave, e stanco di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia, a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio al paterno terren volger la prora, che vilipeso adunator qui starmi di ricchezze e d'onori a chi m'offende. Fuggi dunque, riprese Agamennóne, fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego di rimanerti. Al fianco mio si stanno ben altri eroi, che a mia regal persona onor daranno, e il giusto Giove in prima. Di quanti ei nudre regnatori abborro te più ch'altri; sì, te che le contese sempre agogni e le zuffe e le battaglie. Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono la tua fortezza. Or va, sciogli le navi, fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno, ai Mirmìdoni impera; io non ti curo, e l'ire tue derido; anzi m'ascolta. Poiché Apollo Crisëide mi toglie, parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi io la rimando accompagnata, e cedo. Ma nel tuo padiglione ad involarti verrò la figlia di Brisèo, la bella tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga quant'io t'avanzo di possanza, e quindi altri meco uguagliarsi e cozzar tema. Di furore infiammâr l'alma d'Achille queste parole. Due pensier gli fêro terribile tenzon nell'irto petto, se dal fianco tirando il ferro acuto la via s'aprisse tra la calca, e in seno l'immergesse all'Atride; o se domasse l'ira, e chetasse il tempestoso core. Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione l'agitato pensier, corse la mano sovra la spada, e dalla gran vagina traendo la venìa; quando veloce dal ciel Minerva accorse, a lui spedita dalla diva Giunon, che d'ambo i duci egual cura ed amor nudrìa nel petto. Gli venne a tergo, e per la bionda chioma prese il fiero Pelìde, a tutti occulta, a lui sol manifesta. Stupefatto si scosse Achille, si rivolse, e tosto riconobbe la Diva a cui dagli occhi uscìan due fiamme di terribil luce, e la chiamò per nome, e in ratti accenti, Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni? Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto io tel protesto, e avran miei detti effetto: ei col suo superbir cerca la morte, e la morte si avrà. - Frena lo sdegno, la Dea rispose dalle luci azzurre: io qui dal ciel discesi ad acchetarti, se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi, Giuno ch'entrambi vi difende ed ama. Or via, ti calma, né trar brando, e solo di parole contendi. Io tel predìco, e andrà pieno il mio detto: verrà tempo che tre volte maggior, per doni eletti, avrai riparo dell'ingiusta offesa. Tu reprimi la furia, ed obbedisci. E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva, benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio. Questo fia lo miglior. Ai numi è caro chi de' numi al voler piega la fronte. Disse; e rattenne su l'argenteo pomo la poderosa mano, e il grande acciaro nel fodero respinse, alle parole docile di Minerva. Ed ella intanto all'auree sedi dell'Egìoco padre sul cielo risalì fra gli altri Eterni. Achille allora con acerbi detti rinfrescando la lite, assalse Atride: Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core! Tu non osi giammai nelle battaglie dar dentro colla turba; o negli agguati perigliarti co' primi infra gli Achei, ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo meglio ti torna di ciascun che franco nella grand'oste achea contro ti dica, gli avuti doni in securtà rapire. Ma se questa non fosse, a cui comandi, spregiata gente e vil, tu non saresti del popol tuo divorator tiranno, e l'ultimo de' torti avresti or fatto. Ma ben t'annunzio, ed altamente il giuro per questo scettro (che diviso un giorno dal montano suo tronco unqua né ramo né fronda metterà, né mai virgulto germoglierà, poiché gli tolse il ferro con la scorza le chiome, ed ora in pugno sel portano gli Achei che posti sono del giusto a guardia e delle sante leggi ricevute dal ciel), per questo io giuro, e invïolato sacramento il tieni: stagion verrà che negli Achei si svegli desiderio d'Achille, e tu salvarli misero! non potrai, quando la spada dell'omicida Ettòr farà vermigli di larga strage i campi: e allor di rabbia il cor ti roderai, ché sì villana al più forte de' Greci onta facesti. Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride di novello furor, quando nel mezzo surse de' Pilii l'orator, Nestorre facondo sì, che di sua bocca uscièno più che mel dolci d'eloquenza i rivi. Di parlanti con lui nati e cresciuti nell'alma Pilo ei già trascorse avea due vite, e nella terza allor regnava. Con prudenti parole il santo veglio così loro a dir prese: Eterni Dei! Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo gioia s'appresta ed a' suoi figli e a tutta la dardania città, quando fra loro di voi s'intenda la fatal contesa, di voi che tutti di valor vincete e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate, ché minor d'anni di me siete entrambi; ed io pur con eroi son visso un tempo di voi più prodi, e non fui loro a vile: ned altri tali io vidi unqua, né spero di riveder più mai, quale un Drïante moderator di genti, e Piritòo, Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo, e l'Egìde Teseo pari ad un nume. Alme più forti non nudrìa la terra, e forti essendo combattean co' forti, co' montani Centauri, e strage orrenda ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso partendomi da Pilo e dal lontano Apio confine, a conversar venìa, e secondo mie forze anch'io pugnava. Ma di quanti mortali or crea la terra niun potrìa pareggiarli. E nondimeno da quei prestanti orecchio il mio consiglio ed il mio detto obbedïenza ottenne. E voi pur anco m'obbedite adunque, ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride, deh non voler, sebben sì grande, a questi tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace da' Greci il dato guiderdon consenti: né tu cozzar con inimico petto contra il rege, o Pelìde. Un re supremo, cui d'alta maestà Giove circonda, uguaglianza d'onore unqua non soffre. Se generato d'una diva madre tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio, te di poter, perché a più genti impera. Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi pure Achille al mio prego, ei che de' Greci in sì ria guerra è principal sostegno. Tu rettissimo parli, o saggio antico, pronto riprese il regnatore Atride; ma costui tutti soverchiar presume, tutti a schiavi tener, dar legge a tutti, tutti gravar del suo comando. Ed io potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi un invitto guerrier, forse pur anco di tanto insolentir gli diero il dritto? Tagliò quel dire Achille, e gli rispose: Un pauroso, un vil certo sarei se d'ogni cenno tuo ligio foss'io. Altrui comanda, a me non già; ch'io teco sciolto di tutta obbedienza or sono. Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo lo rinserra del cor. Per la fanciulla un dì donata, ingiustamente or tolta, né con te né con altri il brando mio combatterà. Ma di quant'altre spoglie nella nave mi serbo, né pur una, s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi, vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente dalla mia lancia farà saggio altrui. Con questa di parole aspra tenzone levârsi, e sciolto fu l'acheo consesso. Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi riede a sue navi nelle tende; e Atride varar fa tosto a venti remi eletti una celere prora colla sacra ecatombe. Di Crise egli medesmo vi guida e posa l'avvenente figlia; duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti già montati correan l'umide vie. Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne una sacra lavanda: e ognun devoto purificarsi, e via gittar nell'onde le sozzure, e del mar lungo la riva offrir di capri e di torelli intere ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa volubile col fumo il pingue odore. Seguìan nel campo questi riti. E fermo nel suo dispetto e nella dianzi fatta ria minaccia ad Achille, intanto Atride Euribate e Taltibio a sé chiamando, fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse, del Pelìde alla tenda, e m'adducete la bella figlia di Brisèo. Se il niega, io ne verrò con molta mano, io stesso, a gliela tôrre: e ciò gli fia più duro. Disse; e il cenno aggravando in via li pose. Del mar lunghesso l'infecondo lido givan quelli a mal cuore, e pervenuti de' Mirmidóni alla campal marina trovâr l'eroe seduto appo le navi davanti al padiglion: né del vederli certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto regal fermârsi trepidanti e chini, né far motto fur osi né dimando. Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse: Messaggeri di Giove e delle genti, salvete, araldi, e v'appressate. In voi niuna è colpa con meco. Il solo Atride, ei solo è reo, che voi per la fanciulla Brisëide qui manda. Or va, fuor mena, generoso Patròclo, la donzella, e in man di questi guidator l'affida. Ma voi medesmi innanzi ai santi numi ed innanzi ai mortali e al re crudele siatemi testimon, quando il dì splenda che a scampar gli altri di rovina il mio braccio abbisogni. Perocché delira in suo danno costui, ned il presente vede, né il poi, né il come a sua difesa salvi alle navi pugneran gli Achei. Disse; e Patròclo del diletto amico al comando obbedì. Fuor della tenda Brisëide menò, guancia gentile, ed agli araldi condottier la cesse. Mentre ei fanno alle navi achee ritorno, e ritrosa con lor partìa la donna, proruppe Achille in un subito pianto, e da' suoi scompagnato in su la riva del grigio mar s'assise, e il mar guardando le man stese, e dolente alla diletta madre pregando, Oh madre! è questo, disse, questo è l'onor che darmi il gran Tonante a conforto dovea del viver breve a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia spregiato in tutto: il re superbo Atride Agamennón mi disonora; il meglio de' miei premi rapisce, e sel possiede. Sì piangendo dicea. La veneranda genitrice l'udì, che ne' profondi gorghi del mare si sedea dappresso al vecchio padre; udillo, e tosto emerse, come nebbia, dall'onda: accanto al figlio, che lagrime spargea, dolce s'assise, e colla mano accarezzollo, e disse: Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno? Di', non celarlo in cor, meco il dividi. Madre, tu il sai, rispose alto gemendo il piè-veloce eroe. Ridir che giova tutto il già conto? Nella sacra sede d'Eezïon ne gimmo; la cittade ponemmo a sacco, e tutta a questo campo fu condotta la preda. In giuste parti la diviser gli Achivi, e la leggiadra Crisëide fu scelta al primo Atride. Crise d'Apollo sacerdote allora con l'infula del nume e l'aureo scettro venne alle navi a riscattar la figlia. Molti doni offerì, molte agli Achivi porse preghiere, ed agli Atridi in prima. Invan; ché preghi e doni e sacerdote e degli Achei l'assenso ebbe in dispregio Agamennón, che minaccioso e duro quel misero cacciò dal suo cospetto. Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a cui diletto capo egli era, il suo lamento esaudì dall'Olimpo, e contra i Greci pestiferi vibrò dardi mortali. Perìa la gente a torme, e d'ogni parte sibilanti del Dio pel campo tutto volavano gli strali. Alfine un saggio indovin ne fe' chiaro in assemblea l'oracolo d'Apollo. Io tosto il primo esortai di placar l'ire divine. Sdegnossene l'Atride, e in piè levato una minaccia mi fe' tal che pieno compimento sortì. Gli Achivi a Crisa sovr'agil nave già la schiava adducono non senza doni a Febo; e dalla tenda a me pur dianzi tolsero gli araldi, e menâr seco di Brisèo la figlia, la fanciulla da' Greci a me donata. Ma tu che il puoi, tu al figlio tuo soccorri, vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove, s'unqua Giove per te fu nel bisogno o d'opera aitato o di parole. Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo, spesso t'intesi glorïarti, e dire che sola fra gli Dei da ria sciagura Giove campasti adunator di nembi, il giorno che tentâr Giuno e Nettunno e Pallade Minerva in un con gli altri congiurati del ciel porlo in catene; ma tu nell'uopo sopraggiunta, o Dea, l'involasti al periglio, all'alto Olimpo prestamente chiamando il gran Centìmano, che dagli Dei nomato è Brïarèo, da' mortali Egeóne, e di fortezza lo stesso genitor vincea d'assai. Fiero di tanto onore alto ei s'assise di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi, che poser di legarlo ogni pensiero. Or tu questo rammentagli, e al suo lato siedi, e gli abbraccia le ginocchia, e il prega di dar soccorso ai Teucri, e far che tutte fino alle navi le falangi achee sien spinte e rotte e trucidate. Ognuno lo si goda così questo tiranno; senta egli stesso il gran regnante Atride qual commise follìa quando superbo fe' de' Greci al più forte un tanto oltraggio. E lagrimando a lui Teti rispose: Ahi figlio mio! se con sì reo destino ti partorii, perché allevarti, ahi lassa! Oh potessi ozioso a questa riva senza pianto restarti e senza offese, ingannando la Parca che t'incalza, ed omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni brevi sono ad un tempo ed infelici, ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi i talami paterni illuminava. E nondimen d'Olimpo alle nevose vette n'andrò, ragionerò con Giove del fulmine signore, e al tuo desire piegarlo tenterò. Tu statti intanto alle navi; e nell'ozio del tuo brando senta l'Achivo de' tuoi sdegni il peso. Perocché ieri in grembo all'Oceàno fra gl'innocenti Etïopi discese Giove a convito, e il seguîr tutti i numi. Dopo la luce dodicesma al cielo tornerà. Recherommi allor di Giove agli eterni palagi; al suo ginocchio mi gitterò, supplicherò, né vana d'espugnarne il voler speranza io porto. Partì, ciò detto; e lui quivi di bile macerato lasciò per la fanciulla suo mal grado rapita. Intanto a Crisa colla sacra ecatombe Ulisse approda. Nel seno entrati del profondo porto, le vele ammaïnâr, le collocaro dentro il bruno naviglio, e prestamente dechinâr colle gomone l'antenna, e l'adagiâr nella corsìa. Co' remi il naviglio accostâr quindi alla riva; e l'ancore gittate, e della poppa annodati i ritegni, ecco sul lido tutta smontar la gente, ecco schierarsi l'ecatombe d'Apollo, e dalla nave dell'onde vïatrice ultima uscire Crisëide. All'altar l'accompagnava l'accorto Ulisse, ed alla man del caro genitor la ponea con questi accenti: Crise, il re sommo Agamennón mi manda a ti render la figlia, e offrir solenne un'ecatombe a Febo, onde gli sdegni placar del nume che gli Achei percosse d'acerbissima piaga. - In questo dire l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio la si raccolse giubilando al petto. Tosto dintorno al ben costrutto altare in ordinanza statuîr la bella ecatombe del Dio; lavâr le palme, presero il sacro farro, e Crise alzando colla voce la man, fe' questo prego: Dio che godi trattar l'arco d'argento, tu che Crisa proteggi e la divina Cilla, signor di Tènedo possente, m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo acheo gravasti di gran danno, e onore mi desti, or fammi di quest'altro voto contento appieno. La terribil lue, che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia. Sì disse orando, ed esaudillo il nume. Quindi fin posto alle preghiere, e sparso il salso farro, alzar fêr suso in prima alle vittime il collo, e le sgozzaro. tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce di doppio omento, e le coprîr di crudi brani. Il buon vecchio su l'accese schegge le abbrustolava, e di purpureo vino spruzzando le venìa. Scelti garzoni al suo fianco tenean gli spiedi in pugno di cinque punte armati: e come fûro rosolate le coste, e fatto il saggio delle viscere sacre, il resto in pezzi negli schidoni infissero, con molto avvedimento l'arrostiro, e poscia tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra, poste le mense, a banchettar si diero, e del cibo egualmente ripartito sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto e del bere il desìo, d'almo lïeo coronando il cratere, a tutti in giro ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno, libagion colle tazze. E così tutto cantando il dì la gioventude argiva, e un allegro peàna alto intonando, laudi a Febo dicean, che nell'udirle sentìasi tocco di dolcezza il core. Fugato il sole dalla notte, ei diersi presso i poppesi della nave al sonno. Poi come il cielo colle rosee dita la bella figlia del mattino aperse, conversero la prora al campo argivo, e mandò loro in poppa il vento Apollo. Rizzâr l'antenna, e delle bianche vele il seno dispiegâr. L'aura seconda le gonfiava per mezzo, e strepitoso, nel passar della nave, il flutto azzurro mormorava dintorno alla carena. Giunti agli argivi accampamenti, in secco trasser la nave su la colma arena, e lunghe vi spiegâr travi di sotto acconciamente. Per le tende poi si dispersero tutti e pe' navili. Appo i suoi legni intanto il generoso Pelìde Achille nel segreto petto di sdegno si pascea, né al parlamento, scuola illustre d'eroi, né alle battaglie più comparìa; ma il cor struggea di doglia lungi dall'armi, e sol dell'armi il suono e delle pugne il grido egli sospira. Rifulse alfin la dodicesma aurora, e tutti di conserva al ciel gli Eterni fean ritorno, ed avanti iva il re Giove. Memore allor del figlio e del suo prego, Teti emerse dal mare, e mattutina in cielo al sommo dell'Olimpo alzossi. Sul più sublime de' suoi molti gioghi in disparte trovò seduto e solo l'onniveggente Giove. Innanzi a lui la Dea s'assise, colla manca strinse le divine ginocchia, e colla destra molcendo il mento, e supplicando disse: Giove padre, se d'opre e di parole giovevole fra' numi unqua ti fui, un mio voto adempisci. Il figlio mio, cui volge il fato la più corta vita, deh, m'onora il mio figlio a torto offeso dal re supremo Agamennón, che a forza gli rapì la sua donna, e la si tiene. Onoralo, ti prego, olimpio Giove, sapientissimo Iddio; fa che vittrici sien le spade troiane, infin che tutto e doppio ancora dagli Achei pentiti al mio figlio si renda il tolto onore. Disse; e nessuna le facea risposta il procelloso Iddio; ma lunga pezza muto stette, e sedea. Teti il ginocchio teneagli stretto tuttavolta, e i preghi iterando venìa: Deh, parla alfine; dimmi aperto se nieghi, o se concedi; nulla hai tu che temer; fa ch'io mi sappia se fra le Dee son io la più spregiata. Profondamente allora sospirando l'adunator de' nembi le rispose: Opra chiedi odiosa che nemico farammi a Giuno, e degli ontosi suoi motti bersaglio. Ardita ella mai sempre pur dinanzi agli Dei vien meco a lite, e de' Troiani aiutator m'accusa. Ma tu sgombra di qua, ché non ti vegga la sospettosa. Mio pensier fia poscia che il desir tuo si cómpia, e a tuo conforto abbine il cenno del mio capo in pegno. Questo fra' numi è il massimo mio giuro, né revocarsi, né fallir, né vana esser può cosa che il mio capo accenna. Disse; e il gran figlio di Saturno i neri sopraccigli inchinò. Su l'immortale capo del sire le divine chiome ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo. Così fermo l'affar si dipartiro. Teti dal ciel spiccò nel mare un salto; Giove alla reggia s'avviò. Rizzârsi tutti ad un tempo da' lor troni i numi verso il gran padre, né veruno ardissi aspettarne il venir fermo al suo seggio, ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave si compose sul trono. E già sapea Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto in segreti consigli avea con esso la figlia di Nerèo, Teti la diva dal bianco piede. Con parole acerbe così dunque l'assalse: E qual de' numi tenne or teco consulta, o ingannatore? Sempre t'è caro da me scevro ordire tenebrosi disegni, né ti piacque mai farmi manifesto un tuo pensiero. E degli uomini il padre e degli Dei le rispose: Giunon, tutto che penso non sperar di saperlo. Ardua ten fôra l'intelligenza, benché moglie a Giove. Ben qualunque dir cosa si convegna, nullo, prima di te, mortale o Dio la si saprà. Ma quel che lungi io voglio dai Celesti ordinar nel mio segreto, non dimandarlo né scrutarlo, e cessa. Acerbissimo Giove, e che dicesti? Riprese allor la maestosa il guardo veneranda Giunon: gran tempo è pure che da te nulla cerco e nulla chieggo, e tu tranquillo adempi ogni tuo senno. Or grave un dubbio mi molesta il core, che Teti, del marin vecchio la figlia, non ti seduca; ch'io la vidi, io stessa, sul mattino arrivar, sederti accanto, abbracciarti i ginocchi; e certo a lei di molti Achivi tu giurasti il danno appo le navi, per onor d'Achille. E a rincontro il signor delle tempeste: Sempre sospetti, né celarmi io posso, spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno la tua cura uscirà, ch'anzi più sempre tu mi costringi a disamarti, e questo a peggio ti verrà. S'al ver t'apponi, che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci, e m'obbedisci; ché giovarti invano potrìan quanti in Olimpo a tua difesa accorresser Celesti, allor che poste le invitte mani nelle chiome io t'abbia. Disse; e chinò la veneranda Giuno i suoi grand'occhi paurosa e muta, e in cor premendo il suo livor s'assise. Di Giove in tutta la magion le fronti si contristâr de' numi, e in mezzo a loro gratificando alla diletta madre Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese: Una malvagia intolleranda cosa questa al certo sarà, se voi cotanto, de' mortali a cagion, piato movete, e suscitate fra gli Dei tumulto. De' banchetti la gioia ecco sbandita, se la vince il peggior. Madre, t'esorto, benché saggia per te; vinci di Giove, vinci del padre coll'ossequio l'ira, onde a lite non torni, e del convito ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote, del fulmine signore e dell'Olimpo, dai nostri seggi rovesciar, se il voglia; perocché sua possanza a tutte è sopra. Or tu con care parolette il molci, e tosto il placherai. - Surse, ciò detto, ed all'amata genitrice un tondo gemino nappo fra le mani ei pose, bisbigliando all'orecchio: O madre mia, benché mesta a ragion, sopporta in pace, onde te con quest'occhi io qui non vegga, te, che cara mi sei, forte battuta; ché allor nessuna con dolor mio sommo darti aìta io potrei. Duro egli è troppo cozzar con Giove. Altra fiata, il sai, volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo afferrommi d'un piede, e mi scagliò dalle soglie celesti. Un giorno intero rovinai per l'immenso, e rifinito in Lenno caddi col cader del sole, dalli Sinzii raccolto a me pietosi. Disse; e la Diva dalle bianche braccia rise, e in quel riso dalla man del figlio prese il nappo. Ed ei poscia agli altri Eterni, incominciando a destra, e dal cratere il nèttare attignendo, a tutti in giro lo mescea. Suscitossi infra' Beati immenso riso nel veder Vulcano per la sala aggirarsi affaccendato in quell'opra. Così, fino al tramonto, tutto il dì convitossi, ed egualmente del banchetto ogni Dio partecipava. Né l'aurata mancò lira d'Apollo, né il dolce delle Muse alterno canto. Ratto, poi che del Sol la luminosa lampa si spense, a' suoi riposi ognuno ne' palagi n'andò, che fabbricati a ciascheduno avea con ammirando artifizio Vulcan l'inclito zoppo. E a' suoi talami anch'esso, ove qual volta soave l'assalìa forza di sonno, corcar solea le membra, il fulminante Olimpio s'avvïò. Quivi salito addormentossi il nume, ed al suo fianco giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.
Tutti ancora dormìan per l'alta notte i guerrieri e gli Dei; ma il dolce sonno già le pupille abbandonato avea di Giove che pensoso in suo segreto divisando venìa come d'Achille, con molta strage delle vite argive, illustrar la vendetta. Alla divina mente alfin parve lo miglior consiglio invïar all'Atride Agamennóne il malefico Sogno. A sé lo chiama, e con presto parlar, Scendi, gli dice, scendi, Sogno fallace, alle veloci prore de' Greci, e nella tenda entrato d'Agamennón, quant'io t'impongo, esponi esatto ambasciator. Digli che tutte in armi ei ponga degli Achei le squadre, che dell'iliaco muro oggi è decreta su nel ciel la caduta; che discordi degli eterni d'Olimpo abitatori più non sono le menti; che di Giuno cessero tutti al supplicar; che in somma l'estremo giorno de' Troiani è giunto. Disse; ed il Sogno, il divin cenno udito, avvïossi e calossi in un baleno su l'argoliche navi. Entra d'Atride nel queto padiglione, e immerso il trova nella dolcezza di nettareo sonno. Di Nestore Nelìde il volto assume, di Nestore, cui sovra ogni altro duce Agamennóne riveriva, e in queste forme sul capo del gran re sospesa, così la diva visïon gli disse: Tu dormi, o figlio del guerriero Atrèo? Tutta dormir la notte ad uom sconviensi di supremo consiglio, a cui son tante genti commesse e tante cure. Attento dunque m'ascolta. A te vengh'io celeste nunzio di Giove, che lontano ancora su te veglia pietoso. Egli precetto ti fa di porre tutti quanti in arme prontamente gli Achei. Tempo è venuto che l'ampia Troia in tua man cada: i numi scesero tutti, intercedente Giuno, in un solo volere, e alla troiana gente sovrasta l'infortunio estremo preparato da Giove. Or tu ben figgi questo avviso nell'alma, e fa che seco non lo si porti, col partirsi, il sonno. Sparve ciò detto; e delle udite cose, di che contrario uscir dovea l'effetto, pensoso lo lasciò. Prender di Troia quel dì stesso le mura egli sperossi, né di Giove sapea, stolto! i disegni, né qual aspro pugnar, né quanta il Dio di lagrime cagione e di sospiri ai Troiani e agli Achivi apparecchiava. Si riscuote dal sonno, e la divina voce dintorno gli susurra ancora. Sorge, e del letto su la sponda assiso una molle s'avvolge alla persona tunica intatta, immacolata; gittasi il regal manto indosso; il piè costringe ne' bei calzari; il brando aspro e lucente d'argentee borchie all'omero sospende, l'invïolato avito scettro impugna, ed alle navi degli Achei cammina. Già sul balzo d'Olimpo alta ascendea di Titon la consorte, annunziatrice dell'alma luce a Giove e agli altri Eterni; quando con chiara voce i banditori per comando d'Atride a parlamento convocaro gli Achei, che frettolosi accorsero e frequenti. Ma raccolse de' magnanimi duci Agamennóne prima il senato alla nestorea nave, e raccolti che fûro, in questi accenti il suo prudente consultar propose: M'udite, amici. Nella queta notte una divina visïon m'apparve, che te, Nestore padre, alla statura, agli atti, al volto somigliava in tutto. Sul mio capo librossi, e così disse: Figlio d'Atrèo, tu dormi? A sommo duce cui di tanti guerrieri e tante cure commesso è il pondo, non s'addice il sonno. M'odi adunque: mandato a te son io da Giove che dal ciel di te pensiero prende e pietate. Ei tutte ti comanda armar le truppe de' chiomati Achei, ché di Troia il conquisto oggi è maturo; poiché di Giuno il supplicar compose la discordia de' numi, e grave ai Teucri danno sovrasta per voler di Giove. Tu di Giove il comando in cor riponi. Sparve, ciò detto, e quel mio dolce sonno m'abbandonò. La guisa or noi di porre gli Achivi in arme esaminiam. Ma pria giovi con finto favellar tentarne, fin dove lice, i sentimenti. Io dunque comanderò che su le navi ognuno si disponga alla fuga, e sparsi ad arte voi l'impedite con opposti accenti. Così detto s'assise. In piè rizzossi dell'arenosa Pilo il regnatore Nestore, e saggio ragionando disse: O amici, o degli Achei principi e duci, s'altro qualunque Argivo un cotal sogno detto n'avesse, un menzogner l'avremmo, e spregeremmo: ma lo vide il sommo capo del campo. A risvegliar si corra dunque l'acheo valore. - E sì dicendo usciva il vecchio dal consiglio, e tutti surti in piè lo seguìan gli altri scettrati del re supremo ossequiosi. Intanto il popolo accorrea. Quale dai fori di cava pietra numeroso sbuca lo sciame delle pecchie, e succedendo sempre alle prime le seconde, volano sui fior di aprile a gara, e vi fan grappolo altre di qua affollate, altre di là; così fuor delle navi e delle tende correan per l'ampio lido a parlamento affollate le turbe, e le spronava l'ignea Fama, di Giove ambasciatrice. Si congregaro alfin. Tumultuoso brulicava il consesso, ed al sedersi di tante genti il suol gemea di sotto. Ben nove araldi d'acchetar fean prova quell'immenso frastuono, alto gridando: Date fine ai clamori, udite i regi, udite, Achivi, del gran Dio gli alunni. Sostârsi alfine: ne' suoi seggi ognuno si compose, e cessò l'alto fragore. Allor rizzossi Agamennón stringendo lo scettro, esimia di Vulcan fatica. Diè pria Vulcano quello scettro a Giove, e Giove all'uccisor d'Argo Mercurio; questi a Pelope auriga, esso ad Atrèo; Atrèo morendo al possessor di pingui greggi Tieste, e da Tieste alfine nella destra passò d'Agamennóne, che poi sovr'Argo lo distese, e sopra isole molte. A questo il grande Atride appoggiato, sì disse: Amici eroi, Dànai, di Marte bellicosi figli, in una dura e perigliosa impresa Giove m'avvolse, Iddio crudel, che prima mi promise e giurò delle superbe iliache mura la conquista, e in Argo glorioso il ritorno. Or mi delude indegnamente, e dopo tante in guerra vite perdute, di tornar m'impone inonorato alle paterne rive. Del prepotente Iddio questo è il talento, di lui che nell'immensa sua possanza già di molte città l'eccelse rocche distrusse, e molte struggeranne ancora. Ma qual onta per noi appo i futuri che contra minor oste un tale e tanto esercito di forti una sì lunga guerra guerreggi; e non la cómpia ancora? Certo se tutti convocati insieme salda pace a giurar Teucri ed Achivi, e di questi e di quei levato il conto, ad ogni dieci Achivi un Teucro solo mescer dovesse di lïeo la spuma, molte decurie si vedrìan chiedenti con labbro asciutto il mescitor: cotanto maggior de' Teucri cittadini estimo il numero de' nostri. Ma li molti da diverse città raccolti e scesi in lor sussidio bellicosi amici duro intoppo mi fanno, e a mio dispetto mi vietano espugnar d'Ilio le mura. Già del gran Giove il nono anno si volge da che giungemmo, e già marciti i fianchi son delle navi, e logore le sarte; e le nostre consorti e i cari figli desïando ne stanno e richiamando nelle vedove case. E noi l'impresa che a queste sponde ne condusse, ancora consumar non sapemmo. Al vento adunque, diamo al vento le vele, io vel consiglio, alla dolce fuggiam terra natìa di concorde voler, ché disperata delle mura troiane è la conquista. Mosse quel dire delle turbe i petti, e fremea l'adunanza, a quella guisa che dell'icario mare i vasti flutti si confondono allor che Noto ed Euro della nube di Giove il fianco aprendo a sollevar li vanno impetuosi. E come quando di Favonio il soffio denso campo di biade urta, e passando il capo inchina delle bionde spiche; tal si commosse il parlamento, e tutti alle navi correan precipitosi con fremito guerrier. Sotto i lor piedi s'alza la polve, e al ciel si volve oscura. I navigli allestir, lanciarli in mare, espurgarne le fosse, ed i puntelli sottrarre alle carene era di tutti la faccenda e la gara. Arde ogni petto del sacro amore delle patrie mura, e tutto di clamori il cielo eccheggia. E degli Achei quel dì sarìa seguìto, contro il voler de' fati, il dipartire, se con questo parlar non si volgea Giuno a Minerva: O dell'Egìoco Padre invincibile figlia, così dunque, il mar coprendo di fuggenti vele, al patrio lido rediran gli Achivi? Ed a Priamo l'onore, ai Teucri il vanto lasceran tutto dell'argiva Elèna dopo tante per lei, lungi dal caro nido natìo, qui spente anime greche? Deh scendi al campo acheo, scendi, ed adopra lusinghiero parlar, molci i soldati, frena la fuga, né patir che un solo de' remiganti pini in mar sia tratto. Obbediente la cerulea Diva dalle cime d'Olimpo dispiccossi velocissima, e tosto fu sul lido. Ivi Ulisse trovò, senno di Giove, occupato non già del suo naviglio, ma del dolor che il preme, e immoto in piedi. Gli si fece davanti la divina Glaucopide dicendo: O di Laerte generoso figliuol, prudente Ulisse, così dunque n'andrete? E al patrio suolo navigherete, e lascerete a Priamo di vostra fuga il vanto, ed ai Troiani d'Argo la donna, e invendicato il sangue di tanti, che per lei qui lo versaro, bellicosi compagni? A che ti stai? T'appresenta agli Achei, rompi gl'indugi, dolci adopra parole e li trattieni, né consentir che antenna in mar si spinga. Così disse la Dea. Ne riconobbe l'eroe la voce, e via gittato il manto, che dopo lui raccolse il banditore Eurìbate itacense, a correr diessi; e incontrato l'Atride Agamennóne, ratto ne prende il regal scettro, e vola con questo in pugno tra le navi achee; e quanti ei trova o duci o re, li ferma con parlar lusinghiero; e, Che fai, dice, valoroso campione? A te de' vili disconvien la paura. Or via, ti resta, pregoti, e gli altri fa restar. La mente ben palese non t'è d'Agamennóne; egli tenta gli Achei, pronto a punirli. Non tutti han chiaro ciò che dianzi in chiuso consesso ei disse. Deh badiam, che irato non ne percuota d'improvvisa offesa. Di re supremo acerba è l'ira, e Giove, che al trono l'educò, l'onora ed ama. S'uom poi vedea del vulgo, e lo cogliea vociferante, collo scettro il dosso batteagli; e, Taci, gli garrìa severo, taci tu tristo, e i più prestanti ascolta tu codardo, tu imbelle, e nei consigli nullo e nell'armi. La vogliam noi forse far qui tutti da re? Pazzo fu sempre de' molti il regno. Un sol comandi, e quegli cui scettro e leggi affida il Dio, quei solo ne sia di tutti correttor supremo. Così l'impero adoperando Ulisse frena le turbe, e queste a parlamento dalle navi di nuovo e dalle tende con fragore accorrean, pari a marina onda che mugge e sferza il lido, ed alto ne rimbomba l'Egeo. Queto s'asside ciascheduno al suo posto: il sol Tersite di gracchiar non si resta, e fa tumulto parlator petulante. Avea costui di scurrili indigeste dicerìe pieno il cerèbro, e fuor di tempo, e senza o ritegno o pudor le vomitava contro i re tutti; e quanto a destar riso infra gli Achivi gli venìa sul labbro, tanto il protervo beffator dicea. Non venne a Troia di costui più brutto ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso di raro pelo. Capital nemico del Pelìde e d'Ulisse, ei li solea morder rabbioso: e schiamazzando allora colla stridula voce lacerava anche il duce supremo Agamennóne, sì che tutti di sdegno e di corruccio fremean; ma il tristo ognor più forti alzava le rampogne e gridava: E di che dunque ti lagni, Atride? che ti manca? Hai pieni di bronzo i padiglioni e di donzelle, delle vinte città spoglie prescelte e da noi date a te primiero. O forse pur d'auro hai fame, e qualche Teucro aspetti che d'Ilio uscito lo ti rechi al piede, prezzo del figlio da me preso in guerra, da me medesmo, o da qualch'altro Acheo? O cerchi schiava giovinetta a cui mescolarti in amore alla spartita? Eh via, che a sommo imperador non lice scandalo farsi de' minori. Oh vili, oh infami, oh Achive, non Achei! Facciamo vela una volta; e qui costui si lasci qui lui solo a smaltir la sua ricchezza, onde a prova conosca se l'aita gli è buona o no delle nostr'armi. E dianzi nol vedemmo pur noi questo superbo ad Achille, a un guerrier che sì l'avanza di fortezza, for onta? E dell'offeso non si tien egli la rapita schiava? Ma se d'Achille il cor di generosa bile avvampasse, e un indolente vile non si fosse egli pur, questo sarìa stato l'estremo de' tuoi torti, Atride. Così contra il supremo Agamennóne impazzava Tersite. Gli fu sopra repente il figlio di Laerte, e torvo guatandolo gridò: Fine alle tue faconde ingiurie, ciarlator Tersite. E tu sendo il peggior di quanti a Troia con gli Atridi passâr, tu audace e solo non dar di cozzo ai re, né rimenarli su quella lingua con villane aringhe, né del ritorno t'impacciar, ché il fine di queste cose al nostro sguardo è oscuro, né sappiam se felice o sventurato questo ritorno riuscir ne debba. Ma di tue contumelie al sommo Atride so ben io lo perché: donato il vedi di molti doni dagli achivi eroi, per ciò ti sbracci a maledirlo. Or io cosa dirotti che vedrai compiuta. Se com'oggi insanir più ti ritrovo, caschimi il capo dalle spalle, e detto di Telemaco il padre io più non sia, mai più, se non t'afferro, e delle vesti tutto nudo, da questo almo consesso non ti caccio malconcio e piangoloso. Sì dicendo, le terga gli percuote con lo scettro e le spalle. Si contorce e lagrima dirotto il manigoldo dell'aureo scettro al tempestar, che tutta gli fa la schiena rubiconda; ond'egli di dolor macerato e di paura s'assise, e obbliquo riguardando intorno col dosso della man si terse il pianto. Rallegrò quella vista i mesti Achivi, e surse in mezzo alla tristezza il riso; e fu chi vòlto al suo vicin dicea: Molte in vero d'Ulisse opre vedemmo eccellenti e di guerra e di consiglio, ma questa volta fra gli Achei, per dio! fe' la più bella delle belle imprese, frenando l'abbaiar di questo cane dileggiator. Che sì, che all'arrogante passò la frega di dar morso ai regi! Mentre questo dicean, levossi in piedi e collo scettro di parlar fe' cenno l'espugnatore di cittadi Ulisse. In sembianza d'araldo accanto a lui la fiera Diva dalle luci azzurre silenzio a tutti impose, onde gli estremi del par che i primi udirne le parole potessero, ed in cor pesarne il senno. Allora il saggio diè principio: Atride, questi Achivi di te vonno far oggi il più infamato de' mortali. Han posto le promesse in obblìo fatte al partirsi d'Argo alla volta d'Ilïon, giurando di non tornarsi che Ilïon caduto. Guardali: a guisa di fanciulli, a guisa di vedovelle sospirar li senti, e a vicenda plorar per lo desìo di riveder le patrie mura. E in vero tal qui si pate traversìa, che scusa il desiderio de' paterni tetti. Se a navigante da vernal procella impedito e sbattuto in mar che freme, pur di un mese è crudel la lontananza dalla consorte, che pensar di noi che già vedemmo del nono anno il giro su questo lido? Compatir m'è forza dunque agli Achivi, se a mal cor qui stanno. Ma dopo tanta dimoranza è turpe vôti di gloria ritornar. Deh voi, deh ancor per poco tollerate, amici, tanto indugiate almen, che si conosca se vero o falso profetò Calcante. In cuor riposte ne teniam noi tutti le divine parole, e voi ne foste testimoni, voi sì quanti la Parca non aveste crudel. Parmi ancor ieri quando le navi achee di lutto a Troia apportatrici in Aulide raccolte, noi ci stavamo in cerchio ad una fonte sagrificando sui devoti altari vittime elette ai Sempiterni, all'ombra d'un platano al cui piè nascea di pure linfe il zampillo. Un gran prodigio apparve subitamente. Un drago di sanguigne macchie spruzzato le cerulee terga, orribile a vedersi, e dallo stesso re d'Olimpo spedito, ecco repente sbucar dall'imo altare, e tortuoso al platano avvinghiarsi. Avean lor nido in cima a quello i nati tenerelli di passera feconda, latitanti sotto le foglie: otto eran elli, e nona la madre. Colassù l'angue salito gl'implumi divorò, miseramente pigolanti. Plorava i dolci figli la madre intanto, e svolazzava intorno pietosamente; finché ratto il serpe vibrandosi afferrò la meschinella all'estremo dell'ala, e lei che l'aure empiea di stridi, nella strozza ascose. Divorata co' figli anco la madre, del vorator fe' il Dio che lo mandava nuovo prodigio; e lo converse in sasso. Stupidi e muti ne lasciò del fatto la meraviglia, e a noi, che dell'orrendo portento fra gli altari intervenuto incerti ci stavamo e paventosi, Calcante profetò: Chiomati Achivi, perché muti così? Giove ne manda nel veduto prodigio un tardo segno di tardo evento, ma d'eterno onore. Nove augelli ingoiò l'angue divino, nov'anni a Troia ingoierà la guerra, e la città nel decimo cadrà. Così disse il profeta, ed ecco omai tutto adempirsi il vaticinio. Or dunque perseverate, generosi Achei, restatevi di Troia al giorno estremo. Levossi a questo dire un alto grido, a cui le navi con orribil eco rispondean, grido lodator del saggio parlamento d'Ulisse. Ed incalzando quei detti il vecchio cavalier Nestorre, Oh vergogna, dicea; sul vostro labbro parole intesi di fanciulli a cui nulla cal della guerra. Ove n'andranno i giuramenti, le promesse e i tanti consigli de' più saggi e i tanti affanni, le libagioni degli Dei, la fede delle congiunte destre? Dissipati n'andran col fumo dell'altare? Achei, noi contendiamo di parole indarno, e in vane induge il tempo si consuma, che dar si debbe a salutar riparo. Tien fermo, Atride, il tuo coraggio, e fermo su gli Achei nelle pugne alza lo scettro: ed in proposte, che d'effetto vote cadran mai sempre, marcir lascia i pochi che in disparte consultano se in Argo redir si debba, pria che falsa o vera si conosca di Giove la promessa. Io ti fo certo che il saturnio figlio, il giorno che di Troia alla ruïna sciolser gli Achivi le veloci antenne, non dubbio cenno di favor ne fece balenando a diritta. Alcun non sia dunque che parli del tornarsi in Argo, se prima in braccio di troiana sposa non vendica d'Elèna il ratto e i pianti. Se taluno pur v'ha che voglia a forza di qua partirsi, di toccar si provi il suo naviglio, e troverà primiero la meritata morte. Tu frattanto pria ti consiglia con te stesso, o sire, indi cogli altri, né sprezzar l'avviso ch'io ti porgo. Dividi i tuoi guerrieri per curie e per tribù, sì che a vicenda si porga aita una tribù con l'altra, l'una con l'altra curia. A questa guisa, obbedendo agli Achei, ti fia palese de' capitani a un tempo e de' soldati qual siasi il prode e quale il vil; ché ognuno con emula virtù pel suo fratello combatterà. Conoscerai pur anco se nume avverso, o codardìa de' tuoi, o poca d'armi maestrìa ti tolga delle dardanie mura la conquista. Saggio vegliardo, gli rispose Atride, in tutti della guerra i parlamenti nanzi a tutti tu vai. Piacesse a Giove, a Minerva piacesse e al santo Apollo, ch'altri dieci io m'avessi infra gli Achei a te pari in consiglio; ed atterrata cadrìa ben tosto la città troiana. Ma me l'Egìoco Giove in alti affanni sommerse, e incauto mi sospinse in vane gare e contese. Di parole avemmo gran lite Achille ed io d'una fanciulla, ed io fui primo all'ira. Ma se fia che in amistà si torni, un sol momento non tarderà di Troia il danno estremo. Or via, di cibo a ristorar le forze itene tutti per la pugna. Ognuno l'asta raffili, ognun lo scudo assetti, di copioso alimento ognun governi i corridor veloci, e diligente visiti il cocchio, e mediti il conflitto; onde questo sia giorno di battaglia tutto e di sangue, e senza posa alcuna, finché la notte non estingua l'ire de' combattenti. Di guerrier sudore bagnerassi la soga dello scudo sui caldi petti, verrà manco il pugno sovra il calce dell'asta, e destrier molli trarranno il cocchio con infranta lena. Qualunque io poscia scorgerò che lungi dalla pugna si resti appo le navi neghittoso, non fia chi salvo il mandi dalla fame de' cani e degli augelli. Così disse, e al finir di sue parole mandâr gli Achivi un altissimo grido somigliante al muggir d'onda spezzata all'alto lido ove il soffiar la caccia di furioso Noto incontro ai fianchi di prominente scoglio, flagellato da tutti i venti e da perpetue spume. Si levâr frettolosi, si dispersero per le navi, destâr per tutto il lido globi di fumo, ed imbandîr le mense. Chi a questo dio sacrifica, chi a quello, al suo ciascun si raccomanda, e il prega di camparlo da morte nella pugna. Ma il re de' prodi Agamennóne un pingue toro quinquenne al più possente nume sagrifica, e convita i più prestanti: Nestore primamente e Idomenèo, quindi entrambi gli Aiaci, e di Tidèo l'inclito figlio, e sesto il divo Ulisse. Spontaneo venne Menelao, cui noto era il travaglio del fratello. E questi fêr di sé stessi una corona intorno alla vittima, e preso il salso farro nel mezzo Agamennóne orando disse: Glorioso de' nembi adunatore Massimo Giove abitator dell'etra, pria che il sole tramonti e l'aria imbruni, fa che fumanti al suol di Priamo io getti gli alti palagi, e d'ostil fiamma avvampi le regie porte; fa che la mia lancia squarci l'usbergo dell'ettòreo petto, e che dintorno a lui molti suoi fidi boccon distesi mordano la polve. Disse; ed il nume l'olocausto accolse, ma non il voto, e a lui più lutto ancora preparando venìa. Finito il prego e sparso il farro, ed incurvato all'ara della vittima il collo, la scannaro, la discuoiaro, ne squartâr le cosce, le rivestîr di doppio zirbo, e sopra poservi i crudi brani. Indi la fiamma d'aride schegge alimentando, a quella cocean gli entragni nello spiedo infissi. Adusti i fianchi, e fatto delle sacre viscere il saggio, lo restante in pezzi negli schidon confissero, ed acconcia- -mente arrostito ne levaro il tutto. Finita l'opra, apparecchiâr le mense, e a suo talento vivandò ciascuno. Di cibo sazi e di bevanda, prese a così dire il cavalier Nestorre: Re delle genti glorioso Atride Agamennón, si tolga ogni dimora all'impresa che in pugno il Dio ne pone. Degli araldi la voce alla rassegna chiami sul lido i loricati Achei, e noi scorriamo le raccolte squadre, e di Marte destiam l'ira e il desìo. Assentì pronto il sire, ed al suo cenno l'acuto grido degli araldi diede della pugna agli Achivi il fiero invito. Corsero quelli frettolosi; e i regi di Giove alunni, che seguìan l'Atride, li ponean ratti in ordinanza. Errava Minerva in mezzo, e le splendea sul petto incorrotta, immortal la prezïosa Egida da cui cento eran sospese frange conteste di finissim'oro, e valea cento tauri ogni gherone. In quest'arme la Diva folgorando concitava gli Achivi, ed accendea l'ardir ne' petti, e li facea gagliardi a pugnar fieramente e senza posa. Allor la guerra si fe' dolce al core più che il volger le vele al patrio nido. Siccome quando la vorace vampa sulla montagna una gran selva incende, sorge splendor che lungi si propaga; così al marciar delle falangi achive mandan l'armi un chiaror che tutto intorno di tremuli baleni il cielo infiamma. E qual d'oche o di gru volanti eserciti ovver di cigni che snodati il tenue collo van d'Asio ne' bei verdi a pascere lungo il Caïstro, e vagolando esultano su le larghe ale, e nel calar s'incalzano con tale un rombo che ne suona il prato; così le genti achee da navi e tende si diffondono in frotte alla pianura del divino Scamandro, e il suol rimbomba sotto il piè de' guerrieri e de' cavalli terribilmente. Nelle verdi lande del fiume s'arrestâr gremìti e spessi come le foglie e i fior di primavera. Conti lo sciame dell'impronte mosche che ronzano in april nella capanna, quando di latte sgorgano le secchie, chi contar degli Achei desìa le torme anelanti de' Teucri alla rovina. Ma quale è de' caprai la maestrìa nel divider le greggie, allor che il pasco le confonde e le mesce, a questa guisa in ordinate squadre i capitani schieravano gli Achivi alla battaglia. Agamennón qual tauro era nel mezzo, che nobile e sovrana alza la fronte sovra tutto l'armento e lo conduce: e tal fra tanti eroi Giove gl'infonde e garbo e maestà, che Marte al cinto, Nettunno al petto, e il Folgorante istesso negli sguardi somiglia e nella testa. Muse dell'alto Olimpo abitatrici, or voi ne dite (ché voi tutte, o Dive, riguardate le cose e le sapete: a noi nessuna è conta, e ne susurra di fuggitiva fama un'aura appena), dite voi degli Achivi i condottieri. Della turba infinita io né parole farò né nome, ché bastanti a questo non dieci lingue mi sarìan né dieci bocche, né voce pur di ferreo petto. Di tutta l'oste ad Ilio navigata divisar la memoria altri non puote che l'alme figlie dell'Egìoco Giove. Sol dunque i duci, e sol le navi io canto. Erano de' Beozi i capitani Arcesilao, Leìto e Penelèo e Protenore e Clonio, e traean seco d'Iria i coloni e d'Aulide petrosa, con quei di Scheno e Scolo, e quei dell'erta Eteono e di Tespia, e quei che manda la spazïosa Micalesso e Grea; e quei che d'Arma la contrada edùca, ed Ilesio ed Erìtre ed Eleone e Peteone ed Ila ed Ocalèa. Seguono i prodi della ben costrutta Medeone e di Cope, e gli abitanti d'Eutresi e Tisbe di colombe altrice. Di Coronèa vien dopo e dell'erbosa Alïarto e di Glissa e di Platèa e d'Ipotebe dalle salde mura una gran torma: ed altri abbandonaro le sacrate a Nettunno inclite selve d'Onchesto, e d'Arne i pampinosi colli; altri il pian di Midèa; altri di Nisa gli almi boschetti, e gli ultimi confini d'Antèdone. Di questi eran cinquanta le navi, e ognuna cento prodi e venti, fior di beozia gioventù, portava. Dell'Orcomèno Minïèo gli eletti, misti a quei d'Aspledóne, hanno a lor duci Ascalafo e Ialmeno, ambo di Marte egregia prole. Ne' secreti alberghi d'Attore Azìde partorilli Astioche vereconda fanciulla, alle superne stanze salita, e al forte iddio commista in amplesso furtivo. Eran di questi trenta le navi che schierârsi al lido. Regge la squadra de' Focensi il cenno di Schedio e d'Epistròfo, incliti figli del generoso Naubolìde Ifìto. Invìa questi guerrier la discoscesa balza di Pito, e Ciparisso e Crissa, gentil paese, e Daulide e Panope. D'Anemoria e di Jampoli van seco gli abitatori, e quei che del Cefiso beon l'onde sacre, e quei che di Lilèa domano i gioghi alle cefisie fonti. Son quaranta le prore al mar fidate da questi prodi, e tutte in ordinanza de' Beozî disposte al manco lato. Di Locride guidava i valorosi Aiace d'Oïlèo, veloce al corso. Di tutta la persona egli è minore del Telamonio, né minor di poco; ma picciolo quantunque e non coperto che di lino torace, ei tutti avanza e Greci e Achivi nel vibrar dell'asta. Di Cino, di Callïaro e d'Opunte lo seguono i deletti, e quei di Bessa, e quei che i colti dell'amena Augèe e di Scarfe lasciâr, misti di Tarfa ai duri agresti, e quei di Tronio a cui il Boagrio torrente i campi allaga. Venti e venti il seguìan preste carene della locrese gioventù venuta di là dai fini della sacra Eubèa. Ma gl'incoli d'Eubèa gli arditi Abanti, Eretrïensi, Calcidensi, e quelli dell'aprica vitifera Istïea, e di Cerinto e in una i marinari, e i montanari dell'alpestre Dio, e quei di Stira e di Caristo han duce il bellicoso Elefenòr, figliuolo di Calcodonte, e sir de' prodi Abanti. Snellissimi di piè portan costoro fiocchi di chiome su la nuca, egregi combattitori, a maraviglia sperti nell'abbassar la lancia, e sul nemico petto smagliati fracassar gli usberghi. E quaranta di questi eran le vele. Della splendida Atene ecco gli eroi, popolo del magnanimo Erettèo cui l'alma terra partorì. Nudrillo ed in Atene il collocò Minerva alla sant'ombra de' suoi pingui altari, ove l'attica gente a statuito giro di soli con agnelli e tauri placa la Diva. Guidator di questi era il Petìde Menestèo. Non vede pari il mondo a costui nella scïenza di squadronar cavalli e fanti. Il solo Nestor l'eguaglia, perché d'anni il vince. Cinquanta navi ha seco. Unîrsi a queste sei altre e sei di Salamina uscite, al Telamonio Aiace obbedienti. Seguìa l'eletta de' guerrier, cui d'Argo mandava la pianura e la superba d'ardue mura Tirinto e le di cupo golfo custodi Ermïone ed Asìne. Con essi di Trezene e della lieta di pampini Epidauro e d'Eïone venìa la squadra; e dopo questa un fiero di giovani drappello che d'Egina lasciò gli scogli e di Masete. A questi tre sono i duci, il marzio Dïomede, Stènelo dell'altero Capanèo diletta prole, e il somigliante a nume Eurïalo figliuol di Mecistèo Talaionide. Ma del corpo tutto condottiero supremo è Dïomede. E sono ottanta di costor le antenne. Ma ben cento son quelle a cui comanda il regnatore Agamennóne Atride. Sua seguace è la gente che gl'invìa la regale Micene e l'opulenta Corinto, e quella della ben costrutta Cleone e quella che d'Ornee discende, e dall'amena Aretirèa. Né scarsa fu de' suoi Sicïon, seggio primiero d'Adrasto. Anco Iperesia, anco l'eccelsa Gonoessa e Pellene ed Egio e tutte le marittime prode, e tutta intorno d'Elice la campagna impoverîrsi d'abitatori. E questa truppa è fiore di gagliardi, e la più di quante allora schierârsi in campo. D'arme rilucenti iva il duce vestito, ed esultava in suo segreto del vedersi il primo fra tanti eroi; e veramente egli era il maggior di que' regi, e conducea il maggior nerbo delle forze achive. Il concavo di balze incoronato lacedemonio suol Sparta e Brisèe, e Fari e Messa di colombe altrice, e Augìe la lieta e l'amiclèa contrada, Etila ed Elo al mar giacente e Laa, queste tutte spedîr sovra sessanta prore i lor figli; e Menelao li guida aïtante guerrier. Disgiunta ei tiene dalla fraterna la sua schiera, e forte del suo proprio valor la sprona all'armi, di vendicar su i Teucri impazïente l'onta e i sospir della rapita Elèna. Di novanta navigli capitano veniva il veglio cavalier Nestorre. Di Pilo ei guida e dell'aprica Arene gli abitanti e di Trio, guado d'Alfèo, e della ben fondata Epi, con quelli a cui Ciparissente e Anfigenìa sono stanza, e Ptelèo ed Elo e Dorio, Dorio famosa per l'acerbo scontro che col tracio Tamiri ebber le Muse il giorno che d'Ecalia e dagli alberghi dell'ecaliese Eurìto ei fea ritorno. Millantava costui che vinte avrìa al paragon del canto anco le Muse, le Muse figlie dell'Egìoco Giove. Adirate le dive al burbanzoso tolser la luce e il dolce canto e l'arte delle corde dilette animatrice. Seguìa l'arcade schiera dalle falde del Cillene discesa e dai contorni del tumulo d'Epìto, esperta gente nel ferir da vicino. Uscìa con essa di campestri garzoni una caterva, che del Fenèo li paschi e il pecoroso Orcomeno lasciâr. V'eran di Ripe e di Strazia i coloni e di Tegèa, e quei d'Enispe tempestosa, e quelli cui dell'amena Mantinèa nutrisce l'opima gleba e la stinfalia valle e la parrasia selva. Avean costoro spiegate al vento di cinquanta e dieci navi le vele, che a varcar le negre onde lor diè lo stesso rege Atride Agamennóne; perocché di studi marinareschi all'Arcade non cale. D'intrepidi nell'arme e sperti petti iva carca ciascuna, e la reggea d'Ancèo figliuolo il rege Agapenorre. La squadra che consegue, e si divide quadripartita, ha quattro duci, e ognuno a dieci navi accenna. Le montaro molti Epèi valorosi, e gli abitanti di Buprasio e del sacro elèo paese, e di tutto il terren che tra il confine di Mirsino ed Irmino si racchiude, e tra l'Olenia rupe e l'erto Alìsio. Di Cteato figliuol l'illustre Anfimaco guida il primo squadron, Talpio il secondo egregio seme dell'Eurìto Attòride; Dïore il terzo, generosa prole d'Amarincèo. Del quarto è correttore il simigliante a nume Polisseno, germe dell'Augeïade Agastene. Ai forti di Dulichio e delle sacre Echinadi isolette, che rimpetto alle contrade elèe rompon l'opposto pelago, a questi è condottier Megete, di sembiante guerrier pari a Gradivo. Il generò Filèo diletto a Giove, buon cavalier che dai paterni un giorno odii sospinto alla dulichia terra migrò fuggendo, e v'ebbe impero. Il figlio quaranta prore ad Ilïon guidava. Dei prodi Cefaleni, abitatori d'Itaca alpestre e di Nerito ombroso, di Crocilèa, di Samo e di Zacinto e dell'aspra Egelìpe e dell'opposto continente, di tutti è duce Ulisse vero senno di Giove; e lo seguièno dodici navi di vermiglio pinte. Ne spinge in mar quaranta il capitano degli Etoli Toante, a cui fu padre Andrèmone; e traea seco le torme di Pleurone, d'Oleno e di Pilene, quelle dell'aspra Calidone e quelle di Calcide. E raccolta era in Toante degli Etòli la somma signorìa da che la Parca i figli ebbe percosso del magnanimo Enèo, posto col biondo Meleagro infelice ei pur sotterra. Il gran mastro di lancia Idomenèo guida i Cretesi che di Gnosso usciro, di Litto, di Mileto e della forte Gortina e dalla candida Licasto e di Festo e di Rizio, inclite tutte popolose contrade, ed altri molti dell'alma Creta abitator, di Creta che di cento città porta ghirlanda. Di questi tutti Idomenèo divide col marzio Merïon la glorïosa capitananza; e ottanta navi han seco. Nove da Rodi ne varâr gli alteri Rodïani per l'isola partiti in triplice tribù: Lindo, Jaliso, e il biancheggiante di terren Camiro. L'Eraclide Tlepòlemo è lor duce, grande e robusto battaglier che al forte Ercole un giorno Astïochèa produsse, cui d'Efira e dal fiume Selleente seco addusse l'eroe, poiché distrutto v'ebbe molte cittadi e molta insieme gioventù generosa. Entro i paterni fidi alberghi Tlepòlemo cresciuto di subitaneo colpo a morte mise Licinnio, al padre avuncolo diletto, e canuto guerrier. Ratto costrusse alquante navi l'uccisore, e accolti molti compagni, si fuggì per l'onde, l'ira vitando e il minacciar degli altri figli e nipoti dell'erculeo seme. Dopo error molti e stenti i fuggitivi toccâr di Rodi il lido, e qui divisi tutti in tre parti posero la stanza: e il gran re de' mortali e degli Dei li dilesse, e su lor piovve la piena d'infinita mirabile ricchezza. Nirèo tre navi conducea da Sima, Nirèo d'Aglaia figlio e di Caropo, Nirèo di quanti navigaro a Troia il più vago, il più bel, dopo il Pelìde beltà perfetta. Ma un imbelle egli era; e turba lo seguìa di pochi oscuri. Quei che tenean Nisiro e Caso e Cràpato e Coo seggio d'Euripilo, e le prode dell'isole Calidne, il cenno regge d'Antifo e di Fidippo, ambo figliuoli di Tessalo Eraclìde. E trenta navi aravano a costor l'onda marina. Ditene adesso, o Dive, i valorosi d'Alo e d'Alope e del pelasgic'Argo e di Trachine; né di Ftia né d'Ellade, di bellissime donne educatrice, gli eroi tacete, Mirmidon chiamati, ed Elleni ed Achei. Sopra cinquanta prore a costoro è capitano Achille. Ma di guerra in que' cor tace il pensiero, ch'ei più non hanno chi a pugnar li guidi. Il divino Pelìde appo le navi neghittoso si giace, e della tolta Briseide l'ira si smaltisce in petto, bella di belle chiome alma fanciulla che in Lirnesso ei s'avea con molto affanno conquistata per mezzo alla ruïna di Lirnesso e di Tebe, a morte spinti del bellicoso Eveno ambo i figliuoli Epistrofo e Minete. Per costei languìa nell'ozio il mesto eroe; ma il giorno del suo destarsi all'armi era vicino. Quei che Filàce e la fiorita Pìrraso, terra a Cerere sacra, e la feconda di molto gregge Itóne, e quei che manda la marittima Antrone e di Ptelèo l'erboso suol, reggea, mentre che visse, il marzïal Protesilao. Ma lui la negra terra allor chiudea nel seno, e la moglie in Filàce derelitta le belle gote lacerava, e tutta vedova del suo re piangea la casa. Primo ei balzossi dalle navi, e primo trafitto cadde dal dardanio ferro: ma senza duce non restò sua schiera, ché Podarce or la guida, esimio figlio del Filacide Ificlo, che di pingui lanose torme avea molta ricchezza. Del magnanimo ucciso era Podarce minor germano; ma perché quel grande non pur d'anni il vincea, ma di prodezza, l'egregio estinto duce era pur sempre di sua schiera il desìo. Di questa squadra son quaranta le navi in ordinanza. Gli abitator di Fere, appo il bebèo stagno, e quelli di Bebe e di Glafira e dell'alta Jaolco avean salpato con undici navigli. Eumelo è duce, germe caro d'Admeto, e la divina in fra le donne Alcesti il partorìo, delle figlie di Pelia la più bella. Di Metone, Taumacia e Melibèa e dell'aspra Olizone era venuto con sette prore un fier drappello, e carca di cinquanta gagliardi era ciascuna, sperti di remo e d'arco e di battaglia. Famoso arciero li reggea da prima Filottete; ma questi egro d'acuti spasmi ora giace nella sacra Lenno, ove da tetra di pestifer angue piaga offeso gli Achei l'abbandonaro. Ma dell'afflitto eroe gl'ingrati Argivi ricorderansi, e in breve. Intanto il fido suo stuol si strugge del desìo di lui, ma non va senza duce. Lo governa Medon cui spurio figlio ad Oïlèo eversor di città Rena produsse. Que' poi che Tricca e la scoscesa Itome ed Ecalia tenean seggio d'Eurito, han capitani d'Esculapio i figli, della paterna medic'arte entrambi sperti assai, Podalirio e Macaone. Fan trenta navi di costor la schiera. Ormenio, Asterio e l'iperèe fontane, e del Titano le candenti cime i lor prodi mandâr sotto il comando del chiaro figlio d'Evemone Eurìpilo da quaranta carene accompagnato. D'Argissa e di Girton, d'Orte e d'Elona e della bianca Oloossona i figli procedono suggetti al fermo e forte Polipete, figliuol di Piritòo, del sempiterno Giove inclito seme; e generollo a Piritòo l'illustre Ippodamìa quel dì che dei bimembri irti Centauri ei fe' l'alta vendetta, e li cacciò dal Pelio, e agli Eticesi li confinò. Né solo è Polipete, ma seco è Leontèo, marzio germoglio del Cenìde magnanimo Corone. e questa è squadra di quaranta antenne. Venti da Cifo e due Gunèo ne guida d'Enïeni onerose e di Perebi, franchi soldati, e di color che intorno alla fredda Dodona avean la stanza, e di quelli che solcano gli ameni campi cui l'onda titaresia irriga, rivo gentil che nel Penèo devolve le sue bell'acque, né però le mesce con gli argenti penèi, ma vi galleggia come liquida oliva; ché di Stige (giuramento tremendo) egli è ruscello. Ultimo vien di Tentredone il figlio il veloce Protòo, duce ai Magneti dal bel Penèo mandati e dal frondoso Pelio. Il seguìan quaranta navi. E questi fur dell'achiva armata i capitani. Dimmi or, Musa, chi fosse il più valente di tanti duci e de' cavalli insieme che gli Atridi seguîr. Prestanti assai eran le ferezïadi puledre ch'Eumèlo maneggiava, agili e ratte come penna d'augello, ambe d'un pelo, d'età pari e di dosso a dritto filo. Il vibrator del curvo arco d'argento Febo educolle ne' pïerii prati, e portavan di Marte la paura nelle battaglie. Degli eroi primiero era l'Aiace Telamonio, mentre perseverò nell'ira il grande Achille, il più forte di tutti; e innanzi a tutti ivan di pregio i corridor portanti l'incomparabil Tessalo. Ma questi nelle ricurve navi si giacea inoperoso, e sempre spirante ira contro l'Atride Agamennóne. Intanto lunghesso il mare al disco, all'asta, all'arco i suoi guerrieri si prendean diletto. Ozïosi i cavalli appo i lor cocchi pasceano l'apio paludoso e il loto, e i cocchi si giacean coperti e muti nelle tende dei duci, e i duci istessi, del bellicoso eroe desiderosi, givan pel campo vagabondi e inerti. Movean le schiere intanto in vista eguali a un mar di foco inondator, che tutta divorasse la terra; ed alla pesta de' trascorrenti piedi il suol s'udìa rimbombar. Come quando il fulminante irato Giove Inarime flagella duro letto a Tifèo, siccome è grido; così de' passi al suon gemea la terra. Mentre il campo traversano veloci gli Achei, col piè che i venti adegua, ai Teucri Iri discese di feral novella apportatrice, e la spedìa di Giove un comando. Tenean questi consiglio giovani e vecchi, congregati tutti ne' regali vestiboli. Mischiossi tra lor la Diva, di Polìte assunta l'apparenza e la voce. Era Polìte di Priamo un figlio che, del piè fidando nella prestezza, stavasi de' Teucri esploratore al monumento in cima dell'antico Esïeta, e vi spïava degli Achivi la mossa. In queste forme trasse innanzi la Diva, e al re conversa, Padre, disse, che fai? Sempre a te piace il molto sermonar come ne' giorni della pace; né pensi alla ruina che ne sovrasta. Molte pugne io vidi, ma tali e tante non vid'io giammai ordinate falangi. Numerose al pari delle foglie e dell'arene procedono nel campo a dar battaglia sotto Troia. Tu dunque primamente, Ettore, ascolta un mio consiglio, e il poni ad effetto. Nel sen di questa grande città diversi di diverse lingue abbiam guerrieri di soccorso. Ognuno de' lor duci si ponga alla lor testa, e tutti in punto di pugnar li metta. Conobbe Ettorre della Dea la voce, e di subito sciolse il parlamento. Corresi all'armi, si spalancan tutte le porte, e folti sboccano in tumulto fanti e cavalli. Alla città rimpetto solitario nel piano ergesi un colle a cui s'ascende d'ogni parte. È detto da' mortai Batïèa, dagl'immortali tomba dell'agilissima Mirinna; ivi i Teucri schierârsi e i collegati. Capitan de' Troiani è il grande Ettorre, d'eccelso elmetto agitator. Lo segue de' più forti guerrier schiera infinita coll'aste in pugno di ferir bramose. Ai Dardani comanda il valoroso figliuol d'Anchise Enea cui la divina Venere in Ida partorì, commista Diva immortale ad un mortal; ned egli solo comanda, ma ben anco i due Antenòridi Archìloco e Acamante in tutte guise di battaglia esperti. Quei che dell'Ida alle radici estreme hanno stanza in Zelèa ricchi Troiani la profonda beventi acqua d'Asepo, Pandaro guida, licaonio figlio, cui fe' dono dell'arco Apollo istesso. Della città d'Apesio e d'Adrastèa, di Pitïèa la gente e dell'eccelsa ferèa montagna han duci Adrasto ed Anfio corazzato di lino, ambo rampolli di Merope Percosio. Era costui divinator famoso, ed a' suoi figli non consentìa l'andata all'omicida guerra. Ma i figli non l'udir; ché nero a morir li traea fato crudele. Mandâr Percote e Prazio e Sesto e Abido e la nobile Arisba i lor guerrieri, ed Asio li conduce, Asio figliuolo d'Irtaco, e prence che d'Arisba venne da fervidi portato alti cavalli alla riviera sellentèa nudriti. Dalla pingue Larissa i furibondi lanciatori pelasghi Ippòtoo mena con Pilèo, bellicosi ambo germogli del pelasgico Leto Teutamìde. Acamante e l'eroe duce Piròo i Traci conducean quanti ne serra l'estuoso Ellesponto; ed i Cicòni del giavellotto vibratori, Eufemo del Ceade Trezeno alto nipote; poi Pirecme i Peòni a cui sul tergo suonan gli archi ricurvi, e gli spedisce la rimota Amidone, e l'Assio, fiume di larga correntìa, l'Assio di cui non si spande ne' campi onda più bella. Dall'èneto paese ov'è la razza dell'indomite mule, conducea di Pilemene l'animoso petto i Paflagoni, di Citoro e Sèsamo e di splendide case abitatori lungo le rive del Partenio fiume, e d'Egiàlo e di Cromna e dell'eccelse balze eritine. Li seguìa la squadra degli Alizoni d'Alibe discesi, d'Alibe ricca dell'argentea vena. Duci a questi eran Hodio ed Epistròfo, e Cromi ai Misii e l'indovino Ennòmo. Ma con gli augurii il misero non seppe schivar la Parca. Sotto l'asta ei cadde del Pelìde, quel dì che di nemica strage vermiglio lo Scamandro ei fece. Forci ed Ascanio dëiforme al campo dall'Ascania traean le frigie torme di commetter battaglia impazïenti. Di Pilemene i figli Antifo e Mestle, alla gigèa palude partoriti, ai Meonii eran duci, a quelli ancora che alla falda del Tmolo ebber la vita. Quindi i Carii di barbara favella di Mileto abitanti e del frondoso monte de' Ftiri e del meandrio fiume e dell'erte di Mìcale pendici. Anfimaco a costor con Naste impera, figli di Nomïon, Naste un prudente, Anfimaco un insano. Iva alla pugna carco d'oro costui come fanciulla: stolto! ché l'oro allontanar non seppe l'atra morte che il giunse allo Scamandro. Ivi il ferro achilleo lo stese, e l'oro preda del forte vincitor rimase. Venìan di Licia alfine, e dai rimoti gorghi del Xanto i Licii, e li guidava l'incolpabile Glauco e Sarpedonte.
Poiché sotto i lor duci ambo schierati gli eserciti si fur, mosse il troiano come stormo d'augei, forte gridando e schiamazzando, col romor che mena lo squadron delle gru, quando del verno fuggendo i nembi l'oceàn sorvola con acuti clangori, e guerra e morte porta al popol pigmeo. Ma taciturni e spiranti valor marcian gli Achivi, pronti a recarsi di conserto aita. Come talor del monte in su la cima di Scirocco il soffiar spande la nebbia al pastore odiosa, al ladro cara più che la notte, né va lunge il guardo più che tiro di pietra: a questa guisa si destava di polve una procella sotto il piè de' guerrieri che veloci l'aperto campo trascorrean. Venuti di poco spazio l'un dell'altro a fronte gli eserciti nemici, ecco Alessandro nelle prime apparir file troiane bello come un bel Dio. Portava indosso una pelle di pardo, ed il ricurvo arco e la spada; e due dardi guizzando ben ferrati ed aguzzi, iva de' Greci sfidando i primi a singolar conflitto. Il vide Menelao dinanzi a tutti venir superbo a lunghi passi; e quale il cor s'allegra di lïon che visto un cervo di gran corpo o caprïolo, spinto da fame a divorarlo intende, e il latrar de' molossi, e degli audaci villan robusti il minacciar non cura; tale alla vista del Troian leggiadro esultò Menelao. Piena sperando far sopra il traditor la sua vendetta, balza armato dal cocchio: e lui scorgendo venir tra' primi, in cor turbossi il drudo, e della morte paventoso in salvo si ritrasse tra' suoi. Qual chi veduto in montana foresta orrido serpe risalta indietro, e per la balza fugge di paura tremante e bianco in viso, tal fra le schiere de' superbi Teucri, l'ira temendo del figliuol d'Atreo, l'avvenente codardo retrocesse. Ettore il vide, e con ripiglio acerbo gli fu sopra gridando: Ahi sciagurato! ahi profumato seduttor di donne, vile del pari che leggiadro! oh mai mai non fossi tu nato, o morto fossi anzi ch'esser marito, ché tal fôra certo il mio voto, e per te stesso il meglio, più che carco d'infamia ir mostro a dito. Odi le risa de' chiomati Achei, che al garbo dell'aspetto un valoroso ti suspicâr da prima, e or sanno a prova che vile e fiacca in un bel corpo hai l'alma. E vigliacco qual sei tu il mar varcasti con eletti compagni? e visitando straniere genti tu dall'apia terra donna d'alta beltà, moglie d'eroi, rapir potesti, e il padre e Troia e tutti cacciar nelle sciagure, agl'inimici farti bersaglio, ed infamar te stesso? Perché fuggi? perché di Menelao non attendi lo scontro? Allor saprai di qual prode guerrier t'usurpi e godi la florida consorte: né la cetra ti varrà né il favor di Citerea, né il vago aspetto né la molle chioma, quando cadrai riverso nella polve. Oh fosser meno paurosi i Teucri! ché tu n'andresti già, premio al mal fatto, d'un guarnello di sassi rivestito. Ed il vago a rincontro: Ettore, il veggo, a ragion mi rampogni, ed io t'escuso. Ma quel duro tuo cor scure somiglia che ben tagliente una navale antenna fende, vibrata da gagliardi polsi, e nerbo e lena al fenditor raddoppia. Non rinfacciarmi di Ciprigna i doni, ché, qualunque pur sia, gradito e bello sempre è il dono d'un Dio; né il conseguirlo è nel nostro volere. Or se t'aggrada ch'io scenda a duellar, fa che l'achee squadre e le teucre seggansi tranquille, e me nel mezzo e Menelao mettete d'Elena armati a terminar la lite, e di tutto il tesor di ch'ella è ricca. Qual si vinca di noi s'abbia la donna con tutto insieme il suo regal corredo, e via la meni alle sue case; e tutti su le percosse vittime giurando amistà, voi di Troia abiterete l'alma terra securi, e quelli in Argo faran ritorno e nell'Acaia in braccio alle vaghe lor donne. - A questo dire brillò di gioia Ettorre, ed elevando l'asta brandita e procedendo in mezzo, di sostarsi fe' cenno alle sue schiere. Tutte fêr alto: ma gl'infesti Achei a saettar si diero alla sua mira e dardi e sassi, infin che forte alzando la voce Agamennón: Cessate, ei grida, cessate, Argivi; non vibrate, Achei, ch'egli par che parlarne il bellicoso Ettore brami. - Riverenti tutti cessâr le offese, e si fur queti. Allora fra questo campo e quello Ettor sì disse: Troiani, Achivi, dal mio labbro udite ciò che parla Alessandro, esso per cui fra noi surta ed accesa è tanta guerra. Egli vuol che de' Teucri e degli Achei quete stian l'armi, e sia da solo a solo col bellicoso Menelao decisa d'Elena la querela, e in un di quanta ricchezza le pertien. Quegli de' due che rimarrassi vincitor, si prenda la bella donna, e in sua magion l'adduca col tutto che possiede: e sia tra noi con saldi patti l'amistà giurata. Disse; e tutti ammutîr. Ma non già muto si restò Menelao, che doloroso, Me pur, gridava, me me pure udite, ché il primo offeso mi son io. Fra' Greci bramo io pur diffinita e fra' Troiani questa lite una volta e le sofferte molte sventure per la mia ragione e per l'oltraggio d'Alessandro. Or quello perisca di noi due, che dalla Parca è dannato a perire; e voi con pace vi separate. Una negr'agna adunque svenate, o Teucri, all'alma Terra, e un agno di bianco pelo al Sole: un terzo a Giove offrirassi da noi. Ma venga all'ara la maestà di Prïamo, e la pace giuri egli stesso su le sacre fibre (ché spergiuri per prova e senza fede io conosco i suoi figli), onde protervo nessun di Giove i giuramenti infranga. Incostante, com'aura, è per natura de' giovani il pensier; ma dove il senno intervien de' canuti, a cui presenti son le passate e le future cose, ivi è felice d'ambe parti il fine. Sì disse; e rallegrò Teucri ed Achei la dolce speme di finir la guerra. Schieraro i cocchi e ne smontâr: svestiti quindi dell'armi, le adagiâr su l'erba, l'une appresso dell'altre, e breve spazio separava le schiere. Alla cittade due banditori, a trarne i sacri agnelli e a chiamar ratti il padre, Ettore invìa: invìa del pari il rege Agamennóne alle navi Taltibio, onde la terza ostia n'adduca; e obbediente ei corse. Scese intanto dal cielo ambasciatrice Iri ad Elèna dalle bianche braccia, della cognata Laodice assunto il sembiante gentil, di Laodice che pregiata del prence Elicaone, d'Antènore figliuolo, era consorte, e tra le figlie prïamee tenuta la più vaga. Trovolla che tessea a doppia trama una splendente e larga tela, e su quella istorïando andava le fatiche che molte a sua cagione soffrìano i Teucri e i loricati Achei. La Diva innanzi le si fece, e disse: Sorgi, sposa diletta, a veder vieni de' Troiani e de' Greci un ammirando spettacolo improvviso. Essi che dianzi di sangue ingordi lagrimosa guerra si fean nel campo, or fatto han tregua, e queti seggonsi e curvi su gli scudi in mezzo alle lunghe lor picche al suol confitte. Alessandro frattanto e Menelao per te coll'asta in singolar certame combatteranno, e tu verrai chiamata del prode vincitor cara consorte. Con questo ragionar la Dea le mise un subito nel cor dolce desìo del primiero marito e della patria e de' parenti. Ond'ella in bianco velo prestamente ravvolta, e di segrete tenere stille rugiadosa il ciglio, della stanza n'usciva; e non già sola, ma due donzelle la seguìan, Climene per grand'occhi lodata, e di Pitteo Etra la figlia. Delle porte Scee giunser tosto alla torre, ove seduto Priamo si stava, e con lui Lampo e Clizio, Pantòo, Timete, Icetaone e i due spegli di senno Ucalegonte e Antènore, del popol senïori, che dell'armi per vecchiezza deposto avean l'affanno, ma tutti egregi dicitor, sembianti alle cicade che agli arbusti appese dell'arguto lor canto empion la selva. Come vider venire alla lor volta la bellissima donna i vecchion gravi alla torre seduti, con sommessa voce tra lor venìan dicendo: In vero biasmare i Teucri né gli Achei si denno se per costei sì dïuturne e dure sopportano fatiche. Essa all'aspetto veracemente è Dea. Ma tale ancora via per mar se ne torni, e in nostro danno più non si resti né de' nostri figli. Dissero; e il rege la chiamò per nome: Vieni, Elena, vien qua, figlia diletta, siedimi accanto, e mira il tuo primiero sposo e i congiunti e i cari amici. Alcuna non hai colpa tu meco, ma gli Dei, che contra mi destâr le lagrimose arme de' Greci. Or drizza il guardo, e dimmi chi sia quel grande e maestoso Acheo di sì bel portamento? Altri l'avanza ben di statura, ma non vidi al mondo maggior decoro, né mortale io mai degno di tanta riverenza in vista: Re lo dice l'aspetto. - E la più bella delle donne così gli rispondea: Suocero amato, la presenza tua di timor mi rïempie e di rispetto. Oh scelta una crudel morte m'avessi, pria che l'orme del tuo figlio seguire, il marital mio letto abbandonando e i fratelli e la cara figlioletta e le dolci compagne! Al ciel non piacque; e quindi è il pianto che mi strugge. Or io di ciò che chiedi ti farò contento. Quegli è l'Atride Agamennón di molte vaste contrade correttor supremo, ottimo re, fortissimo guerriero, un dì cognato a me donna impudica, s'unqua fui degna che a me tale ei fosse. Disse; ed in lui maravigliando il vecchio fisse il guardo e sclamò: Beato Atride, cui nascente con fausti occhi miraro la Parca e la Fortuna, onde il comando di fior tanto d'eroi ti fu sortito! Sovviemmi il giorno ch'io toccai straniero la vitifera Frigia. Un denso io vidi popolo di cavalli agitatore dell'inclito Migdon schiere e d'Otrèo, che poste del Sangario alla riviera avean le tende, ed io co' miei m'aggiunsi lor collegato, e fui del numer uno il dì che a pugna le virili Amàzzoni discesero. Ma tante allor non fûro le frigie torme no quante or l'achee. Visto un secondo eroe, di nuovo il vecchio la donna interrogò: Dinne chi sia quell'altro, o figlia. Egli è di tutto il capo minor del sommo Agamennón, ma parmi e del petto più largo e della spalla. Gittate ha l'armi in grembo all'erba, ed egli come arïète si ravvolve e scorre tra le file de' prodi; e veramente parmi di greggia guidator lanoso quando per mezzo a un branco si raggira di candide belanti, e le conduce. Quegli è l'astuto laerziade Ulisse, la donna replicò, là nell'alpestre suol d'Itaca nudrito, uom che ripieno di molti ingegni ha il capo e di consigli. Donna, parlasti il ver, soggiunse il saggio Antènore. Spedito a dimandarti col forte Menelao qua venne un tempo ambasciatore Ulisse, ed io fui loro largo d'ospizio e d'accoglienze oneste, e d'ambo studïai l'indole e il raro accorgimento. Ma venuto il giorno di presentarsi nel troian senato, notai che, stanti l'uno e l'altro in piedi, il soprastava Menelao di spalla; ma seduti, apparìa più augusto Ulisse. Come poi la favella e de' pensieri spiegâr la tela, ognor succinto e parco ma concettoso Menelao parlava; ch'uom di molto sermone egli non era, né verbo in fallo gli cadea dal labbro, benché d'anni minor. Quando poi surse l'itaco duce a ragionar, lo scaltro stavasi in piedi con lo sguardo chino e confitto al terren, né or alto or basso movea lo scettro, ma tenealo immoto in zotica sembianza, e un dispettoso detto l'avresti, un uom balzano e folle. Ma come alfin dal vasto petto emise la sua gran voce, e simili a dirotta neve invernal piovean l'alte parole, verun mortale non avrebbe allora con Ulisse conteso; e noi ponemmo la maraviglia di quel suo sembiante. Qui vide un terzo il re d'eccelso e vasto corpo, ed inchiese: Chi quell'altro fia che ha membra di gigante, e va sovrano degli omeri e del capo agli altri tutti? - Il grande Aiace, rispondea racchiusa nel fluente suo vel la dìa Lacena, Aiace, rocca degli Achei. Quell'altro dall'altra banda è Idomenèo: lo vedi? ritto in piè fra' Cretensi un Dio somiglia, e de' Cretensi gli fan cerchio i duci. Spesso ad ospizio nelle nostre case l'accolse Menelao, ben lo ravviso, e ravviso con lui tutti del greco campo i primi, e potrei di ciascheduno dir anco il nome: ma li due non veggo miei germani gemelli, incliti duci, Càstore di cavalli domatore, e il valoroso lottator Polluce. Forse di Sparta non son ei venuti; o venuti, di sé nelle battaglie niegan far mostra, del mio scorno ahi! forse vergognosi, e dell'onta che mi copre. Così parlava, né sapea che spenti il diletto di Sparta almo terreno lor patrio nido li chiudea nel grembo. Venìan recando i banditori intanto dalla città le sacre ostie di pace, due trascelti agnelletti, e della terra giocondo frutto generoso vino chiuso in otre caprigno. Il messaggiero Idèo recava un fulgido cratere ed aurati bicchier. Giunto al cospetto del re vegliardo sì l'invita e dice: Sorgi, figliuol laomedonteo; nel campo ti chiamano de' Teucri e degli Achei gli ottimati a giurar l'ostie percosse d'un accordo. Alessandro e Menelao disputeransi colle lunghe lancie l'acquisto della sposa; e questa e tutte sue dovizie daransi al vincitore. Noi patteggiando un'amistà fedele Ilio securi abiteremo, e in Argo daran volta gli Achei. Sì disse; e strinse il cor del vecchio la pietà del figlio. A' suoi sergenti nondimen comanda d'aggiogargli i destrieri, e quelli al cenno pronti obbediro. Montò Priamo, e indietro tratte le briglie, fe' su l'alto cocchio salirsi al fianco Antènore. Drizzaro fuor delle Scee nel campo i corridori. De' Troi giunti al cospetto e degli Achei scesero a terra, e fra l'un campo e l'altro procedean venerandi. Ad incontrarli tosto rizzossi Agamennón, rizzossi l'accorto Ulisse; e i risplendenti araldi tutto venìan frattanto apparecchiando dell'accordo il bisogno, e nel cratere mescean le sacre spume. Indi de' regi dieder l'acqua alle mani; e Agamennóne tratto il coltello che alla gran vagina della spada portar solea sospeso, de' consecrati agnei recise il ciuffo: e quinci in giro e quindi distributo fu dagli araldi il sacro pelo ai duci, de' quai nel mezzo Agamennón, levando e la voce e le man, supplice disse: Giove, d'Ida signor, massimo padre, e sovra ogni altro glorioso Iddio, Sole che tutto vedi e tutto ascolti, alma Tellure genitrice, e voi fiumi, e voi che punite ogni spergiuro laggiù nel morto regno, inferni Dei, siate voi testimoni e in un custodi del patto che giuriam. Se a Menelao darà morte Alessandro, egli in sua possa Elena e tutto il suo tesor si tegna; e noi spedito promettiam ritorno su l'ondivaghe prore al patrio lido. Ma se avverrà che Menelao di vita spogli Alessandro, i Teucri allor la donna ne renderanno e l'aver suo con ella, pagando ammenda che convegna, e tale che ne passi il ricordo anco ai futuri. Se Priamo e i figli suoi, spento Alessandro, negheran di pagarla, io qui coll'arme sosterrò mia ragione, e rimarrovvi finché punito il mancator ne sia. Disse; e col ferro degli agnelli incise le mansuete gole, e palpitanti sul terren li depose e senza vita. Ciò fatto, il sacro di Lïeo licore dal cratere attignendo, agl'Immortali fean colle tazze libagioni e voti; e qualche Teucro e qualche Acheo s'intese in questo mentre così dire: O sommo augustissimo Giove, e voi del cielo Dii tutti quanti, udite: A chi primiero rompa l'accordo, sia Troiano o Greco, possa il cerèbro distillarsi, a lui ed a' suoi figli, al par di questo vino, e adultera la moglie ir d'altri in braccio. Così pregâr: ma chiuse a cotal voto Giove l'orecchio. Il re dardanio allora, Uditemi, dicea, Teucri ed Achei: alla cittade io riedo. A qual de' due troncar debba la Parca il vital filo sol Giove e gli altri Sempiterni il sanno. Ma contemplar del fiero Atride a fronte un amato figliuol, vista sì cruda gli occhi d'un padre sostener non ponno. Sì dicendo, sul cocchio le sgozzate vittime pose il venerando veglio, e ascesovi egli stesso, e tratte al petto le pieghevoli briglie, al par con seco fe' Antènore salire, e via con esso al ventoso Ilïon si ricondusse. Ettore allora primamente e Ulisse misurano la lizza. Indi le sorti scosser nell'elmo a chi primier dovesse l'asta vibrar. L'un campo intanto e l'altro le mani alzando supplicava al cielo, e qualche labbro bisbigliar s'udìa: Giove padre, che grande e glorïoso godi in Ida regnar, quello de' due, che tra noi fu cagion di sì gran lite, fa che spento precipiti alla cupa magion di Pluto, ed una salda a noi amistà ne concedi e patti eterni. Fra questo supplicar l'elmo squassava Ettòr, guardando addietro: ed ecco uscire di Paride la sorte. Allor s'assise al suo posto ciascun, vicino a' suoi scalpitanti destrieri e alle giacenti armi diverse. Della ben chiomata Elena intanto l'avvenente sposo Alessandro di fulgida armatura tutto si veste. E pria di bei schinieri che il morso costrignea d'argentea fibbia, cinse le tibie. Quindi una lorica del suo germano Licaon, che fatta al suo sesto parea, si pose al petto: all'omero sospese il brando, ornato d'argentei chiovi; un poderoso scudo di grand'orbe imbracciò; chiuse la fronte nel ben temprato e lavorato elmetto, a cui d'equine chiome in su la cima alta una cresta orribilmente ondeggia. Ultima prese una robusta lancia che tutto empieagli il pugno. In questo mentre del par s'armava il bellicoso Atride. Di lor tutt'arme accinti i due guerrieri s'appresentâr nel mezzo, e si guataro biechi. Al vederli stupor prese e tema i Dardani e gli Achei. L'un contra l'altro l'aste squassando al mezzo dell'arena s'avvicinâr sdegnosi; ed il Troiano primier la lunga e grave asta vibrando la rotella colpì del suo nemico, ma non forolla, ché la buona targa rintuzzonne la punta. Allor secondo coll'asta alzata Menelao si mosse così pregando: Dammi, o padre Giove, sovra costui che m'oltraggiò primiero, dammi sovra il fellon piena vendetta. Tu sotto i colpi di mia destra il doma sì che il postero tremi, e a non tradire l'ospite apprenda che l'accolse amico. Disse, e l'asta avventò, la conficcò dell'avversario nel rotondo scudo. Penetrò fulminando la ferrata punta il pavese rilucente, e tutta trapassò la corazza, lacerando la tunica sul fianco a fior di pelle. Incurvossi il Troiano, ed il mortale colpo schivò. L'irato Atride allora trasse la spada, ed erto un gran fendente gli calò ruïnoso in su l'elmetto. Non resse il brando, ché in più pezzi infranto gli lasciò la man nuda; ond'ei gemendo e gli occhi alzando dispettoso al cielo, Crudel Giove, gridava, il più crudele di tutti i numi! Io mi sperai punire di questo traditor l'oltraggio: ed ecco che in pugno, oh rabbia! mi si spezza il ferro, e gittai l'asta indarno e senza offesa. Così fremendo, addosso all'inimico con furor si disserra: alla criniera dell'elmo il piglia, e tragge a tutta forza verso gli Achivi quel meschino, a cui la delicata gola soffocava il trapunto guinzaglio che le barbe annodava dell'elmo sotto il mento. E l'avrìa strascinato, e a lui gran lode venuta ne sarìa; ma del periglio fatta Venere accorta i nodi sciolse del bovino guinzaglio, e il vôto elmetto seguì la mano del traente Atride. Aggirollo l'eroe, e fra le gambe lo scagliò degli Achei, che festeggianti il raccolsero. Allor di porlo a morte risoluto l'Atride, alto coll'asta di nuovo l'assalì. Di nuovo accorsa lo scampò Citerea, che agevolmente il poté come Diva: lo ravvolse di molta nebbia, e fra il soave olezzo dei profumati talami il depose. Ella stessa a chiamar quindi la figlia corse di Leda, e la trovò nell'alta torre in bel cerchio di dardanie spose. Prese il volto e le rughe d'un'antica filatrice di lane, che sfiorarne ad Elena solea di molte e belle nei paterni soggiorni, e sommo amore posto le avea. Nella costei sembianza la Dea le scosse la nettarea veste, e, Vieni, le dicea, vieni; ti chiama Alessandro che già negli odorati talami stassi, e su i trapunti letti tutto risplende di beltà divina in sì gaio vestir, che lo diresti ritornarsi non già dalla battaglia, ma invïarsi alla danza, o dalla danza riposarsi. Sì disse, e il cor nel seno le commosse. Ma quando all'incarnato del bellissimo collo, e all'amoroso petto, e degli occhi al tremolo baleno riconobbe la Dea, coglier sentissi di sacro orrore, e ritrovate alfine le parole, sclamò: Trista! e che sono queste malizie? Ad alcun'altra forse di Meonia o di Frigia alta cittade vuoi tu condurmi affascinata in braccio d'alcun altro tuo caro? Ed or che vinto il suo rival, me d'odio carca a Sparta e perdonata Menelao radduce, sei tu venuta con novelli inganni ad impedirlo? E ché non vai tu stessa e goderti quel vile? Obblìa per lui l'eterea sede, né calcar più mai dell'Olimpo le vie: statti al suo fianco, soffri fedele ogni martello, e il cova finché t'alzi all'onor di moglie o ancella; ch'io tornar non vo' certo (e fôra indegno) a sprimacciar di quel codardo il letto, argomento di scherno alle troiane spose, e a me stessa d'infinito affanno. E irata a lei la Dea: Non irritarmi, sciagurata! non far ch'io t'abbandoni nel mio disdegno, e tanto io sia costretta ad abborrirti alfin quanto t'amai; e t'amai certo a dismisura. Or io negli argolici petti e ne' troiani metterò, se mi tenti, odii sì fieri, che di mal fato perirai tu pure. L'alma figlia di Leda a questo dire tremò, si chiuse nel suo bianco velo, e cheta cheta in via si pose, a tutte le Troadi celata, e precorreva a' suoi passi la Dea. Poiché venute fur d'Alessandro alle splendenti soglie, corser di qua di là le scaltre ancelle ai donneschi lavori, ed ella intanto bellissima saliva e taciturna ai talami sublimi. Ivi l'amica del riso Citerea le trasse innanzi di propria mano un seggio, e di rimpetto ad Alessandro il collocò. S'assise la bella donna, e con amari accenti, garrì, senza mirarlo, il suo marito: E così riedi dalla pugna? Oh fossi colà rimasto per le mani anciso di quel gagliardo un dì mio sposo! E pure e di lancia e di spada e di fortezza ti vantasti più volte esser migliore. Fa cor dunque, va, sfida il forte Atride alla seconda singolar tenzone. Ma t'esorto, meschino, a ti star queto, né nuovo ritentar d'armi periglio col tuo rivale, se la vita hai cara. Non mi ferir con aspri detti, o donna, le rispose Alessandro. Fu Minerva che vincitor fe' Menelao, sol essa. Ma lui del pari vincerò pur io, ch'io pure al fianco ho qualche Diva. Or via pace, o cara, e ne sia pegno un amplesso su queste piume; ché giammai sì forte per te le vene non scaldommi Amore, quel dì né pur che su veloci antenne io ti rapìa di Sparta, e tuo consorte nell'isola Crenea ti giacqui in braccio. No, non t'amai quel dì quant'ora, e quanto di te m'invoglia il cor dolce desìo. Disse; ed al letto s'avvïaro, ei primo, ella seconda; e l'un dell'altro in grembo su i mollissimi strati si confuse. Come irato lïon l'Atride intanto di qua di là si ravvolgea cercando il leggiadro rival; né lui fra tanta turba di Teucri e d'alleati alcuno significar sapea, né lo sapendo l'avrìa di certo per amor celato; ché come il negro ceffo della morte abborrito da tutti era costui. Fattosi innanzi allora Agamennóne, Teucri, Dardani, ei disse, e voi di Troia alleati, m'udite. Vincitore fu, lo vedeste, Menelao. Voi dunque Elena ne rendete, e tutta insieme la sua ricchezza, e d'un'ammenda inoltre ne rintegrate che convegna, e tale che memoria ne passi anco ai nepoti. Disse; e tutto gli plause il campo acheo.
Nell'auree sale dell'Olimpo accolti intorno a Giove si sedean gli Dei a consulta. Fra lor la veneranda Ebe versava le nettaree spume, e quelli a gara con alterni inviti l'auree tazze vôtavano mirando la troiana città. Quand'ecco il sommo Saturnio, inteso ad irritar Giunone, con un obliquo paragon mordace così la punse: Due possenti Dive aiutatrici ha Menelao, l'Argiva Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure neghittose in disparte ambo si stanno sol del vederlo dilettate. Intanto fida al fianco di Paride l'amica del riso Citerea lungi respinge dal suo caro la Parca; e dianzi, in quella ch'ei morto si tenea, servollo in vita. Rimasta è al forte Menelao la palma; ma l'alto affar non è compiuto, e a noi tocca il condurlo, e statuir se guerra fra le due genti rinnovar si debba, od in pace comporle. Ove la pace tutti appaghi gli Dei, stia Troia, e in Argo con la consorte Menelao ritorni. Strinser, fremendo a questo dir, le labbia Giuno e Minerva, che vicin sedute venìan de' Teucri macchinando il danno. Quantunque al padre fieramente irata tacque Minerva e non fiatò. Ma l'ira non contenne Giunone, e sì rispose: Acerbo Dio, che parli? A far di tante armate genti accolta, alla ruïna di Priamo e de' suoi figli, ho stanchi i miei immortali corsieri; e tu pretendi frustrar la mia fatica, ed involarmi de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga; ma di noi tutti non sperar l'assenso. Feroce Diva, replicò sdegnoso l'adunator de' nembi, e che ti fêro, e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba voler sempre di Troia il giorno estremo? La tua rabbia non fia dunque satolla se non atterri d'Ilïon le porte, e sull'infrante mura non ti bevi del re misero il sangue e de' suoi figli e di tutti i Troiani? Or su, fa come più ti talenta, onde fra noi sorgente d'acerbe risse in avvenir non sia questo dissidio: ma riponi in petto le mie parole. Se desìo me pure prenderà d'atterrar qualche a te cara città, non porre a' miei disdegni inciampo, e liberi li lascia. A questo patto Troia io pur t'abbandono, e di mal cuore; ché, di quante città contempla in terra l'occhio del sole e dell'eteree stelle, niuna io m'aggio più cara ed onorata come il sacro Ilïone e Priamo e tutta di Priamo pur la bellicosa gente: perocché l'are mie per lor di sacre opìme dapi abbondano mai sempre, e di libami e di profumi, onore solo alle dive qualità sortito. Compose a questo dir la veneranda Giuno gli sguardi maestosi, e disse: Tre cittadi sull'altre a me son care Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi se odiose ti sono. A lor difesa né man né lingua moverò; ché quando pure impedir lo ti volessi, indarno il tentarlo uscirìa, sendo d'assai tu più forte di me. Ma dritto or parmi che tu vano non renda il mio disegno, ch'io pur son nume, e a te comune io traggo l'origine divina, io dell'astuto Saturno figlia, e in alto onor locata, perché nacqui sorella e perché moglie son del re degli Dei. Facciam noi dunque l'un dell'altro il volere, e il seguiranno gli altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva fra i due commossi eserciti, onde spinga i Troiani ad offendere primieri, rotto l'accordo, i baldanzosi Achei. Assentì Giove al detto, ed a Minerva, Scendi, disse, veloce, e fa che i Teucri primi offendan gli Achei, turbando il patto. A Minerva, per sé già desïosa, sprone aggiunse quel cenno. In un baleno dall'Olimpo calò. Quale una stella cui portento a' nocchieri o a numerose schiere d'armati scintillante e chiara invìa talvolta di Saturno il figlio; tale in vista precipita dall'alto Minerva in terra, e piantasi nel mezzo. Stupîr Teucri ed Achivi all'improvvisa visïone, e talun disse al vicino: Arbitro della guerra oggi vuol Giove per certo rinnovar fra un campo e l'altro l'acerba pugna, o confermar la pace. La Dea mischiossi tra la folta intanto delle turbe troiane, e la sembianza di Laòdoco assunta (un valoroso d'Antènore figliuol) si pose in traccia del dëiforme Pandaro. Trovollo stante in piedi nel mezzo al clipeato stuolo de' forti che l'avea seguìto dalle rive d'Esepo. Appropinquossi a lui la Diva, e disse: Inclito germe di Licaon, vuoi tu ascoltarmi? Ardisci, vibra nel petto a Menelao la punta d'un veloce quadrello. E grazia e lode te ne verrà dai Dardani e dal prence Paride in prima, che d'illustri doni colmeratti, vedendo il suo rivale montar sul rogo, dal tuo stral trafitto. Su via dunque, dardeggia il burbanzoso Atride, e al licio saettante Apollo prometti che, tornato al patrio tetto nella sacra Zelèa, darai di scelti primogeniti agnelli un'ecatombe. Così disse Minerva, e dello stolto persuase il pensier. Diè mano ei tosto al bell'arco, già spoglia di lascivo capro agreste. L'aveva egli d'agguato, mentre dal cavo d'una rupe uscìa, colto nel petto, e su la rupe steso resupino. Sorgevano alla belva lunghe sedici palmi su l'altera fronte le corna. Artefice perito le polì, le congiunse, e di lucenti anelli d'oro ne fregiò le cime. Tese quest'arco, e dolcemente a terra Pandaro l'adagiò. Dinanzi a lui protendono le targhe i fidi amici, onde assalito dagli Achei non vegna, pria ch'egli il marzio Menelao percuota. Scoperchiò la faretra, ed un alato intatto strale ne cavò, sorgente di lagrime infinite. Indi sul nervo l'adattando promise al licio Apollo di primonati agnelli un'ecatombe ritornato in Zelèa. Tirò di forza colla cocca la corda, alla mammella accostò il nervo, all'arco il ferro, e fatto dei tesi estremi un cerchio, all'improvviso l'arco e il nervo fischiar forte s'udiro, e lo strale fuggì desideroso di volar fra le turbe. Ma non fûro immemori di te, tradito Atride, in quel punto gli Dei. L'armipotente figlia di Giove si parò davanti al mortifero telo, e dal tuo corpo lo devïò sollecita, siccome tenera madre che dal caro volto del bambino che dorme un dolce sonno, scaccia l'insetto che gli ronza intorno. Ella stessa la Dea drizzò lo strale ove appunto il bel cinto era frenato dall'auree fibbie, e si stendea davanti qual secondo torace. Ivi l'acerbo quadrello cadde, e traforando il cinto nel panzeron s'infisse e nella piastra che dalle frecce il corpo gli schermìa. Questa gli valse allor d'assai, ma pure passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle, sì che tosto diè sangue la ferita. Come quando meonia o caria donna tinge d'ostro un avorio, onde fregiarne di superbo destriero le mascelle; molti d'averlo cavalieri han brama; ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono a qualche sire, adornamento e pompa del cavallo ed in un del cavaliero: così di sangue imporporossi, Atride, la tua bell'anca, e per lo stinco all'imo calcagno corse la vermiglia riga. Raccapricciossi a questa vista il rege Agamennón, raccapricciò lo stesso marzïal Menelao; ma quando ei vide fuor della polpa l'amo dello strale, gli tornò tosto il core, e si rïebbe. Per man tenealo intanto Agamennóne, ed altamente fra i dolenti amici sospirando dicea: Caro fratello, perché qui morto tu mi fossi, io dunque giurai l'accordo, te mettendo solo per gli Achivi a pugnar contra i Troiani, contra i Troiani che l'accordo han rotto, e a tradimento ti ferîr? Ma vano non andrà delle vittime il giurato sangue, né i puri libamenti ai numi, né la fé delle destre. Il giusto Giove può differire ei sì, ma non per certo obblïar la vendetta; e caro un giorno colle lor teste, colle mogli e i figli ne pagheranno gli spergiuri il fio. Tempo verrà (di questo ho certo il core) ch'Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme la sua perfida gente. Dall'eccelso etereo seggio scoterà sovr'essi l'egida orrenda di Saturno il figlio di tanta frode irato; e non cadranno vôti i suoi sdegni. Ma d'immenso lutto tu cagion mi sarai, dolce fratello, se morte tronca de' tuoi giorni il corso. Sorgerà negli Achei vivo il desìo del patrio suolo, e d'onta carco in Argo io tornerommi, e lasceremo ai Teucri, glorïoso trofeo, la tua consorte. Putride intanto nell'iliaca terra l'ossa tue giaceran, senz'aver dato fine all'impresa, e il tumulo del mio prode fratello un qualche Teucro altero calpestando, dirà: Possa i suoi sdegni satisfar così sempre Agamennóne, siccome or fece, senza pro guidando l'argoliche falangi a questo lido, d'onde scornato su le vote navi alla patria tornò, qui derelitto l'illustre Menelao. Sì fia ch'ei dica; e allor mi s'apra sotto i piè la terra. Ti conforta, rispose il biondo Atride, né co' lamenti spaventar gli Achivi. In mortal parte non ferì l'acuto dardo: di sopra il ricamato cinto mi difese, e di sotto la corazza e questa fascia che di ferrea lama buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo, diletto Menelao, l'altro riprese. Intanto tratterà medica mano la tua ferita, e farmaco porravvi atto a lenire ogni dolor. - Si volse all'araldo, ciò detto, e, Va, soggiunse, vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio d'Esculapio, divin medicatore, Macaon qua ne vegna, e degli Achei al forte duce Menelao soccorra, cui di freccia ferì qualche troiano o licio saettier che sé di gloria, noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldo tra le falangi achee corse veloce in traccia dell'eroe. Ritto lo vide fra lo stuolo de' prodi che da Tricca altrice di corsier l'avea seguìto: appressossi, e con rapide parole, Vien, gli disse, t'affretta, o Macaone; Agamennón ti chiama: il valoroso Menelao fu di stral colto da qualche licio arciero o troiano che superbo va del nostro dolor. Corri, e lo sana. Al tristo annunzio si commosse il figlio d'Esculapio; e veloci attraversando il largo campo acheo, fur tosto al loco ove al ferito dëiforme Atride facean cerchio i migliori. Incontanente dal balteo estrasse Macaon lo strale, di cui curvârsi nell'uscir gli acuti ami: disciolse ei quindi il vergolato cinto e il torace colla ferrea fascia sovrapposta; e scoperta la ferita, succhionne il sangue, e destro la cosparse dei lenitivi farmaci che al padre, d'amor pegno, insegnati avea Chirone. Mentre questi alla cura intenti sono del bellicoso Atride, ecco i Troiani marciar di nuovo con gli scudi al petto, e di nuovo gli Achei l'armi vestire di battaglia bramosi. Allor vedevi non assonnarsi, non dubbiar, né pugna schivar l'illustre Agamennón; ma ratto volar nel campo della gloria. Il carro e i fervidi destrier tratti in disparte lascia all'auriga Eurimedonte, figlio del Piraìde Tolomèo; gl'impone di seguirlo vicin, mentre pel campo ordinando le turbe egli s'aggira, onde accorrergli pronto ove stanchezza gli occupasse le membra. Egli pedone scorre intanto le file, e quanti all'armi affrettarsi ne vede, ei colla voce fortemente gl'incuora, e grida: Argivi, niun rallenti le forze: il giusto Giove bugiardi non aiuta: chi primiero l'accordo vïolò, pasto vedrassi di voraci avoltoi, mentre captive le dilette lor mogli in un co' figli noi nosco condurremo, Ilio distrutto. Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi della battaglia, con irati accenti li rabbuffando, O Argivi, egli dicea, o guerrier da balestra, o vitupèri! Non vi prende vergogna? A che vi state istupiditi come zebe, a cui, dopo scorso un gran campo, la stanchezza ruba il piede e la lena? E voi del pari allibiti al pugnar vi sottraete. Aspettate voi forse che il nemico alla spiaggia s'accosti ove ritratte stan sul secco le prore, onde si vegga se Giove allor vi stenderà la mano? Così imperando trascorrea le schiere. Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armi davan di piglio intorno al bellicoso Idomenèo. Per vigorìa di forze pari a fiero cinghiale Idomenèo guidava l'antiguardia, e Merïone la retroguardia. Del vederli allegro il sir de' forti Atride al re cretese con questo dolce favellar si volse: Idomenèo, te sopra i Dànai tutti cavalieri veloci in pregio io tegno, sia nella guerra, sia nell'altre imprese, sia ne' conviti, allor che ne' crateri d'almo antico lïeo versan la spuma i supremi tra' Greci. Ove degli altri chiomati Achivi misurato è il nappo, il tuo del par che il mio sempre trabocca, quando ti prende di bombar la voglia. Or entra nella pugna, e tal ti mostra qual dianzi ti vantasti. - E de' Cretensi a lui lo duce: Atride, io qual già pria t'impromisi e giurai, fido compagno per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma gli altri Achivi a pugnar senza dimora. Rupper l'accordo i Teucri, e perché primi del patto vïolâr la santitate, sul lor capo cadran morti e ruïne. Disse; e gioioso proseguì l'Atride fra le caterve la rivista, e venne degli Aiaci alla squadra. In tutto punto metteansi questi, e li seguìa di fanti un nugolo. Siccome allor che scopre d'alto loco il pastor nube che spinta su per l'onde da Cauro s'avvicina, e bruna più che pece il mar vïaggia, grave il seno di nembi; inorridito ei la guarda, ed affretta alla spelonca le pecorelle; così negre ed orride per gli scudi e per l'aste si moveano sotto gli Aiaci accolte le falangi de' giovani veloci al rio conflitto. Allegrossi a tal vista Agamennóne, e a' lor duci converso in presti accenti, Aiaci, ei disse, condottieri egregi de' loricati Achivi, io non v'esorto, (ciò fôra oltraggio) a inanimar le vostre schiere; già per voi stessi a fortemente pugnar le stimolate. Al sommo Giove e a Pallade piacesse e al santo Apollo, che tal coraggio in ogni petto ardesse, e tosto presa ed adeguata al suolo per le man degli Achei Troia cadrebbe. Così detto lasciolli, e procedendo a Nestore arrivò, Nestore arguto de' Pilii arringator, che in ordinanza i suoi prodi metteva, e alla battaglia li concitava. Stavangli dintorno il grande Pelagonte ed Alastorre, e il prence Emone e Cromio, ed il pastore di popoli Biante. In prima ei pose alla fronte coi carri e coi cavalli i cavalieri, e al retroguardo i fanti, che molti essendo e valorosi, il vallo formavano di guerra. Indi nel mezzo i codardi rinchiuse, onde forzarli lor mal grado a pugnar. Ma innanzi a tutto porge ricordo ai combattenti equestri di frenar lor cavalli, e non mischiarsi confusamente nella folla. - Alcuno non sia, soggiunse, che in suo cor fidando e nell'equestre maestrìa, s'attenti solo i Teucri affrontar di schiera uscito: né sia chi retroceda; ché cedendo si sgagliarda il soldato. Ognun che sceso dal proprio carro l'ostil carro assalga, coll'asta bassa investalo, ché meglio sì pugnando gli torna. Con quest'arte, con questa mente e questo ardir nel petto le città rovesciâr gli antichi eroi. Il canuto così mastro di guerra le sue genti animava. In lui fissando gli occhi l'Atride, giubilonne, e tosto queste parole gli drizzò: Buon veglio, oh t'avessi tu salde le ginocchia e saldi i polsi come hai saldo il core! La ria vecchiezza, che a null'uom perdona, ti logora le forze: ah perché d'altro guerrier non grava la crudel le spalle! perché de' tuoi begli anni è morto il fiore! Ed il gerenio cavalier rispose: Atride, al certo bramerei pur io quelle forze ch'io m'ebbi il dì che morte diedi all'illustre Ereutalion. Ma tutti tutto ad un tempo non comparte Giove i suoi doni al mortal. Rideami allora gioventude: or mi doma empia vecchiezza. Ma qual pur sono mi starò nel mezzo de' cavalieri nella pugna, e gli altri gioverò di parole e di consiglio, ché questo è officio de' provetti. Dêssi lasciar dell'aste il tiro ai giovinetti di me più destri e nel vigor securi. Disse; e lieto l'Atride oltrepassando venne al Petìde Menestèo, perito di cocchi guidator, ritto nel mezzo de' suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto lo scaltro Ulisse colle forti schiere de' Cefaleni, che non anco udito di guerra il grido avean, poiché le teucre e l'argive falangi allora allora cominciavan le mosse: e questi in posa aspettavan che stuolo altro d'Achei impeto fêsse ne' Troiani il primo, e ingaggiasse battaglia. In quello stato li sorprese l'Atride; e corruccioso fe' dal labbro volar questa rampogna: Petìde Menestèo, figlio non degno d'un alunno di Giove, e tu d'inganni astuto fabbro, a che tremanti state gli altri aspettando, e separati? A voi entrar conviensi nella mischia i primi, perché primi io vi chiamo anche ai conviti ch'ai primati imbandiscono gli Achei. Ivi il saìme saporar vi giova delle carni arrostite, e a piena gola di soave lïeo cioncar le tazze. Or vi giova esser gli ultimi, e vi fôra grato il veder ben dieci squadre achee innanzi a voi scagliarsi entro il conflitto. Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose: Qual detto, Atride, ti fuggì di bocca? E come ardisci di chiamarne in guerra neghittosi? Allorché contra i Troiani daran principio al rio marte gli Achei, vedrai, se il brami e te ne cal, vedrai nelle dardanie file antesignane di Telemaco il padre. Or cianci al vento. Veduto il cruccio dell'eroe, sorrise l'Atride, e dolce ripigliò: Divino di Laerte figliuol, sagace Ulisse, né sgridarti vogl'io, né comandarti fuor di stagione, ch'io ben so che in petto volgi pensieri generosi, e senti ciò ch'io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'ora dal labbro mi fuggì cosa mal detta, ripareremla in altro tempo. Intanto ne disperdano i numi ogni ricordo. Ciò detto, gli abbandona, e ad altri ei passa; e ritto in piedi sul lucente cocchio il magnanimo figlio di Tidèo Diomede ritrova. Al fianco ha Stènelo, prole di Capanèo. Si volse il sire Agamennóne a Diomede, e ratto con questi accenti rampognollo: Ahi figlio del bellicoso cavalier Tidèo, di che paventi? Perché guardi intorno le scampe della pugna? Ah! non solea così Tidèo tremar; ma precorrendo d'assai gli amici, co' nemici ei primo s'azzuffava. Ciascun che ne' guerrieri travagli il vide, lo racconta. In vero né compagno io gli fui né testimone, ma udii che ogni altro di valore ei vinse. Ben coll'illustre Polinice un tempo senz'armati in Micene ospite ei venne, onde far gente che alle sacre mura li seguisse di Tebe, a cui già mossa avean la guerra; e ne fêr ressa e preghi per ottenerne generosi aiuti; e volevam noi darli, e la domanda tutta appagar; ma con infausti segni Giove da tanto ne distolse. Or come gli eroi si fûro dipartiti e giunti dopo molto cammino al verdeggiante giuncoso Asopo, ambasciatore a Tebe spedîr Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti banchettanti Cadmei trovò del forte Eteòcle alle mense. In mezzo a loro, quantunque estrano e solo, il cavaliero senza punto temer tutti sfidolli al paragon dell'armi, e tutti ei vinse, col favor di Minerva. Irati i vinti di cinquanta guerrieri, al suo ritorno, gli posero un agguato. Eran lor duci l'Emonide Meone, uom d'almo aspetto, e d'Autofano il figlio Licofonte, intrepido campion. Tidèo gli uccise tutti, ed un solo per voler de' numi, il sol Meone rimandonne a Tebe. Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole miglior di lingua, ma minor di fatti. Non rispose all'acerbo il valoroso Tidìde, e rispettò del venerando rege il rabbuffo; ma rispose il figlio del chiaro Capanèo, dicendo: Atride, non mentir quando t'è palese il vero. Migliori assai de' nostri padri a dritto noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette porte espugnammo: e nondimen più scarsi eran gli armati che guidammo al sacro muro di Marte, ne' divini auspìci fidando e in Giove. Per l'opposto quelli peccâr d'insano ardire e vi periro. Non pormi adunque in onor pari i padri. Gli volse un guardo di traverso il forte Tidìde, e ripigliò: T'accheta, amico, ed obbedisci al mio parlar. Non io, se il re supremo Agamennóne istiga alla pugna gli Achei, non io lo biasmo. Fia sua la gloria, se, domati i Teucri, noi la sacra cittade espugneremo, e suo, se spenti noi cadremo, il lutto. Dunque a dar prove di valor si pensi. Disse, e armato balzò dal cocchio in terra. Orrendamente risonâr sul petto l'armi al re concitato, a tal che preso n'avrìa spavento ogni più fermo core. Siccome quando al risonante lido, di Ponente al soffiar, l'uno sull'altro del mar si spinge il flutto; e prima in alto gonfiasi, e poscia su la sponda rotto orribilmente freme, e intorno agli erti scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghi sprazzi diffonde la canuta spuma: incessanti così l'una su l'altra movon l'achee falangi alla battaglia sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba marcia sì cheta, che di voce priva la diresti al vederla; e riverenza era de' duci quel silenzio; e l'armi di varia guisa, di che gìan vestiti tutti in ischiera, li cingean di lampi. Ma simiglianti i Teucri a numeroso gregge che dentro il pecoril di ricco padron, nell'ora che si spreme il latte, s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli rispondono belando alla dirotta; così per l'ampio esercito un confuso mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno era di tutti il grido né la voce, ma di lingue un mistìo, sendo una gente da più parti raccolta. A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi lo Spavento e la Fuga, e del crudele Marte suora e compagna la Contesa insazïabilmente furibonda, che da principio piccola si leva, poi mette il capo tra le stelle, e immensa passeggia su la terra. Essa per mezzo alle turbe scorrendo, e de' mortali addoppiando gli affanni, in ambedue le bande sparse una rabbiosa lite. Poiché l'un campo e l'altro in un sol luogo convenne, e si scontrâr l'aste e gli scudi, e il furor de' guerrieri, scintillanti ne' risonanti usberghi, e delle colme targhe già il cozzo si sentìa, levossi un orrendo tumulto. Iva confuso col gemer degli uccisi il vanto e il grido degli uccisori, e il suol sangue correa. Qual due torrenti che di largo sbocco devolvonsi dai monti, e nella valle per lo concavo sen d'una vorago confondono le gonfie onde veloci: n'ode il fragor da lungi in cima al balzo l'atterrito pastor: tal dai commisti eserciti sorgea fracasso e tema. Primo Antiloco uccise un valoroso Teucro, alle mani nelle prime file, il Taliside Echèpolo, il ferendo nel cono del chiomato elmo: s'infisse la ferrea punta nella fronte, e l'osso trapanò: s'abbuiâr gli occhi al meschino, che strepitoso cadde come torre. Ghermì pe' piedi quel caduto il prence de' magnanimi Abanti Elefenorre figliuol di Calcodonte, e desïoso di spogliarlo dell'armi, lo traea fuor della mischia: ma fallì la brama; ché mentre il morto ei dietro si strascina, Agenore il sorprende, e a lui che curvo offrìa nudati di pavese i fianchi, tale un colpo assestò, che gli disciolse le forze, e l'alma abbandonollo. Allora tra i Troiani e gli Achei surse una fiera zuffa sovr'esso: s'affrontâr quai lupi, e in mutua strage si metteano a morte. Qui fu che Aiace Telamonio il figlio d'Antemion percosse il giovinetto Simoesio, cui scesa dall'Idee cime la madre partorì sul margo del Simoenta, un giorno ivi venuta co' genitori a visitar la greggia; e Simoesio lo nomâr dal fiume. Misero! Ché dei presi in educarlo dolci pensieri ai genitor diletti rendere il merto non poteo: la lancia d'Aiace il colse, e il viver suo fe' breve. Al primo scontro lo colpì nel petto su la destra mammella, e la ferrata punta pel tergo riuscir gli fece. Cadde il garzone nella polve a guisa di liscio pioppo su la sponda nato d'acquidosa palude: a lui de' rami già la pompa crescea, quando repente colla fulgida scure lo recise artefice di carri, e inaridire lungo la riva lo lasciò del fiume, onde poscia foggiarne di bel cocchio le volubili rote: così giacque l'Antemide trafitto Simoesio, e tale dispogliollo il grande Aiace. Contro Aiace l'acuta asta diresse d'infra le turbe allor di Priamo il figlio Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse nell'inguine il fedel d'Ulisse amico Leuco che già di Simoesio altrove traea la salma; e accanto al corpo esangue, che di man gli cadea, cadde egli pure. Forte adirato dell'ucciso amico si spinse Ulisse tra gl'innanzi, tutto scintillante di ferro, e più dappresso facendosi, e dintorno il guardo attento rivolgendo, librò l'asta lucente. Si misero a quell'atto in guardia i Teucri, e lo cansâr; ma quegli il telo a vôto non sospinse, e ferì Democoonte, Priamide bastardo che d'Abido con veloci puledre era venuto. A costui fulminò l'irato Ulisse nelle tempie la lancia; e trapassolle la ferrea punta. Tenebrârsi i lumi al trafitto che cadde fragoroso, e cupo gli tonâr l'armi sul petto. Rinculò de' Troiani, al suo cadere, la fronte, rinculò lo stesso Ettorre; dier gli Argivi alte grida, ed occupati i corpi uccisi, s'avanzâr di punta. Dalla rocca di Pergamo mirolli sdegnato Apollo, e rincorando i Teucri con gran voce gridò: Fermo tenete, valorosi Troiani, ed agli Achei non cedete l'onor di questa pugna, ché né pietra né ferro è la lor pelle da rintuzzar delle vostr'armi il taglio. Non combatte qui, no, della leggiadra Tétide il figlio: non temete; Achille stassi alle navi a digerir la bile. Così dall'alto della rocca il Dio terribile sclamò. Ma la feroce Palla, di Giove glorïosa figlia, discorrendo le file inanimava gli Achivi, ovunque li vedea rimessi. Qui la Parca allacciò l'Amarancìde Dïore. Un'aspra e quanto cape il pugno grossa pietra il percosse alla diritta tibia presso il tallone, e feritore fu l'Imbraside Piro che de' Traci condottiero dall'Eno era venuto. Franse ambidue li nervi e la caviglia l'improbo sasso, ed ei cadde supino nella sabbia, e mal vivo ambo le mani ai compagni stendea. Sopra gli corse il percussore, e l'asta in mezzo all'epa gli cacciò. Si versâr tutte per terra le intestina, e mortale ombra il coperse. All'irruente Piro allor l'Etòlo Toante si rivolge; e lui nel petto con la lancia ferendo alla mammella nel polmon gliela ficca. Indi appressato gliela sconficca dalla piaga; e in pugno stretta l'acuta spada glie l'immerse nella ventraia, e gli rapìo la vita; l'armi non già, ché intorno al morto Piro colle lungh'aste in pugno irti di ciuffi affollârsi i suoi Traci, e il chiaro Etòlo, benché grande e gagliardo, allontanaro sì che a forza respinto si ritrasse. Così l'uno appo l'altro nella polve giacquero i due campioni, il tracio duce, e il duce degli Epei. Dintorno a questi molt'altri prodi ritrovâr la morte. Chi da ferite illeso, e da Minerva per man guidato, e preservato il petto dal volar degli strali, avvolto in mezzo alla pugna si fosse, avrìa le forti opre stupito degli eroi, ché molti e Troiani ed Achivi nella polve giacquer proni e confusi in quel conflitto.
Allor Palla Minerva a Dïomede forza infuse ed ardire, onde fra tutti gli Achei splendesse glorïoso e chiaro. Lampi gli uscìan dall'elmo e dallo scudo d'inestinguibil fiamma, al tremolìo simigliante del vivo astro d'autunno, che lavato nel mar splende più bello. Tal mandava dal capo e dalle spalle divin foco l'eroe, quando la Diva lo sospinse nel mezzo ove più densa ferve la mischia. Era fra' Teucri un certo Darete, uom ricco e d'onoranza degno, di Vulcan sacerdote, e genitore di due prodi figliuoi mastri di guerra Fegèo nomati e Idèo. Precorsi agli altri si fêr costoro incontro a Dïomede, essi sul cocchio, ed ei pedone: e a fronte divenuti così, scagliò primiero la lung'asta Fegèo. L'asta al Tidìde lambì l'omero manco, e non l'offese. Col ferrato suo cerro allor secondo mosse il Tidìde, né di mano indarno il telo gli fuggì, ché tra le poppe del nemico s'infisse, e dalla biga lo spiombò. Diede Idèo, visto quel colpo, un salto a terra, e in un col suo bel carro smarrito abbandonò la pia difesa dell'ucciso fratel. Né avrìa schivato perciò la morte; ma Vulcan di nebbia lo ricinse e servollo, onde non resti il vecchio padre desolato al tutto. Tolse i destrieri il vincitore, e trarli da' compagni li fece alle sue navi. Visti i due figli di Darete i Teucri l'un freddo nella polve e l'altro in fuga, turbârsi; e la glaucopide Minerva preso per mano il fero Marte disse: O Marte, Marte, esizïoso Iddio che lordo ir godi d'uman sangue e al suolo adeguar le città, non lasceremo noi dunque battagliar soli tra loro Teucri ed Achei, qualunque sia la parte cui dar la palma vorrà Giove? Or via ritiriamci, evitiam l'ira del nume. In questo favellar trasse la scaltra l'impetuoso Dio fuor del conflitto, e su la riva riposar lo fece dell'erboso Scamandro. Allora i Dànai cacciâr li Teucri in fuga; e ognun de' duci un fuggitivo uccise. Agamennóne primier riversa il vasto Hodio dal carro, degli Alizóni condottiero, e primo al fuggir. Gli piantò l'asta nel tergo, e fuor del petto uscir la fece. Ei cadde romoroso, e suonâr l'armi sovr'esso. Dalla glebosa Tarne era venuto Festo figliuol del Mèone Boro. Il colse Idomenèo coll'asta alla diritta spalla nel punto che salìa sul carro. Cadde il meschin d'orrenda notte avvolto, e i servi lo spogliâr d'Idomenèo. L'Atride Menelao di Strofio il figlio Scamandrio uccise, cacciator famoso cui la stessa Dïana ammaestrava le fere a saettar quante ne pasce montana selva. E nulla allor gli valse la Diva amica degli strali, e nulla l'arte dell'arco. Menelao lo giunse mentre innanzi gli fugge, e tra le spalle l'asta gli spinse, e trapassòglì il petto. Boccon cadde il trafitto, e cupamente l'armi sovr'esso rimbombar s'udiro. Prole del fabbro Armònide, Fereclo da Merïon fu spento. Era costui per tutte guise di lavori industri maraviglioso, e a Pallade Minerva caramente diletto. Opra fur sua di Paride le navi, onde principio ebbe il danno de' Teucri, e di lui stesso, perché i decreti degli Dei non seppe. L'inseguì, lo raggiunse, lo percosse nel destro clune Merïone, e sotto l'osso vêr la vescica uscì la punta. Gli mancâr le ginocchia, e guaiolando e cadendo il coprì di morte il velo. Mege uccise Pedèo, bastarda prole d'Antènore, cui l'inclita Teano, gratificando al suo consorte, avea con molta cura nutricato al paro dei diletti suoi figli. Si fe' sopra a costui coll'acuta asta il Filìde Mege, e alla nuca lo ferì. Trascorse tra i denti il ferro, e gli tagliò la lingua. Così concio egli cadde, e nella sabbia fe' tenaglia co' denti al freddo acciaro. Ipsènore, figliuol del generoso Dolopïon, scamandrio sacerdote riverito qual Dio, fugge davanti al chiaro germe d'Evemone Eurìpilo. Eurìpilo l'insegue, e via correndo tal gli cala su l'omero un fendente che il braccio gli recide. Sanguinoso casca il mozzo lacerto nella polve, e la purpurea morte e il violento fato le luci gli abbuiâr. Di questi tal nell'acerba pugna era il lavoro. Ma di qual parte fosse Dïomede, se troiano od acheo, mal tu sapresti discernere, sì fervido ei trascorre il campo tutto; simile alla piena di tumido torrente che cresciuto dalle piogge di Giove, ed improvviso precipitando i saldi ponti abbatte debil freno alle fiere onde, e de' verdi campi i ripari rovesciando, ingoia con fragor le speranze e le fatiche de' gagliardi coloni: a questa guisa sgominava il Tidìde e dissipava le caterve de' Troi, che sostenerne non potean, benché molti, la ruina. Come Pandaro il vide sì furente scorrere il campo, e tutte a sé dinanzi scompigliar le falangi, alla sua mira curvò subito l'arco, e l'irruente eroe percosse alla diritta spalla. Entrò pel cavo dell'usbergo il crudo strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio, forte allora gridò l'inclito figlio di Licaon, magnanimi Troiani, stimolate i cavalli, ritornate alla pugna. Ferito è degli Achei il più forte guerrier, né credo ei possa a lungo tollerar l'acerbo colpo, se vano feritor non mi sospinse qua dalla Licia il re dell'arco Apollo. Così gridava il vantator. Ma domo non restò da quel colpo Dïomede, che ritraendo il passo, e de' cavalli coprendosi e del cocchio, al suo fedele Capaneìde si rivolse, e disse: Corri, Stènelo mio, scendi dal carro, e dall'omero tosto mi divelli questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra Stènelo e corse, e l'aspro stral gli svelse dall'omero trafitto. Per la maglia dell'usbergo spicciava il caldo sangue, e imperturbato sì l'eroe pregava: Invitta figlia dell'Egìoco Giove, se nelle ardenti pugne unqua a me fosti del tuo favor cortese e al mio gran padre, odimi, o Dea Minerva, ed or di nuovo m'assisti, e al tiro della lancia mia manda il mio feritor: dammi ch'io spegna questo ventoso nebulon che grida ch'io del Sol non vedrò più l'aurea luce. Udì la Diva il prego, e a lui repente e mani e piedi e tutta la persona agile rese, e fattasi vicina e manifesta disse: Ti rinfranca Dïomede, e co' Troi pugna securo; ch'io del tuo grande genitor Tidèo l'invitta gagliardìa ti pongo in petto, e la nube dagli occhi ecco ti sgombro che la vista mortal t'appanna e grava, onde tu ben discerna le divine e l'umane sembianze. Ove alcun Dio qui ti venga a tentar, tu con gli Eterni non cimentarti, no; ma se in conflitto vien la figlia di Giove Citerea, l'acuto ferro adopra, e la ferisci. Sparve, ciò detto, la cerulea Diva. Allor diè volta e si mischiò tra' primi combattenti il Tidìde, a pugnar pronto più che prima d'assai; ché in quel momento triplice in petto si sentì la forza. Come lïon che, mentre il gregge assalta, ferito dal pastor, ma non ucciso, vie più s'infuria, e superando tutte resistenze si slancia entro l'ovile: derelitte, tremanti ed affollate l'una addosso dell'altra si riversano le pecorelle, ed ei vi salta in mezzo con ingordo furor: tal dentro ai Teucri diede il forte Tidìde. A prima giunta Astìnoo uccise ed Ipenòr: trafisse l'uno coll'asta alla mammella; all'altro la paletta dell'omero percosse con tale un colpo della grande spada, che gli spiccò dal collo e dalla schiena l'omero netto. Dopo questi addosso ad Abante si spicca e a Poliido, figli del veglio interprete di sogni Euridamante; ma il meschin non seppe nella lor dipartenza a questa volta divinarne il destin, ch'ambi il Tidìde li pose a morte e li spogliò. Drizzossi quindi a Xanto e Faon figli a Fenopo, ambo a lui nati nell'età canuta. In amara vecchiezza il derelitto genitor si struggea, ché d'altra prole, cui sua reda lasciar, lieto non era. Gli spense ambo il Tidìde, e lor togliendo la cara vita, in aspre cure e in pianti pose il misero padre, a cui negato fu il vederli tornar dalla battaglia salvi al suo seno; e di lui morto in lutto ignoti eredi si partîr l'avere. Due Prïamidi, Cromio ed Echemóne, venìano entrambi in un sol cocchio. A questi s'avventò Dïomede; e col furore di lïon che una mandra al bosco assalta e di giovenca o bue frange la nuca; così mal conci entrambi il fier Tidìde precipitolli dalla biga, e tolte l'arme de' vinti, a' suoi sergenti ei dienne i destrieri onde trarli alla marina. Come de' Teucri sbarattar le file videlo Enea, si mosse, e per la folta e fra il rombo dell'aste discorrendo a cercar diessi il valoroso e chiaro figlio di Licaon, Pandaro. Il trova, gli si appresenta e fa queste parole: Pandaro, dov'è l'arco? ove i veloci tuoi strali? ov'è la gloria in che qui nullo teco gareggia, né verun si vanta licio arcier superarti? Or su, ti sveglia, alza a Giove la mano, un dardo allenta contro costui, qualunque ei sia, che desta cotanta strage, e sì malmena i Teucri, de' quai già molti e forti a giacer pose: se pur egli non fosse un qualche nume adirato con noi per obblïati sacrifizi: e de' numi acerba è l'ira. Così d'Anchise il figlio. E il figlio a lui di Licaone: O delle teucre genti inclito duce Enea, se quello scudo e quell'elmo a tre coni e quei destrieri ben riconosco, colui parmi in tutto il forte Dïomede. E nondimeno negar non l'oso un immortal. Ma s'egli è il mortale ch'io dico, il bellicoso figliuolo di Tidèo, tanto furore non è senza il favor d'un qualche iddio, che di nebbia i celesti omeri avvolto stagli al fianco, e dal petto gli disvìa le veloci saette. Io gli scagliai dianzi un dardo, e lo colsi alla diritta spalla nel cavo del torace, e certo d'averlo mi credea sospinto a Pluto. Pur non lo spensi: e irato quindi io temo qualche nume. Non ho su cui salire or qui cocchio verun. Stolto! che in serbo undici ne lasciai nel patrio tetto di fresco fatti e belli, e di cortine ricoperti, con due d'orzo e di spelda ben pasciuti cavalli a ciascheduno. E sì che il giorno ch'io partii, gli eccelsi nostri palagi abbandonando, il veglio guerriero Licaon molti ne dava prudenti avvisi, e mi facea precetto di guidar sempre mai montato in cocchio le troiane coorti alla battaglia. Certo era meglio l'obbedir; ma, folle! nol feci, ed ebbi ai corridor riguardo, temendo che assueti a largo pasto di pasto non patissero difetto in racchiusa città. Lasciàili adunque, e pedon venni ad Ilio, ogni fidanza posta nell'arco, che giovarmi poscia dovea sì poco. Saettai con questo due de' primi, l'Atride ed il Tidìde, e ferii l'uno e l'altro, e il vivo sangue ne trassi io sì, ma n'attizzai più l'ira. In mal punto spiccai dunque dal muro gli archi ricurvi il dì che al grande Ettore compiacendo qua mossi, e de' Troiani il comando accettai. Ma se redire, se con quest'occhi riveder m'è dato la patria, la consorte e la sublime mia vasta reggia, mi recida ostile ferro la testa, se di propria mano non infrango e non getto nell'accese vampe quest'arco inutile compagno. E al borïoso il duce Enea: Non dire, no, questi spregi. Della pugna il volto cangerà, se ambedue sopra un medesmo cocchio raccolti affronterem costui, e farem delle nostre armi periglio. Monta dunque il mio carro, e de' cavalli di Troe vedi la vaglia, e come in campo per ogni lato sappiano veloci inseguire e fuggir. Questi (se avvegna che il Tonante di nuovo a Dïomede dia dell'armi l'onor), questi trarranno salvi noi pure alla cittade. Or via prendi tu questa sferza e queste briglie, ch'io de' corsieri, per pugnar, ti cedo il governo; o costui tu stesso affronta, ché de' corsieri sarà mia la cura. Sì (riprese il figliuol di Licaone) tien tu le briglie, Enea, reggi tu stesso i tuoi cavalli, che la mano udendo del consueto auriga, il curvo carro meglio trarranno, se fuggir fia forza dal figlio di Tidèo. Se lor vien manco la tua voce, potrìan per caso istrano spaventati adombrarsi, e senza legge aggirarsi pel campo, e a trarne fuori della pugna indugiar tanto che il fero Dïomede n'assegua impetuoso, ed entrambi n'uccida, e via ne meni i destrieri di Troe. Resta tu dunque al timone e alle briglie, ché coll'asta io del nemico sosterrò l'assalto. Montâr, ciò detto, sull'adorno cocchio, e animosi drizzâr contra il Tidìde i veloci cavalli. Il chiaro figlio di Capanèo li vide, ed all'amico vòlto il presto parlar, Tidìde, ei disse, mio diletto Tidìde, a pugnar teco veggo pronti venir due di gran nerbo valorosi guerrier, l'uno il famoso Pandaro arciero che figliuol si vanta di Licaone, e l'altro Enea che prole vantasi ei pur di Venere e d'Anchise. Su, presto in cocchio; ritiriamci, e incauto tu non istarmi a furiar tra i primi con sì gran rischio della dolce vita. Bieco guatollo il gran Tidìde, e disse: Non parlarmi di fuga. Indarno tenti persuadermi una viltà. Fuggire dal cimento e tremar, non lo consente la mia natura: ho forze intégre, e sdegno de' cavalli il vantaggio. Andrò pedone, quale mi trovo, ad incontrar costoro; ché Pallade mi vieta ogni paura. Ma non essi ambedue salvi di mano ci scapperan, dai rapidi sottratti lor corridori, ed avverrà che appena ne scampi un solo. Un altro avviso ancora vo' dirti, e tu non l'obblïar. Se fia che l'alto onore d'atterrarli entrambi la prudente Minerva mi conceda, tu per le briglie allora i miei cavalli lega all'anse del cocchio, e ratto vola ai cavalli d'Enea, e dai Troiani via te li mena fra gli Achei. Son essi della stirpe gentil di quei che Giove, prezzo del figlio Ganimede, un giorno a Troe donava; né miglior destrieri vede l'occhio del Sole e dell'Aurora. Al re Laomedonte il prence Anchise la razza ne furò, sopposte ai padri segretamente un dì le sue puledre che di tale imeneo sei generosi corsier gli partoriro. Egli n'impingua quattro di questi a sé nel suo presepe, e due ne cesse al figlio Enea, superbi cavalli da battaglia. Ove n'avvegna di predarli, n'avremo immensa lode. Mentre seguìan tra lor queste parole, quelli incitando i corridor veloci tosto appressârsi, e Pandaro primiero favellò: Bellicoso ardito figlio dell'illustre Tidèo, poiché l'acuto mio stral non ti domò, vengo a far prova s'io di lancia ferir meglio mi sappia. Così detto, la lunga asta vibrando fulminolla, e colpì di Dïomede lo scudo sì, che la ferrata punta tutto passollo, e ne sfiorò l'usbergo. Sei ferito nel fianco (alto allor grida l'illustre feritor), né a lungo, io spero, vivrai: la gloria che mi porti è somma. Errasti, o folle, il colpo (imperturbato gli rispose l'eroe); ben io m'avviso ch'uno almeno di voi, pria di ristarvi da questa zuffa, nel suo sangue steso l'ira di Marte sazierà. Ciò detto, scagliò. Minerva ne diresse il telo, e a lui che curvo lo sfuggìa, cacciollo tra il naso e il ciglio. Penetrò l'acuto ferro tra' denti, ne tagliò l'estrema lingua, e di sotto al mento uscì la punta. Piombò dal cocchio, gli tonâr sul petto l'armi lucenti, sbigottîr gli stessi cavalli, e a lui si sciolsero per sempre e le forze e la vita. Enea temendo in man non caggia degli Achei l'ucciso, scese, e protesa a lui l'asta e lo scudo giravagli dintorno a simiglianza di fier lïone in suo valor sicuro; e parato a ferir qual sia nemico che gli si accosti, il difendea gridando orribilmente. Diè di piglio allora ad un enorme sasso Dïomede di tal pondo, che due nol porterebbero degli uomini moderni; ed ei vibrandolo agevolmente, e solo e con grand'impeto scagliandolo, percosse Enea nell'osso che alla coscia s'innesta ed è nomato ciotola. Il fracassò l'aspro macigno con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle. Diè del ginocchio al grave colpo in terra l'eroe ferito, e colla man robusta puntellò la persona. Un negro velo gli coperse le luci, e qui perìa, se di lui tosto non si fosse avvista l'alma figlia di Giove Citerea che d'Anchise pastor l'avea concetto. Intorno al caro figlio ella diffuse le bianche braccia, e del lucente peplo gli antepose le falde, onde dall'armi ripararlo, e impedir che ferro acheo gli passi il petto e l'anima gl'involi. Mentre al fiero conflitto ella sottragge il diletto figliuol, Stènelo il cenno membrando dell'amico, ne sostiene in disparte i cavalli, e prestamente all'anse della biga avviluppate le redini, s'avventa ai ben chiomati corridori d'Enea; di mezzo ai Teucri agli Achivi li spinge, ed alle navi spedisceli fidati al dolce amico Dëipilo, cui sopra ogni altro eguale, perché d'alma conforme, in pregio ei tiene. Esso intanto l'eroe capaneìde rimontato il suo cocchio, e in man riprese le riluccnti briglie, allegramente de' cavalli sonar l'ugna facea dietro il Tidìde che coll'empio ferro l'alma Venere insegue, la sapendo non una delle Dee che de' mortali godon le guerre amministrar, siccome Minerva e la di mura atterratrice torva Bellona, ma un'imbelle Diva. Poiché raggiunta per la folta ei l'ebbe, abbassò l'asta il fiero, e coll'acuto ferro l'assalse, e della man gentile gli estremi le sfiorò verso il confine della palma. Forò l'asta la cute, rotto il peplo odoroso a lei tessuto dalle Grazie, e fluì dalla ferita l'icòre della Dea, sangue immortale, qual corre de' Beati entro le vene; ch'essi, né frutto cereal gustando né rubicondo vino, esangui sono, e quindi han nome d'Immortali. Al colpo died'ella un forte grido, e dalle braccia depose il figlio, a cui difesa Apollo corse tosto, e l'ascose entro una nube, onde camparlo dall'achee saette. Il bellicoso Dïomede intanto, Cedi, figlia di Giove, alto gridava, cedi il piè dalla pugna. E non ti basta sedur d'imbelli femminette il core? Se qui troppo t'avvolgi, io porto avviso che tale desteratti orror la guerra, ch'anco il sol nome ti darà paura. Disse; ed ella turbata ed affannosa partiva. La veloce Iri per mano la prese, la tirò fuor del tumulto carca di doglie e livida le nevi della morbida cute. Alla sinistra della pugna seduto il furibondo Marte trovò: la grande asta del Nume e i veloci corsier cingea la nebbia. Gli abbracciò le ginocchia supplicando la sorella, e gridò: Caro fratello, miserere di me, dammi il tuo cocchio ond'io salga all'Olimpo. Assai mi cruccia una ferita che mi feo la destra d'un ardito mortal, di Dïomede, che pur con Giove piglierìa contesa. Sì prega, e Marte i bei destrier le cede. Salì sul cocchio allor la dolorosa, salì al suo fianco la taumanzia figlia, e in man tolte le briglie, a tutto corso i cavalli sferzò che desïosi volavano. Arrivâr tosto all'Olimpo, eccelsa sede degli Eterni. Quivi arrestò la veloce Iri i corsieri, li disciolse dal giogo, e ristorolli d'immortal cibo. La divina intanto Venere al piede si gittò dell'alma genitrice Dïona, che la figlia raccogliendo al suo seno, e colla mano la carezzando e interrogando, Oh! disse, oh! chi mai de' Celesti si permise, amata figlia, in te sì grave offesa, come rea di gran fallo alla scoperta? Il superbo Tidìde Dïomede, rispose Citerea, l'empio ferimmi perché il mio figlio, il mio sovra ogni cosa diletto Enea sottrassi dalla pugna, che pugna non è più di Teucri e Achivi, ma d'Achivi e di numi. - E a lei Dïona inclita Diva replicò: Sopporta in pace, o figlia, il tuo dolor; ché molti degl'Immortali con alterno danno molte soffrimmo dai mortali offese. Le soffrì Marte il dì che gli Aloìdi Oto e il forte Efïalte l'annodaro d'aspre catene. Un anno avvinto e un mese in carcere di ferro egli si stette, e forse vi perìa, se la leggiadra madrigna Eeribèa nol rivelava al buon Mercurio che di là furtivo lo sottrasse, già tutto per la lunga e dolorosa prigionìa consunto. Le soffrì Giuno allor che il forte figlio d'Anfitrïone con trisulco dardo la destra poppa le piagò, sì ch'ella d'alto duol ne fu colta. Anco il gran Pluto dal medesmo mortal figlio di Giove aspro sofferse di saetta un colpo là su le porte dell'Inferno, e tale lo conquise un dolor, che lamentoso e con lo stral ne' duri omeri infisso all'Olimpo sen venne, ove Peone, di lenitivi farmaci spargendo la ferita, il sanò; ché sua natura mortal non era: ma ben era audace e scellerato il feritor che d'ogni nefario fatto si fea beffe, osando fin gli abitanti saettar del cielo. Oggi contro te pur spinse Minerva il figlio di Tidèo. Stolto! ché seco punto non pensa che son brevi i giorni di chi combatte con gli Dei: né babbo lo chiameran tornato dalla pugna i figlioletti al suo ginocchio avvolti. Benché forte d'assai, badi il Tidìde ch'un più forte di te seco non pugni; badi che l'Adrastina Egïalèa, di Dïomede generosa moglie, presto non debba risvegliar dal sonno ululando i famigli, e il forte Acheo plorar che colse il suo virgineo fiore. In questo dir con ambedue le palme la man le asterse dal rappreso icòre, e la man si sanò, queta ogni doglia. Riser Giuno e Minerva a quella vista, e con amaro motteggiar la Diva dalle glauche pupille il genitore così prese a tentar. Padre, senz'ira un fiero caso udir vuoi tu? Ciprigna qualche leggiadra Achea sollecitando a seguir seco i suoi Teucri diletti, nel carezzarla ed acconciarle il peplo, a un aurato ardiglione, ohimè! s'è punta la dilicata mano. - Il sommo padre grazïoso sorrise, e a sé chiamata l'aurea Venere, Figlia, le dicea, per te non sono della guerra i fieri studi, ma l'opre d'Imeneo soavi. A queste intendi, ed il pensier dell'armi tutto a Marte lo lascia ed a Minerva. Mentre in cielo seguìan queste favelle, contro il figlio d'Anchise il bellicoso Dïomede si spinge, né l'arresta il saper che la man d'Apollo il copre. Desïoso di porre Enea sotterra e spogliarlo dell'armi peregrine, nulla ei rispetta un sì gran Dio. Tre volte a morte l'assalì, tre volte Apollo gli scosse in faccia il luminoso scudo. Ma come il forte Calidonio al quarto impeto venne, il saettante nume terribile gridò: Guarda che fai; via di qua, Dïomede; il paragone non tentar degli Dei, ché de' Celesti e de' terrestri è disugual la schiatta. Disse; e alquanto l'eroe ritrasse il piede l'ira evitando dell'arciero Apollo, che, fuor condutto della mischia Enea, nella sagrata Pergamo fra l'are del suo delubro il pose. Ivi Latona, ivi l'amante dello stral Dïana lo curâr, l'onoraro. Intanto Apollo formò di tenue nebbia una figura in sembianza d'Enea; d'Enea le finse l'armi, e dintorno al vano simulacro Teucri ed Achei facean di targhe e scudi un alterno spezzar che intorno ai petti orrendo risonava. Allor si volse al Dio dell'armi il Dio del giorno, e disse: Eversor di città, Marte omicida, che sol nel sangue esulti, e non andrai ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi questo altiero mortal, questo Tidìde che alle mani verrìa con Giove ancora? Egli assalse e ferì prima Ciprigna al carpo della mano; indi avventossi a me medesmo coll'ardir d'un Dio. Sì dicendo, s'assise alto sul colmo della pergàmea rocca, e il rovinoso Marte sen corse a concitar de' Teucri le schiere, e preso d'Acamante il volto, d'Acamante de' Traci esimio duce, così prese a spronar di Priamo i figli: Illustri Prïamìdi, e sino a quando permetterete della vostra gente per la man degli Achei sì rio macello? Sin tanto forse che la strage arrivi alle porte di Troia? A terra è steso l'eroe che al pari del divino Ettorre onoravamo, Enea preclaro figlio del magnanimo Anchise. Andiam, si voli alla difesa di cotanto amico. Destâr la forza e il cor d'ogni guerriero queste parole. Sarpedon con aspre rampogne allora rabbuffando Ettorre, Dove andò, gli dicea, l'alto valore che poc'anzi t'avevi? E pur t'udimmo vantarti che tu sol senza l'aita de' collegati, e co' tuoi soli affini e co' fratei bastavi alla difesa della città. Ma niuno io qui ne veggo, niun ne ravviso di costor, ché tutti trepidanti s'arretrano siccome timidi veltri intorno ad un leone: e qui frattanto combattiam noi soli, noi venuti in sussidio. Io che mi sono pur della lega, di lontana al certo parte mi mossi, dalla licia terra, dal vorticoso Xanto, ove la cara moglie ed un figlio pargoletto e molti lasciai di quegli averi a cui sospira l'uomo mai sempre bisognoso. E pure alleato, qual sono, i miei guerrieri esorto alla battaglia, ed io medesmo sto qui pronto a pugnar contra costui, benché qui nulla io m'abbia che il nemico rapir mi possa, né portarlo seco. E tu ozïoso ti ristai? né almeno agli altri accenni di far fronte, e in salvo por le consorti? Guàrdati, che presi, siccome in ragna che ogni cosa involve, non divenghiate del crudel nemico cattura e preda, e ch'ei tra poco al suolo la vostr'alma cittade non adegui. A te tocca l'aver di ciò pensiero e giorno e notte, a te dell'alleanza i capitani supplicar, che fermi resistano al lor posto, e far che niuna cagion più sorga di rampogne acerbe. D'Ettore al cor fu morso amaro il detto di Sarpedonte, sì che tosto a terra saltò dal cocchio in tutto punto, e l'asta scotendo ad animar corse veloce d'ogni parte i Troiani alla battaglia, e destò mischia dolorosa. Allora voltâr la fronte i Teucri, e impetuosi fêrsi incontro agli Achei, che stretti insieme gli aspettâr di piè fermo e senza tema. Come allor che di Zefiro lo spiro disperde per le sacre aie la pula, mentre la bionda Cerere la scevra dal suo frutto gentil, che il buon villano vien ventilando; lo leggier spulezzo tutta imbianca la parte ove del vento lo sospinge il soffiar: così gli Achivi inalbava la polve al cielo alzata dall'ugna de' cavalli entrati allora sotto la sferza degli aurighi in zuffa. Difilati portavano i Troiani il valor delle destre, e furïoso li soccorrea Gradivo discorrendo il campo tutto, e tutta di gran buio la battaglia coprendo. E sì di Febo i precetti adempìa, di Febo Apollo d'aurea spada precinto, che comando dato gli avea d'accendere ne' Teucri l'ardimento guerrier, vista partire l'aiutatrice degli Achei Minerva. Fuori intanto de' pingui aditi sacri Enea messo da Febo, e per lui tutto di gagliardìa ripieno appresentossi a' suoi compagni che gioîr, vedendo vivo e salvo il guerriero e rintegrato delle pristine forze. Ma gravarlo d'alcun dimando il fier nol consentìa lavor dell'armi che dell'arco il divo sire eccitava, e l'omicida Marte, e la Discordia ognor furente e pazza. D'altra parte gli Aiaci e Dïomede e il re dulìchio anch'essi alla battaglia raccendono gli Achei già per sé stessi né la furia tementi né le grida de' Dardani, ma fermi ad aspettarli. Quai nubi che de' monti in su la cima immote arresta di Saturno il figlio quando l'aria è tranquilla e il furor dorme degli Aquiloni o d'altro impetuoso di nubi fugator vento sonoro; di piè fermo così senza veruno pensier di fuga attendono gli Achivi de' Troiani l'assalto. E Agamennóne per le file scorrendo, e molte cose d'ogni parte avvertendo, Amici, ei grida, uomini siate e di cor forte, e ognuno nel calor della pugna il guardo tema del suo compagno. De' guerrier che infiamma generoso pudore, i salvi sono più che gli uccisi; chi rossor di fuga non sente, ha persa coll'onor la forza. Scagliò l'asta, ciò detto, ed un guerriero percosse de' primai, commilitone del magnanimo Enea, Dëicoonte, di Pèrgaso figliuol tenuto in pregio dai Teucri al paro che di Priamo i figli, perché presto a pugnar sempre tra' primi. Colpillo Atride nell'opposto scudo che difesa non fece. Trapassollo tutto la lancia, e per lo cinto all'imo ventre discese. Strepitoso ei cadde, e l'armi rimbombâr sovra il caduto. Enea diè morte di rincontro a due valentissimi, Orsiloco e Cretone, figli a Dïòcle, della ben costrutta città di Fere un ricco abitatore. Scendea costui dal fiume Alfeo che largo la pilia terra di bell'acque inonda: Alfèo produsse Orsiloco di molte genti signore, Orsiloco Dïòcle, e Dïòcle costor, mastri di guerra d'un sol parto acquistati. Aveano entrambi già fatti adulti navigato a Troia per onor degli Atridi, e qui la vita entrambi terminâr. Quai due leoni, cui la madre sul monte entro i recessi d'alto speco educò, fan ruba e guasto delle mandre, de' greggi e delle stalle, finché dal ferro de' pastor raggiunti caggiono anch'essi; e tali allor dall'asta d'Enea percossi caddero costoro col fragor di recisi eccelsi abeti. Strinse pietà dei due caduti il petto del prode Menelao, che tosto innanzi si spinse di lucenti armi vestito l'asta squassando. E Marte, che domarlo per man d'Enea fa stima, il cor gli attizza. Del magnanimo Nestore il buon figlio Antiloco osservollo, e un qualche danno paventando all'Atride, un qualche grave storpio all'impresa degli Achei, processe nell'antiguardo. Già s'aveano incontro abbassate le picche i due campioni pronti a ferir, quando d'Atride al fianco Antiloco comparve: e di due tali viste le forze in un congiunte, Enea, benché prode guerriero, retrocesse. Trassero questi tra gli Achei gli estinti Orsiloco e Cretone, e d'ambedue le miserande spoglie in man deposte degli amici, dier volta, e nella pugna novellamente si mischiâr tra' primi. Fu morto il duce allor de' generosi scudati Paflagoni, il marziale Pilemene. Il ferì d'asta alla spalla l'Atride Menelao. Lo suo sergente ed auriga Midon, gagliardo figlio d'Antimnio, cadde per la man d'Antiloco. Dava questo Midon, per via fuggirsi, la volta al cocchio. Antiloco nel pieno del cubito il ferì con tale un colpo di sasso, che gittògli al suol le belle eburnee briglie. Gli fu tosto sopra il feritor col brando, e su la tempia d'un dritto l'attastò, che giù dal carro lo travolse, e ficcògli nella sabbia testa e spalle. Anelante in quello stato ei restossi gran pezza, ché profondo era il sabbion; finché i destrier del tutto lo riversâr calpesto nella polve. Diè lor di piglio Antiloco, e veloce col flagello li spinse al campo acheo. Com'Ettore di mezzo all'ordinanze vide lor prove, impetuoso mosse con alte grida ad investirli, e dietro de' Teucri si traea le forti squadre cui Marte è duce e la feral Bellona. Bellona in compagnìa vien dell'orrendo tumulto della zuffa; e Marte in pugno palleggia un'asta smisurata, e or dietro or davanti cammina al grande Ettorre. Turbossi a quella vista il bellicoso Tidìde; e quale della strada ignaro vïator che trascorsa un'ampia landa giunge a rapido fiume che mugghiante l'onda del mar devolve, e visto il flutto che freme e spuma, di fuggir s'affretta l'orme sue ricalcando: a questa guisa retrocesse il Tidìde, e al suo drappello volgendo le parole: Amici, ei disse, qual fia stupor se forte d'asta e audace combattente si mostra il duce Ettorre? Sempre al fianco gli viene un qualche iddio che alla morte l'invola; ed or lo stesso Marte in sembianza d'un mortal l'assiste. Non vogliate attaccar dunque co' numi ostinata contesa, e date addietro, ma col viso ognor vòlto all'inimico. Mentr'egli sì dicea, scagliârsi i Teucri addosso alla sua schiera. E quivi Ettorre a morte mise due guerrier, nell'armi assai valenti e in un sol cocchio ascesi, Anchïalo e Meneste. Ebbe di loro pietade il grande Telamonio Aiace, e féssi avanti e stette, e la lucente asta lanciando, Anfio colpì, che figlio di Selago tenea suo seggio in Peso ricco d'ampie campagne. Ma la nera Parca ad Ilio il menò confederato del re troiano e de' suoi figli. Il colse sul cinto il lungo telamonio ferro, e nell'imo del ventre si confisse. Diè cadendo un rimbombo, e a dispogliarlo corse l'illustre vincitor; ma un nembo i Troiani piovean di frecce acute che d'irta selva gli coprîr lo scudo. Ben egli al morto avvicinossi, e il petto calcandogli col piè, la fulgid'asta ne sferrò, ma dall'omero le belle armi rapirgli non poteo: sì densa la grandine il premea delle saette. E temendo l'eroe nol circuisse de' Troiani la piena, che ristretti erano e molti e poderosi, e tutti con armi d'ogni guisa e d'ogni tiro ad incalzarlo, a repulsarlo intesi, ei benché forte e di gran corpo e d'alto ardir diè volta, e si ritrasse addietro. Mentre questi alle mani in questa parte si travaglian così, nemico fato contra l'illustre Sarpedon sospinse l'Eraclide Tlepòlemo, guerriero di gran persona e di gran possa. Or come a fronte si trovâr quinci il nepote e quindi il figlio del Tonante Iddio, Tlepòlemo primiero così disse: Duce de' Licii Sarpedon, qual uopo rozzo in guerra a tremar qua ti condusse? È mentitor chi dell'Egìoco Giove germe ti dice. Dal valor dei forti, che nell'andata età nacquer di lui, troppo lungi se' tu. Ben altro egli era il mio gran genitor, forza divina, cuor di leone. Qua venuto un giorno a via menar del re Laomedonte i promessi destrieri, egli con sole sei navi e pochi armati Ilio distrusse, e vedovate ne lasciò le vie. Tu sei codardo, tu a perir qui traggi i tuoi soldati, tu veruna aita, col tuo venir di Licia, non darai alla dardania gente; e quando pure un gagliardo ti fossi, il braccio mio qui stenderatti e spingeratti a Pluto. E di rimando a lui de' Licii il duce: Tlepòlemo, le sacre iliache mura Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza del frigio sire il meritò, che ingrato al beneficio con acerbi detti oltraggiollo; e i destrieri, alta cagione di sua venuta, gli negò. Ma i vanti paterni non torran che la mia lancia qui non ti prostri. Tu morrai: son io che tel predìco, e a me l'onor qui tosto darai della vittoria, e l'alma a Pluto. Ciò detto appena, sollevaro in alto i ferrati lor cerri ambo i guerrieri, ed ambo a un tempo gli scagliâr. Percosse Sarpedonte il nemico a mezzo il collo, sì che tutto il passò l'asta crudele, e a lui gli occhi coperse eterna notte. Ma il telo uscito nel medesmo istante dalla man di Tlepòlemo la manca coscia ferì di Sarpedon. Passolla infino all'osso la fulminea punta, ma non diè morte, ché vietollo il padre. Accorsero gli amici, e dal tumulto sottrassero l'eroe che del confitto telo di molto si dolea, né mente v'avea posto verun, né s'avvisava di sconficcarlo dalla coscia offesa, onde espedirne il camminar: tant'era del salvarlo la fretta e la faccenda. Dall'altra parte i coturnati Achei di Tlepòlemo anch'essi dalla pugna ritraggono la salma. Al doloroso spettacolo la forte alma d'Ulisse si commosse altamente; e in suo pensiero divisando ne vien s'ei prima insegua di Giove il figlio, o più gli torni il darsi alla strage de' Licii. Alla sua lancia non concedean le Parche il porre a morte del gran Tonante il valoroso seme. Scagliasi ei dunque da Minerva spinto nella folta dei Licii, e quivi uccide l'un sovra l'altro Alastore, Cerano, Cromio, Pritani, Alcandro, e Noemone ed Alio: e più n'avrìa di lor prostrati il divino guerrier, se il grande Ettorre di lui non s'accorgea. Tra i primi ei dunque processe di corrusche armi splendente, e portante il terror ne' petti argivi. Come il vide vicin fe' lieto il core Sarpedonte, e con voce lamentosa: Generoso Prïamide, dicea, non lasciarmi giacer preda al nemico: mi soccorri, e la vita m'abbandoni nella vostra città, poiché m'è tolto il tornarmi al natìo dolce terreno, e d'allegrezza spargere la mia diletta moglie e il pargoletto figlio. Non rispose l'eroe; ma desïoso di vendicarlo e ricacciar gli Achivi colla strage di molti, oltre si spinse. In questo mezzo la pietosa cura de' compagni adagiò sotto un bel faggio a Giove sacro Sarpedonte, e il telo dalla piaga gli svelse il valoroso diletto amico Pelagon. Nell'opra svenne il ferito, e s'annebbiò la vista; ma l'aura boreal, che fresca intorno ventavagli, tornò ne' primi uffici della vita gli spirti; e nell'anelo petto affannoso ricreògli il core. Da Marte intanto e dall'ardente Ettorre assaliti gli Achei né paurosi verso le navi si fuggìan, né arditi farsi innanzi sapean. Ma quando il grido corse tra lor che Marte era co' Teucri, indietro si piegâr sempre cedendo. Or chi prima, chi poi fu l'abbattuto dal ferreo Marte e dall'audace Ettorre? Teutrante che sembianza avea d'un Dio, l'agitatore di cavalli Oreste, il vibrator di lancia Etolio Treco, e l'Enopide Elèno, ed Enomào, e d'armi adorno di color diverso Oresbio che a far d'oro alte conserve posto il pensier, tenea suo seggio in Ila appo il lago Cefisio ov'altri assai opulenti Beozi avean soggiorno. Tale e tanta d'Achivi occisïone Giuno mirando, a Pallade si volse, e con preste parole: Ohimè! le disse, invitta figlia dell'Egìoco Giove, se libera lasciam dell'omicida Marte la furia, indarno a Menelao noi promettemmo dell'iliache torri la caduta, e felice il suo ritorno. Or via, scendiamo, e di valor noi pure facciam prova laggiù. Disse, e Minerva tenne l'invito. Allor la veneranda Saturnia Giuno ad allestir veloce corse i d'oro bardati almi destrieri. Immantinente al cocchio Ebe le curve ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna d'otto raggi di bronzo, e si rivolve sovra l'asse di ferro. Il giro è tutto d'incorruttibil oro, ma di bronzo le salde lame de' lor cerchi estremi. Maraviglia a veder! Son puro argento i rotondi lor mozzi, e vergolate d'argento e d'ôr del cocchio anco le cinghie con ambedue dell'orbe i semicerchi, a cui sospese consegnar le guide. Si dispicca da questo e scorre avanti pur d'argento il timone, in cima a cui Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre pettiere; e queste parimenti e quello d'auro sono contesti. Desïosa Giuno di zuffe e del rumor di guerra, gli alipedi veloci al giogo adduce. Né Minerva s'indugia. Ella diffuso il suo peplo immortal sul pavimento delle sale paterne, effigïato peplo, stupendo di sua man lavoro, e vestita di Giove la corazza, di tutto punto al lagrimoso ballo armasi. Intorno agli omeri divini pon la ricca di fiocchi Egida orrenda, che il Terror d'ogn'intorno incoronava. Ivi era la Contesa, ivi la Forza, ivi l'atroce Inseguimento, e il diro Gorgonio capo, orribile prodigio dell'Egìoco signore. Indi alla fronte l'aurea celata impone irta di quattro eccelsi coni, a ricoprir bastante eserciti e città. Tale la Diva monta il fulgido cocchio, e l'asta impugna pesante, immensa, poderosa, ond'ella intere degli eroi le squadre atterra irata figlia di potente iddio. Giuno, al governo delle briglie, affretta col flagello i corsieri. Cigolando per sé stesse s'aprîr l'eteree porte custodite dall'Ore a cui commessa del gran cielo è la cura e dell'Olimpo, onde serrare e disserrar la densa nube che asconde degli Dei la sede. Per queste porte dirizzâr le Dive i docili cavalli, e ritrovaro scevro dagli altri Sempiterni e solo su l'alta vetta dell'Olimpo assiso di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri sostò la Diva dalle bianche braccia, e il supremo de' numi interrogando: Giove padre, gli disse, e non ti prende sdegno de' fatti di Gradivo atroci? Non vedi quanta e quale il furibondo strage non giusta degli Achei commette? Io ne son dolorosa: e queti intanto si letiziano Apollo e Citerea, essi che questo d'ogni legge schivo forsennato aizzâr. Padre, s'io scendo a rintuzzar l'audace, a discacciarlo dalla pugna, n'andrai tu meco in ira? Va, le rispose delle nubi il sire, spingi contra costui la predatrice Minerva, a farlo assai dolente usata. Di ciò lieta la Dea fe' su le groppe de' corsieri sonar la sferza; e quelli infra la terra e lo stellato cielo desïosi volaro; e quanto vede d'aereo spazio un uom che in alto assiso stende il guardo sul mar, tanto d'un salto ne varcâr delle Dive i tempestosi destrier. Là giunte dove l'onde amiche confondono davanti all'alta Troia Simoenta e Scamandro, ivi rattenne Giuno i cavalli, gli staccò dal cocchio, e di nebbia li cinse. Il Simoenta loro un pasco fornì d'ambrosie erbette. Tacite allora, e col leggiero incesso di timide colombe ambe le Dive appropinquârsi al campo acheo, bramose di dar soccorso a' combattenti. E quando arrivâr dove molti e valorosi, come stuol di cinghiali o di lïoni, si stavano ristretti intorno al forte figliuolo di Tidèo, presa la forma di Stèntore che voce avea di ferro, e pareggiava di cinquanta il grido, Giuno sclamò: Vituperati Argivi, mere apparenze di valor, vergogna! Finché mostrossi in campo la divina fronte d'Achille, non fur osi i Teucri scostarsi mai dalle dardanie porte; cotanto di sua lancia era il terrore. Or lungi dalle mura insino al mare vengono audaci a cimentar la pugna. Sì dicendo svegliò di ciascheduno e la forza e l'ardir. Sorgiunse in questa la cerula Minerva a Dïomede ch'appo il carro la piaga, onde l'offese di Pandaro lo stral, refrigerava; e colla stanca destra sollevando dello scudo la soga tutta molle di molesto sudor, tergea del negro sangue la tabe. Colla man posata sul giogo de' corsier la Dea sì disse: Tidèo per certo generossi un figlio che poco lo somiglia. Era Tidèo picciol di corpo, ma guerriero; e quando io gli vietava di pugnar, fremea. E quando senza compagnìa venuto ambasciatore a Tebe io co' Tebani ne' regii alberghi a banchettar l'astrinsi, non depose egli, no, la bellicosa alma di prima, ma sfidando il fiore de' giovani Cadmei, tutti li vinse agevolmente col mio nume al fianco. E al tuo fianco del pari io qui ne vegno, e ti guardo e t'esorto e ti comando di pugnar co' Troiani arditamente. Ma te per certo o la fatica oppresse, o qualche tema agghiaccia, e tu non sei più, no, la prole del pugnace Enìde. Ti riconosco, o Dea (tosto rispose il valoroso eroe), ti riconosco, figlia di Giove, e di buon grado e netta mia ragione dirò. Né vil timore né ignavia mi rattien, ma il tuo comando. Non se' tu quella che pugnar poc'anzi mi vietasti co' numi? E se la figlia di Giove Citerea nel campo entrava, non mi dicesti di ferirla? Il feci. Ed or recedo, e agli altri Achivi imposi d'accogliersi qui tutti, ora che Marte, ben lo conosco, de' Troiani è il duce. E a lui la Diva dalle luci azzurre: Diletto Dïomede, alcuna tema di questo Marte non aver, né d'altro qualunque iddio, se tua difesa io sono. Sorgi, e drizza in costui gl'impetuosi tuoi corridori, e stringilo e il percuoti, né riguardo t'arresti né rispetto di questo insano ad ogni mal parato e ad ogni parteggiar, che a me pur dianzi e a Giuno promettea che contra i Teucri a pro de' Greci avrìa pugnato; ed ora immemore de' Greci i Teucri aiuta. Sì dicendo afferrò colla possente destra il figliuol di Capanèo, dal carro traendolo; né quegli a dar fu tardo un salto a terra; ed ella stessa ascese sovra il cocchio da canto a Dïomede infiammata di sdegno. Orrendamente l'asse al gran pondo cigolò, ché carco d'una gran Diva egli era e d'un gran prode. Al sonoro flagello ed alle briglie diè di piglio Minerva, e senza indugio contra Marte sospinse i generosi cornipedi. Lo giunse appunto in quella che atterrato l'enorme Perifante (un fortissimo Etòlo, egregio figlio d'Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue lo trucidava. In arrivar si pose Minerva di Pluton l'elmo alla fronte, onde celarsi di quel fero al guardo. Come il nume omicida ebbe veduto l'illustre Dïomede, al suol disteso lasciò l'immenso Perifante, e dritto ad investir si spinse il cavaliero. E tosto giunti l'un dell'altro a fronte, Marte il primo scagliò l'asta di sopra al giogo de' corsier lungo le briglie, di rapirgli la vita desïoso: ma prese colla man l'asta volante la Dea Minerva e la stornò dal carro, e vano il colpo riuscì. Secondo spinse l'asta il Tidìde a tutta forza. La diresse Minerva, e al Dio l'infisse sotto il cinto nell'epa, e vulnerollo, e lacerata la divina cute l'asta ritrasse. Mugolò il ferito nume, e ruppe in un tuon pari di nove o dieci mila combattenti al grido quando appiccan la zuffa. I Troi l'udiro, l'udîr gli Achivi, e ne tremâr: sì forte fu di Marte il muggito. E quale pel grave vento che spira dalla calda terra. si fa di nubi tenebroso il cielo; tal parve il ferreo Marte a Dïomede, mentre avvolto di nugoli alle sfere dolorando salìa. Giunto alla sede degli Dei su l'Olimpo, accanto a Giove mesto s'assise, discoperse il sangue immortal che scorrea dalla ferita, e in suono di lamento: O padre, ei disse, e non t'adiri a cotal vista, a fatti sì nequitosi? Esizïosa sempre a noi Divi tornò la mutua gara di gratuir l'umana stirpe; e intanto di nostre liti la cagion tu sei, tu che una figlia generasti insana, e di sterminii e di malvage imprese invaghita mai sempre. Obbedïenti hai quanti alberga Sempiterni il cielo; tutti inchiniamo a te. Sola costei né con fatti frenar né con parole tu sai per anco, connivente padre di pestifera furia. Ella pur dianzi stimolò di Tidèo l'audace figlio a pazzamente guerreggiar co' numi; ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi contra me stesso, e pareggiarsi a un Dio. E se più tardo il piè fuggìa, sarei steso rimasto fra quei tanti uccisi in lunghe pene, né morir potendo m'avrìa de' colpi infranto la tempesta. Bieco il guatò l'adunator de' nembi Giove, e rispose: Querimonie e lai non mi far qui seduto al fianco mio, fazïoso incostante, e a me fra tutti i Celesti odïoso. E risse e zuffe e discordie e battaglie, ecco le care tue delizie. Trasfuso in te conosco di tua madre Giunon l'intollerando inflessibile spirto, a cui mal posso pur colle dolci riparar; né certo d'altronde io penso che il tuo danno or scenda, che dal suo torto consigliar. Non io vo' per questo patir che tu sostegna più lungo duolo: mi sei figlio, e caro la Dea tua madre a me ti partorìa. Se malvagio, qual sei, d'altro qualunque nume nascevi, da gran tempo avresti sorte incorsa peggior degli Uranìdi. Così detto, a Peon comando ei fece di risanarlo. La ferita ei sparse di lenitivo medicame, e tolto ogni dolore, il tornò sano al tutto, ché mortale ei non era. E come il latte per lo gaglio sbattuto si rappiglia, e perde il suo fluir sotto la mano del presto mescitor; presta del pari la peonia virtù Marte guarìa. Ebe poscia lavollo, e di leggiadre vesti l'avvolse; ed egli accanto a Giove dell'alto onor superbo si ripose. Repressa del crudel Marte la strage, tornâr contente alla magion del padre Giuno Argiva e Minerva Alalcomènia.
Soli senz'alcun Dio Teucri ed Achei così restaro a battagliar. Più volte tra il Simoenta e il Xanto impetuosi si assaliro; più volte or da quel lato ed or da questo con incerte penne la Vittoria volò. Ruppe di Troi primo una squadra il Telamonio Aiace, presidio degli Achivi, e il primo raggio portò di speme a' suoi, ferendo un Trace fortissimo guerriero e di gran mole, Acamante d'Eussòro. Il colse in fronte nel cono dell'elmetto irto d'equine chiome, e nell'osso gli piantò la punta sì che i lumi gli chiuse il buio eterno. Tolse la vita al Teutranìde Assilo il marzio Dïomede. Era d'Arisbe bella contrada Assilo abitatore, uom di molta ricchezza, a tutti amico, ché tutti in sua magion, posta lunghesso la via frequente, ricevea cortese. Ma degli ospiti ahi! niuno accorse allora, niun da morte il campò. Solo il suo fido servo Calesio, che reggeagli il cocchio, morto ei pur dal Tidìde, al fianco cadde del suo signore, e con lui scese a Pluto. Eurìalo abbatte Ofelzio e Dreso; e poscia Esepo assalta e Pedaso gemelli, che al buon Bucolïone un dì produsse la Naiade gentile Abarbarèa. Bucolïon del re Laomedonte primogenito figlio, ma di nozze furtive acquisto, conducea la greggia quando alla ninfa in amoroso amplesso mischiossi, e di costor madre la feo. Ma quivi tolse ad ambedue la vita e la bella persona e l'armi il figlio di Mecistèo. Fur morti a un tempo istesso Astïalo dal forte Polipete; il percosso Pidìte dall'acuta asta d'Ulisse; Aretaon da Teucro. D'Antiloco la lancia Ablero atterra, Èlato quella del maggiore Atride, Èlato che sua stanza avea nell'alta Pedaso in riva dell'ameno fiume Satnioente. Euripilo prostese Melanzio; e l'asta dell'eroe Leìto il fuggitivo Fìlaco trafisse. Ma l'Atride minor, strenuo guerriero, vivo Adrasto pigliò. Repente ombrando li costui corridori, e via pel campo paventosi fuggendo in un tenace cespo implicârsi di mirica, e quivi al piede del timon spezzato il carro volâr con altri spaventati in fuga verso le mura. Prono nella polve sdrucciolò dalla biga appo la ruota quell'infelice. Colla lunga lancia Menelao gli fu sopra; e Adrasto a lui abbracciando i ginocchi e supplicando: Pigliami vivo, Atride; e largo prezzo del mio riscatto avrai. Figlio son io di ricco padre, e gran conserva ei tiene d'auro, di rame e di foggiato ferro. Di questi largiratti il padre mio molti doni, se vivo egli mi sappia nelle argoliche navi. - A questo prego già dell'Atride il cor si raddolcìa, già fidavalo al servo, onde alle navi l'adducesse; quand'ecco Agamennòne che a lui ne corre minaccioso e grida: Debole Menelao! e qual ti prende de' Troiani pietà? Certo per loro la tua casa è felice! Or su; nessuno de' perfidi risparmi il nostro ferro, né pur l'infante nel materno seno: perano tutti in un con Ilio, tutti senza onor di sepolcro e senza nome. Cangiò di Menelao la mente il fiero ma non torto parlar, sì ch'ei respinse da sé con mano il supplicante, e lui ferì tosto nel fianco Agamennòne, e supino lo stese. Indi col piede calcato il petto ne ritrasse il telo. Nestore intanto in altra parte accende l'acheo valor, gridando: Amici eroi, Dànai di Marte alunni, alcun non sia ch'ora badi alle spoglie, e per tornarne carco alle navi si rimanga indietro. Non badiam che ad uccidere, e gli uccisi poi nel campo a bell'agio ispoglieremo. Fatti animosi a questo dir gli Achei piombâr su i Teucri, che scorati e domi di nuovo in Ilio si sarìan racchiusi, se il prestante indovino Eleno, figlio del re troiano, non volgea per tempo ad Ettore e ad Enea queste parole: Poiché tutta si folce in voi la speme de' Troiani e de' Licii, e che voi siete i miglior nella pugna e nel consiglio, voi, Ettore ed Enea, qui state, e i nostri alle porte fuggenti rattenete, pria che, con riso del nemico, in braccio si salvin delle mogli. E come tutte ben rincorate le falangi avrete, noi di piè fermo, benché lassi e in dura necessitade, qui farem coll'armi buon ripicco agli Achei. Ciò fatto, a Troia tu, Ettore, ten vola, ed alla madre di' che salga la rocca, e del delubro a Minerva sacrato apra le porte, e vi raccolga le matrone, e il peplo il più grande, il più bello, e a lei più caro di quanti in serbo ne' regali alberghi ella ne tien, deponga umilemente su le ginocchia della Diva, e dodici giovenche le prometta ancor non dome, se la nostra città commiserando e le consorti e i figli, ella dal sacro Ilio allontana il fiero Dïomede combattente crudele, e vïolento artefice di fuga, e per mio senno il più gagliardo degli Achei. Né certo noi tremammo giammai tanto il Pelìde, benché figlio a una Dea, quanto costui che fuor di modo inferocisce, e nullo vien di forze con esso a paragone. Disse: e al cenno fraterno obbedïente Ettore armato si lanciò dal carro con due dardi alla mano; e via scorrendo per lo campo e animando ogni guerriero, rinfrescò la battaglia: e tosto i Teucri voltâr la faccia, e coraggiosi incontro fersi al nemico. S'arretrâr gli Achivi, e la strage cessò; ch'essi mirando sì audaci i Teucri convertir le fronti, stimâr disceso in lor soccorso un Dio. E tuttavia le sue genti Ettorre confortando, gridava ad alta voce: Magnanimi Troiani, e voi di Troia generosi alleati, ah siate, amici, siatemi prodi, e fuor mettete intera la vostra gagliardìa, mentr'io per poco men volo in Ilio ad intimar de' padri e delle mogli i preghi e le votive ecatombi agli Dei. - Parte, ciò detto. Ondeggiano all'eroe, mentre cammina, l'alte creste dell'elmo; e il negro cuoio, che gli orli attorna dell'immenso scudo, la cervice gli batte ed il tallone. Di duellar bramosi allor nel mezzo dell'un campo e dell'altro appresentârsi Glauco, prole d'Ippoloco, e il Tidìde. Come al tratto dell'armi ambo fur giunti, primo il Tidìde favellò: Guerriero, chi se' tu? Non ti vidi unqua ne' campi della gloria finor. Ma tu d'ardire ogni altro avanzi se aspettar non temi la mia lancia. È figliuol d'un infelice chi fassi incontro al mio valor. Se poi tu se' qualche Immortal, non io per certo co' numi pugnerò; ché lunghi giorni né pur non visse di Drïante il forte figlio Licurgo che agli Dei fe' guerra. Su pel sacro Nisseio egli di Bacco le nudrici inseguìa. Dal rio percosse con pungolo crudel gittaro i tirsi tutte insieme, e fuggîr: fuggì lo stesso Bacco, e nel mar s'ascose, ove del fero minacciar di Licurgo paventoso Teti l'accolse. Ma sdegnârsi i numi con quel superbo. Della luce il caro raggio gli tolse di Saturno il figlio, e detestato dagli Eterni tutti breve vita egli visse. All'armi io dunque non verrò con gli Dei. Ma se terreno cibo ti nutre, accòstati; e più presto qui della morte toccherai le mete. E d'Ippoloco a lui l'inclito figlio: Magnanimo Tidìde, a che dimandi il mio lignaggio? Quale delle foglie, tale è la stirpe degli umani. Il vento brumal le sparge a terra, e le ricrea la germogliante selva a primavera. Così l'uom nasce, così muor. Ma s'oltre brami saper di mia prosapia, a molti ben manifesta, ti farò contento. Siede nel fondo del paese argivo Efira, una città, natìa contrada di Sisifo che ognun vincea nel senno. Dall'Eolide Sisifo fu nato Glauco; da Glauco il buon Bellerofonte, cui largiro gli Dei somma beltade, e quel dolce valor che i cuori acquista. Ma Preto macchinò la sua ruina, e potente signor d'Argo che Giove sottomessa gli avea, d'Argo l'espulse per cagione d'Antèa sposa al tiranno. Furïosa costei ne desïava segretamente l'amoroso amplesso; ma non valse a crollar del saggio e casto Bellerofonte la virtù. Sdegnosa del magnanimo niego l'impudica volse l'ingegno alla calunnia, e disse al marito così: Bellerofonte meco in amor tentò meschiarsi a forza: muori dunque, o l'uccidi. Arse di sdegno Preto a questo parlar, ma non l'uccise, di sacro orror compreso. In quella vece spedillo in Licia apportator di chiuse funeste cifre al re suocero, ond'egli perir lo fêsse. Dagli Dei scortato partì Bellerofonte, al Xanto giunse, al re de' Licii appresentossi, e lieta n'ebbe accoglienza ed ospital banchetto. Nove giorni fumò su l'are amiche di nove tauri il sangue. E quando apparve della decima aurora il roseo lume interrogollo il sire, e a lui la tèssera del genero chiedea. Viste le crude note di Preto, comandògli in prima di dar morte all'indomita Chimera. Era il mostro d'origine divina lïon la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco. E nondimeno col favor degli Dei l'eroe la spense. Pugnò poscia co' Sòlimi, e fu questa, per lo stesso suo dir, la più feroce di sue pugne. Domò per terza impresa le Amazzoni virili. Al suo ritorno il re gli tese un altro inganno, e scelti della Licia i più forti, in fosco agguato li collocò; ma non redinne un solo: tutti gli uccise l'innocente. Allora chiaro veggendo che d'un qualche iddio illustre seme egli era, a sé lo tenne, e diegli a sposa la sua figlia, e mezza la regal potestade. Ad esso inoltre costituiro i Licii un separato ed ameno tenér, di tutti il meglio, d'alme viti fecondo e d'auree messi, ond'egli a suo piacer lo si coltivi. Partorì poi la moglie al virtuoso Bellerofonte tre figliuoli, Isandro e Ippoloco, ed alfin Laodamìa che al gran Giove soggiacque, e padre il fece del bellicoso Sarpedon. Ma quando venne in odio agli Dei Bellerofonte, solo e consunto da tristezza errava pel campo Aleio l'infelice, e l'orme de' viventi fuggìa. Da Marte ucciso cadde Isandro co' Sòlimi pugnando; Laodamìa perì sotto gli strali dell'irata Diana; e a me la vita Ippoloco donò, di cui m'è dolce dirmi disceso. Il padre alle troiane mura spedimmi, e generosi sproni m'aggiunse di lanciarmi innanzi a tutti nelle vie del valore, onde de' miei padri la stirpe non macchiar, che fûro d'Efira e delle licie ampie contrade i più famosi. Ecco la schiatta e il sangue di che nato mi vanto, o Dïomede. Allegrossi di Glauco alle parole il marzïal Tidìde, e l'asta in terra conficcando, all'eroe dolce rispose: Un antico paterno ospite mio, Glauco, in te riconosco. Enèo, già tempo, ne' suoi palagi accolse il valoroso Bellerofonte, e lui ben venti interi giorni ritenne, e di bei doni entrambi si presentaro. Una purpurea cinta Enèo donò, Bellerofonte un nappo di doppio seno e d'ôr, che in serbo io posi nel mio partir: ma di Tidèo non posso farmi ricordo, ché bambino io m'era quando ei lasciommi per seguire a Tebe gli Achei che rotti vi periro. Io dunque sarotti in Argo ed ospite ed amico, tu in Licia a me, se nella Licia avvegna ch'io mai porti i miei passi. Or nella pugna evitiamci l'un l'altro. Assai mi resta di Teucri e d'alleati, a cui dar morte, quanti a' miei teli n'offriranno i numi, od il mio piè ne giungerà. Tu pure troverai fra gli Achivi in chi far prova di tua prodezza. Di nostr'armi il cambio mostri intanto a costor, che l'uno e l'altro siam ospiti paterni. Così detto, dal cocchio entrambi dismontâr d'un salto, strinser le destre, e si dier mutua fede. Ma nel cambio dell'armi a Glauco tolse Giove lo senno. Aveale Glauco d'oro, Dïomede di bronzo: eran di quelle cento tauri il valor, nove di queste. Al faggio intanto delle porte Scee Ettore giunge. Gli si fanno intorno le troiane consorti e le fanciulle per saper de' figliuoli e de' mariti e de' fratelli e degli amici; ed egli, Ite, risponde, a supplicar gli Dei in devota ordinanza, itene tutte, ch'oggi a molte sovrasta alta sciagura. De' regali palagi indi s'avvìa ai portici superbi. Avea cinquanta talami la gran reggia edificati l'un presso all'altro, e di polita pietra splendidi tutti. Accanto alle consorti dormono in questi i Priamìdi. A fronte dodici altri ne serra il gran cortile per le regie donzelle, al par de' primi di bel marmo lucenti, e posti in fila. Di Priamo in questi dormono gl'illustri generi al fianco delle caste spose. Qui giunto Ettore, ad incontrarlo corse l'inclita madre che a trovar sen gìa Laodice, la più delle sue figlie avvenente e gentil. Chiamollo a nome, e strettolo per mano: O figlio, disse, perché, lasciato il guerreggiar, qua vieni? Ohimè! per certo i detestati Achei son già sotto alle mura, e te qui spinge religioso zelo ad innalzare là su la rocca le pie mani a Giove. Ma deh! rimanti alquanto, ond'io d'un dolce vino la spuma da libar ti rechi primamente al gran Giove e agli altri Eterni, indi a rifar le tue, se ne berai, esauste forze. Di guerrier già stanco rinfranca Bacco il core, e te pugnante per la tua patria la fatica oppresse. No, non recarmi, veneranda madre, dolce vino verun, rispose Ettorre, ch'egli scemar potrìa mie forze, e in petto addormentarmi la natìa virtude. Aggiungi che libar non oso a Giove pria che di divo fiume onda mi lavi; né certo lice colle man di polve lorde e di sangue offerir voti al sommo de' nembi adunator. Ma tu di Palla predatrice t'invìa deh! tosto al tempio, e rècavi i profumi accompagnata dalle auguste matrone, e qual nell'arca peplo ti serbi più leggiadro e caro, prendilo, e umìle della Diva il poni su le sacre ginocchia, e sei le vóta giovenche e sei di collo ancor non tocco se la cittade e le consorti e i figli commiserando, dall'iliache mura allontana il feroce Dïomede, artefice di fuga e di spavento. Corri dunque a placarla. Io ratto intanto a Paride ne vado, onde svegliarlo dal suo letargo, se darammi orecchio. Oh gli s'aprisse il suolo, ed ingoiasse questa del mio buon padre e di noi tutti invïata da Giove alta sciagura. Né penso che dal cor mi fia mai tolta di sì spiacenti guai la rimembranza, se pria non veggo costui spinto a Pluto. Disse; e ne' regii alberghi Ecuba entrata chiama le ancelle, e a ragunar le manda per la cittade le matrone. Ed ella nell'odorato talamo discende, ove di pepli istorïati un serbo tenea, lavor delle fenicie donne che Paride, solcando il vasto mare, da Sidon conducea quando la figlia di Tindaro rapìo. Di questi Ecùba un ne toglie il più grande, il più riposto, fulgido come stella, ed a Minerva offerta lo destina. Indi s'avvìa dalle gravi matrone accompagnata. Al tempio giunte di Minerva in vetta all'ardua rocca, aperse loro i sacri claustri la figlia di Cissèo, la bella d'alme guance Teano, che lodata d'Antènore consorte i giusti Teucri di Minerva nomâr sacerdotessa. Tutte allora levâr con alti pianti a Pallade le palme, e preso il peplo, su le ginocchia della Diva il pose la modesta Teano: indi di Giove alla gran figlia orò con questi accenti: Veneranda Minerva, inclita Dea, delle città custode, ah tu del fiero Tidìde l'asta infrangi, e di tua mano stendilo anciso su le porte Scee, che noi tosto su l'are a te faremo di dodici giovenche ancor non dome scorrere il sangue, se di queste mura e delle teucre spose, e de' lor cari figli innocenti sentirai pietade. Così pregâr: ma non udìa la Diva delle misere i voti. Ettore intanto di Paride cammina alle leggiadre case, di che egli stesso il prence avea divisato il disegno, al magistero de' più sperti di Troia architettori fidandone l'effetto. E questi a lui e stanza ed atrio e corte edificaro sul sommo della rocca, appo i regali di Priamo stesso e del maggior fratello risplendenti soggiorni. Entrovvi Ettorre, nelle mani la lunga asta tenendo di ben undici cubiti. La punta di terso ferro colla ghiera d'oro al mutar de' gran passi scintillava. Nel talamo il trovò che le sue belle armi assettava, i curvi archi e lo scudo e l'usbergo. L'argiva Elena, in mezzo all'ancelle seduta, i bei lavori ne dirigea. Com'ebbe in lui gli sguardi fisso il grande guerrier, con detti acerbi così l'invase: Sciagurato! il core ira ti rode, il so; ma non è bello il coltivarla. Intorno all'alte mura cadono combattendo i cittadini, e tanta strage e tanto affar di guerra per te solo s'accende; e tu sei tale che altrui vedendo abbandonar la pugna rampognarlo oseresti. Or su, ti scuoti, esci di qua pria che da' Greci accesa venga a snidarti d'Ilïon la fiamma. Bello, siccome un Dio, Paride allora così rispose: Tu mi fai, fratello, giusti rimprocci, e giusto al par mi sembra ch'io ti risponda, e tu mi porga ascolto. Né sdegno né rancor contra i Troiani nel talamo regal mi rattenea, ma desir solo di distrarre un mio dolor segreto. E in questo punto istesso con tenere parole anco la moglie m'esortava a tornar nella battaglia, e il cor mio stesso mi dicea che questo era lo meglio; perocché nel campo le palme alterna la vittoria. Or dunque attendi che dell'armi io mi rivesta, o mi precorri, ch'io ti seguo, e tosto raggiungerti mi spero. - Così disse Paride: e nulla gli rispose Ettorre; a cui molli volgendo le parole Elena soggiugnea: Dolce cognato, cognato a me proterva, a me primiero de' vostri mali detestando fonte, oh m'avesse il dì stesso in che la madre mi partoriva, un turbine divelta dalle sue braccia, ed alle rupi infranta, o del mar nell'irate onde sommersa pria del bieco mio fallo! E poiché tale e tanto danno statuîr gli Dei, stata almeno foss'io consorte ad uomo più valoroso, e che nel cor più addentro i dispregi sentisse e le rampogne. Ma di presente a costui manca il fermo carattere dell'alma, e non ho speme ch'ei lo s'acquisti in avvenir. M'avviso quindi che presto pagheranne il fio. Ma tu vien oltre, amato Ettorre, e siedi su questo seggio, e il cor stanco ricrea dal rio travaglio che per me sostieni, per me d'obbrobrio carca, e per la colpa del tuo fratello. Ahi lassa! un duro fato Giove n'impose e tal ch'anco ai futuri darem materia di canzon famosa. Cortese donna, le rispose Ettorre, non rattenermi. Il core, impazïente di dar soccorso a' miei che me lontano richiamano, fa vano il dolce invito. Ma tu di cotestui sprona il coraggio, onde s'affretti ei pure, e mi raggiunga anzi ch'io m'esca di città. Veloce corro intanto a' miei lari a veder l'uopo di mia famiglia, e la diletta moglie e il pargoletto mio, non mi sapendo se alle lor braccia tornerò più mai, o s'oggi è il dì che decretâr gli Eterni sotto le destre achee la mia caduta. Parte, ciò detto, e giunge in un baleno alla eccelsa magion; ma non vi trova la sua dal bianco seno alma consorte; ch'ella col caro figlio e coll'ancella in elegante peplo tutta chiusa su l'alto della torre era salita: e là si stava in pianti ed in sospiri. Come deserta Ettòr vide la stanza, arrestossi alla soglia, ed all'ancelle vòlto il parlar: Porgete il vero, ei disse; Andromaca dov'è? Forse alle case di qualcheduna delle sue congiunte, o di Palla recossi ai santi altari a placar colle troïche matrone la terribile Dea? - No, gli rispose la guardïana, e poiché brami il vero, il vero parlerò. Né alle cognate ella n'andò, né di Minerva all'are, ma d'Ilio alla gran torre. Udito avendo dell'inimico un furïoso assalto e de' Teucri la rotta, la meschina corre verso le mura a simiglianza di forsennata, e la fedel nutrice col pargoletto in braccio l'acccompagna. Finito non avea queste parole la guardïana, che veloce Ettorre dalle soglie si spicca, e ripetendo il già corso sentier, fende diritto del grand'Ilio le piazze: ed alle Scee, onde al campo è l'uscita, ecco d'incontro Andromaca venirgli, illustre germe d'Eezïone, abitator dell'alta Ipoplaco selvosa, e de' Cilìci dominator nell'ipoplacia Tebe. Ei ricca di gran dote al grande Ettorre diede a sposa costei ch'ivi allor corse ad incontrarlo; e seco iva l'ancella tra le braccia portando il pargoletto unico figlio dell'eroe troiano, bambin leggiadro come stella. Il padre Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto Astïanatte, perché il padre ei solo era dell'alta Troia il difensore. Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque. Ma di gran pianto Andromaca bagnata accostossi al marito, e per la mano strignendolo, e per nome in dolce suono chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito! il tuo valor ti perderà: nessuna pietà del figlio né di me tu senti, crudel, di me che vedova infelice rimarrommi tra poco, perché tutti di conserto gli Achei contro te solo si scaglieranno a trucidarti intesi; e a me fia meglio allor, se mi sei tolto, l'andar sotterra. Di te priva, ahi lassa! ch'altro mi resta che perpetuo pianto? Orba del padre io sono e della madre. M'uccise il padre lo spietato Achille il dì che de' Cilìci egli l'eccelsa popolosa città Tebe distrusse: m'uccise, io dico, Eezïon quel crudo; ma dispogliarlo non osò, compreso da divino terror. Quindi con tutte l'armi sul rogo il corpo ne compose, e un tumulo gli alzò cui di frondosi olmi le figlie dell'Egìoco Giove l'Oreadi pietose incoronaro. Di ben sette fratelli iva superba la mia casa. Di questi in un sol giorno lo stesso figlio della Dea sospinse l'anime a Pluto, e li trafisse in mezzo alle mugghianti mandre ed alle gregge. Della boscosa Ipoplaco reina mi rimanea la madre. Il vincitore coll'altre prede qua l'addusse, e poscia per largo prezzo in libertà la pose. Ma questa pure, ahimè! nelle paterne stanze lo stral d'Artèmide trafisse. Or mi resti tu solo, Ettore caro, tu padre mio, tu madre, tu fratello, tu florido marito. Abbi deh! dunque di me pietade, e qui rimanti meco a questa torre, né voler che sia vedova la consorte, orfano il figlio. Al caprifico i tuoi guerrieri aduna, ove il nemico alla città scoperse più agevole salita e più spedito lo scalar delle mura. O che agli Achei abbia mostro quel varco un indovino, o che spinti ve gli abbia il proprio ardire, questo ti basti che i più forti quivi già fêr tre volte di valor periglio, ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro sire di Creta ed il fatal Tidìde. Dolce consorte, le rispose Ettorre, ciò tutto che dicesti a me pur anco ange il pensier; ma de' Troiani io temo fortemente lo spregio, e dell'altere Troiane donne, se guerrier codardo mi tenessi in disparte, e della pugna evitassi i cimenti. Ah nol consente, no, questo cor. Da lungo tempo appresi ad esser forte, ed a volar tra' primi negli acerbi conflitti alla tutela della paterna gloria e della mia. Giorno verrà, presago il cor mel dice, verrà giorno che il sacro iliaco muro e Priamo e tutta la sua gente cada. Ma né de' Teucri il rio dolor, né quello d'Ecuba stessa, né del padre antico, né de' fratei, che molti e valorosi sotto il ferro nemico nella polve cadran distesi, non mi accora, o donna, sì di questi il dolor, quanto il crudele tuo destino, se fia che qualche Acheo, del sangue ancor de' tuoi lordo l'usbergo, lagrimosa ti tragga in servitude. Misera! in Argo all'insolente cenno d'una straniera tesserai le tele. Dal fonte di Messìde o d'Iperèa, (ben repugnante, ma dal fato astretta) alla superba recherai le linfe; e vedendo talun piovere il pianto dal tuo ciglio, dirà: Quella è d'Ettorre l'alta consorte, di quel prode Ettorre che fra' troiani eroi di generosi cavalli agitatori era il primiero, quando intorno a Ilïon si combattea. Così dirassi da qualcuno; e allora tu di nuovo dolor l'alma trafitta più viva in petto sentirai la brama di tal marito a scior le tue catene. Ma pria morto la terra mi ricopra, ch'io di te schiava i lai pietosi intenda. Così detto, distese al caro figlio l'aperte braccia. Acuto mise un grido il bambinello, e declinato il volto, tutto il nascose alla nudrice in seno, dalle fiere atterrito armi paterne, e dal cimiero che di chiome equine alto su l'elmo orribilmente ondeggia. Sorrise il genitor, sorrise anch'ella la veneranda madre; e dalla fronte l'intenerito eroe tosto si tolse l'elmo, e raggiante sul terren lo pose. Indi baciato con immenso affetto, e dolcemente tra le mani alquanto palleggiato l'infante, alzollo al cielo, e supplice sclamò: Giove pietoso e voi tutti, o Celesti, ah concedete che di me degno un dì questo mio figlio sia splendor della patria, e de' Troiani forte e possente regnator. Deh fate che il veggendo tornar dalla battaglia dell'armi onusto de' nemici uccisi, dica talun: Non fu sì forte il padre: E il cor materno nell'udirlo esulti. Così dicendo, in braccio alla diletta sposa egli cesse il pargoletto; ed ella con un misto di pianti almo sorriso lo si raccolse all'odoroso seno. Di secreta pietà l'alma percosso riguardolla il marito, e colla mano accarezzando la dolente: Oh! disse, diletta mia, ti prego; oltre misura non attristarti a mia cagion. Nessuno, se il mio punto fatal non giunse ancora, spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo, sia vil, sia forte, si sottragge al fato. Or ti rincasa, e a' tuoi lavori intendi, alla spola, al pennecchio, e delle ancelle veglia su l'opre; e a noi, quanti nascemmo fra le dardanie mura, a me primiero lascia i doveri dell'acerba guerra. Raccolse al terminar di questi accenti l'elmo dal suolo il generoso Ettorre, e muta alla magion la via riprese l'amata donna, riguardando indietro, e amaramente lagrimando. Giunta agli ettorei palagi, ivi raccolte trovò le ancelle, e le commosse al pianto. Ploravan tutte l'ancor vivo Ettorre nella casa d'Ettòr le dolorose, rivederlo più mai non si sperando reduce dalla pugna, e dalle fiere mani scampato de' robusti Achei. Non producea gl'indugi in questo mezzo dentro l'alte sue soglie il Prïamìde Paride: e già di tutte rivestito le sue bell'armi, d'Ilio folgorando traversava le vie con presto piede. Come destriero che di largo cibo ne' presepi pasciuto, ed a lavarsi del fiume avvezzo alla bell'onda, alfine rotti i legami per l'aperto corre stampando con sonante ugna il terreno: scherzan sul dosso i crini, alta s'estolle la superba cervice, ed esultando di sua bellezza, ai noti paschi ei vola ove amor d'erbe o di puledre il tira; tale di Priamo il figlio dalla rocca di Pergamo scendea tutto nell'armi esultante e corrusco come sole. Sì ratti i piedi lo portâr, ch'ei tosto il germano raggiunse appunto in quella che dal tristo parlar si dipartìa della consorte. Favellò primiero Paride, e disse: Alla tua giusta fretta fui di lungo aspettar forse cagione, venerando fratello, e non ti giunsi sollecito, tem'io, come imponesti. Generoso timor! rispose Ettorre; null'uom, che l'opre drittamente estimi, darà biasmo alle tue nel glorioso mestier dell'armi; ché tu pur se' prode. Ma, colpa del voler, spesso s'allenta la tua virtude, e inoperosa giace. Quindi è l'alto mio duol quando de' Teucri per te solo infelici odo in tuo danno le contumelie. Ma partiam, ché poscia comporremo tra noi questa contesa, se grazia ne farà Giove benigno di poter lieti nelle nostre case ai Celesti immortali offrir la coppa dell'alma libertà, vinti gli Achei.
Così dicendo, dalle porte eruppe seguìto dal fratello il grande Ettorre. Ardono entrambi di far pugna: e quale i naviganti allegra amico vento che un Dio lor manda allor che stanchi ei sono d'agitar le spumanti onde co' remi, e cascano le membra di fatica; tali al desìo de' Teucri essi appariro. A prima giunta Paride stramazza Menestio d'Arna abitatore, e figlio del portator di clava Arëitòo, a cui lo partorìa Filomedusa per grand'occhi lodata. Ettore attasta Eïoneo di lancia alla cervice sotto l'elmetto, e morto lo distende. Glauco, duce de' Licii, a un tempo istesso d'un colpo di zagaglia ad Ifinòo, prole di Dèssio, l'omero trafigge appunto in quella che salìa sul cocchio, e dal cocchio al terren morto il trabocca. Vista la strage degli Achei, Minerva dall'Olimpo calossi impetuosa verso il sacro Ilïon. La vide Apollo dalla pergàmea rocca, e vincitori bramando i Teucri, le si fece incontro vicino al faggio, e favellò primiero: Figlia di Giove, e quale il cor t'invade furia novella? E qual sì grande affetto dall'Olimpo ti spinge? a portar forse della pugna agli Achei la dubbia palma, poiché niuna ti tocca il cor pietade dello strazio de' Teucri? Or su, m'ascolta, e fia lo meglio. Si sospenda in questo giorno la zuffa, e alla novella aurora si ripigli e s'incalzi infin che Troia cada: da che la sua caduta a voi possenti Dive il cor cotanto invoglia. Sia così, Palla gli rispose: io scesi fra i Troiani e gli Achei con questa mente. Ma come avvisi di quetar la pugna? Suscitiam, replicava il saettante figlio di Giove, suscitiam la forte alma d'Ettorre a provocar qualcuno de' prodi Achivi a singolar tenzone: e indignati gli Achivi un valoroso spingano anch'essi a cimentarsi in campo da solo a solo col troian guerriero. Disse, e Minerva acconsentìa. Conobbe de' consultanti iddii tosto il disegno il Prïamide Elèno in suo pensiero, e ad Ettore venuto: Ettore, ei disse, pari a quello d'un nume è il tuo consiglio; ma udir vuoi tu del tuo fratello il senno? Fa dall'armi cessar Teucri ed Achei, e degli Achei tu sfida il più valente a singolar certame. Io ti fo certo che il tuo giorno fatal non giunse ancora; così mi dice degli Dei la voce. Esultò di letizia all'alto invito il valoroso: e presa per lo mezzo la sua gran lancia, e tra l'un campo e l'altro procedendo, fe' alto alle troiane falangi; ed elle soffermârsi tutte. Soffermârsi del pari al riverito cenno d'Atride i coturnati Achivi, e in forma d'avoltoi Minerva e Febo sull'alto faggio s'arrestâr di Giove, con diletto mirando de' guerrieri quinci e quindi seder dense le file d'elmi orrende e di scudi e d'aste erette. Quale è l'orror che di Favonio il soffio nel suo primo spirar spande sul mare, che destato s'arruffa e l'onde imbruna: tale de' Teucri e degli Achei nel vasto campo sedute comparìan le file. Trasse Ettorre nel mezzo, e così disse: Udite, o Teucri, udite attenti, o Achivi, ciò che nel petto mi ragiona il core. Ratificar non piacque all'alto Giove i nostri giuramenti, e in suo segreto agli uni e agli altri macchinar ne sembra grandi infortunii, finché l'ora arrivi ch'Ilio per voi s'atterri, o che voi stessi atterrati restiate appo le navi. Or quando il vostro campo il fior racchiude degli achivi guerrieri, esca a duello chi cuor si sente: lo disfida Ettorre. Eccovi i patti del certame, e Giove testimonio ne sia. Se il mio nemico m'ucciderà, dell'armi ei mi dispogli, e le si porti; ma il mio corpo renda, onde i Troiani e le troiane spose m'onorino del rogo. Ov'io lui spegna, ed Apollo la palma a me conceda, porteronne le tolte armi nel sacro Ilio, e del nume appenderolle al tempio: ma l'intatto cadavere alle navi vi sarà rimandato, onde d'esequie l'orni l'achea pietade e di sepolcro su l'Ellesponto. Lo vedrà de' posteri naviganti qualcuno, e fia che dica: Ecco la tomba d'un antico prode che combattendo coll'illustre Ettorre glorïoso perì. Questo fia detto, ed eterno vivrassi il nome mio. All'audace disfida ammutoliro gli Achei, tementi d'accettarla, e insieme di recusarla vergognosi. Alfine in piè rizzossi Menelao, nell'imo del cor gemendo, ed in acerbi detti prorompendo gridò: Vili superbi, Achive, non Achei! Fia questo il colmo dell'ignominia, se tra voi non trova quell'audace Troian chi gli risponda. Oh possiate voi tutti in nebbia e polve resoluti sparir, voi che vi state qui senza core immoti e senza onore. Ma io medesmo, io sì, contra costui scenderò nell'arena. In man de' numi della vittoria i termini son posti. Ciò detto, l'armi indossa. E certo allora per le mani d'Ettorre, o Menelao, trovato avresti di tua vita il fine, (ch'egli di forza ti vincea d'assai) se subito in piè surti i prenci achivi non rattenean tua foga. Egli medesmo il regnatore Atride Agamennóne l'afferrò per la mano, e, Tu deliri, disse, e il delirio non ti giova. Or via, fa senno, e premi il tuo dolor, né spinto da bellicosa gara avventurarti con un più prode di cui tutti han tema, col Prïamide Ettorre. Anco il Pelìde, sì più forte di te, lo scontro teme di quella lancia nel conflitto. Or dunque ritorna alla tua schiera, e statti in posa. Gli desteranno incontra altro più fermo duellator gli Achivi, e tal ch'Ettorre, intrepido quantunque ed indefesso, metterà volentier, se dritto io veggo, le ginocchia in riposo, ove pur sia che netto egli esca dalla gran tenzone. Svolge il saggio parlar del sommo Atride del fratello il pensier, che obbedïente quetossi, e lieti gli levâr di dosso le bell'arme i sergenti. Allor nel mezzo surse Nestore, e disse: Eterni Dei! Oh di che lutto ricoprirsi io veggio la casa degli eroi, l'achea contrada! Oh quanto in cor ne gemerà l'antico di cocchi agitator Pelèo, di lingua fra' Mirmidon sì chiaro e di consiglio; egli che in sua magion solea di tutti gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli, e giubilava nell'udirli! Ed ora se per Ettorre ei tutti li sapesse di terror costernati, oh come al cielo alzerebbe le mani, e pregherebbe di scendere dolente anima a Pluto! O Giove padre, o Pallade, o divino di Latona figliuol! ché non son io nel fior degli anni, come quando in riva pugnâr del ratto Celadonte i Pilii con la sperta di lancia arcade gente sotto il muro di Fea verso le chiare del Jàrdano correnti? Alla lor testa Ereutalion venìa, che pari a nume l'armatura regal d'Arëitòo indosso avea, del divo Arëitòo che gli uomini tutti e le ben cinte donne clavigero nomâr; perché non d'arco né di lunga asta armato ei combattea, ma con clava di ferro poderosa rompea le schiere. A lui diè morte poscia, pel valore non già, ma per inganno Licurgo al varco d'un angusto calle, ove il rotar della ferrata clava al suo scampo non valse; ché Licurgo prevenendone il colpo traforògli l'epa coll'asta, e stramazzollo; e l'armi così gli tolse che da Marte egli ebbe, armi che poscia l'uccisor portava ne' fervidi conflitti; insin che, fatto per vecchiezza impotente, al suo diletto prode scudiero Ereutalion le cesse. Di queste dunque altero iva costui disfidando i più forti, ed atterriti n'eran sì tutti, che nessun si mosse. Ma io mi mossi audace core, e d'anni minor di tutti m'azzuffai con esso, e col favor di Pallade lo spensi: forte eccelso campion che in molta arena giaceami steso al piede. Oh mi fiorisse or quell'etade e la mia forza intégra! Per certo Ettorre troverìa qui tosto chi gli risponda. E voi del campo acheo i più forti, i più degni, ad incontrarlo voi non andrete con allegro petto? Tacque: e rizzârsi subitani in piedi nove guerrieri. Si rizzò primiero il re de' prodi Agamennón; rizzossi dopo lui Dïomede, indi ambedue gl'impetuosi Aiaci; indi, col fido Merïon bellicoso, Idomenèo; e poscia d'Evemon l'inclito figlio Eurìpilo, e Toante Andremonìde, e il saggio Ulisse finalmente. Ognuno chiese il certame coll'eroe troiano. Disse allora il buon veglio: Arbitra sia della scelta la sorta, e sia l'eletto, salvo tornando dall'ardente agone, degli Achei la salute e di sé stesso. Segna a quel detto ognun sua sorte: e dentro l'elmo la gitta del maggior Atride. La turba intanto supplicante ai numi sollevava le palme; e con gli sguardi fissi nel cielo udìasi dire: O Giove, fa che la sorte il Telamònio Aiace nomi, o il Tidìde, o di Micene il sire. Così pregava; e il cavalier Nestorre agitava le sorti: ed ecco uscirne quella che tutti desïâr. La prese, e a dritta e a manca ai prenci achivi in giro la mostrava l'araldo, e nullo ancora la conoscea per sua. Ma come, andando dall'uno all'altro, il banditor pervenne al Telamònio Aiace e gliela porse, riconobbe l'eroe lieto il suo segno, e gittatolo in mezzo, Amici, è mia, gridò, la sorte, e ne gioisce il core, che su l'illustre Ettòr spera la palma. Voi, mentre l'arma io vesto, al sommo Giove supplicate in silenzio, onde non sia dai teucri orecchi il vostro prego udito; o supplicate ad alta voce ancora, se sì vi piace, ché nessuno io temo, né guerriero v'avrà che mio malgrado di me trionfi, né per fallo mio. Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero, la marzïal palestra in Salamina, né il chiaro sangue di che nato io sono. Disse; e gli Achivi alzâr gli sguardi al cielo, e a Giove supplicâr con questi accenti: Saturnio padre, che dall'Ida imperi massimo, augusto! vincitor deh rendi e glorioso Aiace; o se pur anco t'è caro Ettorre e lo proteggi, almeno forza ad entrambi e gloria ugual concedi. Di splendid'armi frettoloso intanto Aiace si vestiva: e poiché tutte l'ebbe assunte dintorno alla persona, concitato avvïossi, a camminava quale incede il gran Marte allor che scende tra fiere genti stimolate all'armi dallo sdegno di Giove, e dall'insana roditrice dell'alme émpia Contesa. Tale si mosse degli Achei trinciera lo smisurato Aiace, sorridendo con terribile piglio, e misurava a vasti passi il suol, l'asta crollando che lunga sul terren l'ombra spandea. Di letizia esultavano gli Achivi a riguardarlo; ma per l'ossa ai Teucri corse subito un gelo. Palpitonne lo stesso Ettòr; ma né schivar per tema il fier cimento, né tra' suoi ritrarsi più non gli lice, ché fu sua la sfida. E già gli è sopra Aiace coll'immenso pavese che parea mobile torre; opra di Tichio, d'Ila abitatore, prestantissimo fabbro, che di sette costruito l'avea ben salde e grosse cuoia di tauro, e indóttavi di sopra una falda d'acciar. Con questo al petto enorme scudo il Telamònio eroe féssi avanti al Troiano, e minaccioso mosse queste parole: Ettore, or chiaro saprai da solo a sol quai prodi ancora rimangono agli Achei dopo il Pelìde cuor di lïone e rompitor di schiere. Irato coll'Atride egli alle navi neghittoso si sta; ma noi siam tali, che non temiamo lo tuo scontro, e molti. Comincia or tu la pugna, e tira il primo. Nobile prence Telamònio Aiace, rispose Ettorre, a che mi tenti, e parli come a imbelle fanciullo o femminetta cui dell'armi il mestiero è pellegrino? E anch'io trattar so il ferro e dar la morte, e a dritta e a manca anch'io girar lo scudo, e infaticato sostener l'attacco, e a piè fermo danzar nel sanguinoso ballo di Marte, o d'un salto sul cocchio lanciarmi, e concitar nella battaglia i veloci destrier. Né già vogl'io un tuo pari ferire insidïoso, ma discoperto, se arrivar ti posso. Ciò detto, bilanciò colla man forte la lunga lancia, e saettò d'Aiace il settemplice scudo. Furïosa la punta trapassò la ferrea falda che di fuor lo copriva, e via scorrendo squarciò sei giri del bovin tessuto, e al settimo fermossi. Allor secondo trasse Aiace, e colpì di Priamo il figlio nella rotonda targa. Traforolla il frassino veloce, e nell'usbergo sì addentro si ficcò, che presso al lombo lacerògli la tunica. Piegossi Ettore a tempo, ed evitò la morte. Ricovrò l'uno e l'altro il proprio telo, e all'assalto tornâr come per fame fieri leoni, o per vigor tremendi arruffati cinghiali alla montagna. Di nuovo Ettorre coll'acuto cerro colpì, lo scudo ostil, ma senza offesa, ch'ivi la punta si curvò: di nuovo trasse Aiace il suo telo, ed alla penna dello scudo ferendo, a parte a parte lo trapassò, gli punse il collo, e vivo sangue spiccionne. Né per ciò l'attacco lasciò l'audace Ettorre. Era nel campo un negro ed aspro enorme sasso: a questo diè di piglio il Troiano, e contra il Greco lo fulminò. Percosse il duro scoglio il colmo dello scudo, e orribilmente ne rimbombò la ferrea piastra intorno. Seguì l'esempio il gran Telamonìde, ed afferrato e sollevato ei pure un altro più d'assai rude macigno, con forza immensa lo rotò, lo spinse contra il nemico. Il molar sasso infranse l'ettoreo scudo, e di tal colpo offese lui nel ginocchio, che riverso ei cadde con lo scudo sul petto: ma rizzollo immantinente di Latona il figlio. E qui tratte le spade i due campioni più da vicino si ferìan, se ratti, messaggieri di Giove e de' mortali, non accorrean gli araldi, il teucro Idèo, e l'achivo Taltìbio, ambo lodati di prudente consiglio. Entrâr costoro con securtade in mezzo ai combattenti, ed interposto fra le nude spade il pacifico scettro, il saggio Idèo così primiero favellò: Cessate, diletti figli, la battaglia. Entrambi siete cari al gran Giove, entrambi (e chiaro ognun sel vede) acerrimi guerrieri: ma la notte discende, e giova, o figli, alla notte obbedir. - Dimandi Ettorre questa tregua, rispose il fiero Aiace: primo ei tutti sfidonne, e primo ei chiegga. Ritirerommi, se l'esempio ei porga. E l'illustre rival tosto riprese: Aiace, i numi ti largîr cortesi pari alla forza ed al valore il senno, e nel valor tu vinci ogni altro Acheo. Abbian riposo le nostr'armi, e cessi la tenzon. Pugneremo altra fïata finché la Parca ne divida, e intera all'uno o all'altro la vittoria doni. Or la notte già cade, e della notte romper non dêssi la ragion. Tu riedi dunque alle navi a rallegrar gli Achivi, i congiunti, gli amici. Io nella sacra città rïentro a serenar de' Teucri le meste fronti e le dardanie donne, che in lunghi pepli avvolte appiè dell'are per me si stanno a supplicar. Ma pria di dipartirci, un mutuo dono attesti la nostra stima: e gli Achei poscia e i Teucri diran: Costoro duellâr coll'ira di fier nemici, e separârsi amici. Così dicendo, la sua propria spada gli presentò d'argentei chiovi adorna con fulgida vagina ed un pendaglio di leggiadro lavoro; Aiace a lui il risplendente suo purpureo cinto. Così divisi, agli Achei l'uno, ai Teucri l'altro avvïossi. Esilarârsi i Teucri, vivo il lor duce ritornar veggendo dalla forza scampato e dall'invitte mani d'Aiace; e trepidanti ancora del passato periglio alla cittade l'accompagnaro. Dall'opposta parte della palma superbo il lor campione guidâr gli Achivi al padiglion d'Atride, che per tutti onorar tosto al Tonante un bue quinquenne in sacrificio offerse. Lo scuoiâr, lo spaccâr, lo fêro in brani acconciamente, e negli spiedi infisso l'abbrustolâr con molta cura, e tolto il tutto al foco, l'apprestâr sul desco, e banchettando ne cibò ciascuno a pien talento. Ma l'immenso tergo del sacro bue donollo Agamennóne d'onore in segno al vincitor guerriero. Del cibarsi e del ber spento il desìo, il buon veglio Nestorre, di cui sempre ottimo uscìa l'avviso, in questo dire svolse il suo senno: Atride e duci achei, questo giorno fatal la vita estinse di molti prodi, del cui sangue rossa fe' l'aspro Marte la scamandria riva, e all'Orco ne passâr l'ombre insepolte. Al nuovo sole le nostr'armi adunque si restino tranquille, e noi sul campo convenendo, imporrem le salme esangui su le carrette, e muli oprando e buoi, qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo le darem lungi dalle navi alquanto, onde al nostro tornar nel patrio suolo le ceneri portarne ai mesti figli. E dintorno alla pira una comune tomba ergeremo, e di muraglia e d'alte torri, a difesa delle navi e nostra, con rapido lavor la cingeremo, e salde vi apriremo e larghe porte per l'egresso de' cocchi. Indi un'esterna profonda fossa scaverem che tutta circondi la muraglia, e de' cavalli l'impeto affreni e de' pedon, se mai de' Teucri irrompa l'orgoglioso ardire. Disse, e tutti annuiro i prenci achei. Di Prïamo alle soglie in questo mentre su l'alta iliaca rocca i Teucri anch'essi tenean confusa e trepida consulta. Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l'argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr'armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s'assise. E surto in piedi il bel marito della bella Argiva così Pari rispose: Al cor m'è grave, Antenore, il tuo detto, e so che porti una miglior sentenza in tuo segreto. Ché se parli davver, davvero i numi ti han tolto il senno. Ma ben io qui schietti i miei sensi aprirò. La donna io mai non renderò, giammai. Quanto alle ricche spoglie che d'Argo a queste rive addussi, tutte render le voglio, ed altre ancora aggiungeronne di mio proprio dritto. Tacque, e sul seggio si raccolse. Allora in sembianza d'un Dio levossi in mezzo il Dardanide Prïamo, ed, Udite, Teucri, ei disse, e alleati, il mio pensiero, quale il cor lo significa. Pel campo del consueto cibo si ristauri ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli. Col nuovo sole alle nemiche navi Idèo sen vada, e ad ambedue gli Atridi di Paride, cagion della contesa, riferisca la mente, e una discreta proposta aggiunga di cessar la guerra, finché il rogo consunte abbia le morte salme de' nostri, per pugnar di poi finché la Parca ne spartisca, e agli uni conceda o agli altri la vittoria intégra. Tutti assentiro riverenti al detto: indi pel campo procurâr le cene in divisi drappelli. Il dì novello alle navi s'avvìa l'araldo Idèo, e raccolti ritrova a parlamento i bellicosi Achei davanti all'alta agamennònia poppa. Appresentossi tosto il canoro banditore, e disse: Atridi e duci achei, mi diè comando Priamo e di Troia gli ottimati insieme di sporvi, se vi fia grato l'udirla, di Paride, cagion di questa guerra, una proferta. Le ricchezze tutte ch'ei d'Argo addusse (oh pria perito ei fosse!) ei tutte le vi rende, ed altre ancora di sua ragion n'aggiungerà. Ma quanto alla gentil tua donna, o Menelao, di questa ei niega il rendimento, e indarno l'esortano i Troiani. E un'altra io reco di lor proposta: Se quetar vi piaccia della guerra il furor, finché de' morti le care spoglie il foco abbia combuste, per indi razzuffarci infin che piena tra noi decida la vittoria il fato. Disse, e tutti ammutîr. Sciolse il Tidìde alfin la voce; e, Niun di Pari, ei grida, l'offerta accetti, né la stessa pure rapita donna. Ai Dardani sovrasta, un fanciullo il vedrìa, l'esizio estremo. Plausero tutti al suo parlar gli Achivi con alte grida, e n'ammiraro il senno. Indi vòlto all'araldo il grande Atride: Idèo, diss'egli, per te stesso udisti degli Achei la risposta, e in un la mia. Quanto agli estinti, di buon grado assento che siano incesi; ché non dêssi avaro esser di rogo a chi di vita è privo, né porre indugio a consolarne l'ombra coll'officio pietoso. Il fulminante sposo di Giuno il nostro giuro ascolti. Così dicendo alzò lo scettro al cielo, e l'araldo tornossi entro la sacra cittade ai Teucri, già del suo ritorno impazïenti e in pien consesso accolti. Giunse, e intromesso la risposta espose. Si sparsero allor ratti, altri al carreggio de' cadaveri intenti, altri al funèbre taglio de' boschi. Dall'opposta parte un cuor medesmo, una medesma cura occupava gli Achivi. E già dal queto grembo del mare al ciel montando il sole co' rugiadosi lucidi suoi strali le campagne ferìa, quando nell'atra pianura si scontrâr Teucri ed Achei ognuno in cerca de' suoi morti, a tale dal sangue sfigurati e dalla polve, che mal se ne potea, senza lavarli, ravvisar le sembianze. Alfin trovati e conosciuti li ponean su i mesti plaustri piangendo. Ma di Priamo il senno non consentìa del pianto a' suoi lo sfogo: quindi afflitti, ma muti, al rogo i Teucri diero a mucchi le salme; ed arse tutte, col cuor serrato alla città tornaro. D'un medesmo dolor rotti gli Achei i lor morti ammassâr sovra la pira, e come gli ebbe la funerea fiamma consumati, del mar preser la via. Non biancheggiava ancor l'alba novella, ma il barlume soltanto antelucano, quando d'Achei dintorno all'alto rogo scelto stuolo affollossi. E primamente alzâr dappresso a quello una comune tomba agli estinti, ed alla tomba accanto una muraglia a edificar si diero d'alti torrazzi ghirlandata, a schermo delle navi e di sé: porte vi fêro di salda imposta, e di gran varco al volo de' bellicosi cocchi: indi lunghesso l'esterno muro una profonda e vasta fossa scavâr di pali irta e gremita. Degli Achei la stupenda opra tal era. La contemplâr maravigliando i numi seduti intorno al Dio de' tuoni, e irato sì prese a dir l'Enosigèo Nettunno: Giove padre, chi fia più tra' mortali, che gl'Immortali in avvenir consulti, e n'implori il favor? Vedi tu quale e quanto muro gli orgogliosi Achei innanti alle lor navi abbian costrutto e circondato d'un'immensa fossa senza offerir solenni ostie agli Dei? Di cotant'opra andrà certo la fama ovunque giunge la divina luce, e il grido morirà delle sacrate mura che al re Laomedonte un tempo intorno ad Ilïone Apollo ed io edificammo con assai fatica. Che dicesti? sdegnoso gli rispose l'adunator de' numbi: altro qualunque Iddio di forza a te minor potrebbe di questo paventar. Ma del possente Enosigèo la gloria al par dell'almo raggio del sole splenderà per tutto. Or ben: sì tosto che gli Achei faranno veleggiando ritorno al patrio lido, e tu quel muro abbatti e tutto quanto sprofondalo nel mare, e d'alta arena coprilo sì che ogni orma ne svanisca. In questo favellar l'astro s'estinse del giorno, e l'opra degli Achei fu piena. Della sera allestite indi le mense per le tende, cibâr le opime carni di scannati giovenchi, e ristorârsi del vino che recato avean di Lenno molti navigli; e li spediva Eunèo d'Issipile figliuolo e di Giasone. Mille sestieri in amichevol dono Eunèo ne manda ad ambedue gli Atridi; compra il resto l'armata, altri con bronzo, altri con lame di lucente ferro; qual con pelli bovine, e qual col corpo del bue medesmo, o di robusto schiavo. Lieto adunque imbandîr pronto convito gli Achivi, e tutta banchettâr la notte. Banchettava del par nella cittade con gli alleati la dardania gente. Ma tutta notte di Saturno il figlio con terribili tuoni annunzïava alte sventure nel suo senno ordite. Di pallido terror tutti compresi dalle tazze spargean le spume a terra devotamente, né veruno ardìa appressarvi le labbra, se libato pria non avesse al prepotente Giove. Corcârsi alfine, e su lor scese il sonno.
Già spiegava l'aurora il croceo velo sul volto della terra, e co' Celesti su l'alto Olimpo il folgorante Giove tenea consiglio. Ei parla, e riverenti stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite tutti, ed abbiate il mio voler palese; e nessuno di voi né Dio né Diva di frangere s'ardisca il mio decreto, ma tutti insieme il secondate, ond'io l'opra, che penso, a presto fin conduca. Qualunque degli Dei vedrò furtivo partir dal cielo, e scendere a soccorso de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo di turpe piaga tornerassi offeso; o l'afferrando di mia mano io stesso, nel Tartaro remoto e tenebroso lo gitterò, voragine profonda che di bronzo ha la soglia e ferree porte, e tanto in giù nell'Orco s'inabissa, quanto va lungi dalla terra il cielo. Allor saprà che degli Dei son io il più possente. E vuolsene la prova? D'oro al cielo appendete una catena, e tutti a questa v'attaccate, o Divi e voi Dive, e traete. E non per questo dal ciel trarrete in terra il sommo Giove, supremo senno, né pur tutte oprando le vostre posse. Ma ben io, se il voglio, la trarrò colla terra e il mar sospeso: indi alla vetta dell'immoto Olimpo annoderò la gran catena, ed alto tutte da quella penderan le cose. Cotanto il mio poter vince de' numi le forze e de' mortai. - Qui tacque, e tutti dal minaccioso ragionar percossi ammutolîr gli Dei. Ruppe Minerva finalmente il silenzio, e così disse: Padre e re de' Celesti, e noi pur anco sappiam che invitta è la tua gran possanza. Ma nondimen de' bellicosi Achei pietà ne prende, che di fato iniquo son vicini a perir. Noi dalla pugna, se tu il comandi, ci terrem lontani; ma non vietar che di consiglio almeno sien giovati gli Achivi, onde non tutti cadan nell'ira tua disfatti e morti. Con un sorriso le rispose il sommo de' nembi adunator: Conforta il core, diletta figlia; favellai severo, ma vo' teco esser mite. - E così detto, gli orocriniti eripedi cavalli come vento veloci al carro aggioga: al divin corpo induce una lorica tutta d'auro, e alla man data una sferza pur d'auro intesta e di gentil lavoro, monta il cocchio, e flagella a tutto corso i corridori che volâr bramosi infra la terra e lo stellato Olimpo. Tosto all'Ida, di belve e di rigosi fonti altrice, arrivò su l'ardua cima del Gargaro, ove sacro a lui frondeggia un bosco, e fuma un odorato altare. Qui degli uomini il padre e degli Dei rattenne e dal timon sciolse i cavalli, e di nebbia gli avvolse. Indi s'assise esultante di gloria in su la vetta di là lo sguardo a Troia rivolgendo ed alle navi degli Achei, che preso per le tende alla presta un parco cibo armavansi. Ed all'armi anch'essi i Teucri per la città correan; né gli sgomenta il numero minor, ché per le spose e pe' figli a pugnar pronti li rende necessità. Spalancansi le porte: erompono pedoni e cavalieri con immenso tumulto, e giunti a fronte, scudi a scudi, aste ad aste e petti a petti oppongono, e di targhe odi e d'usberghi un fiero cozzo, ed un fragor di pugna che rinforza più sempre. De' cadenti l'urlo si mesce coll'orribil vanto de' vincitori, e il suol sangue correa. Dall'ora che le porte apre al mattino fino al merigge, d'ambedue le parti durò la strage con egual fortuna. Ma quando ascese a mezzo cielo il sole, alto spiegò l'onnipossente Iddio l'auree bilance, e due diversi fati di sonnifera morte entro vi pose, il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo, le librò, sollevolle, e degli Achivi il fato dechinò, che traboccando percosse in terra, e balzò l'altro al cielo. Tonò tremendo allor Giove dall'Ida, e un infocato fulmine nel campo avventò degli Achei, che stupefatti a quella vista impallidîr di tema. Né Idomenèo né il grande Agamennóne, né gli Aiaci, ambedue lampi di Marte, fermi al lor posto rimaner fur osi. Solo il Gerenio, degli Achei tutela, Nestore vi restò, ma suo mal grado ché un destrier l'impedìa, cui di saetta d'Elena bella l'avvenente drudo nella fronte ferì laddove spunta nel teschio de' cavalli il primo crine, ed è letale il loco alle ferite. Inalberossi il corridor trafitto, ché nel cerèbro entrata era la freccia, e dintorno alla rota per l'acuto dolor si voltolando, in iscompiglio mettea gli altri cavalli. Or mentre il vecchio gli si fa sopra colla daga, e tenta tagliarne le tirelle, ecco veloci fra la calca e il ferir de' combattenti sopraggiungere d'Ettore i destrieri, superbi di portar sì grande auriga. E qui perduta il veglio avrìa la vita, se del rischio di lui non s'accorgea l'invitto Dïomede. Un grido orrendo di pugna eccitator mise l'eroe alla volta d'Ulisse: Ah dove immemore di tua stirpe divina, dove fuggi, astuto figlio di Laerte, e volgi, come un codardo della turba, il tergo? Bada che alcun le fuggitive spalle non ti giunga coll'asta. Agl'inimici volta la fronte, ed a salvar vien meco dal furor di quel fiero il vecchio amico. Quelle grida non ode, e ratto in salvo fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto solo il Tidìde, si sospinse in mezzo ai guerrier della fronte, avanti al cocchio di Nestore piantossi, e lui chiamando veloci gli drizzò queste parole: Troppo feroce gioventù nemica ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo sono i tuoi polsi: hai grave d'anni il dorso, hai debole l'auriga e i corridori. Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai dei cavalli di Troe, che dianzi io tolsi d'Anchise al figlio, a maraviglia sperti a fuggir ratti in campo e ad inseguire. Lascia cotesti agli scudieri in cura, drizziam questi ne' Teucri, e vegga Ettorre s'anco in mia man la lancia è furibonda. Disse: né il veglio ricusò l'invito. Di Stènelo e del buon Eurimedonte, valorosi scudieri, egli al governo cesse le sue puledre, e tosto il cocchio del Tidìde salito, in man si tolse le bellissime briglie, e col flagello i corsieri percosse. In un baleno giunser d'Ettore a fronte, che diritto lor d'incontro venìa con gran tempesta. Trasse la lancia Dïomede, e il colpo errò; ma su le poppe in mezzo al petto colpì l'auriga Enïopèo, figliuolo dell'inclito Tebèo. Cade il trafitto giù tra le rote colle briglie in pugno: s'arretrano i destrieri, e in quello stato perde ogni forza l'infelice, e spira. Del morto auriga addolorossi Ettorre, e mesto di lasciar quivi il compagno nella polve disteso, un altro audace alla guida del carro iva cercando: né di rettor gran tempo ebber bisogno i suoi destrieri, ché gli occorse all'uopo l'animoso Archepòlemo d'Ifito, cui sul carro montar fa senza indugio, e gli abbandona nella man le briglie. Immensa strage allora e fatti orrendi fôran d'arme seguìti, e come agnelli stati in Ilio sarìan racchiusi i Teucri, se de' Celesti il padre e de' mortali tosto di ciò non s'accorgea. Tonando con gran fragore un fulmine rovente vibrò nel campo il nume, e il fece in terra guizzar di Dïomede innanzi al cocchio: e subita n'uscìa d'ardente zolfo una terribil vampa. Spaventati costernansi i destrier, scappan di mano a Nestore le briglie; onde al Tidìde rivoltosi tremante; Ah piega, ei grida, piega indietro i cavalli, o Dïomede, fuggiam: nol vedi? contro noi combatte Giove irato, e a costui tutto dar vuole di presente l'onor della battaglia. Darallo, se gli piace, un'altra volta a noi pur: ma di Giove oltrapossente il supremo voler forza non pate. Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose l'imperturbato eroe; ma il cor mi crucia la dolorosa idea ch'Ettore un giorno fra' Troiani dirà gonfio d'orgoglio: Io fugai Dïomede, io lo costrinsi a scampar nelle navi. - Ei questo vanto menerà certo, e a me si fenda allora sotto i piedi la terra, e mi divori. E Nestore ripiglia: Ah che dicesti, valoroso Tidìde? E quando avvegna che un codardo, un imbelle Ettor ti chiami, i Troiani non già sel crederanno, né le troiane spose, a cui nell'atra polve stendesti i floridi mariti. Disse; e addietro girò tosto i cavalli tra la calca fuggendo. Ettore e i Teucri con urli orrendi li seguiro, e un nembo piovean su lor d'acerbi strali, ed alto gridar s'udiva de' Troiani il duce: I cavalieri argivi, o Dïomede, e di seggio e di tazze e di vivande te finora onorâr su gli altri a mensa; ma deriso or n'andrai, che un cor palesi di femminetta. Via di qua, fanciulla; non salirai tu, no, fin ch'io respiro, d'Ilio le torri, né trarrai cattive le nostre mogli nelle navi, e morto per la mia destra giacerai tu pria. Stettesi in forse a quel parlar l'eroe di dar volta ai cavalli, e d'affrontarlo. Ben tre volte nel core e nella mente gliene corse il desìo, tre volte Giove rimormorò dall'Ida, e fe' securi della vittoria con quel segno i Teucri. Con orribile grido Ettore allora animando le schiere: O Licii, o Dardani, o Troiani, dicea, prodi compagni, mostratevi valenti, e fuor mettete le generose forze. Io non m'inganno, Giove è propizio; di vittoria a noi e d'esizio a' nemici ei diede il segno. Stolti! che questo alzâr debile muro, troppo al nostro valor frale ritegno. Quella lor fossa varcheran d'un salto i miei cavalli; e quando emerso a vista io sarò delle navi, allor le faci ministrarmi qualcun si risovvegna, ond'io que' legni incenda, e fra le vampe sbalorditi dal fumo i Greci uccida. Poi conforta i destrieri, e sì lor parla: Xanto, Podargo, Etón, Lampo divino, mercé del largo cibo or mi rendete, che dell'illustre Eezïon la figlia Andromaca vi porge, il dolce io dico frumento, e l'alma di Lïeo bevanda, ch'ella a voi mesce desïosi, a voi pria che a me stesso che pur suo mi vanto giovine sposo. Or via, volate; andiamo alla conquista del nestòreo scudo di cui va il grido al cielo, e tutto il dice d'auro perfetto, e d'auro anco la guiggia. Poi di dosso trarremo a Dïomede l'usbergo, esimia di Vulcan fatica. Se cotal preda ne riesce, io spero che ratti i Greci su le navi in questa notte medesma salperan dal lido. Del superbo parlar forte sdegnossi l'augusta Giuno, e s'agitò sul trono sì che scosso tremonne il vasto Olimpo. Quindi rivolte le parole al grande dio Nettunno, sì disse: E sarà vero, possente Enosigèo, che degli Argivi a pietà non ti mova la ruina! Pur son essi che in Elice ed in Ege rècanti offerte graziose e molte. E perché dunque non vorrai tu loro la vittoria bramar? Certo se quanti siam difensori degli Achivi in cielo vorrem de' Teucri rintuzzar l'orgoglio e al Tonante far forza, egli soletto e sconsolato sederà su l'Ida. Oh! che mai parli, temeraria Giuno? le rispose sdegnoso il re Nettunno: non sia, no mai, che col saturnio Giove a cozzar ne sospinga il nostro ardire; rammenta ch'egli è onnipossente, e taci. Mentre seguìan tra lor queste parole, quanto intervallo dalle navi al muro la fossa comprendea, tutto era denso di cavalli, di cocchi e di guerrieri ivi dal fiero Ettòr serrati e chiusi, che simigliante al rapido Gradivo infuriava col favor di Giove. E ben le navi avrìa messe in faville, se l'alma Giuno in cor d'Agamennóne il pensier non ponea di girne attorno ratto egli stesso a incoraggiar gli Achivi. Per le tende egli dunque e per le navi sollecito correa, raccolto il grande purpureo manto nel robusto pugno: e cotal su la negra capitana d'Ulisse si fermò, che vasta il mezzo dell'armata tenea, donde distinta d'ogni parte mandar potea la voce fin d'Aiace e d'Achille al padiglione, che l'eguali lor prore ai lati estremi, nel valor delle braccia ambo securi, avean dedotte all'arenoso lido. Di là fec'egli rimbombar sul campo quest'alto grido: Svergognati Achivi, vitupèri nell'opre e sol d'aspetto maravigliosi! dove dunque andaro gli alteri vanti che menammo un giorno di prodezza e di forza? In Lenno queste fur le vostre burbanze allor che l'epa v'empiean le polpe de' giovenchi uccisi, e le ricolme tazze inghirlandate si venìan tracannando, e si dicea che un sol per cento e per dugento Teucri, un sol Greco valea nella battaglia. Ed or tutti ne fuga un solo Ettorre, che ben tosto farà di queste navi cenere e fumo. O Giove padre, e quale altro mai re di tanti danni afflitto, di tanto disonor carco volesti? Pur io so ben, che quando a questo lido il perverso destin mi conducea, giammai veruno de' tuoi santi altari navigando lasciai sprezzato indietro; ma l'adipe a te sempre e i miglior fianchi de' giovenchi abbruciai sovra ciascuno, bramoso d'atterrar l'iliache mura. Deh almen n'adempi questo voto, almeno danne, o Giove, uno scampo colla fuga, né per le mani del crudel Troiano consentir degli Achivi un tanto scempio. Così dicea piangendo. Ebbe pietade di sue lagrime il nume, e ad accennargli che non tutto il suo campo andrìa disfatto, il più sicuro de' volanti augurio un'aquila spedì che negli unghioni tolto al covil della veloce madre un cerbiatto stringendo, accanto all'ara, ove l'ostie svenar solean gli Achivi al fatidico Giove, dall'artiglio cader lasciò la palpitante preda. Gli Achei veduto il sacro augel, cui spinto conobbero da Giove, ad affrontarsi più coraggiosi ritornâr co' Teucri, e rinfrescâr la pugna. Allor nessuno pria del Tidìde fra cotanti Argivi vanto si diede d'agitar pel campo i veloci corsieri, ed oltre il fosso cacciarli ed azzuffarsi. Egli primiero anzi a tutti si spinse, e a prima giunta Agelao di Fradmon tolse di mezzo uom troiano. Costui piegàti in fuga i suoi destrieri avea. Coll'asta il tergo gli raggiunse il Tidìde, gliela fisse tra gli omeri, e passar la fece al petto. Cadde Agelao dal carro, e cupamente l'armi sovr'esso rintonâr. Secondo Agamennón si mosse, indi il fratello, indi gli Aiaci impetuosi, e poi Idomenèo con esso il suo scudiero Merïon che di Marte avea l'aspetto; poi d'Evemon l'illustre figlio Eurìpilo, ed ultimo giungea Teucro del curvo elastic'arco tenditor famoso. D'Aiace Telamònio egli locossi dietro lo scudo, e dello scudo Aiace gli antepose la mole. Ivi securo l'eroe guatava intorno, e quando avea saettato nel denso un inimico, quegli cadendo perdea l'alma, e questi, come fanciullo della madre al manto, ricovrava al fratel che alla grand'ombra dello splendido scudo il proteggea. Or dall'egregio arcier chi de' Troiani fu primo ucciso? Primamente Orsìloco, indi Ormeno e Ofeleste: a questi aggiunse Detore e Cromio, e per divin sembiante Licofonte lodato, e Amopaone Poliemonìde, e Melanippo, tutti l'un dopo l'altro nella polve stesi. Gioiva il re de' regi Agamennóne mirandolo dall'arco vigoroso lanciar la morte fra' nemici, e a lui vicin venuto soffermossi, e disse: Diletto capo Telamònio Teucro, siegui l'arco a scoccar, porta, se puoi, a' Dànai un raggio di salute, e onora il tuo buon padre Telamon che un giorno ti raccolse fanciullo, e benché frutto di non giusto imeneo, pur con pietoso tenero affetto in sua magion ti crebbe. Or tu fa ch'egli salga in alta fama, sebben lontano. Ti prometto io poi (e sacra tieni la promessa mia) che se Giove e Minerva mi daranno d'Ilio il conquisto, tu primier t'avrai il premio, dopo me, de' forti onore, ed in tua man porrollo io stesso, un tripode, o due cavalli ad un bel cocchio aggiunti, o di vaghe sembianze una fanciulla che teco il letto e l'amor tuo divida. E Teucro gli rispose: Illustre Atride, a che mi sproni, per me stesso assai già fervido e corrente? Io non rimango di far qui tutto il mio poter. Dal punto che verso la città li respingemmo, mi sto coll'arco ad aspettar costoro, e li trafiggo. E già ben otto acuti dardi dal nervo liberai, che tutti profondamente si ficcâr nel corpo di giovani guerrieri, e non ancora ferir m'è dato questo can rabbioso. Disse; e di nuovo fe' volar dall'arco contr'Ettore uno strale. Al colpo tutta ei l'anima diresse, e nondimeno fallì la freccia, ché l'accolse in petto di Prïamo un valente esimio figlio Gorgizïon, cui d'Esima condotta partorì la gentil Castïanira, che una Diva parea nella persona. Come carco talor del proprio frutto, e di troppa rugiada a primavera il papaver nell'orto il capo abbassa, così la testa dell'elmo gravata su la spalla chinò quell'infelice. E Teucro dalla corda ecco sprigiona alla volta d'Ettorre altra saetta, più che mai del suo sangue sitibondo. E pur di nuovo uscì lo strale in fallo, ché Apollo il devïò, ma colse al petto d'Ettòr l'audace bellicoso auriga Archepòlemo presso alla mammella. Cadde ei rovescio giù dal cocchio, addietro si piegaro i cavalli, e quivi a lui il cor ghiacciossi, e l'anima si sciolse. Di quella morte gravemente afflitto il teucro duce, e di lasciar costretto, mal suo grado, l'amico, a Cebrïone di lui fratello che il seguìa, fe' cenno di dar mano alle briglie. Ad obbedirlo Cebrïon non fu lento; ed ei d'un salto dallo splendido cocchio al suol disceso con terribile grido un sasso afferra, a Teucro s'addirizza, e di ferirlo l'infiammava il desìo. Teucro in quel punto traeva un altro doloroso telo dalla faretra, e lo ponea sul nervo. Mentre alla spalla lo ritragge in fretta, e l'inimico adocchia, il sopraggiunge crollando l'elmo Ettorre, e dove il collo s'innesta al petto ed è letale il sito, coll'aspro sasso il coglie, e rotto il nervo gl'intorpidisce il braccio. Dalle dita l'arco gli fugge, e sul ginocchio ei casca. Il caduto fratello in abbandono Aiace non lasciò, ma ratto accorse, e col proteso scudo il ricoprìa, finché lo si recâr sovra le spalle due suoi cari compagni, Mecistèo d'Echìo figliuolo, e il nobile Alastorre, e alle navi il portâr che gravemente sospirava e gemea. Ne' Teucri allora di nuovo suscitò l'Olimpio Giove tal forza e lena, che al profondo fosso dirittamente ricacciâr gli Achei. Iva Ettorre alla testa, e dalle truci sue pupille mettea lampi e paura. Qual fiero alano che ne' presti piedi confidando, un cinghial da tergo assalta, od un lïone, e al suo voltarsi attento or le cluni gli addenta, ora la coscia; così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre uccidendo il postremo li disperde. Ma poiché l'alto fosso ed il palizzo ebber varcato i fuggitivi, e molti il troiano valor n'avea già spenti, giunti alle navi si fermaro, e insieme mettendosi coraggio, e a tutti i numi sollevando le man spingea ciascuno con alta voce le preghiere al cielo. Signor del campo d'ogni parte intanto agitava i destrieri il grande Ettorre di bel crine superbi, e rotar bieco le luci si vedea come il Gorgóne, o come Marte che nel sangue esulta. Impietosita degli Achei la bianca Giuno a Minerva si rivolse, e disse: Invitta figlia dell'Egìoco Giove, dunque, ohimè! non vorremo aver più nullo pensier de' Greci già cadenti, almeno nell'estremo lor punto? Eccoli tutti l'empio lor fato a consumar vicini per l'impeto d'un sol, del fiero Ettorre che in suo furore intollerando omai passa ogni modo, e ne fa troppe offese! A cui la Diva dalle glauche luci Minerva rispondea: Certo perduta avrìa costui la furia e l'alma ancora, a giacer posto nella patria terra dal valor degli Achei; ma quel mio padre di sdegnosi pensier calda ha la mente, sempre avverso, e de' miei forti disegni acerbo correttor; né si rimembra quante volte servar gli seppi il figlio dai duri d'Euristèo comandi oppresso. Ei lagrimava lamentoso al cielo, e me dal cielo allora ad aïtarlo Giove spediva. Ma se il cor prudente detto m'avesse le presenti cose, quando alle ferree porte il suo tiranno l'invïò dell'Averno a trar dal negro Erebo il can dell'abborrito Pluto, ei, no, scampato non avrìa di Stige la profonda fiumana. Or m'odia il padre, e di Teti adempir cerca le brame, che lusinghiera gli baciò il ginocchio, e accarezzògli colla destra il mento, d'onorar supplicandolo il Pelìde delle cittadi atterrator. Ma tempo, sì, verrà tempo che la sua diletta Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni. Or tu vanne, ed il carro m'apparecchia co' veloci cornipedi, ché tosto io ne vo dentro alle paterne stanze, e dell'armi mi vesto per la pugna. Vedrem se questo Ettòr, che sì superbo crolla il cimiero, riderà quand'io nel folto apparirò della battaglia. Qualcun per certo de' Troiani ancora presso le navi achee satolli e pingui di sue polpe farà cani ed augelli. Disse; né Giuno ricusò, ma corse ai divini cavalli, e d'auree barde in fretta li guarnìa, Giuno la figlia del gran Saturno, veneranda Diva. D'altra parte Minerva il rabescato suo bellissimo peplo, delle stesse immortali sue dita opra stupenda, sul pavimento dell'Egìoco padre lasciò cader diffuso; ed indossando del nimbifero Giove il grande usbergo, tutta s'armava a lagrimosa pugna. Sul rilucente cocchio indi salita impugnò la pesante e poderosa gran lancia, ond'ella, allor che monta in ira, di forte genitor figlia tremenda, le schiere degli eroi rovescia e doma. Stimolava Giunon velocemente colla sferza i destrieri, e tosto fûro alle celesti soglie, a cui custodi vegliano l'Ore che il maggior de' cieli hanno in cura e l'Olimpo, onde sgombrarlo o circondarlo della sacra nube. Cigolando s'aprîr per sé medesme l'eteree porte, e docili al flagello spinser per queste i corridor le Dive. Come Giove dal Gàrgaro le vide, forte sdegnossi, ed Iri a sé chiamando ali-dorata Dea, Vola, le disse, Iri veloce, le rivolgi indietro, e lor divieta il venir oltre meco ad inegual cimento. Io lo protesto, e il fatto seguirà le mie parole, io loro fiaccherò sotto la biga i corridori, e dall'infranto cocchio balzerò le superbe, e delle piaghe che loro impresse lascerà il mio telo, né pur due lustri salderanno il solco. Saprà Minerva allor qual sia stoltezza il cimentarsi col suo padre in guerra. Quanto a Giunon, m'è forza esser con ella meno irato: gli è questo il suo costume di sempre attraversarmi ogni disegno. Disse; ed Iri a portar l'alto messaggio mosse veloce al par delle procelle; ed ascesa dall'Ida al grande Olimpo di molti gioghi altero, e su le soglie incontrate le Dee, sì le rattenne, e lor di Giove le parole espose: Dove correte? Che furore è questo? Sostate il piè, ché il dar soccorso ai Greci nol vi consente Giove. Le minacce dell'alto figlio di Saturno udite, che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro storpieravvi i destrieri, e dall'infranto carro voi stesse balzerà, né dieci anni le piaghe salderan che impresse lasceravvi il suo telo; e tu, Minerva, allor saprai qual sia demenza il farti al tuo padre nemica. Né con Giuno, sempre usata a turbargli ogni disegno, tanto s'adira, ei no, quanto con teco, invereconda audace Dea, che ardisci contra il Tonante sollevar la lancia. Disse, e ratta sparì la messaggiera. Ed a Minerva allor con questi accenti Giuno si volse: Ohimè! più non si parli, figlia di Giove, di pugnar con esso per cagion de' mortali: io nol consento. Di loro altri si muoia, altri si viva, come piace alla sorte; e Giove intanto, come dispon suo senno e sua giustizia, fra i Troiani e gli Achei tempri il destino. Sì dicendo la Dea ritorse indietro i criniti destrieri, e l'Ore ancelle li distaccâr dal giogo, e li legaro ai nettarei presepi, ed il bel cocchio appoggiaro alla lucida parete. Si raccolser le Dive in aureo seggio con gli altri Dei confuse; e Giove intanto dal Gàrgaro all'Olimpo i corridori e le fulgide ruote alto spingea. Giunto alle case de' Celesti, a lui sciolse i corsieri l'inclito Nettunno, rimesse il cocchio, e lo coprì d'un velo. Giove sul trono si compose e tutto tremò sotto il suo piè l'immenso Olimpo. Ma Minerva e Giunon sole in disparte sedean, né motto né dimanda a Giove ardìan veruna indirizzar. S'avvide de' lor pensieri il nume, e così disse: Perché sì meste, o voi Minerva e Giuno? e' non si par che molto affaticate v'abbia finor la glorïosa pugna in esizio de' Teucri, a cui sì grave odio poneste. E v'è di mente uscito che invitto è il braccio mio? che quanti ha numi il ciel, cangiare il mio voler non ponno? A voi bensì le delicate membra prese un freddo tremor pria che la guerra pur contemplaste, e della guerra i duri esperimenti. Io vel dichiaro (e fôra già seguìto l'effetto) che percosse dalla folgore mia, no, non v'avrebbe il vostro cocchio ricondotte al cielo, albergo degli Eterni. - Il Dio sì disse, e in secreto fremean Minerva e Giuno sedendosi vicino, ed ai Troiani meditando nel cor alte sciagure. Stette muta Minerva, e contra il padre l'acerbo che l'ardea sdegno represse; ma sciolto all'ira il fren Giuno rispose: Tremendissimo Giove, e che dicesti? Ben anco a noi la tua possanza invitta è manifesta; ma pietà ne prende dei dannati a perir miseri Achei. Noi certo l'armi lascerem, se questo è il tuo strano voler; ma nondimeno qualche ai Greci daremo util consiglio, onde non tutti il tuo furor li spegna. E Giove replicò: Più fiero ancora vedrai dimani, se t'aggrada, o moglie, l'onnipotente di Saturno figlio dell'esercito achèo struggere il fiore. Perocché dalla pugna il forte Ettorre non pria desisterà, che finalmente l'ozïosa si svegli ira d'Achille il dì che in gran periglio appo le navi combatterassi per Patròclo ucciso. Tal de' fati è il voler, né de' tuoi sdegni sollecito son io, no, s'anco ai muti della terra e del mar confini estremi andar ti piaccia, nel rimoto esiglio di Giapeto e Saturno, che nel cupo Tartaro chiusi né il superno raggio del Sole, né di vento aura ricrea; no, se tant'oltre pure il tuo dispetto vagabonda ti porti, io non ti curo, poiché d'ogni pudor possasti il segno. Tacque; né Giuno osò pure d'un detto fargli risposta. In grembo al mar frattanto la splendida cadea lampa del Sole l'atra notte traendo su la terra. Della luce l'occaso i Teucri afflisse, ma pregata più volte e sospirata sovraggiunse agli Achei l'ombra notturna. Fuor del campo navale Ettore allora i Troiani ritrasse in su la riva del rapido Scamandro, ed in pianura da' cadaveri sgombra a parlamento chiamolli; ed essi dismontâr dai cocchi, e affollati dintorno al gran guerriero cura di Giove, a sue parole attenti porgean gli orecchi. Una grand'asta in pugno di ben undici cubiti sostiene: tutta di bronzo folgora la punta, e d'oro un cerchio le discorre intorno. Appoggiato su questa, così disse: Dardani, Teucri, Collegati, udite: io poc'anzi sperai ch'arse le navi e distrutti gli Argivi a Troia avremmo fatto ritorno. Ma sì bella speme ne rapîr le tenèbre invidiose, che inopportune sul cruento lido salvâr le navi e i paurosi Achei. Obbediamo alle negre ombre nemiche, apparecchiam le cene. Ognun dal temo sciolga i cavalli, e liberal sia loro di largo cibo. Di voi parte intanto alla città si affretti, e pingui agnelle e giovenchi n'adduca, e di Lïeo e di Cerere il frutto almo e gradito. Sian di secche boscaglie anco raccolte abbondanti cataste, e si cosparga, finché regna la notte e l'alba arriva, tutto di fuochi il campo e il ciel di luce, onde dell'ombre nel silenzio i Greci non prendano del mar su l'ampio dorso taciturni la fuga; o i legni almeno non salgano tranquilli, e la partenza senza terror non sia; ma nell'imbarco o di lancia piagato o di saetta vada più d'uno alle paterne case a curar la ferita, e rechi ai figli l'orror de' Teucri, e così loro insegni a non tentarli con funesta guerra. Voi cari a Giove diligenti araldi, per la città frattanto ite, e bandite che i canuti vegliardi, e i giovinetti a cui le guance il primo pelo infiora, custodiscan le mura in su gli spaldi dagli Dei fabbricati. Entro le case allumino gran fuoco anco le donne, e stazïon vi sia di sentinelle, onde, sendo noi lungi, ostile insidia nell'inerme città non s'introduca. Quanto or dico s'adémpia, e non fia vano, magnanimi compagni, il mio consiglio. Dirò dimani ciò che far ne resta. Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni avrem propizi, di cacciarne lungi cotesti cani da funesto fato qua su le prore addutti. Or per la notte custodiamo noi stessi. Al primo raggio del nuovo giorno in tutto punto armati desteremo sul lido acre conflitto; vedrem se Dïomede, questo forte figliuolo di Tidèo, respingerammi dalle navi alle mura, o s'io coll'asta saprò passargli il fianco, e via portarne le sanguinose spoglie. Egli dimani manifesto farà se sua prodezza tal sia che possa di mia lancia il duro assalto sostener. Ma se fallace non è mia speme, ei giacerà tra' primi spento con molti de' compagni intorno, ei sì, dimani, all'apparir del Sole. Così immortal foss'io, né mai vecchiezza vïolasse i miei giorni, ed onorato foss'io del par che Pallade ed Apollo, come fatale ai Greci è il dì futuro. Tal fu d'Ettorre il favellar superbo, e gli fêr plauso i Teucri. Immantinente sciolsero dal timone i polverosi destrier sudati, e colle briglie al carro gli annodò ciascheduno. Indi menaro pecore e buoi dalla cittade in fretta. Altri vien carco di nettareo vino, altri di cibo cereale; ed altri cataste aduna di virgulti e tronchi. Rapìan l'odor delle vivande i venti da tutto il campo, e lo spargeano al cielo. Ed essi gonfi di baldanza, e in torme belliche assisi dispendean la notte, tutta empiendo di fuochi la campagna. Siccome quando in ciel tersa è la Luna, e tremole e vezzose a lei dintorno sfavillano le stelle, allor che l'aria è senza vento, ed allo sguardo tutte si scuoprono le torri e le foreste e le cime de' monti; immenso e puro l'etra si spande, gli astri tutti il volto rivelano ridenti, e in cor ne gode l'attonito pastor: tali al vederli, e altrettanti apparìan de' Teucri i fuochi tra le navi e del Xanto le correnti sotto il muro di Troia. Erano mille che di gran fiamma interrompeano il campo, e cinquanta guerrieri a ciascheduno sedeansi al lume delle vampe ardenti. Presso i carri frattanto orzo ed avena i cavalli pascevano, aspettando che dal bel trono suo l'Alba sorgesse.
Queste de' Teucri eran le veglie. Intanto del gelido Terror negra compagna la Fuga, dagli Dei ne' petti infusa, l'achivo campo possedea. Percosso da profonda tristezza era di tutti i più forti lo spirto; e in quella guisa che il pescoso Oceàno si rabbuffa, quando improvviso dalla tracia tana di Ponente sorgiunge e d'Aquilone l'impetuoso soffio; alto s'estolle l'onda, e si sparge di molt'alga il lido: tale è l'interna degli Achei tempesta. Sovra ogni altro l'Atride addolorato di qua, di là s'aggira, ed agli araldi comanda di chiamar tutti in segreto ad uno ad uno i duci a parlamento. Come fûro adunati, e mesti in volto s'assisero, levossi Agamennóne. Lagrimava simìle a cupo fonte che tenebrosi da scoscesa rupe versa i suoi rivi; e dal profondo seno messo un sospiro, cominciò: Diletti principi Argivi, in una ria sciagura Giove m'avvolse. Dispietato! ei prima mi promise e giurò che al suol prostrate d'Ilio le mura, glorïoso in Argo avrei fatto ritorno; ed or mi froda indegnamente, e dopo tante in guerra estinte vite, di partir m'impone inonorato. Il piacimento è questo del prepotente nume, che già molte spianò cittadi eccelse, e molte ancora ne spianerà, ché immenso è il suo potere. Dunque al mio detto obbediam tutti, al vento diam le vele, fuggiamo alla diletta paterna terra, ché dell'alta Troia lo sperato conquisto è vana impresa. Ammutîr tutti a queste voci, e in cupo lungo silenzio si restâr dolenti i figli degli Achei. Lo ruppe alfine il bellicoso Dïomede, e disse: Atride, al torto tuo parlar col vero libero dir, che in libero consesso lice ad ognun, risponderò. Tu m'odi senza disdegno. Osasti, e fosti il primo, alla presenza degli Achei pur dianzi vituperarmi, e imbelle dirmi, e privo d'ogni coraggio, e l'udîr tutti. Or io dico a te di rimando, che se Giove l'un ti diè de' suoi doni, l'onor sommo dello scettro su noi, non ti concesse l'altro più grande che lo scettro, il core. Misero! e speri sì codardi e fiacchi, come pur cianci, della Grecia i figli? Se il cor ti sprona alla partenza, parti; sono aperte le vie; le numerose navi, che d'Argo ti seguîr, son pronte: ma gli altri Achivi rimarran qui fermi all'eccidio di Troia; e se pur essi fuggiran sulle prore al patrio lido, noi resteremo a guerreggiar; noi due Stènelo e Dïomede, insin che giunga il dì supremo d'Ilion; ché noi qua ne venimmo col favor d'un Dio. Tacque; e tutti mandâr di plauso un grido, del Tidìde ammirando i generosi sensi; e di Pilo il venerabil veglio surto in piedi dicea: Nelle battaglie forte ti mostri, o Dïomede, e vinci di senno insieme i coetani eroi. Né biasmar né impugnar le tue parole potrà qui nullo degli Achei: ma pure, benché retti e prudenti e di noi degni, non ferîr giusto i tuoi discorsi il segno. Giovinetto se' tu, sì che il minore esser potresti de' miei figli. Io dunque che di te più d'assai vecchio mi vanto, dironne il resto, né il mio dir veruno biasmerà, non lo stesso Agamennóne. È senza patria, senza leggi e senza lari chi la civile orrenda guerra desidera. Ma giovi or della fosca diva dell'ombre rispettar l'impero. S'apprestino le cene, ed ogni scolta vegli al fosso del muro, e questo sia de' giovani il pensier. Tu, sommo Atride, come a capo s'addice, accogli a mensa i più provetti; e ben lo puoi, ché piene le tende hai tu del buon lïeo che ognora pel vasto mar ti recano veloci l'achive prore dalle tracie viti. Nulla all'uopo ti manca, ed al tuo cenno tutto obbedisce. Congregati i duci, apra ognun la sua mente, e tu seconda il consiglio miglior, ché di consiglio utile e saggio or fa mestier davvero. Imminente alle navi è l'inimico, pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli può senza tema? Questa fia la notte che l'esercito perda, o lo conservi. Disse, e tutti obbediro. Immantinente uscîr di rilucenti armi vestite le sentinelle. N'eran sette i duci; il Nestoride prence Trasimede, di Marte i figli Ascàlafo e Jalmeno, Merïon, Dëipìro ed Afarèo con Licomede di Creonte; e cento giovani prodi conducea ciascuno di lunghe picche armati. In ordinanza si difilâr tra il fosso e il muro, e quivi destaro i fuochi, e apposero le cene. Nella tenda regal l'Atride intanto convita i duci, di vivande grate li ristaura; e sì tosto che de' cibi e del bere in ciascun tacque il desìo, il buon Nestorre, di cui sempre uscìa ottimo il detto, cominciò primiero a svolgere dal petto un suo consiglio, e in questo saggio ragionar l'espose: Agamennóne glorïoso Atride, da te principio prenderan le mie parole, e in te si finiranno, in te di molte genti imperador, cui Giove, per la salute de' suggetti, il carco delle leggi commise e dello scettro. Principalmente quindi a te conviensi dir tua sentenza, ed ascoltar l'altrui, e la porre ad effetto, ove da pura coscïenza proceda, e il ben ne frutti; ché il buon consiglio, da qualunque ei vegna, tuo lo farai coll'eseguirlo. Io dunque ciò che acconcio a me par, dirò palese, né verun penserà miglior pensiero di quel ch'io penso e mi pensai dal punto che dalla tenda dell'irato Achille via menasti, o gran re, la giovinetta Brisëide, sprezzato il nostro avviso. Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi ti sconfortai dall'opra: ma tu spinto dall'altero tuo cor onta facesti al fortissimo eroe, dagl'Immortali stessi onorato, e il premio gli rapisti de' suoi sudori, e ancor lo ti ritieni. Or tempo egli è di consultar le guise di blandirlo e piegarlo, o con eletti doni o col dolce favellar che tocca. Tu parli il vero, Agamennón rispose, parli il vero pur troppo, enumerando i miei torti, o buon vecchio. Errai, nol nego: val molte squadre un valoroso in cui ponga Giove il suo cor, siccome in questo per lo cui solo onor doma gli Achei. Ma se ascoltando un mal desìo l'offesi, or vo' placarlo, e il presentar di molti onorevoli doni, e a voi qui tutti li dirò: sette tripodi, non anco tocchi dal foco; dieci aurei talenti; due volte tanti splendidi lebeti; dodici velocissimi destrieri usi nel corso a riportarmi i primi premii, e di tanti già mi fêr l'acquisto, che povero per certo e di ricchezze desideroso non sarìa chi tutti li possedesse. Donerogli in oltre di suprema beltà sette captive lesbie donzelle a meraviglia sperte nell'opre di Minerva, e da me stesso trascelte il dì che Lesbo ei prese. A queste aggiungo la rapita a lui poc'anzi Brisëide, e farò giuro solenne ch'unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto senza indugio fia pronto. Ove gli Dei ne concedano poscia il porre al fondo la troiana città, primiero ei vada, nel partir delle spoglie, a ricolmarsi d'oro e bronzo le navi, e si trascelga venti bei corpi di dardanie donne dopo l'argiva Elèna le più belle. Di più: se d'Argo riveder n'è dato le care sponde, ei genero sarammi onorato e diletto al par d'Oreste, ch'unico germe a me del miglior sesso ivi s'edùca alle dovizie in seno. Ho di tre figlie nella reggia il fiore, Crisotemi, Laòdice, Ifianassa. Qual più d'esse il talenta a sposa ei prenda senza dotarla, ed a Pelèo la meni. Doterolla io medesmo, e di tal dote qual non s'ebbe giammai altra donzella: sette città, Cardàmile ed Enòpe, le liete di bei prati Ira ed Antèa, l'inclita Fere, Epèa la bella, e Pèdaso d'alme viti feconda: elle son poste tutte quante sul mar verso il confine dell'arenosa Pilo, e dense tutte di cittadini che di greggi e mandre ricchissimi, co' doni al par d'un Dio l'onoreranno, e di tributi opimi faran bello il suo scettro. Ecco di quanto gli farò dono se depor vuol l'ira. Placar si lasci: inesorato è il solo Pluto, e per questo il più abborrito iddio. Rammenti ancora che di grado e d'anni io gli vo sopra; lo rammenti, e ceda. Potentissimo Atride Agamennóne, riprese il veglio cavalier, pregiati sono i doni che appresti al re Pelìde. Senza dunque indugiar alla sua tenda si mandino i legati. Io stesso, o sire, li nomerò, né alcun mi fia ritroso: primamente Fenice, al sommo Giove carissimo mortale, e capo ei sia dell'imbasciata. Il seguirà col grande Aiace il divo Ulisse, e degli araldi n'andran Hodio ed Eurìbate. Frattanto date l'acqua alle mani, e comandate alto silenzio, acciò che salga a Giove la nostra prece, e la pietà ne svegli. Disse; e a tutti fu caro il suo consiglio. Dier le linfe alle mani i banditori; lesti i donzelli coronâr di liete spume le tazze, e le portaro in giro: e libato e gustato a pien talento il devoto licore, uscîr veloci dalla tenda regal gli ambasciadori; e molti avvisi porgea lor per via il buon veglio, girando a ciascheduno, principalmente di Laerte al figlio, le parlanti pupille, e a tentar tutte le vie gli esorta d'ammansar quel fiero. Del risonante mar lungo la riva avviârsi i legati, supplicando dall'imo cor l'Enosigèo Nettunno perché d'Achille la grand'alma ei pieghi. Alle tende venuti ed alle navi de' Mirmidóni, ritrovâr l'eroe che ricreava colla cetra il core, cetra arguta e gentil, che la traversa avea d'argento, e spoglia era del sacco della città d'Eezïon distrutta. Su questa degli eroi le glorïose geste cantando raddolcìa le cure: Solo a rincontro gli sedea Patròclo aspettando la fin del bellicoso canto in silenzio riverente. Ed ecco dall'Itaco precessi all'improvviso avanzarsi i legati, e al suo cospetto rispettosi sostar. Alzasi Achille del vederli stupito, ed abbandona colla cetra lo seggio; alzasi ei pure di Menèzio il buon figlio, e lor porgendo il Pelìde la man, Salvete, ei dice, voi mi giungete assai graditi: al certo vi trae grand'uopo: benché irato, io v'amo sovra tutti gli Achei. - Così dicendo, dentro la tenda interïor li guida, in alti scanni fa sederli sopra porporini tappeti, ed a Patròclo che accanto gli venìa, Recami, disse, o mio diletto, il mio maggior cratere, e mesci del più puro, ed apparecchia il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto oggi entrâr generose anime care. Disse; e Patròclo del suo dolce amico alla voce obbedì. Su l'ignee vampe concavo bronzo di gran seno ei pose, e dentro vi tuffò di pecorella e di scelta capretta i lombi opimi con esso il pingue saporoso tergo di saginato porco. Intenerite così le carni, Automedonte in alto le sollevava; e con forbito acciaro acconciamente le incidea lo stesso divino Achille, e le infiggea ne' spiedi. Destava intanto un grande foco il figlio di Menèzio, e conversi in viva bragia i crepitanti rami, e già del tutto queta la fiamma, delle brage ei fece ardente un letto, e gli schidion vi stese; del sacro sal gli asperse, e tolte alfine dagli alari le carni abbrustolate sul desco le posò; prese di pani un nitido canestro, e su la mensa distribuilli; ma le apposte dapi spartìa lo stesso Achille, assiso in faccia ad Ulisse col tergo alla parete. Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico le sacre offerte ai numi; e quei nel foco le primizie gettò. Stesero tutti allor le mani all'imbandito cibo. Come fur sazi, fe' degli occhi Aiace al buon Fenice un cotal cenno: il vide lo scaltro Ulisse, e ricolmato il nappo, al grande Achille propinollo, e disse: Salve, Achille; poc'anzi entro la tenda d'Atride, ed ora nella tua di lieto cibo noi certo ritroviam dovizia; ma chi di cibo può sentir diletto mentre sul capo ci veggiam pendente un'orrenda sciagura, e sul periglio delle navi si trema? E periranno, se tu, sangue divin, non ti rivesti di tua fortezza, e non ne rechi aita. Gli orgogliosi Troiani e gli alleati imminente all'armata e al nostro muro han posto il campo, e mille fuochi accesi, e fan minaccia d'avanzarsi arditi, e le navi assalir. Giove co' lampi del suo favor gli affida; Ettore i truci occhi volgendo d'ogni parte, e molto delle sue forze altero e del suo Giove, terribilmente infuria, e non rispetta né mortali né Dei (tanto gl'invade furor la mente), e della nuova aurora già le tardanze accusa, e freme, e giura di venirne a schiantar di propria mano delle navi gli aplustri, ed a scagliarvi dentro le fiamme, e incenerirle tutte, e tutti tra le vampe istupiditi ancidere gli Achivi. Or io di forte timor la mente contristar mi sento, che le costui minacce avversi numi non mandino ad effetto, e che non sia delle Parche decreto il dover noi lungi d'Argo perir su queste rive. Ma tu deh! sorgi, e benché tardi, accorri a preservar dall'inimico assalto i desolati Achei. Se gli abbandoni, alto cordoglio un dì n'avrai, né al danno troverai più riparo. A tempo adunque l'antivieni prudente, ed allontana dall'argolica gente il giorno estremo. Ricòrdati, mio caro, i saggi avvisi del tuo padre Pelèo, quando di Ftia invïotti all'Atride. Amato figlio, (il buon vecchio dicea) Minerva e Giuno, se fia lor grado, ti daran fortezza; ma tu nel petto il cor superbo affrena, ché cor più bello è il mansueto; e tienti (onde più sempre e giovani e canuti t'onorino gli Achei), tienti remoto dalla feconda d'ogni mal Contesa. Questi del veglio i bei ricordi fûro: tu gli obblïasti. Ten sovvenga adesso, e la trista una volta ira deponi. Ti sarà, se lo fai, largo di cari doni l'Atride. Nella tenda ei dianzi l'impromessa ne fece: odili tutti. Sette tripodi intatti, e dieci d'oro talenti, e venti splendidi lebeti; dodici velocissimi destrieri usi nel corso a riportarne i primi premii, e già tanti n'acquistâr, che brama più di ricchezze non avrìa chi tutti li possedesse. Ti largisce inoltre sette d'alma beltà lesbie donzelle d'ago esperte e di spola, e da lui stesso per lor suprema leggiadrìa trascelte il dì che Lesbo tu espugnavi. A queste la figlia aggiunge di Brisèo, giurando che intatta, o prence, la ti rende. E tutte pronte son queste cose. Ove poi Troia ne sia dato atterrar, tu primo andrai, nel partir della preda, a ricolmarti d'oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci captive e dieci ti scerrai tenute dopo l'Argiva Elèna le più belle. Di più: se d'Argo rivedrem le rive, tu genero sarai del grande Atride, e in onoranza e nella copia accolto d'ogni cara dovizia al par del suo unico Oreste. Delle tre che il fanno beato genitor alme fanciulle, Crisotemi, Laòdice, Ifianassa, prendi quale vorrai senza dotarla. Doteralla lo stesso Agamennóne di tanta dote e tal, ch'altra giammai regal donzella la simìl non s'ebbe; sette città, Cardamile ed Enòpe, Ira, Pedaso, Antèa, Fere ed Epèa, tutte belle marittime contrade verso il pilio confin, tutte frequenti d'abitatori, a cui di molte mandre s'alza il muggito, e che di bei tributi t'onoreranno al par d'un Dio. Ciò tutto daratti Atride, se lo sdegno acqueti. Ché se lui sempre e i suoi presenti abborri, abbi almeno pietà degli altri Achei là nelle tende costernati e chiusi, che t'avranno qual nume, ed alle stelle la tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni questo Ettòr che furente a te si para, e vanta che nessun di quanti Achivi qua navigaro, di valor l'eguaglia. Divino senno, Laerzìade Ulisse, rispose Achille, senza velo, e quali il cor li detta e proveralli il fatto, m'è d'uopo palesar dell'alma i sensi, onde cessiate di garrirmi intorno. Odio al par della porte atre di Pluto colui ch'altro ha sul labbro, altro nel core: ma ben io dirò netto il mio pensiero. Né il grande Atride Agamennón, né alcuno me degli Achivi piegherà. Qual prezzo, qual ricompensa delle assidue pugne? Di chi poltrisce e di chi suda in guerra qui s'uguaglia la sorte: il vile usurpa l'onor del prode, e una medesma tomba l'infingardo riceve e l'operoso. Ed io che tanto travagliai, che a tanti rischi di Marte la mia vita esposi, che guadagni, per dio, che guiderdone su gli altri ottenni? In vero il meschinello augel son io, che d'esca i suoi provvede piccioli implumi, e sé medesmo obblìa. Quante, senza dar sonno alle palpèbre, trascorse notti! quanti giorni avvolto in sanguinose pugne ho combattuto per le ree mogli di costor! Conquisi guerreggiando sul mar dodici altere cittadi; ne conquisi undici a piede dintorno ai campi d'Ilïon; da tutte molte asportai pregiate spoglie, e tutte all'Atride le cessi, a lui che inerte rimasto indietro, nell'avare navi le ricevea superbo, e dividendo altrui lo peggio riserbossi il meglio; o s'alcun dono agli altri duci ei fenne, nol si ritolse almeno. Io sol del mio premio fui spoglio, io solo; egli la donna del mio cor si ritiene, e ne gioisce. A che mai questa degli Achei co' Teucri cotanta guerra? a che raccolse Atride qui tant'armi? Non forse per la bella Elena? Ma l'amor delle consorti tocca egli forse il cor de' soli Atridi? Ogni buono, ogni saggio ama la sua, e tienla in pregio, siccom'io costei carissima al mio cor, quantunque ancella. Or ch'egli dalle man la mi rapìo con fatto iniquo, di piegar non tenti me da sue frodi ammaestrato assai. Teco, Ulisse, e co' suoi re tanti ei dunque consulti il modo di sottrar l'armata alle fiamme nemiche. E quale ha d'uopo ei del mio braccio? Senza me già fece di gran cose. Innalzato ha un alto muro, lungo il muro ha scavato un largo e cupo fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse. Mirabil opra! che dal fiero Ettorre nol fa sicuro ancor, da quell'Ettorre che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi non ardìa dalle mura, o non giugnea che sino al faggio delle porte Scee. Sola una volta ei là m'attese, e a stento poté sottrarsi all'asta mia. Ma nullo più conflitto vogl'io con quel guerriero, nullo: e offerti dimani al sommo Giove e agli altri numi i sacrifici, e tratte tutte nel mare le mie carche navi, sì, dimani vedrai, se te ne cale, coll'aurora spiegar sull'Ellesponto i miei legni le vele, ed esultanti tutte di lieti remator le sponde. Se di prospero corso il buon Nettunno cortese mi sarà, la terza luce di Ftia porrammi su la dolce riva. Ivi molta lasciai propria ricchezza qua venendo in mal punto, ivi molt'altra ne reco in oro, e in fulvo rame, e in terso splendido ferro e in eleganti donne, tutto tesoro a me sortito. Il solo premio ne manca che mi diè l'Atride, e re villano mel ritolse ei poscia. Torna dunque all'ingrato, e gli riporta tutto che dico, e a tutti in faccia, ond'anco negli altri Achei si svegli una giust'ira e un avvisato diffidar dell'arti di quel franco impudente, che pur tale non ardirebbe di mirarmi in fronte. Digli che a parte non verrò giammai né di fatto con lui né di consiglio; che mi deluse; che mi fece oltraggio; che gli basti l'aver tanto potuto sola una volta, e che mal fonda in vane ciance la speme d'un secondo inganno. Digli che senza più turbarmi corra alla ruina a cui l'incalza Giove che di senno il privò: digli che abborro suoi doni, e spregio come vil mancipio il donator. Né s'egli e dieci e venti volte gli addoppii, né se tutto ei m'offra ciò ch'or possiede, e ciò ch'un dì venirgli potrìa d'altronde, e quante entran ricchezze in Orcomèno e nell'egizia Tebe per le cento sue porte e li dugento aurighi co' lor carri a ciascheduna; mi fosse ei largo di tant'oro alfine quanto di sabbia e polve si calpesta, né così pur si speri Agamennóne la mia mente inchinar prima che tutto pagato ei m'abbia dell'offesa il fio. Non vo' la figlia di costui. Foss'ella pari a Minerva nell'ingegno, e il vanto di beltà contendesse a Citerea, non prenderolla in mia consorte io mai. Serbila ad altro Acheo che al grand'Atride più di grado s'adegui e di possanza. A me, se salvo raddurranmi i numi al patrio tetto, a me scerrà lo stesso Pelèo lo sposa. Han molte Ellade e Ftia figlie di regi assai possenti: e quale di lor vorrò, legittima e diletta moglie farolla, e mi godrò con essa nella pace, a cui stanco il cor sospira, il paterno retaggio. E parmi in vero che di mia vita non pareggi il prezzo né tutta l'opulenza in Ilio accolta pria della giunta degli Achei, né quanto tesor si chiude nel marmoreo templo del saettante Apollo in sul petroso balzo di Pito. Racquistar si ponno e tripodi e cavalli e armenti e greggi; ma l'alma, che passò del labbro il varco, chi la racquista? chi del freddo petto la riconduce a ravvivar la fiamma? Meco io porto (la Dea madre mel dice) doppio fato di morte. Se qui resto a pugnar sotto Troia, al patrio lido m'è tolto il ritornar, ma d'immortale gloria l'acquisto mi farò. Se riedo al dolce suol natìo, perdo la bella gloria, ma il fiore de' miei dì non fia tronco da morte innanzi tempo, ed io lieta godrommi e dïuturna vita. Questa m'eleggo, e gli altri tutti esorto a rimbarcarsi e abbandonar di Troia l'impossibil conquista. Il Dio de' tuoni su lei stese la mano, e rincorârsi i suoi guerrieri. Itene adunque, e come di legati è dover, le mie risposte ai prenci achivi riferendo, dite che a preservar le navi e il campo argivo lor fa mestiero ruminar novello miglior partito, ché il già preso è vano. Inesorata è l'ira mia. Fenice qui rimanga e riposi: al nuovo giorno seguirammi, se il vuole, alla diletta patria. Di forza nol trarrò giammai. Disse: e l'alto parlare e l'aspro niego tutti li fece sbalorditi e muti. Ruppe alfin quel silenzio il cavaliero veglio Fenice, e sul destin tremando delle argoliche navi, ed ai sospiri mescendo i pianti, così prese a dire: Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille, la tua partenza, se nell'ira immoto di niuna guisa allontanar non vuoi gli ostili incendii dalla classe achea, come, ahi come poss'io, diletto figlio, qui restar senza te? Teco mandommi il tuo canuto genitor Pelèo quel giorno che all'Atride Agamennóne invïotti da Ftia, fanciullo ancora dell'arte ignaro dell'acerba guerra, e dell'arte del dir che fama acquista. Quindi ei teco spedimmi, onde di questi studi erudirti, e farmi a te nell'opre della lingua maestro e della mano. A niun conto vorrei dunque, mio caro, dispiccarmi da te, no, s'anco un Dio, rasa la mia vecchiezza, mi prometta rinverdir le mie membra, e ritornarmi giovinetto qual era allor che il suolo d'Ellade abbandonai, l'ira fuggendo e un atroce imprecar del padre mio Amintore d'Orméno. Era di questa ira cagione un'avvenente druda ch'egli, sprezzata la consorte, amava follemente. Abbracciò le mie ginocchia la tradita mia madre, e supplicommi di mischiarmi in amor colla rivale, e porle in odio il vecchio amante. Il feci. Reso accorto di questo il genitore, mi maledisse, ed invocò sul mio capo l'orrendi Eumenidi, pregando che mai concesso non mi fosse il porre sul suo ginocchio un figlio mio. L'udiro il sotterraneo Giove e la spietata Proserpina, e il feral voto fu pieno. Carco allor della sacra ira del padre, non mi sofferse il cor di più restarmi nelle case paterne. E servi e amici e congiunti mi fean con caldi preghi dolce ritegno, ed in allegre mense stornar volendo il mio pensier, si diero a far macco d'agnelle e di torelli, a rosolar sul foco i saginati lombi suìni, a tracannar del veglio l'anfore in serbo. Nove notti al fianco mi fur essi così con veglie alterne e con perpetui fuochi, un sotto il portico del ben chiuso cortil, l'altro alle soglie della mia stanza nell'andron. Ma quando della decima notte il buio venne, l'uscio sconfissi, e della stanza evaso varcai d'un salto della corte il muro, né de' custodi alcun né dell'ancelle di mia fuga s'avvide. Errai gran pezza per l'ellade contrada, e giunto ai campi della feconda pecorosa Ftia, trassi al cospetto di Pelèo. M'accolse lietamente il buon sire, e mi dilesse come un padre il figliuol ch'unico in largo aver gli nasca nell'età canuta: e di popolo molto e di molt'oro fattomi ricco, l'ultimo confine di Ftia mi diede ad abitar, commesso de' Dolopi il governo alla mia cura. Son io, divino Achille, io mi son quegli che ti crebbi qual sei, che caramente t'amai; né tu volevi bambinello ir con altri alla mensa, né vivanda domestica gustar, ov'io non pria adagiato t'avessi e carezzato su' miei ginocchi, minuzzando il cibo, e porgendo la beva che dal labbro infantil traboccando a me sovente irrigava sul petto il vestimento. Così molto soffersi a tua cagione, e consolava le mie pene il dolce pensier che, i numi a me negando un figlio generato da me, tu mi saresti tal per amore divenuto, e tale m'avresti salvo un dì da ria sciagura. Doma dunque, cor mio, doma l'altero tuo spirto: disconviene una spietata anima a te che rassomigli i numi: ché i numi stessi, sì di noi più grandi d'onor, di forza, di virtù, son miti; e con vittime e voti e libamenti e odorosi olocausti il supplicante mortal li placa nell'error caduto. Perocché del gran Giove alme figliuole son le Preghiere che dal pianto fatte rugose e losche con incerto passo van dietro ad Ate ad emendarla intese. Vigorosa di piè questa nocente forte Dea le precorre, e discorrendo la terra tutta l'uman germe offende. Esse van dopo, e degli offesi han cura. Chi dispettoso queste Dee riceve, ne va colmo di beni ed esaudito; chi pertinace le respinge indietro, ne spermenta lo sdegno. Esse del padre si presentano al trono, e gli fan prego ch'Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti l'inesorato che al pregar fu sordo. Trovin dunque di Giove oggi le figlie appo te quell'onor ch'anco de' forti piega le menti. Se al tuo piè di molti doni l'offerta non mettesse Atride coll'impromessa di molt'altri poscia, e persistesse in suo rancor, non io t'esorterei di por giù l'ira, e all'uopo degli Achivi volar, comunque afflitti; ma molti di presente egli ne porge, ed altri poi ne profferisce, e i duci miglior trascelti tra gli Achei t'invìa, e a te stesso i più cari a supplicarti. Non disprezzarne la venuta e i preghi, onde l'ira, che pria giusta pur era, non torni ingiusta. Degli andati eroi somma laude fu questa, allor che grave li possedea corruccio, alle preghiere placarsi, né sdegnar supplici doni. Opportuno sovviemmi un fatto antico, che quale avvenne io qui fra tutti amici narrerò. Combattean ferocemente con gli Etòli i Cureti anzi alle mura di Calidone, ad espugnarla questi, a difenderla quelli; e gli uni e gli altri, gente d'alto valor, con mutue stragi si distruggean. Commossa avea tal guerra di Dïana uno sdegno, e del suo sdegno fu la cagione Enèo che, de' suoi campi terminata la messe, e offerti ai numi i consueti sacrifici, sola (fosse spregio od obblìo) lasciato avea senza offerte la Diva. Ella di questo altamente adirata un fero spinse cinghial d'Enèo ne' campi, che tremendo tutte atterrava col fulmineo dente le fruttifere piante. Il forte Enìde Meleagro alla fin, dalle propinque città raccolto molto nerbo avendo di cacciatori e cani, a morte il mise; né minor forza si chiedea: tant'era smisurata la belva, e tanti al rogo n'avea sospinti. Ma la Dea pel teschio e per la pelle dell'irsuta fera tra i Cureti e gli Etòli una gran lite suscitò. Finché in campo il bellicoso Meleagro comparve, andâr disfatti, benché molti, i Cureti, e approssimarse unqua alle mura non potean. Ma l'ira, che anche i più saggi invade, il petto accese di Meleagro, e la destò la madre Altèa che, forte pe' fratelli uccisi crucciosa, il figlio maledisse, e il suolo colle man percotendo inginocchiata e forsennata con orrendi preghi di gran pianto confusi il negro Pluto supplicava e la rigida mogliera di dar morte all'eroe: né dal profondo orco fu sorda l'implacata Erinni. Del materno furor sdegnato il figlio lungi dall'armi si ritrasse in braccio alla bella consorte Cleopatra, di Marpissa Evenina e del possente Ida figliuola, di quell'Ida io dico che tra' guerrieri de' suoi tempi il grido di fortissimo avea, tanto che contra lo stesso Apollo per la tolta ninfa ardì l'arco impugnar. Mutato poscia di Cleopatra il nome, i genitori la chiamaro Alcïon, perché simìle alla mesta Alcïon gemea la madre quando rapilla il saettante Iddio. Con gran furore intanto eran le porte di Calidone e le turrite mura combattute e percosse. Eletta schiera di venerandi vegli e sacerdoti a Meleagro deputati il prega di venir, di respingere il nemico, a sua scelta offerendo di cinquanta iugeri il dono, del miglior terreno di tutto il caledonio almo paese, parte alle viti acconcio e parte al solco. Molto egli pure il genitor lo prega, dell'adirato figlio alle sublimi soglie traendo il senil fianco, e in voce supplicante del talamo picchiando alle sbarrate porte. Anche le suore, anche la madre già pentita orando chiedean mercede; ed ei più fermo ognora la ricusava. Accorsero gli amici i più cari e diletti; e su quel core nulla poteva degli amici il prego: finché le porte da sonori e spessi colpi battute, lo fêr certo alfine che scalate i Cureti avean le mura, e messo il foco alla città. Piangente la sua bella consorte allor si fece a deprecarlo, ed alla mente tutti d'una presa città gli orrendi mali gli dipinse: trafitti i cittadini, arse le case, ed in catene i figli strascinati e le spose. Si commosse all'atroce pensier l'alma superba, prese l'armi, volò, vinse, e gli Etòli salvò; ma solo dal suo cor sospinto. Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo beneficio rimase inonorato. Non imitar cotesto esempio, o figlio, né vi ti spinga demone maligno: ché il soccorso indugiar, finché le navi s'incendano, maggior onta sarìa. Vieni, imita gli Dei, gli offerti doni non disdegnar. Se li dispregi, e poscia volontario combatti, egual non fia, benché ritorni vincitor, l'onore. Qui tacque il veglio, e brevemente Achille in questi detti replicò: Fenice, caro alunno di Giove, ed a me caro padre, di questo onor non ho bisogno. L'onor ch'io cerco mi verrà da Giove, e qui pure davanti a queste antenne l'avrò fin che vitale aura mi spiri, fin che il piè mi sorregga. Altra or vo' dirti cosa che in mente riporrai. Per farti grato all'Atride non venir con pianti né con lagni a turbarmi il cor più mai. Non amar contra il giusto il mio nemico, se l'amor mio t'è caro, e meco offendi chi m'offende, ché questo ti sta meglio. Del mio regno partecipa, e diviso sia teco ogni onor mio. Riporteranno questi le mie risposte, e tu qui dormi sovra morbido letto. Al nuovo sole consulterem se starci, o andar si debba. Disse; e a Patròclo fe' degli occhi un cenno d'allestire al buon veglio un colmo letto, onde gli altri a lasciar tosto la tenda volgessero il pensiero. In questo mezzo vòlto ad Ulisse il gran Telamonìde, Partiam, diss'egli, ché per questa via parmi che vano il ragionar rïesca. Benché ingrata, n'è forza il recar pronti la risposta agli Achei, che impazïenti, e forse ancora in assemblea seduti l'attendono. Feroce alma superba chiude Achille nel petto: indegnamente l'amistà de' compagni egli calpesta, né ricorda l'onor che gli rendemmo su gli altri tutti. Dispietato! Il prezzo qualcuno accetta dell'ucciso figlio, o del fratello; e l'uccisor, pagata del suo fallo la pena, in una stessa città dimora col placato offeso. Ma inesorata ed indomata è l'ira che a te pose nel petto un dio nemico; per chi? per una donzelletta! e sette noi te n'offriamo a maraviglia belle, e molt'altre più cose. Or via, rivesti cor benigno una volta. Abbi rispetto ai santi dritti dell'ospizio almeno, ch'ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso degli Achei ne venimmo, a te fra tutti i più cari ed amici. - Illustre figlio di Telamone, gli rispose Achille, ottimo io sento il tuo parlar; ma l'ira mi rigonfia qualor penso a colui che in mezzo degli Achei mi vilipese come un vil vagabondo. Andate, e netta la risposta ridite. Alcun pensiero non tenterammi di pugnar, se prima il Prïamìde bellicoso Ettorre fino al quartier de' Mirmidoni il foco e la strage non porti. Ov'egli ardisca assalir questa tenda e questa nave, saprò la furia rintuzzarne, io spero. Sì disse; e quegli, alzato il nappo e fatta la libagion, partîrsi; e taciturno li precedeva di Laerte il figlio. A' suoi sergenti intanto ed all'ancelle Patroclo impone d'apprestar veloci soffice letto al buon Fenice; e pronte quelle obbedendo steser d'agnelline pelli uno strato, vi spiegâr di sopra di finissimo lino una sottile candida tela, e su la tela un'ampia purpurea coltre; e qui ravvolto il vecchio aspettando l'aurora si riposa. Nel chiuso fondo della tenda ei pure ritirossi il Pelìde, ed al suo fianco lesbia fanciulla di Forbante figlia si corcò la gentil Dïomedea. Dormì Patròclo in altra parte, e a lato Ifi gli giacque, un'elegante schiava che il Pelìde donògli il dì che l'alta Sciro egli prese d'Enïeo cittade. Giunti i legati al padiglion d'Atride, sursero tutti e con aurate tazze e affollate dimande i prenci achivi gli accolsero. Primiero interrogolli il re de' forti Agamennón: Preclaro della Grecia splendor, inclito Ulisse, parla: vuol egli dalle fiamme ostili servar l'armata? o d'ira ancor ripieno il cor superbo, di venir ricusa? Glorïoso signor, rispose il saggio di Laerte figliuol, non che gli sdegni ammorzar, li raccende egli più sempre, e te dispregia e i tuoi presenti, e dice che del come salvar le navi e il campo co' duci achivi ti consulti. Aggiunse poi la minaccia, che il novello sole varar vedrallo le sue navi; e gli altri a rimbarcarsi esorta, ché dell'alto Ilio l'occaso non vedrem, dic'egli, giammai: la mano del Tonante il copre, e rincorârsi i Teucri. Ecco i suoi sensi, che questi a me consorti, il grande Aiace e i saggi araldi confermar ti ponno. Il vegliardo Fenice è là rimasto per suo cenno a dormir, onde dimani seguitarlo, se il vuole, al patrio lido: non farà forza al suo voler, se il niega. D'alto stupor percossi alla feroce risposta, tutti ammutoliro i duci, e lunga pezza taciturni e mesti si restâr. Finalmente in questi detti proruppe il fiero Dïomede: Eccelso sire de' prodi, glorïoso Atride, non avessi tu mai né supplicato né fatta offerta di cotanti doni all'altero Pelìde. Era superbo egli già per se stesso; or tu n'hai fatto montar l'orgoglio più d'assai. Ma vada, o rimanga, di lui non più parole. Lasciam che il proprio genio, o qualche iddio lo ridesti alla pugna. Or secondiamo tutti il mio dir. Di cibo e di lïeo, fonte d'ogni vigor, vi ristorate, e nel sonno immergete ogni pensiero. Tosto che schiuda del mattin le porte il roseo dito della bella Aurora, metti in punto, o gran re, fanti e cavalli nanzi alle navi, e a ben pugnar gl'istiga, e combatti tu stesso alla lor testa. Disse, e tutti applaudîr lodando a cielo l'alto parlar di Dïomede i regi; e fatti i libamenti, alla sua tenda s'incamminò ciascuno. Ivi le stanche membra accolser del sonno il dolce dono.
Tutti per l'alta notte i duci achei dormìan sul lido in sopor molle avvinti; ma non l'Atride Agamennón, cui molti toglieano il dolce sonno aspri pensieri. Quale il marito di Giunon lampeggia quando prepara una gran piova o grandine, o folta neve ad inalbare i campi, o fracasso di guerra voratrice; spessi così dal sen d'Agamennóne rompevano i sospiri, e il cor tremava. Volge lo sguardo alle troiane tende, e stupisce mirando i molti fuochi ch'ardon dinanzi ad Ilio, e non ascolta che di tibie la voce e di sampogne e festivo fragor. Ma quando il campo acheo contempla ed il tacente lido, svellesi il crine, al ciel si lagna, ed alto geme il cor generoso. Alfin gli parve questo il miglior consiglio, ir del Nelìde Nestore in traccia a consultarne il senno, onde qualcuna divisar con esso via di salute alla fortuna achea. Alzasi in questa mente, intorno al petto la tunica s'avvolge, ed imprigiona ne' bei calzari il piede. Indi una fulva pelle s'indossa di leon, che larga gli discende al calcagno, e l'asta impugna. Né di minor sgomento a Menelao palpita il petto; e fura agli occhi il sonno l'egro pensier de' periglianti Achivi, che a sua cagione avean per tanto mare portato ad Ilio temeraria guerra. Sul largo dosso gittasi veloce una di pardo maculata pelle, ponsi l'elmo alla fronte, e via brandito il giavellotto, a risvegliar s'affretta l'onorato, qual nume, e dagli Argivi tutti obbedito imperador germano; ed alla poppa della nave il trova che le bell'armi in fretta si vestìa. Grato ei n'ebbe l'arrivo: e Menelao a lui primiero, Perché t'armi, disse, venerando fratello? Alcun vuoi forse mandar de' nostri esplorator notturno al campo de' Troiani? Assai tem'io che alcuno imprenda d'arrischiarsi solo per lo buio a spïar l'oste nemica, ché molta vuolsi audacia a tanta impresa. Rispose Agamennón: Fratello, è d'uopo di prudenza ad entrambi e di consiglio che gli Argivi ne scampi e queste navi, or che di Giove si voltò la mente, e d'Ettore ha preferti i sacrifici: ch'io né vidi giammai né d'altri intesi, che un solo in un sol dì tanti potesse forti fatti operar quanti il valore di questo Ettorre a nostro danno; e a lui non fu madre una Dea, né padre un Dio: e temo io ben che lungamente afflitti di tanto strazio piangeran gli Achivi. Or tu vanne, e d'Aiace e Idomenèo ratto vola alle navi, e li risveglia, ché a Nestore io ne vado ad esortarlo di tosto alzarsi e di seguirmi al sacro stuol delle guardie, e comandarle. A lui presteran più che ad altri obbedïenza: perocché delle guardie è capitano Trasimède suo figlio, e Merïone d'Idomenèo l'amico, a' quai commesso è delle scolte il principal pensiero. E che poi mi prescrive il tuo comando? (replicò Menelao). Degg'io con essi restarmi ad aspettar la tua venuta? O, fatta l'imbasciata, a te veloce tornar? - Rimanti, Agamennón ripiglia, tu rimanti colà, ché disvïarci nell'andar ne potrìan le molte strade onde il campo è interrotto. Ovunque intanto t'avvegna di passar leva la voce, raccomanda le veglie, ognun col nome chiama del padre e della stirpe, a tutti largo ti mostra d'onoranze, e poni l'alterezza in obblìo. Prendiam con gli altri parte noi stessi alla comun fatica, perché Giove noi pur fin dalla cuna, benché regi, gravò d'alte sventure. Così dicendo, in via mise il fratello di tutto l'uopo ammaestrato; ed esso a Nestore avvïossi. Ritrovollo davanti alla sua nave entro la tenda corco in morbido letto. A sé vicine armi diverse avea, lo scudo e due lung'aste e il lucid'elmo; e non lontana giacea di vario lavorìo la cinta, di che il buon veglio si fasciava il fianco quando a battaglie sanguinose armato le sue schiere movea; ché non ancora alla triste vecchiezza egli perdona. All'apparir d'Atride erto ei rizzossi sul cubito, e levata alto la fronte, l'interrogò dicendo: E chi sei tu che pel campo ne vieni a queste navi così soletto per la notte oscura, mentre gli altri mortali han tregua e sonno? Forse alcun de' veglianti o de' compagni vai rintracciando? Parla, e taciturno non appressarti: che ricerchi? - E a lui il regnatore Atride: Oh degli Achei inclita luce, Nestore Nelìde, Agamennón son io, cui Giove opprime d'infinito travaglio, e fia che duri finché avrà spirto il petto e moto il piede. Vagabondo ne vo poiché dal ciglio fuggemi il sonno, e il rio pensier mi grava di questa guerra e della clade achea. De' Danai il rischio mi spaventa: inferma stupidisce la mente, il cor mi fugge da' suoi ripari, e tremebondo è il piede. Tu se cosa ne mediti che giovi (quando il sonno s'invola anco a' tuoi lumi), sorgi, e alle guardie discendiam. Veggiamo se da veglia stancate e da fatica siensi date al dormir, posta in obblìo la vigilanza. Del nemico il campo non è lontano, né sappiam s'ei voglia pur di notte tentar qualche conflitto. Disse; e il gerenio cavalier rispose: Agamennóne glorïoso Atride, non tutti adempirà Giove pietoso i disegni d'Ettore e le speranze. Ben più vero cred'io che molti affanni sudar d'ambascia gli faran la fronte se desterassi Achille, e la tenace ira funesta scuoterà dal petto. Or io volonteroso ecco ti seguo: andianne, risvegliam dal sonno i duci Dïomede ed Ulisse, ed il veloce Aiace d'Oilèo, e di Filèo il forte figlio; e si spedisca intanto alcun di tutta fretta a richiamarne pur l'altro Aiace e Idomenèo che lungi agli estremi del campo hanno le navi. Ma quanto a Menelao, benché ne sia d'onor degno ed amico, io non terrommi di rampognarlo (ancor che debba il franco mio parlare adirarti), e vergognarlo farò del suo poltrir, tutte lasciando a te le cure, or ch'è mestier di ressa con tutti i duci e d'ogni umìl preghiera, come crudel necessità dimanda. Ben altra volta (Agamennón rispose) ti pregai d'ammonirlo, o saggio antico, ché spesso ei posa, e di fatica è schivo; per pigrezza non già, né per difetto d'accorta mente, ma perché miei cenni meglio aspettar che antivenirli ei crede. Pur questa volta mi precorse, e innanzi mi comparve improvviso, ed io l'ho spinto a chiamarne i guerrieri che tu cerchi. Andiam, ché tutti fra le guardie, avanti alle porte del vallo congregati li troverem; ché tale è il mio comando. E Nèstore a rincontro: Or degli Achei niun ritroso a lui fia né disdegnoso, o comandi od esorti. - In questo dire la tunica s'avvolse intorno al petto; al terso piede i bei calzari annoda; quindi un'ampia s'affibbia e porporina clamide doppia, in cui fiorìa la felpa. Poi recossi alla man l'acuta e salda lancia, e verso le navi incamminossi de' loricati Achivi. E primamente svegliò dal sonno il sapïente Ulisse elevando la voce: e a lui quel grido ferì l'orecchio appena, che veloce della tenda n'uscì con questi accenti: Chi siete che soletti errando andate presso le navi per la dolce notte? Qual vi spinge bisogno? - O di Laerte magnanimo figliuol, prudente Ulisse, (gli rispose di Pilo il cavaliero) non isdegnarti, e del dolor ti caglia de' travagliati Achei: vieni, che un altro svegliarne è d'uopo, e consultar con esso o la fuga o la pugna. - A questo detto rïentrò l'Itacense nella tenda, sul tergo si gittò lo scudo, e venne. Proseguiro il cammin quindi alla volta di Dïomede, e lo trovâr di tutte l'armi vestito, e fuor del padiglione. Gli dormìano dintorno i suoi guerrieri profondamente, e degli scudi al capo s'avean fatto origlier. Fitto nel suolo stassi il calce dell'aste, e il ferro in cima mette splendor da lungi, a simiglianza del baleno di Giove. Esso l'eroe di bue selvaggio sulla dura pelle dormìa disteso, ma purpureo e ricco sotto il capo regale era un tappeto. Giuntogli sopra, il cavalier toccollo colla punta del piè, lo spinse, e forte garrendo lo destò. Sorgi, Tidìde; perché ne sfiori tutta notte il sonno? Non odi che i Troiani in campo stanno sovra il colle propinquo, e che disgiunti di poco spazio dalle navi ei sono? Disse; e quei si destò balzando in piedi veloce come lampo, e a lui rivolto con questi accenti rispondea: Sei troppo delle fatiche tollerante, o veglio, né ozïoso giammai. A risvegliarne di quest'ora i re duci inopia forse v'ha di giovani achei pronti alla ronda? Ma tu sei veglio infaticato e strano. E Nestore di nuovo: Illustre amico, tu verace parlasti e generoso. Padre io mi son d'egregi figli, e duce di molti prodi che potrìan le veci pur d'araldo adempir. Ma grande or preme necessità gli Achivi, e morte e vita stanno sul taglio della spada. Or vanne tu che giovine sei, vanne, e il veloce chiamami Aiace e di Filèo la prole, se pietà senti del mio tardo piede. Così parla il vegliardo. E Dïomede sull'omero si getta una rossiccia capace pelle di lïon, cadente fino al tallone ed una picca impugna. Andò l'eroe, volò, dal sonno entrambi li destò, li condusse; e tutti in gruppo s'avvïar delle guardie alle caterve: né delle guardie abbandonato al sonno duce alcuno trovâr, ma vigilanti tutti ed armati e in compagnia seduti. Come i fidi molossi al pecorile fan travagliosa sentinella udendo calar dal monte una feroce belva e stormir le boscaglie: un gran tumulto s'alza sovr'essa di latrati e gridi, e si rompe ogni sonno: così questi rotto il dolce sopor su le palpebre, notte vegliano amara, ognor del piano alla parte conversi, ove s'udisse nemico calpestìo. Gioinne il veglio, e confortolli e disse: Vigilate così sempre, o miei figli, e non si lasci niun dal sonno allacciar, onde il Troiano di noi non rida. Così detto, il varco passò del fosso, e lo seguièno i regi a consiglio chiamati. A lor s'aggiunse compagno Merïone, e di Nestorre l'inclito figlio, convocati anch'essi alla consulta. Valicato il fosso, fermârsi in loco dalla strage intatto, in quel loco medesmo ove sorgiunto Ettore dalla notte alla crudele uccisïone degli Achei fin pose. Quivi seduti cominciâr la somma a parlar delle cose; e in questi detti Nestore aperse il parlamento: Amici, havvi alcuna tra voi anima ardita e in sé sicura, che furtiva ir voglia de' fier Troiani al campo, onde qualcuno de' nemici vaganti alle trinciere far prigioniero? o tanto andar vicino, che alcun discorso de' Troiani ascolti, e ne scopra il pensier? se sia lor mente qui rimanersi ad assediar le navi, o alla città tornarsi, or che domata han l'achiva possanza? Ei forse tutte potrìa raccor tai cose, e ritornarne salvo ed illeso. D'alta fama al mondo farebbe acquisto, e n'otterrìa bel dono. Quanti son delle navi i capitani gli daranno una negra pecorella coll'agnello alla poppa; e guiderdone alcun altro non v'ha che questo adegui. Poi ne' conviti e ne' banchetti ei fia sempre onorato, desïato e caro. Disse; e tutti restâr pensosi e muti. Ruppe l'alto silenzio il bellicoso Dïomede e parlò: Saggio Nelìde, quell'audace son io: me la fidanza, me l'ardir persuade al gran periglio d'insinuarmi nel dardanio campo. Ma se meco verranne altro guerriero, securtà crescerammi ed ardimento. Se due ne vanno di conserva, l'uno fa l'altro accorto del miglior partito. Ma d'un solo, sebben veggente e prode, tardo è il coraggio e debole il consiglio. Disse: e molti volean di Dïomede ir compagni: il volean ambo gli Aiaci, il volea Merïon: più ch'altri il figlio di Nestore il volea: chiedealo anch'esso l'Atride Menelao: chiedea del pari penetrar ne' troiani accampamenti il forte Ulisse: perocché nel petto sempre il cor gli volgea le ardite imprese. Mosse allor le parole il grande Atride. Diletto Dïomede, a tuo talento un compagno ti scegli a sì grand'uopo, qual ti sembra il miglior. Molti ne vedi presti a seguirti; né verun rispetto la tua scelta governi, onde non sia che lasciato il miglior, pigli il peggiore; né ti freni pudor, né riverenza di lignaggio, né s'altri è re più grande. Così parlava, del fratello amato paventando il periglio: e fea risposta Dïomede così: Se d'un compagno mi comandate a senno mio l'eletta, come scordarmi del divino Ulisse, di cui provato è il cor, l'alma costante nelle fatiche, e che di Palla è amore? S'ei meco ne verrà, di mezzo ancora alle fiamme uscirem; cotanto è saggio. Non mi lodar né mi biasmar, Tidìde, soverchiamente (gli rispose Ulisse), ché tu parli nel mezzo ai consci Argivi. Partiam: la notte se ne va veloce, delle stelle il languir l'alba n'avvisa, né dell'ombre riman che il terzo appena. D'armi orrende, ciò detto, si vestiro. A Dïomede, che il suo brando avea obblïato alle navi, altro ne diede di doppio taglio, ed il suo proprio scudo il forte Trasimede. Indi alla fronte una celata gli adattò di cuoio taurin compatta, senza cono e cresta, che barbuta si noma, e copre il capo de' giovinetti. Merïone a gara d'una spada, d'un arco e d'un turcasso ad Ulisse fe' dono, e su la testa un morïon gli pose aspro di pelle, da molte lasse nell'interno tutto saldamente frenato, e nel di fuore di bianchissimi denti rivestito di zannuto cinghial, tutti in ghirlanda con vago lavorìo disposti e folti. Grosso feltro il cucuzzolo guarnìa. L'avea furato in Eleona un giorno Autolico ad Amìntore d'Ormeno, della casa rompendo i saldi muri; quindi il ladro in Scandea diello al Citèrio Amfidamante; Amfidamante a Molo ospital donamento, e questi poscia al figlio Merïon, che su la fronte alfin lo pose dell'astuto Ulisse. Racchiusi nelle orrende arme gli eroi partîr, lasciando in quel recesso i duci. E da man destra intanto su la via spedì loro Minerva un aïrone. Né già questi il vedean, ché agli occhi il vieta la cieca notte, ma n'udìan lo strido. Di quell'augurio l'Itacense allegro a Minerva drizzò questa preghiera: Odimi, o figlia dell'Egìoco Giove, che l'opre mie del tuo nume proteggi, né t'è veruno de' miei passi occulto. Or tu benigna più che prima, o Dea, dell'amor tuo m'affida, e ne concedi glorïoso ritorno e un forte fatto, tale che renda dolorosi i Teucri. Pregò secondo Dïomede, e disse: Di Giove invitta armipotente figlia, odi adesso me pur: fausta mi segui siccome allor che seguitasti a Tebe il mio divino genitor Tidèo, de' loricati Achivi ambasciadore attendati d'Asopo alla riviera. Di placido messaggio egli a' Tebani fu portator; ma fieri fatti ei fece nel suo ritorno col favor tuo solo, ché nume amico gli venivi al fianco. E tu propizia a me pur vieni, o Dea, e salvami. Sull'ara una giovenca ti ferirò d'un anno, ampia la fronte, ancor non doma, ancor del giogo intatta. Questa darotti, e avrà dorato il corno. Così pregaro, e gli esaudìa la Diva. Implorata di Giove la possente figlia Minerva, proseguîr la via quai due lïoni, per la notte oscura, per la strage, per l'armi e pe' cadaveri sparsi in morta di sangue atra laguna. Né d'altra parte ai forti Teucri Ettorre permette il sonno; ma de' prenci e duci chiama tutti i migliori a parlamento; e raccolti, lor apre il suo consiglio. Chi di voi mi promette un'alta impresa per grande premio che il farà contento? Darogli un cocchio, e di cervice altera due corsieri, i miglior dell'oste achea (taccio la fama che n'avrà nel mondo). Questo dono otterrà chiunque ardisca appressarsi alle navi, e cauto esplori se sian, qual pria, guardate, o pur se domo da nostre forze l'inimico or segga a consulta di fuga, e le notturne veglie trascuri affaticato e stanco. Disse, e il silenzio li fe' tutti muti. Era un certo Dolone infra' Troiani, uom che di bronzo e d'oro era possente, figlio d'Eumede banditor famoso, deforme il volto, ma veloce il piede, e fra cinque sirocchie unico e solo. Si trasse innanzi il tristo, e così disse: Ettore, questo cor l'incarco assume d'avvicinarsi a quelle navi, e tutto scoprir. Lo scettro mi solleva e giura che l'èneo cocchio e i corridori istessi del gran Pelìde mi darai: né vano esploratore io ti sarò: né vôta fia la tua speme. Nell'acheo steccato penetrerò, mi spingerò fin dentro l'agamennònia nave, ove a consulta forse i duci si stan di pugna o fuga. Sì disse, e l'altro sollevò lo scettro, e giurò: Testimon Giove mi sia, Giove il tonante di Giunon marito, che da que' bei corsieri altri tirato non verrà de' Troiani, e che tu solo glorïoso n'andrai. - Fu questo il giuro, ma sperso all'aura; e da quel giuro intanto incitato Dolone in su le spalle tosto l'arco gittossi, e la persona della pelle vestì di bigio lupo: poi chiuse il brutto capo entro un elmetto che d'ispida faìna era munito. Impugnò un dardo acuto, ed alle navi, per non più ritornarne apportatore di novelle ad Ettorre, incamminossi. Lasciata de' cavalli e de' pedoni la compagnia, Dolon spedito e snello battea la strada. Se n'accorse Ulisse alla pesta de' piedi, e a Dïomede sommesso favellò: Sento qualcuno venir dal campo, né so dir se spia di nostre navi, o spogliator di morti. Lasciam che via trapassi, e gli saremo ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna ch'ei di corso ne vinca, tu coll'asta indefesso l'incalza, e verso il lido serralo sì, che alla città non fugga. Uscîr di via, ciò detto, e s'appiattaro tra' morti corpi; ed egli incauto e celere oltrepassò. Ma lontanato appena, quanto è un solco di mule (che de' buoi traggono meglio il ben connesso aratro nel profondo maggese), gli fur sopra: ed egli, udito il calpestìo, ristette, qualcun sperando che de' suoi venisse per comando d'Ettorre a richiamarlo. Ma giunti d'asta al tiro e ancor più presso, li conobbe nemici. Allor dier lesti l'uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia. Quai due d'aguzzo dente esperti bracchi o lepre o caprïol pel bosco incalzano senza dar posa, ed ei precorre e bela; tali Ulisse e il Tidìde all'infelice si stringono inseguendo, e precidendo sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire verso le navi sul momento egli era di mischiarsi alle guardie, allor che lena crebbe Minerva e forza a Dïomede, onde niun degli Achei vanto si desse di ferirlo primiero, egli secondo. Alza l'asta l'eroe, Ferma, gridando, o ch'io di lancia ti raggiungo e uccido. Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo a bello studio: gli strisciò la punta l'omero destro e conficcossi in terra. Ristette il fuggitivo, e di paura smorto tremando, della bocca uscìa stridor di denti che batteano insieme. L'aggiungono anelanti i due guerrieri, l'afferrano alle mani, ed ei piangendo grida: Salvate questa vita, ed io riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa d'oro, di rame e lavorato ferro. Di questi il padre mio, se nelle navi vivo mi sappia degli Achei, faravvi per la mia libertà dono infinito. Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse, né veruno di morte abbi sospetto, ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine dal campo te ne vai verso le navi tutto solingo pel notturno buio mentre ogni altro mortal nel sonno ha posa? A spogliar forse estinti corpi? o forse Ettor ti manda ad ispïar de' Greci i navili, i pensieri, i portamenti? O tuo genio ti mena e tuo diletto? E a lui tremante di terror Dolone: Misero! mi travolse Ettore il senno, e in gran disastro mi cacciò, giurando che in don m'avrebbe del famoso Achille dato il cocchio e i destrieri a questo patto, ch'io di notte traessi all'inimico ad esplorar se, come pria, guardate sien le navi, o se voi dal nostro ferro domi teniate del fuggir consiglio, schivi di veglie, e di fatica oppressi. Sorrise Ulisse, e replicò: Gran dono certo ambiva il tuo cor, del grande Achille i destrier. Ma domarli e cavalcarli uom mortale non può, tranne il Pelìde cui fu madre una Dea. Ma questo ancora contami, e non mentire: Ove lasciasti, qua venendoti, Ettorre? ove si stanno i suoi guerrieri arnesi? ove i cavalli? quai son de' Teucri le vigilie e i sonni? quai le consulte? Bloccheran le navi? O in Ilio torneran, vinto il nemico? Gli rispose Dolon: Nulla del vero ti tacerò. Co' suoi più saggi Ettorre in parte da rumor scevra e sicura siede a consiglio al monumento d'Ilo. Ma le guardie, o signor, di che mi chiedi, nulla del campo alla custodia è fissa. Ché quanti in Ilio han focolar, costretti son cotesti alla veglia, e a far la scolta s'esortano a vicenda: ma nel sonno tutti giacccion sommersi i collegati, che da diverse regïon raccolti, né figli avendo né consorte al fianco, lasciano ai Teucri delle guardie il peso. Ma dormon essi co' Troian confusi (ripiglia Ulisse), o segregati? Parla, ch'io vo' saperlo. - E a lui d'Eumede il figlio: Ciò pure ti sporrò schietto e sincero. Quei della Caria, ed i Peonii arcieri, i Lelegi, i Caucóni ed i Pelasghi tutto il piano occupâr che al mare inchina; ma il pian di Timbra i Licii e i Misii alteri e i frigii cavalieri, e con gli equestri lor drappelli i Meonii. Ma dimande tante perché? Se penetrar vi giova nel nostro campo, ecco il quartier de' Traci alleati novelli, che divisi stansi ed estremi. Han duce Reso, il figlio d'Eïonèo, e a lui vid'io destrieri di gran corpo ammirandi e di bellezza, una neve in candor, nel corso un vento. Monta un cocchio costui tutto commesso d'oro e d'argento, e smisurata e d'oro (maraviglia a vedersi!) è l'armatura, di mortale non già ma di celeste petto sol degna. Che più dir? Traetemi prigioniero alle navi, o in saldi nodi qui lasciatemi avvinto infin che pure vi ritorniate, e siavi chiaro a prova se fu verace il labbro o menzognero. Lo guatò bieco Dïomede, e disse: Da che ti spinse in poter nostro il fato, Dolon, di scampo non aver lusinga, benché tu n'abbia rivelato il vero. Se per riscatto o per pietà disciolto ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo alle navi verresti esploratore, o inimico palese in campo aperto. Ma se qui perdi per mia man la vita, più d'Argo ai figli non sarai nocente. Disse; e il meschino già la man stendea supplice al mento; ma calò di forza quegli il brando sul collo, e ne recise ambe le corde. La parlante testa rotolò nella polve. Allor dal capo gli tolsero l'elmetto, e l'arco e l'asta e la lupina pelle. In man solleva le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva predatrice, sacrandole, sì prega: Godi di queste, o Dea, ché te primiera de' Celesti in Olimpo invocheremo; ma di nuovo propizia ai padiglioni or tu de' traci cavalier ne guida. Disse, e le spoglie su la cima impose d'un tamarisco, e canne e ramoscelli sterpando intorno, e di lor fatto un fascio, segnal lo mette che per l'ombra incerta nel loro ritornar lo sguardo avvisi. Quindi inoltrâr pestando sangue ed armi, e fur tosto de' Traci allo squadrone. Dormìano infranti di fatica, e stesi in tre file, coll'armi al suol giacenti a canto a ciascheduno. Ognun de' duci tiensi dappresso due destrier da giogo: dorme Reso nel mezzo; e a lui vicino stansi i cavalli colle briglie avvinti all'estremo del cocchio. Avvisto il primo si fu di Reso Ulisse, e a Dïomede l'additò: Dïomede, ecco il guerriero, ecco i destrier che dianzi n'avvisava quel Dolon che uccidemmo. Or tu fuor metti l'usata gagliardìa, che qui passarla neghittoso ed armato onta sarebbe. Sciogli tu quei cavalli, o a morte mena costor, ché de' cavalli è mia la cura. Disse, e spirò Minerva a Dïomede robustezza divina. A dritta, a manca fora, taglia ed uccide, e degli uccisi il gemito la muta aria ferìa. Corre sangue il terren: come lïone sopravvenendo al non guardato gregge scagliarsi, e capre e agnelle empio diserta; tal nel mezzo de' Traci è Dïomede. Già dodici n'avea trafitti; e quanti colla spada ne miete il valoroso, tanti n'afferra dopo lui d'un piede lo scaltro Ulisse, e fuor di via li tira, nettando il passo a' bei destrieri, ond'elli alla strage non usi in cor non tremino, le morte salme calpestando. Intanto piomba su Reso il fier Tidìde, e priva lui tredicesmo della dolce vita. Sospirante lo colse ed affannoso perché per opra di Minerva apparso appunto in quella gli pendea sul capo, tremenda visïon, d'Enide il figlio. Scioglie Ulisse i destrieri, e colle briglie accoppiati, di mezzo a quella torma via li mena, e coll'arco li percuote (ché tor dal cocchio non pensò la sferza), e d'un fischio fa cenno a Dïomede. Ma questi in mente discorrea più arditi fatti, e dubbiava se dar mano al cocchio d'armi ingombro si debba, e pel timone trarlo; o se imposto alle gagliarde spalle via sel porti di peso; o se prosegua d'altri più Traci a consumar le vite. In questo dubbio gli si fece appresso Minerva, e disse: Al partir pensa, o figlio dell'invitto Tidèo, riedi alle navi, se tornarvi non vuoi cacciato in fuga, e che svegli i Troiani un Dio nemico. Udì l'eroe la Diva, e ratto ascese su l'uno de' corsier, su l'altro Ulisse che via coll'arco li tempesta, e quelli alle navi volavano veloci. Il signor del sonante arco d'argento stavasi Apollo alla vedetta, e vista seguir Minerva del Tidìde i passi, adirato alla Dea, mischiossi in mezzo alle turbe troiane, e Ipocoonte svegliò, de' Traci consigliero, e prode consobrino di Reso. Ed ei balzando dal sonno, e de' cavalli abbandonato il quartiero mirando, e palpitanti nella morte i compagni, e lordo tutto di sangue il loco, urlò di doglia, e forte chiamò per nome il suo diletto amico; e un trambusto levossi e un alto grido degli accorrenti Troi, che l'arduo fatto dei due fuggenti contemplâr stupiti. Giungean questi frattanto ove d'Ettorre avean l'incauto esploratore ucciso. Qui ferma Ulisse de' corsieri il volo: balza il Tidìde a terra, e nelle mani dell'itaco guerrier le sanguinose spoglie deposte, rapido rimonta e flagella i corsier che verso il mare divorano la via volonterosi. Primo udinne il romor Nestore, e disse: O amici, o degli Achei principi e duci, non so se falso il cor mi parli o vero; pur dirò: mi ferisce un calpestìo di correnti cavalli. Oh fosse Ulisse! Oh fosse Dïomede, che veloci gli adducessero a noi tolti a' Troiani! Ma mi turba timor che a questi prodi non avvegna fra' Teucri un qualche danno. Finite non avea queste parole, che i campioni arrivâr. Balzaro a terra; e con voci di plauso e con allegro toccar di mani gli accogliean gli amici. Nestore il primo interrogolli: O sommo degli Achivi splendore, inclito Ulisse, che destrieri son questi? ove rapiti? nel campo forse de' Troiani? o dielli fattosi a voi d'incontro un qualche iddio? Sono ai raggi del Sol pari in candore mirabilmente; ed io che sempre in mezzo a' Troiani m'avvolgo, e, benché veglio guerrier, restarmi neghittoso abborro, io né questi né pari altri corsieri unqua vidi né seppi. Onde per via qualcun mi penso degli Dei v'apparve, e ven fe' dono; perocché voi cari siete al gran Giove adunator di nembi, e alla figlia di Giove alma Minerva. Nestore, gloria degli Achei, rispose l'accorto Ulisse, agevolmente un Dio potrìa darli, volendo, anco migliori, ché gli Dei ponno più d'assai. Ma questi, di che chiedi, son traci e qua di poco giunti: al re loro e a dodici de' primi suoi compagni diè morte Dïomede, e tredicesmo un altro n'uccidemmo dai teucri duci esplorator spedito del nostro campo. - Così detto, spinse giubilando oltre il fosso i corridori, e festeggianti lo seguîr gli Achivi. Giunto al suo regio padigion, legolli con salda briglia alle medesme greppie ove dolci pascen biade i corsieri Dïomedèi. Ulisse all'alta poppa le spoglie di Dolon sospende, e a Palla prepararsi comanda un sacrificio. Tersero quindi entrambi alla marina l'abbondante sudor, gambe lavando e collo e fianchi. Riforbito il corpo e ricreato il cor, si ripurgaro nei nitidi lavacri. Indi odorosi di pingue oliva si sedeano a mensa pieni i nappi votando, ed a Minerva libando di Lïèo l'almo licore.
Dal croceo letto di Titon l'Aurora sorgea, la terra illuminando e il cielo, e vêr le navi achee Giove spedìa la Discordia feral. Scotea di guerra l'orrida insegna nella man la Dira, e tal d'Ulisse s'arrestò su l'alta capitana che posta era nel mezzo, donde intorno mandar potea la voce fin d'Aiace e d'Achille al padiglione, che nella forza e nel gran cor securi sottratte ai lati estremi avean le prore. Qui ferma d'un acuto orrendo grido empì l'achive orecchie, e tal ne' petti un vigor suscitò, tale un desìo di pugnar, d'azzuffarsi e di ferire, che sonava nel cor dolce la guerra più che il ritorno al caro patrio lido. Alza Atride la voce, e a tutti impone di porsi in tutto punto; e d'armi ei pure folgoranti si veste. E pria circonda di calzari le gambe ornati e stretti d'argentee fibbie. Una lorica al petto quindi si pon che Cinira gli avea un dì mandata in ospital presente. Perocché quando strepitosa in Cipro corse la fama che l'achiva armata verso Troia spiegar dovea le vele, gratificar di quell'usbergo ei volle l'amico Agamennón. Di bruno acciaro dieci strisce il cingean, dodici d'oro, venti di stagno. Lubrici sul collo stendon le spire tre cerulei draghi simiglianti alle pinte iri che Giove suol nelle nubi colorar, portento ai parlanti mortali. Indi la spada agli omeri sospende rilucente d'aurate bolle, e la vestìa d'argento larga vagina col pendaglio d'oro. Poi lo scudo imbracciò che vario e bello e di facil maneggio tutto cuopre il combattente. Ha dieci fasce intorno di bronzo, e venti di forbito stagno candidissimi colmi, e un altro in mezzo di bruno acciar. Su questo era scolpita terribile gli sguardi la Gorgone col Terrore da lato e con la Fuga, rilievo orrendo. Dallo scudo poscia una gran lassa dipendea d'argento, lungo la quale azzurro e sinuoso serpe un drago a tre teste, che ritorte d'una sola cervice eran germoglio. Quindi al capo diè l'elmo adorno tutto di lucenti chiavelli, irto di quattro coni e d'equine setole con una superba cresta che di sopra ondeggia terribilmente. Alfin due lance impugna massicce, acute, le cui ferree punte mettean baleni di lontano. Intanto Giuno e Palla onorando il grande Atride dier di sua mossa con fragore il segno. All'auriga ciascuno allor comanda che parati in bell'ordine sostegna alla fossa i destrier, mentre a gran passi chiuse nell'armi le pedestri schiere procedono al nemico. Ancor non vedi spuntar l'aurora, e d'ogni parte immenso romor già senti. Come tutto giunse l'esercito alla fossa, immantinente fur cavalli e pedoni in ordinanza, questi primieri e quei secondi. Intanto Giove dall'alto romoreggia, e piove di sangue una rugiada, annunziatrice delle molte che all'Orco in quel conflitto anime generose avrìa sospinto. D'altra parte i Troiani in su l'altezza si schierano del poggio. In mezzo a loro s'affaccendano i duci; il grande Ettorre, d'Anchise il figlio che venìa qual nume da' Troiani onorato, il giusto e pio Polidamante, e i tre antenòrei figli, Polibo, io dico, ed il preclaro Agènore, ed Acamante, giovinetto a cui di celeste beltà fiorìa la guancia. Maestoso fra tutti Ettor si volve coll'egual d'ogni parte ampio pavese. E qual di Sirio la funesta stella or senza vel fiammeggia ed or rientra nel buio delle nubi, a tal sembianza or nelle prime file or nell'estreme Ettore comparìa dando per tutto provvidenza e comandi, e tutta d'arme rilucea la persona, e folgorava come il baleno dell'Egìoco Giove. Qual di ricco padron nel campo vanno i mietitori con opposte fronti falciando l'orzo od il frumento; in lunga serie recise cadono le bionde figlie de' solchi, e in un momento ingombra di manipoli tutta è la campagna; così Teucri ed Achei gli uni su gli altri irruendo si mietono col ferro in mutua strage. Immemore ciascuno di vil fuga, e guerrier contra guerriero pugnan tutti del pari, e si van contra coll'impeto de' lupi. A riguardarli sta la Discordia, e della strage esulta a cui sola de' numi era presente. Sedeansi gli altri taciturni in cielo in sua magion ciascuno, edificata su gli ardui gioghi del sereno Olimpo. Ivi ognuno in suo cor fremea di sdegno contro l'alto de' nembi addensatore, che dar vittoria a' Troi volea; ma nullo pensier si prende di quell'ira il padre che in sua gloria esultante e tutto solo in disparte sedea, Troia mirando e l'achee navi, e il folgorar dell'armi, e il ferire e il morir de' combattenti. Finché il mattin processe, e crebbe il sacro raggio del giorno, d'ambe parti eguale si mantenne la strage. Ma nell'ora che in montana foresta il legnaiuolo pon mano al parco desinar, sentendo dall'assiduo tagliar cerri ed abeti stanche le braccia e fastidito il core, e dolce per la mente e per le membra serpe del cibo il natural desìo, prevalse la virtù de' forti Argivi, che animando lor file e compagnie sbaragliâr le nemiche. Agamennóne saltò primier nel mezzo, e Bïanorre, pastor di genti, uccise, indi Oilèo, suo compagno ed auriga. Era dal carro costui sceso d'un salto, e gli venìa dirittamente contro. A mezza fronte coll'acuta asta lo colpì l'Atride. Non resse al colpo la celata; il ferro penetrò l'elmo e l'osso, e tutto interna- mente di sangue gli allagò il cerèbro. Così l'audace assalitor fu domo. Rapì d'ambo le spoglie Agamennóne, e nudi il petto li lasciò supini. Andò poscia diretto ad assalire due di Priamo figliuoli, Iso ed Antifo, l'un frutto d'Imeneo, l'altro d'Amore. Venìano entrambi sul medesmo cocchio i fratelli: reggeva Iso i destrieri, Antifo combattea. Sul balzo d'Ida aveali un giorno sopraggiunti Achille, mentre pascean le gregge, e di pieghevoli vermene avvinti, e poi disciolti a prezzo. Ed or l'Atride Agamennón coll'asta spalanca ad Iso tra le mamme il petto, fiede di brando Antifo nella tempia, e lo spiomba dal cocchio. Immantinente delle bell'armi li dispoglia entrambi, che ben li conoscea dal dì che Achille dai boschi d'Ida prigionier li trasse seco alle navi, ed ei notonne i volti. Come quando un lïon nel covo entrato d'agil cerva, ne sbrana agevolmente i pargoli portati, e li maciulla co' forti denti mormorando e sperde l'anime tenerelle; la vicina misera madre, non che dar soccorso, compresa di terror fugge veloce per le dense boscaglie, e trafelando suda al pensier della possente belva: così nullo de' Troi poteo da morte salvar que' due: ma tutti anzi le spalle conversero agli Achivi. Assalse ei dopo Ippòloco e Pisandro, ambo figliuoli del bellicoso Antìmaco, di quello che da Paride compro per molt'oro e ricchi doni, d'Elena impedìa il rimando al marito. I figli adunque di costui colse al varco Agamennóne sovra un medesmo carro ambo volanti, e turbati e smarriti; ché pel campo sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano le scorrevoli briglie eran cadute. Come lïon fu loro addosso, e quelli s'inginocchiâr, dal carro supplicando: Lasciane vivi, Atride, e di riscatto gran pezzo n'otterrai. Molta risplende nella magion d'Antìmaco ricchezza, d'oro, di bronzo e lavorato ferro. Di questo il padre ti darà gran pondo per la nostra riscossa, ov'egli intenda vivi i suoi figli nelle navi achee. Così piangendo supplicâr con dolci modi, ma dolce non rispose Atride. Voi d'Antìmaco figli? di colui che nel troiano parlamento osava d'Ulisse e Menelao, venuti a Troia ambasciatori, consigliar la morte? Pagherete voi dunque ora del padre l'indegna offesa. - Sì dicendo, immerge l'asta in petto a Pisandro, e giù dal carro supin lo stende sul terren. Ciò visto, balza Ippoloco al suolo, e lui secondo spaccia l'Atride; coll'acciar gli pota ambe le mani, e poi la testa, e lungi come palèo la scaglia a rotolarsi fra la turba. Lasciati ivi costoro, fulminando si spinge nel più caldo tumulto della pugna, e l'accompagna molta mano d'Achei. Fan strage i fanti de' fanti fuggitivi, i cavalieri de' cavalier. Si volve al ciel la polve dalle sonanti zampe sollevata de' fervidi corsieri, e Agamennóne sempre insegue ed uccide, e gli altri accende. Come quando s'appiglia a denso bosco incendio struggitor, cui gruppo aggira di fiero vento e d'ogni parte il gitta: cadono i rami dall'invitta fiamma atterrati e combusti; a questo modo sotto l'Atride Agamennón le teste cadean de' Teucri fuggitivi; e molti colle chiome sul collo fluttuanti destrier traean pel campo i vôti carri, sgominando le file, ed il governo desiderando de' lor primi aurighi: ma quei giacean già spenti, agli avoltoi gradita vista, alle consorti orrenda. Fuori intanto dell'armi e della polve, delle stragi, del sangue e del tumulto condusse Giove Ettòr. Ma gl'inseguiti Teucri dritto al sepolcro del vetusto Dardanid'Ilo verso il caprifico la piena fuga dirigean, bramosi di ripararsi alla cittade; e sempre gl'incalza Atride, e orrendo grida, e lorda di polveroso sangue il braccio invitto. Giunti alfine alle Scee quivi sostârsi vicino al faggio, ed aspettâr l'arrivo de' compagni pel campo ancor fuggenti, e simiglianti a torma d'atterrite giovenche che lïon di notte assalta. Alla prima che abbranca ei figge i duri denti nel collo, e avidamente il sangue succhiatone, n'incanna i palpitanti visceri: e tale gl'inseguìa l'Atride sempre il postremo atterrando, e quei sempre spaventati fuggendo: e giù dal cocchio altri cadea boccone, altri supino sotto i colpi del re che innanzi a tutti oltre modo coll'asta infurïava. E già in cospetto gli venìan dell'alto Ilio le mura, e vi giungea; quand'ecco degli uomini il gran padre e degli Dei scender dal cielo, e maestoso in cima sedersi dell'acquosa Ida, stringendo la folgore nel pugno. Iri a sé chiama l'ali-dorata messaggiera, e, Vanne vola, le disse, Iri veloce, e ad Ettore porta queste parole. Infin ch'ei vegga tra' primi combattenti Agamennóne romper le file furibondo, ei cauto stìasi in disparte, e d'animar sia pago gli altri a far testa, e oprar le mani. Appena o di lancia percosso o di saetta l'Atride il cocchio monterà, si spinga ei ratto nella mischia. Io porgerogli alla strage la forza, infin che giunga vincitore alle navi, e al dì caduto della notte succeda il sacro orrore. Disse; e veloce la veloce Diva dal gioco idèo discende al campo, e trova stante in piè sul suo carro il bellicoso Prïamide: e appressata, O tu, gli disse, che il consiglio d'un Dio porti nel core, Ettore, le parole odi che Giove per me ti manda. Infin che Agamennóne vedrai tra' primi infurïar rompendo de' guerrieri le file, il piè ritira tu dal conflitto, e fa che col nemico pugni il resto de' tuoi. Ma quando ei d'asta o di strale ferito darà volta sopra il suo cocchio, allor t'avanza. Avrai tal da Giove un vigor ch'anco alle navi la strage spingerai, finché la sacra ombra si stenda su la morta luce. Disse, e sparve. L'eroe balza dal cocchio risonante nell'armi, e nella mano palleggiando la lancia il campo scorre, e raccende la pugna. Allor destossi grande conflitto. Rivoltaro i Teucri agli Achivi la faccia, e di rincontro le lor falangi rinforzâr gli Achivi. Venuti a fronte, rinnovossi il cozzo, e primiero si mosse Agamennóne innanzi a tutti di pugnar bramoso. Muse dell'alto Olimpo abitatrici, or voi ne dite chi primier si spinse o troiano guerriero od alleato contro il supremo Atride. Ifidamante, d'Antenore figliuolo, un giovinetto d'altere forme e di gran cor, nudrito nell'opima di greggi odrisia terra. L'educò bambinetto in propria casa della bella Teano il genitore Cissèo l'avo materno, e maturati di glorïosa pubertate i giorni sposo alla figlia il diè. Ma colta appena d'Imen la rosa, al talamo strappollo da dodici navigli accompagnato della venuta degli Achei la fama. Quindi lasciate alla percopia riva le sue navi, pedone ad Ilio ei venne, e primo si piantò contro l'Atride. Giunti al tiro dell'asta, Agamennóne vibrò la sua, ma in fallo. Ifidamante appuntò l'avversario alla cintura sotto il torace, e colla man robusta di tutta forza l'asta sospingea; ma non valse a forarne il ben tessuto cinto, e spuntossi nell'argentea lama l'acuta punta, come piombo fosse. A due mani l'afferra allor l'Atride con ira di lïone, a sé la tira, gliela svelle dal pugno; e tratto il brando, lo percuote alla nuca, e lo distende. Sì cadde, e chiuse in ferreo sonno i lumi. Miserando garzon! venne a difesa del patrio suolo e vi trovò la morte: né gli compose i rai la giovinetta consorte, né di lei frutto lasciava che il ravvivasse; e sì l'avea con molti doni acquistata: perocché da prima di cento buoi dotolla, e mille in oltre madri promise di lanute torme che numerose gli pasceva il prato. Spoglia Atride l'ucciso, e le bell'armi ne porta ovante fra le turbe achee. Come vide Coon morto il fratello, (d'Antenore era questi il maggior figlio e guerriero di grido), una gran nube di dolor gl'ingombrò la mente e gli occhi. Ponsi in agguato con un dardo in mano al re di costa, e vibra. A mezzo il braccio conficcossi la punta sotto il cubito, e trapassollo. Inorridì del colpo l'Atride regnator; ma non per questo abbandona la pugna; anzi più fiero colla salda dagli Euri asta nudrita avventossi a Coon che frettoloso dell'amato fratello Ifidamante d'un piè traea la salma, alto chiedendo de' più forti l'aita. Lo raggiunge in quell'atto l'Atride, e sotto il colmo dello scudo gli caccia impetuoso la zagaglia, e l'atterra. Indi sul corpo d'Ifidamante il capo gli recide. Così n'andâr, compiuto il fato, all'Orco per man d'Atride gli antenòrei figli. Finché fu calda la ferita, il sire coll'asta, colla spada e con enormi ciotti la pugna seguitò; ma come stagnossi il sangue, e s'aggelò la piaga, d'acerbe doglie saettar sentissi. Qual trafigge la donna, al partorire, l'acuto strale del dolor, vibrato dalle figlie di Giuno alme Ilitìe, d'amare fitte apportatrici; e tali eran le punte che ferìan l'Atride. Salì dunque sul carro, ed all'auriga comandò di dar volta alla marina, e cruccioso elevando alto la voce, Prenci, amici, gridava, e voi valenti capitani de' Greci, allontanate dalle navi il conflitto, or che di Giove non consente il voler ch'io qui compisca, combattendo co' Teucri, il giorno intero. Disse, e l'auriga flagellò i destrieri verso le navi; e quei volâr spargendo le belle chiome all'aura; e il petto aspersi d'alta spuma e di polve in un baleno fuor del campo ebber tratto il re ferito. Come dall'armi ritirarsi il vide, diè un alto grido Ettorre, e rincorando Troiani e Licii e Dardani tonava: Uomini siate, amici, e richiamate l'antica gagliardìa: lasciato ha il campo quel fortissimo duce, e a me promette l'Olimpio Giove la vittoria. Or via gli animosi cornipedi spingete dirittamente addosso ai forti Achivi, e acquisto fate d'immortal corona. Disse, e in tutti destò la forza e il core. Come buon cacciator contra un lïone o silvestre cignale il morso aizza de' fier molossi, così l'ira instiga de' magnanimi Troi contro gli Achivi il Prïamide Marte: ed ei tra' primi intrepido si volve, e nel più folto della mischia coll'impeto si spinge di sonante procella che dall'alto piomba e solleva il ferrugineo flutto. Allor chi pria, chi poi fu messo a morte dal Prïamide eroe, quando a lui Giove fu di gloria cortese? Assèo da prima, Autònoo, Opìte, e Dòlope di Clito, Ofeltio ed Agelao, Esimno, ed Oro e il bellicoso Ippònoo. Fur questi i dànai duci che il Troiano uccise: dopo lor, molta plebe. Come quando di Ponente il soffiar l'umide figlie di Noto aggira, e con rapido vortice le sbatte irato: il mar gonfiati e crebri volve i flutti, e dal turbo in larghi sprazzi sollevata diffondesi la spuma: tal Ettore cader confuse e spesse fa le teste plebee. Disfatta intera allor sarìa seguìta, e colla strage de' fuggitivi ineluttabil danno, se con questo parlar l'accorto Ulisse non destava il valor di Dïomede. Magnanimo Tidìde, e qual disdetta della nostra virtù ci toglie adesso la ricordanza? Or su; ti metti, amico, al mio fianco, e tien fermo: onta sarebbe lasciar che piombi su le navi Ettorre. E Dïomede di rincontro: Io certo rimarrò, pugnerò; ma vano il nostro sforzo sarà, ché la vittoria ai Teucri dar vuole, non a noi, Giove nemico. Disse; e coll'asta alla sinistra poppa Timbrèo percosse, e il riversò dal carro. Ulisse uccise Molïon, guerriero d'apparenza divina, e valoroso del re Timbrèo scudiero. E spenti questi, si cacciâr nella turba, simiglianti a due cinghiali di gran cor, che il cerchio sbarattano de' veltri; e impetuosi voltando faccia sgominaro i Teucri, sì che fuggenti dall'ettòreo ferro preser conforto e respirâr gli Achivi. Combattean fra le turbe alti sul carro fortissimi campioni i due figliuoli di Merope Percòsio. Il genitore, celebrato indovino, avea dell'armi il funesto mestier loro interdetto. Non l'obbediro i figli, e la possanza seguîr del fato che traeali a morte. Coll'asta in guerra sì famosa entrambi gl'investì Dïomede, e colla vita dell'armi li spogliò, mentre per mano cadean d'Ulisse Ippòdamo e Ipiròco. Contemplava dall'Ida i combattenti di Saturno il gran figlio, e nel suo senno equilibrava tuttavia la pugna, e l'orror della strage. Infurïava pedon tra' primi battaglianti il figlio di Peone Agastròfo, e non avea l'incauto eroe dappresso i suoi corsieri, onde all'uopo salvarsi; ché in disparte lo scudier li tenea. Mirollo, e ratto l'assalse Dïomede, e all'anguinaglia lo ferì di tal colpo che l'uccise. Cader lo vide Ettorre, e tra le file si spinse alto gridando, e lo seguièno le troiane falangi. Al suo venire turbossi il forte Dïomede, e vòlto ad Ulisse, dicea: Ci piomba addosso del furibondo Ettorre la ruina. Stiam saldi, amico, e sosteniam lo scontro. Disse, e drizzando alla nemica testa la mira, fulminò l'asta vibrata, e colse al sommo del cimier; ma il ferro fu respinto dal ferro, e non offese la bella fronte dell'eroe, ché il lungo triplice elmetto l'impedì, fatato dono d'Apollo. Sbalordì del colpo Ettore, e lungi riparò tra' suoi. Qui cadde su i ginocchi, puntellando contro il suol la gran palma, e tenebroso su le pupille gli si stese un velo. Ma mentre corre a ricovrar Tidìde la fitta nella sabbia asta possente, si rïebbe il caduto, e sopra il carro balzando, nella turba si confuse novellamente, ed ischivò la morte. Perocché il figlio di Tidèo coll'asta un'altra volta l'assalìa gridando: Cane troian, di nuovo tu la scappi dalla Parca che già t'avea raggiunto. Gli è Febo che ti salva, a cui, dell'armi entrando nel fragor, ti raccomandi. Ma se verrai per anco al paragone, ti spaccerò, s'io pure ho qualche Dio. Qualunque intanto mi verrà ghermito sconterà la tua fuga. - E sì dicendo, l'ucciso figlio di Peon spogliava. Ma della ben chiomata Elena il drudo Alessandro tenea contro il Tidìde lo strale in cocca, standosi nascoso diretro al cippo sepolcral che al santo Dardanid'Ilo, antico padre, eresse de' Teucri la pietà. Curvo l'eroe di dosso al morto Agàstrofo traea il varïato usbergo, ed il brocchiero ed il pesante elmetto, allor che l'altro lentò la corda, e non invan. Veloce il quadrello volò, nell'ima parte del destro piè s'infisse, e trapassando conficcossi nel suolo. Uscì d'agguato sghignazzando il fellone, e, Sei ferito, glorïoso gridò: Ve' s'io t'ho côlto pur finalmente! Oh t'avess'io trafitta più vital fibra, e tolta l'alma! Avrebbe dall'affanno dell'armi respirato il popolo troiano a cui se' orrendo come il leone alle belanti agnelle. Villan, cirrato arciero, e di fanciulle vagheggiator codardo (gli rispose nulla atterrito Dïomede), vieni in aperta tenzon, vieni e vedrai a che l'arco ti giova, e la di strali piena faretra. Mi graffiasti un piede, e sì gran vampo meni? Io de' tuoi colpi prendo il timor che mi darebbe il fuso di femminetta, o di fanciul lo stecco; ché non fa piaga degl'imbelli il dardo. Ma ben altro è il ferir di questa mano. Ogni puntura del mio telo è morte del mio nemico, e pianto de' suoi figli e della sposa che le gote oltraggia; mentre di sangue il suol quegli arrossando imputridisce, e intorno gli s'accoglie, più che di donne, d'avoltoi corona. Così parlava. Accorso intanto Ulisse di sé gli fea riparo: ed ei seduto dell'amico alle spalle il dardo acuto sconficcossi dal piede. Allor gli venne per tutto il corpo un dolor grave e tanto, che angosciato nell'alma e impazïente montò sul cocchio, ed all'auriga impose di portarlo volando alle sue tende. Solo rimase di Laerte il figlio, ché la paura avea tutti sbandati gli Argivi; ond'egli addolorato e mesto seco nel chiuso del gran cor dicea: Misero, che farò? Male, se in fuga mi volgo per timor: peggio, se solo qui mi coglie il nemico ora che Giove gli altri Achei sgominò. Ma quai pensieri mi ragiona la mente? Ignoro io forse che nell'armi il vil fugge, e resta il prode a ferire o a morir morte onorata? Mentre in cor queste cose egli discorre, di scutati Troiani ecco venirne una gran torma che l'accerchia. Stolti! che il proprio danno si chiudean nel mezzo. Come stuol di molossi e di fiorenti giovani intorno ad un cinghial s'addensa per investirlo, ed ei da folto vepre sbocca aguzzando le fulminee sanne tra le curve mascelle; d'ogni parte impeto fassi, e suon di denti ascolti, e della belva si sostien l'assalto, benché tremenda irrompa e spaventosa: tali intorno ad Ulisse furïosi s'aggruppano i Troiani. Alto ei sull'asta insorge, e primo all'omero ferisce il buon Deïopìte; indi Toone mette a morte ed Ennomo, e dopo questi Chersidamante nel saltar che fea dal cocchio a terra. Gli cacciò la picca sotto il rotondo scudo all'umbilico, e quei riverso nella polve strinse colla palma la sabbia. Abbandonati costor, coll'asta avventasi a Caropo, d'Ippaso figlio, e dell'illustre Soco fratel germano; e lo ferisce. Accorre il dëiforme Soco in sua difesa, e all'Itacense fattosi vicino fermasi, e parla: Artefice di frodi famoso, e sempre infatigato Ulisse, oggi, o palma otterrai d'entrambi i figli d'Ippaso, e, spenti, n'avrai l'armi; o colto tu dal mio telo perderai la vita. Vibrò, ciò detto, e lo colpì nel mezzo della salda rotella. Il vïolento dardo lo scudo traforò, ficcossi nella corazza, e gli stracciò sul fianco tutta la pelle: non permise al ferro l'addentrarsi di più Palla Minerva. Conobbe tosto che letal non era il colpo Ulisse; e retrocesso alquanto, Sciagurato, rispose al suo nemico, or sì che morte al varco ti raggiunse. Mi togliesti, egli è vero, il poter oltre pugnar co' Teucri, ma ben io t'affermo che questa di tua vita è l'ultim'ora, e che tu dalla mia lancia qui domo, la palma a me darai, lo spirto a Pluto. Disse, e l'altro fuggiva. Al fuggitivo scaglia Ulisse il suo cerro, e a mezzo il tergo sì glielo pianta che gli passa al petto. Diè d'armi un suono nel cadere, e il divo vincitor l'insultò: Soco, del forte Ippaso cavaliero audace figlio, morte t'ha giunto innanzi tempo, e vana fu la tua fuga. Misero! né il padre gli occhi tuoi chiuderà né la pietosa madre, ma densi a te gli scaveranno gli avoltoi dibattendo le grandi ali su la tua fronte; e me spento di tomba onoreranno i generosi Achei. Detto ciò, dalla pelle e dal ricolmo brocchier si svelse del possente Soco il duro giavellotto, e nel cavarlo diè sangue, e forte dolorossi il fianco. Visto il sangue d'Ulisse, i coraggiosi Teucri l'un l'altro inanimando mossero per assalirlo: ma l'accorto indietro si ritrasse, e i compagni ad alta voce chiamò. Tre volte a tutta gola ei grida, tre volte il marzio Menelao l'intese, e ad Aiace converso, Aiace, ei disse, Telamònio regal seme divino, sento all'orecchio risonarmi il grido del sofferente Ulisse, e tal mi sembra qual se, solo rimasto, ei sia da' Teucri nel forte della mischia oppresso e chiuso. Corriam, ché giusto è l'aitarlo: solo fra nemici potrebbe il valoroso grave danno patirne, e costerìa la sua morte agli Achei molti sospiri. Si mise in via, ciò detto, e lo seguiva quel magnanimo, tale al portamento che un Dio detto l'avresti: e il caro a Giove Ulisse ritrovâr da densa torma accerchiato di Teucri. A quella guisa che affamate s'attruppano le linci dintorno a cervo di gran corna, a cui fisse lo strale il cacciator nel fianco, e il ferito fuggì dal feritore finché fu caldo il sangue e lesto il piede; ma domo alfine dallo stral nel bosco lo dismembran le linci; allor, se guida colà fortuna un fier lïon, disperse sfrattano quelle, ed ei fa sua la preda: molta turba così di valorosi Teucri intorno al pugnace astuto Ulisse aggirasi; ma l'asta dimenando l'eroe tien lungi la fatal sua sera. E comparir tremendo ecco d'Aiace il torreggiante scudo, eccolo fermo dinanzi a quell'oppresso, e scombuiarsi chi qua chi là per lo spavento i Teucri. Per man lo prende allora il generoso minor Atride, e fuor dell'armi il tragge finché l'auriga i corridor gli adduca. Ma il Telamònio eroe contra i Troiani irrompendo, il Prïamide bastardo Doriclo uccide; e poi Pandoco, e poi Lisandro fiede e Piraso e Pilarte. E come quando ruinoso un fiume, cui crebbe l'invernal pioggia di Giove, si devolve dal monte alla pianura, e molte aride querce e molti pini rotando spinge una gran torba al mare: tal cavalli tagliando e cavalieri l'illustre Aiace furïoso insegue per lo campo i Troiani; e non per anco n'aveva Ettorre udita la ruina, ch'ei della zuffa sul sinistro corno pugnava in riva allo Scamandro, dove il cader delle teste era più spesso, e infinito il clamor dintorno al grande Nestore e al marzio Idomenèo. Qui stava Ettore, e oprava orrende cose, e densa colla lancia e col carro distruggeva la gioventude achea. Né ancor per tanto avrian gli Argivi abbandonato il campo, se il bel marito della bella Elèna Alessandro ritrar non fea dall'armi il bellicoso Macaon, ferendo l'illustre duce all'omero diritto con trisulca saetta. Di quel colpo tremâr gli Achivi, e si scorâr, temendo che, inclinata di Marte la fortuna, non vi restasse il buon guerriero ucciso. Onde a Nestore vòlto Idomenèo: Eroe Nelìde, ei disse, alto splendore degli Achivi, t'affretta, il carro ascendi e Macaone vi raccogli, e ratto sferza i cavalli al mar, salva quel prode, ch'egli val molte vite, e non ha pari nel cavar dardi dalle piaghe, e spargerle di balsamiche stille. - A questo dire montò l'antico cavaliero il cocchio subitamente, vi raccolse il figlio d'Esculapio divin medicatore, sferzò i destrieri, e quei volaro al lido volonterosi e dal desìo chiamati. Vide in questa de' Teucri lo scompiglio Cebrïon che d'Ettorre al fianco stava, e rivolto a quel duce: Ettorre, ei disse, noi di Dànai qui stiamo a far macello nel corno estremo dell'orrenda mischia, e gli altri Teucri intanto in fuga vanno cavalli e battaglier cacciati e rotti dal Telamònio Aiace: io ben lo scerno all'ampio scudo che gli copre il petto. Drizziamo il carro a quella volta, ch'ivi più feroce de' fanti e cavalieri è la zuffa, e più forti odo le grida. Così dicendo, col flagel sonoro i ben chiomati corridor percosse, che sentita la sferza a tutto corso fra i Troiani e gli Achei traean la biga, cadaveri pestando ed elmi e scudi. Era tutto di sangue orrido e lordo l'asse di sotto e l'àmbito del cocchio, cui l'ugna de' corsieri e la veloce ruota spargean di larghi sprazzi. Anela il teucro duce di sfondar la turba, e spezzarla d'assalto. In un momento gli Achivi sgominò, sempre coll'asta fulminando; e scorrendo entro le file, colla lancia, col brando e con enormi macigni le rompea. Solo d'Aiace evitava lo scontro. Ma l'Eterno alto-sedente al cor d'Aiace incusse tale un terror che attonito ristette, e paventoso si gittò sul tergo la settemplice pelle, e nel dar volta come una fiera si guatava intorno nel mezzo della turba, e tardi e lenti alternando i ginocchi, all'inimico ad or ad ora convertìa la fronte. Come fulvo leon che dall'ovile vien da' cani cacciato e da' pastori che de' buoi gli frastornano la pingue preda, la notte vigilando intera: famelico di carne ei nondimeno dritto si scaglia, e in van; ché dall'ardite destre gli piove di saette un nembo e di tizzi e di faci, onde il feroce atterrito rifugge, e in sul mattino mesto i campi traversa e si rinselva: tale Aiace da' Teucri in suo cor tristo e di mal grado assai si dipartìa delle navi temendo. E quale intorno ad un pigro somier, che nella messe si ficcò, s'arrabattano i fanciulli molte verghe rompendogli sul tergo, ed ei pur segue a cimar l'alta biada, né de' lor colpi cura la tempesta, ché la forza è bambina, e appena il ponno allontanar poiché satolla ha l'epa; non altrimenti i Teucri e le coorti collegate inseguìan senza riposo il gran Telamonìde, e colle basse lance nel mezzo gli ferìan lo scudo. Ma memore l'eroe di sua virtude or rivolta la faccia, e le falangi respinge de' nemici, or lento i passi move alla fuga: e sì potette ei solo che di sboccarsi al mar tutti rattenne. Ritto in mezzo ai Troiani ed agli Achivi infurïava, e sostenea di strali una gran selva sull'immenso scudo, e molti a mezzo spazio e senza forza, pria che il corpo gustar, perdeano il volo desïosi di sangue. In questo stato lo mirò d'Evemon l'inclito figlio Euripilo, ed a lui, che sotto il nembo degli strali languìa, fatto dappresso, a vibrar cominciò l'asta lucente, e il duce Apisaon, di Fausia figlio, nell'epate percosse, e gli disciolse de' ginocchi il vigor. Sovra il caduto Euripilo avventossi, e le bell'armi di dosso gli traea. Ma come il vide Paride, il drudo di beltà divina, del morto Apisaon l'armi rapire, mise in cocca lo strale, e d'aspra punta la destra coscia gli ferì. Si franse il calamo pennuto, e tal nell'anca spasmo destò, che ad ischivar la morte gli fu mestieri ripararsi a' suoi, alto gridando, O amici, o prenci achivi, volgetevi, sostate, liberate da morte Aiace; egli è da' teli oppresso, sì ch'io pavento, ohimè! che più non abbia scampo l'eroe: correte, circondate de' vostri petti il Telamònio figlio. Così disse il ferito: e quelli a gara stretti inclinando agli omeri gli scudi, e l'aste sollevando, al grande Aiace si fêr dappresso; ed ei venuto in salvo tra' suoi, di nuovo la terribil faccia converse all'inimico. In cotal guisa, come fiamma, tra questi ardea la zuffa. Di sudor molli intanto e polverose le cavalle nelèe fuor della pugna traean col duce Macaon Nestorre. Lo vide il divo Achille e lo conobbe, mentre ritto si stava in su la poppa della sua grande capitana, e il fiero lavor di Marte, e degli Achei mirava la lagrimosa fuga. Incontanente mise un grido, e chiamò dall'alta nave il compagno Patròclo: e questi appena dalla tenda l'udì, che fuori apparve in marzïal sembianza; e dal quel punto ebbe inizio fatal la sua sventura. Parlò primiero di Menèzio il figlio: A che mi chiami, a che mi brami, Achille? O mio diletto nobile Patròclo, gli rispose il Pelìde, or sì che spero supplicanti e prostesi a' miei ginocchi veder gli Achivi, ché suprema e dura necessità li preme. Or vanne, o caro, vanne e chiedi a Nestòr chi quel ferito sia, ch'ei ritragge dalla pugna. Il vidi ben io da tergo, e Macaon mi parve, d'Esculapio il figliuol; ma del guerriero non vidi il volto, ché veloci innanzi mi passâr le cavalle, e via spariro. Disse; e Patròclo obbedïente al cenno dell'amico diletto già correa tra le navi e le tende. E quelli intanto del buon Nelìde al padiglion venuti dismontaro, e l'auriga Eurimedonte sciolse dal carro le nelèe puledre, mentr'essi al vento asciugano sul lido le tuniche sudate, e delle membra rinfrescano la vampa: indi raccolti dietro la tenda s'adagiâr su i seggi. Apparecchiava intanto una bevanda la ricciuta Ecamède. Era costei del magnanimo Arsìnoo una figliuola che il buon vecchio da Tenedo condotta avea quel dì che la distrusse Achille, e a lui, perché vincea gli altri di senno, fra cento eletta la donâr gli Achivi. Trass'ella innanzi a lor prima un bel desco su piè sorretto d'un color che imbruna, sovra il desco un taglier pose di rame, e fresco miel sovresso, e la cipolla del largo bere irritatrice, e il fiore di sacra polve cereal. V'aggiunse un bellissimo nappo, che recato aveasi il veglio dal paterno tetto, d'aurei chiovi trapunto, a doppio fondo, con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna due beventi colombe, auree pur esse. Altri a stento l'avrìa colmo rimosso; l'alzava il veglio agevolmente. In questo la simile alle Dee presta donzella pramnio vino versava; indi tritando su le spume caprin latte rappreso, e spargendovi sovra un leggier nembo di candida farina, una bevanda uscir ne fece di cotal mistura, che apprestata e libata, ai due guerrieri la sete estinse e rinfrancò le forze. Diersi, ciò fatto, a ricrear parlando gli affaticati spirti; e sulla soglia ecco apparir Patròclo, e soffermarsi in sembianza di nume il giovinetto. Nel vederlo levossi il vecchio in piedi dal suo lucido seggio, e l'introdusse presol per mano, e di seder pregollo. Egli all'invito resistea, dicendo: Di seder non m'è tempo, egregio veglio, né obbedirti poss'io. Tremendo, iroso è colui che mi manda a interrogarti del guerrier che ferito hai qui condotto. Or io mel so per me medesmo, e in lui ravviso il duce Macaon. Ritorno dunque ad Achille relator di tutto. Sai quanto, augusto veglio, ei sia stizzoso e a colpar pronto l'innocente ancora. Disse, e il gerenio cavalier rispose: E donde avvien che de' feriti Achivi sente Achille pietà? Né ancor sa quanta pel campo s'innalzò nube di lutto. Piagati altri da lungi, altri da presso nelle navi languiscono i più prodi. Di saetta ferito è Dïomede, d'asta l'inclito Ulisse e Agamennóne, Euripilo di strale nella coscia, e di strale egli pur questo che vedi da me condotto. Il prode Achille intanto niuna si prende né pietà né cura degl'infelici Achivi. Aspetta ei forse che mal grado di noi la fiamma ostile arda al lido le navi, e che noi tutti l'un su l'altro cadiam trafitti e spenti? Ahi che la possa mia non è più quella ch'agili un tempo mi facea le membra! Oh quel fior m'avess'io d'anni e di forza, ch'io m'ebbi allor che per rapiti armenti tra noi surse e gli Elèi fiera contesa! Io predai con ardita rappresaglia del nemico le mandre, e l'elïese Ipirochìde Itimonèo distesi. Combattea de' suoi tauri alla difesa l'uom forte, e un dardo di mia mano uscito lui tra' primi percosse, e al suo cadere l'agreste torma si disperse in fuga. Noi molta preda n'adducemmo e ricca: di buoi cinquanta armenti, ed altrettante di porcelli, d'agnelle e di caprette, distinte mandre, e cento oltre cinquanta fulve cavalle, tutte madri, e molte col poledro alla poppa. Ecco la preda che noi di notte ne menammo in Pilo. Gioì Nelèo vedendo il giovinetto figlio guerrier di tante spoglie opimo. Venuto il giorno, la sonora voce de' banditor chiamò tutti cui fosse qualche compenso dagli Elèi dovuto. Di Pilo i capi congregârsi, e grande sendo il dovere degli Elèi, fu tutta scompartita la preda, e rintegrate l'antiche offese. Perciocché la forza d'Ercole avendo desolata un giorno la nostra terra, e i più prestanti uccisi, e di dodici figli di Nelèo prodi guerrier rimasto io solo in Pilo con altri pochi oppressi, i baldanzosi Elèi di nostre disventure alteri n'insultâr, ne fêr danno. Or dunque in serbo tenne il vecchio per sé di tauri intero un armento trascelto, e un'ampia greggia di ben trecento pecorelle, insieme co' mandriani; giusta ricompensa di quattro egregi corridor, mandati in un col carro a conquistargli un tripode nell'olimpica polve, e dall'elèo rege rapiti, rimandando spoglio de' bei corsieri il doloroso auriga. Di questi oltraggi il vecchio padre irato larga preda si tolse, e al popol diede, giusta il dovuto, a ripartirsi il resto. Mentre intenti ne stiamo a queste cose, e offriam per tutta la città solenni sacrifici agli Eterni, ecco nel terzo giorno gli Elèi con tutte de' lor fanti e cavalli le forze in campo uscire, ed ambedue con essi i Molïoni, giovinetti ancor sori ed inesperti negl'impeti di Marte. Su l'Alfèo in arduo colle assisa è una cittade Trïoessa nomata, ultima terra dell'arenosa Pilo. Desïosi di porla al fondo la cingean d'assedio. Ma come tutto superaro il campo, frettolosa e notturna a noi discese dall'Olimpo Minerva, ad avvisarne di pigliar l'armi; e congregò le turbe per la cittade, non già lente e schive, ma tutte accese del desìo di guerra. Non mi assentiva il genitor Nelèo l'uscir con gli altri armato; e perché destro nel fiero Marte ancor non mi credea, occultommi i destrieri. Ed io pedone v'andai scorto da Pallade, e tra' nostri cavalier mi distinsi in quella pugna. Sul fiume Minïèo che presso Arena si devolve nel mar, noi squadra equestre posammo ad aspettar l'alba divina, finché n'avesse la pedestre aggiunti. Riunito l'esercito, movemmo ben armati ed accinti, e sul merigge d'Alfèo giungemmo all'onde sacre. Quivi propizïammo con opime offerte l'onnipossente Giove; al fiume un toro svenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta a Palla una giovenca. Indi pel campo preso a drappelli della sera il cibo, tutti ne demmo, ognun coll'armi indosso, lungo il fiume a dormir. Stringean frattanto d'assedio la cittade i forti Elèi d'espugnarla bramosi. Ma di Marte ebber tosto davanti una grand'opra. Brillò sul volto della terra il sole, e noi Minerva supplicando e Giove appiccammo la zuffa. Aspro fu il cozzo delle due genti, ed io primiero uccisi (e i corsieri gli tolsi) il bellicoso Mulio, gener d'Augìa, del quale in moglie la maggior figlia possedea, la bionda Agamède, cui nota era, di quante l'almo sen della terra erbe produce, la medica virtù. Questo io trafissi coll'asta, e lo distesi, e, dell'ucciso salito il cocchio, mi cacciai tra' primi. Visto il duce cader de' cavalieri che gli altri tutti di valor vincea, si sgomentaro i generosi Elèi, e fuggîr d'ogni parte. Io come turbo mi serrai loro addosso, e di cinquanta carri fei preda, e intorno a ciascheduno mordean la polve dal mio ferro ancisi due combattenti. E messi a morte avrei gli Attòridi pur anco, i due medesmi Molïoni, se fuor della battaglia non li traea, coprendoli di nebbia, il gran rege Nettunno. Al nostro ardire alta vittoria allor Giove concesse. Perocché per lo campo, tutto sparso di scudi e di cadaveri, tant'oltre gl'inseguimmo uccidendo, e raccogliendo le bell'armi nemiche, che spingemmo fino ai buprasii solchi i corridori, fin all'olenio sasso, ed alla riva d'Alèsio, al luogo che Calon si noma. Qui fêr alto per cenno di Minerva i vincitori, e qui l'estremo io spensi. Da Buprasio frattanto i nostri prodi riconduceano a Pilo i polverosi carri, e dar laude si sentìa da tutti a Giove in cielo, ed a Nestorre in terra. Tal nelle pugne apparve il valor mio. Ma del valor d'Achille il solo Achille godrassi, e quando consumati ahi! tutti vedrà gli Achivi, piangerà, ma indarno. Caro Patròclo, nel pensier richiama di Menèzio i precetti, onde il buon veglio t'accompagnava il giorno che da Ftia ti spediva all'Atride Agamennóne. Fummo presenti, e gli ascoltammo interi il divo Ulisse ed io Nestorre, entrambi al regal tetto di Pelèo venuti a far eletta di guerrieri achei. Ivi l'eroe Menèzio e te vedemmo d'Achille al fianco. Il cavalier Pelèo, venerando vegliardo, entro il cortile al fulminante Giove ardea le pingui cosce d'un tauro, e sull'ardenti fibre negro vino da nappo aureo versava. Voi vi stavate preparando entrambi le sacre carni, e noi giungemmo in quella sul limitar. Stupì, levossi Achille, per man ne prese, e n'introdusse, in seggio ne collocò, ne pose innanzi i doni che il santo dritto dell'ospizio chiede. Ristorati di cibo e di bevanda, io parlai primamente, e v'esortava l'uno e l'altro a seguirne; e il bramavate voi fortemente. E quai de' due canuti fûro allora i conforti? Al figlio Achille raccomandò Pelèo l'oprar mai sempre da prode, e a tutti di valor star sopra. Ma volto a te l'Attòride Menèzio, Figlio, il vecchio dicea, ti vince Achille di sangue, e tu lui d'anni; egli di forza, tu di consiglio. Con prudenti avvisi dunque il governa e l'ammonisci, e all'uopo t'obbedirà. Tal era il suo precetto; tu l'obblïasti. Or via, l'adempi adesso, parla all'amico bellicoso, e tenta süaderlo. Chi sa? Qualche buon Dio animerà le tue parole, e l'alma toccherà di quel fiero. Al cor va sempre l'ammonimento d'un diletto amico. Ché s'ei paventa in suo segreto un qualche vaticinio, se alcuno a lui da Giove la madre ne recò, te mandi almeno co' Mirmidóni a confortar gli Achivi nella battaglia, e l'armi sue ti ceda. Forse ingannati dall'aspetto i Teucri ti crederan lui stesso, e fuggiranno, e gli egri Achei respireranno: è spesso di gran momento in guerra un sol respiro. E voi freschi guerrieri agevolmente respingerete lo stanco nemico dalle tende e dal mare alla cittade. Sì disse il saggio, e tutto si commosse il cor nel petto di Patròclo. Ei corse lungo il lido ad Achille, e giunto all'alta capitana d'Ulisse, ove nel mezzo ai santi altari si tenea ragione e parlamento, d'Evemone il figlio Eurìpilo scontrò, che di saetta ferito nella coscia e vacillante dalla pugna partìa. Largo il sudore gli discorrea dal capo e dalle spalle, e molto sangue dalla ria ferita, ma intrepida era l'alma. Il vide e n'ebbe pietade il forte Menezìade, e a lui lagrimando si volse: Oh sventurati duci Achei! così dunque, ohimè! lontani dai cari amici e dalla patria terra de' vostri corpi sazïar di Troia dovevate le belve? Eroe divino Eurìpilo, rispondi: Sosterranno gli Achei la possa dell'immane Ettorre, o cadran spenti dal suo ferro? - Oh diva stirpe, Patròclo, (Eurìpilo rispose) nullo è più scampo per gli Achei, se scampo non ne danno le navi. I più gagliardi tutti giaccion feriti, e ognor più monta de' Troiani la forza. Or tu cortese conservami la vita. Alla mia nave guidami, e svelli dalla coscia il dardo, con tepid'onda lavane la piaga e su vi spargi i farmaci salubri de' quali è grido che imparata hai l'arte dal Pelìde, e il Pelìde da Chirone de' Centauri il più giusto. Or tu m'aita, ché Podalirio e Macaon son lungi; questi, credo, in sua tenda, anch'ei piagato è di medica man necessitoso; l'altro co' Teucri in campo si travaglia. Qual fia dunque la fin di tanti affanni? soggiunse di Menèzio il forte figlio, e che faremo, Eurìpilo? Gran fretta mi sospinge ad Achille a riportargli del guardïano degli Achei Nestorre una risposta: ma pietà non vuole che in questo stato io t'abbandoni. - Il cinse colle braccia, ciò detto, e nella tenda il menò, l'adagiò sopra bovine pelli dal servo acconciamente stese, indi col ferro dispiccò dall'anca l'acerbissimo strale, e con tepenti linfe la tabe ne lavò. Vi spresse poi colle palme il lenïente sugo d'un'amara radice. Incontanente calmossi il duolo, ristagnossi il sangue, ed asciutta si chiuse la ferita.
Così dentro alle tende medicava d'Eurìpilo la piaga il valoroso Menezìade. Frattanto alla rinfusa pugnan Teucri ed Achei; né scampo a questi è più la fossa omai, né l'ampio muro che l'armata cingea. L'avean gli Achivi senza vittime eretto a custodire i navigli e le prede. Edificato dunque malgrado degli Dei, gran tempo non durò. Finché vivo Ettore fue, e irato Achille, e Troia in piedi, il muro saldo si stette; ma de' Teucri estinte l'alme più prodi, e degli Achei pur molte, e al decim'anno Ilio distrutto, e il resto degli Argivi tornato al patrio lido, decretâr del gran muro la caduta Nettunno e Apollo, l'impeto sfrenando di quanti fiumi dalle cime idèe si devolvono al mar, Reso, Granìco, Rodio, Careso, Eptàporo ed Esèpo e il divino Scamandro e Simoenta che volge sotto l'onde agglomerati tanti scudi, tant'elmi e tanti eroi. Di questi rivoltò Febo le bocche contro l'alta muraglia, e vi sospinse nove giorni la piena. Intanto Giove, perché più ratto l'ingoiasse il mare, incessante piovea. Nettunno istesso precorrea le fiumane, e col tridente e coll'onda atterrò le fondamenta che di travi e di sassi v'avean posto i travagliosi Achivi; infin che tutta al piano l'adeguò lungo la riva dell'Ellesponto. Smantellato il muro, fe' di quel tratto un arenoso lido, e tornò le bell'acque al letto antico. Di Nettunno quest'era e in un d'Apollo l'opra futura. Ma la pugna intorno a quel valido muro or ferve e mugge. Cigolar delle torri odi percosse le compàgi, e gli Achei dentro le navi chiudonsi domi dal flagel di Giove, e paventosi dell'ettoreo braccio, impetuoso artefice di fuga; perocché pari a turbine l'eroe sempre combatte. E qual cinghiale o bieco leon cui fanno cacciatori e cani densa corona, di sue forze altero volve dintorno i truci occhi, né teme la tempesta de' dardi né la morte, ma generoso si rigira e guarda dove slanciarsi fra gli armati, e ovunque urta, s'arretra degli armati il cerchio; tal fra l'armi s'avvolge il teucro duce, i suoi spronando a valicar la fossa. Ma non l'ardìan gli ardenti corridori che mettean fermi all'orlo alti nitriti, dal varco spaventati arduo a saltarsi e a tragittarsi: perocché dintorno s'aprìan profondi precipizi, e il sommo margo d'acuti pali era munito, di che folto v'avean contro il nemico confitto un bosco gli operosi Achei, tal che passarvi non potean le rote di volubile cocchio. Ma bramosi ardean d'entrarvi e superarlo i fanti. Fattosi innanzi allor Polidamante ad Ettore sì disse: Ettore, e voi duci troiani e collegati, udite. Stolto ardire è il cacciar dentro la fossa gli animosi cavalli. E non vedete il difficile passo e la foresta d'acute travi, che circonda il muro? Di niuna guisa ai cavalier non lice calarsi in quelle strette a far conflitto, senza periglio di mortal ferita. Se il Tonante in suo sdegno ha risoluta degli Achei la ruina e il nostro scampo, ben io vorrei che questo intervenisse qui tosto, e che dal caro Argo lontani perdesser tutti coll'onor la vita. Ma se voltano fronte, e dalle navi erompendo con impeto, nel fondo ne stringono del fosso, allor, cred'io, niuno in Troia di noi nunzio ritorna salvo dal ferro de' conversi Achei. Diam dunque effetto a un mio pensier. Sul fosso ogni auriga rattenga i corridori, e noi pedoni, corazzati e densi tutti in punto seguiam l'orme d'Ettorre. Non sosterranno il nostro urto gli Achivi, se l'ora estrema del lor fato è giunta. Disse; e ad Ettore piacque il saggio avviso. Balzò dunque dal carro incontanente tutto nell'armi, e balzâr gli altri a gara, visto l'esempio di quel divo. Ognuno fe' precetto all'auriga di sostarsi co' destrieri alla fossa in ordinanza; ed essi in cinque battaglion divisi seguiro i duci. Andò la prima squadra con Ettore e col buon Polidamante, ed era questa il fiore e il maggior nerbo de' combattenti, desïosi tutti di spezzar l'alto muro, e su le navi portar la pugna: terzo condottiero li seguìa Cebrïon, messo in sua vece alla custodia dell'ettoreo carro altro men prode auriga. Erano i duci della seconda Paride, Alcatòo ed Agenorre. Della terza il divo Dëifobo ed Elèno ed Asio, il prode d'Irtaco figlio, cui d'Arisba a Troia portarono e dall'onda Selleente due destrier di gran corpo e biondo pelo. Capitan della quarta era d'Anchise l'egregia prole, Enea, co' due d'Antènore pugnaci figli Archìloco e Acamante. Degl'incliti alleati è condottiero Sarpedonte, con Glauco e Asteropèo, da lui compagni del comando assunti come i più forti dopo sé, tenuto il più forte di tutti. In ordinanza posti i cinque drappelli, e di taurine targhe coperti, mossero animosi contro gli Achei, sperando entro le navi precipitarsi alfin senza ritegno. Mentre tutti e Troiani ed alleati al consiglio obbedìan dell'incolpato Polidamante, il duce Asio sol esso lasciar né auriga né corsier non volle, ma vêr le navi li sospinse. Insano! Que' corsieri, quel cocchio, ond'egli esulta, nol torranno alla morte, e dalle navi in Ilio no nol torneran. La nera Parca già il copre, e all'asta lo consacra del chiaro Deucalìde Idomenèo. Alla sinistra del naval recinto ove carri e cavalli in gran tumulto venìan cacciando i fuggitivi Achei, spins'egli i suoi corsier verso la porta, non già di sbarre assicurata e chiusa, ma spalancata e da guerrier difesa a scampo de' fuggenti. Il coraggioso flagellò drittamente i corridori a quella volta, e con acute grida altri il seguìan, sperandosi che rotti, senza far testa, nelle navi in salvo precipitosi fuggirìan gli Achivi. Stolta speranza! Custodìan la porta due fortissimi eroi, germi animosi de' guerrieri Lapiti. Era l'un d'essi Polipète, figliuol di Piritòo, l'altro il feroce Leontèo. Sublimi stavan quivi costor, sembianti a due eccelse querce in cima alla montagna, che ferme e colle lunghe ampie radici abbracciando la terra, eternamente sostengono la piova e le procelle; così fidati nelle man robuste, ben lungi dal voltar per tema il tergo, voltan anzi la fronte i due guerrieri, d'Asio aspettando la gran furia. Ed esso coll'Asiade Acamante, e con Oreste e Jameno e Toone ed Enomào sollevando gli scudi, il forte muro van con fracasso ad assalir. Ma fermi sull'ingresso i due prodi altrui fan core alla difesa delle navi. Alfine visti i Teucri avventarsi alla muraglia d'ogni parte, e fuggir con alto grido di spavento gli Achivi, impeto fece l'ardita coppia: e fiero anzi le porte un conflitto attaccâr, come silvestri verri ch'odon sul monte avvicinarsi il fragor della caccia: impetuosi fulminando a traverso, a sé dintorno rompon la selva, schiantano la rosta dalle radici, e sentir fanno il suono del terribile dente, infine che colti d'acuto strale perdono la vita; di questi due così sopra i percossi petti sonava il luminoso acciaro, e così combattean, nelle gagliarde destre fidando, e nel valor di quelli che di sopra dai merli e dalle torri piovean nembi di sassi alla difesa delle tende, dei legni e di se stessi. Cadean spesse le pietre come spessa la grandine cui vento impetuoso di negre nubi agitator riversa sull'alma terra; né piovean gli strali sol dalle mani achive, ma ben anco dalle troiane, e al grandinar de' sassi smisurati mettean roco un rimbombo gli elmi percossi e i risonanti scudi. Fremendo allor si batté l'anca il figlio d'Irtaco, e disse disdegnoso: O Giove e tu pur ti se' fatto ora l'amico della menzogna? Chi pensar potea contro il nerbo di nostre invitte mani tal resistenza dagli Achei? Ma vélli che come vespe maculose in erti nidi nascoste, a chi dà lor la caccia s'avventano feroci, e per le cave case e pe' figli battagliar le vedi: così costor, benché due soli, addietro dar non vonno che morti o prigionieri. Così parlava, né perciò di Giove si mutava il pensier, che al solo Ettorre dar la palma volea. Aspro degli altri all'altre porte intanto era il conflitto. Ma dura impresa mi sarìa dir tutte, come la lingua degli Dei, le cose. Perocché quanto è lungo il saldo muro tutto è vampo di Marte. Alta costringe necessità, quantunque egri, gli Achei a pugnar per le navi; e degli Achei tutti eran mesti in cielo i numi amici. Qui cominciâr la pugna i due Lapiti. Vibrò la lancia il forte Polipète, e Damaso colpì tra le ferrate guance dell'elmo. L'elmo non sostenne la furïosa punta che, spezzati i temporali, gli allagò di sangue tutto il cerèbro, e morto lo distese: indi all'Orco Pilon spinse ed Ormeno. Né la strage è minor di Leontèo, d'Antìmaco figliuolo anzi di Marte. Sul confin della cintola ei percote Ippomaco coll'asta: indi cavata dal fodero la daga, per lo mezzo della turba si scaglia, e pria d'un colpo tasta Antifonte che supin stramazza; poi rovescia Menon, Jameno, Oreste, tutti l'un sovra l'altro nella polve. Mentre che Polipète e Leontèo delle bell'armi spogliano gli uccisi, la numerosa e di gran core armata troiana gioventude, impazïente di spezzar la muraglia, arder le navi, Polidamante ed Ettore seguìa, i quai repente all'orlo della fossa irresoluti s'arrestâr dubbiando di passar oltre: perocché sublime un'aquila comparve, che sospeso tenne il campo a sinistra. Il fero augello stretto portava negli artigli un drago insanguinato, smisurato e vivo, ancor guizzante, e ancor pronto all'offese; sì che volto a colei che lo ghermìa, lubrico le vibrò tra il petto e il collo una ferita. Allor la volatrice, aperta l'ugna per dolor, lasciollo cader dall'alto fra le turbe, e forte stridendo sparve per le vie de' venti. Visto in terra giacente il maculato serpe, prodigio dell'Egìoco Giove, inorridiro i Teucri, e fatto avanti all'intrepido Ettòr Polidamante sì prese a dir: Tu sempre, ancorché io porti ottimi avvisi in parlamento, o duce, hai pronta contro me qualche rampogna, né pensi che non lice a cittadino né in assemblea tradir né in mezzo all'armi la verità, servendo all'augumento di tua possanza. Dirò franco adunque ciò che il meglio or mi sembra. Non si vada coll'armi ad assalir le navi achee. Il certo evento che n'attende è scritto nell'augurio comparso alla sinistra dell'esercito nostro, appunto in quella che si volea travalicar la fossa, dico il volo dell'aquila portante nell'ugna un drago sanguinoso, immane e vivo ancor. Com'ella cader tosto lasciò la preda, pria che al caro nido giungesse, e pasto la recasse a' suoi dolci nati; così, quando n'accada pur de' Greci atterrar le porte e il muro e farne strage, non pensar per questo di ritornarne con onor; ché indietro molti Troiani lasceremo ancisi dall'argolico ferro, combattente per la tutela delle navi. Ognuno, che ben la lingua de' prodigi intenda e da' profani riverenza ottegna, questo verace interpretar farìa. Lo guatò bieco Ettorre, e gli rispose: Polidamante, il tuo parlar non viemmi grato all'orecchio, e una miglior sentenza or dal tuo labbro m'attendea. Se parli persuaso e davvero, io ti fo certo che l'ira degli Dei ti tolse il senno, poiché m'esorti ad obblïar di Giove le giurate promesse, e all'ale erranti degli augelli obbedir; de' quai non curo, se volino alla dritta ove il Sol nasce, o alla sinistra dove muor. Ben calmi del gran Giove seguir l'alto consiglio, ch'ei de' mortali e degli Eterni è il sommo imperadore. Augurio ottimo e solo è il pugnar per la patria. Perché tremi tu dei perigli della pugna? Ov'anco cadiam noi tutti tra le navi ancisi, temer di morte tu non dei, ché cuore tu non hai d'aspettar l'urto nemico, né di pugnar. Se poi ti rimanendo lontano dal conflitto, esorterai con codarde parole altri a seguire la tua viltà, per dio! che tu percosso da questa lancia perderai la vita. Si spinse avanti così detto, e gli altri con alte grida lo seguiéno. Allora il Folgorante dall'idèa montagna un turbine destò, che drittamente verso le navi sospingea la polve, e agli Achivi rapìa gli occhi e l'ardire, ad Ettorre il crescendo ed a' Troiani che nel prodigio e nelle proprie forze confidati assalîr l'alta muraglia per diroccarla. E già divelti i merli delle torri cadean, già le bertesche si sfasciano, e le leve alto sollevano gli sporgenti pilastri, eccelso e primo fondamento alle torri. Intorno a questi travagliansi i Troiani, ampia sperando aprir la breccia. Né perciò d'un passo s'arretrano gli Achei, ma di taurine targhe schermo facendo alle bastite, ferìan da quelle chi venìa di sotto. Animosi dall'una all'altra torre l'acheo valor svegliando ambo frattanto scorrean gli Aiaci, e con parole or dure or blande rampognando i neghittosi, O compagni, dicean, quanti qui siamo primi, secondi ed infimi (ché tutti non siamo eguali nel pugnar, ma tutti necessari), or gli è tempo, e lo vedete, d'oprar le mani. Non vi sia chi pieghi dunque alle navi per timor di vana minaccia ostil, ma procedete avanti, e l'un l'altro incoratevi, e mertate che l'Olimpio Tonante vi conceda di risospinger l'inimico, e rotto inseguirlo fin dentro alle sue mura. Sì sgridando, animâr l'acheo certame. Come cadono spessi ai dì vernali i fiocchi della neve, allorché Giove versa incessante, addormentati i venti, i suoi candidi nembi, e l'alte cime delle montagne inalba e i campi erbosi, e i pingui seminati e i porti e i lidi: l'onda sola del mar non soffre il velo delle fioccanti falde onde il celeste nembo ricopre delle cose il volto; tale allor densa di volanti sassi la tempesta piovea quinci da' Teucri scagliata e quindi dagli Achivi; e immenso sorgea rumor per tutto il lungo muro. Ma né i Troiani né l'illustre Ettorre n'avrìan le porte spezzato e le sbarre, se alfin contro gli Achei non incitava Giove l'ardir del figlio Sarpedonte, quale in mandra di buoi fiero lïone. Imbracciossi l'eroe subitamente il bel rotondo scudo, ricoperto di ben condotto sottil bronzo, e dentro v'avea l'industre artefice cucito cuoi taurini a più doppi, e orlato intorno d'aurea verga perenne il cerchio intero. Con questo innanzi al petto, e nella destra due lanciotti vibrando, incamminossi qual montano lïon che, stimolato da lunga fame e dal gran cor, l'assalto tenta di pieno ben munito ovile; e quantunque da' cani e da' pastori tutti sull'armi custodito il trovi, senza prova non soffre esser respinto dal pecorile, ma vi salta in mezzo e vi fa preda, o da veloce telo di man pronta riceve aspra ferita: tale il divino Sarpedon dal forte suo cor quel muro ad assalir fu spinto e a spezzarne i ripari. E volto a Glauco d'Ippoloco figliuol, Glauco, gli disse, perché siam noi di seggio, e di vivande e di ricolme tazze innanzi a tutti nella Licia onorati ed ammirati pur come numi? Ond'è che lungo il Xanto una gran terra possediam d'ameno sito, e di biade fertili e di viti? Certo acciocché primieri andiam tra' Licii nelle calde battaglie, onde alcun d'essi gridar s'intenda: Glorïosi e degni son del comando i nostri re: squisita è lor vivanda, e dolce ambrosia il vino, ma grande il core, e nella pugna i primi. Se il fuggir dal conflitto, o caro amico, ne partorisse eterna giovinezza, non io certo vorrei primo di Marte i perigli affrontar, ned invitarti a cercar gloria ne' guerrieri affanni. Ma mille essendo del morir le vie, né scansar nullo le potendo, andiamo: noi darem gloria ad altri, od altri a noi. Disse, né Glauco si ritrasse indietro, né ritroso il seguì. Con molta mano dunque di Licii s'avviâr. Li vide rovinosi e diritti alla sua torre affilarsi il Petìde Menestèo, e sgomentossi. Girò gli occhi intorno fra gli Achivi spïando un qualche duce che lui soccorra e i suoi compagni insieme. Scorge gli Aiaci che indefessi e fermi sostenean la battaglia, e avean dappresso Teucro pur dianzi della tenda uscito. Ma non potea far loro a verun modo le sue grida sentir, tanto è il fragore di che l'aria rimbomba alle percosse degli scudi, degli elmi e delle porte tutte a un tempo assalite, onde spezzarle e spalancarle. Immantinente ei dunque manda ad Aiace il banditor Toota, e, Va, gli dice, illustre araldo, vola, chiama gli Aiaci, chiamali ambedue, ché questo è il meglio in sì grand'uopo. Un'alta strage qui veggo già imminente. I duci del licio stuol con tutta la lor possa qua piombano, e mostrâr già in altro incontro ch'elli son nelle zuffe impetuosi. S'ambo gli eroi ch'io chiedo, in gran travaglio si trovano di guerra, almen ne vegna il forte Aiace Telamònio, e il segua Teucro coll'arco di ferir maestro. Corse l'araldo obbediente, e ratto per la lunga muraglia traversando le file degli Achei, giunse agli Aiaci, e con preste parole, Aiaci, ei disse, incliti duci degli Argivi, il caro nobile figlio di Petèo vi prega d'accorrere veloci, ed aitarlo alcun poco nel rischio in che si trova. Prègavi entrambi per lo meglio. Un'alta strage gli è sopra: perocché di tutta forza si vanno a rovesciar sovr'esso i licii capitani, e di costoro l'impeto è noto nel pugnar. Se voi siete in gran briga voi medesmi, almeno vien tu, forte figliuol di Telamone, e tu, Teucro, signor d'arco tremendo. Tacque, ed il grande Telamònio figlio al figlio d'Oilèo si volse e disse: Tu, Aiace, e tu forte Licomede qui restatevi entrambi, ed infiammate l'acheo coraggio alla battaglia. Io volo colà allo scontro del nemico, e data la chiesta aita, subito ritorno. Partì l'eroe, ciò detto, ed il germano Teucro il seguiva, e Pandïon portante l'arco di Teucro. Costeggiando il muro alla torre arrivâr di Menestèo: ed entrâr nella zuffa, appunto in quella che a negro turbo simiglianti i duci animosi de' Licii avean de' merli già vinto il sommo. Si scontrâr gli eroi fronte a fronte, e levossi alto clamore. Primo l'Aiace Telamònio uccise il magnanimo Epìcle, un caro amico di Sarpedon. Giacea sull'ardua cima della muraglia un aspro enorme sasso, tal che niun de' presenti, anco sul fiore delle forze, il potrebbe agevolmente a due man sollevar. Ma lieve in alto levollo Aiace, e lo scagliò. L'orrendo colpo diruppe il bacinetto, e tutte l'ossa del capo sfracellò. Dall'alta torre il percosso a notator simìle cadde, e l'alma fuggì. Teucro di poi di strale a Glauco il nudo braccio impiaga mentre il muro assalisce, e lo costrigne la pugna abbandonar. Glauco d'un salto giù dagli spaldi gittasi furtivo, onde nessuno degli Achei s'avvegga di sua ferita, e villanìa gli dica. Ben se n'accorse Sarpedonte, ed alta dell'amico al partir doglia il trafisse. Ma non lentossi dalla pugna, e giunto colla lancia il Testòride Alcmeone, gliela ficca nel petto, e a sé la tira. Segue il trafitto l'asta infissa, e cade boccone, e l'armi risonâr sovr'esso. Colla man forte quindi il licio duce un merlo afferra, a sé lo tragge, e tutto lo dirocca. Snudossi al suo cadere la superna muraglia, e larga a molti fece la strada. Allor ristretti insieme mossero contra Sarpedonte i due Telamonìdi, e Teucro d'uno strale al petto il saettò. Raccolse il colpo il lucente fermaglio dell'immenso scudo, ché Giove dal suo figlio allora allontanò la Parca, e non permise che davanti alle navi egli cadesse. L'assalse Aiace ad un medesmo tempo, e allo scudo il ferì. Tutto passollo la fiera punta, ed aspramente il caldo guerrier represse. Dagli spaldi adunque recede alquanto ei sì, ma non del tutto, ché il cor pur anco gli porgea speranza della vittoria, e al suo fedel drappello rivoltosi, gridò: Licii guerrieri, perché l'impeto vostro si rallenta? Benché forte io mi sia, solo poss'io atterrar questo muro, ed alle navi aprir la strada? A me v'unite or dunque, ché forza unita tutto vince. - Ei disse, e vergognosi rispettando i Licii le regali rampogne, s'addensaro dintorno al saggio condottier. Dall'altro lato gli Argivi nell'interno muro rinforzan le falangi, e d'ambe parti cresce il travaglio della dura impresa. Perocché né il valor degli animosi Licii a traverso dell'infranto muro alle navi potea farsi la strada, né i saettanti Achei dall'occupata muraglia i Licii discacciar: ma quale in poder che comune abbia il confine, fan due villan, la pertica alla mano, del limite baruffa, e poca lista di terra è tutto della lite il campo: così dei merli combattean costoro, e sovra i merli contrastati un fiero spezzar si fea di scudi e di brocchieri su gli anelanti petti; e molti intorno cadean gli uccisi; altri dal crudo acciaro nel voltarsi trafitti il tergo ignudo; altri, ed erano i più, da parte a parte trapassati le targhe. Da per tutto torri e spaldi rosseggiano di sangue e troiano ed acheo; né fra gli Achei nullo ancor segno si vedea di fuga. Siccome onesta femminetta, a cui procaccia il vitto la conocchia, in mano tien la bilancia, e vi sospende e pesa con rigorosa trutina la lana, onde i suoi figli sostentar di scarso alimento; così de' combattenti equilibrata si tenea la pugna, finché l'ora pur venne in che dovea spinto da Giove superar primiero Ettore la muraglia. Alza ei repente la terribile voce, ed, Accorrete, grida, o forti Troiani, urtate il muro, spezzatelo, gittate alfin le fiamme vendicatrici nella classe achea. L'udiro i Teucri, ed incitati e densi avventârsi ai ripari, e sovra il muro montâr coll'aste in pugno. Appo le porte un immane giacea macigno acuto: non l'avrìan mosso agevolmente due de' presenti mortali anche robusti per carreggiarlo. A questo diè di piglio Ettore; ed alto sollevollo, e solo senza fatica l'agitò; ché Giove in man del duce lo rendea leggiero. E come nella manca il mandrïano lieve sostien d'un arïète il vello, insensibile peso; a questa guisa Ettore porta sollevato in alto l'enorme sasso, e va dirittamente contro l'assito che compatto e grosso delle porte munìa la doppia imposta, da due forti sbarrata internamente spranghe traverse, ed uno era il serrame. Fattosi appresso, ed allargate e ferme saldamente le gambe, onde con forza il colpo liberar, percosse il mezzo. Al fulmine del sasso sgangherârsi i cardini dirotti; orrendamente muggîr le porte, si spezzâr le sbarre, si sfracellò l'assito, e d'ogni parte le schegge ne volâr; tale fu il pondo e l'impeto del sasso che di dentro cadde e posò. Pel varco aperto Ettorre si spinse innanzi simigliante a scura ruinosa procella. Folgorava tutto nell'armi di terribil luce; scotea due lance nelle man; gli sguardi mettean lampi e faville, e non l'avrìa, quando ei fiero saltò dentro le porte, rattenuto verun che Dio non fosse. Alle sue schiere allor si volse, e a tutte comandò di varcar l'achea trinciera. Obbediro i Troiani; immantinente altri il muro salîr, altri innondaro le spalancate porte. Al mar gli Achivi fuggono, e immenso ne seguìa tumulto.
Poiché Giove appressati ebbe alle navi con Ettore i Troiani, ivi in travaglio incessante lasciolli: e volti indietro i fulgid'occhi a riguardar si pose del Trace di cavalli agitatore la contrada e de' Misii a stretta pugna valorosi guerrieri e de' famosi Ippomolghi, giustissimi mortali che di latte nudriti a lunga etade producono i lor dì: né più di Troia dava un guardo alle mura, in sé pensando che nessun Dio discendere de' Teucri o de' Greci in aita oso sarebbe. Né invan si stava alla vedetta intanto il re Nettunno che su l'alte assiso selvose cime della tracia Samo contemplava di là l'aspro conflitto; e tutto l'Ida e Troia e degli Achei le folte antenne si vedea davanti. Ivi uscito dell'onde egli sedea, e del cader de' Greci impietosito contro Giove fremea d'alto disdegno. Ratto spiccossi dall'alpestre vetta e discese. Tremâr le selve e i monti sotto il piede immortal dell'incedente irato Enosigèo. Tre passi ei fece, e al quarto giunse alla sua meta in Ege, ove d'auro corruschi in fondo al mare sorgono eccelsi i suoi palagi eterni. Qui venuto i veloci oro-criniti eripedi cavalli al cocchio aggioga. In aurea vesta si ravvolge tutta la divina persona, ed impugnato l'aureo flagello di gentil lavoro monta il carro, e leggier vola su l'onda. Dagl'imi gorghi uscite a lui dintorno, conoscendo il re lor, l'ampie balene esultano, e per gioia il mar si spiana. Così rapide volano le rote che dell'asse né pur si bagna il bronzo; e gli agili cavalli a tutto corso verso le navi achee portano il Dio. Fra Tènedo e fra l'aspra Imbro nell'imo s'apre dell'alto sale ampia spelonca. Qui giunto il nume i corridor sostenne, e dal temo gli sciolse, e ristorati d'ambrosio cibo, gli allacciò di salde auree pastoie d'insolubil nodo, onde attendean lì fermi il redituro re lor che al campo degli Achei s'indrizza. Una fiamma sembianti o una procella, affollati, indefessi, e d'alte grida l'aria empiendo i Troiani e furïando seguon d'Ettore i passi, il cor ripieni della speranza d'occupar le navi, e tra le navi sterminar gli Achei. Ma di Calcante presa la sembianza e la gran voce, raccendea Nettunno gli argolici guerrieri; e pria rivolto agli Aiaci gridava: Ah vi ricordi che il campo achivo col valor si salva, non col freddo timor. Non io de' Teucri, che in folla superâr l'alta muraglia, le ardite mani agli altri posti or temo, ove a tutti terran fronte gli Achei; ma qui tem'io d'assai qualche sinistro, qui dove questo inviperito Ettorre, che del gran Giove si millanta figlio, guida i Teucri, e s'avventa come fiamma. Ma se in mente a voi pone un qualche iddio di contrastargli, e di dar core altrui, certo mi fo che lungi dalle navi respingerete il suo furor, foss'anco lo stesso Giove che gl'infonde ardire. Così parla Nettunno, e collo scettro toccandoli ambidue, per le lor membra una divina vigorìa diffuse, che tutta alleggerendo la persona alle man polso aggiunse, ed ali al piede; e ciò fatto, sparì colla prestezza di veloce sparvier, che nella valle visto un augello, da scoscesa rupe si precipita a piombo su la preda. Aiace d'Oilèo s'accorse il primo del portento; e al figliuol di Telamone di subito converso, Amico, ei disse, colui che ne parlò non egli al certo è l'indovino augurator Calcante, ma qualche dell'Olimpo abitatore che ne prese le forme, e ne comanda di pugnar per le navi. Agevolmente si riconosce un nume, ed io da tergo lui conobbi all'incesso appunto in quella che si partiva, e me l'avvisa il core che di battaglia più che mai bramoso mi ferve in petto sì, che mani e piedi brillar mi sento del desìo di pugna. E a me, risponde il gran Telamonìde, a me pur brilla intorno a questa lancia l'audace destra, e il cor mi cresce in seno, e l'impulso de' piè sento di sotto sì, che pur solo d'azzuffarmi anelo coll'indomito Ettorre. - Era di questi tale il discorso, e tal dell'armi il caldo desir che in petto avea lor posto il nume. Nettunno intanto degli Achei ridesta l'ultime file, che scorate e stanche dal marzïal travaglio appo i navigli prendean respiro, e di gran duol cagione era loro il veder che l'alto muro avean varcato con tumulto i Teucri. Piovea lor dalle ciglia a quella vista un largo pianto, di scampar perduta ogni speranza. Ma col pronto arrivo le ravvivò Nettunno; e pria Leìto e Teucro e Dëipìro e Penelèo e Merïone e Antìloco e Toante, tutti eroi bellicosi, inanimando, Oh vergogna! esclamò, così combatte or dell'argiva gioventude il fiore? nel valor delle vostre armi io sperava salve le navi: ma se voi la fiera pugna cessate, il dì supremo è questo della nostra caduta. Oh cielo! oh indegno spettacolo ch'io veggo, e ch'io non mai possibile credea! fino alle navi irrompere i Troiani, essi che dianzi non eran osi né un momento pure far fronte ai Greci, e ne fuggìan la possa come timide cerve, che vaganti per la foresta, e imbelli e senza core son di linci, di lupi e leopardi l'ingorde canne a satollar serbate. Or ecco che lontan dalla cittade fino alle navi la battaglia spingono colpa del duce Atride e noncuranza de' guerrier che con esso incolloriti, anzi che a scampo delle navi armarsi, trucidar vi si fanno. E nondimeno benché l'Atride eroe veracemente sia di ciò tutto la cagion, per l'onta ch'egli fece al Pelìde, a noi non lice a verun patto abbandonar la pugna. Via, s'emendi l'error: le generose alme i lor falli a riparar son preste; né voi, sendo i più forti, onestamente il valor vostro rallentar potete; ned io col vile che pugnar ricusa so corrucciarmi, ma con voi mi sdegno altamente, con voi che fatti or molli ed ignavi e codardi un maggior danno vi preparate. In sé ciascuno adunque il pudor svegli e del disnor la tema. Grande è il certame che s'accese: il prode Ettore è quegli che le navi assalta, e le porte già ruppe e l'alta sbarra. Da questi di Nettunno acri conforti incoraggiate le falangi achee si strinsero agli Aiaci in sì bel cerchio, che stupito n'avrìa Marte e la stessa Minerva de' guerrieri eccitatrice. Questo fior di gagliardi il duro assalto de' Troiani e d'Ettòr fermo attendea, come siepe stipando ed appoggiando scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo e guerriero a guerrier; sì che gli eccelsi cimier su i coni rilucenti insieme confondean l'onda delle chiome equine. Così densati procedean di punta contra il nemico questi forti, ognuno nella robusta mano arditamente bilanciando il suo telo, e di dar dentro tutti vogliosi. Fur primieri i Teucri stretti insieme a far impeto precorsi dall'intrepido Ettòr, pari a veloce rovinoso macigno che torrente per gran pioggia cresciuto da petrosa rupe divelse e spinse al basso; ei vola precipite a gran salti, e si fa sotto la selva risonar; né il corso allenta finché giunto alla valle ivi si queta immobile. Così pel campo Ettorre seminando la strage, infino al mare penetrar minacciava, e senza intoppo fra le navi cacciarsi e fra le tende. Ma come a fronte ei giunse della densa falange s'arrestò, vano vedendo di spezzarla ogni mezzo: e di rincontro l'appuntâr colle lance e colle spade sì fieri i figli degli Achei, che a forza l'allontanâr. Respinto ei diede addietro, ed alto a' suoi gridò: Troiani, e Licii e Dardani, deh voi fermo tenete; ché, benché denso, lo squadron nemico non sosterrammi a lungo, e all'urto io spero della mia lancia piegherà, se invano non eccitommi il più possente Iddio, l'altitonante di Giunon marito. Di ciascuno destâr la lena e il core queste parole. Allor di Priamo il figlio con grande ardir Dëìfobo si mosse, e davanti portandosi lo scudo che tutto il ricopriva, a lento passo s'avanzò. Merïon di mira il prese colla fulgida lancia, e in pieno il colse nello scudo taurin, ma di forarlo non gli successe, ché alla prima falda l'asta si franse. Paventando il telo del bellicoso Merïon, dal petto discostossi Dëìfobo il brocchiero, e l'argolico eroe vista spezzarsi la lancia, e tolta la vittoria, irato si ritrasse fra' suoi, quindi lunghesso le navi ei corse alla sua tenda in cerca d'un riposto lancion. La pugna intanto cresce, ed immenso si solleva il grido. Il Telamònio Teucro innanzi a tutti Imbrio distese, acerrimo guerriero, cui Mentore di ricche equestri razze possessor generò. Tenea costui pria dell'arrivo degli Achei suo seggio in Pedèo, disposata la leggiadra Medesicaste, del troiano Sire spuria figliuola. Ma venuti i Greci rivenne ad Ilio ei pure, e fra' Troiani distinto di valor nelle regali case abitava, e il re tenealo in pregio del par che i figli. A costui l'asta infisse sotto l'orecchio il buon Telamonìde, e tosto ne la svelse. Imbrio cadéo a frassino simìl, che su la cima d'una montagna da lontan veduta reciso dalla scure al suolo abbassa le sue tenere chiome; così cadde riverso, e l'armi gli sonâr dintorno. Di rapirle bramoso immantinente Teucro accorse: ma pronto in lui diresse la fulgid'asta Ettòr. L'altro che a tempo del colpo s'avvisò, scansollo alquanto, ed in sua vece lo raccolse in petto il figliuol dell'Attoride Cteato Amfimaco, che appunto in quel momento entrava nella mischia. Strepitoso ei cadde, e sopra gli tonò l'usbergo. A levar del magnanimo caduto dalla fronte il bell'elmo Ettore vola, ma d'Aiace l'aggiunse il fulminato splendido telo, che l'ettoreo petto non offese egli, no (ché tutto quanto era nel ferro orribilmente chiuso), ma di tal forza gli percosse il colmo dello scudo, che pur lo risospinse, sì che scostarsi fu mestier dall'uno cadavere e dall'altro, ed agli Achivi abbandonarli. Amfimaco fra' suoi fu ritratto da Stichio e Menestèo Atenèi condottieri; Imbrio da' forti Aiaci, simiglianti a due leoni che tolta al dente di gagliardi cani una capra talor, fra i densi arbusti la portano del bosco alta da terra nell'orrende mascelle. A questa guisa sublime fra le braccia i due guerrieri d'Imbrio la salma ne portaro, e a lui, trattegli l'armi, il figlio d'Oilèo, della morte d'Amfimaco sdegnoso, mozza la testa fe' volar dal busto; indi fra i Teucri la gittò rotata come lubrico globo, e al piè d'Ettorre la travolse sanguigna nella polve. Non fu senz'alto di Nettun disdegno d'Amfimaco la morte al Dio nipote. Risoluto in suo cor de' Teucri il danno, fra le navi e le tende il corruccioso nume avvïossi ad animar gli Achivi. Scontrollo Idomenèo, che appunto in quella un amico lasciava a lui poc'anzi fuor della pugna dai compagni addutto e ferito al ginocchio. Ai medicanti commessane la cura il re cretese da quella tenda si partìa, pur sempre desideroso di battaglia. Ed ecco (preso il volto e la voce di Toante d'Andremone figliuol, che di Pleurone e dell'eccelsa Calidon signore agli Etoli imperava, e al par d'un nume lo riverìa la gente), ecco Nettunno farglisi innanzi, e dire: Idomenèo consiglier de' Cretesi, ove n'andaro le minacciate ai Teucri alte minacce da' figli degli Achei? - Nullo qui manca al suo dover, rispose il gnossio duce, nullo, per mio sentire, e sappiam tutti pugnar. Nessun da vil tema è preso, nessun fiaccato da desidia fugge l'affanno marzïal. Ma del possente Giove quest'è la fantasia, che lungi dalla patria perire inonorati qui debbano gli Achei. Ma tu che fosti sempre un forte, o Toante, e altrui se' uso destar coraggio, se allentar lo vedi, segui a farlo, e rinfranca ogni guerriero. Possa da Troia, replicò Nettunno, non si far più ritorno, e qui de' cani rimanersi sollazzo, ognun che cerchi in questo giorno abbandonar la pugna. Va, ti rïarma, e vieni, e tenteremo, benché due soli, di far tale un fatto ch'utile torni. La congiunta forza pur degl'imbelli è di momento, e noi ancor co' prodi guerreggiar sappiamo. Disse, e mischiossi il Dio nel travaglioso mortal conflitto. Rïentrò veloce nella sua tenda Idomenèo, di belle armi vestissi tutto quanto, e tolte due lance s'avvïò, simile in vista alla corrusca folgore che Giove vibra dall'alto a sgomentar le genti, e di lucidi solchi il ciel lampeggia; così splendea l'acciaro intorno al petto del frettoloso eroe. Lungi di poco dalla tenda scontrollo il suo fedele Merïon, che venìa d'altr'asta in cerca. Figlio di Molo, Idomenèo gli disse, ove corri sì ratto? e perché lasci, diletto amico Merïon, la pugna? Se' tu forse ferito, e qualche punta ti tormenta di strale? od a recarmi qualche avviso ne vieni? Andiam, ch'io stesso non di riposi, ma di pugna ho brama. Vengo, rispose Merïon, d'un'asta a provedermi, Idomenèo, se alcuna te ne rimase al padiglion. La mia alla scudo la ruppi del feroce Dëìfobo. - Non una, il re riprese, ma venti, se le brami, alla parete ne troverai poggiate entro la tenda, tutte belle e troiane e da me tolte ad uccisi nemici. Io li combatto sempre dappresso, e così d'aste io feci e d'elmetti e di scudi ombelicati e di lucidi usberghi un tanto acquisto. Ed io pur nella tenda e nella nave ho molte spoglie de' Troiani in serbo, soggiunse Merïon; ma lungi or sono. E neppur io mi spero in obblïanza aver posto il valor; ché anch'io ne' campi della gloria so starmi in mezzo ai primi, quando di Marte la tenzon si desta. Forse al più degli Achei mal noto in guerra è il mio valor, ma tu il conosci, io spero. Sì, lo conosco, Idomenèo riprese, ma che ridirlo or tu? L'agguato è il campo ove in sua chiarità splende il coraggio, e dal codardo si discerne il prode. Color cangia il codardo, e il cor mal fermo non gli permette di tenersi immoto un solo istante; mancagli il ginocchio, sul calcagno s'accascia, e immaginando vicino il suo morir, l'alma nel seno palpita e trema dibattendo i denti. Ma collocato nell'insidia il forte né cor cangia né volto, e della zuffa il momento sospira. E a noi tenuti tra' più gagliardi, se l'andar ne tocchi d'un agguato al periglio, a noi pur anco e del tuo braccio e del tuo cor palese si farìa la virtù. Se nella pugna fia che ti colga un qualche telo, al certo il tergo no ma piagheratti il petto, e diritto corrente all'inimico, e tra' primieri avvolto, e nel più denso della battaglia. Ma non più parole; onde a caso qualcun sopravvenendo di vanitosi cianciatori a dritto non ci getti rampogna. Orsù, t'affretta nella tenda, e una forte asta ti piglia. Disse, e l'altro volò, prese veloce una ferrata lancia, e la battaglia anelando, raggiunse Idomenèo. Qual s'avanza al conflitto il sanguinoso nume dell'armi, e suo diletto figlio l'accompagna il Terror che audace e forte anco i più fermi fa tremar; l'orrenda coppia lasciati della Tracia i lidi va degli Efìri a guerreggiar le genti o i magnanimi Flegii, e non ascolta più quei che questi, ancor dubbiando a cui la vittoria invïar; tali nel ferro lampeggianti procedono alla pugna, condottieri di prodi, Idomenèo e Merïone, che primier dicea: Da qual parte in battaglia entrar t'aggrada, o Deucalìde valoroso? a destra o pur nel centro? o sosterrem più tosto la sinistra? Gli è quivi, a mio parere, che di soccorso ai nostri è più mestiero. Il centro ha buoni difensor, rispose il re di Creta, ha l'uno e l'altro Aiace e il più prestante saettier de' Greci Teucro, gagliardo combattente insieme a piè fermo. Daran questi ad Ettorre, per audace ch'ei sia, molto travaglio nella fervida mischia, e costar caro gli faranno il tentar di superarne l'invitta forza, e i minacciati legni colle fiamme assalir, se pur lo stesso Giove non scenda colle proprie mani a gittarvi gl'incendii. A mortal uomo che sia di frutto cereal nudrito, e cui possa del ferro o delle pietre il colpo vïolar, non fia che mai il grande Aiace Telamònio ceda, non allo stesso violento Achille che di corso bensì, ma fior nol vince nel pugnar di piè fermo. Or noi del campo rivolgiamci alla manca, e vediam tosto se darem gloria ad altri, od altri a noi. Volâr, ciò detto, alla prefissa meta. I Troiani, veduto Idomenèo come vampa di foco alla lor volta col suo scudier venirne, orrendo ei pure di scintillanti arnesi, inanimando sé medesmi a vicenda, ad incontrarli mossero tutti di conserto. Allora surse avanti alle poppe aspro conflitto. A quella guisa che ne' caldi giorni, quando copre le vie la molta polve, s'alza turbo di vento che solleva sibilando di sabbia una gran nube; tali ardendo nel cor di porsi a morte co' ferri acuti, s'attaccâr le schiere. Irto era tutto il campo (orrida vista!) di lunghe aste impugnate, e il ferreo lampo degli usberghi, degli elmi e degli scudi tutti in confuso folgoranti e tersi facea barbaglio agli occhi; e stato ei fôra ben audace quel cor che vista avesse tranquillo e lieto la crudel contesa. Così divisi di favor li due possenti figli di Saturno, acerbe ordìan gravezze ai combattenti eroi. Di qua Giove ai Troiani e al forte Ettorre la vittoria desìa; non ch'egli intero voglia lo scempio della gente achea, ma sol quanto a innalzar del grande Achille basti la gloria ed onorar la madre: di là furtivo da' suoi gorghi uscito Nettunno infiamma colla dìa presenza degli Argivi il coraggio, e del vederli domi dai Teucri doloroso freme contro Giove di sdegno. Una è d'entrambi l'origine divina e il nascimento: ma nacque Giove il primo, e più sapea. Quindi il minor fratello alla scoperta oso non era d'aitarli, e solo celatamente ed in sembianza umana infondea loro ardire. A questo modo l'un nume e l'altro agli uni e agli altri iniqua d'aspre discordie ordiro una catena che né spezzare si potea né sciorre, e che stese di molti al suol la forza. Quantunque sparso di canizie il crine, con vigor fresco allora Idomenèo, fatto ai Greci coraggio, i Teucri assalse, e sbaragliolli, ucciso Otrïonèo. Di Càbeso poc'anzi era costui venuto al grido della guerra, e a sposa la più bella chiedea, senza dotarla, delle fanciulle prïamèe, Cassandra; e l'alta impresa di scacciar da Troia lor malgrado gli Achivi impromettea. Gli avea di questo intenzïon già data il re vecchio e l'assenso, ed animato dalle promesse il vantator pugnava arditamente, ed incedea superbo. Colla fulgida lancia Idomenèo l'adocchiò, lo colpì, gl'infisse il telo in mezzo all'epa dalle piastre invano del torace difesa. Alto fragore diè cadendo il guerriero, e l'insultando il vincitor sì disse: Otrïonèo, se tutte che tu festi al re troiano alte promesse adempirai, su tutti i mortali pur io terrotti in pregio. Priamo la figlia ti promise, e noi altra sposa t'offriam, la più leggiadra delle figlie d'Atride, e lei qui tosto farem d'Argo venir, a questo patto che tu di Troia ad espugnar n'aiti la superba città. Dunque ne segui, onde alle navi contrattar le nozze, e suoceri n'avrai larghi e cortesi. Sì dicendo, per mezzo alla battaglia strascinollo d'un piede. A vendicarlo avanzossi pedon nanzi al suo carro Asio, e anelanti al tergo gli guidava il fido auriga i corridor. Mentr'egli a ferir d'un bel colpo Idomenèo tutto intende il suo cor, questi il prevenne e la lancia gli spinse nella gola sotto il mento, e passolla. Asio cadéo siccome quercia o pioppo od alto pino cui sul monte tagliâr con raffilate bipenni i fabbri a nautic'uso. Ei giacque lungo a terra disteso innanzi al cocchio, e digrignava i denti, e colle mani strignea rabbioso la cruenta polve. Smarrì l'auriga il cor, né per sottrarsi alla man de' nemici addietro osava dar volta al cocchio. Il giunse in quello stato Antìloco coll'asta, e in mezzo al ventre lo trivellò, che nulla lo difese l'interzata lorica. Ei dal bel carro riversossi anelante, ed ai cavalli dato di piglio il vincitor, dai Teucri li sospinse agli Achei. D'Asio caduto Dëìfobo dolente colla picca si strinse addosso al re di Creta, e trasse. Previde il colpo, e curvo Idomenèo sotto il grand'orbe si raccolse tutto dello scudo taurin che di fulgente ferro il contorno e doppia avea la guiggia. Riparato da questo egli la punta schivò dell'asta ostil che sorvolando veloce delibò nel suo trascorso lo scudo, e secco risonar lo fece. Né indarno uscì dalla man forte il telo, ma l'Ippaside Ipsènore percosse sotto i precordi, e l'atterrò. Gran vanto si diè sul morto l'uccisor, gridando: Asio non giace inulto, e alle tremende porte scendendo di Pluton mi spero fia del compagno, ch'io gli do, contento. Contristò degli Achei quel vanto i petti, d'Antìloco su gli altri il bellicoso cor ne fu tocco; né lasciò per questo in abbandon l'amico, anzi accorrendo lo coprì dello scudo, e lo protesse sì che Alastorre e Mecistèo, due cari dall'estinto compagni, in su le spalle recarselo potero ed alle navi trasportarlo, mettendo alti lamenti. Non rallentava Idomenèo frattanto il magnanimo core, e vie più sempre l'infiammava la brama o di coprire qualche Troiano dell'eterna notte, o far di sua caduta egli medesmo risonante il terren, sol che de' Greci allontani l'eccidio. Era fra' Teucri un caro figlio d'Esïèta, il prode Alcatòo, già consorte alla maggiore delle figlie d'Anchise Ippodamìa, che al genitor carissima e alla madre onoranda matrona, ogni compagna vincea di volto e di prudenza, esperta in tutte l'arti di Minerva; ond'ella d'un de' più chiari fra gli eroi fu sposa di quanti Ilio n'avea nel suo gran seno. Ma sotto la cretense asta domollo Nettunno; e prima gli annebbiò le luci, poi per le belle membra gli diffuse tale un torpor, che né fuggirsi addietro né scansarsi potea, ma immoto e ritto come colonna o pianta alto chiomata stavasi; e tale lo colpì nel petto d'Idomenèo la lancia, e la lorica, della persona inutile difesa, gli traforò. Diè un rauco e sordo suono il lacerato usbergo; strepitoso Alcatòo cadde, e il battere del core fe' la cima tremar dell'asta infissa, ch'ivi alfin tutta si quetò. Superbo del glorïoso colpo Idomenèo alto sclamò: Dëìfobo, e' ti sembra che ben s'adegui con tre morti il conto d'un solo? Inane fu il tuo vanto, o folle. Viemmi a fronte e vedrai qual io mi vegna qui rampollo di Giove. Ei primo ceppo Minosse generò giusto di Creta conservator, Minosse il generoso Deucalïone, e questi me nell'ampia Creta di molto popolo signore; ed ora a Troia mi portâr le navi a te fatale e al padre e a tutti i Teucri. Stette all'acre parlar fra due sospeso Dëìfobo, se in cerca retroceda d'un valoroso che l'aiuti, o s'egli si cimenti pur solo. In tal pensiero ir d'Anchise al figliuol gli parve il meglio, e negli estremi lo trovò del campo stante e il cor roso di perpetuo cruccio, perché lui, che tra' prodi avea gran fama, inonorato il re troian lasciava. Venne a lui dunque, e così disse: Enea chiaro de' Teucri capitan: se cura de' congiunti ti tocca, il tuo cognato esanime soccorri. Andiam, la morte vendichiam d'Alcatòo che un dì marito di tua sorella t'educò bambino, e ch'or d'Idomenèo l'asta ti spense. Si commosse l'eroe racceso il petto del desìo della pugna, ed alla volta d'Idomenèo volò. Né già si volse come fanciullo in fuga il re cretese, ma fermo stette ad aspettarlo. E quale cinghial che sente le sue forze, aspetta in solitario loco alla montagna de' cacciator la turba: alto sul dosso arriccia il pelo, e una terribil luce lampeggiando dagli occhi i denti arruota, di sbaragliar le torme impazïente degli uomini e de' cani: in tal sembianza fermo si stava Idomenèo, l'assalto aspettando d'Enea. Pur volto a' suoi, Ascàlafo chiamonne ed Afarèo e Dëipìro e Merïone e Antìloco mastri di guerra, e gl'incitò con queste ratte parole: Amici, a darmi assalto corre il figlio d'Anchise: egli è di stragi operator gagliardo, e ciò che forma il maggior nerbo, ha pur degli anni il fiore. Io son qui solo, né del par la fresca gioventù mi sorride. Ove ciò fosse, con questo cor qui tosto glorïoso o lui mia morte, o me la sua farebbe. Disse, e tutti gli fur concordi al fianco con gl'inclinati scudi. Enea dall'altra parte eccitando i suoi compagni appella Dëìfobo a soccorso e Pari e il divo Agènore, che tutti eran con esso condottieri de' Teucri, e li seguìa molta man di guerrieri, a simiglianza di pecorelle che dal prato al fonte van su la traccia del lanoso duce, e ne gode il pastor; tale d'Enea pel seguace squadron l'alma gioisce. Colle lungh'aste intorno ad Alcatòo s'azzuffâr questi e quelli. Intorno ai petti orribilmente risonava il ferro de' combattenti, e due guerrier famosi d'Anchise il figlio e il regnator di Creta pari a Marte ambedue con dispietato ferro a vicenda di ferirsi han brama. Trasse primiero Enea, ma visto il colpo, l'avversario schivollo, e tremolante al suol s'infisse la dardania punta invan fuggita dalla man robusta. Idomenèo percosse a mezzo il ventre Enòmao. Spezzò l'asta l'incavo della corazza, e gl'intestini incise, sì ch'egli cadde nella polve, e strinse colle pugna il sabbion. Svelse dal morto la lancia il vincitor, ma le bell'armi rapirgli non poteo, ché degli strali l'opprimea la tempesta, e non avea salde al correr le gambe e al ripigliarsi l'asta scagliata, ed a schivar l'ostile. Quindi a piè fermo ei ben sapea per anco la morte allontanar, ma dal conflitto mal nel bisogno sottraealo il piede. Dëìfobo che caldo il cor di rabbia sempre in lui mira, vistolo ritrarsi a lenti passi, gli avventò, ma indarno pur questa volta, il telo che veloce via trasvolando Ascàlafo raggiunse prole di Marte, e all'omero il trafisse. Ei cadde, e steso brancicò la polve: né del caduto figlio allor veruna ebbe notizia il vïolento Iddio, che dal comando di Giove impedito stava in quel punto su le vette assiso dell'Olimpo, e il coprìa d'oro una nube misto agli altri Immortali a cui vietato era dell'armi il sanguinoso ludo. Una pugna crudel sul corpo intanto d'Ascàlafo incomincia. Al morto invola Dëìfobo il bell'elmo; e Merïone tale sul braccio al rapitor disserra di lancia un colpo, che di man gli sbalza risonante al terren l'aguzzo elmetto. E qui di nuovo Merïon scagliossi come fiero avoltoio, e dal nemico braccio sconfitta dell'astil la punta si ritrasse tra' suoi. Corse al ferito il suo german Polìte, e per traverso l'abbracciando il cavò dal rio conflitto, ed in parte venuto ove l'auriga lungi dall'armi co' cavalli il cocchio in pronto gli tenea, questi il portaro gemente, afflitto e per la fresca piaga tutto sangue la mano alla cittade. Cresce intanto la pugna e al ciel ne vanno immense grida. Enea d'asta colpisce nella gola Afarèo Caletorìde che l'investìa di fronte. Riversossi dall'altra parte il capo, e n'andâr seco l'elmo e lo scudo, e lui la morte avvolse. Visto Toone che volgea le terga, Antìloco l'assalta, e al fuggitivo netta incide la vena che pel dosso quanto è lungo scorrendo al collo arriva, netta l'incide, e resupino ei casca nella sabbia, stendendo a' suoi compagni ambe le mani. Gli fu ratto addosso Antìloco, e dell'armi il dispogliando gli occhi ai Teucri tenea, che d'ogni parte serrandolo, il lucente ampio pavese gli tempestan di dardi, e mai veruno di tanti teli disfiorar del figlio di Nestore il gentil corpo potea, ché da tutti il guardava attentamente l'Enosigèo Nettunno. Ed il guerriero, non che ritrarsi dai nemici, sempre coll'asta in moto s'avvolgea fra loro pronto a ferir da lungi e da vicino. Mentre in cor volge nuovi danni, il vede l'Asïade Adamante, e in lui repente impeto fatto colla lancia il fere a mezza targa. Preservò del Greco la vita il nume dalle chiome azzurre, e spezzò le nemica asta che mezza rimase infissa nello scudo a guisa d'adusto palo, e mezza giacque a terra. Diede addietro a tal vista il feritore salvandosi fra' suoi. Ma Merïone spinse l'asta nel ventre al fuggitivo fra l'umbilico e il pube, ove del ferro è mortal la ferita, e lo confisse. Cadde il confitto su la lancia, e tutto si contorcea qual bue, cui di ritorte funi annodato su pel monte a forza strascinano i bifolchi, e tale anch'egli si dibattea; ma il suo penar fu breve: ché tosto accorse Merïone, e svelta l'asta dal corpo, l'acchetò per sempre. Grande e battuta su le tracie incudi alza Eleno la spada, ed alla tempia Dëìpiro fendendo gli dirompe l'elmo, e dal capo glielo sbalza in terra. Ruzzolò risonante la celata fra le gambe agli Achivi, e fu chi tosto la raccolse: ma negra eterna notte Dëìpiro coperse. Addolorato del morto amico il buon minore Atride, contro il regale eroe che a morte il mise, minaccioso avanzossi, alto squassando l'acuta lancia; ed Eleno a rincontro l'arco tese. Affrontârsi ambo i guerrieri, bramosi di vibrar quegli la picca, questi lo strale. Saettò primiero di Priamo il figlio, e colpì l'altro al petto nel cavo del torace. Il rio quadrello via volò di risalto, e a quella guisa che per l'aia agitato in largo vaglio al soffiar dell'auretta ed alle scosse del vagliator sussulta della bruna fava o del cece l'arido legume; dall'usbergo così di Menelao resultò risospinto il dardo acerbo. Di risposta l'Atride al suo nemico ferì la man che il liscio arco strignea, e all'arco stesso la confisse. In salvo retrocesse fra' suoi tosto il ferito, cui penzolava dalla man l'infisso frassìneo telo. Glielo svelse alfine il generoso Agènore, e la piaga destramente fasciò d'una lanosa fionda che pronta il suo scudier gli avea. Al trïonfante Atride si converse Pisandro allor di punta, e negro fato a cader lo spigneva in rio certame sotto i tuoi colpi, o Menelao. Venuti ambo all'assalto, gittò l'asta in fallo il figliuolo d'Atrèo. Colse Pisandro lo scudo ostil, ma non passollo il telo dalla targa respinto e nell'estrema parte spezzato; nondimen gioinne colui nel core, e vincitor si tenne. Tratto il fulgido brando, allor l'Atride avventossi al nemico, e questi all'ombra dello scudo impugnò ferrata e bella una bipenne, nel polito e lungo manico inserta di silvestre olivo. Mossero entrambi ad un medesmo tempo. Al cono dell'elmetto irto d'equine chiome sotto il cimier Pisandro indarno la scure dechinò; l'altro lui colse nella fronte, e del naso alla radice. Crepitò l'osso infranto, e sanguinosi gli cascâr gli occhi nella polve al piede. Incurvossi cadendo, e Menelao d'un piè calcato dell'ucciso il petto, l'armi n'invola, e glorïoso esclama: Ecco la via per cui de' bellicosi Dànai le navi lascerete alfine, perfidi Teucri ognor di sangue ingordi. Vi fu poco l'aver, malvagi cani, con altra fellonia, con altre offese vïolati i miei lari, e del tonante Giove ospital sprezzata la tremenda ira che un giorno svellerà dal fondo l'alta vostra città; poco il rapirmi una giovine sposa e assai ricchezza da nulla ingiuria offesi, anzi a cortese ospizio accolti e accarezzati. Or anco desìo vi strugge di gittar nel mezzo delle navi le fiamme, e degli achivi eroi far scempio. Ma verrà chi ponga vostro malgrado a furor tanto il freno. Giove padre, per certo uomini e Dei di saggezza tu vinci, e nondimeno da te vien tutto sì nefando eccesso, da te de' Teucri difensor, di questa sempre d'oltraggi e d'ingiustizie amica razza iniqua che mai delle rie zuffe di Marte non si sbrama. Il cor di tutte cose alfin sente sazietà, del sonno, della danza, del canto e dell'amore, piacer più cari che la guerra; e mai sazi di guerra non saranno i Teucri? Tolse l'armi, ciò detto, a quell'estinto di sangue asperse; e come in man rimesse l'ebbe dei suoi, di nuovo all'inimico volse la faccia nelle prime file. Fiero l'assalse allor di Pilimène il figlio Arpalïon, che il suo diletto padre alla guerra accompagnò di Troia per non mai più redire al patrio lido. S'avanzò, fulminò l'asta nel colmo dello scudo d'Atride; e senza effetto visto il suo colpo, s'arretrò salvando fra' suoi la vita, e d'ogni parte attento guatando che nol giunga asta nemica. Ed ecco dalla man di Merïone una freccia volar che al destro clune colse il fuggente, e sotto l'osso accanto alla vescica penetrò diritto. Caduto sul ginocchio egli nel mezzo de' cari amici spirando giacea steso al suol come verme, e in larga vena il sangue sul terren facea ruscello. Gli fur dintorno con pietosa cura i generosi Paflagoni, e lui collocato sul carro alla cittade conducean dolorando. Iva con essi tutto in lagrime il padre, e dell'ucciso figlio nessuna il consolò vendetta. Pel morto Arpalïon forte crucciossi Paride, che cortese ospite l'ebbe fra' Paflagoni un tempo, e dalla cocca sfrenò di ferrea punta una saetta. Era un certo Euchenòr, dell'indovino Poliìde figliuol, uom prode e ricco e di Corinto abitator, che appieno del reo suo fato istrutto, avea di Troia veleggiato alle rive. A lui sovente detto aveva il buon veglio Poliìde che d'atro morbo nel paterno tetto, o di ferro troiano egli morrebbe fra le argoliche navi: e più che morte, di tetra infermità l'aspro martìre e degli Achei lo spregio egli temette. Di Paride lo stral colse costui sotto l'orecchio alla mascella, e tosto l'abbandonò la vita, ed un orrendo perpetuo buio gli coprì le luci. In questa guisa ardea la pugna, e ancora il diletto di Giove alto guerriero Ettore intesa non avea la strage che di sue genti segue alla sinistra della battaglia, e che omai piega il volo la vittoria agli Achei; tale è l'impulso, tale il nerbo e l'ardir di che furtivo li soccorre Nettunno. A quella parte stavasi Ettorre, ov'egli avea da prima le porte a forza superato e il muro, e rotte degli Achei le dense file. Ivi d'Aiace e di Protesilao coronavan le navi al secco il lido; e perché da quel lato era più basso edificato il muro, ivi più forte de' cavalli e de' fanti era la pugna. Ftii, Beozi, Locresi, e colle lunghe lor tuniche gl'Ionii e i chiari Epei ivi eran tutti, e tutti a tener lungi dalle navi d'Ettorre la rovina opravano le mani; e tanti insieme a rintuzzar dell'infiammato eroe non bastano la furia. Il fior d'Atene stassi alle prime file, ed il Petìde Menestèo li conduce, aiutatori Stichio, Fida e Bïante. È degli Epei duce Megete e Dracio ed Amfïone; de' Ftii Medonte e il pugnator Podarce, Podarce nato del Filàcio Ificlo, Medonte d'Oilèo bastarda prole e d'Aiace fratel, che dal paterno suolo esulando in Fìlace abitava, messo a morte il german della matrigna Erïopide d'Oilèo mogliera. Degli eletti di Ftia questi alla testa giunti ai Beozi difendean le navi. Aiace d'Oilèo mai sempre al fianco del Telamònio combattea. Siccome due negri buoi d'una medesma voglia nella dura maggese il forte aratro traggono, e al ceppo delle corna intorno largo rompe il sudor, mentre dal solo giogo divisi per lo solco eguali stampano i passi, e dietro loro il seno si squarcia della terra; a questa immago pugnavano congiunti i duo guerrieri. Molta e gagliarda gioventù seguiva il Telamònio; e quando la fatica e il sudor lo fiaccava, i suoi compagni il grave scudo ne prendean. Ma i Locri, a cui poco durar solea l'ardire nella pugna a piè fermo, d'Oilèo l'audace figlio non seguìan. Costoro non elmi avean d'equino crine ondanti, né tondi scudi, né frassìnee lance, ma d'archi solo armati e di ben torte lanose fionde ad Ilio il seguitaro, e da quest'archi e queste fionde in campo scagliavano la morte, e de' Troiani le falangi rompean. Per questo modo, mentre gli Aiaci nella prima fronte di bell'arme precinti alla ruina del fiero Ettòr fann'argine, al lor tergo nascosti i Locri saettando sempre e frombolando, le ordinanze tutte turban de' Teucri omai smarriti e rotti. D'alta strage percossi allora i Troi da navi e tende si sarìan ritratti al ventoso Ilïon, se non volgea all'animoso Ettòr queste parole Polidamante: Ettorre, ai saggi avvisi tu mal presti l'orecchio. E perché Giove alto ti diede militar favore, vuoi tu forse per questo agli altri ir sopra di prudenza e consiglio? Ad un sol tempo tutto aver tu non puoi. Di Giove il senno largisce a questi la virtù guerriera, l'arte a quei della danza, ad altri il suono e il canto delle muse, ad altri in petto pon la saggezza che i mortai governa e le città conserva; e sànne il prezzo chi la possiede. Or io dirò l'avviso che mi sembra il miglior. Per tutto, il vedi, ti cinge il fuoco della guerra. I Teucri, con magnanimo ardir passato il muro, parte coll'armi già dan volta, e parte pugnano ancor, ma pochi incontro a molti, e spersi tutti fra le navi. Or dunque tu ti ritraggi alquanto, e tutti aduna qui del campo i migliori, e delle cose consultata la somma, si decida se delle navi ritentar si debba l'assalto, ove pur voglia un qualche iddio darne alfin la vittoria, o se più torni l'abbandonarle illesi. Il cor mi turba un timor che non paghi oggi il nemico il debito di ieri. In quelle navi posa un guerrier terribile, che all'armi per mia credenza desterassi in breve. Piacque ad Ettorre il salutar consiglio, e d'un salto gittandosi dal carro gridò: Polidamante, i più gagliardi tu qui dunque rattien, ch'io là ne vado a raddrizzar la pugna, e dato ai nostri buon ordine, farò pronto ritorno. Disse, e ratto partì con elevato capo, sembiante ad un'eccelsa rupe, e volando chiamava alto de' Teucri e delle schiere collegate i duci, che tosto, udita dell'eroe la voce, alla volta correan del Pantoìde Polidamante del valore amico. Di Dëìfobo intanto e del regale Eleno e dell'Asïade Adamante e dell'Irtacid'Asio iva per tutto qua e là tra i primi combattenti Ettorre dimandando e cercando. Alfin gli avvenne di ritrovarli, ma non tutti illesi né tutti in vita, ché domati alcuni dal ferro acheo giacean nanti alle poppe cadaveri deformi, altri tra il muro languìan feriti di diverso colpo. Dell'orrendo conflitto alla sinistra vide egli poscia della bella Argiva lo sposo rapitor che i suoi compagni confortava alla pugna. Gli fu sopra, e acerbe gli tonò queste parole: Ahi funesto di donne ingannatore, che di bello non porti altro che il viso, Dëìfobo dov'è? dove son l'armi d'Eleno, d'Asio, d'Adamante? dove Otrïonèo? Dal sommo ecco già tutto il grand'Ilio precipita, e te pure l'ultimo danno, o sciagurato, aspetta. E il bel drudo a rincontro: Ettore, a torto tu mi rampogni. In altri tempi io forse un trascurato mi mostrai, non oggi. La madre un vile non mi fe'. Dal punto che il conflitto attaccasti appo le navi, da quel punto qui fermo e senza posa con gli Achei mi travaglio. I valorosi di che tu chiedi, caddero. Due soli Dëìfobo ed Elèno ambi alla mano feriti si partîr, sottratti a morte certo da Giove. Or dove il cor ti dice, guidami: io pronto seguirotti, e quanto potran mie forze, ti farò, mi spero, il mio valor palese. Oltre sua possa, benché abbondi il voler, nessuno è forte. Piegâr quei detti del fratello il core, e di conserva entrambi ove più ferve la mischia s'avvïâr. Pugnano quivi e Cebrïone e il buon Polidamante e il divin Polifète e Falce e Ortèo, e i tre d'Ippozïon gagliardi figli Palmi, Mori ed Ascanio, dal gleboso suol d'Ascania venuti il dì precesso, e spinti all'armi dal voler de' numi. Come di venti impetuosi un turbo dal tuon di Giove generato piomba su la campagna, e con fracasso orrendo sovra il mar si diffonde: immensi e spessi bollono i flutti di canuta spuma, e con fiero mugghiar l'un l'altro incalza al risonante lido: a questa guisa in ristretti drappelli, e gli uni agli altri succedenti i Troiani e scintillanti tutti nell'armi ne venìan su l'orme de' condottieri, e precorreali Ettorre non minor del terribile Gradivo. Un tessuto di cuoi tondo brocchiero di molte piastre rinforzato il prode tiensi davanti, ed alle tempie intorno tutto lampeggia l'agitato elmetto. Sicuro all'ombra del suo gran pavese passo passo ei s'avanza, e d'ogni parte forar si studia le nemiche file, e sgominarle. Ma de' petti achei non si turba il coraggio, e mossi Aiace i larghi passi a provocarlo il primo: Accòstati, gli disse: e che pretendi tu fier spavaldo? sgomentar gli Achivi? Non siam nell'arte marzïal fanciulli, e chi ne doma non se' tu, ma Giove con funesto flagello. Se le navi strugger ti speri, a rintuzzarti pronte e noi pur anco abbiam le mani, e tutta struggeremo noi pria la tua superba cittade. A te predìco io poi che l'ora non è lontana, che tu stesso in fuga manderai preghi a Giove e a tutti i Divi che sian di penna di sparvier più ratti i corridori, che, diffuse al vento le belle chiome, porteranti a Troia entro un nembo di polve. - Avea quel fiero ciò detto appena, che alla dritta in alto un'aquila comparve. Alzâr le grida fatti più franchi a quell'augurio i Greci, ma non fu tardo alla risposta Ettorre: Stupida massa di carname, Aiace millantator, che parli? Eterno figlio così foss'io di Giove e dell'augusta Giuno, e onorato al par di Palla e Febo, come m'accerto che funesto a tutti vi sarà questo giorno: e tu fra' morti tu medesmo cadrai, se di mia lancia avrai l'ardire d'aspettar lo scontro. Rotto da questa e qui disteso il tuo vizzo corpaccio di sua pingue polpa gli augei di Troia farà sazi e i cani. Così detto, s'avanza, e con immenso urlo animosi gli van dopo i Teucri. Dall'altro lato memori gli Achivi della virtù guerriera, e del più scelto fiore di Troia intrepidi all'assalto, misero anch'essi un alto grido; e d'ambi gli eserciti il clamor ferìa le stelle e i raggianti di Giove almi soggiorni.
De' combattenti udì l'alto fracasso Nestore in quella che una colma tazza accostava alle labbra; e d'Esculapio rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss'egli, divino Macaon? Presso alle navi dell'usato maggiori odo le grida de' giovani guerrieri. Alla vedetta vado a saperne la cagion. Tu siedi intanto, e bevi il rubicondo vino, mentre i caldi lavacri t'apparecchia la mia bionda Ecamède, onde del sangue, di che vai sozzo, dilavar la gruma. Del suo figliuol si tolse in questo dire il brocchier che giacea dentro la tenda, il fulgido brocchier di Trasimède che il paterno portava. Indi una salda asta d'acuta cuspide impugnata fuor della tenda si sofferma, e vede miserando spettacolo: cacciati in fuga i Greci, e alle lor spalle i Teucri inseguenti e furenti, e la muraglia degli Achei rovesciata. Come quando il vasto mar s'imbruna, e presentendo de' rauchi venti il turbine vicino, tace l'onda atterrita, ed in nessuna parte si volve, finché d'alto scenda la procella di Giove; in due pensieri così del veglio il cor pendea diviso, se fra i rapidi carri de' fuggenti Dànai si getti, o se alla volta ei corra del duce Atride Agamennón. Lo meglio questo gli parve, e s'avvïò. Seguìa la mutua strage intanto, e intorno al petto de' combattenti risonava il ferro dalle lance spezzato e dalle spade. Fuor delle navi gli si fêro incontro i re feriti Ulisse e Dïomede e Agamennón. Di questi a fior di lido stavan lungi dall'armi le carene. L'altre, che prime lo toccâr, dedotte più dentro alla pianura, eran le navi a cui dintorno fu costrutto il muro; perocché il lido, benché largo, tutte non potea contenerle, ed acervate stavan le schiere. Statuiti adunque l'uno appo l'altro, come scala, i legni tutto empieano del lido il lungo seno quanto del mare ne chiudean le gole. Scossi al trambusto, che s'udìa, que' duci, e di saper lo stato impazïenti della battaglia, ne venìan conserti, alle lance appoggiati, e gravi il petto d'alta tristezza. Terror loro accrebbe del veglio la comparsa, e Agamennóne elevando la voce: O degli Achei inclita luce, Nestore Nelìde, perché lasci la pugna, e qui ne vieni? Temo, ohimè! che d'Ettòr non si compisca la minacciata nel troian consesso fiera parola di non far ritorno nella città, se pria spenti noi tutti, tutte in faville non mettea le navi. Ecco il detto adempirsi. Eterni Dei! Dunque in ira son io, come ad Achille, a tutto il campo acheo, sì che non voglia più pugnar dell'armata alla difesa? Ahi! pur troppo l'evento è manifesto, Nestor rispose, né disfare il fatto lo stesso tonator Giove potrebbe. Il muro, che de' legni e di noi stessi riparo invitto speravam, quel muro cadde, il nemico ne combatte intorno con ostinato ardire e senza posa: né, come che tu l'occhio attento volga, più ti sapresti da qual parte il danno degli Achivi è maggior, tanto son essi alla rinfusa uccisi, e tanti i gridi di che l'aria risuona. Or noi qui tosto, se verun più ne resta util consiglio, consultiamo il da farsi. Entrar nel forte della mischia non io però v'esorto, ché mal combatte il battaglier ferito. Saggio vegliardo, replicò l'Atride, poiché fino alle tende hanno i nemici spinta la pugna, e più non giova il vallo né della fossa né dell'alto muro, a cui tanto sudammo, e invïolato schermo il tenemmo delle navi e nostro, chiaro ne par che al prepossente Giove caro è il nostro perir su questa riva lungi d'Argo, infamati. Il vidi un tempo proteggere gli Achei; lui veggo adesso i Troiani onorar quanto gli stessi beati Eterni, e incatenar le nostre forze e l'ardir. Mia voce adunque udite. Le navi, che ne stanno in secco al primo lembo del lido, si sospingan tutte nel vasto mare, e tutte sieno in alto sull'àncora fermate insin che fitta giunga la notte, dal cui velo ascosi varar potremo il resto, ove pur sia che ne dian tregua dalla pugna i Teucri. Non è biasmo fuggir di notte ancora il proprio danno, ed è pur sempre il meglio scampar fuggendo, che restar captivo. Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose: Atride, e quale ti fuggì dal labbro rovinosa parola? Imperadore fossi oh! tu di vigliacchi, e non di noi, di noi che Giove dalla verde etade infino alla canuta agli ardui fatti della guerra incitò, finché ciascuno vi perisca onorato. E così dunque puoi tu de' Teucri abbandonar l'altera città che tanti già ne costa affanni? Per dio! nol dire, dagli Achei non s'oda questo sermone, della bocca indegno d'uom di senno e scettrato, e, qual tu sei, di tante schiere capitano. Io primo il tuo parer condanno. Arde la pugna, e tu comandi che nel mar lanciate sien le navi? Ciò fôra un far più certo de' Troiani il vantaggio, e più sicuro il nostro eccidio: perocché gli Achivi in quell'opra assaliti, anzi che fermi sostener l'inimico, al mar terranno rivolto il viso, a' Teucri il tergo: e allora vedrai funesto, o duce, il tuo consiglio. Rispose Agamennón: La tua pungente rampogna, Ulisse, mi ferì nel core. Ma mia mente non è che lor malgrado traggan le navi in mar gli Achivi; e s'ora altri sa darne più pensato avviso, sia giovine, sia veglio, io l'avrò caro. Chi darallo n'è presso (il bellicoso Tidìde ripigliò), né fia mestieri cercarlo a lungo, se ascoltar vorrete, né, perché d'anni inferïor vi sono, con disdegno spregiarmi. Anch'io mi vanto figlio d'illustre genitor, del prode Tidèo, di Cadmo nel terren sepolto. Portèo tre figli generò dell'alta Calidone abitanti e di Pleurone, Agrio, Mela ed Enèo, tutti d'egregio valor, ma tutti li vincea di molto il cavaliero Enèo padre al mio padre. Ivi egli visse; ma da' numi astretto a gir vagando il padre mio, sua stanza pose in Argo, e d'Adrasto a moglie tolse una figlia; e signor di ricchi alberghi e di campi frugiferi per molte file di piante ombrosi, e di fecondo copioso gregge, a tutti ancor gli Argivi ei sovrastava nel vibrar dell'asta. Conte vi sono queste cose, io penso, tutte vere; e sapendomi voi quindi nato di sangue generoso, a vile non terrete il mio retto e franco avviso. Orsù, crudel necessità ne spinge. Al campo adunque, tuttoché feriti; e perché piaga a piaga non s'aggiunga, fuor di tiro si resti, ma propinqui sì, che possiamo gl'indolenti almeno incitar coll'aspetto e colla voce. Piacque il consiglio, e s'avvïâr precorsi dal re supremo Agamennón. Li vide Nettunno, e tolte di guerrier canuto le sembianze, e per mano preso l'Atride, fe' dal labbro volar queste parole: Atride, or sì che degli Achei la strage e la fuga gioir fa la crudele alma d'Achille, poiché tutto l'ira gli tolse il senno. Oh possa egli in mal punto perire, e d'onta ricoprirlo un Dio! Ma tutti a te non sono irati i numi, e de' Teucri vedrai di nuovo i duci empir di polve il piano, e dalle tende e dalle navi alla città fuggirsi. Disse, e corse, e gridò quanto di nove o dieci mila combattenti alzarse potrìa, nell'atto d'azzuffarsi, il grido: tanto fu l'urlo che dal vasto petto l'Enosigèo mandò. Risurse in seno degli Achei la fortezza a quella voce, e il desìo di pugnar senza riposo. Su le vette d'Olimpo in aureo trono sedea Giuno, e di là visto il divino suo cognato e fratel che in gran faccenda per la pugna scorrea, gioinne in core. Sovra il giogo maggior scòrse ella poscia dell'irrigua di fonti Ida seduto l'abborrito consorte; e in suo pensiero l'augusta Diva a ruminar si mise d'ingannarlo una via. Calarsi all'Ida in tutto il vezzo della sua persona, infiammarlo d'amor, trarlo rapito di sua beltà nelle sue braccia, e dolce nelle palpebre e nell'accorta mente insinuargli il sonno, ecco il partito che le parve il miglior. Tosto al regale suo talamo s'avvìa, che a lei l'amato figlio Vulcano fabbricato avea con salde porte, e un tal serrame arcano che aperto non l'avrebbe iddio veruno. Entrovvi: e chiusa la lucente soglia, con ambrosio licor tutto si terse pria l'amabile corpo, e d'oleosa essenza l'irrigò, divina essenza fragrante sì che negli eterni alberghi del Tonante agitata e cielo e terra d'almo profumo rïempìa. Ciò fatto, le belle chiome al pettine commise, e di sua mano intorno all'immortale augusto capo le compose in vaghi ondeggianti cincinni. Indi il divino peplo s'indusse, che Minerva avea con grand'arte intessuto, e con aurate fulgide fibbie assicurollo al petto. Poscia i bei fianchi d'un cintiglio a molte frange ricinse, e ai ben forati orecchi i gemmati sospese e rilucenti suoi ciondoli a tre gocce. Una leggiadra e chiara come sole intatta benda dopo questo la Diva delle Dive si ravvolse alla fronte. Al piè gentile alfin legossi i bei coturni, e tutte abbigliate le membra uscì pomposa, ed in disparte Venere chiamata, così le disse: Mi sarai tu, cara, d'una grazia cortese? o meco irata, perch'io gli Achivi, e tu li Teucri aiti, negarmela vorrai? - Parla, rispose l'alma figlia di Giove: il tuo desire manifestami intero, o veneranda Saturnia Giuno. Mi comanda il core di far tutto (se il posso, e se pur lice) il tuo voler, qual sia. - Dammi, riprese la scaltra Giuno, l'amoroso incanto che tutti al dolce tuo poter suggetta i mortali e gli Dei. Dell'alma terra ai fini estremi a visitar men vado l'antica Teti e l'Oceàn de' numi generator, che présami da Rea, quando sotto la terra e le profonde voragini del mar di Giove il tuono precipitò Saturno, mi nudriro ne' lor soggiorni, e m'educâr con molta cura ed affetto. A questi io vado, e solo per ricomporne una difficil lite ond'ei da molto a gravi sdegni in preda e di letto e d'amor stansi divisi. Se con parole ad acchetarli arrivo e a rannodarne i cuori, io mi son certa che sempre avranmi e veneranda e cara. E l'amica del riso Citerèa, Non lice, replicò, né dêssi a quella che del tonante Iddio dorme sul petto, far di quanto ella vuol niego veruno. Disse; e dal seno il ben trapunto e vago cinto si sciolse, in che raccolte e chiuse erano tutte le lusinghe. V'era d'amor la voluttà, v'era il desire e degli amanti il favellìo segreto, quel dolce favellìo ch'anco de' saggi ruba la mente. In man gliel pose, e disse: Prendi questo mio cinto in che si chiude ogni dolcezza, prendilo, e nel seno lo ti nascondi, e tornerai, lo spero, tutte ottenute del tuo cor le brame. L'alma Giuno sorrise, e di contento lampeggiando i grand'occhi in quel sorriso, lo si ripose in seno. Alle paterne stanze Ciprigna incamminossi: e Giuno frettolosa lasciò l'olimpie cime, e la Pïeria sorvolando e i lieti emazii campi, le nevose vette varcò de' tracii monti, e non toccava col piè santo la terra. Indi dell'Ato superate le rupi, all'estuoso Ponto discese, e nella sacra Lenno, di Toante città, rattenne il volo. Ivi al fratello della Morte, al Sonno n'andò, lo strinse per la mano, e disse: Sonno, re de' mortali e degli Dei, s'unqua mi festi d'un desìo contenta, or n'è d'uopo, e saprotti eterno grado. Tosto ch'io l'abbia fra mie braccia avvinto, m'addormenta di Giove, amico Dio, le fulgide pupille: ed io d'un seggio d'auro incorrotto ti farò bel dono, che lavoro sarà maraviglioso del mio figlio Vulcan, col suo sgabello su cui si posi a mensa il tuo bel piede. Saturnia Giuno, veneranda Dea, rispose il Sonno, agevolmente io posso ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti del gran fiume Oceàn di tutte cose generatore; ma il Saturnio Giove né il toccherò né il sopirò, se tanto non comanda egli stesso. I tuoi medesmi cenni di questo m'assennâr quel giorno ch'Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto, navigava da Troia. Io su la mente dolce mi sparsi dell'Egìoco Giove, e l'assopii. Tu intanto in tuo segreto macchinando al suo figlio una ruina, di fieri venti sollevasti in mare una negra procella, e lui svïando dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti i suoi cari lontano. Arse di sdegno destatosi il Tonante, e per l'Olimpo scompigliando i Celesti, in cerca andava di me fra tutti, e avrìa dal ciel travolto me meschino nel mar, se l'alma Notte, de' numi domatrice e de' mortali, non mi campava fuggitivo. Ei poscia per lo rispetto della bruna Diva placossi. E salvo da quel rischio appena vuoi che con esso a perigliarmi io torni? Di periglio che parli? e di che temi? gli rispose Giunon; forse t'avvisi che al par del figlio, per cui sdegno il prese, Giove i Teucri protegga? Or via, mi segui, ch'io la minore delle Grazie in moglie ti darò, la vezzosa Pasitèa, di cui so che sei vago e sempre amante. Giuralo per la sacra onda di Stige, tutto in gran giubilìo ripiglia il Sonno; e l'alma terra d'una man, coll'altra tocca del mar la superficie, e quanti stansi intorno a Saturno inferni Dei testimoni ne sian, che mia consorte delle Grazie farai la più fanciulla, la gentil Pasitèa cui sempre adoro. Disse; e conforme a quel desir giurava la bianca Diva, e i sotterranei numi tutti invocava che Titani han nome. Fatto il gran sacramento, abbandonaro d'Imbro e di Lenno le cittadi, e cinti di densa nebbia divorâr la via. D'Ida altrice di belve e di ruscelli giunti alla falda, uscîr della marina alla punta Lettèa. Preser leggieri del monte la salita, e della selva sotto i lor passi si scotea la cima. Ivi il Sonno arrestossi, e per celarsi di Giove agli occhi un alto abete ascese, che sovrana innalzava al ciel la cima. Quivi s'ascose tra le spesse fronde in sembianza d'arguto augel montano che noi Cimindi, e noman Calci i numi. Con sollecito piede intanto Giuno il Gàrgaro salìa. La vide il sommo delle tempeste adunatore, e pronta al cor gli corse l'amorosa fiamma, siccome il dì che de' parenti al guardo sottrattisi gustâr commisti insieme la furtiva d'amor prima dolcezza. Si fece incontro alla consorte, e disse: Giuno, a che vieni dall'Olimpo, e senza cocchio e destrieri? - E a lui la scaltra: Io vado dell'alma terra agli ultimi confini a visitar de' numi il genitore Oceano e Teti, che ne' loro alberghi con grande cura m'educâr fanciulla. Vado a comporne la discordia: ei sono e di letto e d'amor per ire acerbe da gran tempo divisi. Alle radici d'Ida lasciati ho i miei destrier che ratta su la terra e sul mar mi porteranno. Or qui vengo per te, ché meco irarti non dovessi tu poi se taciturna del vecchio iddio n'andassi alla magione. Altra volta v'andrai, Giove rispose: Or si gioisca in amoroso amplesso; ché né per donna né per Dea giammai mi si diffuse in cor fiamma sì viva: non quando per la sposa Issïonèa, che Piritòo, divin senno, produsse, arsi d'amor, non quando alla gentile figlia d'Acrisio generai Persèo, prestantissimo eroe, né quando Europa del divin Radamanto e di Minosse padre mi fece. Né le due di Tebe beltà famose Sèmele ed Alcmena, d'Ercole questa genitrice, e quella di Bacco dei mortali allegratore; né Cerere la bionda, né Latona, né tu stessa giammai, siccome adesso, mi destasti d'amor tanto disìo. E l'ingannevol Diva: Oh che mai parli, importuno! Ascoltar vuoi tu d'amore le fantasie qui d'Ida in su le vette dove tutto si scorge? E se qualcuno degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni conto lo fêsse, rïentrar nel cielo con che fronte ardirei? Ciò fôra indegno. Pur se vera d'amor brama ti punge, al talamo n'andiam, che il tuo diletto figlio Vulcan ti fabbricò di salde porte; e quivi di me fa il tuo volere. Né d'uom mortale né d'iddio veruno lo sguardo ne vedrà, Giove riprese. Diffonderotti intorno un'aurea nube tal che per essa né del Sol pur anco la vista passerà quantunque acuta. Disse, ed in grembo alla consorte il figlio di Saturno s'infuse: e l'alma terra di sotto germogliò novelle erbette e il rugiadoso loto e il fior di croco e il giacinto, che in alto li reggea soffice e folto. Qui corcârsi, e densa li ricopriva una dorata nube che lucida piovea dolce rugiada. Sul Gargaro così queto dormìa Giove in braccio alla Dea, preda d'amore e del soave Sonno che veloce corse alle navi ad avvisarne il nume scotitor della Terra; e a lui venuto, con presto favellar, T'affretta, ei disse, a soccorrer gli Achivi, o re Nettunno, e almen per poco vincitor li rendi finché Giove si dorme. Io lo ricinsi d'un tener sopor mentre ingannato dalla consorte in seno le riposa. Sparve il Sonno, ciò detto, e de' mortali su l'altere città l'ali distese. Allor Nettunno d'aitar bramoso più che prima gli Achei, diessi nel mezzo alle file di fronte, alto gridando: Achivi, lascerem di Priamo al figlio noi dunque il vanto di novel trïonfo, e la gloria d'averne arse le navi? Ei certo lo si crede, e vampo mena, perché d'Achille neghittosa è l'ira. Ma d'Achille non fia molto il bisogno, se noi far opra delle man sapremo, e alternarci gli aiuti. Or su, concordi seguiam tutti il mio detto. I più sicuri e grandi scudi, che nel campo sièno, imbracciamo, e copriam de' più lucenti elmi le teste, e le più lunghe picche strette in pugno, marciam: io vi precedo, né per forte ch'ei sia l'audace Ettorre, l'impeto nostro sosterrà. Chïunque è guerrier valoroso, e di leggiero scudo si copre, al men valente il ceda, e allo scudo maggior sottentri ei stesso. Obbedîr tutti al cenno. I re medesmi Tidìde, Ulisse e Agamennón, sprezzate le lor ferite, in ordinanza a gara ponean le schiere, e via dell'armi il cambio per le file facean; le forti al forte, al peggior le peggiori. E poiché tutti di lucido metallo la persona ebber coverta, s'avvïâr. Nettunno li precorrea, nella robusta mano sguäinata portandosi una lunga orrenda spada che parea di Giove la folgore, e mettea nel cor paura. Misero quegli che la scontra in guerra! Dall'altra parte il troian duce i suoi pone ei pure in procinto, e senza indugio l'illustre Ettorre ed il ceruleo Dio, l'uno i Greci incorando e l'altro i Teucri una fiera attaccâr pugna crudele. Gonfiasi il mare, e i padiglioni innonda e gli argivi navigli, e con immenso clamor si viene delle schiere al cozzo. Non così la marina onda rimugge dal tracio soffio flagellata al lido; non così freme il foco alla montagna quando va furibondo a divorarsi l'arida selva; né d'eccelsa quercia rugge sì fiero fra le chiome il vento, come orrende de' Teucri e degli Achei nell'assalirsi si sentìan le grida. Contro Aiace, che voltagli la fronte, scaglia Ettorre la lancia, e lo colpisce ove del brando e dello scudo il doppio balteo sul petto si distende; e questo dal colpo lo salvò. Visto uscir vano Ettore il telo, di rabbia fremendo in securo fra' suoi si ritraea. Mentr'ei recede, il gran Telamonìde ad un sasso, de' molti che ritegno delle navi giacean sparsi pel campo de' combattenti al piè, dato di piglio, l'avventò, lo rotò come palèo, e sul girone dello scudo al petto l'avversario ferì. Con quel fragore che dal foco di Giove fulminata giù ruina una quercia, e grave intorno del grave zolfo si diffonde il puzzo: l'arator, che cadersi accanto vede la folgore tremenda, imbianca e trema: così stramazza Ettòr; l'asta abbandona la man, ma dietro gli va scudo ed elmo, e rimbombano l'armi sul caduto. V'accorsero con alti urli gli Achei, strascinarlo sperandosi, e di strali lo tempestando; ma nessun ferirlo potéo, ché ratti gli fêr serra intorno i più valenti, Enea, Polidamante, Agènore, e de' Licii il condottiero Sarpedonte con Glauco, e nulla in somma de' suoi l'abbandonò, ch'altri gli scudi gli anteposero, e lunge altri dall'armi l'asportâr su le braccia a' suoi veloci destrier che fuori della pugna a lui tenea pronti col cocchio il fido auriga. Volâr questi, e portâr l'eroe gemente verso l'alta città; ma giunti al guado del vorticoso Xanto, ameno fiume generato da Giove, ivi dal carro posârlo a terra, gli spruzzâr di fresca onda la fronte, ed ei rinvenne, e aperte girò le luci intorno, e sui ginocchi suffulto vomitò sangue dal petto. Ma di nuovo all'indietro in sul terreno riversossi; e coll'alma ancor dal colpo doma oscurârsi all'infelice i lumi. Gli Achei, veduto uscir dal campo Ettorre, si fêr più baldi addosso all'inimico, e primo Aiace d'Oilèo d'assalto Satnio ferì, che Naïde gentile ad Enopo pastor lungo il bel fiume Satnïoente partorito avea. Lo colpì coll'acuta asta il veloce Oilìde nel lombo; ei resupino si versò nella polve, e intorno a lui più che mai fiera si scaldò la zuffa. A vendicar l'estinto oltre si spinge Polidamante, e tale a Protenorre, figliuol d'Arëilìco, un colpo libra, che tutto la gagliarda asta gli passa l'omero destro. Ei cadde, e il suol sanguigno colla palma ghermì. Sovra il caduto menò gran vanto il vincitor, gridando: Dalla man del magnanimo Pantìde non uscì, parmi, indarno il telo, e certo lo raccolse nel corpo un qualche Acheo che appoggiato a quell'asta or scende a Pluto. Ferì gli Achivi di dolor quel vanto; più che tutti ferì l'alma del grande Telamonìde, al cui fianco caduto era quel prode. E tosto al borïoso, che indietro si traea, la folgorante asta scagliò. Polidamante a tempo schivò la morte con un salto obliquo; e ricevella (degli Dei tal era l'aspro decreto) l'antenòreo figlio Archìloco. Lo colse il fatal ferro alla vertebra estrema, ove nel collo s'innesta il capo, e ne precise il doppio tendine. Ei cadde, e del meschin la testa, colla bocca davanti e le narici, prima a terra n'andò, che la persona. Alto allora a quel colpo Aiace esclama: Polidamante, oh! guarda, e dinne il vero, non val egli Protènore quest'altro ch'io qui posi a giacer? Ned ei mi sembra mica de' vili, né d'ignobil seme, ma d'Antènore un figlio, o suo germano; sì n'ha l'impronta della razza in viso. Così parlava infinto, conoscendo ben ei l'ucciso. Addolorârsi i Teucri; ma del fratello vindice Acamante a Pròmaco beòzio, che l'estinto traea pe' piedi, fulminò di lancia tale un sùbito colpo, che lo stese. Alto allor grida l'uccisor superbo: O voi guerrieri da balestra, e forti sol di minacce! e voi pur anco, Argivi, morderete la polve, e non saremo noi soli al lutto. Dalla mia man domo mirate di che sonno or dorme il vostro Pròmaco, e paga del fratello mio tosto lo sconto! Perciò preghi ognuno di lasciar dopo sé vendicatore di sua morte un fratel nel patrio tetto. Destò quel vanto negli Achei lo sdegno: sovra ogni altro crucciossi il bellicoso Penelèo. Si scagliò questi con ira contro Acamante che del re l'assalto non attese; ed il colpo a lui diretto Ilïonèo percosse, unica prole di Forbante che ricco era di molto gregge; e Mercurio, che d'assai l'amava, di dovizie fra' Troi l'avea cresciuto. Il colse Penelèo sotto le ciglia dell'occhio alla radice, e la pupilla schizzandone passar l'asta gli fece via per l'occhio alla nuca. Ilïonèo assiso cadde colle man distese: ma stretta Penelèo l'acuta spada, gli recise le canne, e il mozzo capo, coll'elmo e l'asta ancor nell'occhio infissa, gli mandò nella polve. Indi l'alzando languente in cima alla picca e cadente come lasso papavero, ai nemici lo mostra, e altero esclama: In nome mio dite, o Teucri, del chiaro Ilïonèo ai genitor, che per la casa innalzino il funebre ulular, da che né pure di Pròmaco, figliuol d'Alegenorre, la consorte potrà del caro aspetto del marito gioir quando da Troia farem ritorno alle paterne rive. Sì disse, e tutti impallidîr di tema, e col guardo ciascun giva cercando di salvarsi una via. Celesti Muse, or voi ne dite chi primier le spoglie cruente riportò, poi che agli Achivi fe' piegar la vittoria il re Nettunno. Primiero Aiace Telamònio uccise de' forti Misii il duce Irzio Girtìde; Antìloco spogliò Falce e Mermèro: da Merïon fu spento Ippozïone con Mori: a Protoone e Perifete Teucro diè morte: Menelao nel ventre Iperènore colse, e dalla piaga tutte ad un tempo uscîr le lacerate intestina e la vita. Altri più molti ne spense Aiace d'Oilèo; ché nullo ratto al paro di lui gli spaventati fuggitivi inseguìa, quando ne' petti della fuga il terror Giove mettea.
Ma poiché il vallo superaro e il fosso, con molta di lor strage, i fuggitivi nel viso smorti di terror fermârsi ai vôti cocchi; e Giove in quel momento sull'Ida risvegliossi accanto a Giuno. Surse, stette, e gli Achei vide e i Troiani, questi incalzati, e quei coll'aste a tergo incalzanti, e tra loro il re Nettunno. Vide altrove prostrato Ettore, e intorno stargli i compagni addolorati, ed esso del sentimento uscito, e dall'anelo petto a gran pena traendo il respiro nero sangue sboccar; ché non l'avea certo il più fiacco degli Achei percosso. Pietà sentinne nel vederlo il padre de' mortali e de' numi, e con obliquo terribil occhio guatò Giuno, e disse: Scaltra malvagia, la sottil tua frode dalla pugna cessar fe' il divo Ettorre, e i Troiani fuggir. Non so perch'io or non t'afferri, e col flagel non faccia a te prima saggiar del dolo il frutto. E non rammenti il dì ch'ambe le mani d'aureo nodo infrangibile t'avvinsi, e alla celeste volta con due gravi incudi al piede penzolon t'appesi? Fra l'atre nubi nell'immenso vôto tu pendola ondeggiavi, e per l'eccelso Olimpo ne fremean di rabbia i Numi, ma sciorti non potean; ché qual di loro afferrato io m'avessi, giù dal cielo l'avrei travolto semivivo in terra. Né ciò tutto quetava ancor la bile che mi bollìa nel cor, quando, commosse d'Ercole a danno le procelle e i venti, tu pel mar l'agitasti, e macchinando la sua rovina lo svïasti a Coo, donde io salvo poi trassi il travagliato figlio, e in Argo il raddussi. Ora di queste cose ben io farò che ti sovvegna, onde svezzarti dagl'inganni, e tutto il pro mostrarti de' tuoi falsi amplessi. Raccapricciò d'orror la veneranda Giuno a que' detti; e, Il ciel, la terra attesto (diessi a gridare) e il sotterraneo Stige, che degli Eterni è il più tremendo giuro, ed il sacro tuo capo, e l'illibato d'ogni spergiuro marital mio letto: se agli Achivi soccorse e nocque ai Teucri il re Nettunno, non fu mio consiglio, ma del suo cor spontaneo moto, e pièta de' mal condotti Argivi. Esorterollo anzi io stessa a recarsi, ovunque il chiami, terribile mio sire, il tuo comando. Sorrise Giove, e replicò: Se meco nel senato de' numi, augusta Giuno, in un solo voler consentirai, consentiravvi (e sia diversa pure la sua mente) ben tosto anco Nettunno. Or tu, se brami che per prova io vegga sincero il tuo parlar, rimonta in cielo, e qua m'invìa sull'Ida Iri ed Apollo. Iri nel campo degli Achei discesa a Nettunno farà l'alto precetto d'abbandonar la pugna, e di tornarsi ai marini soggiorni. Apollo all'armi Ettore desterà, novello in petto spirandogli vigor, sì che sanato d'ogni dolore fra gli Achei di nuovo sparga la vile paurosa fuga, e gl'incalzi così che fra le navi cadan, fuggendo, del Pelìde Achille. Questi allor nella pugna il suo diletto Patroclo manderà, che morta in campo molta nemica gioventù col divo mio figlio Sarpedon, morto egli stesso cadrà, prostrato dall'ettòrea lancia. Dell'ucciso compagno irato Achille spegnerà l'uccisore, e da quel punto farò che sempre sian respinti i Teucri, finché per la divina arte di Palla il superbo Ilïon prendan gli Achei. Né l'ire io deporrò, né che veruno degli Dei qui l'argive armi soccorra sosterrò, se d'Achille in pria non veggo adempirsi il desìo. Così promisi, e le promesse confermai col cenno del mio capo quel dì che i miei ginocchi Teti abbracciando, d'onorar pregommi coll'eccidio de' Greci il suo gran figlio. Disse, e la Diva dalle bianche braccia obbedïente dall'idèa montagna all'Olimpo salì. Colla prestezza con che vola il pensier del vïatore, che scorse molte terre le rïanda in suo secreto, e dice: Io quella riva, io quell'altra toccai: colla medesma rattezza allor la veneranda Giuno volò dall'Ida sull'eccelso Olimpo, e sopravvenne agl'Immortali, accolti nelle stanze di Giove. Alzârsi i numi tutti al vederla, e coll'ambrosie tazze l'accolsero festosi. Ella, negletta ogni altra offerta, la man porse al nappo appresentato dalla bella Temi che primiera a incontrar corse la Dea, così dicendo: Perché riedi, o Giuno? Tu ne sembri atterrita. Il tuo consorte n'è forse la cagion? - Non dimandarlo, Giuno rispose. Quell'altero e crudo suo cor tu stessa già conosci, o Diva. Presiedi ai nostri almi convivii, e tosto qui con tutti i Celesti udrai di Giove gli aspri comandi che per mio parere de' mortali fra poco e degli Dei le liete mense cangeranno in lutto. Tacque, e s'assise. Contristârsi in cielo i Sempiterni; e Giuno un cotal riso a fior di labbro aprì, ma su le nere ciglia la fronte non tornò serena. Ruppe alfin disdegnosa in questi detti: Oh, noi dementi! Inetta è la nostr'ira contra Giove, o Celesti, e il faticarci con parole a frenarlo o colla forza è vana impresa. Assiso egli sull'Ida né gli cale di noi né si rimove dal suo proposto, ché gli Eterni tutti di fortezza ei si vanta e di possanza immensamente superar. Soffrite quindi in pace ogni mal che più gli piaccia inviarvi a ciascuno. E a Marte, io credo, il suo già tocca: Ascàlafo, il più caro d'ogni mortale al poderoso iddio che proprio sangue lo confessa, è spento. Si batté colle palme la robusta anca Gradivo, e in suon d'alto dolore gridò: Del cielo cittadini eterni, non mi vogliate condannar, s'io scendo l'ucciso figlio a vendicar, dovesse steso fra' morti il fulmine di Giove là tra il sangue gittarmi e tra la polve. Disse; e alla Fuga impose e allo Spavento d'aggiogargli i destrieri; e di fiammanti armi egli stesso si vestiva. E allora di ben altro furor contro gli Dei di Giove acceso si sarebbe il core, se per tutti i Celesti impaurita non si spiccava dal suo trono, e ratta fuor delle soglie non correa Minerva a strappargli di fronte il rilucente elmo, e lo scudo dalle spalle: e a forza toltagli l'asta dalla man gagliarda, la ripose, e il garrì: Cieco furente, tu se' perduto. Per udir non hai tu più dunque gli orecchi, e in te col senno spento è pure il pudor? Dell'alma Giuno, ch'or vien da Giove, non intendi i detti? Vuoi tu forse, insensato, esser costretto a ritornarti doloroso al cielo, fatto di molti mali un rio guadagno, e creata a noi tutta alta sciagura? Perciocché, de' Troiani e degli Achei abbandonate le contese, ei tosto risalendo all'Olimpo, in iscompiglio metterà gl'Immortali, ed afferrando l'un dopo l'altro, od innocenti o rei, noi tutti punirà. Del figlio adunque la vendetta abbandona, io tel comando: ch'altri di lui più prodi o già periro o periranno. Involar tutta a morte de' mortali la schiatta è dura impresa. Sì dicendo, al suo seggio il vïolento Dio ricondusse. Fuor dell'auree soglie Giuno intanto a sé chiama Apollo ed Iri la messaggiera, e lor presta sì parla: Ite, Giove l'impon, veloci all'Ida; arrivati colà fissate il guardo in quel volto, e ne fate ogni volere. Ciò detto, indietro ritornò l'augusta Giuno, e di nuovo si compose in trono. Quei mossero volando, e su l'altrice di fontane e di belve Ida discesi, di Saturno trovâr l'onniveggente figlio sull'erto Gàrgaro seduto; e circonfusa intorno il coronava un'odorosa nube. Essi del grande di nembi adunator giunti al cospetto, fermârsi: e satisfatto egli del pronto loro obbedir della consorte ai detti, ad Iri in prima il favellar rivolto, Va, disse, Iri veloce, e al re Nettunno nunzia verace il mio comando esponi. Digli che il campo ei lasci e la battaglia, e al ciel si torni o al mar. Se il cenno mio ribelle sprezzerà, pensi ben seco se, benché forte, s'avrà cor che basti a sostener l'assalto mio: ricordi che primo io nacqui, e che di forza il vinco, quantunque egli osi a me vantarsi eguale, a me che tutti fo tremar gli Dei. Obbedì la veloce Iri, e discese dalle montagne idèe. Come sospinta da fiato d'aquilon serenatore dalle nubi talor vola la neve o la gelida grandine: a tal guisa d'Ilio sui campi con rapido volo Iri calossi, e al divo Enosigèo fattasi innanzi, così prese a dire: Ceruleo Nume, messaggiera io vegno dell'Egìoco signore. Ei ti comanda d'abbandonar la pugna, e di far tosto o agli alberghi celesti o al mar ritorno. Se sprezzi il cenno, ed obbedir ricusi, minaccia di venirne egli medesmo teco a battaglia. Ti consiglia quindi d'evitar le sue mani; e ti ricorda ch'ei d'etade è maggiore e di fortezza, quantunque egual vantarti oso tu sia a lui che mette agli altri Dei terrore. Arse d'ira Nettunno, e le rispose: Ch'ei sia possente il so; ma sue parole sono superbe, se forzar pretende me suo pari in onor. Figli a Saturno tre germani siam noi da Rea produtti, primo Giove, io secondo, e terzo il sire dell'Inferno Pluton. Tutte divise fur le cose in tre parti, e a ciascheduno il suo regno sortì. Diede la sorte l'imperio a me del mar, dell'ombre a Pluto, del cielo a Giove negli aerei campi soggiorno delle nubi. Olimpo e Terra ne rimaser comuni, e il sono ancora. Non farò dunque il suo voler; si goda pur la sua forza, ma si resti cheto nel suo regno, né tenti or colla destra come un vile atterrirmi. Alle fanciulle, ai bamboli suoi figli il terror porti di sue minacce, e meglio fia. Tra questi almen si avrà chi a forza l'obbedisca. Dio del mar, la veloce Iri soggiunse, questa dunque vuoi tu che a Giove io rechi dura e forte risposta? E raddolcirla in parte almeno non vorrai? De' buoni pieghevole è la mente; e chi primiero nacque ha ministre, tu lo sai, l'Erinni. Tu parli, o Diva, il ver, l'altro riprese: e gran ventura è messaggier che avvisa ciò che più monta. Ma di sdegno avvampa il cor quand'egli minaccioso oltraggia me suo pari di grado e di destino. Pur questa volta porrò freno all'ira, e cederò. Ma ben vo' dirti io pure (e dal cor parte la minaccia mia), se Giove, a mio dispetto e di Minerva e di Giuno e d'Ermete e di Vulcano, risparmierà dell'alto Ilio le torri, né atterrarle vorrà, né darne intera la vittoria agli Achei, sappia che questo fia tra noi seme di perpetua guerra. Lasciò, ciò detto, il campo e in mar s'ascose, e ne sentiro la partenza in petto i combattenti Achei. Si volse allora Giove ad Apollo, e disse: Or vanne, o caro, al bellicoso Ettòr. Lo scotitore della terra evitando il nostro sdegno fe' ritorno nel mar. Se ciò non era, della pugna il rimbombo avrìa ferito anche l'orecchio degl'inferni Dei stanti intorno a Saturno. Ad ambedue me' però torna che schivato egli abbia, fatto più senno, di mie mani il peso; perché senza sudor la non sarìa certo finita. Or tu la fimbrïata Egida imbraccia, e forte la percoti, e spaventa gli Achei. Cura ti prenda, o Saettante, dell'illustre Ettorre, e tal ne' polsi valentìa gli metti, ch'egli fino alle navi e all'Ellesponto cacci in fuga gli Achivi. Allor la via troverò che i fuggenti abbian respiro. Obbedì pronto Apollo, e dall'idèa cima disceso, simile a veloce di colombi uccisor forte sparviero de' volanti il più ratto, al generoso Prïamide n'andò. Dal suol già surto e risensato il nobile guerriero sedea, ripresa degli astanti amici la conoscenza: perocché, dal punto che in lui di Giove s'arrestò la mente, l'anelito cessato era e il sudore. Stettegli innanzi il Saettante, e disse: Perché lungi dagli altri e sì spossato, Ettore siedi? e che dolor ti opprime? E a lui con fioca e languida favella di Priamo il figlio: Chi se' tu che vieni, ottimo nume, a interrogarmi? Ignori che il forte Aiace, mentre che de' suoi alle navi io facea strage, mi colse d'un sasso al petto, e tolsemi le forze? Già l'alma errava su le labbra; e certo di veder mi credetti in questo giorno l'ombre de' morti e la magion di Pluto. Fa cor, riprese il Dio: Giove ti manda soccorritore ed assistente il sire dell'aurea spada, Apolline. Son io che te finor protessi e queste mura. Or via, sveglia il valor de' numerosi squadroni equestri, ed a spronar gli esorta verso le navi i corridori. Io poscia li precedendo spianerò lor tutta la strada, e fugherò gli achivi eroi. Disse, ed al duce una gran forza infuse. Come destrier di molto orzo in riposo alle greppie pasciuto, e nella bella uso a lavarsi correntìa del fiume, rotti i legami, per l'aperto corre insuperbito, e con sonante piede batte il terren; sul collo agita il crine, alta estolle la testa, e baldanzoso di sua bellezza, al pasco usato ei vola ove amor d'erbe il chiama e di puledre: tale, udita del Dio la voce, Ettorre move rapidi i passi, inanimando i cavalieri. Ma gli Achei, siccome veltri e villani che un cornuto cervo inseguono, o una damma a cui fa schermo alto dirupo o densa ombra di bosco, poiché lor vieta di pigliarla il fato; se a lor grida s'affaccia in su la via un barbuto leon colle sbarrate mascelle orrende, incontanente tutti, benché animosi, volgono le terga: così agli Achei, che stretti infino allora senza posa inseguito aveano i Teucri colle lance ferendo e colle spade, visto aggirarsi tra le file Ettorre, cadde a tutti il coraggio. Allor si mosse Toante Andremonìde, il più gagliardo degli etòli guerrieri. Era costui di saetta del par che di battaglia a piè fermo perito, e degli Achivi pochi in arringhe lo vincean, se gara fra giovani nascea nella bell'arte del diserto parlar. - Numi! qual veggo gran prodigio? (dicea questo Toante) Dalla Parca scampato, e di bel nuovo risurto Ettorre! E speravam noi tutti che per le man d'Aiace egli giacesse. Certo qualcuno de' Celesti i giorni preservò di costui, che molti al suolo degli Achivi già stese, e molti ancora ne stenderà, mi credo; ché non senza l'altitonante Giove egli sì franco alla testa de' Teucri è ricomparso. Tutti adunque seguiamo il mio consiglio. La turba ai legni si raccosti; e noi, quanti del campo achivo i più valenti ci vantiamo, stiam fermi e coll'alzate aste vediam di repulsarlo. Io spero che quantunque animoso, ei nella calca entrar non ardirà di scelti eroi. Disse, e tutti obbedîr volonterosi. Ambo gli Aiaci e Teucro e Idomenèo e Merïone e il marzïal Megète convocando i migliori, in ordinanza contro i Teucri ed Ettòr poser la pugna. Verso le navi intanto s'avvïava de' men forti la turba. Allor primieri e serrati fêr impeto i Troiani. Li precede a gran passi camminando l'eccelso Ettorre, e lui precede Apollo, che di nebbia i divini omeri avvolto l'irta di fiocchi, orrenda, impetuosa egida tiene, di Vulcano a Giove ammirabile dono, onde tonando i mortali atterrir. Con questa al braccio guidava i Teucri il Dio contro gli Achei che stretti insieme n'attendean lo scontro. Surse allor d'ambe parti un alto grido. Dai nervi le saette, e dalle mani vedi l'aste volar, altre nel corpo de' giovani guerrieri, altre nel mezzo, pria che il corpo saggiar, piantarsi in terra di sangue sitibonde. Infin che immota tenne l'egida Apollo, egual fu d'ambe parti il ferire ed il cader. Ma come dritto guardando l'agitò con forte grido sul volto degli Achei, gelossi ne' lor petti l'ardire e la fortezza. Qual di bovi un armento o un pieno ovile incustodito, all'improvviso arrivo di due belve notturne si scompiglia; così gli Achivi costernârsi; e Apollo fra lor spargeva lo spavento, i Teucri esaltando ed Ettorre. Allor turbata l'ordinanza, seguìa strage confusa. Ettore Stichio uccide e Arcesilao, questi a' Beozi capitano, e quegli un compagno fedel del generoso Menestèo. Per le man poscia d'Enea Jaso cade e Medonte. Era Medonte del divino Oilèo bastardo figlio e d'Aiace fratel: ma morto avendo un diletto german della matrigna Erïopìde d'Oilèo mogliera, dalla paterna terra allontanato in Filace abitava. Attico duce era Jaso, e figliuol detto venìa del Bucolide Sfelo. A Mecistèo Polidamante nelle prime file tolse la vita; ad Echïon Polìte, ed Agenore a Clònio. A Dëijòco, tra quei di fronte in fuga volto, al tergo vibra Paride l'asta e lo trafigge. Mentre l'armi rapìan questi agli uccisi, giù nell'irto di pali orrendo fosso precipitando i fuggitivi Achei d'ogni parte correan, dalla crudele necessità sospinti, entro il riparo della muraglia: ed alto alle sue schiere gridava Ettorre di lasciar le spoglie sanguinolente, e sul navile a gitto piombar: Qualunque scorgerò ristarsi dalle navi lontan, di propria mano l'ucciderò, né morto il metteranno su la pira i fratei né le sorelle, ma innanzi ad Ilio strazieranlo i cani. Sì dicendo, sonar fe' su le groppe de' cavalli il flagello e li sospinse per le file, animando ogni guerriero. Dietro al lor duce minacciosi i Teucri con immenso clamor drizzaro i cocchi. Iva Apollo davanti, e col leggiero urto del piede lo ciglion del cupo fosso abbattendo il riversò nel mezzo, e ad immago di ponte un'ampia strada spianovvi, e larga come d'asta il tiro, quando a far di sue forze esperimento un lanciator la scaglia. Essi a falangi su questa via versavansi, ed Apollo sempre alla testa, sollevando in alto l'egida orrenda, degli Achivi il muro atterrava con quella agevolezza che un fanciullo talor lungo la riva del mar per giuoco edifica l'arena, e per giuoco co' piedi e colle mani poco poi la rovescia e la rimesce. Tale fu, Febo arcier, l'opra in che tanto sudâr gli Achivi, dispergesti, e loro del gelo della fuga empiesti il petto. Così spinti fermârsi appo le navi, e a vicenda incuorandosi, e le mani ai numi alzando, ognun porgea gran voti. Ma più che tutti, degli Achei custode, il Gerènio Nestorre allo stellato cielo le palme sollevando orava: Giove padre, se mai nelle feconde piagge argive o di tauri o d'agnellette sacrifici offerendo ti pregammo di felice ritorno, e tu promessa ne festi e cenno, or deh! il ricorda, e lungi, dio pietoso, ne tieni il giorno estremo, né voler sì da' Troi domi gli Achivi. Così pregava. L'udì Giove, e forte tuonò. Ma i Teucri dell'Egìoco Sire udito il segno si scagliâr più fieri contro gli Achivi, ed incalzâr la pugna. Come del mar turbato un vasto flutto da furia boreal cresciuto e spinto rugge e sormonta della nave i fianchi; tali i Teucri con alti urli saliro la muraglia, e, cacciati entro i cavalli, coll'aste incominciâr sotto le poppe un conflitto crudel, questi su i cocchi, quei sul bordo de' legni colle lunghe, che dentro vi giacean, stanghe commesse, ed al bisogno di naval battaglia accomodate colle ferree teste. Finché fuor del navile intorno al muro arse de' Teucri e degli Achei la pugna, del valoroso Eurìpilo si stette Patroclo nella tenda, e ragionando il ricreava, e sull'acerba piaga dell'amico, a placarne ogni dolore, obblivïosi farmaci spargea. Ma tosto che mirò su l'arduo muro saliti a furia i Teucri, e l'urlo surse degli Achivi e la fuga, in lai proruppe, e battendosi l'anca, Ohimè! diss'egli in suono di lamento, una feroce mischia là veggo. Non mi lice, Eurìpilo, all'uopo che pur n'hai, teco indugiarmi più lungamente: assisteratti il servo; io ne volo ad Achille onde eccitarlo alla pugna. Chi sa? forse un propizio nume darammi che mia voce il tocchi; degli amici il pregar va dolce al core. Così detto, volò. Gli Achivi intanto fermi de' Teucri sostenean l'assalto; ma dalle navi non sapean, quantunque di numero minori, allontanarli; né i Troiani potean romper de' Greci le stipate falangi, e insinuarsi tra le navi e le tende. E a quella guisa che in man di fabbro da Minerva istrutto, il rigo una naval trave pareggia; così de' Teucri egual si diffondea e degli Achei la pugna; ed altri a questa nave attacca la zuffa, ed altri a quella. Ma contro Aiace dispiccato Ettorre, intorno ad un sol legno ambo gli eroi travagliansi, né questi era possente a fugar quello e il combattuto pino incendere, né quegli a tener lunge questo, ché un nume ve l'avea condotto. Colpì coll'asta il Telamònio allora Caletore di Clìzio in mezzo al petto, mentre alle navi già venìa col foco. Rimbombò nel cadere, e dalla mano cascògli il tizzo. Come vide Ettorre riverso nella polve anzi alla poppa il consobrino, alzò la voce, e i suoi animando gridò: Licii, Troiani, Dardani bellicosi, ah dalla pugna non ritraete in questo stremo il piede! Deh non patite che di Clìzio il figlio, da valoroso nel pugnar caduto, sia dell'armi dispoglio. - E sì dicendo, Aiace saettò colla fulgente lancia, ma in fallo; e Licofron percosse di Mastore figliuol che reo di sangue dalla sacra Citera esule venne al Telamònio, e v'ebbe asilo, e poscia suo scudiero il seguì. Lo giunse il ferro nella testa, da presso al suo signore, sul confin dell'orecchia: e dalla poppa resupino il travolse nella polve. Raccapriccionne Aiace, e a Teucro disse: Caro fratel, n'è spento il fido amico Mastoride che noi ne' nostri tetti da Citera ramingo in pregio avemmo quanto i diletti genitor: l'uccise Ettore. Dove or son le tue mortali frecce, e quell'arco tuo, dono d'Apollo? L'udì Teucro, e veloce a lui ne venne coll'arco e la faretra, e via ne' Troi dardeggiando ferì di Pisenorre Clito illustre figliuol, caro al Pantìde Polidamante a cui de' corridori reggea le briglie. Or, mentre che bramoso di mertarsi d'Ettorre e de' Troiani e la grazia e la lode, ove dell'armi lo scompiglio è maggior spinge i cavalli, malgrado il presto suo girarsi il giunse l'inevitabil suo destin; ché il dardo lagrimoso gli entrò dentro la nuca. Cadde il trafitto; s'arretrâr turbati i destrieri scotendo il vôto cocchio orrendamente. Ma v'accorse pronto di Panto il figlio, che parossi innanzi ai frementi corsieri; e ad Astinòo di Protaon fidandoli, con molto raccomandar lo prega averli in cura e seguirlo vicin. Ciò fatto, il prode riede alla zuffa, e tra i primier si mesce. Pose allor Teucro un altro dardo in cocca alla mira d'Ettorre: e qui finita tutta alle navi si sarìa la pugna, se al fortissimo eroe togliea l'acerbo quadrel la vita. Ma lo vide il guardo della mente di Giove, che d'Ettorre custodìa la persona, e privo fece di quella gloria il Telamònio Teucro: ché il Dio, nell'atto del tirar, gli ruppe del bell'arco la corda, onde svïossi il ferreo strale, e l'arco di man cadde. Inorridito si rivolse Teucro al suo fratello, e disse: Ohimè! precise della nostra battaglia un Dio per certo tutta la speme, un Dio che dalla mano l'arco mi scosse, e il nervo ne diruppe pur contorto di fresco, e ch'io medesmo gli adattai questa mane, onde il frequente scoccar de' dardi sostener potesse. O mio diletto, gli rispose Aiace, poiché l'arco ti franse un Dio, nemico dell'onor degli Achivi, al suolo il lascia con esso le saette; e l'asta impugna e lo scudo, e co' Teucri entra in battaglia, ed agli altri fa core; onde, se prese esser denno le navi, almen non sia senza fatica la vittoria. Ad altro non pensiam dunque che a pugnar da forti. Corse Teucro alla tenda, e vi ripose l'arco, e preso un brocchier che avea di quattro falde il tessuto, un elmo irto d'equine chiome al capo si pose; e orribilmente n'ondeggiava la cresta. Indi una salda lancia impugnata, a cui d'acuto ferro splendea la punta, s'avvïò veloce, e raggiunse il fratello. Intanto Ettorre, viste cader di Teucro le saette, le sue schiere incuorando, alto gridava: Teucri, Dardani, Licii, ecco il momento d'esser prodi, e mostrar fra queste navi il valor vostro, amici. Infrante ha Giove d'un gran nemico (con quest'occhi il vidi) le funeste quadrella. Agevolmente si palesa del Dio l'alta possanza, sia ch'esalti il mortal, sia che gli piaccia abbassarne l'orgoglio, e l'abbandoni: siccome appunto degli Achivi or doma la baldanza, e le nostre armi protegge. Pugnate adunque fortemente, e stretti quelle navi assalite. Ognun che colto o di lancia o di stral trovi la morte, del suo morir s'allegri. È dolce e bello morir pugnando per la patria, e salvi lasciarne dopo sé la sposa, i figli e la casa e l'aver, quando gli Achei torneran navigando al patrio lido. Fur quei detti una fiamma ad ogni core. Dall'una parte i suoi conforta anch'esso Aiace, e grida: Argivi, o qui morire, o le navi salvar. Se fia che alfine il nemico le pigli, a piè tornarvi forse sperate alla natìa contrada? E non udite di che modo Ettorre d'incenerirle tutte impazïente i suoi guerrieri istiga? Egli per certo non alla tresca, ma di Marte al fiero ballo gl'invita. Né partito adunque né consiglio sicuro altro che questo, menar le mani, e di gran cor. Gli è meglio pure una volta aver salute o morte, che a poco a poco in lungo aspro conflitto qui consumarci invendicati e domi per mano, oh scorno! di peggior nemico. Rincorossi ciascuno, e allor la strage d'ambe le parti si confuse. Ettorre Schedio uccide, figliuol di Perimede, condottier de' Focensi. Uccide Aiace Laodamante, generosa prole d'Antenore, e di fanti capitano. Polidamante al suol stende il cillènio Oto, compagno di Megète, e duce de' magnanimi Epei. Visto Megète cader l'amico, scagliasi diritto su l'uccisor; ma questi obliquamente chinando il fianco andar fe' vôto il colpo, ché in quella zuffa non permise Apollo del figliuolo di Panto la caduta, e l'asta di Megète in mezzo al petto di Cresmo si piantò, che orrendamente rimbombò nel cader. Corse a spogliarlo dell'armi il vincitor; ma gli si spinse contra il gagliardo vibrator di picca Dolope che di Lampo era germoglio, di Lampo prestantissimo guerriero Laomedontìde. Impetuoso ei corse sopra Megète, e lo ferì nel mezzo dello scudo; ma il cavo e grosso usbergo l'asta sostenne, quell'usbergo istesso che d'Efira di là dal Selleente un dì Fileo portò, dono d'Eufete, ospite suo. Con questo egli più volte campò se stesso nelle pugne, ed ora con questo a morte si sottrasse il figlio che non fu tardo alle risposte. Al sommo del ferrato e chiomato elmo ei percosse l'assalitor coll'asta, e dispicconne l'equina cresta, che così com'era di purpureo color fulgida e fresca tutta gli cadde nella polve. Or mentre ei qui stassi con Dolope alle strette, e vittoria ne spera, ecco venirne a rapirgli la palma il bellicoso minore Atride, che furtivo al fianco di Dolope s'accosta, e via nel tergo l'asta gli caccia. Trapassògli il petto la furïosa punta oltre anelando: boccon cadde il trafitto, e gli fur sopra tosto que' due per dispogliarlo. Allora il teucro duce incoraggiando tutti i congiunti, si volse a Melanippo d'Icetaon. Pasceva egli in Percote, pria dell'arrivo degli Achei, le mandre. Ma giunti questi ad Ilio, ei pur vi venne, e risplendea fra' Teucri, ed abitava col re medesmo che l'avea per figlio. Lo punse Ettorre, e disse: E così dunque ci starem neghittosi, o Melanippo? E non ti senti il cor commosso al diro caso del morto consobrin? Non vedi lo studio che color dansi dintorno a Dolope per l'armi? Orsù mi segui: non è più tempo di pugnar da lungi con questi Argivi. Sterminarli è d'uopo, o veder Troia al fondo, ed allagate per lor di sangue cittadin le vie. Così detto, il precede, e l'altro il segue in sembianza d'un Dio. Ma volto a' suoi il gran Telamonìde, Amici, ei grida, siate valenti, in cor v'entri la fiamma della vergogna, e l'un dell'altro abbiate tema e rispetto nella forte mischia. De' prodi erubescenti i salvi sono più che gli uccisi. Chi si volge in fuga, corre all'infamia insieme ed alla morte. Sì disse, e tutti per sé pur già pronti alla difesa, si stampâr nel core que' detti, e fêr dell'armi un ferreo muro alle navi; ma Giove era co' Teucri. Prese allor Menelao con questi accenti d'Antìloco a spronar la gagliardia: Antìloco, tu se' del nostro campo il più giovin guerriero e il più veloce, e niun t'avanza di valor. Trascorri dunque, e di sangue ostil tingi il tuo ferro. Così l'accese e si ritrasse; e quegli fuor di schiera balzando, e d'ogn'intorno guatandosi vibrò l'asta lucente. Visto quell'atto, si scansaro i Teucri, ma il colpo in fallo non andò, ché colse Melanippo nel petto alla mammella, mentre animoso s'avanzava. Ei cadde risonando nell'armi, e ratto a lui Antìloco avventossi. A quella guisa che il veltro corre al caprïol ferito, cui, mentre uscìa dal covo, il cacciatore di stral raggiunse, e sciolsegli le forze: così sovra il tuo corpo, o Melanippo, a spogliarti dell'armi il bellicoso Antìloco si spinse. Il vide Ettorre, e volò per la mischia ad assalirlo. Non ardì l'altro, benché pro' guerriero, aspettarne lo scontro, e si fuggìo siccome lupo misfattor, che ucciso presso l'armento il cane od il bifolco, si rinselva fuggendo anzi che densa lo circuisca dei villan la turba; così diè volta sbigottito il figlio di Nestore per mezzo alle saette che alle sue spalle con immenso strido i Troiani piovevano ed Ettorre; né diè sosta al fuggir, né si converse che giunto fra' compagni a salvamento. Qui fu che i Teucri un furïoso assalto diero alle navi, ed adempîr di Giove il supremo voler, che vie più sempre lor forza accresce, ed agli Achei la scema; togliendo a questi la vittoria, e quelli incoraggiando, perché tutto s'abbia Ettor l'onore di gittar ne' curvi legni le fiamme, e tutto sia di Teti adempito il desìo. Quindi il veggente nume il momento ad aspettar si stava che il guardo gli ferisse alfin di qualche incesa nave lo splendor, perch'egli da quel punto volea che de' Troiani cominciasse la fuga, e degli Achei l'alta vittoria. In questa mente il Dio sproni aggiungeva al cor d'Ettorre, e questi furïando parea Marte che crolla la grand'asta in battaglia, o di vorace fuoco la vampa che ruggendo involve una folta foresta alla montagna. Manda spume la bocca, e sotto il torvo ciglio lampeggia la pupilla: ai moti del pugnar, la celata orrendamente si squassa intorno alle sue tempie, e Giove il proteggea dall'alto, e di lui solo tra tanti eroi volea far chiaro il nome a ricompensa di sua corta vita. Perocché già Minerva il dì supremo, che domar lo dovea sotto il Pelìde, gl'incalzava alle spalle. Ove più dense egli vede le file, e de' più forti folgoreggiano l'armi, oltre si spigne di sbaragliarle impazïente, e tutte ne ritenta le vie; ma tuttavolta gli esce vano il desìo, ché stretti insieme resistono gli Achei siccome aprico immane scoglio che nel mar si sporge, e de' venti sostiene e del gigante flutto la furia che si spezza e mugge: tali a piè fermo sostenean gli Achei l'urto de' Teucri. Finalmente Ettorre scintillante di foco nella folta precipitossi. Come quando un'onda gonfia dal vento assale impetuosa un veloce naviglio, e tutto il manda ricoperto di spuma: il vento rugge orribilmente nelle vele, e trema ai naviganti il cor, ché dalla morte non son divisi che d'un punto solo: così tremava degli Achivi il petto; ed Ettore parea crudo lïone che in prato da palude ampia nudrito un pingue assalta numeroso armento. Ben egli il suo pastor vorrìa da morte le giovenche campar; ma non esperto a guerreggiar col mostro, or tra le prime s'aggira ed or tra l'ultime; alfin l'empio vi salta in mezzo, ed una ne divora, e ne van l'altre impaurite in fuga: così davanti ad Ettore ed a Giove fuggìan percossi da divin terrore tutti allora gli Achei. Restovvi il solo Micenèo Perifète, amata prole di quel Coprèo che un giorno al grande Alcide venne dei duri d'Euristèo comandi apportatore. Di malvagio padre illustre figlio risplendea di tutte virtù fornito Perifète, ed era e nel corso e nell'armi e ne' consigli tra' Micenèi pregiato e de' primieri. Ed or qui diede di sua morte il vanto alla lancia d'Ettòr. Ché mentre indietro si volta nel fuggir, nell'orlo inciampa dello scudo, che lungo insino al piede dalle saette il difendea. Da questo impedito il guerrier cadde supino, e dintorno alle tempie in suono orrendo la celata squillò. V'accorse Ettorre, e l'asta in petto gli piantò, né alcuno aitarlo potea de' mesti amici, del teucro duce paurosi anch'essi. Abbandonato delle navi il primo ordin gli Achivi, come ria gli sforza necessitade e l'incalzante ferro de' Troiani, riparansi al secondo alla marina più propinquo; e quivi nanzi alle tende s'arrestâr serrati senza sbandarsi (ché vergogna e tema li ratteneano) e alzando un incessante grido a vicenda si mettean coraggio. Anzi a tutti il buon Nestore, l'antico guardïan degli Achivi, ad uno ad uno pe' genitor li supplica: Deh siate, siate forti, o miei cari, e di pudore il cor v'infiammi la presenza altrui. Della sua donna ognuno e de' suoi figli e del suo tetto si rammenti; ognuno si proponga de' padri, o spenti o vivi, i bei fatti al pensiero: io qui per essi che son lungi vi parlo, e vi scongiuro di tener fermo e non voltarvi in fuga. Rincorârsi a que' detti: allor repente sgombrò Minerva la divina nube, che il lor guardo abbuiava, e una gran luce dintorno balenò. Vider le navi, videro il campo e la battaglia e il prode Ettore e tutti i suoi guerrier, sì quelli che in riserbo tenea, sì quei che fanno pugna alle navi. Non soffrì d'Aiace il magnanimo cor di rimanersi con gli altri Achivi indietro, ed impugnata una gran trave da naval conflitto con caviglie connessa, e ventidue cubiti lunga, la scotea, per l'alte de' navigii corsìe lesto balzando a lunghi passi, simigliante a sperto equestre saltator che giunti insieme quattro scelti destrier gli sferza e spigne per le pubbliche vie: maravigliando stassi la turba, ed ei sicuro e ritto dall'un passando all'altro il salto alterna sui volanti cavalli; a tal sembianza alternava l'eroe gl'immensi passi per le coperte delle navi, e al cielo la sua voce giugnea sempre gridando terribilmente, e confortando i suoi delle tende e de' legni alla difesa. E né pur esso di rincontro Ettorre tra' Teucri in turba si riman; ma quale aquila falba che uno stormo invade o di cigni o di gru che lungo il fiume van pascolando; a questa guisa il prode di schiera uscito avventasi di punta contra una nave di cerulea prora. Lo stesso Giove colla man possente il sospinge da tergo, e gli altri incita, e un novello vi desta aspro certame. Detto avresti che fresca allora allora s'attaccava la mischia, e che indefesse eran le braccia: l'impeto è cotanto de' combattenti con opposti affetti. Nella credenza di perirvi tutti pugnavano gli Achei; nella lusinga di sterminarli i Teucri, ed in faville mandar le navi. Ed in cotal pensiero gli uni e gli altri mescean la zuffa e l'ire. Ettore intanto colla destra afferra d'una nave la poppa. Era la bella veloce nave che di Troia al lido Protesilao guidò senza ritorno. Per questa si facea di Teucri e Achei un orrido macello, e questi e quelli d'un cor medesmo, non con archi e dardi fan pugna da lontan, ma con acute mannaie a corpo a corpo, e con bipenni e con brandi e con aste a doppio taglio, e con tersi coltelli di forbito ebano indutti e di gran pomo; ed altri ne cadean dalle spalle, altri dal pugno de' guerrieri, e scorrea sangue la terra. Dell'afferrata poppa Ettor tenendo forte il timone colle man, gridava: Foco, o Teucri, accorrete, e combattete; ecco il dì che di tutti il conto adegua, il dì che Giove nelle man ci mette queste navi, a Ilïon contra il volere venute degli Dei, queste che tanti ne recâr danni per codardi avvisi de' nostri padri che mi fean divieto di portar qui la guerra. Ma se Giove confuse allor le nostre menti, or egli, egli stesso n'incalza all'alta impresa. Disse, e i Teucri maggior contro gli Argivi impeto fêro. Degli strali allora più non sostenne Aiace la ruina, ma giunta del morir l'ora credendo, lasciò la sponda del naviglio, e indietro retrocesse alcun poco ad uno scanno sette piè di lunghezza. E qui piantato osservava il nemico, e sempre oprando l'asta, i Troiani, che di faci ardenti già s'avanzano armati, allontanava, e sempre alzava la terribil voce: Dànai di Marte alunni, amici eroi, non ponete in obblìo vostra prodezza. Sperate forse di trovarvi a tergo chi ne soccorra, od un più saldo muro che ne difenda? Non abbiam vicina città munita che ne salvi, e nuove falangi ne fornisca. In mezzo a fieri inimici noi siam, chiusi dal mare, lungi dal patrio suol. Nell'armi adunque, non nella fuga, ogni salute è posta. Così dicendo, colla lunga lancia furïoso inseguìa qualunque osava da Ettore sospinto avvicinarsi colle fiamme alle navi. E di costoro dodici dall'acuta asta trafitti pose a giacer davanti alle carene.
E così questi combattean la nave. Presentossi davanti al fiero Achille Patroclo intanto un caldo rio versando di lagrime, siccome onda di cupo fonte che in brune polle si devolve da rupe alpestre. Riguardollo, e n'ebbe pietà il guerriero piè-veloce, e disse: Perché piangi, Patròclo? Bamboletta sembri che dietro alla madre correndo torla in braccio la prega, e la rattiene attaccata alla gonna, ed i suoi passi impedendo piangente la riguarda finch'ella al petto la raccolga. Or donde questo imbelle tuo pianto? Ai Mirmidóni o a me medesmo d'una ria novella sei forse annunziator? Forse di Ftia la ti giunse segreta? E pur la fama vivo ne dice ancor Menèzio, e vivo tra i Mirmidón l'Eàcide Pelèo, d'ambo i quali d'assai grave a noi fôra certo la morte. O per gli Achei tu forse le tue lagrime versi, e li compiagni là tra le fiamme delle navi ancisi, e dell'onta puniti che mi fêro? Parla, m'apri il tuo duol, meco il dividi. E tu dal cor rompendo alto un sospiro così, Patròclo, rispondesti: O Achille, o degli Achei fortissimo Pelìde, non ti sdegnar del mio pianto. Lo chiede degli Achei l'empio fato. Oimè, che quanti eran dianzi i miglior, tutti alle navi giaccion feriti, quale di saetta, qual di fendente. Di saetta il forte Tidìde Dïomede, e di fendente l'inclito Ulisse e Agamennón; trafitta ei pur di freccia Eurìpilo ha la coscia. Intorno a lor di farmaci molt'opra fan le mediche mani, e le ferite ristorando ne vanno. E tu resisti inesorato ancora? O Achille! oh mai non mi s'appigli al cor, pari alla tua, l'ira, o funesto valoroso! E s'oggi sottrar nieghi gli Achivi a morte indegna, chi fia che poscia da te speri aita? Crudel! né padre a te Pelèo, né madre Tetide fu: te il negro mare o il fianco partorì delle rupi, e tu rinserri cuor di rupe nel sen. Se doloroso ti turba un qualche oracolo la mente; se di Giove alcun cenno a te la madre veneranda recò, me tosto almeno invìa nel campo; e al mio comando i forti Mirmidoni concedi, ond'io, se puossi, qualche raggio di speme ai travagliati compagni apporti. E questo ancor mi assenti, ch'io, delle tue coperto armi le spalle, m'appresenti al nemico, onde ingannato dalla sembianza, in me comparso ei creda lo stesso Achille, e fugga, e l'abbattuto Acheo respiri. Nella pugna è spesso una via di salute un sol respiro; e noi di forze intégri agevolmente ricaccerem la stanca oste alle mura dalle navi respinta e dalle tende. Così l'eroe pregò. Folle! ché morte perorava a se stesso e reo destino. E a lui gemendo di corruccio Achille: Che dicesti, o Patròclo? In questo petto terror d'udite profezie non passa, né di Giove alcun cenno a me la diva madre recò. Ma il cor mi rode acerba doglia in pensando che rapirmi il mio un mio pari s'ardisce, e del concesso premio spogliarmi prepotente. È questo, questo il tormento, il dispetto, la rabbia onde l'alma è angosciata. Una donzella di valor ricompensa, a me prescelta da tutto il campo, e da me pria coll'asta conquistata per mezzo alla ruina di munita città, questa alle mie mani ha ritolta l'orgoglioso Atride, come a vil vagabondo. Ma le andate cose sien poste nell'obblìo; ché l'ira viver non debbe eterna. Io certo avea fatto un severo nel mio cor decreto di non porla, se prima non giugnesse alle mie navi de' pugnanti il grido e la pugna. Ma tu le mie ti vesti armi temute, e alla battaglia guida i bellicosi Tessali; ché fosco di Teucri e fiero un nugolo vegg'io circondar già le navi, e al lido stringersi in poco spazio i Greci, e su lor tutta Troia versarsi, audace fatta e balda perché vicino balenar non vede dell'elmo mio la fronte. Oh fosse meco stato re giusto Agamennón! Ben io t'affermo che costoro avrìan fuggendo de' lor corpi ricolme allor le fosse. Or ecco che n'han chiuso essi d'assedio: perocché nella man di Dïomede, a tener lunge dagli Achei la morte, l'asta più non infuria, né d'Atride la voce ascolto io più dall'abborrita bocca scoppiante; ma sol quella intorno dell'omicida Ettorre mi rimbomba animante i Troiani. E questi alzando liete grida guerriere il campo tutto tengon già vincitori. E nondimeno va, ti scaglia animoso, e dalle navi quella peste allontana, né patire che le si strugga il fuoco, e ne sia tolta del desïato ritornar la via. Ma, quale in mente la ti pongo, avverti de' miei detti alla somma, e m'obbedisci, se vuoi che gloria me ne torni, e grande dai Greci onore, e che la bella schiava con doni eletti alfin mi sia renduta. Cacciati i Teucri, fa ritorno: e s'anco l'altitonante di Giunon marito ti prometta vittoria, incauta brama di pugnar senza me con quei gagliardi non ti seduca, né voler ch'io colga di ciò vergogna e disonor: né spinto dall'ardor della pugna alle fatali dardanie mura avvicinar le schiere della strage de' Teucri insuperbito; onde non scenda dall'Olimpo un qualche Immortale a tuo danno. Essi son cari, non obblïarlo, al saettante Apollo. Posti in salvo i navili, immantinente dunque dà volta, e lascia ambo a vicenda struggersi i campi. Oh Giove padre! oh Pallade! e tu di Delo arciero Iddio, deh fate che nessun possa né Troian né Greco schivar morte, nessuno; onde del sacro ilïaco muro la caduta sia di noi due soli preservati il vanto. Mentre seguìan tra lor queste parole Aiace omai cedea l'arena oppresso da gran selva di strali. Rintuzzava le sue forze il voler di Giove e il nembo delle teucre saette. Il rilucente elmo percosso un suon mettea che orrendo gl'intronava le tempie, ed incessante sovra i chiavelli il martellar cadea. Langue spossata la sinistra spalla dall'assiduo maneggio affaticata del versatile scudo. E tuttavolta né la calca premente, né de' colpi la tempesta il potea mover di loco. Scuotegli i fianchi più affannato e spesso l'anelito: il sudor discorre a rivi per le membra, né puote a niuna guisa pigliar respiro il valoroso. Intanto d'ogni parte l'orror cresce e il periglio. Muse dell'alto Olimpo abitatrici, or voi ne dite per che modo il primo fuoco alle navi degli Achei s'apprese. Di frassino una grave asta scotea Aiace. A questa avvicinato Ettorre tal trasse un colpo della grande spada che netta la tagliò là dove al tronco si commette la punta. Invan vibrava il Telamònio eroe l'asta privata della sua cima, che lontan cadendo risonò sul terren. Raccapricciossi il magnanimo, e vide ivi d'un nume manifesta la man; vide che avverso l'Altitonante del pugnar le vie tutte gli avea precise, e decretata de' Teucri all'armi la vittoria. Ei dunque lunge dai dardi si ritrasse; e ratto i Troi gittaro nella nave il foco, che tosto le si apprese, e d'ogni lato l'inestinguibil fiamma si diffuse. Si batté l'anca per dolore Achille, vista la vampa divorante; e, Sorgi, mio Patroclo, gridò: sorgi. Alle navi l'impeto io veggo della fiamma ostile. Deh che il nemico non le prenda, e tutti ne precluda gli scampi: su via, tosto armati; ché i miei forti io ti raduno. Disse: e Patròclo si vestìa dell'armi folgoranti. Alle gambe primamente i bei schinieri si ravvolse adorni d'argentee fibbie. La corazza al petto poscia si mise del veloce Achille screzïata di stelle. Indi la spada di bei chiovi d'argento aspra e lucente dall'omero sospese. Indi lo scudo saldo e grande imbracciò: la valorosa fronte nell'elmo imprigionò, su cui d'equine chiome orrendamente ondeggia una cresta. Alfin prese, atte al suo pugno, valide lance; ed unica d'Achille l'asta non prese, immensa, grave e salda cui nullo palleggiar Greco potea, tranne il braccio achillèo: massiccia antenna sulle cime del Pèlio un dì recisa dal buon Chirone, ed a Pelèo donata, perché fosse in sua man strage d'eroi. Comanda ei quindi che i cavalli al cocchio subito aggioghi Automedon, guerriero cui dopo Achille rompitor di squadre sovra ogni altro ei pregiava: ed in battaglia nel sostener gl'impetuosi assalti del nemico, ad Achille era il più fido. Rotti adunque gl'indugi, Automedonte i veloci corsieri al giogo addusse Balio e Xanto che un vento eran nel corso, e partoriti a Zefiro gli avea l'Arpia Podarge un dì ch'ella pascendo iva nel prato lungo la corrente dell'Oceàn. Dall'una banda ei poscia Pedaso aggiunse, corridor gentile, cui seco Achille un dì dalla disfatta città d'Eezïon s'avea condotto; e quantunque mortale iva del paro co' destrieri immortali. Intanto Achille su e giù scorrendo per le tende, tutti di tutto punto i Mirmidóni armava. Quai crudivori lupi il cor ripieni di molta gagliardia, prostrato avendo sul monte un cervo di gran corpo e corna, sel trangugiano a brani, e sozze a tutti rosseggiano di sangue le mascelle: quindi calano in branco ad una bruna fonte a lambir colle minute lingue il nereggiante umor, carne ruttando mista col sangue: il cor ne' petti audaci s'allegra, e il ventre ne va gonfio e teso: tali dintorno al bellicoso amico del gran Pelìde intrepidi si affollano i mirmidonii capitani; e in mezzo a lor s'aggira il marzïale Achille i cavalli animando e i battaglieri. Cinquanta eran le prore che veloci avea condotte a Troia il caro a Giove Tessalo prence, e carca iva ciascuna di cinquanta guerrieri. A cinque duci n'avea dato il comando, ed ei la somma potestà ne tenea. Guida la prima squadra Menèstio, scintillante il petto di varïato usbergo. Era costui prole di Sperchio, fiume che da Giove l'origine vantava; e di Pelèo la bella figlia Polidora a Sperchio partorito l'avea, donna mortale commista con un Dio. Ma lui la fama nel popolo dicea prole di Boro, di Perierèo figliuol, che tolta in moglie l'avea solenne e di gran dote ornata. Guidava la seconda il marzio Eudoro generato di furto, a cui fu madre la figlia di Filante Polimela, danzatrice leggiadra. Innamorossi in lei Mercurio un dì che alle cantate danze la vide della Dea che gode del romor delle cacce e d'aureo strale; la vide, e della casa alle superne stanze salito giacquesi furtivo il pacifico Iddio colla fanciulla, e lei fe' madre d'un illustre figlio, d'Eudoro, egregio nella pugna al pari che rapido nel corso. E poiché tratto fuor l'ebbe dal materno alvo Ilitìa curatrice de' parti, e l'almo ei vide raggio del Sol, la genitrice al prode Attòride Echeclèo passò consorte, di largo dono nuzïal dotata. Nudrì poscia il fanciullo ed allevollo l'avo Filante con paterna cura, e di figlio diletto in loco il tenne. Capitan della terza era il valente Memalide Pisandro, il più perito de' Mirmidóni nel vibrar dell'asta dopo il compagno del Pelìde Achille. La quarta il veglio cavalier Fenice, e conducea la quinta Alcimedonte, di Laerce buon figlio. Or poiché tutti gli ebbe schierati co' lor duci Achille, gravi ed alte parlò queste parole: Mirmidoni, di voi nullo mi ponga le minacce in obblìo, che, mentre immoti su le navi la mia ira vi tenne, fêste a' Troiani, me accusando tutti, e dicendo: Implacabile Pelìde, certo di bile ti nudrìo la madre: crudel, che tieni a lor dispetto inerti nelle navi i tuoi prodi. A Ftia deh almeno redir ne lascia su le nostre prore, da che nel cor ti cadde una tant'ira. Questi biasmi in accolta a me sovente mormoraste, o guerrieri. Or ecco è giunto del gran conflitto che bramaste il giorno. All'armi adunque; e chi cuor forte in petto si chiude, a danno de' Troiani il mostri. Sì dicendo, destò d'ogni guerriero e la forza e l'ardir. Strinser più densa tosto le schiere l'ordinanza, uditi del lor sire gli accenti. E in quella guisa che industre architettor l'una su l'altra le pietre ammassa, e insieme le commette acconciamente a costruir d'eccelso palagio la muraglia all'urto invitta del furente aquilon: non altramente addensati venìan gli elmi e gli scudi. Scudo a scudo, elmo ad elmo, e uomo ad uomo s'appoggia; e al moto delle teste vedi l'un coll'altro toccarsi i rilucenti cimieri e l'onda delle chiome equine: sì de' guerrier serrate eran le file. Iva il paro d'eroi dinanzi a tutti Patroclo e Automedonte, ambo d'un core e d'una brama di dar dentro ei primi. Con altra cura intanto alla sua tenda avvïossi il Pelìde, ed un forziere aprì di vago lavorìo, cui Teti gli avea riposto nella nave e colmo di tuniche e di clamidi del vento riparatrici, e di vellosi strati. Quivi una tazza in serbo egli tenea di pregiato artificio, a cui null'altro labbro mai non attinse il rubicondo umor del tralcio, e fuor che a Giove, ei stesso non libava con questa ad altro iddio. Fuor la trasse dell'arca, e con lo zolfo la purgò primamente: indi alla schietta corrente la lavò. Lavossi ei pure le mani, e il vino rosseggiante attinse. Ritto poscia nel mezzo al suo recinto libando, e gli occhi sollevando al cielo, a Giove, che il vedea, fe' questo prego: Dio che lungi fra' tuoni hai posto il trono, Giove Pelasgo, regnator dell'alta agghiacciata Dodona, ove gli austeri Selli che han l'are a te sacrate in cura, d'ogni lavacro schivi al fianco letto fan del nudo terreno, i voti miei già tu benigno un'altra volta udisti, e dalle piaghe degli Achei vendetta dell'onor mio prendesti. Or tu pur questa fïata, o padre, le mie preci adempi. Io qui fermo mi resto appo le navi; ma in mia vece alla pugna ecco spedisco con molti prodi il mio diletto amico. Deh vittoria gl'invìa, tonante Iddio, l'ardir gli afforza in petto, onde s'avvegga Ettore se pugnar sappia pur solo il mio compagno, o allor soltanto invitta la sua destra infierir, quando al tremendo lavor di Marte lo conduce Achille. Ma dalle navi achee lungi rimosso l'ostil furore, a me deh tosto il torna con tutte l'armi e co' suoi forti illeso. Sì disse orando, e il sapiente Giove parte del prego udì, parte ne sperse. Udì che dalle navi alfin respinta fosse la pugna, e non udì che salvo dalla pugna tornasse il caro amico. Libato a Giove e supplicato, Achille rïentrò, rinserrò nell'arca il sacro nappo: e di nuovo della tenda uscito ritto all'ingresso si fermò bramoso di mirar de' Troiani e degli Achei la terribile mischia. E questi al cenno dell'ardito Patròclo in ordinati squadroni, e tutti di gran cor precinti già piombano su i Teucri, e si dispiccano come rabide vespe, entro i lor nidi lungo la strada stimolate all'ira da procaci fanciulli, a cui diletta travagliarle incessanti a loro usanza. Stolti! ché a sé fan danno ed all'ignaro passeggiero innocente. Le sdegnose che ne' piccioli petti han grande il core, sbucano in frotta, e alla difesa volano de' cari parti. Coll'ardir di queste si versâr dalle navi i Mirmidóni. N'era immenso il fracasso, e di Menèzio confortandoli il figlio alto gridava: Commilitoni del Pelìde Achille, siate valenti; della vostra possa ricordatevi, amici, e combattiamo per la gloria di lui, forti campioni del più forte de' Greci. Il suo fallire vegga il superbo Atride, e dell'oltraggio fatto al maggiore degli eroi si penta. Sprone alle forze e al cor di ciascheduno fur le parole. Si serrâr, scagliârsi sul nemico ad un punto; e si sentiva terribilmente rimbombar le navi al gridar degli Achei. Ma come i Teucri di Menèzio mirâr l'inclito figlio esso e l'auriga Automedonte al fianco folgoranti nell'armi, a tutti il core tremò: le schiere scompigliârsi, ognuna nella credenza che il Pelìde avesse deposta l'ira, e l'amistà ripresa. Studia ognuno la fuga, ognun procaccia la sua salvezza. Allor Patròclo il primo la fulgida vibrò lancia nel mezzo dove più densa intorno all'alta poppa del buon Protesilao ferve la calca: e Pirecmo ferì, che dalle vaste rive dell'Assio e d'Amidone avea seco i peonii cavalier condutti. Gli mise il colpo alla diritta spalla, e quei riverso e gemebondo cadde nella polve. Si volse al suo cadere il peonio drappello in presta fuga, e tutto si sbandò, morto il suo duce prestantissimo in guerra. Repulsati i nemici, l'eroe spense le vampe; ma il naviglio restò mezz'arso e monco. E qui fuggire e sgominarsi i Teucri, e gli Achivi inseguirli, e via pe' banchi delle navi cacciarli in gran tumulto. Siccome allor che dall'eccelsa vetta di gran monte le nubi atre disgombra il balenante Giove, appaion tutte subitamente le vedette e gli alti gioghi e le selve, e immenso s'apre il cielo: così respinta l'ostil fiamma, aprissi de' Dànai il core e respirò. Ma tregua non si fece alla zuffa; ancor non tutti davan le spalle agl'incalzanti Achei gli ostinati Troiani: e tuttavolta resistendo, cedean forzati e lenti gli occupati navigli. Allor diffusa in maggior spazio la battaglia, ognuno de' dànai duci un inimico uccise. Fu Patroclo il primier che con acuto cerro percosse Arëilìco al fianco nel voltarsi che fea. Lo passa il ferro, frange l'osso; e boccon cade il meschino. Trafisse Menelao Toante al petto scoperto dello scudo, e freddo il fece. Il figliuol di Filèo, visto a rincontro venirsi Anficlo d'assaltarlo in atto, il previen, lo colpisce ove più ingrossa della gamba la polpa. Infrange i nervi la ferrea punta, e a lui le luci abbuia. E voi l'armi d'ostil sangue non vile Antìloco tingeste e Trasimède valorosi Nestoridi. Coll'asta Antìloco passò d'Antìmio il fianco, e il distese boccon. Màride irato per l'ucciso fratello innanzi al caro cadavere si pianta, e contra Antìloco la picca abbassa. Ma di lui più ratto Trasimède il prevenne, e non indarno volò la punta. All'omero lo giunse, i muscoli segò del braccio estremo, e netto l'osso ne recise. Ei cadde fragoroso, e l'avvolse eterna notte. Da due germani i due germani uccisi così n'andaro a Dite, ambo valenti di Sarpedon compagni, ambo famosi lanciatori, figliuoi d'Amisodaro che la Chimera, insuperabil mostro di molte genti esizio, un dì nudriva. Aiace d'Oilèo sovra Cleòbolo correndo impetuoso il piglia vivo nella calca impacciato, e via sul collo l'enorme daga calando lo scanna. Si tepefece per lo sangue il ferro; e la purpurea morte e il vïolento fato le luci gli occupò per sempre. S'azzuffâr Lico e Penelèo: ma in fallo trasser ambo le lance. Allor più fieri dier mano al brando. Del chiomato elmetto Lico il cono percosse: ma la spada si franse all'elsa. All'avversario il ferro assestò Penelèo sotto l'orecchio, e tutto ve l'immerse. Penzolava in giù la testa dispiccata, e sola tenea la pelle. Così cadde e giacque. Merïon velocissimo correndo Acamante raggiunse appunto in quella che il cocchio ei monta, e al destro omero il fere. Ruinò quel percosso dalla biga, e morte gli tirò su gli occhi il velo. Idomenèo la lancia nella bocca d'Erimanto cacciò. La ferrea cima apertasi la via sotto il cerèbro rïuscì per la nuca, spezzò l'osso del gorgozzule, e sgangherògli i denti; talché di sangue s'empîr gli occhi, e sangue soffiò dal naso e dalle fauci aperte. Così concio il coprì l'ombra di morte. E questi fûro i condottieri achei che spensero ciascuno un inimico. Qual su capri ed agnelle i lupi piombano sterminatori, allor che per inospita balza neglette dal pastor si sbrancano; appena le adocchiâr, che ratti avventansi alle misere imbelli e ne fan strazio: non altrimenti si vedeva i Dànai dar sopra i Teucri che del core immemori con orribile strepito fuggivano. Nel folto della mischia il grande Aiace sempre ad Ettòr volgea l'asta e la mira. Ma quel mastro di guerra ricoperto il largo petto di taurino scudo all'acuto stridor delle saette e al sibilo dell'aste attento bada, ben s'accorgendo alla contraria parte già piegar la vittoria: e tuttavolta teneasi saldo alla salvezza intento degli amati compagni. Alfin, siccome per l'etere sereno al cielo ascende su dal monte una nube allor che Giove tenebrosa solleva la tempesta: non altrimenti dalle navi i Teucri dier volta urlando, e non avea ritegno il ritrarsi e il fuggir. Lo stesso Ettorre, via coll'armi dai rapidi destrieri trasportato in mal punto, la difesa abbandona de' suoi che la profonda fossa accalca e impedisce. Ivi sossopra molti destrier precipitando spezzano e timoni e tirelle, e conquassati lascian là dentro co' lor duci i carri. E Patroclo gl'incalza, ed incitando fieramente i compagni, alla suprema ruina anela de' Troiani. E questi d'alte grida e di fuga empion già tutte sbaragliati le vie. Saliva al cielo vorticosa di polve una procella: spaventati i cavalli a tutta briglia correan dal mare alla cittade; e dove maggior vede l'eroe turba e scompiglio minaccioso gridando a quella volta drizza la biga. Traboccar dai cocchi vedi sotto le ruote i fuggitivi, e i vôti cocchi sobbalzando volano risonanti. Varcâr d'un salto il fosso gl'immortali destrieri oltre anelando, i destrier che a Pelèo diero gli Dei preclaro dono. E tuttavia l'eroe contra Ettòr li flagella, desïoso pur d'arrivarlo e di ferir. Ma lui traean già lunge i corridor veloci. Come d'autunno procelloso nembo tutta inonda la terra, allor che Giove densissime dal ciel versa le piogge quando contra i mortali arma il suo sdegno, i quai, cacciata la giustizia in bando e la vendetta degli Dei schernita, vïolente nel fòro e nequitose proferiscon sentenze: allor furenti sboccan ne' campi i fiumi; giù dal monte precipitando le sonanti piene squarcian le ripe, e nel purpureo mare devolvonsi mugghiando, e dal cultore corrompono la speme e la fatica: così gementi corrono e sbuffanti i troiani cavalli. Intanto rotte le prime schiere, di Menèzio il figlio le ricaccia, le stringe alla marina, lor tagliando il ritorno al desïato Ilio; e tra il mare e il Xanto e l'alto muro incalzava, uccideva e vendicava molte morti d'eroi. E primamente ferì d'asta Pronòo che mal di scudo coprìasi il petto. Lo trafisse; e quegli giù cadendo, nell'armi risonò. Poi d'Enòpo il figliuol Tèstore assalse impetuosamente. Iva costui sovra elegante cocchio, la persona curvo ed in atto di raccor le briglie, che smarrito nel cor s'avea lasciato dalle mani fuggir. Gli si fe' sopra l'eroe coll'asta, e tal gli spinse un colpo su la destra mascella, che la siepe sprofondògli dei denti. A questo modo infilzato nell'asta sollevollo dalla conca del cocchio, e il trasse a terra. Quale il buon pescator sovra sporgente scoglio seduto colla lenza, armata di fulgid'amo, fuor dell'onda estragge enorme pesce; a cotal guisa il Greco fuor del cocchio tirò colla lucente asta il confitto boccheggiante, e poscia lo scrollò dalla picca, e lungi al suolo lo gittò sanguinoso e senza vita. Quindi Erìalo, che contro gli venìa, giunge d'un sasso al mezzo della fronte, e in due, chiusa nel forte elmo, la spacca. Boccon versossi nella sabbia, e morte lo si recinse e gli rapìo la vita. Indi Erimante, Anfòtero ed Epalte e il figliuol di Damàstore Tlepòlemo, l'Argèade Polimèlo ed Echio e Piro e con Evippo Ifèo tutti in un mucchio rovesciò, rassegnò morti alla terra. Ma Sarpedonte visto de' compagni per le man di Patròclo un tale e tanto scempio, i suoi Licii rincorando, e insieme rampognando, Oh vergogna! o Licii, ei grida, dove, o Licii, fuggite? Ah per gli Dei rivolate alla pugna! Io di costui corro allo scontro, per saper chi sia questo fiero campion che vi diserta, che sì nuoce ai Troiani, e già di molti forti disciolse le ginocchia. - Disse, e via d'un salto a terra in tutto punto si lanciò dalla biga. Ed a rincontro come Patroclo il vide, ei pur nell'armi si spiccò dalla sua. Qual due grifagni ben unghiati avoltoi forte stridendo sovra un erto dirupo si rabbuffano, tal vennero quei due gridando a zuffa. Li vide, e tocco di pietade il figlio dell'astuto Saturno, in questi detti a Giunon si rivolse: Ohimè, diletta sorella e sposa! Sarpedon, ch'io m'aggio de' mortali il più caro, è sacro a morte pel ferro di Patròclo. Irresoluta fra due pensieri la mia mente ondeggia, se vivo il debba liberar da questo lagrimoso conflitto, e a' suoi tornarlo nell'opulenta Licia; o consentire che qui lo domi la tessalic'asta. E a lui grave i divini occhi girando l'alma Giuno così: Che parli, o Giove? che pretendi? Un mortale, un destinato da gran tempo alla Parca, or della negra diva ritorlo alla ragion? Fa pure, fa pur tuo senno: ma degli altri Eterni non isperar l'assenso. Anzi ti aggiungo, e tu poni nel cor le mie parole: se vivo e salvo alle paterne case renderai Sarpedon, bada che poscia del par non voglia più d'un altro iddio alla pugna sottrarre il proprio figlio; ché molti sotto alle dardanie mura stan nell'armi a sudar figli di numi, a cui porresti una grand'ira in seno. Ché s'ei t'è caro e lo compiagni, il lascia nella mischia perir domo dall'asta del figliuol di Menèzio: ma deserto dall'alma il corpo, al dolce Sonno imponi ed alla Morte, che alla licia gente il portino. I fratelli ivi e gli amici l'onoreranno di funereo rito e di tomba e di cippo, alle defunte anime forti onor supremo e caro. Disse; e al consiglio di Giunon s'attenne degli uomini il gran padre e degli Dei, e sangue piovve per onor del caro figlio cui lungi dalle patrie arene ne' frigii campi avrìa Patroclo ucciso. Già l'uno all'altro si fa sotto e sono alle prese. Patròclo a Trasimèlo, di Sarpedonte valoroso auriga, trapassò l'anguinaglia, e lo distese. Mosse secondo Sarpedonte, e in fallo la grand'asta vibrò, che trasvolando la destra spalla a Pèdaso trafisse. Si riversò sbuffando in su l'arena il trafitto cavallo, e dal ferino petto l'alma si sciolse gemebonda. Visto il compagno corridor disteso gli altri due costernârsi, e a calci, a salti diersi; il timone cigolò; confuse implicârsi le briglie. Ma riparo l'intrepido vi mise Automedonte, che rapido insorgendo, e via dal fianco sguäinata la lunga acuta spada tagliò netto al giacente le tirelle, e fu l'opra d'un punto. Entrambi allora rassettârsi i corsieri, e raddrizzârsi al cenno della briglia obbedïenti. E qui di nuovo alla crudel tenzone si spinsero i campioni, e pur di nuovo errò dell'asta Sarpedonte il tiro, che via sovresso l'omero sinistro di Patroclo trascorse e non l'offese. Gli fe' risposta il Tessalo, né vano il suo telo volò, ché dove è cinto da' suoi ripari il cor gli aperse il petto. Qual rovina una quercia o pioppo o pino cui sul monte tagliò con affilata bipenne il fabbro a nautico bisogno, tal Sarpedonte rovinò. Giacea steso innanzi alla biga, e colle mani ghermìa la polve del suo sangue rossa, e fremendo gemea pari a superbo tauro, onor dell'armento e d'aureo pelo, che da lïon, che il giunge alla sprovvista, sbranato cade, e sotto la mascella del vincitore mugolando spira. Tale del licio condottier prostrato dal tessalico ferro in sul morire era il gemito e l'ira. E Glauco il suo dolce amico per nome a sé chiamato, Caro Glauco, gli disse, or t'è mestieri buon guerriero mostrarti, e oprar le mani audacemente. Tu dell'aspra pugna se magnanimo sei, l'incarco assumi: corri, vola, e de' Licii i capitani alla difesa del mio corpo accendi. Difendilo tu stesso, e per l'amico combatti: infamia ti deriva eterna se me dell'armi mie spoglia il nemico, me pel certame delle navi ucciso; tien saldo adunque e pugna, e di coraggio tutte infiamma le squadre. - In questo dire le narici affilò, travolse i lumi, e la morte il coprì. Col piede il petto calcògli il vincitor, l'asta ne trasse, e il polmon la seguìa, sì che dal seno il ferro a un tempo gli fu svelto e l'alma. A' suoi sbuffanti corridori intanto scioltisi e in atto di fuggir, lasciando del lor signore il cocchio, i Mirmidoni parârsi innanzi, e gli arrestâr. Ma Glauco dell'amico alla voce il cor compunto di profondo dolor sospira e geme, ché mal può dargli la richiesta aita. L'impedisce la piaga al braccio infissa dallo strale di Teucro allor che Glauco, de' suoi volando alla difesa, assalse l'alta muraglia degli Achei. Compresso si tenea colla manca il braccio offeso l'infelice, ed orando al saettante nume di Delo, O re divino, ei disse, o che di Licia, o che di Troia or bèi tua presenza le rive, odi il mio prego; ché dovunque tu sia puoi d'un dolente qual, lasso! mi son io, la voce udire. Di che grave ferita e di che doglia trafitto io porti questo braccio il vedi; né il sangue ancor mi si ristagna, e tale incessante m'opprime una gravezza l'omero tutto, che dell'asta al peso mal reggo, e mal poss'io coll'inimico avventurarmi alla battaglia. Intanto di Giove il figlio Sarpedonte giace fortissimo guerriero, e l'abbandona ahi! pure il padre. Ma tu, Dio pietoso, quest'acerba mia piaga or mi risana: deh! placane il dolor, forza m'aggiungi, sì che i Licii compagni inanimando, io gli sproni al conflitto, e a me medesmo pugnar sia dato per l'estinto amico. Sì disse orando, ed esaudillo il nume: della piaga sedò tosto il tormento, stagnonne il sangue, e gagliardia gli crebbe. Sentì del Dio la man, fe' lieto il core l'esaudito guerrier: de' Licii in prima a incitar corre d'ogni parte i duci alla difesa dell'estinto: move quindi a gran passi fra' Troiani, e chiama Polidamante e Agènore, ed Enea anco ed Ettorre, e in rapide parole lor fattosi davanti, Ettore, ei grida, tu dimentichi i prodi che per te dalla patria lontani e dagli amici spendono l'alma, e tu lor nieghi aita. Giace de' Licii il condottiero, il giusto forte lor prence Sarpedon. Gradivo sotto Patròclo l'atterrò: correte, v'infiammi, amici, una giust'ira il petto; non patite, per dio! che i Mirmidóni lo spoglino dell'armi, e villania facciano al morto vendicando i Dànai da noi spenti. - Sì disse, e ricoperse dolor profondo le dardanie fronti; ché un gran sostegno, benché stranio, egli era d'Ilio, e molta seguìa gagliarda gente lui fortissimo in guerra. Difilati mosser dunque e serrati i teucri duci contra il nemico, ed Ettore, fremente del morto Sarpedon, li precorrea. D'altra parte Patròclo, anima ardita, sprona l'acheo valor. Gli Aiaci in prima, già per sé caldi di coraggio, infiamma con questi detti: Aiaci, ora vi caglia di far testa a costoro, e vi mostrate quali un tempo già foste, anzi migliori. Il campion che primiero la bastita saltò de' Greci, Sarpedonte è steso. Oh se fargli pur onta e strascinarlo e spogliarlo dell'armi ne si desse! E stramazzargli accanto un qualcheduno de' suoi compagni a disputarlo accinti! Disse, e diè nel desìo de' due guerrieri. Quinci e quindi le schiere inanimate Troiani e Licii, Mirmidóni e Achei sovra l'estinto s'azzuffâr mettendo orrende grida; e con fragore immenso risonavano l'armi. Un fiero buio su l'aspra pugna allor Giove diffuse, onde costasse molta strage il corpo dell'amato figliuol. Primi i Troiani respinsero gli Achei, spento Epigèo. Del magnanimo Agàcle era costui illustre figlio, e fra gli audaci Tessali audacissimo. A lui di Budio un giorno l'alma terra obbedìa. Ma spento avendo un suo valente consobrino, ei supplice a Pelèo rifuggissi ed alla diva consorte: e questi a guerreggiar co' Teucri d'Ilio ne' campi lo spedîr compagno dell'omicida Achille. Or qui costui già l'animose mani al combattuto cadavere mettea, quando d'un sasso Ettore il giunse nella fronte, e tutta in due gliela spezzò dentro l'elmetto. Cadde prono sul morto l'infelice, e chiuse i lumi nell'eterna notte. Addolorato dell'ucciso amico dritto tra' primi pugnator scagliossi di Menèzio il buon figlio: e qual veloce sparvier che gracci paventosi e storni sparpaglia per lo cielo e li persegue; tal nel denso de' Licii e de' Troiani irrompesti, o Patròclo, alla vendetta del caduto compagno. A Stenelao, caro figliuol d'Itemenèo, percosse d'un rude sasso la cervice, e i nervi ne lacerò. Piegâr, ciò visto, addietro i combattenti della fronte: ei pure piegò l'illustre Ettorre; e quanto è il tratto di stral che in giostra o in omicida pugna vibra un buon gittator, tanto i Troiani dier volta addietro dall'Acheo repulsi. Il primo che converse ardito il viso fu de' Licii scudati il capitano Glauco; e a Batìcle, di Calcon diletto magnanimo figliuol, tolse la vita. In Grecia egli era possessor di molte splendide case, e per dovizia il primo fra i Tessali tenuto. A lui si volse il Licio all'improvvista, e il giavellotto gli ficcò nelle coste appunto in quella che costui l'inseguiva ed era in atto già d'afferrarlo. Ei cadde, e un fragor cupo dieder l'armi sovr'esso. Alla caduta dell'egregio guerriero alto dolore gli Achei comprese ed alta gioia i Teucri, che stretti a Glauco s'avanzâr più baldi. Né si smarrîr gli Achivi, ma di punta si spinsero allo scontro. E Merïone Laogono prostese, audace figlio d'Enètore che in Ida era di Giove sacerdote, e qual nume il popol tutto lo riveriva. Merïon lo colse tra il confin dell'orecchio e della gota, e tosto l'alma uscì dal corpo, e lui un'orrenda ravvolse ombra di morte. Incontro all'uccisor la ferrea lancia Enea diresse, e a lui che sotto l'orbe del gran pavese procedea securo, assestarla sperò. Ma quei del colpo avvistosi, e piegata la persona l'asta schivò che sibilante e lunga andò di retro a conficcarsi in terra. Ne tremolò la coda, e quivi tutta perdé l'impeto e l'ira che la spinse. Come fitto nel suolo, e indarno uscito Enea si vide dalla mano il telo; Per certo, o Merïon, disse rabbioso, un assai destro saltator tu sei: ma questa lancia mia, se t'aggiungea, t'avrìa ferme le gambe eternamente. E Merïone di rimando: Enea, forte sei, ma ti fia duro la possa prostrar d'ognuno che al tuo scontro vegna, ché mortal se' tu pure: e s'io con questa in pieno ti corrò, con tutto il nerbo delle tue mani e la tua gran baldanza la palma a me darai, lo spirto a Pluto. Disse: e Patròclo con rampogna acerba garrendolo: Perché cianci sì vano tu che sei valoroso, o Merïone? Per contumelie, amico, unqua non fia che l'inimico quell'esangue ceda, ma col far che più d'un morda il terreno. Orsù, lingua in consiglio, e braccio in guerra, tregua alle ciance, e mano al ferro. - E dette queste cose, s'avanza, e l'altro il segue. Quale è il romor che fanno i legnaiuoli in montana foresta, e lunge il suono va gli orecchi a ferir, tale il rimbombo per la vasta pianura si solleva di celate, di scudi e di loriche, altre di duro cuoio, altre di ferro, ripercosse dall'aste e dalle spade: ned occhio il più scernente affigurato avrìa l'illustre Sarpedon: tant'era negli strali, nel sangue e nella polve sepolto tutto dalla fronte al piede. Senza mai requie al freddo corpo intorno facean tutti baruffa: e quale è il zonzo con che soglion le mosche a primavera assalir susurrando entro il presepe i vasi pastorali, allor che pieni sgorgan di latte; di costor tal era la giravolta intorno a quell'estinto. Fissi intanto tenea nell'aspra pugna Giove gli sguardi lampeggianti, e seco sul fato di Patròclo omai maturo severamente nell'eterno senno consultando venìa, se il grande Ettorre là sul giacente Sarpedon l'uccida, e dell'armi lo spogli; o se preceda al suo morire di molt'altri il fato. E questo parve lo miglior pensiero, che del Pelìde Achille il bellicoso scudier ricacci col lor duce i Teucri alla cittade, e molte vite estingua. Però d'Ettore al cor tale egli mise una vil tema, che montato il cocchio ratto in fuga si volse, ed alla fuga i Troiani esortò, chiaro scorgendo inclinarsi di Giove a suo periglio le fatali bilance. Allor piè fermo neppur de' Licii lo squadron non tenne, ma tutti si fuggîr visto il trafitto re lor giacente sotto monte orrendo di cadaveri: tante su lui caddero anime forti quando della pugna a Giove piacque esasperar gli sdegni. Così le corruscanti arme gli Achivi trasser di dosso a Sarpedonte, e altero alle navi invïolle il vincitore. Allor l'eterno adunator de' nembi ad Apollo così: Scendi veloce, Febo diletto, e da quell'alto ingombro d'armi sottraggi Sarpedonte, e terso dall'atro sangue altrove il porta, e il lava alla corrente, e lui d'ambrosia sparso d'immortal veste avvolgi: indi alla Morte ed al Sonno gemelli fa precetto che all'opime di Licia alme contrade il portino veloci, ove di tomba e di colonna, onor de' morti, egli abbia da' fratelli conforto e dagli amici. Disse: e al paterno cenno obbedïente calossi Apollo dall'idèa montagna sul campo sanguinoso, e in un baleno di sotto ai dardi Sarpedon levando, e lontano il recando alla corrente tutto lavollo, e l'irrigò d'ambrosia, e di stola immortal lo ricoperse; quindi al Sonno comanda ed alla Morte d'indossarlo e portarselo veloci: e quei subitamente ebber deposto nella licia contrada il sacro incarco. In questo mentre di Menèzio il figlio i cavalli e l'auriga inanimando ai Licii dava e ai Dardani la caccia. Stolto! ché in danno gli tornò dassezzo. Se d'Achille obbedìa saggio al comando, schivato ei certo della Parca avrebbe il decreto fatal: ma più possente e di Giove il voler, che de' mortali. Arbitro della tema ei mette in fuga i più forti a suo senno, e allor pur anco ch'egli medesmo a battagliar li sprona, lor toglie la vittoria; e questo ei fece d'audacia empiendo di Patròclo il petto. Or qual prima, qual poi spingesti a Pluto, quando alla morte ti chiamâr gli Dei, magnanimo guerrier? Fur primi Adresto, Autònoo, Echeclo, ed Epistorre e Pèrimo prole di Mega, e Melanippo; quindi Elaso e Mulio con Pilarte; e come stese questi al terren, gli altri non fûro lenti alla fuga. E per Patròclo allora (ch'ei dirotto nell'ira innanzi a tutti furïava coll'asta) avrìan di Troia consumato gli Achei l'alto conquisto; ma Febo Apollo lo vietò calato su l'erta d'una torre, alto disastro meditando al guerriero, e scampo ai Teucri. Tre volte il cavalier dell'arduo muro su gli sproni montò; tre volte il nume colla destra immortal lo risospinse, forte picchiando sul lucente scudo. Ma come più feroce al quarto assalto l'eroe spiccossi, minacciollo irato con fiera voce il saettante iddio: Addietro, illustre baldanzoso, addietro: alla tua lancia non concede il fato espugnar la città de' generosi Teucri, né a quella pur del grande Achille sì più forte di te. - Questo sol disse: ed il guerriero retrocesse e l'ira schivò del nume che da lungi impiaga. Avea frattanto su le porte Scee de' suoi fuggenti corridori Ettorre rattenuta la foga, e in cor dubbiava se spronarli dovesse entro la mischia novellamente, e rinfrescar la pugna o chiamando a raccolta entro le mura l'esercito ridurre. A lui nel mezzo di questo dubbio appresentossi Apollo, tolte d'Asio le forme. Era d'Ettorre zio cotest'Asio ad Ecuba germano, e nondimeno ancor di giovinezza fresco e di forze, di Dimante figlio, che del frigio Sangario in su le rive tenea suo seggio. La costui sembianza presa, il nume sì disse: Ettor, perché cessi dall'armi? È d'un tuo pari indegna questa desidia. Di vigor vincessi io te quanto tu me! ben io pentirti farei del tuo riposo. Orsù, converti contra Patròclo que' destrieri, e trova d'atterrarlo una via: fa che l'onore di questa morte Apollo ti conceda. Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso conflitto si confuse. In sé riscosso Ettore al franco Cebrïon fe' cenno di sferzargli i destrieri alla battaglia: ed Apollo per mezzo ai combattenti scorrendo occulto seminava intanto tra gli Achei lo scompiglio e la paura, e fea vincenti col lor duce i Teucri. Sdegnoso Ettorre di ferir sul volgo de' nemici, spingea solo in Patròclo i gagliardi cavalli, e ad incontrarlo diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra coll'asta nella manca, e colla dritta un macigno afferrò aspro che tutto empiagli il pugno, e lo scagliò di forza. Fallì la mira il colpo, ma d'un pelo; né però vano uscì, ché nella fronte l'ettòreo auriga Cebrïon percosse, tutto al governo delle briglie intento, Cebrïon che nascea del re troiano valoroso bastardo. Il sasso acuto l'un ciglio e l'altro sgretolò, né l'osso sostenerlo poteo. Divelti al piede gli schizzâr gli occhi nella sabbia, ed esso, qual suole il notator, fece cadendo dal carro un tòmo, e l'agghiacciò la morte. E tu, Patròclo, con amari accenti lo schernisti così: Davvero è snello questo Troiano: ve' ve' come ei tombola con leggiadria! Se in pelago pescoso capitasse costui, certo saprebbe saltando in mar, foss'anche in gran fortuna, dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci da saziarne molte epe: sì lesto saltò pur or dal carro a capo in giuso. Oh gli eccellenti notator che ha Troia! Sì dicendo, avventossi a Cebrïone come fiero lïon che disertando una greggia, piagar si sente il petto, e dal proprio valor morte riceve. Ma ratto contra a quel furor si slancia Ettore dalla biga; e i due superbi incomincian col ferro a disputarsi l'esangue Cebrïon. Qual due lïoni che per gran fame e per gran cor feroci s'azzuffano d'un monte in su la cima per la contesa d'una cerva uccisa; non altrimenti i due mastri di guerra, l'intrepido Patròclo e il grande Ettorre, ardono entrambi del crudel desìo di trucidarsi. Il teucro eroe la testa del cadavere afferra, e lo ghermisce il Tessalo d'un piede, e la sua presa né quei né questi di lasciar fa stima. Allor Troiani e Achivi una battaglia appiccâr disperata: e qual gareggiano d'Euro e di Noto i forti fiati a svellere nelle selve montane il faggio e il frassino ed il ruvido cornio; e questi all'aere dibattendo le lunghe e larghe braccia con immenso ruggito le confondono, finché li vedi fracassarsi, e opprimere fragorosi la valle: a questa immagine l'un su l'altro scagliandosi combattono Troiani e Dànai del fuggir dimentichi. Dintorno a Cebrïon folta conficcasi una selva d'acute aste e d'aligeri dardi guizzanti dalle cocche; assidua d'enormi sassi una tempesta crepita su gli ammaccati scudi; ed ei nel vortice della polve giacea grande cadavere in grande spazio, eternamente, ahi misero! dei cari in vita equestri studi immemore. Finché del sole ascesero le rote verso il mezzo del ciel, d'ambe le parti uscìano i colpi con egual ruina, e la gente cadea. Ma quando il giorno su le vie dechinò dell'occidente, prevalse il fato degli Achei che alfine dall'acervo dei teli, e dalla serra de' Troiani involâr di Cebrïone la salma, e l'armi gli rapîr di dosso. Qui fu che pieno di crudel talento urtò Patròclo i Troi. Tre volte il fiero con gridi orrendi gli assalì, tre volte spense nove guerrier; ma come il quarto impeto fece, e parve un Dio, la Parca del viver tuo raccolse il filo estremo, miserando garzon, ché ad incontrarti venìa tremendo nella mischia Apollo: né camminar tra l'armi alla sua volta l'eroe lo vide, ché una folta nebbia le divine sembianze ricoprìa. Vennegli a tergo il nume, e colla grave palma sul dosso tra le late spalle gli dechinò sì forte una percossa, che abbacinossi al misero la vista e girò l'intelletto. Indi dal capo via saltar gli fe' l'elmo il Dio nemico, e l'elmo al suolo rotolando fece sotto il piè de' corsieri un tintinnìo, e si bruttaro del cimier le creste di sangue e polve; né di polve in pria insozzar quel cimiero era concesso quando l'intatto capo e la leggiadra fronte copriva del divino Achille. Ma in quel giorno fatal Giove permise che d'Ettore passasse in su le chiome vicino anch'esso al fato estremo. Allora tutta a Patròclo nella man si franse la ferrea, lunga, ponderosa e salda smisurata sua lancia, e sul terreno dalla manca gli cadde il gran pavese rotto il guinzaglio. Di sua man l'usbergo sciolsegli alfine di Latona il figlio, e l'infelice allor del tutto uscìo di sentimento; gli tremaro i polsi, ristette immoto, sbalordito, e in quella tra l'una spalla e l'altra lo percosse coll'asta da vicin di Panto il figlio l'audace Euforbo, un Dardano che al corso e in trattar lancia e maneggiar destrieri la pari gioventù vincea d'assai. La prima volta che sublime ei parve su la biga a imparar dell'armi il duro mestier, venti guerrieri al paragone riversò da' lor cocchi; ed or fu il primo che ti ferì, Patròclo, e non t'uccise. Anzi dal corpo ricovrando il ferro si fuggì pauroso, e nella turba si confuse il fellon, che di Patròclo benché piagato e già dell'armi ignudo non sostenne la vista. Da quel colpo e più dall'urto dell'avverso Dio abbattuto l'eroe si ritirava fra' suoi compagni ad ischivar la morte. Ed Ettore, veduto il suo nemico retrocedente e già di piaga offeso, tra le file vicino gli si strinse, nell'imo cassò immerse l'asta e tutta dall'altra parte rïuscir la fece. Risonò nel cadere, ed un gran lutto per l'esercito achivo si diffuse. Come quando un lïone alla montagna cinghial di forze smisurate assalta, e l'uno e l'altro di gran cor fan lite d'una povera fonte, al cui zampillo venìano entrambi ad ammorzar la sete; alfin la belva dai robusti artigli stende anelo il nemico in su l'arena: tal di Menèzio al generoso figlio de' Teucri struggitor tolse la vita il troian duce, e al moribondo eroe orgoglioso insultando, Ecco, dicea, ecco, o Patròclo, la città che dianzi atterrar ti credesti, ecco le donne che ti sperasti di condur captive alla paterna Ftia. Folle! e non sai che a difesa di queste anco i cavalli d'Ettòr son pronti a guerreggiar co' piedi? E che fra' Teucri bellicosi io stesso non vil guerriero maneggiar so l'asta, e preservarli da servil catena? Tu frattanto qui statti orrido pasto d'avoltoi. Che ti valse, o sventurato, quel tuo sì forte Achille? Ei molti avvisi ti diè certo al partire: O cavaliero caro Patròclo, non mi far ritorno alle navi se pria dell'omicida Ettòr sul petto non avrai spezzato il sanguinoso usbergo... Ei certo il disse, e a te, stolto che fosti! il persuase. E a lui così l'eroe languente: Or puoi menar gran vampo, Ettorre, or che ti diero di mia morte la palma Apollo e Giove. Essi, non tu, m'han domo; essi m'han tratto l'armi di dosso. Se pur venti a fronte tuoi pari in campo mi venìan, qui tutti questo braccio gli avrìa prostrati e spenti. Ma me per rio destin qui Febo uccide fra gl'Immortali, e tra' mortali Euforbo, tu terzo mi dispogli. Or io vo' dirti cosa che in mente collocar ben devi: breve corso a te pur resta di vita: già t'incalza la Parca, e tu cadrai sotto la destra dell'invitto Achille. Disse e spirò. Disciolta dalle membra scese l'alma a Pluton la sua piangendo sorte infelice e la perduta insieme fortezza e gioventù. Sovra l'estinto arrestatosi Ettorre, A che mi vai profetando, dicea, morte funesta? Chi sa che questo della bella Teti vantato figlio, questo Achille a Dite colto dall'asta mia non mi preceda? Così dicendo, lo calcò d'un piede, gli svelse il telo dalla piaga, e lungi lui supino gittò. Poi ratto addosso all'auriga d'Achille si disserra, di ferirlo bramoso. Invan; ché altrove gl'immortali sel portano corsieri, che in bel dono a Pelèo diero gli Dei.
Visto in campo cader dai Teucri ucciso Patròclo, s'avanzò d'armi splendente il bellicoso Menelao. Si pose del morto alla difesa, e il circuiva qual suole mugolando errar dintorno alla tenera prole una giovenca cui di madre sentir fe' il dolce affetto del primo parto la fatica. Il forte davanti gli sporgea l'asta e lo scudo, pronto a ferir qual osi avvicinarsi. Ma sul caduto eroe di Panto il figlio rivolò, si fe' presso, e baldanzoso all'Atride gridò: Duce di genti, di Giove alunno Menelao, recedi; quell'estinto abbandona, e a me le spoglie sanguinose ne lascia, a me che primo tra tutti e Teucri ed alleati in aspra pugna il percossi. Non vietarmi adunque quest'alta gloria fra' Troiani; o ch'io col ferro ti trarrò l'alma dal petto. Eterno Giove, gli rispose irato il biondo Menelao, dove s'intese più sconcio millantar? Né di pantera né di lïon fu mai né di robusto truculento cinghial tanto l'ardire quanta spiran ferocia i Pantoìdi. E pur che valse il fior di gioventude a quel tuo di cavalli agitatore fratello Iperenòr, quando chiamarmi il più codardo de' guerrieri achei, e aspettarmi s'ardì? Ma nol tornaro i propri piedi alla magion, mi credo, di molta festa obbietto ai venerandi suoi genitori e alla diletta sposa. Farò di te, se innoltri, ora lo stesso. Ma t'esorto a ritrarti, e pria che qualche danno ti colga, dilungarti. Il fatto rende accorto, ma tardi, anche lo stolto. Disse; e fermo in suo cor l'altro riprese. Pagami or dunque, o Menelao, del morto mio fratello la pena e del tuo vanto. D'una giovine sposa, è ver, tu festi vedovo il letto, e d'ineffabil lutto fosti cagione ai genitor; ma dolce farò ben io di quei meschini il pianto, se carco del tuo capo e di tue spoglie in man di Panto e della dìa Frontìde le deporrò. Non più parole. Il ferro provi qui tosto chi sia prode o vile. Ferì, ciò detto, nel rotondo scudo, ma nol passò, ché nella salda targa si ritorse la punta. Impeto fece, Giove invocando, dopo lui l'Atride, e al nemico, che in guardia si traea, nell'imo gorgozzul spinta la picca, ve l'immerge di forza, e gli trafora il delicato collo. Ei cadde, e sopra gli tonâr l'armi; e della chioma, a quella delle Grazie simìl, le vaghe anella d'auro avvinte e d'argento insanguinârsi. Qual d'olivo gentil pianta nudrita in lieto d'acque solitario loco bella sorge e frondosa: il molle fiato l'accarezza dell'aure, e mentre tutta del suo candido fiore si riveste, un improvviso turbine la schianta dall'ime barbe, e la distende a terra; tal l'Atride prostese il valoroso figliuol di Panto Euforbo, e a dispogliarlo corse dell'armi. Come quando un forte lïon montano una giovenca afferra fior dell'armento, co' robusti denti prima il collo le frange, indi sbranata le sanguinose viscere n'ingozza: alto di cani intorno e di pastori romor si leva, ma nïun s'accosta, ché affrontarlo non osano compresi di pallido timor: così nessuno ardìa de' Teucri al baldanzoso Atride farsi addosso; e all'ucciso ei tolte l'armi agevolmente avrìa, se questa lode gl'invidiando Apollo, incontro a lui non incitava il marzïale Ettorre. Di Menta, duce de' Ciconi, ei prese le sembianze e gridò queste parole: Ettore, a che del bellicoso Achille, senza speranza d'arrivarli, insegui gl'immortali corsieri? Umana destra mal li doma, e guidarli altri non puote che Achille, germe d'una Diva. Intanto il forte Atride Menelao la salma di Patroclo salvando, a morte ha messo un illustre Troian, di Panto il figlio, e ne spense il valor. - Ciò detto, il Dio ritornò nella mischia. Alto dolore l'ettòreo petto circondò: rivolse l'eroe lo sguardo per le file in giro, e tosto dell'esimie armi veduto il rapitore, e l'altro al suol giacente in un lago di sangue, oltre si spinse scintillante nel ferro come lingua del vivo fuoco di Vulcano, e mise acuto un grido. Udillo, e sospirando nel segreto suo cor disse l'Atride: Misero che farò? Se queste belle armi abbandono e di Menèzio il figlio per onor mio qui steso, alla mia fuga gli Achei per certo insulteran; se solo, da pudor vinto, con Ettòr mi provo e co' suoi forti, io sol da molti oppresso cadrò, ché tutti il condottier troiano seco i Teucri ne mena a questa volta. Ma che dubbia il mio cor? Chi con avversi numi un guerrier, che sia lor caro, affronta, corre alla sua ruina. Alcun non fia dunque de' Greci che con me s'adiri se davanti ad Ettorre, a lui che pugna per comando d'un nume, io mi ritraggo. Pur se avverrà che in qualche parte io trovi il magnanimo Aiace, entrambi all'armi ritorneremo allor, pur contra un Dio, e a sollievo de' mali opra faremo di trar salvo ad Achille il morto amico. Mentre tai cose gli ragiona il core, da Ettore precorse ecco de' Teucri sopravvenir le schiere. Allora ei cesse, e il morto abbandonò, gli occhi volgendo tratto tratto all'indietro, a simiglianza di giubbato lïon cui da' presepi caccian cani e pastor con dardi ed urli. Freme la belva in suo gran core, e parte mal suo grado dal chiuso: a tal sembianza da Patroclo partissi il biondo Atride. Giunto ai compagni, s'arrestò, si volse cercando in giro collo sguardo il grande figliuol di Telamone, e alla sinistra della pugna il mirò, che alla battaglia animava i suoi prodi a cui poc'anzi Febo avea messo nelle vene il gelo d'un divino terror. Corse, e veloce raggiuntolo gridò: Qua tosto, Aiace, vola, amico, affrettiamci alla difesa di Patroclo; serbiamne al divo Achille il nudo corpo almen, poiché dell'armi già si fece signor l'altero Ettorre. Turbâr la generosa alma d'Aiace queste parole: s'avvïò, si spinse tra i guerrieri davanti, in compagnia di Menelao. Per l'atra polve intanto strascinava di Pàtroclo la nuda salma il duce troiano, onde troncarne dagli omeri la testa, e far del rotto corpo ai cani di Troia orrido pasto. Ma gli fu sopra col turrito scudo il Telamònio: retrocesse Ettorre nella torma de' suoi, d'un salto ascese il cocchio, e le rapite armi famose dielle ai Teucri a portar nella cittade, d'alta sua gloria monumento. Allora coll'ampio scudo ricoprendo il figlio di Menèzio, fermossi il grande Aiace, come lïon, cui, mentre al bosco mena i leoncini, sopravvien la turba de' cacciatori: si raggira il fiero, che sente la sua forza, intorno ai figli, e i truci occhi rivolve, e tutto abbassa il sopracciglio che gli copre il lampo delle pupille: a questo modo Aiace circuisce e protegge il morto eroe. Dall'altro lato è Menelao cui l'alta doglia del petto tuttavia ricresce. De' Licii il condottier Glauco, buon figlio d'Ippòloco, ad Ettòr volgendo allora bieco il guardo, con detti aspri il garrisce: O di viso sol prode, e non di fatto, Ettore! a torto te la fama estolle, te sì pronto al fuggir. Pensa alla guisa di salvar la cittade e le sue rocche quindi innanzi tu sol colla tua gente, ché nessuno de' Licii alla salvezza d'Ilio co' Greci pugnerà, nessuno, da che teco nessun merto s'acquista col sempre battagliar contro il nemico. Sciaurato! e qual dunque avrai tu cura de' minori guerrier, tu che lasciasti preda agli Argivi Sarpedon, che mentre visse, a Troia fu scudo ed a te stesso? E ti sofferse il cor d'abbandonarlo allo strazio de' cani? Or se a mio senno faranno i Licii, partiremci, e tosto; e d'Ilio apparirà l'alta ruina. Oh! s'or fosse ne' Troi quella fort'alma, quell'intrepido ardir che ne' conflitti scalda gli amici della patria veri, noi dentr'Ilio trarremmo immantinente di Patroclo la salma. Ove un cotanto morto, sottratto dalla calda pugna, strascinato di Prïamo ne fosse dentro le mura, renderìan gli Achei di Sarpedonte le bell'armi e il corpo pronti a tal prezzo. Perocché l'ucciso di quel forte è l'amico che di possa tutti avanza gli Argivi, e schiera il segue di bellicosi. Ma del fiero Aiace tu non osasti sostener lo scontro né lo sguardo fra l'armi, e via fuggisti, perché minore di valor ti senti. Con bieco piglio fe' risposta Ettorre: Perché tale qual sei, Glauco, favelli così superbo? Io ti credea per senno miglior di quanti la feconda gleba della Licia nudrisce. Or veggo a prova che tu se' stolto, se affermar t'attenti che d'Aiace lo scontro io non sostenni. Né la pugna io, no mai, né il calpestìo de' cavalli pavento, ma di Giove l'alto consiglio che ogni forza eccede. Egli in fuga ne mette a suo talento anche i più prodi, e ne' conflitti or toglie or dona la vittoria. Orsù, vien meco, statti, amico, al mio fianco, e vedi al fatto se quel vile sarò tutto quest'oggi che tu dicesti, o se saprò l'ardire di qualunque domar gagliardo Acheo che del morto s'innoltri alla difesa. Quindi le schiere inanimando grida: Teucri, Dardani, Licii, or vi mostrate uomini, e il petto vi conforti, amici, dell'antico valor la rimembranza, mentre l'armi d'Achille, da me tolte all'ucciso Patroclo, io mi rivesto. Disse, e corse e raggiunse in un baleno delle bell'arme i portatori, e date a recarsi nel sacro Ilio le sue, fuor del conflitto ed a' suoi prodi in mezzo le immortali si cinse armi d'Achille, dono de' numi al genitor Pelèo, che poi vecchio le cesse al suo gran figlio: ma il figlio in quelle ad invecchiar non venne. Come il sommo de' nembi adunatore del Pelìde indossarsi le divine armi lo vide, crollò il capo, e seco nel suo cor favellò: Misero! al fianco ti sta la morte, e tu nol pensi, e l'armi ti vesti dell'eroe che de' guerrieri tutti è il terrore, a cui tu il forte hai spento mansueto compagno, armi d'eterna tempra a lui tolte con oltraggio. Or io d'alta vittoria ti farò superbo, e compenso sarà del non doverti Andromaca, al tornar dalla battaglia, scioglier l'usbergo del Pelìde Achille. Disse; e l'arco de' negri sopraccigli abbassando, d'Ettorre alla persona adattò l'armatura. Al suo contatto infiammossi l'eroe d'un bellicoso orribile furor, tutte di forza sentì inondarsi e di valor le vene. Degl'incliti alleati, alto gridando, quindi avvïossi alle caterve, e a tutti veder sembrava folgorar nell'armi del magnanimo Achille Achille istesso. E d'ogni parte ognun riconfortando, Mestle, Glauco, Tersìloco, Medonte, Asteropèo, Disènore, Ippotòo, e Cròmio, e Forci, e l'indovino Ennòmo, con questi accenti li raccese: Udite, collegati: non io dalle vicine cittadi ad Ilio ragunai le vostre numerose coorti onde di gente far molta mano, ché mestier non m'era; ma perché meco da' feroci Achei le teucre spose ne servaste e i figli con pronti petti. Di tributi io gravo in questo intendimento il popol mio per satollarvi. Dover vostro è dunque voltar dritta la fronte all'inimico, e o salvarsi o perir, ché della guerra questo è il commercio. A chi di voi costringa Aiace in fuga, e de' Troiani al campo tragga il morto Patròclo, a questi io cedo la metà delle spoglie, e andrà divisa egual con esso la mia gloria ancora. Al fin delle parole alzâr le lance tutti, e al nemico s'addrizzâr di punta con grande in core di strappar speranza dalle mani del gran Telamonìde il morto: folli! ché sul morto istesso quell'invitto dovea farne macello. Allor rivolto Aice al battagliero Menelao, così disse: Illustre Atride, caro alunno di Giove, assai pavento ch'or salvi usciamo dell'acerba pugna. Né sì tem'io per Patroclo, che parmi del suo corpo farà tosto di Troia sazi i cani e gli augei, quanto pel mio e pel tuo capo un qualche sconcio: vedi quella nube di guerra che già tutto ricopre il campo? D'Ettore son quelle le falangi, e su noi pende una grave manifesta rovina. Orsù de' Greci, se udir ti ponno, i più valenti appella. Non fe' niego il guerriero, e a tutta gola gridava: Amici, capitani achei, quanti alle mense degli Atridi in giro propinate le tazze, ed onorati dal sommo Giove i popoli reggete; nell'ardor della zuffa il guardo mio non vi distingue, ma chiunque ascolta deh corra, e sdegno il prenda che Patròclo ludibrio resti delle frigie belve. Aiace, d'Oilèo veloce figlio, udillo, e primo per la mischia accorse; Idomenèo dop'esso e Merïone in sembianza di Marte. E chi di tutti, che poi la pugna rintegrâr, potrìa dire i nomi al pensier? Primieri i Teucri stretti insieme fêr impeto, precorsi dal grande Ettorre. Come quando all'alta foce d'un fiume che da Giove è sceso, freme ritroso alla corrente il flutto eruttato dal mar: mugghian con vasto rimbombo i lidi: simigliante a questo fu de' Teucri il clamor. Dall'altro lato tutti d'un cor con assiepati scudi gli Achei fêr cerchio di Menèzio al figlio, e il Saturnio dintorno ai rilucenti elmi un'atra caligine spandea, ché d'Achille l'amico il Dio dilesse, mentre fu vivo, e ch'egli or sia di fiere orrido cibo sofferir non puote. A pugnar quindi per la sua difesa i compagni eccitò. Nel primo cozzo i Troiani respinsero gli Achivi che sbigottiti abbandonâr l'estinto; né i Troiani però, benché bramosi, dieder morte a verun, solo badando a predar il cadavere; ma presto si raccostâr gli Achei, ché il grande Aiace, e d'aspetto e di forze il più prestante sovra tutti gli Achei dopo il Pelìde, tostamente voltar fronte li fece. Tra gl'innanzi l'eroe quindi si spinse, pari ad ispido verro alla montagna, che con sùbita furia si converte fra le roste, e sbaraglia de' gagliardi cacciatori la turba e de' molossi: così di Telamon l'esimio figlio de' Troiani disperde le falangi che a Patroclo fan calca, e strascinarlo si studiano in trïonfo entro le mura. Illustre germe del Pelasgo Leto, Ippòtoo gli avea d'un saldo cuoio ai nervi del tallon l'un piede avvinto, e di mezzo al ferir de' combattenti per la sabbia il traea, grato sperando farsi ad Ettorre ed ai Troiani; ed ecco giungergli un danno che nessun, quantunque desideroso, allontanar gli seppe. Fra la turba avventossi, e su le guance dell'elmo Aiace disserrògli un colpo che tutto lo spezzò: tanto dell'asta fu il picchio e tanto della mano il pondo. Schizzâr per l'aria le cervella e il sangue dall'aperta ferita, e tosto a lui quetârsi i polsi; dalle man gli cadde del morto il piede, e sovra il morto ei pure boccon cadde e spirò lungi dai campi di Larissa fecondi: né poteo dell'averlo educato ai genitori rendere il premio, perocché d'Aiace la gran lancia fe' brevi i giorni suoi. Contro Aiace l'acuta asta allor trasse Ettore; e l'altro, visto l'atto, alquanto dechinossi, e schivolla. Era di costa Schedio, d'Ifito generoso figlio, fortissimo Focense che sua stanza, di molta gente correttor, tenea nell'inclita Panòpe. A mezza gola colpillo, e tutta al sommo della spalla la ferrea punta gli passò la strozza. Cadde il trafitto con fragore, e cupo s'udì dell'armi il tuon sopra il suo petto. Aiace di rincontro in mezzo all'epa di Fenòpo il figliuol Forci percosse, forte guerrier che messo alla difesa d'Ippòtoo s'era. Il furioso ferro ruppe l'incavo del torace, ed alto ne squarciò gl'intestini. Ei cadde, e strinse colla palma il terren. Dier piega allora i primi in zuffa, ripiegossi ei pure l'illustre Ettorre, e con orrende grida d'Ippòtoo e Forci strascinâr gli Argivi le morte salme, e le spogliâr. Compresi di viltade i Troiani, e dalle greche lance incalzati allor verso le rocche sarìan d'Ilio fuggiti, e avrìan gli Argivi contro il decreto del tonante Iddio in lor solo valor vinta la pugna, se Apollo a tempo la virtù d'Enea non ridestava. Le sembianze ei prese dell'Epitide araldo Perifante, che in tale officio a molta età venuto del vecchio Anchise nelle case, istrutta di fedeli consigli avea la mente. Così cangiato, a lui disse il divino figlio di Giove: Enea, l'eccelsa Troia contro il volere degli Dei periglia. Ché non la cerchi di salvar? l'esemplo ché non imiti degli eroi ch'io vidi d'ogni cimento trïonfar, fidàti nel valor, nell'ardir, nella fortezza del proprio petto e delle molte schiere che li seguìano, invitte alla paura? Più che agli Achivi, a noi Giove per certo consente la vittoria; ma chi fugge trepido e schiva di pugnar, la perde. Fisse a tai detti Enea lo sguardo in viso al saettante nume, e lo conobbe; e d'Ettore alla volta alzando il grido, Ettore, ei disse, e voi degli alleati capitani e de' Teucri, oh qual vergogna s'or per nostra viltà domi dal ferro de' bellicosi Achei risaliremo d'Ilio le mura! Un Dio m'apparve, e disse che l'arbitro dell'armi eterno Giove ne difende. Corriam dunque diritto all'inimico, e almen non sia che il morto Patroclo ei seco ne trasporti in pace. Al fin delle parole innanzi a tutta la prima fronte si sospinse, e stette. Si conversero i Teucri, ed agli Achei mostrâr la faccia arditamente. Allora coll'asta Enea Leòcrito figliuolo d'Arisbante ferì, forte compagno di Licomede che al caduto amico pietoso accorse, e fattosi vicino fermossi, e la fulgente asta vibrando d'Ippaso il figlio Apisaon percosse nell'èpate di sotto alla corata, e l'atterrò. Venuto era costui dalla fertil Peònia; ed era in guerra il più valente dopo Asteropèo. Sentì pietade del caduto il forte Asteròpeo; e di zuffa desïoso si scagliò tra gli Achei. Ma degli scudi e dell'aste protese ei non potea rompere il cerchio che Patròclo serra. E Aiace intorno s'avvolgendo, a tutti molti dava comandi, e non patìa che alcun dal morto allontanasse il piede, o fuor di fila ad azzuffarsi uscisse; ma fea precetto a ciaschedun di starsi saldi al suo fianco, e battagliar dappresso. Tal dell'enorme Aiace era il volere, e tutta in rosso si tingea la terra. Teucri, Argivi, alleati alla rinfusa cadon trafitti: ché neppur gli Argivi senza sangue combattono, ma n'esce minor la strage, perocché l'un l'altro nel travaglio fatal si porge aita. Così qual vasto incendio arde il conflitto; e del Sol detto avresti e della Luna spento il chiaror; cotanta era sul campo l'atra caligo che dintorno al morto Patroclo il fiore de' guerrier coprìa, mentre l'un'oste e l'altra a ciel sereno libera altrove combattea. Su questi puro si spande della luce il fiume: nessuna nube al pian, nessuna al monte. Così la pugna ha i suoi riposi, e molto spazio correndo tra i pugnanti, ognuno dalle mutue si scherma aspre saette. Ma cotesti di mezzo hanno travaglio dall'armi a un tempo e dalla nebbia, e il ferro i più prestanti crudelmente offende. Sol due guerrieri non avean per anco del buon Patròclo la ria morte udita, due guerrier glorïosi, Trasimède e Antìloco: ma vivo e tuttavolta alle mani il credean co' Teucri al centro della battaglia. E intanto essi la strage de' compagni veduta e la paura, pugnavano in disparte, e come imposto fu lor dal padre, dalle negre navi tenean lontano le nemiche offese. Ma il conflitto maggior ferve dintorno al valoroso del Pelìde amico, terribile conflitto, e senza posa fino al tramonto della luce. A tutti dissolve la stanchezza e gambe e piedi e ginocchia; il sudore a tutti insozza e le mani e la faccia; e quale, allora che a robusti garzoni il coreggiaio la pingue pelle a rammollir commette di gran tauro; disposti essi in corona la stirano di forza; immantinente l'umidor ne distilla, e l'adiposo succo le fibre ne penètra, e tutto a quel molto tirar si stende il cuoio: tale in piccolo spazio i combattenti gareggiando traean da opposti lati il cadavere, questi nella speme di strascinarlo entro le mura, e quelli alle concave navi. Ognor più fiera sull'estinto sorgea quindi la zuffa, tal che Marte dell'armi eccitatore nel vederla e Minerva anche nell'ira commendata l'avrìa. Tanta in quel giorno di cavalli e d'eroi Giove diffuse sul corpo di Patròclo aspra contesa. Né ancor del morto amico al divo Achille giunt'era il grido: perocché di molto dalle navi lontana ardea la pugna sotto il muro troian; né in suo pensiero di tal danno cadea pure il sospetto. Spera egli anzi che dopo aver trascorso fino alle porte, ei torni illeso indietro: né ch'ei possa atterrar d'Ilio le mura senza sé né con sé punto s'avvisa, ché del contrario l'alma genitrice fatto certo l'avea quando in segreto a lui di Giove riferìa la mente; e il fiero caso occorso, la caduta del suo diletto amico ora gli tacque. In questo d'abbassate aste lucenti e di cozzi e di stragi alto trambusto su quell'esangue, dalla parte achea gridar s'udìa: Compagni, è perso il nostro onor se indietro si ritorna. A tutti s'apra piuttosto qui la terra; è meglio ir nell'abisso, che ai Troiani il vanto lasciar di trarre in Ilio una tal preda. E di rincontro i Troi: Saldi, o fratelli, niun s'arretri, per dio! dovesse il fato qui su l'estinto sterminarci tutti. Così d'ambe le parti ognuno infiamma il vicino, e combatte. Il suon de' ferri pe' deserti dell'aria iva alle stelle. D'Achille intanto i corridor, veduto il loro auriga dall'ettòrea lancia nella polve disteso, allontanati dalla pugna piangean. Di Dïorèo il forte figlio Automedonte invano or con presto flagello, ora con blande parole, ed ora con minacce al corso gli stimola. Ostinati essi né vonno alla riva piegar dell'Ellesponto, né rïentrar nella battaglia. Immoti come colonna sul sepolcro ritta di matrona o d'eroe, starsi li vedi giunti al bel carro colle teste inchine, e dolorosi del perduto auriga calde stille versar dalle palpebre. Per lo giogo diffusa al suol cadea la bella chioma, e s'imbrattava. Il pianto ne vide il figlio di Saturno, e tocco di pietà scosse il capo, e così disse: O sventurati! perché mai vi demmo ad un mortale, al re Pelèo, non sendo voi né a morte soggetti né a vecchiezza? Forse perché partecipi de' mali foste dell'uomo di cui nulla al mondo, di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia l'alta miseria? Ma non fia per certo che da voi sia portato e da quel cocchio il Prïâmide Ettorre: io nol consento. E non basta che l'armi ei ne possegga, e gran vampo ne meni? Or io nel petto metterovvi e ne' piè forza novella, onde fuor della mischia a salvamento adduciate alle navi Automedonte. Ch'io son fermo di far vittorïosi per anco i Teucri insin che fino ai legni spingan la strage, e il Sol tramonti, e il sacro velo dell'ombre le sembianze asconda. Così detto, spirò tale un vigore ne' divini corsier, che dalle chiome scossa la polve, in un balen portaro fra i Teucri il cocchio e fra gli Achei. Sublime combatteva su questo Automedonte, benché dolente del compagno; e a guisa d'avoltoio fra timidi volanti stimolava i cavalli. Ed or lo vedi ratto involarsi dai nemici, ed ora impetuoso ricacciarsi in mezzo, e le turbe inseguir: ma di lor nullo nel suo corso uccidea, ché solo in cocchio assalir colla lancia e de' cavalli reggere a un tempo non potea le briglie. Videlo alfine un suo compagno, il figlio dell'Emònio Laerce Alcimedonte, che dietro al cocchio si lanciò gridando: Automedonte, e qual de' numi il senno ti tolse, e il vano t'ispirò consiglio d'assalir solo de' Troian la fronte? Il tuo compagno è spento, e l'esultante Ettore l'armi del Pelìde indossa. E a lui di Dïorèo l'inclita prole: Alcimedonte, l'indole di questi sempiterni corsieri, e di domarli l'arte, chi meglio tra gli Achei l'intende di te dopo Patròclo in sin che visse? Or che questo de' numi emulo giace, tu prenditi la sferza e le lucenti briglie, ch'io scendo a guerreggiar pedone. Spiccò sul cocchio un salto a questo invito Alcimedonte, ed alla man diè tosto il flagello e le guide, e l'altro scese. Avvisossene Ettorre, ed al propinquo Enea rivolto, I destrier scorgo, ei disse, del Pelìde tornar nella battaglia con fiacchi aurighi. Enea, se mi secondi col tuo coraggio, que' destrier son presi. Non sosterran costoro il nostro assalto, né di far fronte s'ardiran. - Sì disse, né all'invito fu lento il valoroso germe d'Anchise. S'avvïâr diretti e rinchiusi ambiduo nelle taurine aride targhe che di molto ferro splendean coperte. Mossero con essi Cròmio ed Arèto di beltà divina, con grande entrambi di predar speranza que' superbi corsieri, e al suol trafitti lasciarne i reggitor. Stolti! ché l'asta d'Automedonte sanguinosa avrìa lor preciso il ritorno. Egli, invocato Giove, nell'imo si sentì del petto correr la forza e l'ardimento. Quindi all'amico drizzò queste parole: Alcimedonte, non tener lontani dal mio fianco i destrier: fa ch'io ne senta l'anelito alle spalle. Al suo furore Ettore modo non porrà, mi penso, se pria d'Achille in suo poter non mette i chiomati destrier, noi due trafitti, e sbaragliate degli Achei le file; o se tra' primi ei pur freddo non cade. Agli Aiaci, ciò detto, e a Menelao ei grida: Aiaci, Menelao, lasciate ai più prodi del morto la difesa, e il rintuzzar gli ostili assalti; e voi qua correte a salvar noi vivi ancora. I due più forti eroi troiani, Ettorre ed Enea, furibondi a lagrimosa pugna vêr noi discendono. L'evento su le ginocchia degli Dei s'asside. Sia qual vuolsi, farò di lancia un colpo io pur: del resto avrà Giove il pensiero. Sì dicendo, e la lunga asta vibrando, ferì d'Arèto nel rotondo scudo, cui tutto trapassò speditamente le ferrea punta, e traforato il cinto, l'imo ventre gli aperse. A quella guisa che robusto garzon, levata in alto la tagliente bipenne, fra le corna di bue selvaggio la dechina, e tutto tronco il nervo, la belva morta cade: tal, dato un salto, supin cadde Arèto, e tra le rotte viscere l'acuta asta tremando gli rapì la vita. Fe' contra Automedonte Ettore allora la sua lancia volar; ma visto il colpo, quegli curvossi, e la schivò. Gli rase le terga il telo, e al suol piantossi; il fusto tremonne, e quivi ogn'impeto consunto, la valid'asta s'acchetò. Qui tratte le fiere spade a più serrato assalto i due prodi venìan, se quegli ardenti spirti repente non spartìan gli Aiaci d'Automedonte accorsi alla chiamata. Venir li vide fra la turba Ettorre, e con Cròmio di nuovo e con Enea paventoso arretrossi, il lacerato giacente Arèto abbandonando. Corse sull'esangue il veloce Automedonte, dispogliollo dell'armi, e glorïando gridò: Non vale costui certo il figlio di Menèzio; ma pur del morto eroe questo ucciso mi tempra alquanto il lutto. Sì dicendo, gittò le sanguinose spoglie sul carro, e tutto sangue ei pure mani e piè, vi salìa pari a lïone che, divorato un toro, si rinselva. Affannosa, arrabbiata e lagrimosa sovra la salma di Patròclo intanto si rinforza la pugna, e la raccende Palla Minerva, ad animar gli Achivi dall'Olimpo discesa; e la spedìa cangiato di pensiero il suo gran padre. Come quando dal ciel Giove ai mortali dell'Iride dispiega il porporino arco, di guerra indizio o di tempesta, che tosto de' villani alla campagna rompe i lavori, e gli animai contrista: tal di purpureo nembo avviluppata insinuossi fra gli Achei la Diva eccitando ogni cor. Prima il vicino minore Atride a confortar si diede, e la voce sonora e la sembianza di Fenice prendendo, così disse: Se sotto Troia sbraneranno i cani dell'illustre Pelìde il fido amico, tua per certo fia l'onta, o Menelao, e tuo lo scorno. Orsù tien forte, e tutti a ben le mani oprar sprona gli Achei. Veglio padre Fenice, gli rispose l'egregio Atride, a Pallade piacesse darmi forza novella, e dagli strali preservarmi; e farei per la tutela di Patroclo ogni prova. Il cor mi tocca la sua caduta: ma l'ardente orrenda forza d'Ettor n'è contra; ei dalla strage mai non rimansi, e d'onor Giove il copre. Gioì Minerva dell'udirsi, pria d'ogni altro iddio, pregata; ed alla destra polso gli aggiunse e al piede, e dentro il petto l'ardir gli mise dell'impronta mosca che, ognor cacciata, ognor ritorna e morde ghiotta di sangue. Di cotal baldanza pieno il torbido cor, ratto a Patròclo appressossi, e scagliò la fulgid'asta. Era fra' Teucri un certo Pode, un ricco d'Eezïone valoroso figlio in alto onor per Ettore tenuto, e suo diletto commensal. Lo colse il biondo Atride nella cinta in quella ch'ei la fuga prendea. Passollo il ferro da parte a parte, e con fragor lo stese. Mentre vola sul morto, e a' suoi lo tragge l'altero vincitor, calossi Apollo d'Ettore al fianco, ed il sembiante assunto dell'Asìade Fenòpo a lui diletto ospite un tempo, e abitator d'Abido, questa rampogna gli drizzò: Chi fia che tra gli Achivi in avvenir ti tema, se un Menelao ti fuga e ti spaventa, un Menelao finor tenuto in conto di debile guerriero, e ch'or da solo di mezzo ai Teucri via si porta il fido tuo compagno da lui tra i primi ucciso, Pode io dico figliuol d'Eezïone? Un negro di dolor velo coperse a quell'annunzio dell'eroe la fronte. Corse ei tosto a cacciossi innanzi a tutti folgorante nell'armi. Allor di nubi tutta fasciando la montagna idèa, Giove in man la fiammante egida prese, la scosse, e fra baleni orrendamente tonando, ai Teucri di vittoria il segno diè tosto, e sparse fra gli Achei la fuga. Primo a fuggir fu de' Beoti il duce Penelèo, di leggier colpo di lancia ferito al sommo della spalla, mentre tenea volta la fronte; il ferro acuto lo graffiò fino all'osso, e il colpo venne dalla man di Polìdama che sotto gli si fece improvviso. Ettore poscia al carpo della man colse Leìto germe del prode Alettrïone, e il fece dalla pugna cessar. Si volse in fuga guatandosi dintorno sbigottito il piagato guerrier, né più sperava poter col telo nella destra infisso combattere co' Troi. Mentre si scaglia contra Leìto il feritor, gli spinge Idomenèo dappresso alla mammella nell'usbergo la picca: ma si franse alla giuntura della ferrea punta il frassino, e n'urlâr di gioia i Teucri. Rispose al colpo Ettorre, e il Deucalìde stante sul carro saettò. D'un pelo lo fallì; ma Ceran, scudiero e auriga di Merïon, colpìo. Venuto egli era dalla splendida Litto in compagnia di Merïone che di questa guerra al cominciar, sue navi abbandonando, venne ad Ilio pedone, e di sua morte avrìa qui fatto glorïosi i Teucri, se co' pronti destrieri in suo soccorso non accorrea Cerano. Ei del suo duce campò la vita, ma la propria perse per le mani d'Ettòr. L'asta al confine della gota lo giunse e dell'orecchia, e conquassògli le mascelle, e mezza la lingua gli tagliò. Cadde dal carro quell'infelice: abbandonate al suolo si diffuser le briglie, che veloce curvo da terra Merïon raccolse, e volto a Idomenèo: Sferza, gli grida, sferza, amico, i cavalli, e al mar ti salva, ché per noi persa, il vedi, è la battaglia. Sì disse, e l'altro costernato ei pure verso le navi flagellò le groppe de' chiomati destrier. Scorsero anch'essi il magnanimo Aiace e Menelao, che Giove ai Teucri concedea l'onore dell'alterna vittoria; onde proruppe in questi accenti il gran Telamonìde: Anche uno stolto, per mia fé, vedrìa che pe' Teucri sta Giove: ogni lor strale, sia vil, sia forte il braccio che lo spinge, porta ferite, e il Dio li drizza. I nostri van tutti a vôto. Nondimen si pensi qualche sano partito, un qualche modo di salvar quell'estinto, e di tornarci salvi noi stessi a rallegrar gli amici, che con gli sguardi qua rivolti e mesti stiman che lungi dal poter le invitte mani d'Ettorre sostener, noi tutti cadrem morti alle navi. Oh fosse alcuno qui che ratto portasse al grande Achille del periglio l'avviso! A lui, cred'io, ancor non giunse dell'ucciso amico la funesta novella; e tra gli Achei ancor non veggo al doloroso officio acconcio ambasciator, tanta nasconde caligine i cavalli e i combattenti. Giove padre, deh togli a questo buio i figli degli Achei, spandi il sereno, rendi agli occhi il vedere, e poiché spenti ne vuoi, ci spegni nella luce almeno. Così pregava. Udillo il padre, e visto il pianto dell'eroe, si fe' pietoso, e, rimossa la nebbia, in un baleno il buio dissipò. Rifulse il Sole, e tutta apparve la battaglia. Aiace disse allora all'Atride: Or guarda intorno, diletto Menelao, vedi se trovi di Nestore ancor vivo il forte figlio Antìloco, e di volo al grande Achille nunzio del fato del suo caro il manda. Mosse pronto a quei detti il generoso Atride, e s'avvïò come lïone che il bovile abbandona lasso e stanco d'azzuffarsi co' veltri e co' pastori tutta la notte vigilanti, e il pingue lombo de' tori a contrastargli intesi. Avido delle carni egli di fronte tuttavolta si slancia, e nulla acquista; ché dalle ardite mani una ruina gli vien di strali addosso e di facelle, dal cui lustro atterrito egli rifugge, benché furente, finché mesto alfine sul mattin si rimbosca. A questa guisa di mal cuore da Pàtroclo si parte il bellicoso Menelao, la tema seco portando che gli Achei, compresi di soverchio terror, preda al nemico nol lascino fuggendo. Onde con molti preghi agli Aiaci e a Merïon rivolto: Duci argivi, dicea, deh vi sovvenga quanto fu bello il cor dell'infelice Pàtroclo, e come mansueto ei visse: ahi! visse; e in braccio alla ria Parca or giace. Partì, ciò detto, riguardando intorno com'aquila che sopra ogni volante aver acuta la pupilla è grido, e che dall'alte nubi infra le spesse chiome de' cespi discoperta avendo la presta lepre, su lei piomba, e ratto la ghermisce e l'uccide. E tu del pari, o da Giove educato illustre Atride, d'ogni parte volgevi i fulgid'occhi fra le turbe de' tuoi, vivo spïando di Nestore il buon figlio. Alla sinistra alfin lo vide della pugna in atto di far cuore ai compagni e rinfiammarli alla battaglia. Gli si fece appresso, e con ratto parlar: Vieni, gli disse, vieni, Antìloco mio: t'annunzio un fiero doloroso accidente, e oh! mai non fosse intervenuto. Un Dio, tu stesso il senti, i Dànai strugge, e i Teucri esalta: è morto un fortissimo Acheo ch'alto ne lascia desiderio di sé, morto è Patròclo. Corri, avvisa il Pelìde, e fa che voli a trarne in salvo il nudo corpo: l'armi già venute in balìa sono d'Ettorre. All'annunzio crudel muto d'orrore Antìloco restò: di pianto un fiume gli affogò le parole, e nondimeno, l'armi in fretta rimesse al suo compagno Laòdoco che fido a lui dappresso i destrier gli reggea, corse d'Atride il cenno ad eseguir. Piangea dirotto, e volava l'eroe fuor della pugna nunzio ad Achille della rea novella. Del dipartir d'Antìloco dolenti e bramose di lui le pilie schiere in periglio restâr; né tu potendo dar loro aita, o Menelao, mettesti alla lor testa il generoso duce Trasimède, e di nuovo alla difesa del morto eroe tornasti; e degli Aiaci giunto al cospetto, sostenesti il piede, e dicesti: Alle navi io l'ho spedito verso il Pelìde: ma ch'ei pronto or vegna, benché crucciato con Ettòr, nol credo; ché per conto verun non fia ch'ei voglia pugnar co' Teucri disarmato. Or dunque la miglior guisa risolviam noi stessi di sottrarre al furor dell'inimico quell'estinto, e campar le proprie vite. Saggio parlasti, o Menelao, rispose il grande Aiace Telamònio. Or tosto tu dunque e Merïon sotto all'esangue mettetevi, e sul dosso alto il portate fuor del tumulto: frenerem da tergo noi de' Troiani e d'Ettore l'assalto, noi che pari di nome e d'ardimento la pugna uniti a sostener siam usi. Disse; e quelli da terra alto levaro il morto tra le braccia. A cotal vista urlò la troica turba, e difilossi furibonda, di cani a simiglianza che precorrendo i cacciator s'avventano a ferito cinghial, desiderosi di farlo in brani: ma se quei repente di sua forza securo in lor converte l'orrido grifo, immantinente tutti dan volta e per terror piglian la fuga chi qua spersi, chi là: tali i Troiani inseguono attruppati il fuggitivo stuol, coll'aste il pungendo e colle spade. Ma come rivolgean fermi sul piede gli Aiaci il viso, di color cangiava l'inseguente caterva, e non ardìa niun farsi avanti, e disputar l'estinto, che di mezzo al conflitto audacemente venìa portato da quei forti al lido, benché fiera su lor cresca la zuffa. Come fuoco che involve all'improvviso popolosa cittade, e ruinosi sparir fa i tetti nella vasta fiamma, che dal vento agitata esulta e rugge; tale alle spalle dell'acheo drappello de' guerrieri incalzanti e de' cavalli rimbombava il tumulto. E a quella guisa che per aspero calle giù dal monte traggon due muli di robusta lena o trave o antenna da volar sull'onda, e di sudore infranti e di fatica studian la via: del par que' due gagliardi portavano affannati il tristo incarco difesi a tergo dagli Aiaci. E quale steso in larga pianura argin selvoso de' fiumi affrena il vïolento corso, e respinta devolve per lo chino l'onda furente che spezzar nol puote; così gli Aiaci l'irruente piena rispingono de' Troi che tuttavolta gl'inseguono ristretti, Enea tra questi principalmente e il non mai stanco Ettorre. Con quell'alto stridor che di mulacchie fugge una nube o di stornei vedendo venirsi incontro lo sparvier che strage fa del minuto volatìo; con tali acute grida innanzi alla ruina de' due troiani eroi fuggìa dispersa la turba degli Achei, posto di pugna ogni pensier. Di belle armi, cadute ai fuggitivi, ingombra era la fossa e della fossa il margo; e il faticoso lavor di Marte non avea respiro.
Tutta così qual fiamma arde la pugna. Veloce messaggier correa frattanto Antìloco ad Achille. Anzi all'eccelse sue navi il trova, che nel cor già volge l'accaduto disastro, e nel segreto della grand'alma sospirando, dice: Perché di nuovo, ohimè! verso le navi fuggon gli Achivi con tumulto, e vanno spaventati pel campo? Ah! non mi cómpia l'ira de' numi la crudel sventura che un dì la madre profetò, narrando che, me vivente ancor, de' Mirmidóni il più prode guerrier dai Teucri ucciso del Sol la luce abbandonato avrìa. Ah! certo di Menèzio il forte figlio morì. Infelice! E pur gl'imposi io stesso che risospinta la nemica fiamma ritornasse alle navi, e con Ettorre cimentarsi in battaglia oso non fosse. In questo rio pensier l'aggiunse il figlio di Nestore piangendo, e, Ohimè! gli disse, magnanimo Pelìde; una novella tristissima ti reco, e che nol fosse oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo; sul cadavere nudo si combatte; nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre. Una negra a que' detti il ricoperse nube di duol; con ambedue le pugna la cenere afferrò, giù per la testa la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto e la veste odorosa. Ei col gran corpo in grande spazio nella polve steso giacea turbando colle man le chiome e stracciandole a ciocche. Al suo lamento accorsero d'Achille e di Patròclo l'addolorate ancelle, e con alti urli si fêr dintorno al bellicoso eroe percotendosi il seno, e ciascheduna sentìa mancarsi le ginocchia e il core. Dall'altra parte Antìloco pietoso lagrimando dirotto, e di cordoglio spezzato il petto rattenea d'Achille le terribili mani, onde col ferro non si squarciasse per furor la gola. Udì del figlio l'ululato orrendo la veneranda Teti che del mare sedea ne' gorghi al vecchio padre accanto. Mise un gemito, e tutte a lei dintorno si raccolser le Dee, quante ne serra il mar profondo, di Nerèo figliuole Glauce, Talìa, Cimòdoce, Nesea e Spio vezzosa e Toe ed Alie bella per bovine pupille, e la gentile Cimòtoe ed Attea: quindi Melìte e Limnòria e Anfitòe, Jera ed Agave, Doto, Proto, Ferusa e Dinamena e Desamena ed Amfinòma e seco Callïanìra e Dori e Panopea, e sovra tutte Galatea famosa; v'era Apseude e Nemerte e con Janira Callïanassa ed Ïanassa; alfine l'alma Climene, e Mera ed Oritìa ed Amatea dall'auree trecce, ed altre Nerëidi dell'onda abitatrici. Tutto di lor fu pieno in un momento il cristallino speco, e tutte insieme batteansi il petto, allorché Teti in mezzo tal diè principio al lamentar: Sorelle, m'udite, e quanto è il mio dolor vedete. Ohimè misera! ohimè madre infelice di fortissima prole! Io generai un valoroso incomparabil figlio, il più prestante degli eroi: lo crebbi, lo coltivai siccome pianta eletta in fertile terren: poscia ne' campi d'Ilio lo spinsi su le navi io stessa a pugnar co' Troiani. Ahi che m'è tolto l'abbracciarlo tornato alla paterna reggia! e finch'egli all'amor mio pur vive, fin che gli è dato di fruir la luce, di tristezza si pasce; ed io, comunque a lui mi rechi, sovvenir nol posso. Nondimeno v'andrò, del caro figlio vedrò l'aspetto, e intenderò qual duolo dalla guerra lontano il cor gl'ingombra. Uscì, ciò detto, dallo speco, e quelle piangendo la seguîr: l' onda ai lor passi riverente s'aprìa. Come di Troia attinsero le rive, in lunga fila emersero sul lido ove frequenti le mirmidònie antenne in ordinanza facean selva e corona al grande Achille. A lui che in gravi si struggea sospiri la diva madre s'appressò, proruppe in acuti ululati, ed abbracciando l'amato capo, e lagrimando, disse: Figlio, che piangi? Che dolore è questo? Nol mi celar, deh parla. A compimento mandò pur Giove il tuo pregar: gli Achivi son pur, siccome supplicasti, astretti ripararsi alle navi, e del tuo braccio aver mestiero, di sciagure oppressi. Con un forte sospir rispose Achille: O madre mia, ben Giove a me compiacque ogni preghiera: ma di ciò qual dolce me ne procede, se il diletto amico, se Pàtroclo è già spento? Io lo pregiava sovra tutti i compagni; io di me stesso al par l'amava, ahi lasso! e l'ho perduto. L'uccise Ettorre, e lo spogliò dell'armi, di quelle grandi e belle armi, a vedersi maravigliose, che gli eterni Dei, dono illustre, a Pelèo diero quel giorno che te nel letto d'un mortal locaro. Oh fossi tu dell'Oceàn rimasta fra le divine abitatrici, e stretto Pelèo si fosse a una mortal consorte! Ché d'infinita angoscia il cor trafitto or non avresti pel morir d'un figlio che alle tue braccia nel paterno tetto non tornerà più mai, poiché il dolore né la vita né d'uom più mi consente la presenza soffrir, se prima Ettorre dalla mia lancia non cade trafitto, e di Patròclo non mi paga il fio. Figlio, nol dir (riprese lagrimando la Dea), non dirlo, ché tua morte affretti: dopo quello d'Ettòr pronto è il tuo fato. Lo sia (con forte gemito interruppe l'addolorato eroe), si muoia, e tosto, se giovar mi fu tolto il morto amico. Ahi che lontano dalla patria terra il misero perì, desideroso del mio soccorso nella sua sciagura. Or poiché il fato riveder mi vieta di Ftia le care arene, ed io crudele né Pàtroclo aitai né gli altri amici de' quai molti domò l'ettòrea lancia, ma qui presso le navi inutil peso della terra mi seggo, io fra gli Achei nel travaglio dell'armi il più possente, benché me di parole altri pur vinca, pera nel cor de' numi e de' mortali la discordia fatal, pera lo sdegno ch'anco il più saggio a inferocir costrigne, che dolce più che miel le valorose anime investe come fumo e cresce. Tal si fu l'ira che da te mi venne, Agamennón. Ma su l'andate cose, benché ne frema il cor, l'obblìo si sparga, e l'alme in sen necessità ne domi. Del caro capo l'uccisore Ettorre or si corra a trovar; poi quando a Giove e agli altri Eterni piacerà mia morte, venga pur, ch'io l'accetto. Il forte Alcide, dilettissimo a Giove e suo gran figlio, Alcide stesso vi soggiacque, domo dalla Parca e dall'aspra ira di Giuno. Così pur io, se fato ugual m'aspetta, estinto giacerò. Questo frattanto tempo è di gloria. Sforzerò qualcuna delle spose di Dardano e di Troe ad asciugar con ambedue le mani giù per le guance delicate il pianto, e a trar dal largo petto alti sospiri. Sappiano alfin che il braccio mio dall'armi abbastanza cessò; né dalla pugna tu, madre, mi svïar, ché indarno il tenti. E a lui la Diva dall'argenteo piede: Giusta, o figlio, è l'impresa e d'onor degna, campar da scempio i travagliati amici. Ma le tue scintillanti armi divine son fra' Troiani, ed Ettore, quel fiero dell'elmo crollator, sen fregia il dosso, e dell'incarco esulta. Ma fia breve, lo spero, il suo gioir, ché negra al fianco già l'incalza la Parca. Or tu di Marte per anco non entrar nel rio tumulto, se tu qua pria venir non mi riveggia. Verrò dimani al raggio mattutino, e recherotti io stessa una forbita bella armatura di Vulcan lavoro. Così detto, dal figlio alle sorelle ripiegò la persona, e, Voi, soggiunse, rïentrate del mar nell'ampio grembo, e del marino genitor canuto rendetevi alle case, e tutto dite che vedeste ed udiste. Al grande Olimpo io salgo a ritrovar l'inclito fabbro Vulcano, e il pregherò che luminose armi stupende al figlio mio conceda. Disse; e quelle del mar tosto nell'onde discesero, e la Dea dal piè d'argento avvïossi all'Olimpo a procacciarne al diletto figliuolo armi divine. Mentr'ella al ciel salìa, con urlo immenso dal sanguinoso Ettòr cacciati in fuga giunser gli Achivi delle navi al vallo e al mugghiante Ellesponto. E non ancora del compagno achillèo la morta spoglia al nembo degli strali avean sottratta gli argolici guerrieri. Un'altra volta fiero assalto le dava una gran serra di cavalli e di fanti, e innanzi a tutti di Prìamo il figlio, l'indefesso Ettorre che una fiamma parea. Tre volte il prode per gli piedi il cadavere afferrando provò di trarlo, e con orrenda voce i Troiani chiamò: tre volte i due impetuosi e vigorosi Aiaci respinserlo dal morto. E nondimeno saldo e securo in sua fortezza or dentro nella turba ei s'avventa, ed or s'arresta, e con gran voce tuttavia pur grida, né d'un passo s'arretra. E qual di notte vigilanti pastori alla campagna da preso tauro allontanar non ponno affamato lïon; così de' forti Aiaci la virtù da quell'esangue dispiccar non potea l'ardito Ettorre. E l'avrìa tratto alfine e conseguita immensa gloria, s'Iride veloce, a Giove occulta e a ogni altro iddio, dall'alto Olimpo non correa col vento al piede messaggiera ad Achille; e la spedìa, per eccitarlo alla battaglia, il cenno dell'augusta Giunon. Gli parve al fianco improvvisa la Diva, e questi accenti fe' dal labbro volar: Sorgi, Pelìde terribile guerriero, e di Patròclo il cadavere salva. Intorno a lui ferve avanti alle navi orrida pugna con mutue stragi. In sua difesa i Greci fan che puossi: per trarlo in Ilio i Teucri s'avventano di punta. Il fiero Ettorre innanzi a tutti di rapirlo agogna, bramoso di mozzar dal dilicato collo il bel capo, e d'un infame tronco conficcarlo alla cima. Alzati, e pigro più non giacer. Ti tocchi il cor vergogna che de' cani di Troia il tuo diletto debba le sanne trastullar. Se offesa ne riceve la salma, è tuo lo smacco. Rispose Achille: E quale a me de' numi ti manda ambasciatrice, Iri divina? Mi manda, replicò la Dea veloce, Giunon, di Giove glorïosa moglie, né Giove il sa, né verun altro iddio de' sereni d'Olimpo abitatore. Come al campo n'andrò, soggiunse Achille, se in mano di color venner le mie armi: e che d'armi or io mi cinga il vieta la cara madre, se lei pria non veggio da Vulcano tornar, come promise, di leggiadra armatura apportatrice? Di qual altra famosa or mi vestire al bisogno non so, tranne lo scudo dell'egregio figliuol di Telamone. Ma pur egli, mi spero, in questo punto sta combattendo pel mio spento amico. E a lui di nuovo la taumànzia figlia: Noto è ben anco a noi che le tue belle armi or sono d'altrui. Ma su la fossa anco inerme ti mostra all'inimico. Lascerà spaventato la battaglia solo al vederti, e respirar potranno i travagliati Achei. Salute è spesso nel calor della pugna un sol respiro. Così disse, e disparve. In piedi allora rizzossi Achille amor di Giove, e tutto coll'egida Minerva il ricoperse. D'un'aurea nube gli fasciò la fronte, ed una fiamma dalla nube uscìa, che dintorno accendea l'aria di luce. Siccome quando al ciel s'innalza il fumo d'isolana città, cui d'aspro assedio cinge il nemico: con orrendo marte combattono dal muro i cittadini finché gli alluma il Sol; poi quando annotta, destan fuochi frequenti alle vedette, e al ciel ne sbalza uno splendor che manda ai convicini del periglio il segno, se per sorte venir con pronte antenne volessero in aita: a questo modo dalla testa d'Achille alta alle stelle quella fiamma salìa. Varcato il muro, sul primo margo s'arrestò del fosso, né mischiossi agli Achei, ché della madre al precetto obbedìa. Lì stando, un grido mise, e d'un altro da lontan gli fece eco Minerva, ed un terror ne' Teucri immenso suscitò. Come sonoro d'una tuba talor s'ode lo squillo, quando d'assedio una città serrando armi grida terribile il nemico, così chiara d'Achille era la voce. N'udiro i Teucri il ferreo suono, e a tutti tremaro i petti; si rizzâr sul collo ai destrieri le chiome, e d'alto affanno presaghi addietro rivolgean le bighe. Gli aurighi sbigottîr, vista la fiamma che da Minerva di repente accesa orrenda e lunga su la fronte ardea del magnanimo eroe. Tre volte Achille dalla fossa gridò: tre volte i Teucri e i collegati sgominârsi, e dodici de' più prestanti fra i riversi cocchi trafitti vi perîr dal proprio ferro. Pronti intanto gli Achei di sotto ai densi strali sottratto di Menèzio il figlio, il locâr nella bara, e gli fêr cerchio lagrimando i compagni. Anch'ei veloce v'accorse Achille, e si disciolse in pianto nel feretro mirando il fido amico d'acuta lancia trapassato il petto. Egli stesso con carri, armi e destrieri l'avea spedito alla battaglia, e freddo lo rïebbe al ritorno e sanguinoso. Costrinse allor la veneranda Giuno suo malgrado a calar nelle correnti dell'Oceàno l'instancabil Sole. Ei si sommerse, e dal crudel conflitto ebber tregua gli Achei. Dier posa all'armi di rincontro i Troiani; i corridori sciolser dai cocchi, e pria che a cibo alcuno volger la mente, convocâr consiglio. Ritti in piedi aprîr essi il parlamento; né verun di sedersi ebbe fidanza, perché d'Achille la comparsa orrenda facea loro tremar le vene e i polsi, ché da lunga stagion ne' lagrimosi campi di Marte non l'avean veduto. Prese tra lor Polidamante il primo a ragionar. Di Panto era costui prudente figlio, e de' Troiani il solo che le passate e le future cose al guardo avea presenti. Egli d'Ettorre era compagno, e una medesma notte li produsse ambedue, l'un di parole, l'altro d'asta valente. Ei dunque in mezzo con saggio avviso così tolse a dire: Librate, amici, la bisogna; ir dentro alla cittade, e tosto, è mio consiglio, senz'aspettar davanti a queste navi l'alma luce del dì. Troppo siam lungi qui dalle mura. Finché l'ira in petto arse a questo guerrier contra l'Atride, più lieve er'anco il debellar gli Achivi, ed io pure vegliar godea le notti presso le navi, nella dolce speme d'occuparle. Or tremar fammi il Pelìde. L'ardor che il mena non vorrà ristretto contenersi nel campo ove l'acheo col troiano valore in generose prove la gloria marzïal divise: ma per Ilio a pugnar e per le mogli ne sforzerà. Nella cittade adunque ripariamo, e si segua il mio sentire, ché le cose avverran com'io v'assenno. L'alma notte or sopito in dolce calma tien d'Achille il furor: ma se dimani all'assalto prorompe, e qui ne trova, certo talun conoscerallo, e quanti dar potranno le spalle, e dentro il sacro Ilio camparsi, si terran beati; ma pria ben molti rimarran pastura di voraci avoltoi. Deh ch'io non oda sì rio caso giammai! Se al mio ricordo, benché non grato, obbedirem, la notte spenderem ne' rinforzi e ne' consigli. E le torri e le porte e i contrafforti de' ben commessi tavolati intanto faran sicura la città. Poi tutti d'arme orrendi domani al nuovo Sole starem su i merli. E s'ei lasciato il lido verrà nosco a pugnar sotto le mura, duro affar troveravvi, e poiché stanca in vane giravolte avrà la foga de' suoi superbi corridor, gli fia forza alle navi ritornar confuso; né di scagliarsi dentro alla cittade daragli il cuore, e pria che porla al fondo, ei farà sazii del suo corpo i cani. Qui tacque; e bieco gli rispose Ettorre: Tu non mi fai gradevole proposta, Polidamante, no, quando n'esorti a serrarci di nuovo entro le mura. E non vi noia ancor di quelle torri la prigionia? Fu tempo in cui le genti di vario favellar tutte a una voce dicean ricca di molto auro e di bronzo la città prïameia. Or dalle case dileguârsi i tesori. Alle contrade dell'amena Meonia e della Frigia molta ricchezza ne passò venduta da che l'ira di Giove i Teucri oppresse. Ed or che Giove innanzi a questi legni d'alta vittoria mi fe' lieto, e diemmi che al mar chiudessi le falangi achee, non far palese, o stolto, ai cittadini questo consiglio, ché nessuno avrai fra i Troiani sì vil che lo secondi, né patirollo io mai. Teucri, obbediamo tutti al mio detto. Ristorate i corpi al suo posto ciascuno, e vi sovvegna delle scolte per tutto e delle ronde. Qualunque de' Troiani in pensier stassi di sue ricchezze, le raguni, e poscia largo ai soldati le spartisca. E meglio che alcun nostro ne goda, e non l'Acheo. Sull'aurora dimani in tutto punto assalirem le navi: e se il divino Achille all'armi si svegliò davvero, gli fia la pugna, se la vuol, funesta. Non fuggirollo io, no, nell'affannoso ballo di Marte, ma starogli a fronte con intrepido petto. Uno de' due d'un'illustre vittoria andrà superbo; il cimento è comune, ed avvien spesso che morte incontra chi di darla ha speme. Disse, e i Teucri levâr d'applauso un grido. Stolti! ché Palla avea lor tolto il senno. Tutti assentîr d'Ettorre al pazzo avviso, nessuno al saggio del figliuol di Panto. Mentre col cibo a rivocar le forze intendono i Troiani, in alti lai l'intera notte dispendean gli Achivi sovra il morto Patròclo, e prorompea fra loro in pianti sospirosi Achille, la man tremenda sul gelato petto dell'amico ponendo, e cupi e spessi i gemiti mettea, come talvolta ben chiomato lïone a cui rapìo il cacciator nel bosco i lïoncini. Crucciato il fiero del suo tardo arrivo, tutta scorre la valle, e l'orme esplora del predator, se mai di ritrovarlo in qualche lato gli rïesca; e orrenda gli divampa nel cor la rabbia e l'ira: tal si cruccia il Pelìde, e con profondi sospiri in mezzo ai Mirmidóni esclama: Oh mie vane parole il dì ch'io diedi a Menèzio il conforto, e la promessa che in Opunta gli avrei carco di gloria e di gran preda ricondotto il figlio dall'atterrata Troia! Ahi che non tutti Giove i disegni de' mortali adempie! Sotto Troia il destino ambo ne danna a far vermiglia una medesma terra, ché me neppure abbraccerà tornato il buon vecchio Pelèo nel patrio tetto, né Teti genitrice; ma sepolcro mi darà questo lido. Or poi che deggio dopo te, mio fedel, scender sotterra, tu, no, sul rogo non andrai, lo giuro, se non t'arreco in prima io qui d'Ettorre, del tuo crudo uccisor l'armi e la testa; e dodici d'illustri iliaci figli troncheronne davanti alla tua pira. Giaci intanto così, caro compagno, qui presso alle mie navi; e le troiane e le dardanie ancelle il largo seno tutte discinte intorno al tuo ferètro notte e dì faran pianto, e ploreranno. Esse ne fur comun fatica e preda quando noi colla forza e colle lunghe aste domando le nemiche genti l'opime n'atterrammo ampie cittadi. Ciò detto, comandò l'almo Pelìde che dai compagni al fuoco si ponesse sul tripode un gran vaso, onde veloci di Pàtroclo lavar la sanguinosa tabe. E quelli sul fuoco in un baleno atto ai lavacri collocaro un bronzo, e v'infusero l'onda, e di stecchiti rami di sotto alimentâr la fiamma. Abbracciavan le vampe mormorando del vaso il ventre, e rotto in sottil fumo scaldavasi l'umor. Poiché nel cavo rame la linfa al suo bollor pervenne, diersi il corpo a lavar: l'unser di pingue felice oliva, e le ferite empiero di balsamo novenne. Indi al funèbre letto renduto, dalla fronte al piede in sottil lino avvolserlo, e superno un bianco panno vi spiegâr. Ciò fatto, tornaro ai pianti, e intorno al mesto Achille tutta in lamenti consumâr la notte. Giove in questo alla sua moglie e sorella si volse e disse: Veneranda Giuno, ecco pieni alla fine i tuoi desiri; ecco all'armi tornato il grande Achille. Di te nacque, cred'io, (cotanto l'ami) l'argiva gente. - E Giuno a lui: Che parli, tremendo figlio di Saturno? All'uomo povero d'alma e di consigli è dato il dannaggio tramar del suo simile; ed io che incedo degli Dei reina, perché saturnia prole e perché sposa son dell'alto de' numi imperadore, contra i Troiani co' Troiani irata macchinar qualche offesa io non dovea? Mentre seguìan tra lor queste contese, Teti agli alberghi di Vulcan pervenne; stellati eterni rilucenti alberghi, fra i celesti i più belli, e dallo stesso Vulcan costrutti di massiccio bronzo. Tutto in sudor trovollo affaccendato de' mantici al lavoro. Avea per mano dieci tripodi e dieci, adornamento di palagio regal. Sopposte a tutti d'oro avea le rotelle, onde ne gisse da sé ciascuno all'assemblea de' numi, e da sé ne tornasse onde si tolse: maraviglia a vederli! Omai compiuto l'ammirando lavor, solo restava ch'ei v'adattasse le polite orecchie, e appunto all'uopo n'aguzzava i chiovi. Mentre venìa tai cose elaborando con egregio artificio, entro la soglia l'alma Teti mettea l'argenteo piede. La vide, e le si fe' Càrite incontro ornata il capo d'eleganti bende, dell'inclito Vulcan moglie vezzosa: per man la strinse, e il roseo labbro aprendo, Qual, le disse, cagione, o bella Teti, ti guida inaspettata a queste case? Rado suoli onorarle, e nondimeno sempre cara vi giungi e riverita. Inóltrati, perch'io pronta t'appresti le vivande ospitali. - E sì dicendo, la bellissima Dea l'altra introdusse, e in un bel seggio collocolla, ornato d'argentee borchie a lavorìo gentile col suo sgabello al piede. Indi a chiamarne corse l'esimio fabbro, e sì gli disse: Vieni, Vulcan, ché ti vuol Teti. - Ed egli: Venerevole Diva e d'onor degna nella casa mi venne. Ella malconcio e afflitto mi salvò quando dal cielo mi feo gittar l'invereconda madre, che il distorto mio piè volea celato; e mille allor m'avrei doglie sofferto se me del mar non raccogliean nel grembo del rifluente Ocèano la figlia Eurìnome e la Dea Teti. Di queste quasi due lustri in compagnia mi vissi, e di molte vi feci opre d'ingegno, fibbie ed armille tortuose e vezzi e bei monili, in cavo antro nascoso a cui spumante intorno ed infinita d'Oceàn la corrente mormorava; né verun di mia stanza avea contezza, né mortale né Dio, tranne le belle mie servatrici. Or poiché Teti è giunta alla nostra magion, piena le voglio render mercé del benefizio antico. Tu dinanzi sollecita le poni il banchetto ospital, mentr'io veloce questi mantici assetto e gli altri arnesi. Disse, e dal ceppo dell'incude il mostro abbronzato levossi zoppicando. Moveansi sotto a gran stento le fiacche gambe sottili. Allontanò dal fuoco i mantici ventosi: ogni fabbrile istrumento raccolse, e dentro un'arca li ripose d'argento. Indi con molle spugna ben tutto stropicciossi il volto affumicato ed ambedue le mani e il duro collo ed il peloso petto. Poi la tunica mise; ed il pesante scettro impugnato, tentennando uscìo. Seguìan l'orrido rege, e a dritta e a manca il passo ne reggean forme e figure di vaghe ancelle, tutte d'oro, e a vive giovinette simìli, entro il cui seno avea messo il gran fabbro e voce e vita e vigor d'intelletto e delle care arti insegnate dai Celesti il senno. Queste al fianco del Dio spedite e snelle camminavano; ed egli a tardo passo avvicinato a Teti, in un lucente trono s'assise, e la sua man ponendo nella man della Dea, così le disse: Qual mai sorte t'adduce a queste soglie, o sempre cara e veneranda Teti, in quell'ampio tuo peplo ancor più bella? Troppo rado ne fai di tua presenza contenti e lieti. Or parla, e il tuo desire libera esponi. A soddisfarlo il grato cor mi sospinge, se pur farlo io possa, e il farlo mi s'addica. - E a lui suffusa di lagrime i bei rai Teti rispose: Delle Dive d'Olimpo e qual sofferse tanti, o Vulcano, tormentosi affanni quanti in me Giove n'adunò? Me sola fra le Dive del mar suggetta ei fece ad un mortale, al re Pelèo. Ritrosa ne sostenni gli amplessi; ed egli or giace logro dagli anni nel regal suo tetto. Né il tenor qui restò di mie sventure. Mi nacque un figlio. Io l'educai gelosa, e come pianta ei crebbe, e mi divenne il maggior degli eroi. Questo germoglio di fertile terren, questo diletto unico figlio su le navi io stessa spedii di Troia alle funeste rive a guerreggiar co' Teucri. Avverso fato gli dinega il ritorno; ed io non deggio nella pelèa magion madre infelice abbracciarlo più mai. Né questo è tutto. Fin ch'ei mi vive, e la ria Parca il raggio gli prolunga del Sole, ei lo consuma nella tristezza, né giovarlo io posso. Dagli Achivi ottenuta egli s'avea premio di sue fatiche una fanciulla. Agamennón gliela ritolse; ed esso dell'onta irato, e nel dolor sepolto si ritrasse dall'armi. I Teucri intanto alle navi rinchiusero gli Achei, né permettean l'uscita. Umìli allora i duci argivi gli mandâr preghiere e d'orrevoli doni ampie profferte. Egli fermo negò la chiesta aita: ma cinse di sue stesse armi l'amico Pàtroclo, e al campo l'invïò seguìto da molti prodi. Su le porte Scee tutto un giorno durò l'aspro conflitto. E il dì stesso Ilïon sarìa caduto, s'alta strage menar visto il gagliardo di Menèzio figliuol, non l'uccidea tra i combattenti della fronte Apollo, esaltandone Ettorre. Or io pel figlio vengo supplice madre al tuo ginocchio, onde a conforto di sua corta vita di scudo e d'elmo provveder tu il voglia, e di forte lorica e di schinieri con leggiadro fermaglio. A lui perdute ha tutte l'armi dai Troiani ucciso il suo fedel compagno, ed egli or giace gittato a terra, e dal dolore oppresso. Tacque; e il mal fermo Dio così rispose: Ti riconforta, o Teti, e questa cura non ti gravi il pensier. Così potessi alla morte il celar quando la Parca sul capo gli starà, com'io di belle armi fornito manderollo, e tali che al vederle ogni sguardo ne stupisca. Lasciò la Dea, ciò detto, e impazïente ai mantici tornò, li volse al fuoco, e comandò suo moto a ciascheduno. Eran venti che dentro la fornace per venti bocche ne venìan soffiando, e al fiato, che mettean dal cavo seno, or gagliardo or leggier, come il bisogno chiedea dell'opra e di Vulcano il senno, sibilando prendea spirto la fiamma. In un commisti allor gittò nel fuoco argento ed auro prezïoso e stagno ed indomito rame. Indi sul toppo locò la dura risonante incude, di pesante martello armò la dritta, di tanaglie la manca; e primamente un saldo ei fece smisurato scudo di dèdalo rilievo, e d'auro intorno tre ben fulgidi cerchi vi condusse, poi d'argento al di fuor mise la soga. Cinque dell'ampio scudo eran le zone, e gl'intervalli, con divin sapere, d'ammiranda scultura avea ripieni. Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo e il Sole infaticabile, e la tonda Luna, e gli astri diversi onde sfavilla incoronata la celeste volta, e le Pleiadi, e l'Iadi, e la stella d'Orïon tempestosa, e la grand'Orsa che pur Plaustro si noma. Intorno al polo ella si gira ed Orïon riguarda, dai lavacri del mar sola divisa. Ivi inoltre scolpite avea due belle popolose città. Vedi nell'una conviti e nozze. Delle tede al chiaro per le contrade ne venìan condotte dal talamo le spose, e Imene, Imene con molti s'intonava inni festivi. Menan carole i giovinetti in giro dai flauti accompagnate e dalle cetre, mentre le donne sulla soglia ritte stan la pompa a guardar maravigliose. D'altra parte nel fôro una gran turba convenir si vedea. Quivi contesa era insorta fra due che d'un ucciso piativano la multa. Un la mercede già pagata asserìa; l'altro negava. Finir davanti a un arbitro la lite chiedeano entrambi, e i testimon produrre. In due parti diviso era il favore del popolo fremente, e i banditori sedavano il tumulto. In sacro circo sedeansi i padri su polite pietre, e dalla mano degli araldi preso il suo scettro ciascun, con questo in pugno sorgeano, e l'uno dopo l'altro in piedi lor sentenza dicean. Doppio talento d'auro è nel mezzo da largirsi a quello che più diritta sua ragion dimostri. Era l'altra città dalle fulgenti armi ristretta di due campi in due parer divisi, o di spianar del tutto l'opulento castello, o che di quante son là dentro ricchezze in due partito sia l'ammasso. I rinchiusi alla chiamata non obbedìan per anco, e ad un agguato armavansi di cheto. In su le mura le care spose, i fanciulletti e i vegli fan custodia e corona; e quelli intanto taciturni s'avanzano. Minerva li precorre e Gradivo entrambi d'oro, e la veste han pur d'oro, ed alte e belle le divine stature, e d'ogni parte visibili: più bassa iva la torma. Come in loco all'insidie atto fur giunti presso un fiume, ove tutti a dissetarse venìan gli armenti, s'appiattâr que' prodi chiusi nel ferro, collocati in pria due di loro in disparte, che de' buoi spïassero la giunta e delle gregge. Ed eccole arrivar con due pastori che, nulla insidia suspicando, al suono delle zampogne si prendean diletto. L'insidiator drappello alla sprovvista gli assalìa, ne predava in un momento de' buoi le mandre e delle bianche agnelle, ed uccidea crudele anco i pastori. Scossa all'alto rumor l'assediatrice oste a consiglio tuttavia seduta, de' veloci corsier subitamente monta le groppe, i predatori insegue, e li raggiunge. Allor si ferma, e fiera sul fiume appicca la battaglia. Entrambe si ferìan coll'acute aste le schiere. Scorrea nel mezzo la Discordia, e seco era il Tumulto e la terribil Parca che un vivo già ferito e un altro illeso artiglia colla dritta, e un morto afferra ne' piè coll'altra, e per la strage il tira. Manto di sangue tutto sozzo e rotto le ricopre le spalle: i combattenti parean vivi, e traean de' loro uccisi i cadaveri in salvo alternamente. Vi sculse poscia un morbido maggese spazïoso, ubertoso e che tre volte del vomero la piaga avea sentito. Molti aratori lo venìan solcando, e sotto il giogo in questa parte e in quella stimolando i giovenchi. E come al capo giungean del solco, un uom che giva in volta, lor ponea nelle man spumante un nappo di dolcissimo bacco; e quei tornando ristorati al lavor, l'almo terreno fendean, bramosi di finirlo tutto. Dietro nereggia la sconvolta gleba: vero arato sembrava, e nondimeno tutta era d'òr. Mirabile fattura! Altrove un campo effigïato avea d'alta messe già biondo. Ivi le destre d'acuta falce armati i segatori mietean le spighe; e le recise manne altre in terra cadean tra solco e solco, altre con vinchi le venìan stringendo tre legator da tergo, a cui festosi tra le braccia recandole i fanciulli senza posa porgean le tronche ariste. In mezzo a tutti colla verga in pugno sovra un solco sedea del campo il sire, tacito e lieto della molta messe. Sotto una quercia i suoi sergenti intanto imbandiscon la mensa, e i lombi curano d'un immolato bue, mentre le donne intente a mescolar bianche farine, van preparando ai mietitor la cena. Seguìa quindi un vigneto oppresso e curvo sotto il carco dell'uva. Il tralcio è d'oro, nero il racemo, ed un filar prolisso d'argentei pali sostenea le viti. Lo circondava una cerulea fossa e di stagno una siepe. Un sentier solo al vendemmiante ne schiudea l'ingresso. Allegri giovinetti e verginelle portano ne' canestri il dolce frutto, e fra loro un garzon tocca la cetra soavemente. La percossa corda con sottil voce rispondeagli, e quelli con tripudio di piedi sufolando e canticchiando ne seguìano il suono. Di giovenche una mandra anco vi pose con erette cervici. Erano sculte in oro e stagno, e dal bovile uscièno mugolando e correndo alla pastura lungo le rive d'un sonante fiume che tra giunchi volgea l'onda veloce. Quattro pastori, tutti d'oro, in fila gìan coll'armento, e li seguìan fedeli nove bianchi mastini. Ed ecco uscire due tremendi lïoni, ed avventarsi tra le prime giovenche ad un gran tauro, che abbrancato, ferito e strascinato lamentosi mandava alti muggiti. Per rïaverlo i cani ed i pastori pronti accorrean: ma le superbe fiere del tauro avendo già squarciato il fianco, ne mettean dentro alle bramose canne le palpitanti viscere ed il sangue. Gl'inseguivano indarno i mandrïani aizzando i mastini. Essi co' morsi attaccar non osando i due feroci, latravan loro addosso, e si schermivano. Fecevi ancora il mastro ignipotente in amena convalle una pastura tutta di greggi biancheggiante, e sparsa di capanne, di chiusi e pecorili. Poi vi sculse una danza a quella eguale che ad Arïanna dalle belle trecce nell'ampia Creta Dedalo compose. V'erano garzoncelli e verginette di bellissimo corpo, che saltando teneansi al carpo delle palme avvinti. Queste un velo sottil, quelli un farsetto ben tessuto vestìa, soavemente lustro qual bacca di palladia fronda. Portano queste al crin belle ghirlande, quelli aurato trafiere al fianco appeso da cintola d'argento. Ed or leggieri danzano in tondo con maestri passi, come rapida ruota che seduto al mobil torno il vasellier rivolve, or si spiegano in file. Numerosa stava la turba a riguardar le belle carole, e in cor godea. Finìan la danza tre saltator che in varii caracolli rotavansi, intonando una canzona. Il gran fiume Oceàn l'orlo chiudea dell'ammirando scudo. A fin condotto questo lavoro, una lorica ei fece che della fiamma lo splendor vincea; poi di raro artificio un saldo e vago elmo alle tempie ben acconcio, e sopra d'auro tessuta v'innestò la cresta. Fur l'ultima fatica i bei schinieri di pieghevole stagno. E terminate l'armi tutte, il gran fabbro alto levolle, e al piè di Teti le depose. Ed ella, co' bei doni del Dio, come sparviero ratta calossi dal nevoso Olimpo.
Uscìa del mar l'Aurora in croceo velo, alla terra ed al ciel nunzia di luce, e co' doni del Dio Teti giungea. Singhiozzante da canto al morto amico trovò l'amato figlio a cui dintorno ploravano i compagni. Apparve in mezzo l'augusta Diva, e strettolo per mano, Figlio, disse, poiché piacque agli Dei la sua morte, lasciam, benché dolenti, che questi qui si giaccia; e tu le belle armi ti prendi di Vulcan, che mai mortal non indossò. - Così dicendo, le depose al suo piè. Dier quelle un suono che terror mise ai Mirmidóni: il guardo non le sostenne, e si fuggîr. Ma come le vide Achille, maggior surse l'ira, e sotto le palpèbre orrendamente gli occhi qual fiamma balenâr. Godea trattarle, vagheggiarle; e dilettato del mirando lavor, si volse, e disse: Madre, son degne del divino fabbro quest'armi, né può tanto arte terrena. Or le mi vesto; ma timor mi grava che nelle piaghe di Patròclo intanto vile insetto non entri, che di vermi generator la salma (ahi! senza vita!) ne guasti sì che tutta imputridisca. Pensier di questo non ti prenda, o figlio, gli rispose la Dea: l'infesto sciame divoratore de' guerrieri uccisi io ne terrò lontano. Ov'anco ei giaccia intero un anno, farò sì che il corpo incorrotto ne resti, e ancor più bello. Or tu raccogli in assemblea gli Achivi, e, placato all'Atride, àrmati ratto per la battaglia, e di valor ti cingi. Disse, e spirto audacissimo gl'infuse. Indi ambrosia all'estinto, e rubicondo nèttare, a farlo d'ogni tabe illeso, nelle nari stillò. Lunghesso il lido l'orrenda voce intanto alza il Pelìde; né soli i prenci achei, ma tutte accorrono le sparse schiere per le navi, e quanti di navi han cura, remator, piloti e vivandieri e dispensier, van tutti a parlamento, di veder bramosi dopo un lungo cessar l'apparso Achille. Barcollanti v'andaro anche i due prodi Dïomede ed Ulisse, per le gravi piaghe all'asta appoggiati, e ne' primieri seggi adagiârsi. Ultimo giunse il sommo Atride, in forte mischia ei pur dal telo di Coon Antenòride ferito. Tutti adunati, Achille surse e disse: Atride, a te del par che a me sarìa meglio tornato che tra noi non fusse mai surta la fatal lite che il core sì ne róse a cagion d'una fanciulla. Dovea Dïana saettarla il giorno ch'io saccheggiai Lirnesso, e mia la feci, ché tanti non avrìan trafitti Achivi, mentre l'ira io covai, morso il terreno. Ettore e i Teucri ne gioîr, ma lunga rimarrà tra gli Achei, credo, ed amara de' nostri piati la memoria. Or copra obblìo le andate cose, e il cor nel petto necessità ne domi. Io qui depongo l'ira, né giusto è ch'io la serbi eterna. Tu ridesta le schiere alla battaglia. Vedrò se i Teucri al mio venir vorranno presso le navi pernottar. Di gambe, spero, fia lesto volentier chïunque potrà sottrarsi in campo alla mia lancia. Disse: e gli Achivi giubilâr vedendo alfin placato il generoso Achille. Surse allora l'Atride, e dal suo seggio, senza avanzarsi, favellò: M'udite, eroi di Grecia, bellicosi amici, né turbate il mio dir, ché lo frastuono anche il più sperto dicitor confonde. E chi far mente, chi parlar potrebbe in cotanto tumulto, ove la voce la più sonora verrìa meno? Io volgo le parole ad Achille, e voi porgete attento orecchio. Con rimprocci ed onte spesso gli Achivi m'accusâr d'un fallo cui Giove e il Fato e la notturna Erinni commisero, non io. Essi in consiglio quel dì la mente m'offuscâr, che il premio ad Achille rapii. Che farmi? Un Dio così dispose, la funesta a tutti Ate, tremenda del Saturnio figlia. Lieve ed alta dal suolo ella sul capo de' mortali cammina, e lo perturba, e a ben altri pur nocque. Anche allo stesso degli uomini e de' numi arbitro Giove fu nocente costei quando ingannollo l'augusta Giuno il dì che in Tebe Alcmena l'erculea forza partorir dovea. Detto ai Celesti avea Giove per vanto: Divi e Dive, ascoltate; io vo' del petto rivelarvi un segreto: oggi Ilitìa curatrice de' parti in luce un uomo del mio sangue trarrà, che su le tutte vicine genti stenderà lo scettro. Mentirai, né atterrai la tua parola, Giuno riprese meditando un frodo. Giura, o Giove, il gran giuro, che nel vero fia de' vicini regnator l'uom ch'oggi di tua stirpe cadrà fra le ginocchia d'una madre mortal. Giurollo il nume senza sospetto, e ne fu poi pentito. Ché Giuno dal ciel ratta in Argo scesa del Perseìde Stènelo all'illustre moglie sen venne. Avea grav'ella il seno d'un caro figlio settimestre. A questo, benché immaturo, accelerò la luce Giuno, e d'Alcmena prolungando il parto, ne represse le doglie. Indi a narrarne corse al Saturnio la novella, e disse: Giove, t'annunzio che mo' nacque un prode che in Argo impererà, lo Stenelìde, tua progenie, Euristèo d'Argo re degno. D'alto dolor ferito infurïossi Giove, e tosto ai capelli Ate afferrando per lo Stige giurò che questa a tutti furia dannosa non avrìa più mai riveduto l'Olimpo. E sì dicendo, la rotò colla destra, e fra' mortali dagli astri la scagliò. Per la costei colpa veggendo di travagli oppresso il diletto figliuol sotto Euristèo adiravasi Giove. E a me pur anco, quando alle navi Ettòr struggea gli Achivi, lacerava il pensier la rimembranza di questa Diva che mi tolse il senno. Ma poiché Giove il volle, io vo' del pari farne l'emenda con immensi doni. Sorgi Achille alla pugna, e gli altri accendi. Tutto, che ieri nella tenda Ulisse ti promise, io darotti: e se t'aggrada, l'ardor sospendi che a pugnar ti sprona, e dal mio legno farò tosto i doni recar, che visti placheranti il core. Duce de' prodi glorïoso Atride, rispose Achille, il dar que' doni a norma di tua giustizia o ritenerli, è tutto nel tuo poter. Ma tempo non è questo da parole: sia d'armi ogni pensiero, né più s'indugi, ché il da farsi è assai. Uop'è che Achille in campo rieda e sperda le troiane falangi, e ch'altri il vegga, e l'esempio n'imiti. - Illustre Achille, soggiunse allor l'accorto Ulisse, è grande il tuo valor; ma non menar digiuni contro i Teucri gli Achei. Venuti al cozzo una volta gli eserciti, e infiammati quinci e quindi da un Dio, non fia sì breve l'aspro certame. Nelle navi adunque comanda che di cibo e di bevanda, fonte di forza, si ristaurin tutti, ché digiuno soldato un giorno intero fino al tramonto non sostiene la pugna. Sete, fame, fatica a poco a poco dòman anco i più forti, e dispossato casca il ginocchio. Ma guerrier, cui fresche tornò le forze il cibo, il giorno tutto intrepido combatte, e sua stanchezza sol col finirsi del conflitto ei sente. Dunque il campo congeda, e fa che pronte mense imbandisca. Agamennón frattanto qua rechi i doni, onde ogni Acheo li vegga, e il tuo cor ne gioisca. Indi nel mezzo del parlamento il re si levi, e giuri che mai non giacque colla tua fanciulla; e questo giuro il cor ti plachi. Ei poscia, perché nulla si fraudi al tuo diritto, di lauto desco nella propria tenda ti presenti e t'onori. E tu più giusto móstrati, Atride, in avvenir, ché bello regal atto è il placar, qual sia, l'offeso. A questo il sire Agamennón: M'è grato, Ulisse, il saggio e acconciamente espresso tuo ragionar. Io giurerò dall'imo cuor, né dinanzi al Dio sarò spergiuro. Ma tempri Achille del pugnar la foga sino che giunga il donativo; e il sangue della vittima fermi il giuramento, qui presenti voi tutti. Or tu medesmo vanne, Ulisse, e trascelto, io tel comando, de' primi achivi giovinetti il fiore, reca i doni promessi e le donzelle; e Taltìbio mi cerchi e m'apparecchi un cinghial da svenarsi a Giove e al Sole. Inclito Atride, gli rispose Achille, serbar si denno queste cose al tempo che dall'armi avrem posa, e che non tanto sdegno m'infiammi. Giacciono squarciati nella polve gli eroi che spense Ettorre favorito da Giove, e voi ne fate ressa di cibo? Io, qual si trova, all'armi senza ritardo il campo esorterei, e vendicato l'onor nostro, allegre cene abbondanti appresterei la sera. Non verrà cibo al labbro mio né beva, s'ulto pria non vedrò l'estinto amico. D'acuto acciar trafitto egli mi giace nella tenda co' piè volti all'uscita, e gli fan cerchio i suoi compagni in pianto. Non altro è dunque il mio pensier che strage e sangue, e il cupo di chi muor sospiro. E Ulisse a lui: Fortissimo Pelìde, tu nell'asta me vinci, io te nel senno, perché pria nacqui, e più imparai. Fa dunque di quetarti al mio detto. Umano core presto si sazia di conflitti in cui molto miete l'acciar, poco raccoglie il mietitor, se Giove, arbitro sommo di nostre guerre, le bilance inclina. Pianger col ventre non si dee gli estinti; e qual respiro il pianto avrìa se mille fa caderne la Parca ogni momento? Intero un sole al lagrimar si doni, poi con coraggio, chi morì s'intombi: e noi che vivi della mischia uscimmo confortiamci di cibo, onde più fieri d'invitto ferro ricoperti il petto alla pugna tornar, senza che sia mestier novello incitamento. E guai a chi terrassi su le navi inerte, mentre gli altri animosi ad acre assalto contra i Teucri dal vallo irromperanno! Disse, e compagni i due figliuoi si prese di Nestore, e Toante e Merïone e il Filìde Megète e Melanippo e Licomede di Creonte. Andaro d'Atride al padiglion, presti il comando n'adempiro, e arrecâr le già promesse cose; sette treppiè, venti lebèti, dodici corridori; indi prestanti d'ingegno e di beltà sette captive. La figlia di Brisèo, guancia rosata, ottava ne venìa. Li precedea con dieci di buon peso aurei talenti Ulisse, e lo seguìan con gli altri doni gli altri giovani achei. Deposto il tutto nell'assemblea, levossi Agamennóne; e Taltìbio di voce a un Dio simìle irto cinghial gli appresentò. Fuor trasse il sospeso del brando alla vagina trafier l'Atride, e della belva i primi peli recisi, alzò le palme, e a Giove pregò. Sedeansi tutti in riverente giusto silenzio per udirlo; ed egli guardando al cielo e supplicando disse: Il sommo ottimo Iddio, la Terra, il Sole, e l'Erinni laggiù gastigatrici degli spergiuri, testimon mi sieno che per desìo lascivo unqua io non posi sopra la figlia di Brisèo le mani, e che la tenni nelle tende intatta. Mi mandino, s'io mento, ogni castigo serbato al falso giurator gli Dei. Disse, e l'ostia scannò; poscia ne' vasti gorghi marini la scagliò l'araldo, pasto de' pesci. Allor rizzossi Achille e sclamò: Giove padre, oh di che danni tu ne gravi! Non mai m'avrìa l'Atride mosso all'ira, né mai per farmi oltraggio rapita a mio mal grado egli la schiava: ma tu il volesti, Iddio, tu che di tanti Achei la morte decretavi. Or voi itene al cibo, e all'armi indi si voli. Disse, e sciolto il consesso, alla sua nave si disperse ciascun. Ma co' presenti i Mirmidóni s'avvïâr d'Achille verso le tende, e li posâr, schierando su bei seggi le donne; e nell'armento fur dai sergenti i corridor sospinti. Di beltà simigliante all'aurea Venere come vide Brisëide del morto Pàtroclo le ferite, abbandonossi sull'estinto, e ululava e colle mani laceravasi il petto e il delicato collo e il bel viso, e sì dicea plorando: Oh mio Patròclo! oh caro e dolce amico d'una meschina! Io ti lasciai qui vivo partendo; e ahi quale al mio tornar ti trovo! Ahi come viemmi un mal su l'altro! Vidi l'uomo a cui diermi i genitor, trafitto dinanzi alla città, vidi d'acerba morte rapiti tre fratei diletti; e quando Achille il mio consorte uccise e di Minete la città distrusse, tu mi vietavi il piangere, e d'Achille farmi sposa dicevi, e a Ftia condurmi tu stesso, e m'apprestar fra' Mirmidóni il nuzïal banchetto. Avrai tu dunque, o sempre mite eroe, sempre il mio pianto. Così piange: piangean l'altre donzelle Pàtroclo in vista, e il proprio danno in core. Stretti intanto ad Achille i senïori lo confortano al cibo, ed egli il niega gemebondo: Se restami un amico che mi compiaccia, non m'esorti, il prego, a toccar cibo in tanto duol: vo' starmi fino a sera, e potrollo, in questo stato. Tutti, ciò detto, accomiatò, ma seco restâr gli Atridi e Nestore ed Ulisse e il re cretese e il buon Fenice, intenti a stornarne il dolor: ma il cor sta chiuso ad ogni dolce finché l'apra il grido della battaglia sanguinosa. Or tutto col pensier nell'amico alto sospira e prorompe così: Caro infelice! Tu pur ne' giorni di feral conflitto degli Achivi co' Troi m'apparecchiavi con presta cura nelle tende il cibo. Or tu giaci, e digiuno io qui mi struggo del desìo di te sol; né più cordoglio mi graverìa se morto il padre udissi (misero! ei forse or per me piange in Ftia, per me fatto campione in stranio lido dell'abborrita Argiva), o morto il mio di divina beltà figlio diletto, che a me si edùca, se pur vive, in Sciro. Ahi! mi sperava di morir qui solo; sperava che tu salvo a Ftia tornando su presta nave, un dì da Sciro avresti teco addutto il mio Pirro, e mostri a lui i miei campi, i miei servi e l'alta reggia; perocché temo che Pelèo pur troppo o più non viva, o di dolor sol viva, aspettando ogni dì veglio cadente l'amaro annunzio della morte mia. Così geme: gemean gli astanti eroi ricordando ciascun gli abbandonati suoi cari pegni. Di quel pianto Giove impietosito, a Pallade si volse immantinente, e sì le disse: O figlia, perché lasci l'uom prode in abbandono? Pensier d'Achille non hai più? Nol vedi là seduto alle navi e lagrimoso pel caro amico? Andâr già tutti al desco; ei sol ricusa ogni ristor. Va dunque, e dolce ambrosia e nèttare nel petto, onde non caggia di languor, gl'instilla. Sprone aggiunse quel cenno alla già pronta Minerva che d'un salto, con la foga delle vaste ali di stridente nibbio, calò dal cielo, e nèttare ed ambrosia stillò d'Achille in petto, onde le forze il suo fiero digiun non gli togliesse; indi agli eterni del potente padre soggiorni rivolò. Gli Achivi intanto tutti in procinto dalle navi a torme versavansi nel campo; e a quella guisa che fioccano dal ciel, spinte dal soffio serenatore d'aquilon, le nevi, così dai legni uscir densi allor vedi i lucid'elmi, i vasti scudi, e i forti concavi usberghi e le frassinee lance. Folgora ai lampi dell'acciaro il cielo e ne brilla il terren, che al calpestìo delle squadre rimbomba. In mezzo a queste armasi Achille. Gli strideano i denti, gli occhi eran fiamme, di dolore e d'ira rompeasi il petto; e tale egli dell'armi vulcanie si vestìa. Strinse alle gambe i bei stinieri con argentee fibbie, pose al petto l'usbergo, e di lucenti chiovi fregiato agli omeri sospese il forte brando; s'imbracciò lo scudo, che immenso e saldo di lontan splendea come luna, o qual foco ai naviganti sovr'alta apparso solitaria cima, quando lontani da' lor cari il vento li travaglia nel mar: tale dal bello e vario scudo dell'eroe saliva all'etra lo splendor. Stella parea su la fronte il grand'elmo irto d'equine chiome, e fusa sul cono tremolava l'aurea cresta. In quest'armi il divo Achille tenta se stesso, e vi si vibra, e prova se gli son atte; e gli erano qual piuma ch'alto il solleva. Alfin dal suo riservo cavò l'immensa e salda asta paterna, cui nullo Achivo palleggiar potea tranne il Pelìde, frassino d'eroi sterminatore, da Chiron reciso su le pelìache vette, e dato al padre. Alcìmo intanto e Automedonte aggiogano di belle barde adorni e di bei freni i cavalli: e allungate ai saldi anelli le guide, e tolta nella man la sferza, salta sul cocchio Automedón. Vi monta dopo, raggiante come Sole, Achille tutto presto alla pugna, e con tremenda voce ai paterni corridor sì grida: Xanto e Bàlio a Podarge incliti figli, sia vostra cura in salvo ricondurre sazio di stragi il signor vostro; e morto nol lasciate colà come Patròclo. Chinò la testa l'immortal corsiero Xanto: diffusa per lo giogo andava fino a terra la chioma, ed ei da Giuno fatto parlante udir fe' questi accenti: Achille, in salvo questa volta ancora ti trarremo noi, sì; ma ti sovrasta l'ultim'ora, né fia nostra la colpa, ma di Giove e del Fato. Se dell'armi spogliâr Patroclo i Troi, non accusarne nostra pigrizia e tardità, ma il forte di Latona figliuolo. Ei nella prima fronte l'uccise, e dienne a Ettòr la palma. Noi Zefiro sfidiamo, il più veloce de' venti, al corso; ma nel Fato è scritto che un Dio te domi ed un mortal... Troncaro l'Erinni i detti. E a lui l'irato Achille: Xanto, a che morte mi predir? Non tocca questo a te. Qui cader deggio lontano, lo so, dai cari genitor; ma pria trarrò tutta di guerre a' Troi la voglia. Disse, e gridando i corridor sospinse.
Così dintorno a te, marzio Pelìde, gli Achei metteansi in punto appo le navi, e i Troi del campo sul rïalto. A Temi Giove allor comandò che dalle molte eminenze d'Olimpo a parlamento convocasse gli Dei. Volò la Diva d'ogni parte, e chiamolli alla stellata magion di Giove. Accorser tutti, e, tranne il canuto Oceàn, nullo de' Fiumi né delle Ninfe vi mancò, de' boschi e de' prati e de' fonti abitatrici. Giunti del grande adunator de' nembi alle stanze, si assisero su tersi troni che a Giove con solerte cura Vulcano fabbricò. Prese ciascuno cheto il suo posto; ma dal mar venuto obbedïente ei pure il re Nettunno, tra i maggiori sedendosi, la mente di Giove interrogò con questi accenti: Perché di nuovo, fulminante Iddio, chiami i numi a consiglio? Alfin decisa de' Troiani vuoi forse e degli Achei pronti a zuffa mortal l'ultima sorte? Ben vedesti, o Nettunno, il mio pensiero, Giove rispose; del chiamarvi è questa la cagion: benché presso al fato estremo e gli uni e gli altri in cor mi stanno. Assiso su le cime d'Olimpo io qui mi resto l'ire mortali a contemplar tranquillo. Voi sul campo scendete, e a cui v'aggrada de' Teucri e degli Achei recate aita. Se pugna Achille ei sol, nol sosterranno nè pur tampoco i Teucri, essi che ieri solo al vederlo ne tremaro. Ed oggi, che d'ira egli arde per l'amico, io temo non anzi il dì fatal Troia rovini. Disse, e di guerra un fier desire accese de' Celesti nel cor, che in due divisi nel campo si calâr: verso le navi Giuno e Palla Minerva e coll'accorto util Mercurio s'avvïò Nettunno. Li seguìa zoppicando, e truci intorno gli occhi volgendo di sua forza altero Vulcano, ed il sottil stinco di sotto gli barcollava. Alla troiana parte n'andâr dell'elmo il crollator Gradivo, l'intonso Febo colla madre e l'alma cacciatrice sorella e Xanto e Venere Dea del riso. Finché dalle mortali turbe i numi fur lungi, orgoglio e festa menavano gli Achei, perché comparso dopo lungo riposo era il Pelìde, e corse ai Teucri un freddo orror per l'ossa visto nell'armi lampeggiar, sembiante al Dio tremendo delle stragi, Achille. Ma quando le celesti alle terrene armi fur miste, una ineffabil surse di genti agitatrici aspra contesa. Terribile Minerva, or sull'estremo fosso volando ed or sul rauco lido, da questa parte orribilmente grida: grida Marte dall'altra a tenebroso turbin simìle, ed or dall'ardue cime delle dardanie torri, ed or sul poggio di Colone lunghesso il Simoenta correndo, infiamma a tutta voce i Teucri. Così l'un campo e l'altro inanimando gli Dei beati gli azzuffâr, commisti in conflitto crudel. Dall'alto allora de' mortali e de' numi orrendamente il gran padre tuonò: scosse di sotto l'ampia terra e de' monti le superbe cime Nettunno. Traballâr dell'Ida le falde tutte e i gioghi e le troiane rocche, e le navi degli Achei. Tremonne Pluto il re de' sepolti e spaventato diè un alto grido e si gittò dal trono, temendo non gli squarci la terrena volta sul capo il crollator Nettunno, ed intromessa colaggiù la luce agli Dei non discopra ed ai mortali le sue squallide bolge, al guardo orrende anco del ciel; cotanto era il fragore che dal conflitto de' Celesti uscìa. Contra Nettunno il re dell'arco Apollo, contra Marte Minerva, e contra Giuno sta delle cacce e degli strali amante la sorella di Febo alma Dïana: contra il dator de' lucri e servatore di ricchezze Mercurio era Latona, contra Vulcano il vorticoso fiume dai mortali Scamandro e dagli Dei Xanto nomato. E questo era di numi contro numi il certame e l'ordinanza. Ma di scagliarsi fra le turbe in cerca del Priàmide Ettorre arde il Pelìde, ché innanzi a tutto gli comanda il core di far la rabbia marzïal satolla di quel sangue abborrito. Allor destando le guerriere faville Apollo spinse contro il tessalo eroe d'Anchise il figlio, e presa la favella e la sembianza del Prïameio Licaon gl'infuse ardimento e valor con questi accenti: Illustre duce Enea dove n'andaro le fatte tra le tazze alte promesse al re de' Teucri, che pur solo avresti contro il Pelìde Achille combattuto? Prïamìde, e perché, contro mia voglia, Enea rispose, ad affrontar mi sproni quell'invitto guerrier? Gli stetti a fronte pur altra volta, ed altra volta in fuga la sua lancia dall'Ida mi sospinse, quando, assaliti i nostri armenti, ei Pèdaso e Lirnesso atterrò. Giove protesse il mio ratto fuggir: senza il suo nume m'avrìa domo il Pelìde, esso e Minerva che il precorrendo lo spargea di luce, e de' Teucri e de' Lèlegi alla strage la sua lancia animava. Alcun non sia dunque che pugni col Pelìde. Un Dio sempre va seco che il difende, e dritto vola sempre il suo telo, e non s'arresta finché non passi del nemico il petto. Se della guerra si librasse eguale dai Sampiterni la bilancia, ei certo, fosse tutto qual vantasi di ferro, non avrìa meco agevolmente il meglio. E tu pur prega i numi, o valoroso, rispose Apollo, ché tu pure, è fama, di Venere nascesti, ed ei di Diva inferïor, ché quella a Giove, e questa al marin vecchio è figlia. Orsù dirizza in lui l'invitto acciaro, e non lasciarti per minacce fugar dure e superbe. Fatto animoso a questi detti il duce, processe di lucenti armi vestito tra i guerrieri di fronte. E lui veduto per le file avanzarsi arditamente contro il Pelìde, ai collegati numi si volse Giuno e disse: Il cor volgete, tu Nettunno e tu Pallade, al periglio che ne sovrasta. Enea tutto nell'armi folgorante s'avvìa contro il Pelìde, e Febo Apollo ve lo spinge. Or noi o forziamlo a dar volta, o pur d'Achille vada in aiuto alcun di noi, che forza all'uopo gli ministri, onde s'avvegga ch'egli ai Celesti più possenti è caro, e che di Troia i difensor fann'opra infruttuosa. Vi rammenti, o numi, che noi tutti scendemmo a questa pugna perché nullo da' Teucri egli riceva questo dì nocumento. Abbiasi dopo quella sorte che a lui filò la Parca quando la madre il partorìo. Se istrutto di ciò nol renda degli Dei la voce, temerà nel veder venirsi incontro fra l'armi un nume: perocché tremendi son gli Eterni veduti alla scoperta. Fuor di ragione non irarti, o Giuno, ché ciò sconvienti, rispondea Nettunno. Non sia che primi commettiam la pugna noi che siamo i più forti. Alla vedetta di qualche poggio dalla via remoto assidiamci piuttosto, ed ai mortali resti la cura del pugnar. Se poscia cominceran la zuffa o Marte o Febo, e rattenendo Achille impediranno ch'egli entri nella mischia, e noi pur tosto susciteremo allor l'aspro conflitto, e presto, io spero, dal valor del nostro braccio domati, per le vie d'Olimpo ritorneranno all'immortal consesso. Li precorse, ciò detto, il nume azzurro verso l'alta bastìa che pel divino Ercole un giorno con Minerva i Teucri innalzâr, perché a quella egli potesse riparato schivar della vorace orca l'assalto allor che furibonda l'inseguisse dal lido alla pianura. Qui co' numi alleati il Dio s'assise d'impenetrabil nube circonfuso. Sul ciglio anch'essi s'adagiâr dell'erto Callicolon gli opposti numi intorno a te, divino saettante Apollo, e a Marte di cittadi atterratore. Così di qua, di là deliberando siedono i Divi, e niuna parte ardisce, benché Giove gli sproni, aprir la pugna. E già tutto d'armati il campo è pieno, e di lampi che manda il riforbito bronzo de' cocchi e de' guerrieri, e suona sotto il fervido piè de' concorrenti eserciti la terra. Ed ecco in mezzo affrontarsi di pugna desïosi due fortissimi eroi, d'Anchise il figlio ed Achille. Avanzossi Enea primiero minacciando e crollando il poderoso elmo, e proteso il forte scudo al petto, la grand'asta vibrava. Ad incontrarlo mosse il Pelìde impetuoso, e parve truculento lïone alla cui vita denso stuol di garzoni, anzi l'intero borgo si scaglia: incede egli da prima sprezzatamente; ma se alcun de' forti assalitor coll'asta il tocca, ei fiero spalancando le fauci si rivolve colla schiuma alle sanne; la gagliarda alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi flagella colla coda, e se medesmo alla battaglia irrita: indi repente con torvi sguardi avventasi ruggendo, di dar morte già fermo o di morire: tal la forza e il coraggio incontro al franco Enea sospinser l'orgoglioso Achille, e giunti a fronte, favellò primiero il gran Pelìde: Enea, perché tant'oltre fuor della turba ti spingesti? Forse meco agogni pugnar perché su i Teucri di Prìamo speri un dì stender lo scettro? Ma s'egli avvegna ancor che tu m'uccida, ei non porrallo alle tue mani, ei padre di più figli, e d'età sano e di mente: o forse i Teucri, se mi metti a morte, un eletto poder bello di viti ti statuiro e di fecondi solchi? Ma dura impresa t'assumesti, io spero; ch'altra volta, mi par, ti pose in fuga questa mia lancia. Non rammenti il giorno che soletto ti colsi, e con veloce corso dall'Ida ti cacciai lontano dalle tue mandre? Tu volavi, e, mai non volgendo la fronte, entro Lirnesso ti riparasti. Col favore io poi di Giove e Palla la città distrussi, e ne predai le donne, e tolta loro la cara libertà, meco le trassi. Gli Dei quel giorno ti scampâr; non oggi lo faranno, cred'io, come t'avvisi. Va, ritìrati adunque, io te n'assenno, rientra in turba, né mi star di fronte, se il tuo peggio non vuoi, ché dopo il fatto anche lo stolto dell'error si pente. Me co' detti atterrir come fanciullo indarno tenti, Enea rispose; anch'io so dir minacce ed onte, e l'un dell'altro i natali sappiamo, e per udita i genitori; ché né tu conosci per vista i miei, ned io li tuoi. Te prole dell'egregio Pelèo dice la fama, e della bella equòrea Teti. Io nato di Venere mi vanto, e generommi il magnanimo Anchise. Oggi per certo o gli uni o gli altri piangeranno il figlio. Ché veruno di noi di puerili ciance contento non vorrà, cred'io, separarsi ed uscir di questo arringo. Ma se più brami di mia stirpe udire al mondo chiara, primamente Giove Dàrdano generò, che fondamento pose qui poscia alle dardanie mura. Perocché non ancora allor nel piano sorgean le sacre ilìache torri, e il molto suo popolo le idèe falde copriva. Di Dàrdano fu nato il re d'ogni altro più opulente Erittònio. A lui tre mila di teneri puledri allegre madri le convalli pascean. Innamorossi Borea di loro, e di destrier morello presa la forma alquante ne compresse, che sei puledre e sei gli partoriro. Queste talor ruzzando alla campagna correan sul capo delle bionde ariste senza pur sgretolarle; e se co' salti prendean sul dorso a lascivir del mare, su le spume volavano de' flutti senza toccarli. D'Erittònio nacque Tröe re de' Troiani, e poi di Troe generosi tre figli Ilo ed Assàraco, e il deïforme Ganimede, al tutto de' mortali il più bello, e dagli Dei rapito in cielo, perché fosse a Giove di coppa mescitor per sua beltade, ed abitasse con gli Eterni. Ad Ilo nacque l'alto figliuol Laomedonte; Titone a questo e Prìamo e Lampo e Clìzio e l'alunno di Marte Icetaone: Assàraco ebbe Capi, e Capi Anchise, mio venitore, e Prìamo il divo Ettorre. Ecco il sangue ch'io vanto. Il resto scende tutto da Giove che ne' petti umani il valor cresce o scema a suo talento, potentissimo iddio. Ma tregua omai fra l'armi a borie fanciullesche. Entrambi possiam d'ingiurie aver dovizia e tanta che nave non potrìa di cento remi levarne il pondo. De' mortai volubile e la lingua, e ne piovono parole d'ogni maniera in largo campo, e quale dirai motto, cotal ti fia rimesso. Ma perché d'onte tenzonar siccome stizzose femminette che nel mezzo della via si rabbuffano, col vero, spinte dall'ira, affastellando il falso? Me qui pronto a pugnar non distorrai colle minacce dal cimento. Or via alle prove dell'asta. - E così detto, la ferrea lancia fulminò nel vasto terribile brocchier che dell'acuta cuspide al picchio rimugghiò. Turbossi il Pelìde, e dal petto colla forte mano lo scudo allontanò, temendo nol trafori la lunga ombrosa lancia del magnanimo Enea. Di mente uscito eragli, stolto! che mortal possanza difficilmente doma armi divine. Non ruppe la gagliarda asta troiana il pavese achillèo, ché la rattenne dell'aurea piastra l'immortal fattura, e sol due falde ne forò di cinque che Vulcano v'avea l'una sull'altra ribattute; di bronzo le due prime, le due dentro di stagno, e tutta d'oro la media che il crudel tronco represse. Vibrò secondo la sua lunga trave il Pelìde, e colpì dell'inimico l'orbicolar rotella all'orlo estremo, ove sottil di rame era condotta una falda, e sottile il sovrapposto cuoio taurino. La pelìaca antenna da parte a parte lo passò. La targa rimbombò sotto il colpo: esterrefatto rannicchiossi e scostò dalla persona Enea lo scudo sollevato; e l'asta, rotti i due cerchi che il cingean, sul dorso trasvolò furïosa, e al suol si fisse. Scansato il colpo, si ristette, e immenso duol di paura gli abbuiò le luci, sentita la vicina asta confitta. Pronto il Pelìde allor tratta la spada, con terribile grido si disserra contro il nemico. Era nel campo un sasso d'enorme pondo che soverchio fôra alle forze di due quai la presente età produce. Diè di piglio Enea a questo sasso, e agevolmente solo l'agitando, si volse all'aggressore. E nel vulcanio scudo o nell'elmetto avventato l'avrìa, ma senza offesa, e a lui per certo del Pelìde il brando togliea la vita, se di ciò per tempo avvistosi Nettunno, ai circostanti celesti non facea queste parole: Duolmi, o numi, d'assai del generoso Enea che domo dal Pelìde all'Orco irne tosto dovrà, dalle lusinghe mal consigliato dell'arciero Apollo. Insensato! ché nulla incontro a morte gli varrà questo Dio. Ma della colpa altrui la pena perché dee patirla quest'innocente, liberal di grati doni mai sempre agl'Immortali? Or via moviamo in suo soccorso, e s'impedisca che il Pelìde l'uccida, e che di Giove l'ire risvegli la sua morte. I fati decretâr ch'egli viva, onde la stirpe di Dardano non pera interamente, di lui che Giove innanzi a quanti figli alvo mortal gli partorìo, dilesse: perocché da gran tempo egli la gente di Prìamo abborre, e su i Troiani omai d'Enea la forza regnerà con tutti de' figli i figli e chi verrà da quelli. Pensa tu teco stesso, o re Nettunno, Giuno rispose, se sottrarre a morte Enea si debba, o consentir, malgrado la sua virtude, che lo domi Achille. Quanto a Pallade e a me, presenti i numi, noi giurammo solenne giuramento di non mai da' Troiani la ruina allontanar, no, s'anco tutta in cenere Troia cadesse tra le fiamme achee. Udito quel parlar, corse per mezzo alla mischia e al fragor delle volanti aste Nettunno, e giunto ove d'Enea e dell'inclito Achille era la pugna, una sùbita nube intorno agli occhi del Pelìde diffuse, e dallo scudo del magnanimo Enea svelto il ferrato frassino, al piede del rival lo pose. Indi spinse di forza, e dalla terra levò sublime Enea, che preso il volo dalla mano del Dio, varcò d'un salto molte file d'eroi, molte di cocchi, e all'estremo arrivò del rio conflitto, ove in procinto si mettean di pugna de' Càuconi le schiere. Ivi davanti gli si fece Nettunno, e così disse: Sconsigliato! qual Dio contra il Pelìde ti sedusse a pugnar, contra un guerriero di te più caro ai numi e più gagliardo? S'altra volta lo scontri, ti ritira, onde anzi tempo non andar sotterra. Morto Achille, combatti audacemente, ché nullo Acheo t'ucciderà. - Disparve dopo questo precetto, e alle pupille del Pelìde sgombrò la portentosa caligine: tornâr tutto ad un tempo chiari al guardo gli obbietti, onde fremendo nel magnanimo cor: Numi, diss'egli, quale strano prodigio? Al suol giacente veggo il mio telo, ma il guerrier non veggo in cui bramoso di ferir lo spinsi. Dunque è caro a' Celesti ei pur davvero questo figlio d'Anchise! ed io stimava falso il suo vanto. E ben si salvi. Andata gli sarà, spero, di provarsi meco in avvenir la voglia, assai felice d'aver posta in sicuro oggi la vita. Orsù, l'acheo valor riconfortato, facciam degli altri Teucri esperimento. Sì dicendo, saltò dentro alle file e tutti rincuorò: Prestanti Achei, non vogliate discosto or più tenervi da' nemici: guerrier contra guerriero scagliatevi, e pugnate ardimentosi. Per forte ch'io mi sia, m'è dura impresa sol con tutti azzuffarmi ed inseguirli. Né Marte pure immortal Dio né Palla a tanti armati reggerìan. Ma quanto queste man, questi piedi e questo petto potranno, io tutto vel consacro, e giuro di non posarmi un sol momento. Io vado a sfondar quelle file, e non fia lieto chi la mia lancia scontrerà, mi penso. Così gli sprona; e minaccioso anch'esso Ettore i suoi conforta, e contro Achille ir si promette: Del Pelìde, o prodi, non temete le borie: anch'io saprei pur co' numi combattere a parole, coll'asta, no, ch'ei son più forti assai. Né tutti avran d'Achille i vanti effetto: se l'un pieno gli andrà, l'altro gli fia tronco nel mezzo. Ad incontrarlo io vado s'anco la man di fuoco egli s'avesse, sì, di fuoco la man, di ferro il polso. Da questo dire accesi, alto levaro l'aste avverse i Troiani, e con immenso romor le forze s'accozzâr. Si strinse allora Apollo al teucro duce, e disse: Ettore, non andar contro il Pelìde fuor di fila: ma tienti entro la schiera, e dalla turba lo ricevi, e bada che di brando o di stral non ti raggiunga. Udì del Dio la voce, e sbigottito nella turba de' suoi l'eroe s'immerse. Ma di gran forza il cor vestito Achille con gridi orrendi si balzò nel mezzo de' Troiani, e prostese a prima giunta di numerose genti un condottiero, il prode Ifizïon che ad Otrintèo guastator di città nell'opulento popolo d'Ide sul nevoso Tmolo Näide Ninfa partorì. Venìa costui di punta a furia. Il divo Achille coll'asta a mezzo capo lo percosse, e in due lo fésse. Rimbombando ei cadde, ed orgoglioso il vincitor sovr'esso esclamò: Tremendissimo Otrintìde, eccoti a terra: e tu sepolcro umìle in questa sabbia avrai, tu che superba cuna sortisti alla gigèa palude ne' paterni poderi appo il pescoso Illo e dell'Ermo il vorticoso flutto. Così l'oltraggia; della morte il buio coprì gli occhi al meschino, e de' cavalli l'ugna e li chiovi delle rote achee il lasciâr nella calca infranto e pesto. Ferì dopo costui Demoleonte, d'Antènore figliuolo e valoroso combattitore; lo ferì sul polso della tempia, né valse alla difesa la ferrea guancia del polito elmetto. L'impetuosa punta spezzò l'osso, sgominò le cervella, che di sangue tutte insozzârsi, e così giacque il fiero. Gittatosi dal carro, Ippodamante dinanzi gli fuggìa. L'asta d'Achille lo raggiunse nel tergo. L'infelice esalava lo spirto, e mugolava come tauro che a forza innanzi all'are d'Elice è tratto da garzon robusti, e ne gode Nettunno: a questa guisa muggìa quell'alma feroce, e spirava. S'avventò dopo questi a Polidoro. Era costui di Prìamo un figlio: il padre gli avea difeso di pugnar, siccome il minor de' suoi nati e il più diletto, che tutti al corso li vincea. Di questa sua virtute di piè con fanciullesca demenza vanitoso egli tra' primi combattenti correa senza consiglio, finché morto vi cadde. Il colse a tergo in quei trascorsi Achille ove la cinta dall'auree fibbie s'annodava, e doppio scontravasi l'usbergo. Il telo acuto rïuscì di rimpetto all'ombilico: ululò quel trafitto, e su i ginocchi cascò: curvato colla man compresse le intestina, e mortal nube lo cinse. Come in quell'atto miserando il vide il suo germano Ettorre, una profonda nube di duolo gl'ingombrò le luci, né gli sofferse il cor di più ristarsi dentro la turba; ma crollando immensa una lancia, volò contro il Pelìde come fiamma ondeggiante. A quella vista saltò di gioia Achille, e baldanzoso, Ecco l'uom, disse, che nel cor m'aperse sì gran piaga, colui che il mio m'uccise caro compagno: or più non fuggiremo l'un l'altro a lungo pei sentier di guerra. Disse, e al divino Ettòr bieco guatando, gridò: T'accosta, ché al tuo fin se' giunto. Non pensar, gli rispose imperturbato l'eroe troiano, non pensar di darmi per minacce terror come a fanciullo, ché oprar so l'armi della lingua io pure, e conosco tue forze, e mi confesso men valente di te: ma in grembo ai numi sta la vittoria, ed avvenir può forse ch'io men prode dal sen l'alma ti svelga. Affilata ha la punta anche il mio telo. Disse, e l'asta scagliò: ma dal divino petto d'Achille la svïò Minerva con levissimo soffio. Risospinta dall'alito immortal, l'asta ritorno fece ad Ettorre, e al piè gli cadde. Allora con orribile grido disserrossi furibondo il Pelìde, impazïente di trucidarlo. Ma gliel tolse Apollo, lieve impresa ad un Dio, tutto coprendo di folta nebbia Ettòr. Tre volte Achille coll'asta l'assalì, tre volte un vano fumo trafisse, e con furor venendo il divino guerriero al quarto assalto, minaccioso tuonò queste parole: Cane troian, di nuovo ecco fuggisti l'estremo fato che t'avea raggiunto, e Febo ti scampò, quel Febo a cui tra il sibilo dei dardi alzi le preci. Ma s'altra volta mi darai nell'ugna, e se a me pure assiste un qualche iddio, ti finirò. Di quanti in man frattanto mi verranno de' tuoi farò macello. Così dicendo, a Drïope sospinse sotto il mento la picca, e questi al piede gli traboccò. Così lasciollo, e ratto scagliandosi a Demùco, un grande e prode di Filètore figlio, alle ginocchia lo ferì, l'arrestò, poscia col brando l'alma gli tolse. Dopo questi Dardano e Laògono assalse, illustri figli di Bïante, e travolti ambo dal cocchio l'un di lancia atterrò, l'altro di spada. Poi distese il troiano Alastorìde che a' suoi ginocchi supplice cadendo chiedea la vita in dono, ed ai conformi suoi verd'anni pietà. Stolto! ché vano il pregar non sapea, né quanto egli era mite no, ma feroce. In umil atto gli abbracciava i ginocchi, ed altro dire volea pure il meschin; ma quegli il ferro nell'èpate gl'immerse, che di fuori riversossi, e di sangue un nero fiume gli fe' lago nel seno. Venne manco l'alma, e gli occhi coprì di morte il velo. Indi Mulio investendo, entro un'orecchia gli fisse il telo, e uscir per l'altra il fece. Ad Echeclo d'Agènore un fendente calò di spada al mezzo della testa, e la spaccò; si tepefece il grande acciar nel sangue, e la purpurea morte e la Parca possente i rai gli chiuse. Colse dopo di punta nella destra Deucalïon là dove i nervi vanno del cubito ad unirsi. Intormentito nella mano il guerrier vedeasi innanzi la morte, e passo non movea. Gli mena un mandritto il Pelìde alla cervice, netto il capo gli mozza, e via coll'elmo lungi il butta. Schizzâr dalle vertèbre le midolle, e disteso il tronco giacque. Rigmo poscia aggredì, Rigmo dai pingui tracii campi venuto, e di Pirèo generoso figliuol. Lo colse al ventre il tessalico telo, e giù dal cocchio lo scosse. Allor diè volta ai corridori l'auriga Arëitòo; ma del Pelìde l'asta il giunge alle spalle, e capovolto tra i turbati cavalli lo precipita. Quale infuria talor per le profonde valli d'arido monte un vasto fuoco che divora le selve, e in ogni lato l'agita e spande di Garbino il soffio; tale in sembianza d'un irato iddio d'ogni parte si volve furibondo il Pelìde, ed insegue e uccide e rossa fa di sangue la terra. E come quando nella tonda e polita aia il villano due tauri accoppia di ben larga fronte di Cerere a trebbiar le bionde ariste, fuor del guscio in un subito saltella di sotto al piede de' mugghianti il grano: del magnanimo Achille in questa forma gl'immortali cornipedi sospinti i cadaveri calcano e gli scudi. L'orbe tutto del cocchio e tutto l'asse gronda di sangue dalle zampe sparso de' cavalli a gran sprazzi e dalle rote. Desìo di gloria il cuor d'Achille infiamma, e l'invitte sue mani tutte sozze son di polve, di tabe e di sudore.
Ma divenuti i Teucri alle bell'onde del vorticoso Xanto, ameno fiume generato da Giove, ivi il Pelìde intercise i fuggenti; e parte al muro per lo piano ne incalza ove testeso davan le spalle al furibondo Ettorre scompigliati gli Achei (per l'orme istesse or dispersi si versano i Troiani, e a tardarne il fuggir densa una nebbia Giuno intorno spandea), parte negli alti gorghi si getta dell'argenteo fiume con tumulto. La rotta onda rimbomba, ne gemono le ripe, e quei mettendo cupi ululati, nuotano dispersi come il rapido vortice li gira. Qual cacciate dall'impeto del fuoco alzan repente le locuste il volo sul margo del ruscello: arde veloce l'inopinata fiamma, e quelle in fretta spaventate si gettano nel rio: tal dinanzi al Pelìde la sonante corsìa di Xanto rïempìasi tutta di guerrieri e cavalli alla rinfusa. Su la sponda del fiume allor poggiata alle mirìci la pelìaca antenna, strinse l'eroe la spada, e dentro il flutto come demón lanciossi, rivolgendo opre orrende nel cor. Menava a cerchio il terribile acciar; s'udìa lugùbre dei trafitti il lamento, e tinta in rosso l'onda correa. Qual fugge innanzi al vasto delfin la torma del minuto pesce, che di tranquillo porto si ripara nei recessi atterrito, ed ei n'ingoia quanti ne giunge: paurosi i Teucri così ne' greti s'ascondean del fiume. Poiché stanca d'ucciderli il Pelìde sentì la destra, dodici ne prese vivi e di scelta gioventù, che il fio dovean pagargli dell'estinto amico. Stupidi per terror come cervetti fuor degli antri ei li tira, e co' politi cuoi di che strette avean le gonne, a tutti dietro annoda le mani, e a' suoi compagni onde trarli alle navi li commette. Vago ei poscia di stragi in mezzo all'acque diessi di nuovo impetuoso, e il figlio del dardànide Prìamo Licaone gli occorse in quella che fuggìa dal fiume. Ne' paterni poderi un'altra volta, venutovi notturno, egli l'avea sorpreso e seco a viva forza addutto mentre inaccorto con tagliente accetta i nuovi rami recidendo stava di selvatico fico, onde foggiarne di bel carro il contorno: all'improvvista gli fu sopra in quell'opra il divo Achille, che trattolo alle navi in Lenno il cesse per prezzo al figlio di Giasone Eunèo. Ospite poi d'Eunèo con molti doni ne fe' riscatto l'imbrio Eezióne, che in Arisba il mandò. Di là fuggito nascostamente, alle paterne case avea fatto ritorno, e già la luce undecima splendea, che con gli amici si ricreava di servaggio uscito; quando di nuovo il dodicesmo giorno un Dio nemico tra le mani il pose del terribile Achille, onde invïarlo suo malgrado alle porte atre di Pluto. Riguardollo il Pelìde; e siccom'era nudo la fronte (ché celata e scudo e lancia e tutto avea gittato oppresso dalla fatica nel fuggir dal fiume, e vacillava di stanchezza il piede), lo riconobbe, e irato in suo cor disse: Quale agli occhi mi vien strano portento? Che sì che i Teucri dal mio ferro ancisi tornan dall'ombre di Cocito al giorno! Come vivo costui? come, venduto già tempo in Lenno, del frapposto mare poté l'onda passar che a tutti è freno? Or ben, dell'asta mia gusti la punta. Vedrem s'ei torna di là pure, ovvero se l'alma terra che ritien costretti anche i più forti, riterrà costui. Queste cose ei discorre in suo segreto senza far passo. Sbigottito intanto Licaon s'avvicina desïoso d'abbracciargli i ginocchi, e al nero artiglio della Parca involarsi. Alza il Pelìde la lunga lancia per ferir; ma quello gli si fa sotto a tutto corso, e chino atterrasi al suo piè. Divincolando l'asta sul capo gli trapassa, e in terra sitibonda di sangue si conficca. Supplichevole allor coll'una mano le ginocchia gli stringe il meschinello, coll'altra gli rattien l'asta confitta, né l'abbandona, e tuttavia pregando, Deh ferma, ei grida: umilemente io tocco le tue ginocchia, Achille: ah, mi rispetta; miserere di me: pensa che sacro tuo supplice son io, pensa, o divino germe di Giove, che nudrito fui del tuo pane quel dì che nel paterno poder tua preda mi facesti, e tratto lungi dal padre e dagli amici in Lenno, di cento buoi ti valsi il prezzo, ed ora tre volte tanti io ti varrò redento. È questa a me la dodicesma aurora che dopo molti affanni in Ilio giunsi, ed ecco che crudel fato mi mette in tuo poter: ciò chiaro assai mi mostra che in odio a Giove io sono. Ahi! che a ben corta vita la madre a partorir mi venne, la madre Laotòe d'Alte figliuola, di quell'Alte che vecchio ai bellicosi Lelegi impera, e tien suo seggio al fiume Satnïoente nell'eccelsa Pèdaso. Di questo ebbe la figlia il re troiano fra le molte sue spose, e due nascemmo di lei, serbati a insanguinarti il ferro. E l'un tra i fanti della prima fronte già domasti coll'asta, il generoso mio fratel Polidoro, ed or me pure ria sorte attende; ché non io già spero, poiché nemico mi vi spinse un Dio, le tue mani sfuggir. E nondimeno nuovo un prego ti porgo, e tu del core la via gli schiudi. Non volermi, Achille, trucidar: d'uno stesso alvo io non nacqui con Ettor che t'ha morto il caro amico. Così pregava umìl di Prìamo il figlio; ma dispietata la risposta intese. Non parlar, stolto, di riscatto, e taci. Pria che Patròclo il dì fatal compiesse, erami dolce il perdonar de' Teucri alla vita, e di vivi assai ne presi, ed assai ne vendetti: ora di quanti fia che ne mandi alle mie mani Iddio, nessun da morte scamperà, nessuno de' Teucri, e meno del tuo padre i figli. Muori dunque tu pur. Perché sì piangi? Morì Patròclo che miglior ben era. E me bello qual vedi e valoroso e di gran padre nato e di una Diva, me pur la morte ad ogni istante aspetta, e di lancia o di strale un qualcheduno anche ad Achille rapirà la vita. Sentì mancarsi le ginocchia e il core a quel dir l'infelice, e abbandonata l'asta, accosciossi coll'aperte braccia. Strinse Achille la spada, e alla giuntura lo percosse del collo. Addentro tutto gli si nascose l'affilato acciaro, e boccon egli cadde in sul terreno steso in lago di sangue. Allor d'un piede presolo Achille, lo gittò nell'onda, e con acerbo insulto, Or qui ti giaci, disse, tra' pesci che di tua ferita il negro sangue lambiran securi. Né te la madre sul funereo letto piangerà, ma del mar nell'ampio seno ti trarrà lo Scamandro impetuoso, e là qualcuno del guizzante armento ti salterà dintorno, e sotto l'atre crespe dell'onda l'adipose polpe di Licaon si roderà. Possiate così tutti perir finché del sacro Ilio sia nostra la città, voi sempre fuggendo, e io sempre colle stragi al tergo. Né gioveranvi i vortici di questo argenteo fiume a cui di molti tori fate sovente sacrificio, e vivi gettar solete i corridor nell'onda. Né per questo sarà che non vi tocchi di rio fato perir, finché la morte di Patroclo sia sconta e in un la strage che, me lontano, degli Achei faceste. Dagl'imi gorghi udì Xanto d'Achille le superbe parole, e d'alto sdegno fremendo, divisava in suo pensiero come alla furia dell'eroe por modo, e de' Teucri impedir l'ultimo danno. Intanto il figlio di Pelèo brandita a nuove stragi la gran lancia, assalse Asteropèo, figliuol di Pelegone, di Pelegon cui l'Assio ampio-corrente generò Dio commisto a Peribèa, d'Acessameno la maggior fanciulla. A costui si fe' sopra il grande Achille, e quei del fiume uscendo ad incontrarlo con due lance ne venne. Animo e forza gli avea messo nel cor lo Xanto irato pe' tanti in mezzo alle sue limpid'onde giovani prodi dal Pelìde uccisi spietatamente. Avvicinati entrambi, disse Achille primiero: Chi se' tu ch'osi farmiti incontro, e di che gente? Chi m'attenta è figliuol d'un infelice. E a lui di Pelegon l'inclita prole: Magnanimo Pelìde, a che mi chiedi del mio lignaggio? Dai remoti campi della Peonia qua ne venni (è questo già l'undecimo sole), e alla battaglia guido i Peonii dalle lunghe picche. Del nostro sangue è autor l'Assio di larga bellissima corrente, e genitore del bellicoso Pelegon. Di questo io nacqui, e basta. Or mano all'armi, o prode. All'altere minacce alto solleva il divo Achille la pelìaca trave. Fassi avanti del par con due gran teli l'ambidestro campione Asteropèo. Coglie col primo l'inimico scudo, ma nol giunge a forar, ché l'aurea squama lo vieta, opra d'un Dio: sfiora coll'altro il destro braccio dell'eroe, di nero sangue lo sprizza, e dopo lui si figge di maggior piaga desïoso in terra. Fe' secondo volar contro il nemico la sua lancia il Pelìde, intento tutto a trapassargli il cor, ma colse in fallo: colse la ripa, e mezzo infitto in quella il gran fusto restò. Dal fianco allora trasse Achille la spada, e furibondo assalse Asteropèo che invan dall'alta sponda si studia di sferrar d'Achille il frassino: tre volte egli lo scosse colla robusta mano, e lui tre volte la forza abbandonò. Mentre s'accinge ad incurvarlo colla quarta prova e spezzarlo, d'Achille il folgorante brando il prevenne arrecator di morte. Lo percosse nell'epa all'ombelico; n'andâr per terra gl'intestini; in negra caligine ravvolti ei chiuse i lumi, e spirò. L'uccisor gli calca il petto, lo dispoglia dell'armi, e sì l'insulta: Statti così, meschino, e benché nato d'un fiume, impara che il cozzar co' figli del saturnio signor t'è dura impresa. Tu dell'Assio che larghe ha le correnti ti lodavi rampollo, ed io di Giove sangue mi vanto, e generommi il prode Eàcide Pelèo che i numerosi Mirmidóni corregge, e discendea Eaco da Giove. Or quanto è questo Dio maggior de' fiumi che nel vasto grembo devolvonsi del mar, tanto sua stirpe la stirpe avanza che da lor procede. Eccoti innanzi un alto fiume, il Xanto; di' che ti porga, se lo puote, aita. Ma che puot'egli contra Giove a cui né il regale Achelòo né la gran possa del profondo Oceàno si pareggia? E l'Oceàn che a tutti e fiumi e mari e fonti e laghi è genitor, pur egli della folgore trema, e dell'orrendo fragor che mette del gran Giove il tuono. Sì dicendo, divelse dalla ripa la ferrea lancia, e su la sabbia steso l'esamine lasciò. Bruna il bagnava la corrente, e famelici dintorno affollavansi i pesci a divorarlo. Visto il forte lor duce Asteropèo cader domato dal Pelìde, in fuga spaventati si volsero i Peonii lungo il rapido fiume, flagellando prontamente i corsier. Gl'insegue Achille e Tersìloco uccide e Trasio e Mneso, Enio, Midone, Astìpilo, Ofeleste, e più n'avrìa trafitti il valoroso, se irato il fiume dai profondi gorghi non levava in mortal forma la fronte con questo grido: Achille, tu di forza ogni altro vinci, è ver, ma il vinci insieme di fatti indegni, e troppo insuperbisci del favor degli Dei che sempre hai teco. Se ti concesse di Saturno il figlio di tutti i Troi la morte, dal mio letto cacciali, e in campo almen fa tue prodezze. Di cadaveri e d'armi ingombra è tutta la mia bella corrente, ed impedita da tante salme aprirsi al mar la via più non puote; e tu segui a farle intoppo di nuova strage. Orsù, desisti, o fiero prence, e ti basti il mio stupor. - Scamandro figlio di Giove, gli rispose Achille, sia che vuoi; ma non io degli spergiuri Teucri l'eccidio cesserò, se pria dentr'Ilio non li chiudo, e corpo a corpo non mi cimento con Ettòr. Qui deve restar privo di vita od esso od io. Sì dicendo, coll'impeto d'un nume avventossi ai Troiani. Allor si volse Xanto ad Apollo: Saettante iddio, Giove fatto t'avea l'alto comando di dar soccorso ai Teucri insin che giunga la sera, e il volto della terra adombri. E tu del padre non adempi il cenno? Mentr'egli sì dicea, l'audace Achille si scagliò dalla ripa in mezzo al fiume. Il fiume allor si rabbuffò, gonfiossi, intorbidossi, e furïando sciolse a tutte l'onde il freno: urtò la stipa de' cadaveri opposti, e li respinse, mugghiando come tauro, alla pianura, servati i vivi ed occultati in seno a' suoi vasti recessi. Orrenda intorno al Pelìde ruggìa la torbid'onda, e gli urtava lo scudo impetuosa, sì ch'ei fermarsi non potea su i piedi. A un eccelso e grand'olmo alfin s'apprese colle robuste mani, ma divelta dalle radici ruinò la pianta, seco trasse la ripa, e coi prostrati folti rami la fiera onda rattenne, e le sponde congiunse come ponte. Fuor balza allor l'eroe dalla vorago, e, messe l'ali al piè, nel campo vola sbigottito. Nè il Dio perciò si resta, ma colmo e negro rinforzando il flutto vie più gonfio l'insegue, onde di Marte rintuzzargli le furie, e de' Troiani l'eccidio allontanar. Diè un salto Achille quanto è il tratto d'un'asta, ed il suo corso somigliava il volar di cacciatrice aquila fosca che i volanti tutti di forza vince e di prestezza. Il bronzo dell'usbergo gli squilla orribilmente sul vasto petto; con obliqua fuga scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo con più spesse e sonanti onde l'incalza. Come quando per l'orto e pe' filari di liete piante il fontanier deduce di limpida sorgente un ruscelletto, e, la marra alla man, sgombra gl'intoppi alla rapida linfa che correndo i lapilli rimescola, e si volve giù per la china gorgogliando, e avanza pur chi la guida: così sempre insegue l'alto flutto il Pelìde, e lo raggiunge benché presto di piè: ché non resiste mortal virtude all'immortal. Quantunque volte la fronte gli converse il forte, mirando se giurati a porlo in fuga tutti fosser gli Dei, tante il sovrano fiotto del fiume gli avvolgea le spalle. Conturbato nell'alma egli non cessa d'espedirsi e saltar verso la riva, ma con rapide ruote il fiero fiume sottentrato gli snerva le ginocchia, e di costa aggirandolo, gli ruba di sotto ai piedi la fuggente arena. Levò lo sguardo al cielo il generoso, ed urlò: Giove padre, adunque nullo de' numi aita l'infelice Achille contro quest'onda! Ah ch'io la fugga, e poi contento patirò qualsia sventura. Ma nullo ha colpa de' Celesti meco quanto la madre mia che di menzogne mi lattò, profetando che di Troia sotto le mura perirei trafitto dagli strali d'Apollo! Oh foss'io morto sotto i colpi d'Ettorre, il più gagliardo che qui si crebbe! Avrìa rapito un forte d'un altro forte almen l'armi e la vita. Or vuole il Fato che sommerso io pera d'oscura morte, ohimè! come fanciullo di mandre guardian cui ne' piovosi tempi il torrente, nel guardarlo, affoga. Accorsero veloci al suo lamento, e appressârsi all'eroe Palla e Nettunno in sembianza mortal: lo confortaro, il presero per mano, e della terra sì disse il grande scotitor: Pelìde, non trepidar: qui siamo in tua difesa due gran Divi, Minerva ed io Nettunno, né Giove il vieta, né dal Fato è fisso che ti conquida un fiume; e tu di questo vedrai tra poco abbonacciarsi il flutto. Un saggio avviso porgeremti intanto, se obbedirne vorrai. Dalla battaglia non ti ristar se pria dentro le mura dell'alta Troia non rinserri i Teucri quanti potranno dalla man fuggirti, né alle navi tornar che spento Ettorre: noi ti daremo di sua morte il vanto. Disparvero, ciò detto, e ai congiurati Numi tornâr. Riconfortato Achille dal celeste comando, in mezzo al campo precipitossi. Il campo era già tutto una vasta palude in cui disperse de' trafitti nuotavano le belle armature e le salme. Alto al Pelìde saltavano i ginocchi, ed ei diretto la fiumana rompea, che a rattenerlo più non bastava: perocché Minerva gli avea nel petto una gran forza infuso. Né rallentò per questo lo Scamandro gl'impeti suoi, ma più che pria sdegnoso contro il Pelìde sollevossi in alto arricciando le spume, e al Simoenta, destandolo, gridò queste parole: Caro germano, ad affrenar vien meco la costui furia, o le dardànie torri vedrai tosto atterrate, e tolta ai Teucri di resister la speme. Or tu deh corri veloce in mio soccorso, apri le fonti, tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe onde t'innalza e tronchi aduna e sassi, e con fracasso ruotali nel petto di questo immane guastator che tenta uguagliarsi agli Dei. Ben io t'affermo che né bellezza gli varrà, né forza, né quel divin suo scudo, che di limo giacerà ricoperto in qualche gorgo voraginoso. Ed io di negra sabbia involverò lui stesso, e tale un monte di ghiaia immenso e di pattume intorno gli verserò, gli ammasserò, che l'ossa gli Achei raccorne non potran: cotanta la belletta sarà che lo nasconda. Fia questo il suo sepolcro, onde non v'abbia mestier di fossa nell'esequie sue. Disse, ed alto insorgendo e d'atre spume ribollendo e di sangue e corpi estinti, con tempesta piombò sopra il Pelìde. E già la sollevata onda vermiglia occupava l'eroe, quando temendo che vorticoso nol rapisca il fiume, diè Giuno un alto grido, ed a Vulcano Sorgi, disse, mio figlio; a te si spetta pugnar col Xanto: non tardar, risveglia le tremende tue fiamme. Io di Ponente e di Noto a destar dalla marina vo le gravi procelle, onde l'incendio per lor cresciuto i corpi involva e l'arme de' Troiani, e le bruci. E tu del Xanto lungo il margo le piante incenerisci, fa che avvampi egli stesso; e non lasciarti né per minacce né per dolci preghi svolger dall'opra, né allentar la forza s'io non ten porga con un grido il segno. Frena allora gl'incendii e ti ritira. Ciò detto appena, un vasto foco accese Vulcano, e lo scagliò. Si sparse quello prima pel campo, e i tanti, di che pieno il Pelìde l'avea, morti combusse. Si dileguâr le limpid'acque, e tutto seccossi il pian, qual suole in un istante d'autunnale aquilon sciugarsi al soffio l'orto irrigato di recente, e in core ne gode il suo cultor. Seccato il campo, e combusti i cadaveri, si volse contro il fiume la vampa. Ardean stridendo i salci e gli olmi e i tamarigi, ardea il loto e l'alga ed il cipero in molta copia cresciuti su la verde ripa. Dal caldo spirto di Vulcano afflitti, e qua e là per le belle onde dispersi guizzano i pesci. Il cupo fiume istesso s'infoca, e in voce dolorosa esclama: Vulcano, al tuo poter nullo resiste de' numi: io cedo alle tue fiamme. Ah cessa dalla contesa: immantinente Achille scacci pur tutti di cittade i Teucri; di soccorsi e di risse a me che cale? - Così rïarso dalle fiamme ei parla. Come ferve a gran fuoco ampio lebète in cui di verro saginato il pingue lombo si frolla; alla sonora vampa crescon forza di sotto i crepitanti virgulti, e l'onda d'ogni parte esulta: sì la bella del Xanto acqua infocata bolle, né puote più fluir consunta ed impedita dalla forza infesta dell'ignifero Dio. Quindi a Giunone quell'offeso pregò con questi accenti: perché prese il tuo figlio, augusta Giuno, su l'altre a tormentar la mia corrente? Reo ti son forse più che gli altri tutti protettori de' Troi? Pur se il comandi, mi rimarrò, ma si rimanga anch'esso questo nemico, e non sarà, lo giuro, mai de' Teucri per me conteso il fato, no, s'anco tutta per la man dovesse de' forti Achivi andar Troia in faville. La Dea l'intese, ed a Vulcan rivolta, Férmati, disse, glorïoso figlio: dar cotanto martìr non si conviene per cagion de' mortali a un Immortale. Spense Vulcano della madre al cenno quell'incendio divino, e ne' bei rivi retrograda tornò l'onda lucente. Domo il Xanto, quetârsi i due rivali, ché così Giuno comandò, quantunque calda di sdegno; ma tra gli altri numi più tremenda risurse la contesa. Scissi in due parti s'avanzâr sdegnosi l'un contro l'altro con fracasso orrendo: ne muggì l'ampia terra, e le celesti tube squillâr: sull'alte vette assiso dell'Olimpo n'udì Giove il clangore, e il cor di gioia gli ridea mirando la divina tenzone: e già sparisce tra gli eterni guerrieri ogn'intervallo. Truce di scudi forator diè Marte le mosse, e primo colla lancia assalse Minerva, e ontoso favellò: Proterva audacissima Dea, perché de' numi l'ire attizzi così? Non ti ricorda quando a ferirmi concitasti il figlio di Tidèo Dïomede, e dirigendo della sua lancia tu medesma il colpo, lacerasti il mio corpo? Il tempo è giunto che tu mi paghi dell'oltraggio il fio. Sì dicendo, avventò l'insanguinato Marte il gran telo, e ne ferì l'orrenda egida, che di Giove anco resiste alle saette. Si ritrasse indietro la Diva, e ratta colla man robusta un macigno afferrò, che negro e grande giacea nel campo dalle prische genti posto a confine di poder. Con questo colpì l'impetuoso iddio nel collo, e gli sciolse le membra. Ei cadde, e steso ingombrò sette jugeri; le chiome insozzârsi di polve, e orrendamente l'armi sul corpo gli tonâr. Sorrise Pallade, e altera l'insultò: Demente! che meco ardisci gareggiar, non vedi quant'io t'avanzo di valor? Va, sconta di tua madre le furie, e dal suo sdegno maggior castigo, dell'aver tradito pe' Teucri infidi i giusti Achei, t'aspetta. Così detto, le lucide pupille volse altrove. Frattanto al Dio prostrato Venere accorse, per la mano il prese, e lui che grave sospira, e a fatica riaver può gli spirti, altrove adduce. L'alma Giuno li vide, ed a Minerva, Guarda, disse, di Giove invitta figlia, guarda quella impudente: ella di nuovo fuor dell'aspro conflitto via ne mena quell'omicida. Ah vola, e su lor piomba. Volò Minerva, e gl'inseguì. Di gioia il cor balzava, e fattasi lor sopra, colla terribil mano a Citerea tal diè un tocco nel petto, che la stese: giaceano entrambi riversati, e altera su lor Minerva glorïossi, e disse: Fosser tutti così questi di Troia proteggitori a disfidar venuti i loricati Achei! Fossero tutti di fermezza e d'ardir pari a Ciprigna di Marte aiutatrice e mia rivale! E noi, distrutte d'Ilïon le torri, già poste l'armi da gran tempo avremmo. Udì la Diva dalle bianche braccia il motteggio, e sorrise. A Febo allora disse il sire del mar: Febo, già sono gli altri alle prese; e noi ci stiamo in posa? ciò del tutto sconviensi; onta sarìa tornar di Giove ai rilucenti alberghi senza far d'armi paragon. Comincia tu minore d'età; ché non è bello a me, più saggio e antico, esser primiero. Oh povero di senno e d'intelletto! non ricordi più dunque i tanti affanni che noi da Giove ad esular costretti intorno ad Ilio sopportammo insieme, noi soli e numi, allor che all'orgoglioso Laomedonte intero un anno a prezzo pattuimmo il servir? Duri comandi il tiranno ne dava. Ed io di Troia l'alta cittade edificai, di belle ampie mura la cinsi, e di securi baluardi; e tu, Febo, alle selvose idèe pendici pascolavi intanto le cornigere mandre. Ma condotta dalle grate Ore del servir la fine, ne frodò la mercede il re crudele, e minaccioso ne scacciò, giurando che te di lacci avvinto e mani e piedi in isola remota avrìa venduto, e mozze inoltre ad ambeduo l'orecchie. Frementi di rancor per la negata pattuita mercede, immantinente noi ne partimmo. È questo forse il merto ch'or le sue genti a favorir ti move, anzi che nosco procurar di questi fedìfraghi Troiani e de' lor figli e delle mogli la total ruina? Possente Enosigèo, rispose Apollo, stolto davvero ti parrei se teco a cagion de' mortali io combattessi, che miseri e quai foglie or freschi sono, or languidi e appassiti. Usciamo adunque del campo, e sia tra lor tutta la briga. Ciò detto, altrove s'avviò, né volle alle mani venir, per lo rispetto di quel Nume a lui zio. Ma la sorella di belve agitatrice aspra Dïana con acri motti il rampognò: Tu fuggi, tu che lunge saetti? e tutta cedi senza contrasto al re Nettun la palma? Vile! a che dunque nella man quell'arco? Ch'io non t'oda più mai nella paterna reggia tra' numi, come pria, vantarti di combattere solo il re Nettunno. Non le rispose Apollo; ma sdegnosa si rivolse alla Dea di strali amante la veneranda Giuno, e sì la punse con acerbo ripiglio: E come ardisci starmi a fronte, o proterva? Di possanza mal tu puoi meco gareggiar, quantunque d'arco armata. Gli è ver che fra le donne ti fe' Giove un lïone, e qual ti piaccia ti concesse ferir. Ma per le selve meglio ti fia dar morte a capri e cervi, che pugnar co' più forti. E se provarti vuoi pur, ti prova, e al paragone impara quanto io sono da più. - Ciò detto, al polso colla manca le afferra ambe le mani, colla dritta dagli omeri le strappa gli aurei strali, e ridendo su l'orecchia li sbatte alla rival che d'ogni parte si divincola; e sparse al suol ne vanno le aligere saette. Alfin di sotto le si tolse, e fuggì come colomba che da grifagno augel per venturoso fato scampata ad appiattarsi vola nel cavo d'una rupe. Ella piangendo così fuggìa, lasciate ivi le frecce. Parlò quindi a Latóna il messaggiero argicìda: Latóna, io non vo' teco cimentarmi; il pugnar colle consorti del nimbifero Giove è dura impresa. Va dunque; e franca fra gli eterni Dei d'avermi vinto per valor ti vanta. Così dicea Mercurio, e quella intanto gli sparsi per la polve archi e quadrelli raccogliea della figlia, e la seguìa, ché all'Olimpo salita entro l'eterne stanze di Giove avea già messo il piede. Su i paterni ginocchi lagrimando la vergine s'assise, e le tremava l'ambrosio manto sul bel corpo. Il padre la si raccolse al petto, e con un dolce sorriso dimandò: Chi de' Celesti temerario t'offese, o mia diletta, come colta in error? - La tua consorte, Cinzia rispose, mi percosse, o padre, Giunon che sparge fra gli Dei le risse. Mentre in cielo seguìan queste parole, Febo entrava nel sacro Ilio a difesa dell'alto muro, perocché temea nol prendesse in quel dì pria del destino degli Achivi il valor. Ma gli altri Eterni all'Olimpo tornaro, irati i vinti, festosi i vincitori, e ognun dintorno al procelloso genitor s'assise. Il Pelìde struggea pel campo intanto i Troiani, e stendea confusamente cavalli e cavalier. Come fra densi globi di fumo che si volve al cielo un gran fuoco, in cui soffia ira divina, una cittade incende, e a tutti arreca travaglio e a molti esizio; a questa immago dava Achille ai Troiani angoscia e morte. Stava sull'alto d'una torre il veglio Prìamo, e visti fuggir senza ritegno, senza far più difesa, i Troi davanti al gigante guerrier, mise uno strido, e calò dalla torre, onde ai custodi degli ingressi lasciar lungo le mura questi avvisi: Alle man tenete, o prodi, spalancate le porte insin che tutti nella città sien salvi i fuggitivi dal diro Achille sbaragliati. Ahi giunto forse è l'ultimo danno! Come dentro siensi messe le schiere, e ognun respiri, riserrate le porte, e saldamente sbarratele; ch'io temo non irrompa fin qua dentro il furor di questo fiero. Al comando regal schiusero quelli tosto le porte, e ne levâr le sbarre. Onde una via s'aperse di salute. Fuor delle soglie allor lanciossi Apollo in soccorso de' Troi che dritto al muro fuggìan da tutto il campo arsi di sete, sozzi di polve. E impetuoso Achille, come il porta furor, rabbia, ira e brama di sterminarli, gl'inseguìa coll'asta; ed era questo il punto in che gli Achei dell'alta Troia avrìan fatto il conquisto, se Febo Apollo l'antenòreo figlio Agènore, guerrier d'alta prestanza, non eccitava alla battaglia. Il Dio gli fe' coraggio, gli si mise al fianco, onde lungi tenergli della Parca i gravi artigli, ed appoggiato a un faggio, di caligine tutto si ricinse. Come Agènore il truce ebbe veduto guastator di città, fermossi, e molti pensier volgendo, gli ondeggiava il core, e dicea doloroso in suo segreto: Misero me! se dietro agli altri io fuggo per timor di quel crudo, egli malgrado la mia rattezza prenderammi, e morte non decorosa mi darà. Se mentre ei va questi inseguendo, io d'altra parte m'involo, e d'Ilio traversando il piano, dell'Ida ai gioghi mi riparo, e quivi nei roveti m'appiatto, indi la sera lavato al fiume, e rinfrescato a Troia mi ritorno... Oh che penso? Egli non puote non veder la mia fuga, e arriverammi precipitoso con più presti piedi. E allor dall'ugna di costui, che tutti vince di forza, chi mi scampa? Or dunque, poiché certa è mia morte, ad incontrarlo vadasi in faccia alla cittade. Ei pure ha corpo che si fora, e un'alma sola; e benché Giove glorïoso il renda, mortal cosa lo dice il comun grido. Verso Achille, in ciò dir, volta la fronte, e desïoso di pugnar l'aspetta. Come da folto bosco una pantera sbucando affronta il cacciator, né teme i latrati, né fugge, e s'anco avvegna ch'ei l'impiaghi primier, la generosa il furor non rallenta, innanzi ch'ella o gli si stringa addosso, o resti uccisa: così ricusa di fuggir l'ardito d'Antènore figliuol, se col Pelìde pria non fa prova di valor. Protese dunque al petto lo scudo, e nel nemico tolta la mira, alto gridò: Per certo de' magnanimi Teucri, illustre Achille, atterrar ti speravi oggi le mura. Stolto! n'avrai penoso affare ancora, ché là dentro siam molti e valorosi che ai cari padri, alle consorti, ai figli difendiam la cittade, e tu, quantunque guerrier tremendo, giacerai qui steso. Sì dicendo, lanciò con vigoroso polso la picca, e nello stinco il colse sotto il ginocchio. Risonò lo stagno dell'intatto stinier, ma il ferro acuto senza forarlo rimbalzò respinto dalle tempre divine. Impetuoso scagliossi Achille al feritor, ma ratto gl'invidïando quella lode Apollo, involò l'avversario alla sua vista l'avvolgendo di nebbia, e queto queto dal certame lo trasse, e via lo spinse. Indi tolta d'Agènore la forma, diessi in fuga, e svïò con quest'inganno dalla turba il Pelìde che veloce dietro gli move e incalzalo, e piegarne vêr lo Scamandro studiasi la fuga. Nol precorre il fuggente a tutto corso, ma di poco intervallo, e colla speme sempre l'alletta d'una pronta presa, e sempre lo delude. Intanto a torme spaventati si versano i Troiani dentro le porte. In un momento tutta di lor fu piena la città, ché nullo rimanersene fuori non sostenne, né il compagno aspettar, né dei campati dimandar, né de' morti. Ognun che snelle a salvarsi ha le piante, alla rinfusa dentro si getta, e dal terror respira.
Così, quai cervi paurosi, i Teucri nella città fuggìan confusamente, e davano appoggiati agli alti merli al sudor refrigerio ed alla sete, mentre gli Achei con inclinati scudi si fan sotto alle mura. Ma la Parca dinanzi ad Ilio su le porte Scee rattenne immoto, come astretto in ceppi, lo sventurato Ettòr. Fece ad Achille l'arciero Apollo allor queste parole: Perché mortale un Immortal persegui, o figlio di Pelèo? Non anco avvisi, cieco furente, che un Celeste io sono? Dei fugati Troiani e nel riparo d'Ilio già chiusi ogni pensier ponesti, e qua svïasti il tuo furor. Che speri? uccidermi? Son nume. - E nume infesto, e di tutti il peggior (rispose acceso di grand'ira il Pelìde). A questa parte m'hai devïato dalle mura, e tolto che molti, prima d'arrivar là dentro, mordessero la polve. Ah mi rapisti un gran vanto, e quei vili in salvo hai messo perché non temi la vendetta mia; ma la farei ben io, se la potessi. Tacque, e drizzossi alla città volgendo terribili pensieri, e il piè movea rapido come vincitor de' ludi animoso destrier che per l'arena fa le ruote volar. Primo lo vide precipitoso correre pel campo Prìamo, e da lungi folgorar, siccome l'astro che cane d'Orïon s'appella, e precorre l'Autunno: scintillanti fra numerose stelle in densa notte manda i suoi raggi; splendissim'astro, ma luttuoso e di cocenti morbi ai miseri mortali apportatore. Tal del volante eroe sul vasto petto splendean l'armi. Ululava, e colle mani alto levate si battea la fronte il buon vecchio, e chiamava a tutta voce l'amato figlio supplicando: e questi fermo innanzi alle porte altro non ode che il desìo di pugnar col suo nemico. Allor le palme il misero gli stese, e questi profferì pietosi accenti: Mio diletto figliuolo, Ettore mio, deh lontano da' tuoi da solo a solo non affrontar costui che di fortezza d'assai t'è sopra. Oh fosse in odio il crudo agli Dei quanto a me! Pasto di belve ei giacerìa qui steso (e del mio petto avrìa fine l'angoscia), ei che di tanti orbo mi fece valorosi figli, quale ucciso, qual tratto alle remote rive e venduto. Ed or fra i qui rinchiusi Teucri i due figli, ahi lasso! ancor non veggo che l'esimia consorte Laotòe a me produsse, Polidoro io dico e Licaon. Se prigionieri ei sono, con auro e bronzo ne farem riscatto, ch'io n'ho molte conserve, e molto avere diè l'egregio vegliardo Alte alla figlia. Se poi ne' regni già passâr di Pluto, alto sarà su la lor morte il pianto della madre ed il mio, ma brevi i lutti del popolo, ove spento tu non cada dal Pelìde, tu pur. Rïentra adunque, mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri conservane e le spose. Al diro Achille non lasciar sì gran lode: abbi pensiero della cara tua vita, abbi pietade di me meschino a cui non tolse ancora la sventura il sentir, di me che misi già nelle soglie di vecchiezza il piede, dall'alta condannato ira di Giove di ria morte a perir, vista di mali prima ogni faccia, trucidati i figli, rapite le fanciulle, i casti letti contaminati, crudelmente infranti contro terra i bambini, e strascinate dall'empio braccio degli Achei, le nuore. Ed ultimo me pur su le regali porte trafitto e spoglia abbandonata voraci i cani sbraneran, que' cani che custodi io nudrìa del regio tetto alla mia mensa io stesso; e allor da ingorda rabbia sospinti disputar vedransi il mio sangue; e di questo alfin satolli ne' portici sdraiarsi. Ah, bello è in campo del giovine il morir! Coperto il petto d'onorate ferite, onta non avvi, non offesa che morto il disonesti. Ma che ludibrio sia degli affamati mastini il capo venerando e il bianco mento d'un veglio indegnamente ucciso, che sia bruttato il nudo e verecondo suo cadavere, ah! questo, è questo il colmo dell'umane sventure. E sì dicendo, strappasi il veglio dall'augusto capo i canuti capei; ma non si piega l'alma d'Ettorre. Desolata accorse d'altra parte la madre, e lagrimando e nudandosi il seno, la materna poppa scoperse, e, A questa abbi rispetto, singhiozzante sclamava, a questa, o figlio, che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti. Rïentra, Ettore mio, fuggi cotesto sterminatore, non istargli a petto, sciaurato! Non io, s'egli t'uccide, non io darti potrò, caro germoglio delle viscere mie, su la funèbre bara il mio pianto, né il potrà l'illustre tua consorte: e tu lungi appo le navi giacerai degli Achivi, esca alle belve. Questi preghi di lagrime interrotti porgono al figlio i dolorosi, e nulla persuadon l'eroe che fermo attende lo smisurato già vicino Achille. Quale in tana di tristi erbe pasciuto fero colùbro il vïandante aspetta, e gonfio di grand'ira, orribilmente guatando intorno, nelle sue latèbre lubrico si convolve; e tale il duce Troian, di sdegni generosi acceso, appoggiato lo scudo a una sporgente torre, sta saldo; e nel gran cor rivolge questi pensieri: Che farò? Se metto là dentro il piè, Polidamante il primo rampognerammi acerbo, ei che la scorsa notte esortommi alla città ritrarre, comparso Achille, i Teucri; ed io nol feci: e sì quest'era il meglio. Or che la mia pertinacia fatal tutti li trasse nella ruina, sostener l'aspetto più non oso de' Troi né dell'altere Troiane, e parmi già i peggiori udire: Ecco là quell'Ettòr che di sue forze troppo fidando il popolo distrusse. Così diranno, e meglio allor mi fia combattere, e redir, prostrato Achille, nella cittade, o per la patria mia aver qui morte glorïosa io stesso. Pur se deposto e scudo e lancia ed elmo, io medesmo mi fêssi incontro a questo magnanimo rivale, e la spartana donna cagion di tanta guerra, e tutte gli promettessi le con lei portate da Paride ricchezze, ed altre ancora da partirsi agli Achei, quante ne chiude questa città; se con tremendo giuro quindi i Troiani a rivelar stringessi i riposti tesori, ed in due parti dividendoli tutti... Oh che vaneggia mai la mia mente! Io supplice, io dimesso presentarmi? Il crudel, nulla m'avendo né pietà né rispetto (ov'io dell'armi nudo a lui vada), disarmato ancora, qual donna imbelle, metterammi a morte, ch'ei non è tale da poter con esso novellar dal querceto o dalla rupe come amanti garzoni e donzellette. A donzellette adunque ed a garzoni le dolci fole, a me la pugna; e tosto vedrassi cui darà Giove la palma. Così seco ragiona, e fermo aspetta. Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce dell'elmo agitator Marte simìle. Nella destra scotea la spaventosa pelìaca trave; come viva fiamma, o come disco di nascente Sole balenava il suo scudo. Il riconobbe Ettore, e freddo corsegli per l'ossa un tremor, né aspettarlo ei più sostenne, ma lasciate le porte, a fuggir diessi atterrito. Spiccossi ad inseguirlo fidato Achille ne' veloci piedi; qual ne' monti sparvier che, de' volanti il più ratto, si scaglia impetuoso su pavida colomba: ella sen fugge obbliquamente, e quei doppiando il volo vie più l'incalza con acuti stridi, di ghermirla bramoso: a questa guisa l'ardente Achille difilato vola dietro il trepido Ettòr che in tutta fuga mena il rapido piè rasente il muro. Trascorsero veloci la collina delle vedette, oltrepassâr, lunghesso la callaia, il selvaggio aereo fico sempre sotto alle mura; e già venuti son dell'alto Scamandro alle due fonti. Calida è l'una, e qual di fuoco acceso spandesi intorno di sue linfe il fumo: fredda come gragnuola o ghiaccio o neve scorre l'altra di state: ambe son cinte d'ampii lavacri di polita pietra, a cui, pria che l'Acheo venisse i giorni della pace a turbar, solean de' Teucri liete le spose e le avvenenti figlie i bei veli lavar. Da questa parte volano i due campion, l'uno fuggendo, l'altro inseguendo. Il fuggitivo è forte, ma più forte e più ratto è chi l'insegue, e d'un tauro non già, né della pelle si gareggia d'un bue, premio a veloce di corsa vincitor, ma della vita del grande Ettorre. E quale a vincer usi giran le mete corridori ardenti, a cui proposto è di gentil donzella o d'un tripode il premio, ad onoranza d'alcun defunto eroe; così tre volte dell'ilìaca città fêr questi il giro velocemente. A riguardarli intento stava il consesso de' Celesti, e Giove a dir si fece: Ahi sorte indegna! io veggo d'Ilio intorno alle mura esagitato un diletto mortal; duolmi d'Ettorre che su l'idèe pendici e sull'eccelsa pergàmea rocca a me solea di scelte vittime offrire i pingui lombi, ed ora del minaccioso Achille il presto piede l'incalza intorno alla città. Pensate, vedete, o numi, se per noi si debba dalla morte camparlo, o pur, quantunque così prode, il domar sotto il Pelìde. Procelloso Tonante, oh che dicesti, gli rispose Minerva, e che t'avvisi? Alla morte involar uomo sacro a morte? E tu l'invola. Ma non tutti al certo noi Celesti tal fatto assentiremo. T'accheta, o figlia, replicò de' nembi l'adunator, ch'io nulla ho fermo ancora, e nulla io voglio a te negar. Fa tutto, senza punto ristarti, il tuo desire. Spronò quel detto la già pronta Diva che dall'olimpie cime impetuosa spiccossi, e scese. Alla dirotta intanto incalza Achille il fuggitivo Ettorre. Come veltro cerviero alla montagna giù per convalli e per boscaglie insegue dalla tana destato un caprïuolo: sotto un arbusto il meschinel s'appiatta tutto tremante, e l'altro ne ritesse l'orme, e corre e ricorre irrequïeto finché lo trova: così tutte Achille del sottrarsi ad Ettòr tronca le vie. Quante volte sfilar diritto ei tenta alle dardanie porte, o delle torri sotto gli spaldi, onde co' dardi aita gli dian di sopra i suoi, tante il Pelìde lo previene e il ricaccia alla pianura, vicino alla città. Come nel sogno talor ne sembra con lena affannata uom che fugge inseguir, né questi ha forza d'involarsi, né noi di conseguirlo; così né Achille aggiugner puote Ettorre, né questi a quello dileguarsi. E intanto come schivar potuto avrìa la Parca di Prìamo il figlio, se l'estrema volta nuovo al petto vigor non gli porgea propizio Apollo, e nuova lena al piede? Accennava col capo il divo Achille alle sue genti di non far co' dardi al fuggitivo offesa, onde veruno, ferendolo, l'onor non gli precida del primo colpo. Ma venuti entrambi la quarta volta alle scamandrie fonti, l'auree bilance sollevò nel cielo il gran Padre, e due sorti entro vi pose di mortal sonno eterno, una d'Achille, l'altra d'Ettorre: le librò nel mezzo, e del duce troiano il fatal giorno cadde, e vêr l'Orco dechinò. Dolente Febo allora lasciollo in abbandono; ed al Pelìde fattasi vicina, sì Minerva parlò: Diletto a Giove inclito Achille, or sì che giunto io spero il momento in che noi su queste rive, spento alla fine il bellicoso Ettorre, d'alta gloria andrem lieti. Ei più non puote scapparne ei no, quand'anche il Saettante, ai piè prostrato dell'Egìoco Padre, di liberarlo s'argomenti. Or tu qui sòstati e respira. Andronne io stessa al tuo nemico, e metterogli in core di venir teco a singolar conflitto. Obbedì, s'appoggiò lieto al ferrato suo frassino il Pelìde, e dipartita da lui la Diva, al volto, alla favella Dëìfobo si fece, e all'anelante Ettor venuta, O mio german, dicea, troppo costui dintorno a queste mura con piè ratto t'incalza e ti travaglia. Or via restiamci, e difendiamci a fermo. Rispose Ettòr: Dëìfobo, di quanti mi diè fratelli Prïamo ed Ecùba, sempre il più caro tu mi fosti, ed ora lo mi sei più che prima, e più mi traggi ad onorarti, perocché tu solo da quelle mura osasti a mia difesa, tu solo uscir, veduto il mio periglio. Fratello amato, replicò la Diva, i venerandi genitori, e tutti stringendosi gli amici a' miei ginocchi di non uscire mi pregâr, cotanto terror gl'ingombra: ma l'interno vinse, che per te mi struggea, fiero dolore. Combattiam dunque arditamente, e nullo sia più d'aste risparmio, onde si vegga s'egli, noi spenti, tornerà di nostre spoglie onusto alle navi, o se piuttosto qui cadrà per la tua lancia trafitto. Sì dicendo, la Diva ingannatrice precorse, e quelli l'un dell'altro a fronte divenuti, primier l'armi crollando fe' questi detti l'animoso Ettorre: Più non fuggo, o Pelìde. Intorno all'alte ilìache mura mi aggirai tre volte, né aspettarti sostenni. Ora son io che intrepido t'affronto, e darò morte, o l'avrò. Ma gli Dei, fidi custodi de' giuramenti, testimon ne sièno, che se Giove l'onor di tua caduta mi concede, non io sarò spietato col cadavere tuo, ma renderollo, toltene solo le bell'armi, intatto a' tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso. Non parlarmi d'accordi, abbominato nemico, ripigliò torvo il Pelìde: nessun patto fra l'uomo ed il lïone, nessuna pace tra l'eterna guerra dell'agnello e del lupo, e tra noi due né giuramento né amistà nessuna, finché l'uno di noi steso col sangue l'invitto Marte non satolli. Or bada, ché n'hai mestiero, a richiamar la tutta tua prodezza, e a lanciar dritta la punta. Ogni scampo è preciso, e già Minerva per l'asta mia ti doma. Ecco il momento che dei morti da te miei cari amici tutte ad un tempo sconterai le pene. Disse, e forte avventò la bilanciata lunga lancia. Antivide Ettorre il tiro, e piegato il ginocchio e la persona, lo schivò. Sorvolando il ferreo telo si confisse nel suol, ma ne lo svelse invisibile ad Ettore Minerva, e tornollo al Pelìde. - Errasti il colpo, gridò l'eroe troian, né Giove ancora, come dianzi cianciasti, il mio destino ti fe' palese. Dëiforme sei, ma cinguettiero, ché con vani accenti atterrirmi ti speri, e nella mente addormentarmi la virtude antica. Ma nel dorso tu, no, non pianterai l'asta ad Ettorre che diritto viene ad assalirti, e ti presenta il petto; piantala in questo se t'assiste un Dio. Schiva intanto tu pur la ferrea punta di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo seppellir tutta quanta, e della guerra ai Teucri il peso allevïar, te spento, te lor funesta principal rovina. Disse, e l'asta di lunga ombra squassando, la scagliò di gran forza, e del Pelìde colpì senza fallir lo smisurato scudo nel mezzo. Ma il divino arnese la respinse lontan. Crucciossi Ettorre, visto uscir vano il colpo, e non gli essendo pronta altra lancia, chinò mesto il volto, e a gran voce Dëìfobo chiamando, una picca chiedea: ma lungi egli era. Allor s'accorse dell'inganno, e disse: Misero! a morte m'appellâr gli Dei. Credeami aver Dëìfobo presente; egli è dentro le mura, e mi deluse Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo v'è più scampo per me. Fu cara un tempo a Giove la mia vita, e al saettante suo figlio, ed essi mi campâr cortesi ne' guerrieri perigli. Or mi raggiunse la negra Parca. Ma non fia per questo che da codardo io cada: periremo, ma glorïosi, e alle future genti qualche bel fatto porterà il mio nome. Ciò detto, scintillar dalla vagina fe' la spada che acuta e grande e forte dal fianco gli pendea. Con questa in pugno drizza il viso al nemico, e si disserra com'aquila che d'alto per le fosche nubi a piombo sul campo si precipita a ghermir una lepre o un'agnelletta: tale, agitando l'affilato acciaro, si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari gonfio il cor di feroce ira il Pelìde impetuoso. Gli ricopre il petto l'ammirando brocchier: sovra il guernito di quattro coni fulgid'elmo ondeggia l'aureo pennacchio che Vulcan v'avea sulla cima diffuso. E qual sfavilla nei notturni sereni in fra le stelle Espero il più leggiadro astro del cielo; tale l'acuta cuspide lampeggia nella destra d'Achille che l'estremo danno in cor volge dell'illustre Ettorre, e tutto con attenti occhi spïando il bel corpo, pon mente ove al ferire più spedita è la via. Chiuso il nemico era tutto nell'armi luminose che all'ucciso Patròclo avea rapite. Sol, dove il collo all'omero s'innesta, nuda una parte della gola appare, mortalissima parte. A questa Achille l'asta diresse con furor: la punta il collo trapassò, ma non offese della voce le vie, sì che precluso fosse del tutto alle parole il varco. Cadde il ferito nella sabbia, e altero sclamò sovr'esso il feritor divino: Ettore, il giorno che spogliasti il morto Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo terror ti prese del lontano Achille. Stolto! restava sulle navi al mio trafitto amico un vindice, di molto più gagliardo di lui: io vi restava, io che qui ti distesi. Or cani e corvi te strazieranno turpemente, e quegli avrà pomposa dagli Achei la tomba. E a lui così l'eroe languente: Achille, per la tua vita, per le tue ginoccnia, per li tuoi genitori io ti scongiuro, deh non far che di belve io sia pastura alla presenza degli Achei: ti piaccia l'oro e il bronzo accettar che il padre mio e la mia veneranda genitrice ti daranno in gran copia, e tu lor rendi questo mio corpo, onde l'onor del rogo dai Teucri io m'abbia e dalle teucre donne. Con atroce cipiglio gli rispose il fiero Achille: Non pregarmi, iniquo, non supplicarmi né pe' miei ginocchi né pe' miei genitor. Potessi io preso dal mio furore minuzzar le tue carni, ed io stesso, per l'immensa offesa che mi facesti, divorarle crude. No, nessun la tua testa al fero morso de' cani involerà: né s'anco dieci e venti volte mi s'addoppii il prezzo del tuo riscatto, né se d'altri doni mi si faccia promessa, né se Prìamo a peso d'oro il corpo tuo redima, no, mai non fia che sul funereo letto la tua madre ti pianga. Io vo' che tutto ti squarcino le belve a brano a brano. Ben lo previdi che pregato indarno t'avrei, riprese il moribondo Ettorre. Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada che di qualche celeste ira cagione io non ti sia quel dì che Febo Apollo e Paride, malgrado il tuo valore, t'ancideranno su le porte Scee. Così detto, spirò. Sciolta dal corpo prese l'alma il suo vol verso l'abisso, lamentando il suo fato ed il perduto fior della forte gioventude. E a lui, già fredda spoglia, il vincitor soggiunse: Muori; ché poscia la mia morte io pure, quando a Giove sia grado e agli altri Eterni, contento accetterò. Così dicendo, svelse dal morto la ferrata lancia, in disparte la pose, e dalle spalle l'armi gli tolse insanguinate. Intanto d'ogn'intorno v'accorsero gli Achivi contemplando d'Ettòr maravigliosi l'ammirande sembianze e la statura; né vi fu chi di fargli una ferita non si godesse, al suo vicin dicendo: Per gli Dei, che a toccarsi egli s'è fatto più tenero che quando arse le navi: e in questo dir coll'asta il ripungea. Spoglio ch'ei l'ebbe, fra gli astanti Achei ritto Achille parlò queste parole: Amici e prenci e capitani, udite. Poiché diermi gli Dei che domo alfine costui ne fosse, che d'assai più nocque che gli altri tutti insieme, alla cittade volgiam l'armi, e vediam se, spento Ettorre, fanno i Teucri pensier d'abbandonarla, o, benché privi di cotanto aiuto, coraggiosi resistere... Ma quale vano consiglio mi ragiona il core? Senza pianto sul lido e senza tomba giace il morto Patròclo. Insin che queste mie membra animerà soffio di vita, ei fia presente al mio pensiero; e s'anco laggiù nell'Orco obblivïon scendesse della vita primiera, anco nell'Orco mi seguirà del mio diletto amico la rimembranza. Or via, dunque si rieda alle navi, e costui vi si strascini. E voi frattanto, giovinetti achivi, intonate il peana: alto è il trionfo che riportammo: il grande Ettòr, dai Teucri adorato qual nume, è qui disteso. Disse, e contra l'estinto opra crudele meditando, de' piè gli fora i nervi dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio insertovi bovino, al cocchio il lega, andar lasciando strascinato a terra il bel capo. Sul carro indi salito con l'elevate glorïose spoglie, stimolò col flagello a tutto corso i corridori che volâr bramosi. Lo strascinato cadavere un nembo sollevava di polve onde la sparta negra chioma agitata e il volto tutto bruttavasi, quel volto in pria sì bello, allor da Giove abbandonato all'ira degl'inimici nella patria terra. All'atroce spettacolo si svelse la genitrice i crini, e via gittando il regal velo, un ululato mise, che alle stelle n'andò. Plorava il padre miseramente, e gemiti e singulti per la città s'udìan, come se tutta dall'eccelse sue cime arsa cadesse. Rattenevano a stento i cittadini il re canuto, che di duol scoppiando dalle dardànie porte a tutto costo fuor voleva gittarsi. S'avvolgea il misero nel fango, e tutti a nome chiamandoli e pregando, Ah! vi scostate, lasciatemi, gridava; è intempestivo ogni vostro timor; lasciate, amici, ch'io me n'esca, ch'io vada tutto solo alle navi nemiche. Io vo' cadere supplichevole ai piè di quell'iniquo violento uccisor. Chi sa che il crudo il mio crin bianco non rispetti e senta pietà di mia vecchiezza. Ei pure ha un padre d'anni carco, Pelèo che generollo e de' Teucri nudrillo alla ruina, soprattutto alla mia, tanti uccidendo giovinetti miei figli: né mi dolgo sì di lor tutti, ohimè! quanto d'un solo, quanto d'Ettòr, di cui trarrammi in breve l'empia doglia alla tomba. Oh fosse ei morto tra le mie braccia almen! così la madre, che sventurata partorillo, e io stesso sfogo avremmo di pianti e di sospiri. Questo ei dicea piangendo, e co' lamenti facean eco al suo pianto i cittadini. Dalle Tröadi intanto circondata, in alti lai rompea la madre: Oh figlio! tu se' morto, ed io vivo? io giunta al sommo delle sventure te perdendo, ahi lassa! te che in ogni momento eri la mia gloria e il sostegno della patria tutta che t'accogliea qual nume. Ahi! ne saresti, vivo, il decoro; e ne sei, morto, il lutto. Seguìa questo parlar di pianto un fiume. Ma del fato d'Ettòr nulla per anco Andròmaca sapea, ché nullo a lei del marito rimasto anzi alle porte recato avea l'avviso. Nell'interne regie stanze tessendo ella si stava a doppie fila una lucente tela di diverso rabesco. E per suo cenno avean frattanto le leggiadre ancelle posto un tripode al fuoco, onde al consorte pronto fosse, al tornar dalla battaglia, caldo un lavacro. Non sapea, demente! che da' lavacri assai lungi domato l'avea Minerva per la man d'Achille. Ma come dalla torre un suon confuso d'ululi intese e di lamenti, tutte le tremaro le membra, al suol le cadde la spola, e volta alle donzelle, disse: Accorrete sollecite, seguitemi due di voi tosto: vo' veder che avvenne. Dell'onoranda suocera la voce mi percuote l'orecchio, e il cor mi balza con sussulto nel petto, e manca il piede. Certo, qualche gran danno, ohimè! sovrasta di Prìamo ai figli. Allontanate, o numi, questo presagio: ma ben forte io temo che il divo Achille all'animoso Ettorre non abbia del salvarsi entro le mura già tagliata la strada, ed or pel campo lo m'insegua da tutti abbandonato; e la bravura esizïal non domi che il possedea: restarsi egli non seppe mai nella folla, e sempre oltre si spinse, a nessun prode di valor secondo. Così dicendo, della reggia uscìo qual forsennata, e le tremava il core. La seguivan le ancelle; e fra le turbe giunta alla torre, s'arrestò, girando lo sguardo intorno dalle mura. Il vide, il riconobbe da corsier veloci strascinato davanti alla cittade verso le navi indegnamente. Oscura notte i rai le coperse, ed ella cadde all'indietro svenuta. Si scomposero i leggiadri del capo adornamenti e nastri e bende e l'intrecciata mitra e la rete ed il vel che dielle in dono l'aurea Venere il dì che dalle case d'Eezïòne Ettòr la si condusse di molti doni nuzïali ornata. Affollârsi pietose a lei dintorno le cognate che smorta tra le braccia reggean l'afflitta di morir bramosa per immenso dolor. Come in se stessa alfin rivenne, e l'alma al cor s'accolse, fe' degli occhi due fonti, e così disse: Oh me deserta! oh sposo mio! noi dunque nascemmo entrambi col medesmo fato, tu nella reggia del tuo padre, ed io nella tebana Ipòplaco selvosa seggio d'Eezïón che pargoletta allevommi, meschino una meschina! Oh non m'avesse generata! Ai regni tu di Pluto discendi entro il profondo sen della terra, e me qui lasci al lutto vedova in reggia desolata. Intanto del figlio, ohimè! che fia? Figlio infelice di miserandi genitor, bambino egli è del tutto ancor, né tu puoi morto più farti suo sostegno, Ettore mio, ned egli il padre vendicar: ché dove pur sia che degli Achei la lagrimosa guerra egli sfugga, nondimen dolenti trarrà sempre i suoi giorni, e a lui l'avaro vicin mutando i termini del campo spoglierallo di questo. Abbandonato da' suoi compagni è l'orfanello; ei porta ognor dimesso il volto, e lagrimosa la smunta guancia. Supplice indigente va del padre agli amici, e all'uno il saio, tocca all'altro la veste. Il più pietoso gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna, non il palato. Ed altro tal che lieto va di padre e di madre, alteramente dalla mensa il ributta, e lo percote, e villano gli grida: Sciagurato, esci: il tuo padre qui non siede al desco. Torna allor lagrimando Astïanatte alla vedova madre, egli che dianzi d'eletti cibi si nudrìa, scherzando sul paterno ginocchio. E quando ei stanco d'innocenti trastulli al dolce sonno chiudea le luci alla nudrice in grembo, dentro il suo letticciuol su molli piume, sazio di gioia il cor, s'addormentava. E quanti or privo dell'amato padre, ahi quanti affanni soffrirà! né punto d'Astïanatte gioveragli il nome che gli posero i Troi, perché le porte tu sol ne difendevi e l'ardue mura. Or te sul lido fra le navi, e lungi da chi vita ti diè, lubrici i vermi roderan, come sazio avrai de' veltri nudo le gole; ahi nudo! e nella reggia tante avevi leggiadre ed esquisite vesti, lavoro dell'esperte ancelle. Or poiché vane a te son fatte, e tolto n'è il coprirti di queste in sul ferètro, tutte alle fiamme gitterolle io stessa, onde al cospetto de' Troiani almeno questo segno d'onor ti sia renduto. Così dicea piangendo, ed al suo pianto co' sospiri facean eco le donne.
Mentre in Troia si piange, all'Ellesponto giungon gli Achivi, e spargesi ciascuno alla sua nave. Ma l'andar dispersi non permise il Pelìde ai bellicosi suoi Mirmidóni, da cui cinto disse: Miei diletti compagni e cavalieri, non distacchiamo per ancor dai cocchi i corridori: procediam con questi a piagnere Patròclo, a tributargli l'onor dovuto ai trapassati. E quando avrem del pianto al cor dato il diletto, sciolti i destrieri, appresterem le cene. Disse, e tutti innalzâr ristretti insieme il fùnebre lamento, Achille il primo. Corser tre volte colle bighe intorno all'estinto ululando, e ne' lor petti destò Teti di pianto alto desìo. Si bagnava di lagrime l'arena, di lagrime gli usberghi; cotant'era il desiderio dell'eroe perduto. Ma fra tutti piagnea dirottamente Achille, e poste le omicide mani dell'amico sul cor, Salve, dicea, salve, caro Patròclo, anco sotterra. Tutto io voglio compir che ti promisi. D'Ettore il corpo al tuo piè strascinato farò pasto de' cani, e alla tua pira dodici capi troncherò d'eletti figli de' Teucri, di tua morte irato. Disse; ed opra crudel contra il divino Ettor volgendo in suo pensiero, il trasse per la polve boccon presso al ferètro del figliuol di Menèzio: e gli altri intanto scinsero le corrusche armi, e staccati gli annitrenti corsier, folti sull'alta capitana d'Achille a lauto desco s'assisero. Muggìan sotto la scure molti candidi buoi, molte belando cadean capre scannate e pecorelle, e molti di pinguedine fiorenti cinghiai sannuti alle vulcanie vampe venìan distesi a brustolarsi. Il sangue scorrea dintorno al morto in larghi rivi. Al sommo Atride intanto i prenci achei scortâr vinto da' preghi, e per l'amico sempre d'ira infiammato il re Pelìde. Giunti i duci alla tenda, immantinente ai prodi araldi Agamennón comanda che alle fiamme un gran tripode si metta, onde il Pelìde indur, se gli rïesca, a lavarsi del sangue ogni sozzura. Recusollo il feroce, e fermamente giurò: Non sia per Giove ottimo e sommo che lavacro mi tocchi anzi ch'io ponga l'amico mio sul rogo, e gli consacri sull'eretto sepolcro il crin reciso. Ah! mai pari dolor, fin ch'io mi viva, in questo petto non cadrà, giammai. Nondimeno si segga all'abborrita mensa: ma tu, supremo Atride, imponi alla tua gente che domàn per tempo molta selva qua porti; e qual conviensi ad illustre defunto che nell'atra notte discende, le cataste appresti, onde rapido il foco lo consumi, e tolto agli occhi il doloroso obbietto, tornin le schiere ai consueti offici. Obbedîr tutti al detto, e prontamente poste le mense, a convivar si diero, e vivandò ciascuno a suo talento. Del cibarsi e del ber spenta la voglia, tutti sbandârsi alle lor tende, e al sonno cesser le membra. Ma del mar sonante lungo il lido si stese in mezzo ai folti tessali Achille su la nuda arena, di cui l'onda gli estremi orli lambìa. Ivi stanco di gemiti e sospiri e della molta in perseguendo Ettorre sostenuta fatica, il dolce sonno alleggiator dell'aspre cure il prese, soavemente circonfuso. Ed ecco comparirgli del misero Patròclo in visïon lo spettro, a lui del tutto ne' begli occhi simìle e nella voce, nella statura, nelle vesti, e tale sovra il capo gli stette, e così disse: Tu dormi, Achille, né di me più pensi. Vivo m'amasti, e morto m'abbandoni. Deh tosto mi sotterra, onde mi sia dato nell'Orco penetrar. Respinto io ne son dalle vane ombre defunte, né meschiarmi con lor di là dal fiume mi si concede. Vagabondo io quindi m'aggiro intorno alla magion di Pluto. Or deh porgi la man, ché teco io pianga anco una volta: perocché consunto dalle fiamme del rogo a te dall'Orco non tornerò più mai. Più non potremo vivi entrambi, e lontan dagli altri amici seduti in dolci parlamenti aprire i segreti del cor: ché preda io sono della Parca crudele a me nascente un dì sortita. E a te pur anco, Achille, a te che un Dio somigli, è destinato il perir sotto le dardanie mura. Ben ti prego, o mio caro, e raccomando che tu non voglia, se mi sei cortese, dal tuo disgiunto il cener mio. Noi fummo nella tua reggia allor nudriti insieme che Menèzio d'Opunte a Ftia menommi giovinetto quel dì che per la lite degli astragali irato e fuor di senno d'Anfidamante a morte misi il figlio, mio malgrado. M'accolse il re Pelèo ne' suoi palagi umanamente, e posta nell'educarmi diligente cura, mi nomò tuo donzello. Una sol'urna chiuda adunque le nostre ossa, quell'urna che d'ôr ti diè la tua madre divina. A che ne vieni, o anima diletta? gli rispose il Pelìde; e a che m'ingiungi partitamente queste cose? Io tutto che comandi farò: ma deh t'appressa, ch'io t'abbracci, che stretti almen per poco gustiam la trista voluttà del pianto. Così dicendo, coll'aperte braccia amoroso avventossi, e nulla strinse, ché stridendo calò l'ombra sotterra, e svanì come fumo. In piè rizzossi sbalordito il Pelìde, e palma a palma battendo, in suono di lamento disse: Oh ciel! dell'Orco gli abitanti han dunque spirito ed ombra, ma non corpo alcuno? Del misero Patròclo in questa notte sovra il capo mi stette il sospiroso spettro piangente, tutto desso al vivo, e più cose m'ingiunse ad una ad una. Ridestâr delle lagrime la brama queste parole: raddoppiossi il lutto sul miserando corpo, e l'Alba intanto col roseo dito l'Orïente aprìa. Da tutte parti allor fece l'Atride dalle trabacche uscir giumenti e turbe per lo trasporto del funereo bosco, duce il valente Merïon, del prode Idomenèo scudier. Givan costoro di corde armati e di taglienti scuri co' giumenti dinanzi. E per distorti aspri greppi montando e discendendo e rimontando, agli erti boschi alfine giunser dell'Ida che di fonti abbonda. Qui dier sùbita man con affilate bipenni al taglio dell'aeree querce che strepitose al suol cadeano, e poscia legavansi spaccate in su la schiena de' giumenti, che ratte orme stampando scendean bramosi d'arrivar pe' folti roveti alla pianura: e li seguièno carchi il dosso di ciocchi i tagliatori; ché tal di Merïon era il precetto. Giunti sul lido, scaricâr le some, ne fêr catasta al luogo ove il Pelìde un tumulo sublime al morto amico ed a se stesso disegnato avea. E tutta apparecchiata in questa guisa l'immensa selva, riposâr seduti, nuovi cenni aspettando. Intanto Achille ai bellicosi Mirmidón comanda di porsi in armi, ed aggiogar ciascuno alle bighe i destrier. Sursero quelli frettolosi, e fur tutti in tutto punto. Montan su i cocchi aurighi e duci, e danno alla pompa principio. Immenso un nembo di pedoni li segue, e a questi in mezzo di Patròclo procede il cataletto da' compagni portato, che sul morto venìan gittando le recise chiome, di che tutto il coprìan. Di retro Achille colla man gli reggea la tremolante testa, e plorava sui fùnebri onori con che all'Orco spedìa l'illustre amico. Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco deposero, e a ribocco intorno a quello adunâr pronti la funerea selva. Recatosi in se stesso, un altro avviso fece allora il Pelìde. Allontanossi dal rogo alquanto, e il biondo si recise, che allo Sperchio nudrìa, florido crine, e al mar guardando con dolor, sì disse: Sperchio, invan ti promise il padre mio che tomando al natìo dolce terreno io t'avrei tronco la mia chioma, e offerto una sacra ecatombe, ed immolato cinquanta agnelli accanto alla tua fonte ov'hai delubro, ed odorati altari. Del canuto Pelèo fu questo il voto: tu nol compiesti. Poiché dunque or tolto n'è alla patria il ritorno, abbia il mio crine l'eroe Patròclo, e lo si porti seco. Così detto, alla man del caro amico pose la chioma, e rinnovossi il pianto de' circostanti: e tra gli omei gli avrìa colti il cader della dïurna luce, se non si fea davanti al grande Atride il figlio di Pelèo con questi accenti: Agamennón, di lagrime potremo satollarci altra volta. Or tu, cui tutti obbediscon gli Achei, tu li congeda da questa pira, e a ristorar li manda colla mensa le membra. Avrem del resto noi la cura, ché nostro innanzi a tutti dell'esequie è il pensiero, e rimarranno nosco, a tal uopo di pietade, i duci. Udito questo, Agamennón disperse tosto le schiere per le tende, e soli vi restaro i deletti al ministero dell'esequie e del rogo. Essi una pira cento piedi sublime in ogni lato innalzâr primamente, e sovra il sommo, d'angoscia oppressi, collocâr l'estinto; poi davanti alla pira una gran torma scuoiâr di pingui agnelle e di giovenchi, e traendone l'adipe il Pelìde coprìane il morto dalla fronte al piede, e le scuoiate vittime dintorno gli accumolò. Da canto indi gli pose colle bocche sul fèretro inclinate due di miele e d'unguento urne ricolme. Precipitoso ei poscia e sospiroso sulla pira gittò quattro corsieri d'alta cervice, e due smembrati cani di nove che del sir nudrìa la mensa. Preso alfin da spietata ira, le gole di dodici segò prestanti figli de' magnanimi Teucri, e sulla pira scagliandoli, destò del fuoco in quella l'invitto spirto struggitor, che il tutto divorasse, e chiamò con dolorosi gridi l'amico: Addio, Patròclo, addio ne' regni anche di Pluto. Ecco adempite le mie promesse: dodici d'illustre sangue Troiani si consuman teco in queste fiamme, ed Ettore fia pasto delle fiamme non già, ma delle belve. Queste minacce ei fea; ma gl'incitati mastin la salma non toccâr d'Ettorre, ché notte e dì sollecita la figlia di Giove Citerea gli allontanava, e il cadavere ugnea d'una celeste rosata essenza che impedìa del corpo strascinato l'offesa. Intanto Apollo sul campo indusse una cerulea nube che tutto intorno ricoprìa lo spazio dal cadavere ingombro, onde alle membra e de' nervi al tessuto innocua fosse dell'igneo Sole la virtute attiva. Ma del morto Patròclo il rogo ancora non avvampa. Allor prende altro consiglio il divo Achille. Trattosi in disparte, ai due venti Ponente e Tramontana supplicando, solenni ostie promette, e in aurea coppa ad ambedue libando, di venirne li prega, e intorno al morto sì le fiamme animar, che in un momento lo si struggano tutto, esso e la pira. Udito la veloce Iride il prego, ai venti lo recò, che accolti insieme nella reggia di Zefiro un festivo tenean convito. S'arrestò la Diva su la marmorea soglia, e alla sua vista sursero tutti frettolosi: ognuno a sé chiamolla, ognun le offerse il seggio, ma ricusollo la Taumànzia, e disse: Di seder non è tempo: alle correnti dell'Oceàno ritornar mi deggio nell'etìope terreno ove s'appresta agl'Immortali un'ecatombe, e bramo ne' sacrifici aver mia parte io pure. Ma il Pelìde te, Borea, e te, sonoro Zefiro, prega di soffiar nel rogo su cui giace di Pàtroclo la spoglia dagli Achei tutti deplorata, e molte vittime ei v'offre, se avvampar lo fate. Così detto, disparve; e quei levârsi con immenso stridor, densate innanzi a sé le nubi. Si sfrenâr soffiando sulla marina, sollevaro i flutti, e di Troia arrivati alla pianura, riunâr su la pira; e strepitoso immane incendio si destò. Dai forti soffii agitata divampò sublime tutta notte la fiamma, e tutta notte il Pelìde da vasto aureo cratere il vino attinse con ritonda coppa, e spargendolo al suol devotamente, n'irrigava la terra, e l'infelice ombra invocava dell'estinto amico. Come un padre talor piange bruciando l'ossa d'un figlio che morì già sposo, e morendo lasciò gli sventurati suoi genitori di cordoglio oppressi; così dando alle fiamme il suo compagno, geme il Pelìde, e crebri alti sospiri traendo, intorno al rogo si strascina. Come poi nunzio della luce al mondo Lucifero brillò, dopo cui stende sul pelago l'Aurora il croceo velo, morì la vampa sul consunto rogo, e per lo tracio mar, che rabbuffato muggìa, tornaro alle lor case i venti. Stanco allora il Pelìde, e dalla pira scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno l'occupò. Ma il tumulto e il calpestìo de' capitani, che all'Atride in folla si raccogliean, destollo; ei surse, e assiso così loro parlò: Supremo Atride, e voi primati degli Achei, spegnete voi tutti or meco con purpureo vino di tutto il rogo in pria la brage, e poscia raccogliam di Patròclo attentamente le sacrate ossa; e scernerle fia lieve, imperocché nel mezzo ei si giacea della catasta, e gli altri all'orlo estremo separati, fur arsi alla rinfusa e uomini e cavalli. Indi d'opimo doppio zirbo ravvolte, in urna d'oro le riporremo, finché vegna il giorno ch'io pur di Pluto alla magion discenda. Non vo' gli s'erga una superba tomba, ma modesta. Potrete ampia e sublime voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi dopo me rimarrete a questa riva. Del Pelìde al comando obbedïenti con larghi sprazzi di vermiglio bacco di tutto il rogo ei spensero alla prima le vive brage, e giù cadde profonda la cenere. Adunâr quindi piangendo del mansueto eroe le candid'ossa; le composer nell'urna avvolte in doppio adipe, e dentro il padiglion deposte, di sottil lino le coprîr. Ciò fatto, disegnâr presti in tondo il monumento, ne gittaro dintorno all'arsa pira i fondamenti, v'ammassâr di sopra lo scavato terreno, e a fin condotta la tomba, si partìan. Ma li rattenne il Pelìde, e lì fatto in ampio agone il popolo seder, de' ludi i premii fe' dai legni recar; tripodi e vasi e destrieri e giumenti e generosi tauri e captive di gentil cintiglio e forbite armature. E primamente alla corsa de' cocchi il premio pose: una leggiadra in bei lavori esperta donzella a chi primier tocca la meta, con un tripode a doppia ansa, e capace di ventidue misure. Una giumenta che al sest'anno già venne, ancor non doma, e il sen già grave di bastarda prole al secondo. Un lebète intatto e bello e di quattro misure al terzo auriga; al quarto un doppio aureo talento, e al quinto una coppa dal foco ancor non tocca. Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi, gioventù bellicosa, a voi dinanzi ecco i premii che attendono nel circo degli aurighi il valor. S'altra cagione questi ludi eccitasse, i primi onori miei per certo sarìan, ché la prestezza de' miei destrieri non ha pari, e voi lo vi sapete: perocché son essi immortali, e donolli il re Nettunno al mio padre Pelèo, che a me li cesse. Queto io dunque starommi, e queti insieme i miei cavalli. I miseri perduto hanno il lor forte condottiero e mite, che lavarne solea le belle chiome alla chiara corrente, ed irrorarle di liquid'olio rilucente; ed ora piangonlo immoti, colle meste giubbe al suol diffuse, e il cor di doglia oppresso. Chïunque degli Achei pertanto ha speme ne' cocchi e ne' destrier, si metta in punto. Ciò disse appena, che animosi e pronti presentârsi gli aurighi; Eumelo il primo, regal germe d'Admeto, e delle bighe perito agitator. Mosse secondo il gagliardo Tidìde Dïomède co' destrieri di Troe tolti ad Enea, cui da morte campò l'opra d'Apollo. Il biondo Menelao, sangue di Giove, levossi il terzo, e sotto al giogo addusse due veloci cavalli, il suo Podargo, ed Eta, del fratello una puledra, dell'aringo bramosa a meraviglia. Donata al rege Agamennón l'avea l'Anchisìade Echepòlo, onde francarsi dal seguitarlo a Troia, e neghittoso nell'opulenta Sicïon sua stanza rimanersi a fruir le concedute dal saturnio Signor molte ricchezze. Del magnanimo Nèstore buon figlio Antìloco aggiogò quarto i criniti suoi cavalli di Pilo, ancor del cocchio buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre a lui già saggio per se stesso, e un saggio utile avviso gli porgea dicendo: Antìloco, te amâr Giove e Nettunno giovane ancora, e t'erudîr di tutta l'arte equestre: perciò poco fia l'uopo d'ammaestrarti, perocché sai destro girar la meta: ma son tardi al corso i tuoi destrieri, e qualche danno io temo. Destrier più ratti han gli altri, ma non arte né scïenza maggior. Dunque, o mio caro, tutti richiama al cor gli accorgimenti, se vuoi che il premio da tue man non fugga. L'arte più che la forza al fabbro è buona; coll'arte in mar da venti combattuto regge il piloto la sua presta nave, e coll'arte il cocchier passa il cocchiero. Chi sol del cocchio e de' corsier si fida, qua e là s'aggira senza senno; incerti divagano i cavalli, ed ei non puote più governarli. Ma l'esperto auriga, benché meno valenti i suoi sospinga, sempre ha l'occhio alla meta, e volta stretto, e sa come lentar, sa come a tempo con fermi polsi rattener le briglie, ed osserva il rival che lo precede. Or la meta, perché tu senza errore la distingua, dirò. Sorge da terra alto sei piedi un tronco di larìce o di quercia che sia, secco e da pioggia non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi, dove sbocca la via, due bianche pietre da cui si stende tutto piano in giro de' cavalli lo stadio. O che sepolcro questo si fosse d'un illustre estinto, o confin posto dalla prisca gente, meta al corso lo fece oggi il Pelìde. Tu fa di rasentarla, e vi sospingi vicin vicino il cocchio e i corridori, alcun poco piegando alla sinistra la persona, e flagella e incalza e sgrida il cavallo alla dritta, e gli abbandona tutta la briglia, e fa che l'altro intanto rada la meta sì che paia il mozzo della ruota volubile toccarla; ma vedi, ve', che non la tocchi, infranto n'andrebbe il carro, offesi i corridori, e tu deriso e di disnor coperto. Sii dunque saggio e cauto. Ove la meta trascorrer netto ti rïesca, alcuno non fia che poi t'aggiunga o ti trapassi, no, s'anco a tergo ti venisse a volo quel d'Adrasto corsier nato d'un Dio, il veloce Arïone, o quei famosi che qui Laomedonte un dì nudrìa. Divisate al figliuol distintamente queste avvertenze, si raccolse il veglio nell'erboso suo seggio. Ultimo intanto con bella coppia di corsier superbi Merïon nella lizza era venuto. Montati i carri, si gittâr le sorti. Agitolle il Pelìde, e uscì primiero Antìloco; indi Eumelo, indi l'Atride, fu quarto Merïon, quinto il fortissimo Dïomede. Locârsi in ordinanza tutti, ed Achille mostrò lor lontana nel pian la meta a cui giudice avea posto del padre lo scudier Fenice venerando vegliardo, onde notasse le corse attento, e riferisse il vero. Stavano tutti colle sferze alzate su gli ardenti destrieri, e dato il segno, lentâr tutti le briglie, e co' flagelli e co' gridi animaro i generosi corsier che ratti si lanciâr nel campo, e dal lido spariro in un baleno. Sorge sotto i lor petti alta la polve che di nugolo a guisa o di procella si condensa, ed al vento abbandonate svolazzano le giubbe. Or vedi i cocchi rader bassi la terra, ed or sublimi balzarsi, né perciò perde mai piede degli aurighi veruno, e batte a tutti per desiderio della palma il core; e in un nembo di polve ognun dà spirto a' suoi volanti alipedi. Varcata la meta, e preso il rimanente corso di ritorno alle mosse, allor rifulse di ciascun la prodezza, allor si stese nello stadio ogni cocchio. Innanzi a tutti le puledre volavano veloci del Ferezìade Eumelo; e dopo queste, ma di poco intervallo, i corridori di Troe, guidati dal Tidìde, e tanto imminenti che ognor parean sul carro montar d'Eumelo, a cui co' fiati ardenti già scaldano le spalle, e già le toccano colle fervide teste. E oltrepassato forse l'avrebbe, o pareggiato almeno, se al figlio di Tidèo Febo la palma invidïando, non gli fea sdegnoso balzar dal pugno la lucente sferza. Lagrime d'ira e di dolor le gote inondâr dell'eroe, vista d'Eumelo lontanarsi più rapida la biga, e per difetto di flagel più lenta correr la sua. Ma Pallade d'Apollo scorta la frode, e del Tidìde il danno, presta a lui corse, e alla sua man rimessa la sferza, aggiunse ai corridor la lena. Indi al figlio d'Admeto avvicinossi irata, e il giogo gli spezzò. Turbate si svïar le cavalle, andò per terra il timon, riversossi il cavaliero presso alla ruota, e il cubito e la bocca lacerossi e le nari, e su le ciglia n'ebbe pesta la fronte: le pupille s'empîr di pianto, s'arrestò la voce, e Dïomede il trapassò sferzando gli animosi destrier che innanzi a tutti scappan di molto, perocché Minerva gli afforza, e vincitor vuole il Tidìde. Vien dopo questi Menelao cui preme di Nèstore il figliuol che confortando i paterni destrier, grida: Correte, stendetevi prestissimi: non io già vi comando gareggiar con quelli del forte Dïomède, a' quai Minerva diè l'ali al piede, e a lui la palma: solo raggiungete l'Atride, e non soffrite restando addietro, ch'Eta, una giumenta, vi sorpassi di corso e disonori. Che lentezza s'è questa? ov'è l'antica vostra prestanza? Io lo vi giuro, e il giuro s'adempirà; se pigri un premio vile riporterem, negletti, anzi trafitti da Nèstore sarete. Or via, volate, ch'io di astuzia giovandomi senz'erro trapasserò l'Atride nello stretto. Antìloco sì disse, e quei temendo le sue minacce rinforzaro il corso; ed ecco dopo poco il passo angusto del concavo cammin. V'era una frana ove l'acqua invernal, raccolta in copia, dirotta avea la strada, e tutto intorno affondato il terren. Per quella parte si drizzava l'Atride, onde il concorso ischivar delle bighe. Ivi si spinse Antìloco pur esso; e devïando dalla carriera un cotal poco, e forte flagellando i corsier, lo stringe, e tenta prevenirlo. Temettene l'Atride, e gridò: Dove vai, pazzo? rattieni, Antìloco, i destrier: stretta è la via. Aspetta che s'allarghi, e trapassarmi potrai: qui entrambi romperemo i cocchi. Antìloco non l'ode, e stimolando più veemente i corridor, s'avanza. Quanto è il tratto d'un disco da robusto giovin scagliato per provar sue forze, tanto trascorse la nestòrea biga. Iscansossi l'Atride, e volontario i suoi destrieri rallentò, temendo che da quegli altri urtati in quello stretto non gli versino il cocchio, e al suol stramazzino essi medesmi nel voler per troppo amor di lode acccelerarsi. Intanto dietro al figlio di Nèstore l'Atride gridar s'udiva: Antìloco, non avvi il più tristo di te: va pure: a torto noi saggio ti tenemmo: ma tu premio non toccherai, per dio! se pria non giuri. Quindi animando i suoi corsier, dicea: non v'impigrite, non mi state afflitti; pria di voi perderan quelli la lena, ch'ei son vecchi ambidue. - Così lor grida, e docili i destrieri alla sua voce doppiaro il corso, e tosto li raggiunsero. Nel circo assisi intanto i prenci achei stavansi attenti ad osservar da lungi i volanti cavalli che nel campo sollevavan la polve. Idomeneo re de' Cretesi gli avvisò primiero, che fuor del circo si sedea sublime a una vedetta. E di lontano udita del primo auriga che venìa, la voce, lo conobbe, e distinse il precorrente destrier che tutto sauro in fronte avea bianca una macchia, tonda come luna. Rizzossi in piedi, e disse: O degli Achei prenci amici, m'inganno, o ravvisate quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano da quei di prima, ed altro il condottiero. Le puledre che dianzi eran davanti forse sofferto han qualche sconcio. Al certo girar primiere le vid'io la meta; or come che pel campo il guardo io volga, più non le scorgo. O che scappâr di mano all'auriga le briglie, o ch'ei non seppe rattenerne la foga, e non fe' netto il giro della meta. Ei forse quivi cadde, e infranse la biga, e le cavalle deviâr furïose. Or voi pur anco alzatevi e guardate: io non discerno abbastanza; ma parmi esser quel primo l'ètolo prence argivo Dïomede. Che vai tu vaneggiando? aspro riprese Aiace d'Oilèo. Quelle che miri da lungi a noi volar son le puledre. Più non sei giovinetto, o Idomenèo: la vista hai corta, e ciance assai, né il farne molte t'è bello ov'altri è più prestante. Quelle davanti son, qual pria, d'Eumelo le puledre, e ne regge esso le briglie. E a lui cruccioso de' Cretesi il sire: Malèdico rissoso, in questo solo tra noi valente, ed ultimo nel resto, villano Aiace, deponiam su via un tripode o un lebète, e Agamennóne giudichi e dica che corsier sian primi, e pagando il saprai. Sorgea parato a far risposta con acerbi detti lo stizzito Oilìde, e la contesa crescea: ma grave la precise Achille: Fine, o duci, a un ontoso ed indecoro parlar che in altri biasmereste. In pace sedetevi e guardate. I gareggianti corridori son presso, e voi ben tosto chi sia primo saprete, e chi secondo. Fra questo dire, a furia ecco il Tidìde avanzarsi, e le groppe senza posa tempestar de' cavalli che sublimi divorano la via. Schizzi di polve incessanti percuotono l'auriga. D'ôr raggiante e di stagno si rivolve dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio che appena vedi della ruota il solco nella sabbia sottil. Giunto alle mosse, fra le plaudenti turbe il vincitore fermossi. Un rivo di sudor dal collo e dal petto scorrea degli anelanti corsieri, ed esso dal lucente carro leggier d'un salto al suol gittossi, e al giogo lo scudiscio appoggiò. Né stette a bada Stenelo, il forte suo scudier, che pronto il tripode si tolse e la donzella premio del corso, e consegnato il tutto ai prodi amici, i corridor disciolse. Secondo giunse Antìloco che avea non per rattezza di destrier precorso Menelao, ma per arte; e nondimeno questi a tergo gli è sì, che quasi il tocca. Quanto si scosta dalla ruota il piede di corsier che pel campo alla distesa tragge sul cocchio il suo signor, lambendo co' crini estremi della coda il cerchio del volubile giro che diviso da minimo intervallo ognor si volve dietro i rapidi passi; iva l'Atride sol di tanto discosto allor dal figlio di Nèstore, quantunque egli da prima fosse rimasto un trar di disco indietro. Ma dell'agamennònia Eta fu tale la prestezza e il valor, che tosto il giunse. E l'avrìa pure oltrepassato, e fatta non dubbia la vittoria, ove più lunga stata si fosse d'ambedue la corsa. Seguìa l'Atride Merïon, preclaro scudier d'Idomenèo, distante il tiro d'una lancia, perché belli, ma pigri i corridori egli ebbe, e perché desso era il men destro nel guidar la biga. Ultimo ne venìa d'Admeto il figlio, a stento il cocchio traendo, e dinanzi cacciandosi i destrieri. Lo compianse, come lo vide, Achille, e circondato dagli Achei, profferì queste parole: Ultimo giunge il più valente. Or via, diamgli il premio secondo; egli n'è degno. Ma il primo al figlio di Tidèo si resti. Lodâr tutti il decreto, e fra gli applausi degli Achei sull'istante egli donata la giumenta gli avrìa, se posta in campo la sua ragione Antìloco al Pelìde non si volgea dicendo: Achille, io teco mi corruccio davver, se il tuo disegno metti ad effetto. Perché un Dio gli offese i cavalli ed il cocchio, e non gli valse la sua prodezza, mi vorrai tu dunque il mio premio rapir? Ché non pors'egli prima ai numi i suoi voti? Ei non sarìa ultimo giunto nell'illustre aringo. Ché se di lui pietà ti move, e questo al cor t'è grato, nella tenda hai molte d'auro e bronzo conserve, hai molto gregge, hai fanciulle e cavalli. E tu il presenta di queste cose, e sian maggiori ancora, ma in altro tempo, o se il vuoi, pure adesso, onde ten vegna degli Achei la lode. Ma questa io non vo' darla, e dovrà meco sperimentarsi ogni uom che la pretenda. Delle franche d'Antìloco parole compiaciuto, sorrise il divo Achille, cui caro amico egli era; e gli rispose: Antìloco, tu vuoi che s'abbia Eumelo di ciò che in serbo io tengo, altro presente; e l'avrà. Gli darò d'Asteropeo la di bronzo lorica, a cui dintorno scorre un bell'orlo di fulgente stagno; lavoro di gran pregio. - E così detto, al suo fedele Automedonte impose di recar dalla tenda la lorica. Volò quegli, e recolla al suo signore che in man la pose dell'allegro Eumelo. Contro Antìloco allor surse il cor pieno di doglia e d'ira Menelao. L'araldo misegli tosto nelle man lo scettro, e silenzio intimò. Quindi l'eroe così a dir prese: O tu, che per l'innanzi grido avevi di saggio, che facesti? Disonestasti, o Antìloco, la mia gloria, e cacciati per inganno avanti li tuoi corsieri assai da meno, i miei sconciamente offendesti. Or voi qui fate, prenci achivi, ragione ad ambedue senza rispetti; ch'io non vo' che poi dica qualcuno degli Achei: L'Atride colle menzogne Antìloco aggravando via la giumenta si menò, vincendo di cavalli non già, ma di possanza e di forza. Ma che? Senza paura di biasmo io stesso finirò la lite, e fia retto il giudizio. Orsù, t'accosta, prode alunno di Giove, e giusta il rito statti innanzi alla biga, e d'una mano impugnando la sfera agitatrice, e sì coll'altra i corridor toccando, giura a Nettunno non aver volente né con frode impedito il cocchio mio. Re Menelao, mi compatisci, accorto l'altro rispose: giovinetto ancora son io: tu d'anni e di virtù mi vinci, e dell'etade giovanil ben sai i difetti: cuor caldo e poco senno. Siimi dunque benigno. Ecco a te cedo l'ottenuta giumenta; e s'altro brami del mio, darollo di cuor pronto, e tosto, anzi che l'amor tuo per sempre, o prence, perdere e farmi ai sommi iddii spergiuro. Sì dicendo, di Nèstore il buon figlio la giumenta condusse, ed alle mani la ponea dell'Atride a cui di gioia intenerissi il cor. Siccome quando su i sitibondi culti la rugiada spargesi e avviva le crescenti spighe: a te del pari, o Menelao, nel petto si sparse la letizia, e dolcemente gli rispondesti: Antìloco, a te cedo, deposta l'ira, io stesso. Unqua non fosti né leggier né bizzarro. Oggi fu vinto da sconsigliata giovinezza il senno. Ma il ben guardarsi dagl'inganni è bello co' maggiori. Nessun m'avrìa placato sì facilmente degli Achei: ma molto coll'egregio tuo padre e col fratello per mia cagion tu soffri, e molto sudi; perciò m'arrendo al tuo pregare, e questa, ch'è mia, ti dono, a fin che ognun si vegga che né fier né superbo ho il cor nel petto. Diè, ciò detto, d'Antìloco al compagno Nöemón la giumenta, indi si tolse il fulgido lebète; e Merïone, che quarto giunse, i due talenti d'oro. Restava il quinto guiderdon, la coppa. La prese Achille, e traversando il pieno circo, accostossi al buon Nestorre, e lieto presentolla all'eroe con questi accenti: Tieni, illustre vegliardo, e questo dono ricordanza ti sia delle funèbri pompe del nostro Pàtroclo, cui, lasso! non rivedrem più mai. Questo vogl'io che gratuito sia, poiché del cesto, e dell'arco il certame e della lotta, e del corso pedestre a te si vieta dalla triste vecchiezza che ti grava. Tacque, e la coppa fra le man gli mise. Lieto il veglio accettolla, e sì rispose: Ben parli, o figlio: le mie forze tutte sono inferme, o mio caro: il piè va lento: dispossato mi pende dalle spalle l'un braccio e l'altro. Oh! giovine foss'io e intero di vigor siccome il giorno che in Buprasio gli Epei diero al sepolcro il rege Amarincèo, proposti i ludi dai regali suoi figli! Ivi nessuno né degli Epei né de' medesmi Pilii pari mi stette di valor, né manco de' magnanimi Etòli. Io vinsi al cesto il figliuolo d'Enòpe Clitomède, Alceo Pleurònio nella lotta a cui m'avea sfidato: superai nel corso l'agile Ificlo, e nel vibrar dell'asta Polidoro e Filèo. Soli all'equestre lizza innanzi m'andâr d'Attore i figli, che due contr'un gelosi invidiârmi una vittoria d'infinito prezzo. Indivisi gemelli, uno reggeva sempre sempre i destrier, l'altro di sferza li percotea. Tal fui già tempo: or lascio siffatte imprese ai giovinetti, e forza m'è l'obbedire alla feral vecchiezza. Ma tra gli eroi fui chiaro anch'io. Tu segui del morto amico ad onorar la tomba co' fùnebri certami. Il tuo bel dono m'è caro, e il prendo. Mi gioisce il core al veder che di me, che t'amo, ognora sei memore, e sai quale al mio canuto crine si debba dagli Achivi onore: di ciò ti dien gli Dei larga mercede. Tutta udita di Nestore la lode, entrò il Pelìde nella calca, e il duro pugilato propose. Addur si fece ed annodar nel circo una gagliarda infaticabil mula, a cui già il sesto anno fiorìa, non doma, ed a domarsi malagevole: premio al vincitore. Pel vinto pose una ritonda coppa. Indi surse, e parlava: Atridi, Achei, ecco i premii alli due che valorosi vorranno al cesto perigliarsi. Quegli, cui doni amico la vittoria il figlio di Latona, e l'affermino gli Achei, s'abbia la mula, e il perditor la coppa. Disse, e un uom si levò forte, membruto, pugilatore assai perito, Epèo, di Panope figliuol. Stese alla mula costui la mano, e favellò: S'accosti chi vuol la coppa, ché la mula è mia. Niun degli Achivi vincerammi, io spero, nel certame del cesto, in che mi vanto prestantissimo. E che? forse non basta che agli altri io ceda in battagliar? Non puote a verun patto un solo esser di tutte arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto proverà ciò che dico: al mio rivale spezzerò il corpo e l'ossa. Abbia vicino molti assistenti a trasportarlo pronti fuor della lizza da mie forze domo. Tacque, e tutti ammutiro. Eravi un figlio del Taleònio Mecistèo, di quello che un dì nell'alta Tebe ai sepolcrali ludi venuto del defunto Edippo, tutti vinse i Cadmei. Costui di nome Eurïalo, e guerrier di divo aspetto, fu il solo che s'alzò. Molto dintorno gli si adoprava il grande Dïomede, e co' detti il pungea, lui desïando vincitore. Egli stesso al fianco il cinto gli avvinse, e il guanto gli fornì di duro cuoio, già spoglia di selvaggio bue. Come in punto si furo, ambi nel mezzo presentârsi gli atleti, e sollevate l'un contra l'altro le robuste pugna, si mischiâr fieramente. Odesi orrendo sotto i colpi il crosciar delle mascelle, e da tutte le membra il sudor piove. Il terribile Epèo con improvvisa furia si scaglia all'avversario, e mentre questi bada a mirar dove ferire, Epèo la guancia gli tempesta in guisa, che il meschin più non regge, e balenando con tutto il corpo si rovescia in terra. Qual di Borea al soffiar l'onda sul lido gitta il pesce talvolta, e lo risorbe; tale l'invitto Epèo stese al terreno il suo rivale, e tosto generosa la man gli porse, e il rïalzò. Pietosi accorsero del vinto i fidi amici che fuor del circo lo menâr gittante atro sangue, e i ginocchi egri traente col capo spenzolato, ed in disparte condottolo, il posâr de' sensi uscito: ed altri intorno gli restaro, ed altri a tor ne giro la ritonda coppa. Tronco ogn'indugio, Achille il terzo giuoco propose, il giuoco della dura lotta, e de' premii fe' mostra; al vincitore un tripode da fuoco, e a cui di dodici tauri il valore dagli Achei si dava, ed al perdente una leggiadra ancella quattro tauri estimata, e che di molti bei lavori donneschi era perita. Rizzossi Achille, e a quegli eroi rivolto, Sorga, disse, chi vuole in questo ludo del suo valor far prova. Immantinente surse l'immane Telamònio Aiace, e il saggio mastro delle frodi Ulisse. Nel mezzo della lizza entrambi accinti presentârsi, e stringendosi a vicenda colle man forti s'afferrâr, siccome due travi che valente architettore congegna insieme a sostener d'eccelso edificio il colmigno, agli urti invitto degli aquiloni. Allo stirar de' validi polsi intrecciati scricchiolar si sentono le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono pe' larghi dossi e per le coste i lividi rosseggianti di sangue. Ambi del tripode a tutta prova la conquista agognano, ma né Ulisse può mai l'altro dismuovere e atterrarlo, né il puote il Telamònio, ché del rivale la gran forza il vieta. Gli Achei noiando omai la zuffa, Aiace all'emolo guerrier fe' questo invito: Nobile figlio di Laerte, in alto sollevami, o sollevo io te: del resto abbia Giove la cura. E così detto, l'abbranca, e l'alza. Ma di sue malizie memore Ulisse col tallon gli sferra, al ginocchio di retro ove si piega, tale un sùbito colpo, che le forze sciolse ad Aiace, e resupino il gitta con Ulisse sul petto. Alto levossi de' riguardanti stupefatti il grido. Tentò secondo il sofferente Ulisse alzar da terra l'avversario, e alquanto lo mosse ei sì, ma non alzollo. Intanto l'altro gl'impaccia le ginocchia in guisa che sossopra ambedue si riversaro e lordârsi di polve. E già risurti sarìano al terzo paragon venuti, se il figlio di Pelèo levato in piedi non l'impedìa, dicendo: Oltre non vada la tenzon, né vi state, o valorosi, a consumar le forze. Ambo vinceste, e v'avrete egual premio. Itene, e resti agli altri Achivi libero l'aringo. Obbedîr quegli al detto, e dalle membra tersa la polve, ripigliâr le vesti. Pose, ciò fatto, i premii alla pedestre corsa: al primo un cratere ampio d'argento, messo a rilievi, contenea sei metri, né al mondo si vedea vaso più bello. Era d'industri artefici sidonii ammirando lavoro, e per l'azzurre onde ai porti di Lenno trasportato l'avean fenicii mercatanti, e in dono cesso a Toante. A Pàtroclo poi diello il Giasònide Eunèo, prezzo del figlio di Prìamo Licaone: ed or l'espose premio il Pelìde al vincitor del corso in onor dell'amico. Un grande e pingue tauro al secondo; all'ultimo d'ôr mette mezzo talento, e ritto alza la voce: Sorga chi al premio delle corse aspira. E sursero di sùbito il veloce Aiace d'Oilèo, lo scaltro Ulisse, e il Nestòride Antìloco, il più ratto de' giovinetti achei. Posti in diritta riga alle mosse, additò lor la meta il Pelìde, e diè il segno. In un baleno s'avventâr dalla sbarra, e innanzi a tutti l'Oilìde spiccossi: Ulisse a lui vicino si spingea quanto di snella tessitrice al sen candido la spola, quando presta dall'una all'altra mano la gitta, e svolge per la trama il filo, e sull'opra gentil pende col petto: così l'incalza Ulisse, e col seguace piè ne preme i vestigi anzi che s'alzi il polverìo dintorno; e sì correndo gli manda il fiato nella nuca. Un grido sorge di plauso d'ogni parte, e tutti gli fan cuore alla palma a cui sospira. Eran del corso ormai presso alla fine, quando a Minerva l'Itaco dal core mandò questa preghiera: Odimi, o Dea, e soccorri al mio piè. - La Dea l'intese, gli fe' lievi le membra, i piè, le braccia; e come fur per avventarsi entrambi ad un tempo sul premio, l'Oilìde da Minerva sospinto sdrucciolò in lubrico terren sparso del fimo de' buoi mugghianti dal Pelìde uccisi di Pàtroclo alla pira. Ivi il caduto nari e bocca insozzossi. Il precorrente divo Ulisse il cratere ampio si prese, e l'Oilìde il bue. Della selvaggia fera il corno impugnò l'eroe doglioso, la lordura sputando, e fra la turba ruppe in questo lamento: Empio destino! Per certo i piedi mi rubò la Dea che da gran tempo va d'Ulisse al fianco, e qual madre sel guarda. - Accompagnaro tutti il suo cruccio con un dolce riso. Ultimo giunto Antìloco si tolse l'ultimo premio, e sorridendo disse: Amici, i numi, lo vedete, onorano i provetti mortali. Aiace innanzi mi va di poca etade: Ulisse al tempo de' nostri padri è nato, e nondimeno egli è rubizzo e verde, e nullo al corso superarlo potrìa, tranne il Pelìde. Questo sol disse: e l'esaltato Achille così rispose: Antìloco, non fia detta invan la tua lode. Eccoti d'oro altro mezzo talento. - E sì dicendo gliel porse, e quegli giubilando il prese. Dopo ciò, fe' recarsi, e nell'arena depose Achille una lunghissim'asta, uno scudo ed un elmo, armi rapite già da Patròclo a Sarpedonte; e ritto nel mezzo degli Achei, Vogliamo, ei disse, che per l'esposto guiderdone armati due guerrieri de' più forti con acuto tagliente acciar davanti all'adunanza combattano. Chi pria punga la pelle dell'avversario, e rotte l'armi, il sangue ne tragga, avrassi questo brando in dono di tracia lama, e bello e tempestato d'argentei chiovi. Di quest'arme io stesso Asteropèo spogliai. L'altre saranno premio comune. Ai combattenti io poscia nelle tende farò lauto banchetto. Surse subitamente al fiero invito lo smisurato Telamònio Aiace, surse del par l'invitto Dïomède, e armatisi in disparte ambo nel campo pronti alla pugna s'avanzâr gli eroi con terribili sguardi. Alto stupore tutti occupava i circostanti Achei. L'uno all'altro appressati a fiero assalto si disserrâr tre volte, e tre alla vita impetuosi s'investîr. Primiero Aiace traforò di Dïomède il rotondo brocchier, ma non la pelle dall'usbergo difesa. Indi il Tidìde sopra la penna dello scudo all'altro spinse rapido l'asta, e nella strozza gliel'appuntò. D'Aiace al fier periglio spaventârsi gli Achivi, e della pugna gridâr la fine, e premio egual. Ma il brando col bel cinto l'eroe diello al Tidìde. Grezzo, qual già dalla fornace uscìo, un gran disco il Pelìde allor nel mezzo collocò. Lo solea l'immensa forza scagliar d'Eezïone; a costui morte diè poscia il divo Achille, e nelle navi con altre spoglie si portò quel peso. Ritto alzossi, e gridò: Sorga chi brama così bel premio meritarsi. In questo il vincitor s'avrà per cinque interi giri di Sole di che all'uopo tutto provveder de' suoi campi anche remoti: né suoi bifolchi né pastori andranno per bisogno di ferro alla cittade, ché questo ne darà quanto è mestiero. Levossi il bellicoso Polipete; levossi Leontèo, forza divina; levossi Aiace Telamònio, e seco il muscoloso Epèo. Locârsi in fila, e primo Epèo scagliò l'orbe rotato, ma sì mal destro, che ne rise ognuno. Il rampollo di Marte Leontèo fu secondo a lanciar: terzo il gran figlio di Telamone, che con man robusta ogni segno passò: quarto alla fine con fermo polso Polipete il disco afferrò. Quanto lungi un pastorello gitta il vincastro che rotato in alto vola sopra l'armento; andò di tanto fuor del circo il suo tiro. Applause tutto il consesso: affollârsi i fidi amici del forte Polipete, e alla sua nave portâr del disco la pesante massa. Invitò quindi i saettieri, e in mezzo dieci bipenni espose e dieci accette; e piantato lontano nell'arena un albero navale, avvinse a questo con sottil fune al piede una colomba, segno alle frecce. Le bipenni prenda chi l'augel coglie, e le si porti. Quello che il fallisca, e a toccar vada la fune, essendo inferïor, s'abbia l'accette. Ciò detto appena, presentossi il forte re Teucro, e Merïon d'Idomenèo prode sergente, e in un sonoro elmetto agitate le sorti, uscì primiero Teucro, e tosto lo stral tirò di forza. Ma perché non aveva votata a Febo di primo-nati agnelli un'ecatombe, sfallì l'augello (ché tal lode il Dio gl'invidïò); sol colse al piè la fune che legato il tenea. Tagliolla il dardo; libera la colomba a volo alzossi per lo cielo, e fuggì; cadde la fune, e di plausi sonar s'udìa l'arena. Ratto allora di mano a Teucro tolse Merïon l'arco, e ben presa la mira colla cocca sul nervo, al saettante nume promise un'ecatombe; e in alto adocchiata la timida colomba che in vario giro s'avvolgea, la colse sotto l'ala. Passolla il dardo acuto, e ricadde, e s'infisse alto nel suolo di Merïone al piè. Ma la ferita colomba si posò sovra l'antenna, stese il collo, abbassò l'ali diffuse, e dal corpo volata la veloce alma, dal tronco piombò. Stupefatte guardavano le turbe. Allor si tolse le scuri Merïon, Teucro l'accette. Produsse Achille all'ultimo nel mezzo una lunga lunga asta, ed un lebète non vïolato dalle fiamme ancora, del valore d'un tauro, e sculto a fiori, premio alla prova delle lance. Alzossi l'ampio-regnante Atride Agamennóne e il compagno fedel del re cretese Merïon. Ma levatosi il Pelìde, trasse innanzi, e parlò: Figlio d'Atrèo, sappiam noi tutti come tutti avanzi e nel vibrar dell'asta e nella possa. Prenditi dunque questo premio, e il manda alla tua nave. A Merïon daremo, se il consenti, la lancia; ed io ten prego. Acconsentì l'Atride. A Merïone diede Achille la lancia, ed all'araldo d'Agamennón lo splendido lebète.
Finiti i ludi, s'avviâr le sciolte turbe alle navi per diverse vie, e preso il cibo, a placido riposo s'abbandonâr. Ma memore il Pelìde dell'amato compagno, in nuovo pianto scioglieasi, né serrar poteagli il sonno, di tutte cure domator, le ciglia. Di qua, di là si rivolgea membrando il valor di Patròclo, e la grand'alma, e le comuni imprese, e i tollerati guerrieri affanni insieme, e i perigliosi trascorsi flutti. E in queste ricordanze dirottamente lagrimava, ed ora giacea su i fianchi, or prono, ora supino; poi di repente in piè balzato errava mesto sul lido. E quando i campi e l'onde illumina l'Aurora, egli di nuovo, aggiogati i corsier, di retro al cocchio Ettore avvince, e trattolo tre volte di Pàtroclo dintorno al monumento, a riposar si torna entro la tenda, boccon lasciando nella polve steso l'esangue corpo. Ma del morto eroe impietosito Apollo ogni bruttura ne tien rimossa, e tutto coll'aurata egida il copre, perché nulla offesa lo strascinato corpo ne riceva. Visto del divo Ettòr lo strazio indegno, pietà ne venne ai fortunati Eterni, e il vegliante Argicida ad involarlo incitando venìan. Questo di tutti era il vivo desìo, ma non di Giuno, né di Nettunno, né dell'aspra vergine dall'azzurre pupille. Alto riposta nella mente sedea di queste Dive di Paride l'ingiuria, e la sprezzata lor beltade quel dì che a lui venute nel suo tugurio, ei preferì lor quella che di funesto amor contento il fece. Quindi l'odio immortal delle superbe contro le sacre ilìache mura, e Prìamo e tutta insieme la dardania gente. Ma il duodecimo sole apparso al mondo, Febo agli Eterni così prese a dire: Numi crudeli, che vi fece Ettorre? Forse che su gli altari a voi non arse e di mugghianti e di lanosi armenti vittime elette ei sempre? Ed or che fiera morte lo spense, che furor s'è questo di non renderne il corpo alla consorte, alla madre, al figliuolo, al genitore, al popol tutto, acciò che tosto ei s'abbia l'onor del rogo e della tomba? E tante onte a qual fine? Per servir d'Achille alle furie; d'Achille, a cui nel seno né amor del giusto né pietà s'alberga, ma cuor selvaggio di lïon che spinto dall'ardir, dalla forza e dalla fame il gregge assalta a procacciarsi il cibo. Tale il Pelìde gittò via dal petto ogni senso pietoso, e quel pudore che l'uom castiga co' rimorsi e il giova. Perde taluno ancor più cari oggetti, il fratello od il figlio. E nondimeno, finito il pianto, al suo dolor dà tregua; ché nell'uom pose il Fato alma soffrente. Ma non sazio costui della già spenta vita d'Ettorre, al carro il lega, e morto pur dintorno alla tomba lo strascina dell'amico. Non è questo per lui né utile né bello: e badi il crudo che, quantunque sì prode, egli le nostre ire non desti infurïando e tanta onta facendo a un'insensibil terra. Tacque: e irata Giunon così rispose: Se d'Ettore e d'Achille a una bilancia l'onor dee porsi, e così piace ai numi, s'adémpia, o re dell'arco, il tuo discorso. Ma di padre mortale Ettore è figlio, e mortal poppa l'allattò. Divino germe è il Pelìde, ed io nudrìa la Diva sua madre, io stessa l'educava, e sposa la concessi a Pelèo diletto ai numi. Voi tutti a quelle nozze, o Dei, scendeste, e tu medesmo, o disleal compagno de' malvagi, toccasti allor la cetra, e misto agli altri banchettasti allegro. Contro gli Dei non adirarti, o Giuno, l'interruppe il Tonante. Eguale onore dar non vuolsi, no certo, ai due guerrieri; ma carissimo ai numi era pur anco tra i Teucri tutti Ettorre, e a Giove in prima. Ostie elette mai sempre gli m'offerse, né l'are mie per esso ebber difetto mai di convivii, né di pingui odori, né di tazze libate, onor che solo ai Celesti è sortito. Ma si ponga ogni pensiero d'involar l'offeso cadavere; e sottrarlo ora di furto al fiero Achille non si può, ché Teti notte e dì gli è dintorno e tutto osserva. Pur se alcuno di voi Teti a me chiami, io tale un motto le farò discreto, che tutti accetterà di Prìamo i doni placato Achille, e renderagli il figlio. Disse, ed Iri col piè che le tempeste nel corso adegua, si spiccò. Fra Samo e l'aspra Imbro calò sovra le brune onde del mare, e il mar sotto le piante della Diva muggìa. Quindi s'immerse come ghianda di piombo che a bovino corno fidata a disertar giù scende i crudivori pesci; e in cavo speco Teti trovò che dalle sue sorelle circondata piagnea la già vicina morte del figlio che ne' frigii campi perir lungi dovea dal patrio lido. Le parve innanzi all'improvviso, e disse: Sorgi, o Teti: il gran padre a sé ti chiama. E che vuole da me l'Onnipotente? Teti rispose. Afflitta, come sono, di mischiarmi arrossisco agl'Immortali. Pur vadasi e s'adémpia il suo volere. Ciò detto, si coprì l'augusta Diva d'un atro vel di che null'altro il nero color lugùbre eguaglia, e in via si mise. Iva innanzi la presta Iri, e sonora intorno a lor s'apria l' onda marina. Sul lido emerse al ciel volaro: e Giove trovâr seduto tra gli accolti Eterni. Qui Teti accanto al sommo Iddio s'assise (cesso a lei da Minerva il proprio seggio): un aureo nappo in man Giuno le pose con dolci accenti di conforto; ed ella vôtollo, e il rese grazïosa. Allora il gran padre dicea queste parole: Teti, malgrado il tuo dolor (ch'io tutto ben conosco e so quanto il cor t'aggrava), tu salisti all'Olimpo, ed io dirotti la cagion del chiamarti. È questo il nono giorno che in cielo si destò tra i numi pel morto Ettòr gran lite e per Achille. Voleano i più che l'Argicida il corpo n'involasse di furto. Io non v'assento e per l'onor d'Achille, e pel rispetto e per l'amor ch'io t'aggio e aver ti voglio eternamente. Frettolosa adunque scendi, o Diva, sul campo, e al figlio porta i miei precetti. Digli che adirati son con esso gli Dei, ch'io stesso il sono sovra tutti, da che sì furibondo agli strazii ei rattien l'ettòrea salma, e per riscatto non la rende ancora. Ma renderalla, se il mio cenno ei teme. A Prìamo intanto io spedirò di Giuno la messaggiera, ond'egli immantinente ito alle navi degli Achei, co' doni plachi il Pelìde, e il figlio suo redima. Obbedïente a quel parlar la Diva mosse i candidi piedi, e dall'Olimpo scese d'un salto al padiglion d'Achille. Il trovò sospiroso; affaccendati a lui dintorno i suoi diletti amici apprestavan la mensa, ucciso un grande e lanoso arïète. Entrò, s'assise dolce al suo fianco la divina madre, accarezzollo colla destra, e disse: E fino a quando, o figlio, in pianti e lutti ti struggerai, immemore del cibo, e deserto nel letto? Eppur di cara donna l'amplesso il cor consola: il tempo, ch'a me vivrai, gli è breve, e vïolenta già t'incalza la Parca. Or via, m'ascolta, ch'io di Giove a te vengo ambasciatrice. I numi, ed esso primamente, sono teco irati, perché nel tuo furore ostinato ritieni appo le navi d'Ettore il corpo, e al genitor nol rendi. Rendilo, e il prezzo del riscatto accetta. E ben, rispose sospirando Achille, venga chi lo redima e via sel porti, se tal di Giove è l'assoluto impero. Mentre in questo parlar stassi col figlio la genitrice Dea dentro la tenda, Giove alla sacra Troia Iri spedìa. Su, t'affretta, veloce Iri, e dal cielo vola in Ilio, ed a Prïamo comanda che alle navi si tragga e seco apporti a riscatto del figlio eletti doni, onde si plachi del Pelìde il core. Ma solo ei vada, né verun lo scorti de' Teucri, eccetto un attempato araldo che d'un plaustro mular segga al governo, su cui la salma dal Pelìde uccisa alla cittade trasportar. Né tema di morte il cor gli turbi o d'altro danno. Gli darem l'Argicida a condottiero, che fin d'Achille al padiglion lo guidi. L'eroe vedrallo al suo cospetto, e lungi dal porlo a morte, terrà gli altri a freno, ch'ei non è stolto né villan né iniquo, e benigno farassi a chi lo prega. Ratta, come del turbine le penne, partì la Diva messaggiera, e a Prìamo giunta, il trovò tra pianti e grida. I figli dintorno al padre doloroso accolti inondavan di lagrime le vesti. Stavasi in mezzo il venerando veglio tutto chiuso nel manto, ed insozzato il capo e il collo dell'immonda polve di che bruttato di sua mano ei s'era sul terren voltolandosi. La turba delle misere figlie e delle nuore empiea la reggia d'ululati, e quale ricordava il fratel, quale il marito, ché valorosi e molti eran caduti sotto le lance degli Achei. Comparve improvvisa davanti al re canuto la ministra di Giove, e a lui che tutto al vederla tremò, dicea sommesso: Prìamo, fa core, né timor ti prenda. Nunzia di mali non vengh'io, ma tutta del tuo meglio bramosa. A te mi manda l'Olimpio Giove che lontano ancora su te veglia pietoso. Ei ti comanda di redimere il figlio, e recar molti doni ad Achille per placarlo. A lui vanne adunque, ma solo, e che nessuno t'accompagni de' Troi, salvo un araldo d'età provetta, reggitor del plaustro che il corpo trasportar del figlio ucciso ti dee qua dentro: né temer di morte o d'altra offesa. Condottiero avrai l'Argicida che te fino al cospetto d'Achille scorterà. Lungi l'eroe dal trucidarti, terrà gli altri a freno. Ei non è stolto né villan né iniquo, e benigno farassi a chi lo prega. Disse, e sparve. Riscosso il re dolente, senza punto indugiarsi, ai figli impone d'apprestargli il mular plaustro veloce, e di legar su quello una grand'arca. Indi salito ad un'eccelsa stanza odorosa di cedro, ov'egli in serbo tenea di molti preziosi arredi, chiamò dentro la moglie Ecuba, e disse: Infelice, m'ascolta: la celeste messaggiera recommi or or di Giove un comando. Egli vuol che degli Achei m'incammini alle navi, ed al Pelìde il prezzo io porti del diletto figlio. Che ne senti? A quel campo, a quelle tende certo mi spinge fortemente il core. Ululò la consorte, e gli rispose: Misera! ahi dove ti fuggìa quel senno che alle tue genti e alle straniere un giorno glorïoso ti fea? Solo alle navi inimiche avvïarti? esporti solo alla presenza di colui che tanti figli t'uccise? oh cuor di ferro! e quale, s'ei ti scopre, se cadi in suo potere, qual mai pietade o riverenza speri da quell'alma crudele e senza fede? Deh piangiamlo qui soli. Era destino dalle Parche filato all'infelice, quand'io meschina il partorii; che lungi dai genitori satollar dovesse d'un barbaro i mastini. Oh potess'io stretto tenerne fra le mani il core, e strazïarlo, divorarlo! Allora del mio figlio sarìa sconta l'offesa, ch'ei da codardo non morì, ma in campo per la patria pugnando, e fermo il piede, senza smarrirsi o declinar la fronte. Cessa, il vecchio riprese: il mio partire è risoluto; non mi far ritegno, non volermi tu stessa esser funesta auguratrice: il distornarmi è vano. Se mi desse un mortal questo comando, o aruspice o indovino o sacerdote, lo terremmo menzogna, e spregeremmo: ma vidi io stesso, io stesso udii la Diva. Dunque si vada, ed obbediam. Se il Fato vuol che fra' Greci io pera, io pure il voglio. Morrò trafitto, ma stringendo il figlio, e tutto il dolce esaurirò del pianto. Aprì ciò detto, i bei forzieri, e fuora dodici ne cavò splendidi pepli, ed altrettante clamidi e tappeti e tuniche ed ammanti, e dieci insieme aurei talenti, due forbiti tripodi, quattro lebèti, e finalmente un nappo bellissimo, dai Traci avuto in dono quando andovvi orator; raro presente: e nondimen di questo pure il veglio si fe' privo: cotanto al cor gli preme il riscatto del figlio. Uscito ei quindi, tutto discaccia de' Troiani il vulgo ai portici raccolto, e acerbo grida: Via, perversi, di qua: forse vi manca domestico dolor, ché qui venite ad aggravarmi il mio? forse n'è poco l'alto affanno in che Giove mi sommerse il più forte togliendomi de' figli? Ma voi medesmi vel saprete in breve, voi che senza difesa, or ch'egli è morto, sotto le spade degli Achei cadrete. Ma deh! pria che veder Troia distrutta, deh ch'io discenda alla magion di Pluto. Così grida il tapino, e con lo scettro fuor ne mette la turba che sommessa si dileguava. Irrequïeto poscia i suoi figli bravando li rampogna, Eleno e Pari e Antifono e Pammone e l'illustre Agatone e il prode in guerra buon Polite e Dëìfobo ed Agàvo, di divina sembianza giovinetto, ed Ippotòo. Si volge a questi nove con acerbi rabbuffi il doloroso, e, Studiatevi, grida: a che vi state, nequitosi infingardi? oh foste tutti spenti in vece d'Ettorre! Oh me infelice! Re dell'eccelsa Troia io generai fortissimi figliuoli, e nullo in vita ne rimase. Caduto è il dëiforme mio Mèstore; caduto è il bellicoso Tròilo di cocchi agitatore; ed ora Ettore cadde, quell'Ettòr che un Dio fra' mortali parea; no, d'un mortale figlio ei non parve, ma d'un Dio. La guerra mi tolse i buoni, e mi lasciò cotesti vituperii; sì voi, prodi soltanto alle danze, agl'inganni, alle rapine. Su, che si tarda? Apparecchiate il carro, ponetevi que' doni, e vi spedite, onde senza più starmi io m'incammini. Rispettosi al garrir del genitore corser quelli e dier fuora incontanente l'agile plaustro tutto nuovo e bello, e una grand'arca vi legâr di sopra. Indi un giogo mulin di bosso, ornato d'un umbilico con anel ben messo, dal pïuòlo spiccâr: poscia di nove cubiti tratta la giogal gombìna, al capo accomodâr del liscio temo acconciamente il giogo, e sovrapposto alla caviglia del timon l'anello, con triplicato giro all'umbilico l'avvinghiâr quinci e quindi, e fatto un nodo, della gombìna ripiegâr la punta nella parte di sotto. Ciò finito, giù recâr dalla stanza i destinati doni al riscatto dell'ettòrea testa, immensi doni; e sul pulito plaustro gl'imposero, e del plaustro al giogo addussero senza ritardo due gagliarde mule, de' Misii illustre dono al re troiano. Quindi allestiti presentaro al padre del regale suo cocchio i corridori, cui Prìamo stesso governar solea ne' nitidi presepi: ed or gli accoppia ei medesmo alla biga il mesto veglio sotto i portici eccelsi, esso e il suo fido araldo, entrambi pensierosi e muti. Féssi allor la dolente Ecuba incontro al re marito, nella man tenendo di soave licore un aureo nappo, onde ai numi libasse anzi il partire. Stette avanti ai corsieri, e, Tien, gli disse, liba a Giove, e lo prega che ti voglia dai nemici tornar salvo al tuo tetto, poiché, malgrado il mio dissenso, hai ferma la tua partenza. Or tu la supplicante voce innalza all'idèo Giove nemboso, che d'alto guarda la cittade, e chiedi che messaggier ti mandi alla diritta quel fortissimo suo veloce augello sovra tutti a lui caro, onde tal vista il tuo vïaggio affidi al campo acheo. Se il Dio ricusa d'invïarti questo suo propizio messaggio, io ti scongiuro di non rischiar tuoi passi a quelle navi, e di dar bando al fier desìo che porti. Facciasi, o donna, il tuo voler, rispose il nobile vegliardo: ai numi è buono alzar le palme ed implorar mercede. Disse; e all'ancella dispensiera impose di versargli una pura onda alle mani; e l'ancella appressossi, e colla manca sostenendo il bacin, versò coll'altra da tersa idria l'umor. Lavato ei prese l'offerta coppa, e ritto in piè nel mezzo dell'atrio, in atto supplicante alzati gli occhi al cielo, libò con questi accenti: Giove massimo Iddio, che glorïoso dall'Ida imperi, fa che grato io giunga ad Achille, e pietà di me gl'ispira. Mandami a dritta il tuo veloce e caro re de' volanti, e ch'io lo vegga: e certo per lui del tuo favore, alle nemiche tende i miei passi volgerò sicuro. Esaudì Giove il prego, e il più perfetto degli augurii mandò, l'aquila fosca, cacciatrice, che detta è ancor la Bruna. Larghe quanto la porta di sublime stanza regal spiegava il negro augello le sue vaste ali, dirigendo a destra sulla cittade il volo. Esilarossi a tutti il core nel vederla. Il veglio montò il bel cocchio frettoloso, e fuora dei risonanti portici lo spinse. Traenti il plaustro precedean le mule dal saggio Idèo guidate, e lo seguièno della biga i corsier che il re canuto per l'ampie strade colla sferza affretta. L'accompagnan piangendo i suoi più cari, come se a morte ei gisse. Alfin venuti alle porte, lasciârsi. Il re discese verso il campo nemico, e lagrimosi nella cittade ritornârsi i figli. Vide Giove dall'alto i due soletti pellegrini inoltrarsi alla pianura. Pietà gli venne dell'antico sire, e a Mercurio parlò: Diletto figlio, tu che guida ai mortali esser ti piaci, e pietoso gli ascolti, va veloce, ed alle navi achee Prìamo conduci occulto in guisa che nessuno il vegga de' vigilanti Argivi e se n'accorga, pria che d'Achille alla presenza ei sia. Mercurio ad obbedir tosto s'accinge i precetti del padre. E prima ai piedi i bei talari adatta. Ali son queste d'incorruttibil auro, ond'ei volando l'immensa terra e il mar ratto trascorre collo spiro de' venti. Indi la verga, che dona e toglie a suo talento il sonno, nella destra si reca, e scioglie il volo. In un batter di ciglio all'Ellesponto giunge e al campo troian. Qui prende il volto di regal giovinetto a cui fiorìa del primo pelo la venusta guancia, e, così fatto, il nume s'incammina. Già Prìamo con Idèo d'Ilo la tomba avea trascorsa, e qui sostato alquanto, alla chiara corrente abbeverava e le mule e i destrier. L'ombra notturna sulla terra scendea, quando l'araldo del nume s'avvisò che alla lor volta già s'appressava, e sbigottito disse: Bada, o re; qui si vuol tutta prudenza. Veggo un nemico, e siam perduti. O ratto diamci in fuga, o abbracciam le sue ginocchia implorando pietà. - Smarrissi il veglio, il terror gli arricciò su le canute tempie le chiome, il brivido gli corse per le tremule membra; e stupidito s'arrestò: Ma si fece innanzi il nume, e presolo per mano interrogollo: Dove, o padre, dirigi esti corsieri così pel buio della dolce notte mentre gli altri han riposo? E non paventi i furibondi Achei, che ti son presso, fieri nemici? Se qualcun di loro per l'ombra oscura portator ti coglie di quei tesori, che farai? Garzone tu non sei, né cotesto che ti segue, onde far petto a chi t'assalti infesto. Ma di me non temer, ch'io qui mi sono in tuo danno non già, ma in tua difesa, perocché come padre a me sei caro. E Prìamo a lui: La va, come tu dici, mio dolce figlio. Ma propizio ancora tien su me la sua mano un qualche iddio, che tal mi manda della via compagno ben augurato, come te, di corpo bello e di volto, e di mirando senno, e di beati genitor germoglio. Gli è ver, ti guarda un Dio, siccome avvisi (ripiglia il nume): ma rispondi, e schietto parlami il vero. In regïon straniera porti tu forse, per salvarli, questi prezïosi tesori? O forse tutti di spavento compresi abbandonate la città, da che spento è il tuo gran figlio che a nullo Achivo di valor cedea? Oh chi se' tu? riprese intenerito l'esimio rege, chi se' tu che parli del mio morto figliuol così cortese? E chi son dunque i tuoi parenti, o caro? Allor Mercurio: Tu mi tenti, o veglio, col tuo dimando. Or ben: nella battaglia onoratrice de' guerrieri io vidi con quest'occhi più volte il divo Ettorre, massimamente il dì che degli Achei strage egli fece col fulmineo ferro cacciandoli alle navi. Ad ammirarlo noi fermi ci stavam; ché irato Achille col sommo Atride a noi non consentìa l'entrar dentro alla mischia. Io suo soldato qua ne venni con esso in una stessa nave: di schiatta Mirmidóne io sono; Polìtore m'è padre: a lui son molte ricchezze e molta età pari alla tua, e settimo de' figli io fui sortito a questa guerra. Esplorator del campo or qui ne venni: perocché dimani di buon tempo gli Achivi alla cittade daran l'assalto. Di riposo ei sono tutti sdegnosi, e contenerne il fiero desìo di pugna più non ponno i duci. Udito questo, replicò de' Teucri l'augusto sire: Se davver soldato del Pelìde tu sei, tutto deh fammi palese il vero. Il mio figliuol giac'egli per anco intero nelle tende, o fatto, misero! in brani, lo gittò pastura de' suoi mastini l'uccisor? - No, pronto l'Argicida rispose. Ei giace intatto tuttavia dalle belve appo la nave capitana d'Achille entro la tenda senza segno d'onor. La dodicesma luce rifulse sul giacente, e ancora il suo corpo è incorrotto, ed il vorace morso de' vermi che gli estinti in guerra tutti consuma, il figlio tuo rispetta. Vero gli è ben che dell'amico intorno alla tomba, col sorgere dell'alba, spietatamente Achille lo strascina; né per ciò giunge a deturparlo, e quando tu medesmo il vedessi, maraviglia ti prenderebbe nel trovarlo tutto mondo dal tabo e fresco e rugiadoso, in ogni parte intégro, e le ferite, che molte ei n'ebbe, tutte chiuse. Tanto gl'iddii beati, a cui diletto egli era, dell'estinto tuo figlio ebber pensiero. Gioinne il vecchio, e replicò: Per certo torna in gran bene agl'Immortali offrire ogni debito onor, né il mio figliuolo, finché si visse, degli Dei gli altari dimenticò. Quind'essi alla sua morte ricordârsi di lui. Ma tu ricevi, deh ricevi da me questo bel nappo; custodiscilo, e fausti i sommi Dei, del Pelìde alla tenda m'accompagna. Buon vecchio, replicò con un sorriso l'Argicida, tu tenti l'inesperta mia giovinezza, ma la tenti in vano. Inscio Achille, non fia che doni io prenda. Temo il mio duce, e più il rubar; né voglio che guaio me n'incolga. Io scorterotti così pur senza doni e di buon grado, e per terra e per mar, come ti piace, anche d'Argo alle rive, né veruno su te le mani metterà, me duce. Così detto, balzò sopra la biga, e alle man date col flagel le briglie ne' cavalli trasfuse e nelle mule una gagliarda lena. Eran già presso delle navi alle torri ed alla fossa, e davano le scolte opra alle cene. Tutte Mercurio addormentolle, e tosto, levatene le sbarre, aprì le porte, e di Prìamo la biga, e de' bei doni l'onusto carro v'introdusse. Il passo drizzâr quindi d'Achille al padiglione, che splendido e sublime i Mirmidóni gli avean costrutto di robusto abete. Irsuto e spesso di campestri giunchi il culmine s'estolle: ampio di pali folto steccato lo circonda, e sola una trave la porta n'assicura, trave immensa, abetina, che a levarsi e a riporsi di tre chiedea la forza, ed il Pelìde vi bastava ei solo. L'aperse il nume, ed intromesso il vecchio co' recati ad Achille incliti doni, scese d'un salto a terra, e così disse: O Prìamo, io sono il sempiterno iddio Mercurio; il padre mi spedì tua guida, e qui ti lascio, ché il menarti io stesso del Pelìde al cospetto, e tanto innanzi favorire un mortale, a un Immortale disconviensi. Tu entra, ed abbracciando le sue ginocchia per la madre il prega e pel padre e pel figlio, onde si plachi. Sparve, ciò detto, ed all'olimpie cime risalì. Prìamo scese, ed alla cura de' cavalli lasciato e delle mule l'araldo, s'avvïò dritto d'Achille alle stanze riposte. Avea di Giove l'eroe diletto in quel medesmo punto dato fine alla cena. I suoi sergenti in disparte sedean. Soli al guerriero ministravano in piedi Automedonte ed Alcimo, di Marte almo rampollo. Tolta non era ancor la mensa, e ancora sedeavi Achille. Il venerando veglio entrò non visto da veruno, e tosto fattosi innanzi, tra le man si prese le ginocchia d'Achille, e singhiozzando la tremenda baciò destra omicida che di tanti suoi figli orbo lo fece. Come avvien talor se un infelice reo del sangue d'alcun del patrio suolo fugge in altro paese, e ad un possente s'appresentando, i riguardanti ingombra d'improvviso stupor; tale il Pelìde del dëiforme Prìamo alla vista stupì. Stupiro e si guardaro in viso gli altri con muta maraviglia, e allora il supplice così sciolse la voce: Divino Achille, ti rammenta il padre, il padre tuo da ria vecchiezza oppresso qual io mi sono. Io questo punto ei forse da' potenti vicini assediato non ha chi lo soccorra, e all'imminente periglio il tolga. Nondimeno, udendo che tu sei vivo, si conforta, e spera ad ogn'istante riveder tornato da Troia il figlio suo diletto. Ed io, miserrimo! io che a tanti e valorosi figli fui padre, ahi! più nol sono, e parmi già di tutti esser privo. Di cinquanta lieto io vivea de' Greci alla venuta. Dieci e nove di questi eran d'un solo alvo prodotti; mi venìano gli altri da diverse consorti, e i più ne spense l'orrido Marte. Mi restava Ettorre, l'unico Ettorre, che de' suoi fratelli e di Troia e di tutti era il sostegno; e questo pure per le patrie mura combattendo cadéo dianzi al tuo piede. Per lui supplice io vegno, ed infiniti doni ti reco a riscattarlo, Achille! Abbi ai numi rispetto, abbi pietade di me: ricorda il padre tuo: deh! pensa ch'io mi sono più misero, io che soffro disventura che mai altro mortale non soffrì, supplicante alla mia bocca la man premendo che i miei figli uccise. A queste voci intenerito Achille, membrando il genitor, proruppe in pianto, e preso il vecchio per la man, scostollo dolcemente. Piangea questi il perduto Ettorre ai piè dell'uccisore, e quegli or il padre, or l'amico, e risonava di gemiti la stanza. Alfin satollo di lagrime il Pelìde, e ritornati tranquilli i sensi, si rizzò dal seggio, e colla destra sollevò il cadente veglio, il bianco suo crin commiserando ed il mento canuto. Indi rispose: Infelice! per vero alte sventure il tuo cor tollerò. Come potesti venir solo alle navi ed al cospetto dell'uccisore de' tuoi forti figli? Hai tu di ferro il core? Or via, ti siedi, e diam tregua a un dolor che più non giova. Liberi i numi d'ogni cura al pianto condannano il mortal. Stansi di Giove sul limitar due dogli, uno del bene, l'altro del male. A cui d'entrambi ei porga, quegli mista col bene ha la sventura. A cui sol porga del funesto vaso, quei va carco d'oltraggi, e lui la dura calamitade su la terra incalza, e ramingo lo manda e disprezzato dagli uomini e da' numi. Ebbe Pelèo al nascimento suo molti da Giove illustri doni. Ei ricco, egli felice sovra tutti i viventi, il regno ottenne de' Mirmidóni, e una consorte Diva benché mortale. Ma lui pure il nume d'un disastro gravò. Nell'alta reggia prole negògli del suo scettro erede, né gli concesse che di corta vita un unico figliuolo, ed io son quello; io che di lui già vecchio esser non posso dolce sostegno, e negl'ilìaci campi seggo lontano dalla patria, infesto a' tuoi figli e a te sesso. E te pur anco udimmo un tempo, o vecchio, esser beato posseditor di quanta hanno ricchezza Lesbo sede di Màcare, e la Frigia ed il lungo Ellesponto. All'opulenza di queste terre numerosi figli la fama t'aggiungea. Ma poiché i numi in questa guerra ti cacciâr, meschino! ch'altro vedesti intorno alle tue mura che perpetue battaglie e sangue e morti? Pur datti pace, né voler ch'eterno ti consumi il dolor. Nullo è il profitto del piangere il tuo figlio, e pria che in vita richiamarlo, ti resta altro soffrire. Deh non far ch'io mi segga, almo guerriero, l'antico sire ripigliò: là dentro senza onor di sepolcro il mio diletto Ettore giace: rendilo al mio sguardo; rendilo prontamente, e i molti doni che ti rechiamo, accetta, e ne fruisci, e dìati il ciel di salvo ritornarti al tuo loco natìo, poiché pietoso e la vita mi lasci e i rai del Sole. Non m'irritar co' tuoi rifiuti, o veglio, bieco Achille riprese. Io stesso avea statuito nel cor, che alfin renduto ti fosse il figlio, perocché la diva Nerëide mia madre a me di Giove già fe' chiaro il voler. Né si nasconde al mio vedere, al mio sentir, che un nume ti fu scorta alle navi a cui veruno mortal non fôra d'inoltrarsi ardito, né le guardie ingannar, né delle porte avrìa le sbarre disserrar potuto neppur di tutto il suo vigor nel fiore. Con querimonie adunque il mio corruccio non rinfrescarmi, se non vuoi ti metta, benché supplice mio, fuor della tenda, e del Tonante trasgredisca il cenno. Tremonne il vecchio, ed obbedì. Balzossi fuor della tenda allor come lïone il Pelìde con esso i due scudieri Automedonte ed Alcimo, cui, dopo il morto amico, tra' compagni egli ebbe in più pregio ed amor. Sciolsero questi i corsieri e le mule, ed intromesso l'antico araldo l'adagiaro in seggio. Poscia dal plaustro i prezïosi doni del riscatto levâr, ma due pomposi manti lasciârvi, ed una ben tessuta tunica all'uopo di mandar coperto il cadavere in Ilio. Indi chiamate le ancelle, comandò che tutto fosse e lavato e di balsami perfuso in disparte dal padre, onde il meschino, veduto il figlio, in impeti non rompa subitamente di dolore e d'ira, sì che la sua destando anche il Pelìde contro il cenno di Giove nol trafigga. Lavato adunque dall'ancelle ed unto di balsami odorati, e di leggiadra tunica avvolto, e poi di risplendente pallio coperto, il gran Pelìde istesso alzatolo di peso, in sul ferètro collocollo; e composto i suoi compagni sul liscio plaustro lo portâr. Dal petto trasse allora l'eroe cupo un sospiro, e il diletto chiamando estinto amico sclamò: Patròclo, non volerti meco adirar, se nell'Orco udrai ch'io rendo Ettore al padre. In suo riscatto ei diemmi convenevoli doni, e la migliore parte a te sarà sacra, anima cara. Rïentrò quindi nella tenda, e sopra il suo seggio col tergo alla parete sedutosi di fronte a Prìamo, disse: Buon vecchio, il tuo figliuol, siccome hai chiesto, è in tuo potere, e nel ferètro ei giace. Potrai dell'alba all'apparir vederlo, e via portarlo. Si rivolga adesso alla mensa il pensier, ch'anco l'afflitta Nìobe del cibo ricordossi il giorno che dodici figliuoi morti le furo, sei del leggiadro e sei del forte sesso, tutti nel fior di giovinezza. Ai primi recò morte Diana, ed ai secondi il saettante Apollo, ambo sdegnati che Nìobe ardisse all'immortal Latona uguagliarsi d'onor, perché la Dea sol di due parti fu feconda, ed essa di ben molti di più. Ma i molti furo dai due trafitti. Nove volte il Sole stesi li vide nella strage, e nullo fu che di poca terra li coprisse, perché converso in dure pietre avea Giove la gente. Alfin lor diero i numi nella decima luce sepoltura. Stanca la madre del suo molto pianto, non fu schiva di cibo. Or poi fra i sassi del Sipilo deserti, ove le stanze son delle Ninfe che sul verde margo danzano d'Achelèo, cangiata in rupe sensibilmente ancor piagne, e in ruscelli sfoga l'affanno che gli Dei le diero. E noi pure, o divin vecchio, pensiamo al nutrimento. Ritornato poscia col figlio a Troia, il piangerai di nuovo, ché molto è il pianto che ti resta ancora. Così detto, levossi frettoloso, e un'agnella sgozzò di bianco pelo. La scuoiaro i compagni, e acconciamente l'apprestâr minuzzandola con molta perizia; e infissa negli spiedi, e quindi ben rosolata la levâr dal foco. Da nitido canestro Automedonte pose il pan su la mensa, ed il Pelìde spartì le carni. La man porse ognuno alle vivande apparecchiate, e spento del cibarsi il desìo, Prìamo si pose maravigliando a contemplar d'Achille le divine sembianze, e quale e quanto il portamento. Stupefatto ei pure sul dardànide eroe tenea le luci fisse il Pelìde, e il venerando volto n'ammirava e il parlar pieno di senno. Come fur sazii del mirarsi, ruppe Prìamo il tacer: Preclaro ospite mio, mettimi or tosto a riposar, ch'io possa gustar di dolce sonno alcuna stilla. Dal dì che sotto la tua man possente il mio figlio spirò, mai non fur chiuse queste palpebre, mai; ch'altro non seppi da quel punto che piangere, ululare, voltolarmi per gli atrii nella polve, mille ambasce ingoiando. Dopo tanto fiero digiuno, or ecco che gustato ho qualche cibo alfine e qualche sorso. Questo udendo, ai compagni ed all'ancelle pronto il Pelìde comandò di porre nel padiglione esterïor due letti con distesi tappeti, e porporine belle coltrici, e vesti altre vellose da ricoprirsi. Obbedïenti al cenno uscîr le ancelle colle faci in mano, e tosto i letti apparecchiâr. Di lui sollecito il Pelìde, allor gli punse di tema il cor, dicendo: Ottimo padre, dormi qua fuor. Potrìa de' prenci achivi, che qui son per consulte a tutte l'ore, recarsi a me talun, siccome è l'uso, e vederti, e ridirlo al sommo duce Agamennóne, e farsi impedimento al riscatto d'Ettorre. Or mi dichiara veracemente. A' suoi funebri onori quanti vuoi giorni? Io terrò l'armi in posa per altrettanti, e frenerò le schiere. Se ne consenti (Prïamo rispose) placide esequie al figlio mio, per certo mi fai cosa ben grata, o generoso. Siam rinchiusi, lo sai, dentro le mura; sai che n'è lungi il monte, ove la selva tagliar pel rogo, e sai quanto de' Teucri è lo spavento. Nove giorni al pianto consacreremo nelle case: al decimo arderemo la pira, e imbandirassi per la cittade il funeral banchetto. Gli darem tomba nel seguente, e l'armi nell'altro piglierem, se stremo il chiede. Buon vecchio, sia così, soggiunse Achille: tanto l'armi staran quanto tu brami. Così dicendo, la sua destra pose nella destra di quello, onde sgombrargli ogni temenza. Prïamo e l'araldo nell'atrio coricârsi; entro i recessi della tenda il Pelìde; ed al suo fianco la bella figlia di Brisèo si giacque. Tutti dormìan sepolti in dolce sonno i guerrieri e gli Dei, ma non l'amico de' mortali Mercurio, che venìa pur divisando in suo pensier la guisa di trarre, dalle guardie inosservato, fuor del dorico vallo il re troiano. Stettegli adunque su la fronte, e disse: Re, così dormi fra' nemici? e nulla ti cal del rischio in che ti trovi, uscito dagli artigli d'Achille? A caro prezzo redimesti l'amato estinto figlio. Ma per te che sei vivo, Agamennóne se qui sapratti, e tutto il campo acheo, tre volte tanto chiederanno ai figli che rimasti ti sono. - E più non disse. Destasi il vecchio sbigottito, e sveglia l'araldo: aggioga l'Argicida istesso i cavalli e le mule, e presto presto spinti i carri, invisibile traversa gli accampamenti. Alla corrente giunti del genito da Giove ondoso Xanto nell'ora che sul mondo il suo vermiglio velo dispiega di Titon l'amica, volò Mercurio al cielo, e i due canuti con gemiti e lamenti alla cittade celeravan la via. Grave del caro cadavere davanti iva il carretto, né d'uomo orecchio, né di donna ancora il fragor ne sentìa. L'udì primiera la vergine Cassandra, e su la rocca di Pergamo salita, il suo diletto padre e l'araldo riconobbe eccelsi sovra i carri, e la spoglia inanimata che sul plaustro giacea. Mise a tal vista alti gridi e ululati, e per le vie, Troi, Troiane, gridava, eccone Ettorre; accorrete, vedetelo, gli è quello che ritornando dalla pugna empiea tutti, un tempo, di gioia i vostri petti. Né verun né veruna a questo annunzio nella cittade si restò, ma tutti d'intollerando duolo il cuor compresi si versâr dalle porte, e fersi incontro al lugubre convoglio. Ivi primiere lacerandosi i crini la diletta sposa e l'augusta genitrice al carro s'avventâr furïose, e sull'amata pallida fronte abbandonâr le bocche, tutta dintorno piangendo la turba. E le lagrime, i gemiti, le grida sul deplorato Ettorre avrìan l'intero giorno consunto su le meste porte, se Prïamo dal cocchio all'inondante turba rivolto non dicea: Sgombrate al carro il varco: pascervi di pianto su quel corpo potrete entro la reggia. S'aprì la folta, passò il carro, e giunse negl'incliti palagi. Ivi deposto il cadavere in regio cataletto, il lugubre sovr'esso incominciaro inno i cantori de' lamenti, e al mesto canto pietose rispondean le donne: fra cui plorando Andròmaca, e strignendo d'Ettore il capo fra le bianche braccia, fe' primiera sonar queste querele: Eccoti spento, o mio consorte, e spento sul fior degli anni! e vedova me lasci nella tua reggia, ed orfanello il figlio di sventurato amor misero frutto, bambino ancora, e senza pur la speme che pubertade la sua guancia infiori. Perocché dalla cima Ilio sovverso ruinerà tra poco or che tu giaci, tu che n'eri il custode, e gli servavi i dolci pargoletti e le pudiche spose, che tosto ai legni achei n'andranno strascinate in catene, ed io con esse. E tu, povero figlio, o ne verrai meco in servaggio di crudel signore che ad opre indegne danneratti, o forse qualche barbaro Acheo dall'alta torre ti scaglierà sdegnoso, vendicando o il padre, o il figlio, od il fratel dall'asta d'Ettor prostrati; ché per certo molti di costoro per lui mordon la terra. Terribile ai nemici era il tuo padre nelle battaglie, e quindi è il duol che tragge da tutti gli occhi cittadini il pianto. Ineffabile angoscia, Ettore mio, tu partoristi ai genitor, ma nulla si pareggia al dolor dell'infelice tua consorte. Spirasti, e la mancante mano dal letto, ohimè! non mi porgesti, non mi lasciasti alcun tuo savio avviso, ch'or giorno e notte nel fedel pensiero dolce mi fôra richiamar piangendo. Accompagnâr co' gemiti le donne d'Andròmaca i lamenti, e li seguiva il compianto d'Ecùba in questa voce: O de' miei figli, Ettorre, il più diletto! Fosti caro agli Dei mentre vivevi, e il sei, qui morto, ancora. Il crudo Achille di Samo e d'Imbro e dell'infida Lenno su le remote tempestose rive quanti a man gli venìan, tutti vendeva gli altri miei figli; e tu dal suo spietato ferro trafitto, e tante volte intorno strascinato alla tomba dell'amico che gli prostrasti (né per questo in vita lo ritornò), tu fresco e rugiadoso or mi giaci davanti, e fior somigli dai dolci strali della luce ucciso. A questo pianto rinnovossi il lutto, ed Elena fe' terza il suo lamento: O a me il più caro de' cognati, Ettorre, poiché il Fato mi trasse a queste rive di Paride consorte! oh morta io fossi pria che venirvi! Venti volte il Sole il suo giro compì da che lasciato ho il patrio nido, e una maligna o dura sola parola sul tuo labbro io mai mai non intesi. E se talvolta o suora o fratello o cognata, o la medesma veneranda tua madre (ché benigno a me fu Prìamo ognor) mi rampognava, tu mansueto, con dolce ripiglio gli ammonendo, placavi ogni corruccio. Quind'io te piango e in un la mia sventura, ché in tutta Troia io non ho più chi m'ami o compatisca, a tutti abbominosa. Così sclamava lagrimando, e seco il popolo gemea. Si volse alfine Prìamo alla turba, e favellò: Troiani, si pensi al rogo. Andate, e dalla selva qua recate il bisogno, né vi prenda timor d'insidie. Mi promise Achille, nel congedarmi, di non farne offesa anzi che spunti il dodicesmo Sole. Disse; e muli e giovenchi in un momento sotto il giogo fur pronti, e dalle porte proruppero. Durò ben nove interi giorni il trasporto delle tronche selve. Come rifulse su la terra il raggio della decima aurora, lagrimando dal feretro levâr del valoroso Ettore il corpo, e postolo sul rogo, il foco vi destâr. Rïapparita la rosea figlia del mattin, s'accolse il popolo dintorno all'alta pira, e pria con onde di purpureo vino tutte estinser le brage. Indi per tutto queto il foco, i fratelli e i fidi amici pieni il volto di pianto e sospirosi raccolsero le bianche ossa, e composte in urna d'oro le coprîr d'un molle cremisino. Ciò fatto, in cava buca le posero, e di spesse e grandi pietre un lastrico vi fêro, e prestamente il tumulo elevâr. Le scolte intanto vigilavan dintorno, onde un ostile non irrompesse repentino assalto pria che fosse al suo fin l'opra pietosa. Innalzato il sepolcro dipartîrsi tutti in grande frequenza, e nella vasta di Prïamo adunati eccelsa reggia funebre celebrâr lauto convito. Questi furo gli estremi onor renduti al domatore di cavalli Ettorre.
Vincenzo Monti - Traduzione: ILIADE
Crise, sacerdote d’Apollo, va da Agamennone con un ricco riscatto per farsi ridare indietro la figlia Criseide, che il potente re acheo teneva con sé come sua concubina; ma l'Atride, indignato dalla sfrontatezza di quel vecchio, lo tratta male e ingiuriandolo rifiuta la sua offerta, ordinandogli poi di allontanarsi e di non farsi vedere mai più presso il suo campo e le sue navi. Il sacerdote adirato, scongiura allora Apollo di dare una lezione a tutti gli Achei, per punirli del grave affronto che si è visto costretto a subire per l'arroganza di Agamennone. Il dio l'ode e, infuriatosi per il maltrattamento di un suo sacerdote, discende in fretta dall'Olimpo e comincia a colpire gli uomini presso le navi achee con l'infallibile mira del suo arco d'argento e dei suoi dardi avvelenati, gettando una nera pestilenza su tutto l'accampamento dei Danai. Al decimo giorno dell'ecatombe Achille indice un'assemblea di tutti gli Achei per discutere dell'emergenza, e interpella Calcante, un vate, di dirgli perché Apollo si è tanto adirato con gli Achei. L'indovino spiega allora che il motivo è stato il maltrattamento del sacerdote di Apollo Crise da parte di Agamennone: questi se la prende con Calcante, accusandolo di dargli sempre e solo vaticini funesti riguardo le sue imprese, ma Achille interviene e dopo un breve scambio di parole tra i due nasce subito un attrito e comincia un vero e proprio litigio. Alla fine, dopo molti insulti e ingiuriose parole, l'Atride acconsente per logica a lasciar andare Criseide, ma per non restare senza una donna come dono decide di prendere quella del Pelide, Briseide. Achille se ne duole e irato nell’animo sfodera la sua daga e fa per lanciarla contro Agamennone, ma Atena, inviata da Era, che ha a cuore tutti e due gli eroi, lo afferra per i capelli appena in tempo e lo fa ragionare, dicendogli che un giorno molto vicino per fare ammenda a quella grave offesa gli avrebbero offerto doni tre volte superiori al maltolto. Achille, seppur a malincuore, obbedisce e, rinfoderata la spada, offende pesantemente Agamennone, annunciando inoltre che finché non gli avesse riparato quel torto, lui non avrebbe combattuto più al suo fianco, e che allora si sarebbe presto pentito, quando Ettore avrebbe fatto strage di Achei e lui sarebbe stato costretto ad assistervi, debole e impotente, lacerato nel cuore dal dolore. Dopo di che la seduta è sciolta e Agamennone dà ordine che Odisseo riporti Criseide dal padre, mentre ordina a due dei suoi araldi di andare a prendere Briseide nella tenda del Pelide e di portarla nella sua. I due, seppur a malincuore, compiono l’operazione, e Achille, vedendo che la sua donna viene condotta via a forza, scoppia a piangere e invoca la madre Teti, che accorre dalle profondità degli abissi dove dimora per consolare il figlio, che le fa un breve sunto della vicenda e le chiede di andare da Zeus perché gli venga reso l’onore dovuto. La madre si duole delle pene del figlio e gli promette che quando gli dei torneranno all’Olimpo da presso gli Etiopi, verso l’Oceano, dove erano andati per pranzo, lei andrà direttamente da Zeus e lo pregherà di esaudire la sua preghiera. Intanto parte la spedizione di Odisseo presso Crise, per riportargli la figlia; dopo molti sacrifici per deliziare e placare il dio Apollo, banchetteranno fino a sera con le carni dei sacrifici, e Crise, rasserenato nell’animo dal ritorno della figlia, pregherà il dio di cessare la sua strage sui Danai. Nel frattempo, dopo dodici giorni, gli dei sono finalmente tornati all’Olimpo e Teti, memore della promessa fatta al figlio, sale su fino al signore dei numi e dei mortali e, cingendogli le ginocchia, lo prega di dare vittoria ai Troiani fino a quando gli Achei non avessero fatto ammenda al torto subito da suo figlio e non gli avessero reso il giusto onore. Il dio della folgore, seppur a malincuore, acconsente, ma sua moglie, Era, che ha cara la sorte degli Achei, ha visto tutto e chiede irata al marito quali piani abbia mai ordito con Teti alle sue spalle. Il dio tuttavia la mette a tacere con brusche parole e il banchetto pare prender e una piega infelice, ma interviene Efesto che con le sue parole rasserena gli animi inquieti di tutti, specie della madre Era, facendo così tornare il banchetto gioioso e i numi immortali festeggeranno fino a sera, per poi tornare ognuno alla sua casa.
Per esaudire la preghiera di Teti,Zeus invia ad Agamennone un falso sogno che lo induca ad attaccare i Troiani,così,nel colmo della guerra,i Greci avvertiranno la mancanza di Achille e rimpiangeranno di averlo offeso. Convocata l’assemblea dei capi,l’Atride narra il sogno ed espone i suoi proposti,rivelando inoltre l’intenzione di annunciare all’esercito,prima del combattimento,di volersi ritirare,per saggiarne lo spirito. A questa notizia tutti i Greci esultano e sarebbero già pronti ad imbarcarsi,se non intervenisse Era che spinge Atena a trattenerli. La dea si rivolge a Ulisse,che,riluttante a rinunciare la guerra,accoglie il suo invito cercando di persuadere i Greci a non interrompere l’assedio. Viene dunque nuovamente convocata l’assemblea,nella quale solo Tersite,storpio e di animo spregevole,contesta la decisione di continuare la guerra;l’intervento deciso di Odisseo,che lo percuote con lo scettro,lo costringe a tacere e ad adeguarsi. In seguito Ulisse e Nestore esortano gli Achei a prepararsi alla battaglia,ricordando i felici presagi che avevano accompagnato l’inizio della spedizione. Nestore,dopo i sacrifici rituali,invita Agamennone a schierare l’esercito. Iride,messaggera divina,si reca,sotto le spoglie di Polite,all’assemblea dei Troiani per informare Ettore dei preparativi nemici ed esortarlo al contrattacco. Il libro si chiude con un sintetico elenco delle forze troiane e alleate.
Durante uno scontro tra Troiani e Achei, Paride si fa avanti tra la folla per combattere Menelao, il principe di Troia indossa una pelle di pantera ed è armato di arco. Ma alla vista di Menelao, Paride fugge pauroso. Ettore lo vede e lo rimprovera con dure parole: Paride prendendo coscienza della sua viltà propone di porvi rimedio con un duello in cui lui e Menelao si sarebbero sfidati per il possesso di Elena e delle sue ricchezze, e da cui sarebbe dipeso l’esito della guerra. Ettore ne è entusiasta e, dopo aver preso accordi con gli Achei e dopo aver fatto molti sacrifici, i due contendenti si ritrovano a duellare: sembra quasi che sia Menelao ad avere la meglio, ma proprio quando stava per uccidere il suo avversario, dall’Olimpo discende Afrodite che salva Paride nascondendolo in un’improvvisa nebbia e portandolo in salvo a Troia, dove riceverà anche il biasimo di Elena. Nel frattempo Menelao è furente, ma si arrabbia invano: alla fin fine Agamennone lo proclama vincitore del duello e afferma gran voce che la guerra deve finire.
Zeus vorrebbe che venisse dichiarata la vittoria di Menelao così che, il torto riparato, si sarebbe risparmiata la città e chiuso il conflitto. Ma su consiglio di Hera, che vuole ardentemente la vittoria degli Achei, Atena fa in modo che siano i Troiani a violare per primi il trattato di pace. Questa convince allora Pandaro a scoccare una freccia su Menelao. Dopo una rivista delle truppe da parte di Agamennone, la battaglia riprende.
Dove gli stessi dei sono messi a mal partito dagli uomini: Diomede ferisce Enea ma anche sua madre Afrodite giunta ad assisterlo. I Troiani vacillano quindi si riprendono con il ritorno di Enea, salvato da Apollo. Per sostenere i greci, Hera ed Atena scendono a loro volta e, grazie a questa, Diomede ferisce lo stesso Ares. Gli dei riguadagnano Olimpo.
Mentre i Troiani soccombono, Ettore chiede alla madre Ecuba di pregare Atena, e le donne troiane si recano al tempio di costei per pregarla di far vincere i troiani. Ettore incontra la moglie Andromaca vicino alle porte Scee e, dinanzi ai suoi rimproveri e alle sue lacrime, giustifica il suo posto in combattimento. Quindi, avendo stretto al petto il figlio Astianatte, raggiunge le truppe con Paride.
Consigliato indirettamente dagli dei, Ettore sfida i capi greci in duello. L’estrazione a sorte designa Aiace Telamonio. Il loro duello è interrotto dalla notte. Si approfitta dell’oscurità per la sepoltura dei morti e la costruzione da parte dei greci di un fossato e di una parete dinanzi al loro campo davanti alle navi, fatto osteggiato dal dio Poseidone. Ma anche Hera ed Atena armeggiano a favore degli Achei, duramente rampognate da Zeus. Cinaquantamila troiani dilagano per la pianura e riempiono di torce accese il buio della notte.
Zeus vieta agli altri dei di intervenire nella battaglia ed accorda il proprio favore ai Troiani,dopo averne soppesate le sorti. Ettore fa strage di Greci e sta per avventarsi su Nestore in difficoltà, ma in difesa di quest’ultimo interviene Diomede: egli vorrebbe sfidare Ettore, ma un fulmine scagliato da Zeus lo fa desistere. I Troiani costringono i Greci a ripararsi all’interno delle mura costruite a difesa delle navi. Era ed Atena intervengono ad aiutare gli Achei, ma Zeus, accortosene, invia Iride a fermarle. Cala la notte e i Teucri si accampano davanti alle mura greche. Nel campo acheo i duci si riuniscono e Agamennone propone il ritorno in patria, ma Diomede si oppone con fermezza. Quindi Agamennone compie un ultimo tentativo di convincere Achille a combattere ed invia un gruppo di delegati:Ulisse,Fenice, vecchio tutore di Achille e Diomede. L’ambasceria viene accolta dal Pelide nella sua tenda, ma l’offerta di Agamennone viene sdegnosamente rifiutata e, anzi, Achille aggiunge che il giorno seguente farà ritorno a Ftia.
I Troiani sono speranzosi ed i Greci angosciati, dunque Agamennone dice di voler ritornare in patria, poiché secondo lui quest’assedio è un’impresa vana. Diomede si oppone mentre Nestore propone di richiamare Achille. Tutti sono d’accordo con la proposta di Nestore, compreso Agamennone che decide di restituire Briseide con altri doni in aggiunta. Vengono mandati Odisseo, Aiace e Fenice. Nessuno convince Achille, ma Diomede al campo dice che domani si combatterà anche senza Achille.
Agamennone non riesce a prendere sonno pensando alla sorte del suo esercito: convoca dunque i capi greci e, su consiglio di Nestore, invia Diomede a spiare il campo nemico. Diomede sceglie Ulisse come compagno nell’impresa. Intanto nel campo troiano Dolone si offre di compiere la stessa sortita: avviatosi dunque verso le navi greche viene sopraffatto dai due nemici che lo interrogano sulla sua missione: egli, per aver salva la vita, tradisce i compagni, ma Diomede lo uccide per punirlo. I due greci, grazie alle informazioni ottenute, fanno strage tra i Traci e riescono a fuggire illesi.
La battaglia è incerta; Agamennone si batte furioso, ma viene ferito da una freccia. Ettore allora incita i suoi a combattere, viene affrontato da Diomede che riesce solo a stordirlo e viene a sua volta ferito da Paride. Poco dopo la stessa sorte capita anche ad Ulisse e Zeus infonde il terrore di Ettore nell’animo di Aiace che indietreggia. Intanto Nestore conduce Macaone ferito alla sua tenda e Achille, desideroso di notizie, manda Patroclo alla tenda di Nestore. Quest’ultimo descrive il disastro dei Greci e invita Patroclo, se proprio Achille non vuol combattere, a scendere lui stesso in battaglia con le armi di Achille.
La battaglia si è spinta sotto il muro acheo. I Greci, in particolare i due Aiaci, resistono come possono e respingono più volte gli attacchi di Sarpedonte. Intanto Zeus manda un segno di dubbia interpretazione: un'aquila vola con un serpente tra gli artigli, ma questo le si ritorce contro e la morde: Polidamante lo interpreta come presagio funesto, ma Ettore decide di continuare l’assedio e, preso un macigno, lo scaglia contro la porta del muro greco e la abbatte. I Troiani entrano nel campo avverso.
Approfittando di un attimo di distrazione di Zeus, Poseidone scende ad aiutare i Greci: infonde nuova forza ad Aiace e incoraggia Idomeneo. Quest'ultimo, insieme a Merione, assale l’ala destra troiana e miete molte vittime. Ettore, avvisato di ciò da Polidamante, si distacca dal centro della schiera, dove stava fronteggiando gli Aiaci, e soccorre l’esercito in difficoltà. Quindi torna nuovamente al centro per un corpo a corpo con Aiace Telamonio.
Nestore, vedendo l'esercito acheo in grave difficoltà, si reca da Agamennone e trova i maggiori tra i capi feriti e indecisi sul da farsi: Agamennone propone nuovamente la fuga, ma Ulisse si ribella. Decidono perciò, impossibilitati a scendere in battaglia, di incoraggiare i compagni con la voce. Intanto Era architetta un inganno contro Zeus: convince il Sonno a calare sul dio, in modo che Poseidone abbia campo libero nell’aiutare i Greci. Ciò avviene ed Aiace Telamonio riesce a colpire Ettore con un macigno, facendolo cadere a terra privo di sensi. I compagni lo traggono fuori dal combattimento, salvandolo dalla furia degli Achei.
Al risveglio, Zeus si accorge dell’inganno in cui è caduto e minaccia una punizione terribile ad Era la quale, terrorizzata, risale all’Olimpo. Zeus intanto manda Iride ad intimare a Poseidone di abbandonare la battaglia se non vuole scontrarsi col più potente fratello: Poseidone a malincuore è costretto a ritirarsi. Apollo, incaricato da Zeus di rianimare i Troiani, dà nuovo vigore ad Ettore. Sotto la sua spinta i Teucri travolgono i Greci ed arrivano fino alla nave di Protesilao, decisi ad incendiarla: l'ultima difesa è fornita da Aiace Telamonio che, armato di una trave, tenta di respingere i nemici.
Achille accoglie l’idea di Patroclo di fargli vestire le sue armi per guidare i Mirmidoni contro i Troiani, insieme a tutti gli altri Achei, ma gli dice di non sbilanciarsi troppo e di limitarsi a incutere timore nel nemico, facendo finta di essere Achille. Il piano funziona fino a che Patroclo non è slealmente colpito da Apollo che lo stordisce e lascia che siano prima Euforbo con un colpo non mortale, e poi Ettore col colpo di grazia, a finirlo. Prima di morire, Patroclo profetizza a Ettore l'imminente morte per mano di Achille tornato a combattere.
Si accende la contesa per impadronirsi del corpo di Patroclo: Menelao si pone subito a difesa delle spoglie del compagno e uccide Euforbo, ma è costretto ad invocare aiuto quando vede Ettore che gli si fa contro. Accorrono gli Aiaci, Merione e Idomeneo. Nel tumulto che segue, Ettore tenta anche, senza successo, di impossessarsi di Balio e Xanto, i divini cavalli di Achille. Menelao si reca da Antiloco, lo informa della morte di Patroclo e lo manda ad avvisare Achille; poi torna nel cuore del combattimento: insieme a Merione e difeso dagli Aiaci, che sostengono i continui assalti troiani, riesce a trasportare il corpo di Patroclo all’interno del campo acheo.
Achille, ignorando la sorte di Patroclo, si aggira inquieto davanti alla tenda quando giunge Antiloco e lo informa sui fatti: Patroclo giace e si combatte per il suo cadavere. La disperazione di Achille giunge alle orecchie di Teti che corre a rincuorare il figlio: vedendo che egli è irremovibile nel suo intento di vendetta, a costo di pagarlo con la morte, annunciata dalla profezia, si reca da Efesto per farsi forgiare armi divine. Iride esorta Achille a farsi vedere sulle mura greche per spaventare i Troiani e agevolare il trasporto della salma di Patroclo da parte dei compagni. Teti è frattanto giunta alla dimora di Efesto: il dio si mette subito al lavoro e forgia armi bellissime, tra le quali uno scudo d’oro intarsiato con figure rappresentanti le varie attività umane.
Il desiderio di vendetta di Achille è più forte della sua ira, per cui mette da parte il suo orgoglio e si riconcilia con Agamennone. I Greci si preparano alla battaglia e riacquistano le forze con un banchetto, ma Achille non riesce a mangiare e rimane a piangere sulla salma dell’amico. Atena, impietosita, stilla nel suo cuore nettare e ambrosia per dargli forza. Ormai la battaglia è prossima: Achille, terribile nelle sue nuove armi, sprona i cavalli Balio e Xanto: quest’ultimo, ispirato da Era, gli rammenta il fato che sta per compiersi. Achille sgrida il cavallo: egli è cosciente del suo destino, ma ciò non lo distoglierà da vendicarsi su Ettore.
I troiani e gli achei si preparano alla battaglia decisiva, mentre Zeus acconsente che gli dei prendano parte alla guerra: così Apollo, Artemide, Xanto, Afrodite, Ares e Leto scendono dall’Olimpo per schierarsi al lato di Troia, mentre Hermes, Atena, Poseidone, Era ed Efesto si schierano al fianco dei Danai. Achille si batte con Enea, ma nessuno dei due morirà, perché da Enea è destinata a venire la stirpe di Dardano, che un giorno assumerà il controllo dei Troiani scampati al massacro di Troia. Nel momento in cui Enea sta per essere ucciso da Achille, interverrà Poseidone a salvarlo. Dopo di che Achille ucciderà Polidoro, fratello di Ettore, che accecato dall’ira scaglia la sua lancia contro il Pelide, che viene però deviata da Atena. Achille passa al contrattacco, ma Apollo avvolge Ettore in una fitta nebbia, sottraendolo alle ire del tremendo eroe acheo, che rabbiosamente comincia a far strage degli altri Troiani intorno a lui.
Achille fa una grande strage di nemici nel fiume Scamandro, che indignato per tanta impudenza lo prega di continuare la sua strage altrove, ma il Pelide non l'ascolta e continua il massacro. Allora il dio del fiume, adirato, gli scaglia contro la vorticosa potenza delle sue acque e Achille, atterrito, fugge via, temendo di morire di una morte vergognosa. Fortunatamente interviene Efesto che col fuoco placa l'impeto delle acque, salvando l'eroe acheo. Intanto sull'Olimpo, dopo una breve scaramuccia familiare alquanto poco eroica, gli dei smettono di lottare, dato che loro vivono in un'altra dimensione, immortale e giocosa. Intanto Achille, ingannato da Apollo che ha preso le sembianze di Agenore, un guerriero troiano che poco prima l'aveva affrontato, si fa inseguire lontano dalle porte Scee, mentre tutti i fuggitivi troiani riescono a rientrare dentro Troia.
Achille ritorna sotto le mura di Troia e si trova di fronte Ettore che, nonostante le suppliche di Priamo e di Ecuba, si è deciso ad affrontarlo. Preso dal timore, Ettore fugge tuttavia. Mentre i due guerrieri fanno tre volte il giro della città, Zeus pesa il loro destino ed Ettore è condannato. Mascherata Atena gli consiglia di combattere: Achille lo uccide e trascina il suo cadavere fino alle navi, nonostante i pianti delle troiane.
Si tengono i solenni funerali di Patroclo: il rogo arde per tutta la notte: al mattino Achille indice i giochi funebri. Si tiene per prima la gara dei carri: Eumelo è in testa, ma Atena fracassa il suo giogo. Vince così Diomede, secondo arriva Antiloco che precede Menelao grazie ad una manovra scorretta: al traguardo però i due si riappacificano. Nella gara di lotta si affrontano Ulisse, con la sua astuzia, e Aiace, con la sua forza, e si ha un pareggio. La corsa è vinta da Ulisse che precede Aiace d’Oileo. Achille invita due guerrieri a combattere per vincere l’armatura di Sarpedonte: ed è Diomede che se ne appropria, sconfiggendo Aiace Telamonio. Seguono la gara di tiro con l’arco, vinta da Merione su Teucro, e quella di tiro della lancia, assegnata ad Agamennone senza bisogno di disputare la prova.
Gli dei, raccolti in un'assemblea, alla fine deliberano che Achille restituisca il corpo di Ettore ai familiari: Teti riferisce l'ordine al figlio, che non può rifiutarsi di compiere il volere degli dei. Iride intanto avverte Priamo di andare a riprendere il corpo del figlio, il quale si mette subito in viaggio verso la tenda del Pelide, guidato e protetto dal dio Hermes. Non appena il re incontra Achille, si inginocchia e lo prega di rendergli le spoglie del figlio: Achille impietosito acconsente e nottetempo Priamo tornerà a Troia, dove farà poi bruciare il corpo del figlio per rendergli le giuste onoranze funebri
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