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Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera. ____________________________ Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant'è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i' v' ho scorte. Io non so ben ridir com'i' v'intrai, tant'era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso. Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar più volte vòlto. Temp'era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch'a bene sperar m'era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone. Questi parea che contra me venisse con la test'alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l'aere ne tremesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza. E qual è quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove 'l sol tace. Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, "Miserere di me", gridai a lui, "qual che tu sii, od ombra od omo certo!". Rispuosemi: "Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia?". "Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?", rispuos'io lui con vergognosa fronte. "O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m' ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m' ha fatto onore. Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi". "A te convien tenere altro vïaggio", rispuose, poi che lagrimar mi vide, "se vuo' campar d'esto loco selvaggio; ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha più fame che pria. Molti son li animali a cui s'ammoglia, e più saranno ancora, infin che 'l veltro verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro. Di quella umile Italia fia salute per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute. Questi la caccerà per ogne villa, fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, là onde 'nvidia prima dipartilla. Ond'io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch'a la seconda morte ciascun grida; e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti. A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire; ché quello imperador che là sù regna, perch'i' fu' ribellante a la sua legge, non vuol che 'n sua città per me si vegna. In tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l'alto seggio: oh felice colui cu' ivi elegge!". E io a lui: "Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch'io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov'or dicesti, sì ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti". Allor si mosse, e io li tenni dietro.
A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere. Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento. Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute. Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia, volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino. Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza, E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati, mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori. Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento. Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato: essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro. Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone. Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne. E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici, mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle. E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo, tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi. Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce. Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !" Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli. Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata. Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? " "Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera. Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama. Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra." Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada: perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo; e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti. Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni. Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso. Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire. Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna, dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione; e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo. Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco; poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ). Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo" Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene" Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.
Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo. ____________________________ Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno m'apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate, che ritrarrà la mente che non erra. O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, qui si parrà la tua nobilitate. Io cominciai: "Poeta che mi guidi, guarda la mia virtù s'ell'è possente, prima ch'a l'alto passo tu mi fidi. Tu dici che di Silvïo il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente. Però, se l'avversario d'ogne male cortese i fu, pensando l'alto effetto ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale non pare indegno ad omo d'intelletto; ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero ne l'empireo ciel per padre eletto: la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo u' siede il successor del maggior Piero. Per quest'andata onde li dai tu vanto, intese cose che furon cagione di sua vittoria e del papale ammanto. Andovvi poi lo Vas d'elezïone, per recarne conforto a quella fede ch'è principio a la via di salvazione. Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede? Io non Enëa, io non Paulo sono; me degno a ciò né io né altri 'l crede. Per che, se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle. Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono". E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, sì che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec'ïo 'n quella oscura costa, perché, pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta. "S'i' ho ben la parola tua intesa", rispuose del magnanimo quell'ombra, "l'anima tua è da viltade offesa; la qual molte fïate l'omo ingombra sì che d'onrata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand'ombra. Da questa tema acciò che tu ti solve, dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi nel primo punto che di te mi dolve. Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiamò beata e bella, tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella: "O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto 'l mondo lontana, l'amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che vòlt'è per paura; e temo che non sia già sì smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito. Or movi, e con la tua parola ornata e con ciò c' ha mestieri al suo campare, l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata. I' son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare . Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui". Tacette allora, e poi comincia' io: "O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c' ha minor li cerchi sui, tanto m'aggrada il tuo comandamento, che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi; più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento. Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro de l'ampio loco ove tornar tu ardi". "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, dirotti brievemente", mi rispuose, "perch'i' non temo di venir qua entro. Temer si dee di sole quelle cose c' hanno potenza di fare altrui male; de l'altre no, ché non son paurose. I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale. Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento ov'io ti mando, sì che duro giudicio là sù frange. Questa chiese Lucia in suo dimando e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando -. Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov'i' era, che mi sedea con l'antica Rachele. Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t'amò tanto, ch'uscì per te de la volgare schiera? Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che 'l combatte su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -. Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno, com'io, dopo cotai parole fatte, venni qua giù del mio beato scanno, fidandomi del tuo parlare onesto, ch'onora te e quei ch'udito l' hanno". Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, per che mi fece del venir più presto. E venni a te così com'ella volse: d'inanzi a quella fiera ti levai che del bel monte il corto andar ti tolse. Dunque: che è perché, perché restai, perché tanta viltà nel core allette, perché ardire e franchezza non hai, poscia che tai tre donne benedette curan di te ne la corte del cielo, e 'l mio parlar tanto ben ti promette?". Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec'io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch'i' cominciai come persona franca: "Oh pietosa colei che mi soccorse! e te cortese ch'ubidisti tosto a le vere parole che ti porse! Tu m' hai con disiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue, ch'i' son tornato nel primo proposto. Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro". Così li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro.
Canto Terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino. ________________________ 'Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate, la somma sapïenza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'. Queste parole di colore oscuro vid'ïo scritte al sommo d'una porta; per ch'io: "Maestro, il senso lor m'è duro". Ed elli a me, come persona accorta: "Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov'i' t' ho detto che tu vedrai le genti dolorose c' hanno perduto il ben de l'intelletto". E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose. Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. E io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: "Maestro, che è quel ch'i' odo? e che gent'è che par nel duol sì vinta?". Ed elli a me: "Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli". E io: "Maestro, che è tanto greve a lor che lamentar li fa sì forte?". Rispuose: "Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa, che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa". E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, che d'ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto che morte tanta n'avesse disfatta. Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch'eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a' lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto. E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume; per ch'io dissi: "Maestro, or mi concedi ch'i' sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer sì pronte, com'i' discerno per lo fioco lume". Ed elli a me: "Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi su la trista riviera d'Acheronte". Allor con li occhi vergognosi e bassi, temendo no 'l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi. Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: "Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i' vegno per menarvi a l'altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. E tu che se' costì, anima viva, pàrtiti da cotesti che son morti". Ma poi che vide ch'io non mi partiva, disse: "Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti". E 'l duca lui: "Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude, che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude, cangiar colore e dibattero i denti, ratto che 'nteser le parole crude. Bestemmiavano Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti. Poi si ritrasser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia ch'attende ciascun uom che Dio non teme. Caron dimonio, con occhi di bragia loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s'adagia. Come d'autunno si levan le foglie l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d'Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l'onda bruna, e avanti che sien di là discese, anche di qua nuova schiera s'auna. "Figliuol mio", disse 'l maestro cortese, "quelli che muoion ne l'ira di Dio tutti convegnon qui d'ogne paese; e pronti sono a trapassar lo rio, ché la divina giustizia li sprona, sì che la tema si volve in disio. Quinci non passa mai anima buona; e però, se Caron di te si lagna, ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona". Finito questo, la buia campagna tremò sì forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia.
Canto IV, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Gesù Cristo trasse di questo luogo molte anime. _________________________ Ruppemi l'alto sonno ne la testa un greve truono, sì ch'io mi riscossi come persona ch'è per forza desta; e l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov'io fossi. Vero è che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. "Or discendiam qua giù nel cieco mondo", cominciò il poeta tutto smorto. "Io sarò primo, e tu sarai secondo". E io, che del color mi fui accorto, dissi: "Come verrò, se tu paventi che suoli al mio dubbiare esser conforto?". Ed elli a me: "L'angoscia de le genti che son qua giù, nel viso mi dipigne quella pietà che tu per tema senti. Andiam, ché la via lunga ne sospigne". Così si mise e così mi fé intrare nel primo cerchio che l'abisso cigne. Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri che l'aura etterna facevan tremare; ciò avvenia di duol sanza martìri, ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, d'infanti e di femmine e di viri. Lo buon maestro a me: "Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo' che sappi, innanzi che più andi, ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, ch'è porta de la fede che tu credi; e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio: e di questi cotai son io medesmo. Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio". Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, però che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. "Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore", comincia' io per volere esser certo di quella fede che vince ogne errore: "uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?". E quei che 'ntese il mio parlar coverto, rispuose: "Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato. Trasseci l'ombra del primo parente, d'Abèl suo figlio e quella di Noè, di Moïsè legista e ubidente; Abraàm patrïarca e Davìd re, Israèl con lo padre e co' suoi nati e con Rachele, per cui tanto fé, e altri molti, e feceli beati. E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati". Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi, ma passavam la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessi. Non era lunga ancor la nostra via di qua dal sonno, quand'io vidi un foco ch'emisperio di tenebre vincia. Di lungi n'eravamo ancora un poco, ma non sì ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco. "O tu ch'onori scïenzïa e arte, questi chi son c' hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?". E quelli a me: "L'onrata nominanza che di lor suona sù ne la tua vita, grazïa acquista in ciel che sì li avanza". Intanto voce fu per me udita: "Onorate l'altissimo poeta; l'ombra sua torna, ch'era dipartita". Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand'ombre a noi venire: sembianz'avevan né trista né lieta. Lo buon maestro cominciò a dire: "Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire: quelli è Omero poeta sovrano; l'altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene". Così vid'i' adunar la bella scola di quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola. Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto; e più d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, sì ch'io fui sesto tra cotanto senno. Così andammo infino a la lumera, parlando cose che 'l tacere è bello, sì com'era 'l parlar colà dov'era. Venimmo al piè d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne' lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci così da l'un de' canti, in loco aperto, luminoso e alto, sì che veder si potien tutti quanti. Colà diritto, sovra 'l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m'essalto. I' vidi Eletra con molti compagni, tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l'altra parte vidi 'l re Latino che con Lavina sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia; e solo, in parte, vidi 'l Saladino. Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, vidi 'l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia. Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid'ïo Socrate e Platone, che 'nnanzi a li altri più presso li stanno; Democrito che 'l mondo a caso pone, Dïogenès, Anassagora e Tale, Empedoclès, Eraclito e Zenone; e vidi il buono accoglitor del quale, Dïascoride dico; e vidi Orfeo, Tulïo e Lino e Seneca morale; Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galïeno, Averoìs che 'l gran comento feo. Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che sì mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno. La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non è che luca.
Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini. ___________________________ Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte. "O tu che vieni al doloroso ospizio", disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, "guarda com'entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!". E 'l duca mio a lui: "Perché pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: "Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?". "La prima di color di cui novelle tu vuo' saper", mi disse quelli allotta, "fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell'è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussurïosa. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Vedi Parìs, Tristano"; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. I' cominciai: "Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri". Ed elli a me: "Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno". Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: "O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!". Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov'è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettüoso grido. "O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c' hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense". Queste parole da lor ci fuor porte. Quand'io intesi quell'anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: "Che pense?". Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!". Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?". E quella a me: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante". Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com'io morisse. E caddi come corpo morto cade.
Canto VI, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose adivenute a la città di Fiorenza. ____________________________ Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati. Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l'è nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve. Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. Urlar li fa la pioggia come cani; de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne. Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levò, ratto ch'ella ci vide passarsi davante. "O tu che se' per questo 'nferno tratto", mi disse, "riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto". E io a lui: "L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, sì che non par ch'i' ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente loco se' messo, e hai sì fatta pena, che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente". Ed elli a me: "La tua città, ch'è piena d'invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa". E più non fé parola. Io li rispuosi: "Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione per che l' ha tanta discordia assalita". E quelli a me: "Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l'altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l'altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia. Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l'altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n'aonti. Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c' hanno i cuori accesi". Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: "Ancor vo' che mi 'nsegni e che di più parlar mi facci dono. Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca". E quelli: "Ei son tra l'anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, là i potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo". Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. E 'l duca disse a me: "Più non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verrà la nimica podesta: ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch'in etterno rimbomba". Sì trapassammo per sozza mistura de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura; per ch'io dissi: "Maestro, esti tormenti crescerann'ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran sì cocenti?". Ed elli a me: "Ritorna a tua scïenza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza. Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta". Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Canto VII, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna. _________________________ "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!", cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: "Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch'elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia". Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: "Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia. Non è sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, là dove Michele fé la vendetta del superbo strupo". Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant'io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa? Come fa l'onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi. Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand'urli, voltando pesi per forza di poppa. Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: "Perché tieni?" e "Perché burli?". Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand'era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: "Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra". Ed elli a me: "Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio". E io: "Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali". Ed elli a me: "Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi, ad ogne conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro. Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabuffa; ché tutto l'oro ch'è sotto la luna e che già fu, di quest'anime stanche non poterebbe farne posare una". "Maestro mio", diss'io, "or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?" E quelli a me: "Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v'offende! Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi. Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue. Quest'è colei ch'è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'è beata e ciò non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta". Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr'una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa. In la palude va c' ha nome Stige questo tristo ruscel, quand'è disceso al piè de le maligne piagge grige. E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: "Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest'acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira. Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra". Quest'inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra". Così girammo de la lorda pozza grand'arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.
Canto VIII, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno detta Dite. ___________________________ Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno, tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: "Questo che dice? e che risponde quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?". Ed elli a me: "Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde". Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: "Or se' giunta, anima fella!". "Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto", disse lo mio segnore, "a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto". Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l'ira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand'io fui dentro parve carca. Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora de l'acqua più che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: "Chi se' tu che vieni anzi ora?". E io a lui: "S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?". Rispuose: "Vedi che son un che piango". E io a lui: "Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto". Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: "Via costà con li altri cani!". Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto e disse: "Alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse! Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s'è l'ombra sua qui furïosa. Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!". E io: "Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago". Ed elli a me: "Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda". Dopo ciò poco vid'io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!"; e 'l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co' denti. Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro. Lo buon maestro disse: "Omai, figliuolo, s'appressa la città c' ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo". E io: "Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite fossero". Ed ei mi disse: "Il foco etterno ch'entro l'affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno". Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte "Usciteci", gridò: "qui è l'intrata". Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: "Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?". E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: "Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha' iscorta sì buia contrada". Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai. "O caro duca mio, che più di sette volte m' hai sicurtà renduta e tratto d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar", diss'io, "così disfatto; e se 'l passar più oltre ci è negato, ritroviam l'orme nostre insieme ratto". E quel segnor che lì m'avea menato, mi disse: "Non temer; ché 'l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato. Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascerò nel mondo basso". Così sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: "Chi m' ha negate le dolenti case!". E a me disse: "Tu, perch'io m'adiri, non sbigottir, ch'io vincerò la prova, qual ch'a la difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non è nova; ché già l'usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. Sovr'essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta".
Canto IX, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi in essa la qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra fiata. __________________________ Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò com'uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. "Pur a noi converrà vincer la punga", cominciò el, "se non ... Tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!". I' vidi ben sì com'ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. "In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?". Questa question fec'io; e quei "Di rado incontra", mi rispuose, "che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è ch'altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u' non potemo intrare omai sanz'ira". E altro disse, ma non l' ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto 36 ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, "Guarda", mi disse, "le feroci Erine. Quest'è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo"; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan sì alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. "Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto", dicevan tutte riguardando in giuso; "mal non vengiammo in Tesëo l'assalto". "Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso". Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani. E già venìa su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. Li occhi mi sciolse e disse: "Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo". Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell'aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. "O cacciati del ciel, gente dispetta", cominciò elli in su l'orribil soglia, "ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v' ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo". Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com'io fui dentro, l'occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt'il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun'arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi. E io: "Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell'arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?". E quelli a me: "Qui son li eresïarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi". E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martìri e li alti spaldi.
Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione. _________________________ Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. "O virtù somma, che per li empi giri mi volvi", cominciai, "com'a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt'i coperchi, e nessun guardia face". E quelli a me: "Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc'entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci". E io: "Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m' hai non pur mo a ciò disposto". "O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio, a la qual forse fui troppo molesto". Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto: da la cintola in sù tutto 'l vedrai". Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: "Le parole tue sien conte". Com'io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?". Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: "Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fïate li dispersi". "S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte", rispuos'io lui, "l'una e l'altra fïata; ma i vostri non appreser ben quell'arte". Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: "Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è teco?". E io a lui: "Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno". Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. Di sùbito drizzato gridò: "Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?". Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facëa dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa; e sé continüando al primo detto, "S'elli han quell'arte", disse, "male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?". Ond'io a lui: "Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio". Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, "A ciò non fu' io sol", disse, "né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto". "Deh, se riposi mai vostra semenza", prega' io lui, "solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo". "Noi veggiam, come quei c' ha mala luce, le cose", disse, "che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta". Allor, come di mia colpa compunto, dissi: "Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perché pensava già ne l'error che m'avete soluto". E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: "Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio". Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: "Perché se' tu sì smarrito?". E io li sodisfeci al suo dimando. "La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te", mi comandò quel saggio; "e ora attendi qui", e drizzò 'l dito: "quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio". Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione. ________________________ In su l'estremità d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta che dicea: 'Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta'. "Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo". Così 'l maestro; e io "Alcun compenso", dissi lui, "trova che 'l tempo non passi perduto". Ed elli: "Vedi ch'a ciò penso". "Figliuol mio, dentro da cotesti sassi", cominciò poi a dir, "son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l'uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in sé man vïolenta e ne' suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov'esser de' giocondo. Puossi far forza ne la deïtade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ond'ogne coscïenza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. Per l'altro modo quell'amor s'oblia che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria; onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto". E io: "Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con sì aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?". Ed elli a me "Perché tanto delira", disse, "lo 'ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli". "O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi", diss'io, "là dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi". "Filosofia", mi disse, "a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; sì che vostr'arte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene. Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta".
Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume. ____________________________ Era lo loco ov'a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamïa di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui gridò: "Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene". Qual è quel toro che si slaccia in quella c' ha ricevuto già 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, vid'io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: "Corri al varco; mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale". Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: "Tu pensi forse a questa ruina, ch'è guardata da quell'ira bestial ch'i' ora spensi. Or vo' che sappi che l'altra fïata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda tremò sì, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia". Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi sì mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un gridò da lungi: "A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro". Lo mio maestro disse: "La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta". Poi mi tentò, e disse: "Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e fé di sé la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, ch'al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille". Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: "Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti". E 'l mio buon duca, che già li er'al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: "Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità 'l ci 'nduce, e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest'officio novo: non è ladron, né io anima fuia. Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada". Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: "Torna, e sì li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa". Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: "E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte c' ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro sù nel mondo". Allor mi volsi al poeta, e quei disse: "Questi ti sia or primo, e io secondo". Poco più oltre il centauro s'affisse sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: "Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola". Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io. Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. "Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema", disse 'l centauro, "voglio che tu credi che da quest'altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quell'Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra". Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni. __________________________ Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro "Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone", mi cominciò a dire, "e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone". Io sentia d'ogne parte trarre guai e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse. Però disse 'l maestro: "Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c' hai si faran tutti monchi". Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo gridò: "Perché mi schiante?". Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: "Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi". Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme. "S'elli avesse potuto creder prima", rispuose 'l savio mio, "anima lesa, ciò c' ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece". E 'l tronco: "Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede". Un poco attese, e poi "Da ch'el si tace", disse 'l poeta a me, "non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace". Ond'ïo a lui: "Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora". Perciò ricominciò: "Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega". Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: "Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta". Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogne rosta. Quel dinanzi: "Or accorri, accorri, morte!". E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: "Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!". E poi che forse li fallia la lena, di sé e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano. "O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?". Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse: "Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?". Ed elli a noi: "O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c' ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibetto a me de le mie case".
Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato. ___________________________ Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende' le a colui, ch'era già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' piè di Caton già soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi mei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continüamente. Quella che giva 'ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l'arsura fresca. I' cominciai: "Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che 'l marturi?". E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, gridò: "Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo dì percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", sì com'el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra". Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito: "O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito". Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: "Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti". Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. "Tra tutto l'altro ch'i' t' ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com'è 'l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta". Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avëa il disio. "In mezzo mar siede un paese guasto", diss'elli allora, "che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta. Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata e Roma guarda come süo speglio. La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta; e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia, infin, là ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta". E io a lui: "Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?". Ed elli a me: "Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto". E io ancor: "Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova". "In tutte tue question certo mi piaci", rispuose, "ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci. Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa". Poi disse: "Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne".
Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti. _________________________ Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro félli. Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!". E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza süa al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?". E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia". I' dissi lui: "Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco". "O figliuol", disse, "qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia. Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni". Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada. El cominciò: "Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?". "Là sù di sopra, in la vita serena", rispuos'io lui, "mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand'ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle". Ed elli a me: "Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t'avrei a l'opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent'è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta". "Se fosse tutto pieno il mio dimando", rispuos'io lui, "voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando; ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo. Tanto vogl'io che vi sia manifesto, pur che mia coscïenza non mi garra, ch'a la Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra". Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: "Bene ascolta chi la nota". Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: "Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché 'l tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone più lungo esser non può, però ch'i' veggio là surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio". Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde.
Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio e di quello medesimo peccato. __________________________ Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver' noi, e ciascuna gridava: "Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava". Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver' me, e "Or aspetta", disse, "a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta". Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo faceva ai piè continüo vïaggio. E "Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi", cominciò l'uno, "e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi. Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovria esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie più ch'altro mi nuoce". S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avria sofferto; ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: "Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi". "Se lungamente l'anima conduca le membra tue", rispuose quelli ancora, "e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n'è gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole". "La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni". Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata. "Se l'altre volte sì poco ti costa", rispuoser tutti, "il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta! Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle". Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria possuto dirsi tosto così com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c' ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, sì come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond'ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell'alto burrato. 'E' pur convien che novità risponda', dicea fra me medesmo, 'al novo cenno che 'l maestro con l'occhio sì seconda'. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: "Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch'al tuo viso si scovra". Sempre a quel ver c' ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vòte, ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, sì come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.
Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra 'l quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio. ____________________________ "Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperïenza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti; mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna' mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale; monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c' ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerïon, moviti omai: le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerïone al piè al piè de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca.
Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene. __________________________ Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di là con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, da l'altra sponda vanno verso 'l monte. Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno le seconde aspettava né le terze. Mentr'io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: "Già di veder costui non son digiuno". Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse, ch'io dissi: "O tu che l'occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se' tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?". Ed elli a me: "Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella. E non pur io qui piango bolognese; anzi n'è questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno". Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: "Via, ruffian! qui non son femmine da conio". I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo là 'v'uno scoglio de la ripa uscia. Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo. Quando noi fummo là dov'el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: "Attienti, e fa che feggia lo viso in te di quest'altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati". Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l'altra banda, e che la ferza similmente scaccia. E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: "Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne. Ello passò per l'isola di Lenno poi che l'ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l'altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle sapere e di color che 'n sé assanna". Già eravam là 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr'arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e sé medesma con le palme picchia. Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di giù che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta. Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso. E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s'era laico o cherco. Quei mi sgridò: "Perché se' tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?". E io a lui: "Perché, se ben ricordo, già t' ho veduto coi capelli asciutti, e se' Alessio Interminei da Lucca: però t'adocchio più che li altri tutti". Ed elli allor, battendosi la zucca: "Qua giù m' hanno sommerso le lusinghe ond'io non ebbi mai la lingua stucca". Appresso ciò lo duca "Fa che pinghe", mi disse, "il viso un poco più avante, sì che la faccia ben con l'occhio attinghe di quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora è in piedi stante. Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". E quinci sian le nostre viste sazie".
Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perché seguitò simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno. ________________________ O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state. Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. O somma sapïenza, quanta è l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte! Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri, d'un largo tutti e ciascun era tondo. Non mi parean men ampi né maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori; l'un de li quali, ancor non è molt'anni, rupp'io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni. Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe. Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte. "Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti", diss'io, "e cui più roggia fiamma succia?". Ed elli a me: "Se tu vuo' ch'i' ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de' suoi torti". E io: "Tanto m'è bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace". Allor venimmo in su l'argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto. Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. "O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa", comincia' io a dir, "se puoi, fa motto". Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, richiama lui per che la morte cessa. Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto, se' tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se' tu sì tosto di quell'aver sazio per lo qual non temesti tòrre a 'nganno la bella donna, e poi di farne strazio?". Tal mi fec'io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch'è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: "Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi""; e io rispuosi come a me fu imposto. Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: "Dunque che a me richiedi? Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch'i' fui vestito del gran manto; e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l'avere e qui me misi in borsa. Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti. Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch'i' credea che tu fossi, allor ch'i' feci 'l sùbito dimando. Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra, ch'el non starà piantato coi piè rossi: ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne' Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge". Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: "Deh, or mi dì: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa? Certo non chiese se non "Viemmi retro". Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l'anima ria. Però ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta, io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; e che altro è da voi a l'idolatre, se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!". E mentr'io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote. I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. Né si stancò d'avermi a sé distretto, sì men portò sovra 'l colmo de l'arco che dal quarto al quinto argine è tragetto. Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. Indi un altro vallon mi fu scoperto.
Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e misera condizione, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri. ___________________________ Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon, ch'è d'i sommersi. Io era già disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d'angoscioso pianto; e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo. Come 'l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso, ché da le reni era tornato 'l volto, e in dietro venir li convenia, perché 'l veder dinanzi era lor tolto. Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia. Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com'io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso. Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta mi disse: "Ancor se' tu de li altri sciocchi? Qui vive la pietà quand'è ben morta; chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta? Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, Anfïarao? perché lasci la guerra?". E non restò di ruinare a valle fino a Minòs che ciascheduno afferra. Mira c' ha fatto petto de le spalle; perché volse veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle. Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante; e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che rïavesse le maschili penne. Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, che ne' monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar non li era la veduta tronca. E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di là ogne pilosa pelle, Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu' io; onde un poco mi piace che m'ascolte. Poscia che 'l padre suo di vita uscìo e venne serva la città di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio. Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c' ha nome Benaco. Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l'acqua che nel detto laco stagna. Loco è nel mezzo là dove 'l trentino pastore e quel di Brescia e 'l veronese segnar poria, s'e' fesse quel cammino. Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva 'ntorno più discese. Ivi convien che tutto quanto caschi ciò che 'n grembo a Benaco star non può, e fassi fiume giù per verdi paschi. Tosto che l'acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po. Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda; e suol di state talor esser grama. Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d'abitanti nuda. Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lasciò suo corpo vano. Li uomini poi che 'ntorno erano sparti s'accolsero a quel loco, ch'era forte per lo pantan ch'avea da tutte parti. Fer la città sovra quell'ossa morte; e per colei che 'l loco prima elesse, Mantüa l'appellar sanz'altra sorte. Già fuor le genti sue dentro più spesse, prima che la mattia da Casalodi da Pinamonte inganno ricevesse. Però t'assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, la verità nulla menzogna frodi". E io: "Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti. Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede". Allor mi disse: "Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, fu - quando Grecia fu di maschi vòta, sì ch'a pena rimaser per le cune - augure, e diede 'l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune. Euripilo ebbe nome, e così 'l canta l'alta mia tragedìa in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta. Quell'altro che ne' fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch'avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente. Vedi le triste che lasciaron l'ago, la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; fecer malie con erbe e con imago. Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine d'amendue li emisperi e tocca l'onda sotto Sobilia Caino e le spine; e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda". Sì mi parlava, e andavamo introcque.
Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera. ___________________________ Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando restammo per veder l'altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura. Quale ne l'arzanà de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, ché navicar non ponno - in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più vïaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -: tal, non per foco ma per divin'arte, bollia là giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte. I' vedea lei, ma non vedëa in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr'io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo "Guarda, guarda!", mi trasse a sé del loco dov'io stava. Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda, che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire. Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i piè leggero! L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo. Del nostro ponte disse: "O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch'i' torno per anche a quella terra, che n'è ben fornita: ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita". Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo. Quel s'attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: "Qui non ha loco il Santo Volto! qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo' di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio". Poi l'addentar con più di cento raffi, disser: "Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi". Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perché non galli. Lo buon maestro "Acciò che non si paia che tu ci sia", mi disse, "giù t'acquatta dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch'i' ho le cose conte, perch'altra volta fui a tal baratta". Poscia passò di là dal co del ponte; e com'el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte. Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s'arresta, usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt'i runcigli; ma el gridò: "Nessun di voi sia fello! Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli". Tutti gridaron: "Vada Malacoda!"; per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi - e venne a lui dicendo: "Che li approda?". "Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto", disse 'l mio maestro, "sicuro già da tutti vostri schermi, sanza voler divino e fato destro? Lascian'andar, ché nel cielo è voluto ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro". Allor li fu l'orgoglio sì caduto, ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi, e disse a li altri: "Omai non sia feruto". E 'l duca mio a me: "O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi". Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto; così vid'ïo già temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti. I' m'accostai con tutta la persona lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona. Ei chinavan li raffi e "Vuo' che 'l tocchi", diceva l'un con l'altro, "in sul groppone?". E rispondien: "Sì, fa che gliel'accocchi". Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto e disse: "Posa, posa, Scarmiglione!". Poi disse a noi: "Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace tutto spezzato al fondo l'arco sesto. E se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso è un altro scoglio che via face. Ier, più oltre cinqu' ore che quest'otta, mille dugento con sessanta sei anni compié che qui la via fu rotta. Io mando verso là di questi miei a riguardar s'alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei". "Tra' ti avante, Alichino, e Calcabrina", cominciò elli a dire, "e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane". "Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?", diss'io, "deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio. Se tu se' sì accorto come suoli, non vedi tu ch'e' digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?". Ed elli a me: "Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti". Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta.
Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, ed è de' barattieri medesimi questo canto. __________________________ Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni, né nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch'entro v'era incesa. Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena che s'argomentin di campar lor legno, talor così, ad alleggiar la pena, mostrav'alcun de' peccatori 'l dosso e nascondea in men che non balena. E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l'altro grosso, sì stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori. I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, uno aspettar così, com'elli 'ncontra ch'una rana rimane e l'altra spiccia; e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le 'mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra. I' sapea già di tutti quanti 'l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch'e' si chiamaro, attesi come. "O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", gridavan tutti insieme i maladetti. E io: "Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi". Lo duca mio li s'accostò allato; domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose: "I' fui del regno di Navarra nato. Mia madre a servo d'un segnor mi puose, che m'avea generato d'un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose. Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, di ch'io rendo ragione in questo caldo". E Cirïatto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l'una sdruscia. Tra male gatte era venuto 'l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: "State in là, mentr'io lo 'nforco". E al maestro mio volse la faccia; "Domanda", disse, "ancor, se più disii saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia". Lo duca dunque: "Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?". E quelli: "I' mi partii, poco è, da un che fu di là vicino. Così foss'io ancor con lui coperto, ch'i' non temerei unghia né uncino!". E Libicocco "Troppo avem sofferto", disse; e preseli 'l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto. Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde 'l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. Quand'elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch'ancor mirava sua ferita, domandò 'l duca mio sanza dimoro: "Chi fu colui da cui mala partita di' che facesti per venire a proda?". Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita, quel di Gallura, vasel d'ogne froda, ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda. Danar si tolse e lasciolli di piano, sì com'e' dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano. Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche. Omè, vedete l'altro che digrigna; i' direi anche, ma i' temo ch'ello non s'apparecchi a grattarmi la tigna". E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!". "Se voi volete vedere o udire", ricominciò lo spaürato appresso, "Toschi o Lombardi, io ne farò venire; ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch'ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso, per un ch'io son, ne farò venir sette quand'io suffolerò, com'è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette". Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, crollando 'l capo, e disse: "Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!". Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: "Malizioso son io troppo, quand'io procuro a' mia maggior trestizia". Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: "Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo, ma batterò sovra la pece l'ali. Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali". O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse, quel prima, ch'a ciò fare era più crudo. Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse. Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: "Tu se' giunto!". Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto: non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto. Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l'ali sue. Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l'altra costa con tutt'i raffi, e assai prestamente di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran già cotti dentro da la crosta. E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia. _________________________ Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via. Vòlt'era in su la favola d'Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov'el parlò de la rana e del topo; ché più non si pareggia 'mo' e 'issa' che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa. E come l'un pensier de l'altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia. Io pensava così: 'Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch'assai credo che lor nòi. Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'. Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand'io dissi: "Maestro, se non celi te e me tostamente, i' ho pavento d'i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li 'magino sì, che già li sento". E quei: "S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro 'mpetro. Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d'intrambi un sol consiglio fei. S'elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, noi fuggirem l'imaginata caccia". Già non compié di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch'al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura. Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand'ella più verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto: ché l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs'indi a tutti tolle. Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi. Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia. Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca. Per ch'io al duca mio: "Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi". E un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: "Tenete i piedi, voi che correte sì per l'aura fosca! Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi". Onde 'l duca si volse e disse: "Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi". Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco; ma tardavali 'l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco: "Costui par vivo a l'atto de la gola; e s'e' son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?". Poi disser me: "O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto, dir chi tu se' non avere in dispregio". E io a loro: "I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto. Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant'i' veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?". E l'un rispuose a me: "Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance. Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch'ancor si pare intorno dal Gardingo". Io cominciai: "O frati, i vostri mali..."; ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali. Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse, mi disse: "Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a' martìri. Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch'el senta qualunque passa, come pesa, pria. E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa". Allor vid'io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio. Poscia drizzò al frate cotal voce: "Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d'esto fondo a dipartirci". Rispuose adunque: "Più che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt'i vallon feri, salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia". Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: "Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina". E 'l frate: "Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi' ch'elli è bugiardo e padre di menzogna". Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d'ira nel sembiante; ond'io da li 'ncarcati mi parti' dietro a le poste de le care piante.
Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia. __________________________ In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e là si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia. Così mi fece sbigottir lo mastro quand'io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a piè del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio. E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver' la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: "Sovra quella poi t'aggrappa; ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia". Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa. E se non fosse che da quel precinto più che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perché Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende. La lena m'era del polmon sì munta quand'io fui sù, ch'i' non potea più oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta. "Omai convien che tu così ti spoltre", disse 'l maestro; "ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma. E però leva sù; vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia. Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia". Leva' mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia, e dissi: "Va, ch'i' son forte e ardito". Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole. Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso. Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: "Maestro, fa che tu arrivi da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com'i' odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro". "Altra risposta", disse, "non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de' seguir con l'opera tacendo". Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l'Etïopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse là dove 'l collo a le spalle s'annoda. Né O sì tosto mai né I si scrisse, com'el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa e 'n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce. E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant'è severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch'ei rispuose: "Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana". E ïo al duca: "Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù 'l pinse; ch'io 'l vidi omo di sangue e di crucci". E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: "Più mi duol che tu m' hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l'altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch'io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi, e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi. Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetüosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond'ei repente spezzerà la nebbia, sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. E detto l' ho perché doler ti debbia!".
Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr'a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia. _________________________ Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: "Togli, Dio, ch'a te le squadro!". Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch'una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che più diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d'incenerarti sì che più non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da' muri. El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: "Ov'è, ov'è l'acerbo?". Maremma non cred'io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: "Questi è Caco, che, sotto 'l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco. Non va co' suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch'elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d'Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece". Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de' quai né io né 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: "Chi siete voi?"; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette, dicendo: "Cianfa dove fia rimaso?"; per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso. Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, ché io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com'io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. Co' piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; poi li addentò e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue e dietro per le ren sù la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchiò le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l'un né l'altro già parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: "Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se' né due né uno". Già eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov'eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; anzi, co' piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse. Elli 'l serpente e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. Taccia Lucano omai là dov'e' tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e 'l feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due piè de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: "I' vo' che Buoso corra, com' ho fatt'io, carpon per questo calle". Così vid'io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.
Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene. __________________________ Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. E se già fosse, non saria per tempo. Così foss'ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com' più m'attempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, rimontò 'l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi, e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m' ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov'e' vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi tosto che fui là 've 'l fondo parea. E qual colui che si vengiò con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. Io stava sovra 'l ponte a veder surto, sì che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz'esser urto. E 'l duca, che mi vide tanto atteso, disse: "Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch'elli è inceso". "Maestro mio", rispuos'io, "per udirti son io più certo; ma già m'era avviso che così fosse, e già voleva dirti: chi è 'n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov'Eteòcle col fratel fu miso?". Rispuose a me: "Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l'ira; e dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che fé la porta onde uscì de' Romani il gentil seme. Piangevisi entro l'arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d'Achille, e del Palladio pena vi si porta". "S'ei posson dentro da quelle faville parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille, che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!". Ed elli a me: "La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l'accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, perch'e' fuor greci, forse del tuo detto". Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: "O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi". Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: "Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né 'l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, e l'altre che quel mare intorno bagna. Io e' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l'uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l'altra già m'avea lasciata Setta. "O frati," dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Li miei compagni fec'io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro. __________________________ Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, quand'un'altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia. Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame. Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: "O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", perch'io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo! Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond'io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti là intra Orbino e 'l giogo di che Tever si diserra". Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: "Parla tu; questi è latino". E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: "O anima che se' là giù nascosta, Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai. Ravenna sta come stata è molt'anni: l'aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova. E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d'i denti succhio. Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte, tra tirannia si vive e stato franco. Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro più ch'altri sia stato, se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte". Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato: "S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m'intenda. Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi diè, l'opere mie non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie. Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe. Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei, ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano, né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri. Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss'io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care". Allor mi pinser li argomenti gravi là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov'io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto ti farà trïunfar ne l'alto seggio". Francesco venne poi, com'io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini li disse: "Non portar; non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ' miei meschini perché diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a' crini; ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io löico fossi!". A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; per ch'io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro". Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto. Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr'arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco.
Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare. _________________________ Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c' hanno a tanto comprender poco seno. S'el s'aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra, con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo. Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com'io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, dicendo: "Or vedi com'io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto. E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così. Un diavolo è qua dietro che n'accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma, quand'avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch'altri dinanzi li rivada. Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena ch'è giudicata in su le tue accuse?". "Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena", rispuose 'l mio maestro, "a tormentarlo; ma per dar lui esperïenza piena, a me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua giù di giro in giro; e quest'è ver così com'io ti parlo". Più fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro. "Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch'altrimenti acquistar non saria leve". Poi che l'un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese. Un altro, che forata avea la gola e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia, e disse: "O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi in su terra latina, se troppa simiglianza non m'inganna, rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina. E fa sapere a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d'un tiranno fello. Tra l'isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica. Quel traditor che vede pur con l'uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno, farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch'al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco". E io a lui: "Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara". Allor puose la mano a la mascella d'un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: "Questi è desso, e non favella. Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che 'l fornito sempre con danno l'attender sofferse". Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch'a dir fu così ardito! E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, sì che 'l sangue facea la faccia sozza, gridò: "Ricordera' ti anche del Mosca, che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', che fu mal seme per la gente tosca". E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta"; per ch'elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta. Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch'io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo; se non che coscïenza m'assicura, la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura. Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia; e 'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: "Oh me!". Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com'esser può, quei sa che sì governa. Quando diritto al piè del ponte fue, levò 'l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue, che fuoro: "Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s'alcuna è grande come questa. E perché tu di me novella porti, sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti. Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d'Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli. Perch'io parti' così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch'è in questo troncone. Così s'osserva in me lo contrapasso".
Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi. _________________________ La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: "Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l'ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n'è concesso, e altro è da veder che tu non vedi". "Se tu avessi", rispuos'io appresso, "atteso a la cagion per ch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso". Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: "Dentro a quella cava dov'io tenea or li occhi sì a posta, credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa". Allor disse 'l maestro: "Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito". "O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor", diss'io, "per alcun che de l'onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond'el sen gio sanza parlarmi, sì com'ïo estimo: e in ciò m' ha el fatto a sé più pio". Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond'io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva giù ver' lo fondo, là 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere sì pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. Io vidi due sedere a sé poggiati, com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d'altro pesce che più larghe l'abbia. "O tu che con le dita ti dismaglie", cominciò 'l duca mio a l'un di loro, "e che fai d'esse talvolta tanaglie, dinne s'alcun Latino è tra costoro che son quinc'entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro". "Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue", rispuose l'un piangendo; "ma tu chi se' che di noi dimandasti?". E 'l duca disse: "I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo". Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli"; e io incominciai, poscia ch'ei volse: "Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi". "Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena", rispuose l'un, "mi fé mettere al foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo"; e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch'io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo. Ma ne l'ultima bolgia de le diece me per l'alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece". E io dissi al poeta: "Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d'assai!". Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: "Tra' mene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l'orto dove tal seme s'appicca; e tra' ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse. Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com'io fui di natura buona scimia".
Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente. __________________________ Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra 'l sangue tebano, come mostrò una e altra fïata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: "Tendiam le reti, sì ch'io pigli la leonessa e ' leoncini al varco"; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s'annegò con l'altro carco. E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, sì che 'nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta. Ma né di Tebe furie né troiane si vider mäi in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane, quant'io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che 'l porco quando del porcil si schiude. L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l'assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. E l'Aretin che rimase, tremando mi disse: "Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando". "Oh", diss'io lui, "se l'altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi". Ed elli a me: "Quell'è l'anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre, fuor del dritto amore, amica. Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come l'altro che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma". E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia 51 tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia, faceva lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte. "O voi che sanz'alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo", diss'elli a noi, "guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli, e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo. Li ruscelletti che d'i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l'imagine lor vie più m'asciuga che 'l male ond'io nel volto mi discarno. La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov'io peccai a metter più li miei sospiri in fuga. Ivi è Romena, là dov'io falsai la lega suggellata del Batista; per ch'io il corpo sù arso lasciai. Ma s'io vedessi qui l'anima trista di Guido o d'Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c' ho le membra legate? S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, io sarei messo già per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra sì fatta famiglia; e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia". E io a lui: "Chi son li due tapini che fumman come man bagnate 'l verno, giacendo stretti a' tuoi destri confini?". "Qui li trovai - e poi volta non dierno -", rispuose, "quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno. L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo". E l'un di lor, che si recò a noia forse d'esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l'epa croia. Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: "Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto". Ond'ei rispuose: "Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu così presto; ma sì e più l'avei quando coniavi". E l'idropico: "Tu di' ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là 've del ver fosti a Troia richesto". "S'io dissi falso, e tu falsasti il conio", disse Sinon; "e son qui per un fallo, e tu per più ch'alcun altro demonio!". "Ricorditi, spergiuro, del cavallo", rispuose quel ch'avëa infiata l'epa; "e sieti reo che tutto il mondo sallo!". "E te sia rea la sete onde ti crepa", disse 'l Greco, "la lingua, e l'acqua marcia che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!". Allora il monetier: "Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a 'nvitar molte parole". Ad ascoltarli er'io del tutto fisso, quando 'l maestro mi disse: "Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!". Quand'io 'l senti' a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch'ancor per la memoria mi si gira. Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch'è, come non fosse, agogna, tal mi fec'io, non possendo parlare, che disïava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. "Maggior difetto men vergogna lava", disse 'l maestro, "che 'l tuo non è stato; però d'ogne trestizia ti disgrava. E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t'accoglia dove sien genti in simigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia".
Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed è il nono cerchio. __________________________ Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quiv'era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando. Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond'io: "Maestro, dì, che terra è questa?". Ed elli a me: "Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi". Poi caramente mi prese per mano e disse: "Pria che noi siam più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti". Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia. Natura certo, quando lasciò l'arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte. E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; sì che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto. "Raphèl maì amècche zabì almi", cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi. E 'l duca mio ver' lui: "Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand'ira o altra passïon ti tocca! Cércati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga". Poi disse a me: "Elli stessi s'accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto". Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro trovammo l'altro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto si ravvolgëa infino al giro quinto. "Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove", disse 'l mio duca, "ond'elli ha cotal merto. Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; le braccia ch'el menò, già mai non move". E io a lui: "S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo esperïenza avesser li occhi mei". Ond'ei rispuose: "Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo. Quel che tu vuo' veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto". Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto. Allor temett'io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. "O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, quand'Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama". Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond'Ercule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: "Fatti qua, sì ch'io ti prenda"; poi fece sì ch'un fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né, sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò.
Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno. _________________________ S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch'io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, né da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso. Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe! Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi' mi: "Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi". Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante. Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanaï là sotto 'l freddo cielo, com'era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi. E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana, livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia. Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti, che 'l pel del capo avieno insieme misto. "Ditemi, voi che sì strignete i petti", diss'io, "chi siete?". E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli. Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse. E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: "Perché cotanto in noi ti specchi? Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue. D'un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d'esser fitta in gelatina: non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra con esso un colpo per la man d'Artù; non Focaccia; non questi che m'ingombra col capo sì, ch'i' non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu. E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni". Poscia vid'io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de' gelati guazzi. E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l piè nel viso ad una. Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?". E io: "Maestro mio, or qui m'aspetta, sì ch'io esca d'un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta". Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: "Qual se' tu che così rampogni altrui?". "Or tu chi se' che vai per l'Antenora, percotendo", rispuose, "altrui le gote, sì che, se fossi vivo, troppo fora?". "Vivo son io, e caro esser ti puote", fu mia risposta, "se dimandi fama, ch'io metta il nome tuo tra l'altre note". Ed elli a me: "Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!". Allor lo presi per la cuticagna e dissi: "El converrà che tu ti nomi, o che capel qui sù non ti rimagna". Ond'elli a me: "Perché tu mi dischiomi, né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi". Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien'avea più d'una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti, quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?". "Omai", diss'io, "non vo' che più favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta io porterò di te vere novelle". "Va via", rispuose, "e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch'ebbe or così la lingua pronta. El piange qui l'argento de' Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi". Se fossi domandato "Altri chi v'era?", tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera. Gianni de' Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, ch'aprì Faenza quando si dormia". Noi eravam partiti già da ello, ch'io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose. "O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi 'l perché", diss'io, "per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca".
Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi. ________________________ La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominciò: "Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se' né per che modo venuto se' qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand'io t'odo. Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m' ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond'io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". Perciò non lagrimai né rispuos'io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscìo. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia". Queta' mi allor per non farli più tristi; lo dì e l'altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t'apristi? Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?". Quivi morì; e come tu mi vedi, vid'io cascar li tre ad uno ad uno tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno". Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona! Che se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'età novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella. Noi passammo oltre, là 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata. Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. E avvegna che, sì come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento; per ch'io: "Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?". Ond'elli a me: "Avaccio sarai dove di ciò ti farà l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove". E un de' tristi de la fredda crosta gridò a noi: "O anime crudeli tanto che data v'è l'ultima posta, levatemi dal viso i duri veli, sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli". Per ch'io a lui: "Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna". Rispuose adunque: "I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo". "Oh", diss'io lui, "or se' tu ancor morto?". Ed elli a me: "Come 'l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atropòs mossa le dea. E perché tu più volontier mi rade le 'nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade come fec'ïo, il corpo suo l'è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto. Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l'ombra che di qua dietro mi verna. Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch'el fu sì racchiuso". "Io credo", diss'io lui, "che tu m'inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni". "Nel fosso sù", diss'el, "de' Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che 'l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi". E io non gliel'apersi; e cortesia fu lui esser villano. Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi? Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra.
Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno. _______________________ "Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira", disse 'l maestro mio, "se tu 'l discerni". Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ché non lì era altra grotta. Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' piè rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, "Ecco Dite", dicendo, "ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi". Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco. Io non mori' e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s' hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia. S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. "Quell'anima là sù c' ha maggior pena", disse 'l maestro, "è Giuda Scarïotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c' hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; e l'altro è Cassio, che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto". Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov'elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, sì che 'n inferno i' credea tornar anche. "Attienti ben, ché per cotali scale", disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, "conviensi dipartir da tanto male". Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato. "Lèvati sù", disse 'l maestro, "in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede". Non era camminata di palagio là 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. "Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio", diss'io quando fui dritto, "a trarmi d'erro un poco mi favella: ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?". Ed elli a me: "Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. Di là fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi. E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim'era. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo, e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e sù ricorse". Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Dante Alighieri - Divina Commedia - INFERNO
Il giorno finiva, e l’ oscurità faceva interrompere ai vivi in terra le loro fatiche; io solo mi preparavo a sostenere il travaglio fisico e morale (del viaggio), che la memoria, esatta nel trascrivere ciò che ha appreso, narrerà. O Muse, o mia forza intellettuale, soccorretemi; o memoria, che porti impressa in te la mia visione, qui apparirà il tuo valore. Io cominciai con queste parole: "Poeta, mia guida, guarda se le mie capacità sono sufficienti, prima di affidarmi all’arduo passaggio. (Nell’Eneide) tu narri che il padre di Silvio (cioè Enea, che generò Silvio da Lavinia), mentre era ancora in vita, andò nel mondo dei morti (immortale: perché in esso le anime hanno vita eterna), e fece ciò in carne e ossa. Ma, se Dio (l’avversario d’ogni male) fu con lui cortese, riflettendo sull’importanza dei risultati ( Roma, la sua storia, il suo impero) che avrebbero avuto in Enea la loro origine, e sulle sue qualità personali e sulla sua stirpe regale, la cosa non appare ingiustificata a chi ragiona; poiché egli fu prescelto da Dio come capostipite della nobile Roma e del suo impero: Roma e il suo impero, se vogliamo essere esatti, furono costituiti da Dio per preparare il luogo sacro dove ha sede il pontefice, successore del grande Pietro. A causa di questa discesa ( nel regno dei morti), di cui (nel tuo poema) lo hai considerato degno, apprese fatti (il padre Anchise gli pronosticò il felice esito dei suoi travagli e la grandezza di Roma) che furono le premesse della sua vittoria (nella guerra contro i Latini e i loro alleati) e dell’autorità papale. La seconda discesa nell’oltretomba è quella di San Paolo, l’eletto da Dio, il quale vi andò per trarne forza per la diffusione della fede cristiana, senza la quale la salvezza è impossibile. Ma qual è il motivo per il quale io devo intraprendere questo viaggio? chi mi autorizza a farlo? Non sono né Enea né San Paolo: né io mi ritengo all’altezza del compito, né qualcun altro me ne ritiene degno. Perciò, se, per quel che riguarda questo viaggio, m’induco ad acconsentire, temo che la mia venuta (nell’oltretomba) sia temeraria: sei saggio; sei in grado di comprendere meglio di quanto io non sia in grado di esprimermi E nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che ha voluto prima e cambia intento per il sopraggiungere di nuovi pensieri, in modo da scostarsi dal proposito iniziale, venni a trovarmi io su quel buio pendio (e scesa nel frattempo la notte), perché portai a termine, col pensiero ( prevedendone tutti gli ostacoli e rendendomi conto della sua folle temerarietà), l’impresa cui mi ero accinto con tanta baldanza. "Se ho capito bene il tuo discorso" rispose l’ombra di Virgilio, "il tuo animo è fiaccato dalla pusillanimità: essa molte volte ostacola l’uomo tanto da allontanarlo da un’impresa onorata, così come una ingannevole apparenza fa volgere indietro una bestia quando si adombra. Perché tu ti liberi da questo timore, ti esporrò il motivo per cui sono venuto (in tuo aiuto) e ciò che udii quando per la prima volta sentii pietà per il tuo stato. Mi trovavo (nel limbo) tra coloro che sono in una condizione intermedia tra i beati e i dannati al fuoco eterno, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e soffusa di tanta letizia, da essere indotto a pregarla di comandare. La luce dei suoi occhi vinceva quella delle stelle; e cominciò a parlarmi dolcemente e pacatamente, con voce d’angelo: "O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini, ed è destinata a durare tanto a lungo quanto durerà il mondo, colui che è amato da me, ma non dalla sorte, ha trovato tali ostacoli sul deserto pendio del colle, che si è già volto indietro per la paura; il mio timore è che egli si sia a tal punto nuovamente perduto (nel buio del peccato), da rendere ormai tardivo (e quindi inutile) il mio aiuto, per quel che di lui mi è stato riferito in cielo. Va dunque, e aiutalo sia con la tua eloquenza sia con tutto ciò che altrimenti occorra per la sua salvezza, in modo da rendermi contenta. Io, che ti invito ad andare, sono Beatrice; vengo dal cielo, dove desidero tornare; sono stata spinta (fin qui) da amore e amore ha ispirato le mie parole. Quando sarò davanti a Dio, spesso Gli parlerò degnamente di te." Allora tacque, e poi io cominciai: "O signora di virtù, per la quale virtù soltanto il genere umano è superiore ad ogni altro essere contenuto dal cielo (quello della Luna) che compie (nel suo moto di rotazione intorno alla terra) i giri più piccoli, il tuo comando mi è così gradito, che, se anche avessi iniziato ad obbedirti, mi sembrerebbe pur sempre d’aver fatto tardi; più non occorre che tu mi manifesti: il tuo volere. Dimmi piuttosto il motivo per cui non temi di scendere qua in basso, nel centro dell’universo ( occupato appunto dall’inferno), dal luogo sconfinato (I’Empireo), dove bruci dal desiderio di ritornare." "Poiché vuoi penetrare tanto in profondità con la tua mente, ti dirò in breve perché non temo di scendere nell’inferno" mi rispose. Conviene temere soltanto quelle cose che possono arrecare danno; le altre no, poiché non sono temibili. Dio mi creò, per sua grazia,tale che la vostra miseria di peccatori non mi tocca, né possono attaccarmi le fiamme infernali. Nel cielo una donna gentile (la Vergine) ha compassione per queste difficoltà verso le quali io ti mando (a liberare Dante), tanto da mitigare la severità della giustizia divina. Questa chiamò Lucia e disse: "Il tuo fedele ha ora bisogno di te, ed io a te lo raccomando". Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse, e venne dove io sedevo insieme all’antica Rachele. Parlò: - Beatrice, vera gloria di Dio (loda: lode, in quanto la sua perfezione torna a gloria di chi la creò), perché non aiuti chi tanto ti amò, colui che, per amor tuo, seppe elevarsi sulla turba dei mediocri? non odi il suo pianto angoscioso? non vedi il pericolo della dannazione che lo assale sul fiume (del peccato), sul quale il mare non può vantare la sua forza? Sulla terra non ci furono mai persone così pronte a perseguire il loro utile e a evitare ciò che potesse danneggiarle, come fui pronta io, dopo che tali parole mi furono dette, nello scendere fin quaggiù dal mio seggio di beata, confidando nella tua nobile eloquenza, che onora sia te sia quelli che l’hanno intesa (traendone profitto spirituale)." Dopo avermi dette queste cose, volse verso di me gli occhi lucidi di lagrime; e per questo mi rese più sollecito a venire (dove tu eri); e come Beatrice volle venni da te; ti portai via dal cospetto della lupa, che t’aveva impedito di raggiungere per la via più breve la cima del colle. Che hai dunque? perché, perché indugi ? perché accogli in cuore tanta pusillanimità? perché non hai coraggio e schietta fiducia in te stesso? dal momento che tre beate tanto potenti perorano la tua causa davanti al tribunale di Dio, e che le mie parole promettono (al tuo viaggio) un esito così felice? " Come i gracili fiori, prostrati a terra con le corolle serrate per difendersi dal freddo della notte, appena li rischiara all’alba il primo raggio di sole si ergono sui loro steli con le corolle tutte aperte, così mi ripresi dal mio precedente stato di abbattimento, e tanto coraggio entrò nel mio animo, che cominciai (a parlare) libero da ogni timore: "Oh misericordiosa colei che mi venne in aiuto! e te generoso, che non hai tardato a prestare obbedienza alle veritiere parole che ti indirizzo! Col tuo ragionamento mi hai a tal punto predisposto l’animo con desiderio al viaggio, che sono tornato ad avere l’intenzione che avevo in origine. Incamminati dunque, poiché un’unica volontà ci governa: siimi guida, padrone, maestro. " Cosi parlai; ed essendosi egli avviato, entrai (dietro a lui) nell’arduo e orrido cammino.
«Attraverso me si entra nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine, tra le anime dannate. Dio, mio eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore). Prima di me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni speranza ». Vidi questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: « Maestro, ciò che essa dice per me è terribile ». Ed egli, da persona perspicace qual era: « A questo punto occorre abbandonare ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora sparire. Siamo giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio ». Ivi echeggiavano nell'aria senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che (udendoli) per la prima volta ne piansi. Differenti lingue, orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi delle mani l'una contro l'altra creavano nell'aria buia, priva di tempo, una confusione eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la sabbia quando soffia un vento turbinoso. E io che avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai: "Maestro, che significano queste grida? che gente è questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?" E Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né biasimo né lode. Sono mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé. Perché il loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine infernale, perché i colpevoli (gli angeli che parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi rispetto ad essi " . Ed io: "Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo dirò in pochissime parole. Costoro non possono sperare in un completo annullamento del loro essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte) la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino. Il mondo non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna non parliamo di loro, ma osserva e va oltre ". E io, guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo che girava correndo così velocemente, da sembrare incapace di una qualsiasi forma di quiete; e dietro ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei immaginato fosse stata annientata dalla morte. Dopo aver ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale (fece per viltà il gran rifiuto). Compresi allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i diavoli). Questi miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in quanto non seppero affermare la loro personalità), erano nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Esse rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime, era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi. E dopo aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio: "Maestro, consentimi di apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva, come intravedo attraverso la debole luce". Virgilio mi rispose: « Le cose ti saranno note (conte: conosciute) quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume Acheronte ». Allora, con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare finché arrivammo al fiume. E (dopo essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage ! Non illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco e nel ghiaccio. E tu che, ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me n'andavo, continuò: « Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato (per passare): una barca più leggiera ti dovrà trasportare ». E Virgilio gli disse: « Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò che è voluto può avere immediata attuazione), e non chiedere altro ». Da questo istante si calmarono le gote ricoperte di fluente barba del traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è, per antonomasia, il colore della morte), che aveva intorno agli occhi cerchi di fuoco. Ma quelle anime, che erano affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti, non appena ebbero udite le crudeli parole: maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il luogo e il tempo (in cui erano state generate) e l'origine della loro stirpe e della loro nascita. Poi si adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non temono Dio. II demonio Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque tarda (ad obbedirgli). Come in autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua veste frondosa, allo stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte), come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere). Avanzano così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel punto d'imbarco. « Figlio mio », spiegò cortesemente Virgilio, « tutti coloro che muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra: e sono (spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore (delle pene) si converte in loro nel desiderio (di affrontarle). Di qui non passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai quale significato hanno le sue parole.» Appena Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria) dello spavento provato m'inonda ancora di sudore. Dalla terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento, che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece perdere i sensi; e caddi come chi cede al sonno.
Un cupo tuono interruppe il profondo sonno nella mia testa, così ripresi coscienza come una persona che è destata violentemente; allora, levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove ero. Il fatto è che mi trovai sul margine della profonda voragine del dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli lamenti,(La voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla."Ora scendiamo quaggiù nel mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai. "Ed io, che avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio allorché sono preso dal timore, hai paura? " Ed egli: "La tragica sorte dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu interpreti come un segno di paura. Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che chiude tutt’intorno il baratro. Qui, per quel che si poteva arguire dall’udito, non vi era altra manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano fremere l’atmosfera infernale. Sospiri, che l'aura etterna facevan tremare: questi " sospiri " si contrappongono idealmente all'incomposto bestemmiare delle anime del canto precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca, non più tragica. Ciò avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di bambini e di donne e di uomini. l buon maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che tu sappia, prima di procedere oltre, che non hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non bastano (a redimerli), perché furono privi del battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui tu credi. E se vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono uno di loro. Per tale mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che viviamo nel desiderio (di conseguire la visione beatifica di Dio) destinato a restare inappagato". Provai un grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della voragine infernale). Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi, signore, uscì mai di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui, per assurgere poi alla beatitudine?" Ed egli, che comprese il significato nascosto delle mie parole, rispose: "Mi trovavo da poco in questa condizione, quando vidi scendere quaggiù un potente (Cristo), circonfuso dello splendore della sua divinità. Portò via di qui l’anima di Adamo, il capostipite del genere umano (primo parente: primo genitore), quelle del figlio di lui Abele e di Noè, quella del legislatore Mosè, sempre sottomesso ai voleri di Dio; e inoltre portò via il patriarca Abramo e il re Davide, Giacobbe (Israèl) col padre Isacco e i suoi dodici figli e la moglie Rachele, per ottenere la mano della quale tanto si adoperò; e molti altri ancora, e li rese beati; e voglio che tu sappia che, prima di loro, nessun altro era salito in paradiso" . Per il fatto che egli parlasse non interrompevamo il nostro procedere, continuando ad aprirci un varco nella selva, nella selva, intendo, costituita da un numero sterminato di anime vicinissime le une alle altre. Non avevamo ancora percorso molta strada dal margine più alto del cerchio, quando vidi una sorgente di luce che per mezzo cerchio intorno a sé dissipava le tenebre. Ci trovavamo ancora un poco lontani da questa sorgente di luce, non tanto tuttavia, che io non potessi intuire che una schiera di anime degne di onore occupava quel posto. "O tu che onori scienza e arte, chi sono costoro che hanno tanta dignità, che li distingue dalla condizione degli altri? " E Virgilio a me: "La fama onorevole di cui godono nel mondo dei vivi, ottiene (per essi) un particolare favore presso Dio che conferisce loro un tale privilegio. In quell’istante fu da me udita una voce: "Onorate il sublime poeta: la sua anima, che si era allontanata, torna fra noi ", Dopo che la voce si arrestò e ci fu silenzio, vidi venire verso di noi quattro ombre maestose: il loro aspetto non era né triste né lieto. Virgilio prese a dire: " Guarda, quello che ha in mano la spada, e precede gli altri tre come un sovrano. È Omero, il sommo di tutti i poeti; dietro di lui viene Orazio, poeta satirico; Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano. Poiché ciascuno si accomuna a me nell’appellativo di poeta pronunciato poco fa da uno di loro (nel nome che sonò la voce sola), mi tributano onore, e fanno bene a tributarmelo ( perché in me onorano la poesia )". Vidi così adunarsi il bel gruppo guidato dal più eccelso dei poeti epici, la cui poesia si leva come aquila al di sopra di quella degli altri. Dopo aver parlato a lungo tra loro, si volsero a me con un cenno di saluto; e Virgilio sorrise per questo segno di onore: e mi onorarono ancora di più, poiché mi accolsero nel loro gruppo, in modo che diventai il sesto tra quei così grandi sapienti, Procedemmo insieme fino alla zona luminosa, trattando argomenti di cui (ora) è opportuno tacere, non meno di quanto fosse conveniente parlarne nel luogo ove allora mi trovavo. Giungemmo ai piedi di un maestoso castello, circondato da sette ordini di alte mura, protetto tutt’intorno da un leggiadro corso d’acqua. Lo attraversammo come se fosse stato di terra solida; penetrai con quei sapienti (nel castello) attraverso sette porte: arrivammo in un prato verde e fresco. Ivi erano persone dagli sguardi pacati e dignitosi, di grande autorità nel loro aspetto: scambiavano fra loro poche parole, con persuasiva dolcezza. Allora ci portammo in uno degli angoli, in una radura, luminosa e sovrastante il terreno circostante, in modo che (di qui) era possibile abbracciare con lo sguardo tutti gli spiriti (ivi raccolti). Là dirimpetto a me, sul verde compatto e brillante dell’erba mi vennero indicati i grandi spiriti, ripensando alla vista dei quali sento ancora il mio animo esultare. Vidi Elettra con molti dei suoi discendenti, fra i quali riconobbi Ettore ed Enea, Giulio Cesare in armi e con occhi sfavillanti come quelli di un uccello rapace. Vidi Camilla e Pentesilea; dal lato opposto, vidi il re Latino che sedeva accanto a sua figlia Lavinia. Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia: e isolato, in disparte, vidi il Saladino. Dopo aver sollevato un poco gli occhi (il gruppo dei filosofi e degli scienziati si trova più in alto di quello degli uomini d’azione), vidi Aristotile, il maestro dei sapienti, seduto in mezzo ad altri filosofi. Tutti hanno gli occhi fissi su di lui. tutti gli rendono onore: tra gli altri vidi Socrate e Platone, che, in posizione preminente rispetto agli altri, sono a lui più vicini; Democrito, che attribuisce al caso la formazione del mondo, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone; e vidi il sagace classificatore delle qualità (delle erbe), intendo dire Dioscoride; e vidi Orfeo, Tullio Cicerone e Lino e Seneca, autore di scritti di morale; Euclide geometra e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Averroè, autore del grande commento. Non posso riferire su tutti in modo esauriente, poiché la lunghezza dell’argomento (che devo trattare) mi sollecita a tal punto, che spesso il mio racconto è insufficiente rispetto al grande numero di eventi da narrare. La schiera dei sei poeti diminuisce dividendosi in due gruppi: la mia saggia guida mi conduce per un cammino diverso, fuori dell’aria immobile (del castello), nell’aria tremante (per i sospiri delle anime); e giungo in un punto dove, non c’è traccia di luce.
Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, che contiene in sé meno spazio (essendo la sua circonferenza più piccola), ma una pena tanto più crudele, che spinge a lamentarsi. Ivi si trova Minosse in atteggiamento terrificante, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe (dei peccatori); li giudica e li destina (ai rispettivi luoghi di punizione) a seconda del numero di volte che attorciglia (la coda intorno al proprio corpo). Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta al suo cospetto, rivela tutto di sé; e quel giudice dei peccati comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso. Davanti a lui ve ne sono sempre in gran numero: le une dopo le altre si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano (la sentenza), e poi vengono travolte nell’abisso. "O tu che giungi alla dimora del dolore", disse Minosse a me quando si accorse della mia presenza, interrompendo l’esercizio della sua così alta funzione, "considera attentamente il modo in cui stai per entrare (se hai cioè i meriti necessari per compiere incolume il viaggio nell’inferno) e colui in cui riponi la tua fiducia (Virgilio non è un’anima redenta): non lasciarti trarre in inganno dalla larghezza dell’ingresso!" E Virgilio di rimando: " Perché ti affatichi a gridare ? Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro". A questo punto cominciano a farsi sentire le voci del dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti colpiscono il mio udito. Giunsi in un posto privo d’ogni chiarore, che rumoreggia come un mare in tempesta, sotto la furia di venti contrari. La tempesta di questo cerchio dell’inferno, destinata a non avere mai tregua, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare (in tutti i sensi) e facendole cozzare (fra loro ). Quando giungono davanti alla rupe franata, qui prorompono in grida, in pianto unanime, in lamenti; bestemmiano qui la potenza di Dio. Compresi che a una siffatta pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione. E come le ali portano nella stagione invernale gli stornelli, che si dispongono in gruppi ora diradati ora compatti, così da quel vento le anime perverse sono trascinate di qua, di là, in basso, in alto; mai nessuna speranza, non solo di una cessazione temporanea, ma nemmeno di un castigo alleviato, è loro di conforto. E come le gru sono solite intonare i loro lamenti, quando solcano l’aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti, le anime portate dal turbine sopra menzionato: per questo dissi: " Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce? " "La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia" mi rispose allora Virgilio, "regnò su molti popoli di lingua diversa. Fu a tal punto dedita alla lussuria, che dichiarò, sotto le sue leggi, permesso ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare la riprovazione in cui era incorsa. E’ Semiramide, di cui le storie narrano che fu sposa di Nino, cui succedette (sul trono): fu sovrana della regione che attualmente il sultano governa, L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al marito morto, Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra. Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni luttuosi, e guarda il famoso Achille, che alla fine ebbe per avversario amore. Guarda Paride, Tristano "; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che amore strappò alla vita. Dopo aver ascoltato il mio maestro in quella lunga rassegna di donne ed eroi dell’antichità, fui colto da compassione, e fui sul punto di perdere i sensi. Presi a dire: "Poeta, desidererei parlare con quei due che procedono uniti, e che sembrano opporre così debole resistenza al vento". E Virgilio: " Farai attenzione al momento in cui ci saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’amore che li conduce, ed essi verranno. Non appena il vento li volse verso di noi, dissi: "O anime tormentate, venite a parlarci, se qualcuno (Dio) non lo vieta ! " Come le colombe, ubbidendo all’impulso amoroso, si dirigono nel cielo verso l’amato nido, planando con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio, così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo verso noi attraverso l’aria infernale, tanto efficace era stata la mia ardente preghiera. "O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a trovare noi che (morendo) macchiammo il mondo col nostro sangue. se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti serenità, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento. Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera, come fa (adesso), attenuerà la sua violenza, La città dove nacqui si stende sul litorale verso il quale discende il Po per trovare, coi suoi affluenti, quiete. Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza di cui fui privata (quando venni uccisa); e l’intensità di questo amore fu tale, che ancora ne sono sopraffatta. Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi sospinse con tanta forza a innamorarmi della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere (dal fatto che siamo uniti), ancora mi lega a lui. Amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nel cerchio dei traditori (la Caina è la zona del nono cerchio destinata ai traditori dei parenti)." Queste parole ci vennero rivolte da loro. Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: "A cosa pensi? " Quando risposi, cominciai: "Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto reciproco desiderio condusse Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso fino alle lagrime. Però dimmi: quando la vostra passione si manifestava soltanto attraverso dolci sospiri, con quale indizio e in che modo Amore permise che l’uno conoscesse i sentimenti dell’altra, fino allora incerti d’ essere corrisposti ? " E Francesca "Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro. Ma se un così affettuoso interesse ti spinge a interrogarmi sul modo in cui si manifestò per la prima volta il nostro amore, farò come chi parla tra le lagrime. Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui: eravamo soli e non avevamo nulla da temere. Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ebbe ragione di ogni nostra resistenza. Quando leggemmo come la bocca desiderata ( di Ginevra ) fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me, mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura". Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra (Paolo) piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi non altrimenti che per morte: e caddi come cade un corpo inanimato.
Quando riprendo la conoscenza, che era rimasta in me offuscata alla vista del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi aveva, per la tristezza, completamente sconvolto, vedo intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo. Mi trovo nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai non cambia il suo ritmo ne la materia di cui è fatta. Grossi chicchi di grandine, acqua sudicia e neve cadono con violenza attraverso l’ aria buia; la terra che accoglie tutto questo emana un fetido odore. Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo sulle turbe che in quest’acqua impura sono immerse. Ha gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le anime dei peccatori, le scuoia e le squarta. Sul piano allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli occhi... vermigli stanno a significare l'avidità rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole rapace. La pioggia li spinge a lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi proteggono l’altro; gli infelici peccatori continuano a rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al tormento). Quando Cerbero, l’orribile mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti; un fremito di rabbia lo agitava tutto. Virgilio tese le mani aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la gettò nelle tre bramose gole. Come quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo, poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo, tale divenne il sozzo aspetto del triplice volto del diavolo Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a tal punto, da far loro desiderare la sordità. (Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha l’apparenza di un corpo umano. Erano tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle davanti. "O tu che sei condotto per questo inferno", parlò, "vedi se sei in grado di riconoscermi: tu nascesti prima che io morissi." E io: "La pena che ti tormenta forse ti allontana dalla mia memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto. Ma dimmi chi sei, anima collocata in un posto così doloroso ed assegnata ad un tale tormento, che, se pur ve ne sono di più grandi, nessuno è altrettanto fastidioso". Ed egli "Firenze, che a tal punto è colma di odio da non poterne più contenere, mi ebbe fra i suoi abitanti quando vivevo sulla terra. Voi concittadini mi chiamaste Ciacco: per il peccato rovinoso della gola, come vedi, mi struggo sotto la pioggia. Né io (qui) sono il solo spirito infelice, poiché tutti questi altri sono soggetti ai medesimi tormenti per la medesima colpa". E più non pronunciò parola. Gli risposi: "Ciacco, il tuo dolore mi affligge tanto, da indurmi a piangere; ma dimmi, se lo sai, a quali estremi si ridurranno gli abitanti della città divisa in fazioni; se in essa si trova qualcuno che sia giusto; e dimmi anche il motivo per cui tanta discordia ha cominciato a travagliarla". Ed egli: "Dopo una lunga contesa si arriverà a un fatto di sangue, e il partito degli uomini del contado (la parte selvaggia: quella dei Cerchi, i Bianchi) manderà in esilio gli esponenti del partito avversario (quello dei Donati, i Neri) danneggiandoli gravemente. In seguito è destino che il partito dei Bianchi soccomba prima che siano trascorsi tre anni, e che il partito dei Neri abbia il sopravvento con l’aiuto di qualcuno che attualmente si barcamena (fra le due opposte fazioni). Il partito dei Neri spadroneggerà a lungo. tenendo sottomessa la fazione avversa con provvedimenti iniqui, per quanto questa si lamenti e si sdegni. I cittadini giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto: la superbia, l’invidia e la brama di guadagni sono le tre scintille che hanno appiccato il fuoco agli animi (aizzando i Fiorentini gli uni contro gli altri)". A questo punto pose termine al suo discorso doloroso; e io: "Vorrei avere da te ancora altri schiarimenti, e vorrei che tu mi facessi la grazia di continuare a parlare. Farinata e Tegghiaio, che furono così degni di onore, Jacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca e gli altri cittadini che si adoperarono per il bene di Firenze, dimmi dove si trovano e fa in modo che io apprenda qualcosa di loro; perché grande è il desiderio che ho di sapere se il paradiso dà loro dolcezza, o l’inferno li amareggia". E Ciacco: "Si trovano tra i dannati più colpevoli: peccati diversi (da quello punito in questo cerchio) pesano su di loro in modo da tenerli nella parte bassa dell’inferno: se scenderai fin laggiù, potrai vederli. Ma quando sarai tornato tra i vivi, ti prego di richiamare il mio nome alla loro memoria: più non parlerò né ti risponderò". Allora stravolse gli occhi che fino allora avevano guardato diritti davanti a se; per un attimo ancora mi guardò, e poi abbassò la testa: piombò giù con essa allo stesso livello degli altri dannati (ciechi: in quanto privi della luce dell’intelletto). E Virgilio mi disse: "Più non si alzerà prima del suono delle trombe degli angeli, quando verrà il giudice nemico del reprobi (Cristo): ogni dannato rivedrà ( allora ) il suo triste sepolcro, assumerà nuovamente il corpo e l’aspetto che aveva da vivo, ascolterà la sentenza che deciderà la sua sorte per l’ eternità". La solennità di questa rappresentazione del Giudizio Universale non trova riscontro che in alcuni dei più grandi capolavori delle arti figurative. Cosi, razionando un poco intorno alla vita d’oltretomba, camminammo lentamente attraverso l’ immondo miscuglio fatto di ombre di peccatori e di acqua; e pertanto mi rivolsi a Virgilio: " Maestro, queste pene aumenteranno o diminuiranno d’intensità dopo Il Giudizio Universale, o saranno dolorose come adesso? " E Virgilio: "Ripensa alla tua dottrina, secondo la quale, quanto più una cosa è perfetta, tanto più intensamente sente il piacere non meno del dolore. Benché i dannati non possano mai conseguire la vera perfezione (che si ha solo quando l’uomo e vicino a Dio), attendono di essere perfetti dopo il Giudizio più che non prima". Percorremmo il cerchio secondo la sua circonferenza, discorrendo assai di più di quanto io non abbia qui riferito; giungemmo nel punto ove da questo cerchio si scende nel successivo: ivi ci imbattemmo in Pluto, l’orribile diavolo.
"Papé Satàn, papé Satàn aleppe!" prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina, per rincuorarmi così mi parlò: "Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo. Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: "Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia. Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’ orgogliosa ribellione (di Lucifero e dei suoi seguaci)". Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio. Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo. Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa tanti inimmaginabili supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia ? Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino. Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti. (Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: "Perché conservi? " e "Perché sperperi ? " In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso; poi, una volta qui arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il suo semicerchio fino allo scontro successivo. E io, che mi sentivo quasi turbato, dissi: "Maestro, spiegami ora quale moltitudine è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici ". Ed egli: "Tutti quanti ebbero la mente così ottenebrata durante la vita in terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero alcuna spesa misuratamente. Le loro parole lo dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li separano. Questi, che portano la tonsura, furono ecclesiastici, e papi e cardinali, nei quali l’avarizia si manifestò in modo eccessivo". E io: "Fra costoro, maestro, dovrei certo riconoscere qualcuno che si macchiò di queste colpe". E Virgilio: "Accogli nella tua mente un pensiero assurdo: la dissennata vita che li rese turpi, li rende ora oscuri ad ogni tentativo di riconoscerli. Per l’eternità accorreranno ai due punti per scontrarsi: gli uni risorgeranno dalla tomba coi pugni chiusi, gli altri con i capelli recisi. Lo spendere e il risparmiare in misura smodata li ha privati del paradiso, e condannati a questa mischia: per farti capire di qual genere essa sia, non c’è bisogno che io l’adorni di belle parole. Puoi ora vedere, figlio, quanto sia breve l’inganno dei beni che sono affidati alla Fortuna, per i quali il genere umano si accapiglia; poiché tutte le ricchezze che sono e furono sulla terra, non potrebbero dar pace neppure a una sola di queste anime affaticate ". " Maestro ", dissi a Virgilio, " spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra? " E Virgilio: "O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ). Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo, distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi; per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba. L’ accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro. I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato. Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine. Ma è tempo di scendere ormai verso un dolore più grande; già ogni stella che, quando venni in tuo aiuto, saliva in cielo, tramonta e non ci è concesso un lungo indugio ". Attraversammo il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e si riversa in un fossato che da essa deriva. L’acqua era più nera che livida; e noi, insieme alle onde torbide, scendemmo nel cerchio quinto attraverso un cammino malagevole. Questo triste ruscello sfocia nella palude chiamata Stige, dopo essere sceso fino alla base dei crudeli e foschi dirupi. Ed io, che ero intento a guardare, vidi in quella palude moltitudini imbrattate di fango, tutte nude, con l’espressione crucciata. Questi peccatori si colpivano l’un l’altro non solo con le mani, ma con la testa e col petto e coi piedi, e si dilaniavano a pezzo a pezzo coi denti. Virgilio disse: "Figlio, puoi ora vedere gli spiriti di coloro che furono sopraffatti dall’ira; e voglio che tu inoltre sappia che sotto il pelo dell’acqua vi sono dannati che sospirano, e fanno gorgogliare quest’acqua alla superficie, come puoi vedere, da qualunque parte tu guardi. Immersi nella fanghiglia, dicono: "Fummo malinconici nell’aria dolce allietata dal sole, portando nel nostro animo la caligine dell’accidia: ora ci addoloriamo nella nera melma". Si gorgogliano questo lamento (inno: qui in senso ironico) in gola, perché non lo possono pronunciare con parole chiare e complete". Costeggiammo così per lungo tratto la sozza palude, tenendoci tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango: giungemmo alla fine alla base d’una torre.
Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla. Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: " Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa ? " E Virgilio di rimando: " Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi ". Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità paragonabile a quella della piccola imbarcazione che vidi in quell’istante dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: " Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio! " " Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi " ribatte il mio maestro, "a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa." Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse. Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso). Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime. Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte ) ? " Ed io: " Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?" Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ". Ed io: " Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ". Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: " Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! " Poi mi abbraccio: mi baciò in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo! Quello fu in vita un prepotente; nessuna azione buona abbellisce il ricordo che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in preda al furore. Quanti che si considerano adesso nel mondo persone di grande importanza, qui staranno come porci nel fango, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli ! " Ed io: "Maestro, sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma". E Virgilio: "Prima che tu possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio" . Poco dopo vidi gli iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio. Tutti insieme gridavano: " Addosso a Filippo Argenti! "; e il rabbioso dannato fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti. Lo abbandonammo a questo punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando attentamente davanti a me. In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di movimento drammatico; il presente storico sbarro sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il Poeta avverte. Virgilio mi disse: " Ormai, figlio, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti oppressi dal dolore, col grande esercito (dei diavoli)". Ed io: " Maestro, distinguo già chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri, rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco". E Virgilio mi disse: "Il fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa apparire rosse, come puoi vedere in questa parte bassa dell’inferno ". Arrivammo infine dentro i profondi fossati che difendono quella città desolata: mi sembrava che le mura fossero di ferro. Non senza aver prima fatto un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero gridò ad alta voce: " Uscite da qui (dalla barca): ecco la porta (della città di Dite) ". Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: " Chi e costui che ancora in vita visita il regno dei morti?". E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte. Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: "Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire e penetrato in questo regno. Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui ". Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. " Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare " dissi " in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui). " E Virgilio, che mi aveva condotto li, mi disse: "Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto. Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con lasperanza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’ inferno (nel mondo basso)". Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza. Non potei udire quello che disse loro: ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti. Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: "Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore! ". E rivolto a me: "Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso. Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata. Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione, colui ad opera del quale la città ci sarà aperta".
Quel colore smorto che la paura aveva diffuso sul mio volto, quando avevo veduto Virgilio tornare indietro, fece sparire più presto il pallore che da poco era apparso sul suo. Si arrestò attento come chi cerca di percepire un suono; lo sguardo, infatti, non poteva portarlo a distinguere lontano attraverso l’aria buia e la densa caligine. "Eppure dovremo vincere questa battaglia" prese a dire, "a meno che... (ma no, non è possibile). Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno! " Mi accorsi facilmente come Virgilio cancellasse il senso delle prime parole con quelle aggiunte in seguito, diverse dalle prime; ciò nonostante il suo discorso mi diede timore, poiché io attribuivo alla frase non conclusa un significato forse peggiore di quello che aveva. "Nel fondo della dolorosa voragine infernale avviene mai che discenda qualcuno del primo cerchio (il limbo), dove le anime hanno come sola punizione la speranza (di vedere Dio) destinata a non realizzarsi mai ?" Feci questa domanda; e Virgilio mi rispose: "Raramente avviene che qualcuno di noi faccia la strada che io sto percorrendo. E’ bensì vero che già un’altra volta fui quaggiù, richiamato dagli scongiuri di quella crudele Eritone che faceva tornare le anime nei loro corpi, Da poco tempo il mio corpo era privo dell’anima, allorché costei mi fece entrare nella città di Dite, per fare uscire un’anima del cerchio dove e dannato Giuda. Quello è il posto più basso e più buio, e più lontano dal cielo che imprime il movimento all’universo: conosco bene il cammino; perciò rassicurati. Nella cosmologia della Commedia, il ciel che tutto gira è, rispetto alla terra, l'ultimo dei nove cieli fisici. E' chiamato Primo Mobile, perché da esso si trasmette il movimento a tutto il creato. L’acquitrino da cui emana il grande fetore circonda tutt’intorno la città dei dannati, nella quale non possiamo ormai entrare senza lotta. E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamentodi donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste, E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: " Ecco le implacabili Erinni. Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone"; ciò detto, tacque. Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio. "Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra" dicevano tutte quante guardando verso il basso: "fu male non punire nella persona di Teseo l’ assalto (portato al regno dell’oltretomba). " "Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra. " Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue. O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi. E già si stava avvicinando sulla superficie fangosa della palude un rumore fragoroso e terrificante, che faceva tremare sia l’una che l’altra riva dello Stige, non diverso da quello di un vento reso violento dal calore delle masse d’aria (che trova sul suo cammino), il quale colpisce la foresta e senza che nulla possa trattenerlo spezza i rami, li scaglia a terra e li trascina fuori (della selva); avanza imponente, in una nuvola di polvere, e causa la fuga dei greggi e dei pastori. Virgilio mi liberò gli occhi (che erano coperti dalle sue mani) e disse: "Dirigi adesso la forza del tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, verso quella parte dove la nebbia è più molesta". Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi. Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione. Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui. Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo. "O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata", prese a dire sullo spaventoso limitare, " da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi? Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo. " Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette. Entrammo in essa senza incontrare opposizioni; e io, che desideravo osservare lo stato delle cose contenute dentro quelle mura fortificate, non appena entrato, mi guardai d’attorno; e vidi da ogni parte una grande pianura colma di dolore e di supplizi crudeli. Come ad Arles, dove la corrente del Rodano (sfociando nel mare) si arresta, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini, le tombe rendono tutto il terreno vario, così facevano qui in qualsiasi punto, solo che la forma della sepoltura era più angosciosa; poichè fra i sepolcri erano sparse fiamme, a causa delle quali erano tanto roventi, che nessun’arte (di fabbro) chiede che il ferro lo sia di più. Le pietre tombali erano tutte sollevate, e uscivano dai sepolcri lamenti così disperati, che parevano davvero (lamenti) di infelici e di suppliziati. E io: "Maestro, quali sono quelle turbe che sepolte dentro quelle tombe, si fanno udire attraverso i loro dolorosi gemiti ? " E Virgilio: "Qui si trovano i capi di eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e i sepolcri sono molto più pieni di quanto tu creda. I seguaci di una stessa eresia sono sepolti insieme, e i monumenti sepolcrali sono ora più ora meno caldi". E dopo essersi volto a destra, ci incamminammo fra il luogo dei supplizi e le alte mura.
Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo. "O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi" presi a dire, "parla ed esaudisci il mio desiderio. Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia. " E Virgilio: "Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra. In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono che l’anima muoia insieme al corpo. Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi ". E io: "Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto a ciò non soltanto ora". "O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui. Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno." Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri; mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio. Ed egli mi disse: "Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ". Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo. E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso quel dannato, con questa esortazione: "Le tue parole siano misurate". Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi sprezzante, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati ? " Io, che desideravo obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai; per cui egli sollevò un poco le ciglia, poi disse: "Furono acerrimi nemici miei e dei miei avi e del mio partito, tanto che per due volte li debellai". " Se furono mandati in esilio, tornarono da ogni luogo" gli risposi "sia la prima che la seconda volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del ritornare". A questo punto si levò dall’apertura scoperchiata un’ombra accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su: penso si fosse alzata sulle ginocchia. Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun altro; e dopo che ebbe finito di dubitare, tra le lagrime disse: "Se il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con te? ". Ed io: "Non giungo per mio merito: Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice, simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in dispregio". Le sue parole e la qualità del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente. Alzatosi di scatto in piedi gridò: "Come hai detto? egli ebbe? non vive più? la dolce luce non colpisce più i suoi occhi? " Quando si avvide di un certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde nuovamente indietro e non si mostrò più fuori. Ma il magnanimo Farinata, a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco; e proseguendo il discorso di prima, disse: " Se hanno male imparato l’ arte del ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto non faccia la tomba in cui sto a giacere. Ma il volto della donna che qui governa non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare in patria. E voglia il cielo che tu possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è così spietato in ogni sua legge contro quelli della mia famiglia? " Gli risposi: " La crudelissima strage che tinse del colore del sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nelle nostre assemblee ". Dopo aver sospirato e scosso la testa, disse: " Non fui io solo a provocare questa strage né certamente senza un motivo mi sarei mosso insieme agli altri esuli. Ma fui io solo, là dove fu da tutti tollerato che Firenze venisse rasa al suolo, colui che la difesi apertamente " "Deh, possa aver pace un giorno la vostra discendenza " lo pregai, "scioglietemi (in nome di questo augurio) quel dubbio che in questo cerchio ha confuso le mie idee. Sembra che voi prevediate , se intendo bene, quello che il tempo porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate in una condizione diversa. " " Noi vediamo " disse " come colui che ha la vista difettosa, le cose che sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio. Quando esse si avvicinano o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non sappiamo nulla del vostro stato sulla terra. Puoi pertanto capire come la nostra conoscenza sarà del tutto offuscata dal momento in cui (dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si chiuderà. " Allora, come punto dal rimorso per una colpa da me compiuta, parlai: " Ora direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro) che suo figlio è ancora unito ai vivi; e riferitele che, se poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché già stavo pensando al dubbio che mi avete chiarito ". Ormai Virgilio mi stava richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di pena. Mi disse: " In questa parte del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei rimanenti ". Poi si nascose (nel sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile. Egli s’incamminò; e poi, mentre procedevamo, mi chìese: " Perché sei così turbato? " E io risposi alla sua domanda. "La tua memoria serbi ciò che di ostile ti è stato predetto " mi ingiunse Virgilio. "Ed ora fa attenzione a queste parole " ed alzò l’indice: " quando ti troverai in presenza della soave luce che si sprigiona da colei (Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il corso della tua vita. " Poi si diresse verso sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso la parte centrale del cerchio seguendo un sentiero che terminava in un baratro il quale faceva giungere fin lassù il suo puzzo nauseabondo.
Sull’orlo di un alto pendio, formato da grandi macigni spaccati disposti circolarmente, Giungemmo al di sopra di una folla sottoposta a più dolorosi tormenti; e qui per lo spaventoso insopportabile fetore che esala il basso inferno, cercammo riparo dietro il coperchio di una grande tomba, sul quale vidi la seguente iscrizione: " Custodisco papa Anastasio, che Fotino allontanò dalla giusta strada ". "Occorre che la nostra discesa sia ritardata, in modo che prima il nostro olfatto si abitui un poco alla pestifera esalazione; dopo non dovremo più prendere, riguardo ad essa, alcuna precauzione." Così parlò Virgilio; e io gli dissi: "Trova un compenso (alla nostra sosta), in modo che il tempo non scorra inutilmente ". E Virgilio: " E’ proprio ciò a cui sto pensando". "Figliolo, all’interno di questa riva pietrosa" prese poi a dire "si trovano tre cerchi piccoli, (rispetto ai precedenti), digradanti come quelli dai quali sei uscito. Sono tutti pieni di anime dannate; ma perché poi ti sia sufficiente soltanto vederle (senza più bisogno di spiegazioni), odi in che modo e per quale motivo si trovano in essi stipate. Lo scopo di ogni cattiva azione, che suscita ira in cielo, è la violazione di un diritto, ed ogni scopo di questo genere (ogni ingiuria) offende qualcuno o con la violenza o con la frode. Ma poiché la frode è malvagità propria dell’uomo, essa spiace maggiormente a Dio; perciò i fraudolenti stanno in basso e sono sottoposti a tormenti maggiori. Il primo dei tre cerchi è interamente occupato dai violenti; ma poiché si compie violenza contro tre specie di persone, esso è stato costruito e suddiviso in tre zone concentriche. Si può usar violenza contro Dio, se stessi, il prossimo, e precisamente tanto contro loro personalmente quanto contro le cose che loro appartengono, come ti sarà spiegato attraverso un ragionamento più chiaro. Al prossimo si possono infliggere morte violenta e dolorose ferite, e ai suoi beni distruzioni, incendi ed estorsioni dannose; perciò il primo girone punisce, divisi in gruppi (per diverse schiere), tutti quanti gli omicidi e chiunque colpevolmente ferisce, i saccheggiatori e i ladroni. Si può usar violenza contro se stessi e contro i propri averi; e perciò è giusto che nel secondo girone si penta inutilmente chiunque priva se stesso della vita, dilapida al gioco e sperpera le sue ricchezze, e (quindi) piange là dove avrebbe dovuto essere lieto. Si può usare violenza contro Dio, rinnegandolo in cuore e apertamente bestemmiandolo, e recando oltraggio alla sua bontà nella natura; perciò il girone più piccolo segna del suo marchio sia Sodoma sia Cahors, sia colui che parla disprezzando Dio nel suo animo (il bestemmiatore). Significativa in proposito è la seguente frase del Boccaccio: "Come l'uomo dice dì alcuno - egli è Caorsino - come s'intende ch'egli sia usuraio". La frode, che offende ogni coscienza, può essere usata tanto contro colui che si fida quanto contro colui che non ha fiducia. Questo secondo tipo di frode sembra distruggere soltanto il vincolo d’amore creato (tra gli uomini) dalla natura; perciò nel secondo cerchio (della città di Dite, ottavo di tutto l’inferno) sono raccolti i peccati di ipocrisia, adulazione e magia, falsificazione, latrocinio e simonia, seduzione, baratteria e colpe ugualmente immonde. L’altro tipo di frode fa dimenticare sia il vincolo dell’amore naturale, sia quello che ad esso si aggiunge in seguito, dal quale nasce la fiducia specifica; perciò,nel cerchio più piccolo, dove si trova il punto dell’universo occupato da Lucifero (Dite), chiunque tradisce è dilaniato da tormenti eterni. " Ed io: " Maestro, il tuo ragionamento si svolge con grande chiarezza, e descrive assai bene questo abisso e le genti in esso contenute. Ma spiegami: quelli della palude melmosa, quelli travolti dal vento, e quelli che la pioggia percuote, e quegli altri che, incontrandosi, così aspramente si insultano, perché non sono puniti dentro la città arroventata, se Dio li ha in odio? e se non li ha, perché si trovano in tali condizioni ? " Non ti ricordi delle parole con le quali I’Etica, libro a te familiare, tratta a fondo le tre inclinazioni che Dio disapprova, l’incontinenza, la malizia e la sfrenata bestialità? e di come l’incontinenza offenda meno Dio, e attiri su di sé una condanna minore? Se tu riesamini attentamente questa affermazione, e ricordi chi sono coloro che vengono puniti nella parte alta dell’inferno, fuori della città di Dite, "O luce che come sole liberi la vista (dell’intelletto) da ogni offuscamento, mi riempi di tanta gioia quando sciogli i miei dubbi, che il dubitare non mi è meno gradito del sapere. Torna ancora un po’ indietro " dissi, " nel punto in cui dici che l’usura oltraggia la bontà di Dio, e chiarisci questa difficoltà. " "A colui che sa capirla " disse " la filosofia dimostra e non in un solo punto, come la natura prende origine dalla mente e dall’opera di Dio; e se tu leggi attentamente la Fisica (di Aristotile), a te ben familiare, troverai, dopo non molte pagine, che l’operato umano imita, per quanto può, la natura, come l’alunno imita il maestro; tanto che il vostro operare è quasi nipote di Dio. Se tu richiami alla tua memoria l’inizio del libro della Genesi, vedrai che è dalla natura e dall’arte che gli uomini devono trarre i mezzi per vivere e migliorare le proprie condizioni; e poiché l’usuraio segue un altro cammino, offende la natura in se stessa e nella sua imitatrice, affidando ad altro la sua speranza. Ma è tempo ormai che tu mi venga dietro, poiché ritengo che dobbiamo incamminarci; la costellazione dei Pesci (che precede di tre ore l’apparizione dell’alba), infatti, sale scintillando sopra l’orizzonte e quella dell’Orsa Maggiore si trova esattamente nella direzione del vento Cauro, e si discende il dirupo assai più in là."
Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo lo avrebbe evitato. Quale è la frana che a valle di Trento colpì in una delle sue rive l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante, in modo che il pendio dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto, tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira. Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: " Pensi forse di trovarti in presenza del signore d’Atene, che sulla terra ti diede la morte? Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca a vedere i vostri tormenti". Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là, tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio gridò: " Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ". Così ci avviammo attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso. Procedevo meditabondo; e Virgilio disse: "Tu pensi forse a questa frana custodita da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva. Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato. Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo, il profondo abisso immondo tremò in ogni sua parte tanto, che io credetti che l’ universo fosse preso da quell’amore, a causa del quale alcuni ritengono che più di una volta il mondo sia ritornato nel caos; e allora questa antica rupe subì, in questo luogo e altrove (nella bolgia degli ipocriti; Inferno XXI, 106-108), tale franamento. Ma guarda attentamente in basso, poiché si avvicina il fiume di sangue bollente in cui è immerso chiunque rechi danno ad altri con la violenza ". O irragionevole avidità e ira sconsiderata, che a tal punto ci stimoli nella breve vita terrena, e poi in tanto dolore ci immergi in quella eterna! Vidi un largo fossato circolare, in quanto cinge tutto il piano (del settimo cerchio), secondo quello che aveva detto il mio accompagnatore; e tra la base del dirupo e questo fossato, dei centauri correvano raccolti in gruppo, armati di frecce, come solevano fare sulla terra quando andavano a caccia. Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e tre di loro si separarono dalla schiera con archi e frecce scelte in precedenza; e uno gridò da lontano: " Verso quale pena vi dirigete voi che scendete il pendio ? Ditelo dal punto in cui vi trovate; altrimenti tendo l’arco ". Virgilio disse: " Risponderemo a Chirone quando vi saremo vicini: con tuo danno la tua volontà fu sempre così impulsiva ". Poi mi toccò, e disse: "Quello è Nesso, che perdette la vita per amore della bella Deianira e vendicò da sé la propria morte. E quello che sta In mezzo, e tiene lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, che educò Achille; l’altro è Folo, che fu così iroso. Girano a migliaia intorno al fossato, colpendo con frecce qualsiasi dannato si trae fuori dal sangue più di quanto il suo peccato gli diede in sorte ". Ci avvicinammo a quegli animali ve1oci: Chirone prese una freccia, e con la cocca trasse indietro la barba sulle mascelle. Quando la grande bocca fu completamente libera disse ai compagni: "Vi siete accorti che colui che sta di dietro è un essere vivente ? E Virgilio, che già gli era di fronte, e arrivava all’altezza del suo petto, là dove le due nature (di uomo e di cavallo) si uniscono, rispose: " E’ veramente vivo, e a lui, a lui solo, devo mostrare l’inferno: ci spinge a ciò la necessità, non il piacere. Dal cielo si mosse qualcuno che mi affidò questo straordinario incarico: non è un ladrone, né io sono l’anima di un ladro. Ma in nome di quel potere divino, ad opera del quale percorro un cammino cosi impervio, dacci uno dei tuoi, a cui possiamo stare vicini, e che ci indichi il punto dove il fiume può essere attraversato e trasporti costui sulla sua groppa, poiché egli non è uno spirito che possa volare ". Chirone si volse a destra, e parlò a Nesso: "Volgiti indietro, e fa loro da guida, e fa scansare qualunque altra schiera s’imbatta in voi". Ci avviammo dunque insieme col sicuro accompagnatore lungo la sponda del sangue bollente, nel quale i dannatì emettevano grida laceranti. Vidi una rnoltitudine immersa fino agli occhi; e Nesso spiegò: "Essi sono tiranni che uccisero e depredarono. Qui si sconta il male arrecato agli altri senza pietà; qui si trovano Alessandro, e il crudele Dionisio, che fu causa alla Sicilia di anni dolorosi. E quella fronte coperta di così neri capelli, è (la fronte) di Ezzelino; quello biondo è invece Obizzo d’Este, il quale davvero fu ucciso in terra dal figlio snaturato ". Allora mi rivolsi a Virgilio, ed egli disse: " Nesso sia ora la tua guida, io verrò secondo ". Poco più oltre il Centauro si arrestò presso una moltitudine che appariva immersa in quel bollore fino alla gola. Ci indicò un’ombra isolata in un angolo e disse: " Quel dannato trafisse in chiesa il cuore che è ancora venerato a Londra ". Guido, conte di Montfort, vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò, pugnalò nel 1272, in una chiesa di Viterbo, Arrigo, cugìno del re d'Inghilterra Edoardo I, che gli aveva ucciso il padre. Sulla tomba di Arrigo, posta sul ponte del Tamigi a Londra, una statua dorata, secondo quanto riferisce un antico commentatore, Benvenuto da ImoIa, reggeva un calice contenente il suo cuore imbalsamato. Vidi in seguito una moltitudine che teneva fuori del fiume il capo ed anche tutto il petto; e riconobbi parecchi di costoro. A questo modo il livello del sangue andava sempre più diminuendo, fino a bruciare soltanto i piedi; qui guadammo il fossato. " Così come vedi che il liquido bollente si abbassa progressivamente da questa parte " disse il Centauro, " voglio che tu sappia che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo, finché si ricongiunge al punto dove è giusto che i tiranni espiino. Da quest’altra parte la giustizia di Dio punisce Attila che sulla terra fu strumento di dolore e Pirro e Sesto; e per l’eternità spreme le lagrime, che fa sgorgare con il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto, a Rinieri dei Pazzi, che resero così pericolose le strade. " Poi si voltò indietro, e riattraversò il pantano.
Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando noi entrammo in un bosco che non aveva alcuna traccia di sentieri. Non c’erano foglie verdi, ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi e contorti; non frutti, ma spine con veleno: quegli animali selvaggi che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro dimora) macchie così irte e pungentì e così folte. Qui fanno i loro nidi le sozze Arpie, che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi i Troiani con la funesta profezia di mali futuri. Hanno ali larghe, colli e facce di esseri umani, piedi con artigli, e il grande ventre coperto di penne; si lamentano, in modo strano, sugli alberi. E il valente maestro: " Prima che tu ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone " cominciò a dirmi, " e vi starai fino a quando tu arriverai all’orribile distesa sabbiosa: perciò guarda ripetutamente e con attenzione; così facendo vedrai cose tali che toglierebbero credito alle mie parole". lo sentivo da ogni parte emettere lamenti acuti, e non vedevo nessuno che li facesse; per questo tutto smarrito mi fermai. Ritengo che Virgilio pensasse che io credessi che voci così numerose uscissero, (passando) tra quegli alberi secchi, da gente che si nasc:ondesse a noi. Perciò il maestro disse: " Se tu spezzi un qualsiasi ramoscello di una di queste piante, i tuoi pensieri si dimostreranno tutti erronei ". Allora stesi la mano un poco in avanti, e colsi un ramoscello da un grande albero spinoso; e il suo tronco gridò: " Perché mi schianti ? " Poi, dopo che si coprì di sangue, ricominciò a dire: " Perché mi strappi ? non hai tu alcun senso di pietà? Fummo uomini, e ora siamo trasformati in piante selvatiche: la tua mano dovrebbe essere anche più pietosa, se fossimo state anime di serpi ". Come da un tizzone verde al quale ad una estremità sia appiccato il fuoco, che dall’altra stilla gocce di umore e stride a causa dell’arla interna che ne esce, allo stesso modo dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; perciò io lasciai cadere il ramoscello, e rimasi immobile come chi ha paura. "Se egli avesse potuto credere senza provare" rispose il saggio Virgilio: "o anima ferita, ciò che ha veduto soltanto per mezzo della mia poesia, non avrebbe stesa la mano contro di te; ma la cosa, in sé incredibile, mi spinse a indurlo a compiere un atto che rincresce a me per primo. Ma digli chi tu fosti, cosicché invece di un qualche risarcimento ravvivi la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli è lecito ritornare. " E il tronco (disse) : " Mi attiri, con l’esca delle tue dolci parole in modo tale, che io non posso tacere; e a voi non pesi se io mi trattengo un poco a discorrere. Io sono colui, che tenni tutte e due le chiavi del cuore di Federico, e che le girai, aprendo e chiudendo, così delicatamente, che esclusi quasi ogni altra persona dalla sua intimità: fui tanto fedele al mio glorioso incarico, che a causa di ciò perdetti la quiete e la salute. L’invidia, rovina di tutti è male delle corti, che mai ha distolto il suo sguardo disonesto dalla corte imperiale, aizzò tutti gli animi contro di me; e gli aizzati aizzarono tanto l’imperatore, che le gloriose onorificenze si convertirono in cupi dolori. Il mio animo, per sprezzante compiacimento, credendo che con la morte si sarebbe sottratto al disprezzo, mi rese ingiusto contro me stesso (che ero invece) giusto. Per le mostruose radici di questo albero vi giuro che mai venni meno alla fedeltà verso il mio signore, che fu tanto degno di rispetto. E se l’uno o l’altro di voi torna nel mondo, renda giustizia alla mia memoria, che è ancora prostrata per il colpo che l’invidia le inferse ". Virgilio attese un poco, e poi mi disse: " Dal momento che egli tace non perdere tempo; ma parla, rivolgigli domande, se hai piacere di sapere di più ". Perciò io dissi a lui: " Domanda ancora tu ciò che credi possa appagarmi; perché io non potrei, da così grande pietà sono toccato nel cuore! " Perciò riprese: " Se ti verrà fatto spontaneamente il favore che le tue parole chiedono in tono di preghìera, spirito prigioniero, ti sia gradito ancora di dirci in che modo l’anima si rapprende in questi duri nodi; e rivelaci, se puoi, se mai qualche anima si libera da simili membra. Allora il tronco soffiò forte, e poi quel soffio si convertì in tali parole " Vi sarà data una risposta breve. Quando l’anima crudele (contro il corpo) si separa dal corpo dal quale essa stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo cerchio. Cade nella selva, e non le è prescelto il luogo; ma là dove il caso la scaglia, qui germoglia come seme di frumento. Cresce in forma di virgulto e di pianta selvatica: poi le Arpie, pascendosi delle sue foglie, le procurano dolore, e un varco alle manifestazioni di esso. Come le altre (anime) verremo (nella valle di Giosafàt) a riprendere i nostri corpi, ma non per questo alcuna di noi se ne rivestirà, poiché non è giusto avere ciò di cui ci si è privati. Trascinererno penosamente i nostri corpi (fin qui), ed essi saranno appesi nella mesta selva, ciascuno alla pianta in cui è chiusa la sua anima nemica a se stessa ". Noi eravamo ancora tutti intenti all’albero, credendo che ci volesse dire altre cose, quando fummo sorpresi da un rumore, come colui che sente arrivare il cinghiaie e i cani e i cacciatori al luogo dove si è appostato, e ode le bestie e lo stormire delle fronde. Ed ecco apparire due dal lato sinistro, nudi e pieni di graffi, che scappavano così in fretta, da rompere ogni fronda del bosco. Quello (che correva) davanti (gridava): " Presto corrimi in aiuto, corrimi in aiuto, o morte ! " E l’altro, che si accorgeva di restare pericolosamente indietro, gridava: " Lano, non furono così abili le tue gambe nella battaglia del Toppo! " E poiché forse gli mancava il fiato, di sé e di un cespuglio fece un viluppo annodato strettamente. Dietro di loro c’era la selva piena di nere cagne, bramose e veloci come cani da caccia sguinzagliati in quel momento, Azzannarono quello che si era nascosto (nel cespuglio), e lo lacerarono pezzo per pezzo; poi se ne andarono portando (con sé) quelle membra dolenti. Allora la mia guida mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva inutilmente attraverso gli squarci sanguinanti. Diceva il cespuglio: " O Giacomo da Sant’Andrea, a che ti è servito farti scudo di me? che colpa ho io della tua vita colpevole? " Quando il maestro si fermò presso di lui, disse: " Chi fosti, che attraverso tante ferite emetti parole dolorose insieme a sangue? " Ed egli (rispose) a noi: " O anime che siete arrivate per vedere lo strazio indecoroso che ha staccato con tanta violenza le mie fronde da me stesso, radunatele ai piedi del cespuglio miserevole. Io fui della città (Firenze) che mutò il primo patrono (Marte) con il Battista (San Giovanni Battista); onde egli (Marte) a causa di ciò sempre la affliggerà con la sua arte (la guerra); e se non fosse che sul ponte dell’Arno rimane ancora un’immagine di lui, quei cittadini che più tardi la fondarono nuovamente sulle ceneri rimaste dopo Attila, avrebbero fatto fare il lavoro inutilmente. Io mi impiccai nella mia casa ".
Poiché l’amore di patria mi riempì di commozione, raccolsi le fronde disperse, e le restituii a quell’anima, che ormai era muta. Giungemmo quindi al confine dove il secondo girone si separa dal terzo, e dove si contempla una spaventosa opera della giustizia. Per spiegare bene le cose qui vedute per la prima volta, dico che arrivammo presso una pianura che respinge dalla sua superficie ogni forma di vegetazione. La triste foresta (dei suicidi) la circonda, come il fiume di sangue circonda quest’ultima: qui ci arrestammo sul margine. Il terreno era una sabbia asciutta e compatta, non dissimile da quella che fu calpestata un tempo da Catone. O castigo di Dio, quanto devi essere temuto da chiunque legge ciò che apparve ai miei occhi! Vidi molte schiere di dannati indifesi che piangevano tutte con grande strazio, e appariva imposta a ciascuna una diversa punizione. Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione supina; altri (gli usurai) sedevano tutti rannicchiati, altri ancora (i sodomiti) camminavano senza posa. Quelli che camminavano girando intorno erano più numerosi, mentre quelli che sostenevano il castigo distesi erano in minor numero, ma più pronti a manifestare il dolore. Sulla distesa dì sabbia, per tutta la sua ampiezza, scendevano lentamente, larghe falde di fuoco, come (falde) di neve su una montagna senza vento. Come le fiamme che nelle calde regioni dell’India Alessandro vide cadere compatte fino a terra sul suo esercito, e perciò fece calpestare il terreno dalle schiere, perché il fuoco si spegneva meglio, finché era isolato, allo stesso modo, scendeva il fuoco eterno; e perciò la sabbia si infiammava, come materia infiammabile sotto l’acciarino, per raddoppiare la sofferenza. Il movimento frenetico delle misere mani era incessante, nello scostare dai corpi il fuoco appena caduto. Cominciai a parlare: " Maestro, tu che superi ogni difficoltà, tranne i diavoli ostinati che ci uscirono incontro mentre stavamo per entrare attraverso la porta (di Dite), chi è quel grande che non sembra tenere in considerazione le fiamme e giace sprezzante e torvo, in modo che la pioggia (di fuoco) non sembra fiaccarlo ?" E quello stesso accortosi che chiedevo di lui a Virgilio, gridò: " Come fui da vìvo, così sono da morto. Anche se Giove facesse lavorare fino all’esaurimento delle forze il suo fabbro (Vulcano) dal quale adirato prese il fulmine acuminato con cui mi colpì nell’ultimo giorno della mia vita; anche se facesse stancare gli altri (i Ciclopi), un gruppo dopo l’altro, nella nera fucina dentro l’Etna, invocando: "Esperto Vulcano. Aiuto, aiuto!", così come fece durante la battaglia di Flegra (combattuta tra i giganti che tentavano di scalare l’Olimpo e gli dei), e mi fulminasse con tutta la sua forza, non potrebbe gioire della sua vendetta". Allora Virgilio parlò con tanta veemenza, come non lo avevo udito mai fino allora: " O Capaneo, proprio nel fatto che non si modera la tua superbia, tu sei maggiormente punito: nessun supplizio, all’infuori della tua rabbia, sarebbe una sofferenza adeguata al tuo furore " . Poi si rivolse verso di me con viso più sereno dicendo: "Quello fu uno dei sette re che assediarono Tebe; ed ebbe e sembra abbia Dio in dispregio, e sembra che poco lo stimi; ma, come gli dissi, i suoi atteggiamenti di disprezzo sono ornamenti assai appropriati al suo animo. Seguimi adesso, e stai attento, anche ora, a non mettere i piedi nella sabbia bruciata; ma tieni sempre i piedi a contatto col suolo del bosco ". In silenzio giungemmo, nel punto dove scaturisce dalla selva un fiumicello, il cui colore rosso ancora mi fa raccapricciare. Come dal Bulicame esce un ruscello che le pettinatrici (della canapa) dividono poi fra di loro, similmente quello scorreva attraverso la sabbia. Il suo letto ed entrambe le sponde erano fatti di pietra, come pure gli argini laterali; e perciò mi accorsi che lì era il passaggio (attraverso la sabbia infuocata). " Fra tutte le altre cose che ti ho mostrato, dopo che entrammo attraverso la porta (dell’inferno) il cui ingresso non è precluso a nessuno, i tuoi occhi non videro nessuna cosa notevole come questo corso d’acqua, che sopra di sé smorza tutte le fiammelle. " Queste furono le parole della mia guida; perciò la pregai che mi concedesse il cibo di cui mi aveva dato il desiderio (che mi spiegasse le cose che, dopo il suo accenno, desideravo sapere). " In mezzo al mare si trova una terra desolata " disse Virgilio allora, " che si chiama Creta, sotto il cui re un tempo il mondo fu virtuoso. Vi si trova una montagna una volta allietata da acque e vegetazione, il cui nome fu Ida: ora è abbandonata come cosa vecchia. Rea la scelse una volta come nascondiglio sicuro per suo figlio, e per celarlo meglio, quando piangeva, ordinava di gridare. Dentro il monte sta eretto un gran vecchio, che tiene le spalle volte verso Damiata (Damietta, su una delle foci del Nilo: indica qui l’Oriente) e guarda Roma come fosse il suo specchio, Il suo capo è fatto di oro puro, le braccia e il petto sono di puro argento, poi è di rame fino al punto in cui le gambe si biforcano; da questo punto in giù è tutto di ferro scelto, eccetto il piede destro che è di terracotta; e si appoggia più su questo che sull’altro piede. Ogni parte, fuorché quella d’oro, è incisa da una fessura che stilla lagrime, le quali, raccolte insieme, perforano la roccia. Esse precipitano di roccia in roccia in questo abisso: formano l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono attraverso questo stretto canale fino al punto ove più non si scende: formano il Cocito; e che aspetto abbia quella palude, lo vedrai; perciò adesso non ne parlo." E io: " Se questo fiumicello scaturisce quindi dalla terra, perché ci si mostra soltanto su questo margine ? " E Virgilio: "Tu sai che questo luogo ha forma circolare; benché, scendendo verso il fondo, tu ti sia inoltrato parecchio procedendo sempre a sinistra, non hai ancora compiuto un giro intero: perciò, se appare una cosa nuova, essa non deve apportare un’espressione di stupore sul tuo volto ". E io ancora: " Maestro, dove si trovano il Flegetonte e il Letè ? poiché di uno di questi non parli, e dell’altro dici che ha origine da questa pioggia (di lagrime)". " In tutte le tue domande riscuoti certamente la mia approvazione " rispose; "ma il ribollire dell’acqua rossa doveva ben risolvere uno dei due quesiti che proponi. Vedrai il Letè, ma fuori di questo abisso, là dove le anime vanno a detergersi quando ogni peccato di cui si sono pentite è cancellato. " Quindi disse: " Ormai è tempo di allontanarsi dal bosco; fa in modo di seguire i miei passi: gli argini, che non sono bruciati dal fuoco, indicano la strada, e sopra di loro ogni fiamma si spegne ".
Ora ci porta una delle due salde sponde; e il vapore del ruscello fa schermo, in modo da riparare dalle fiamme l’acqua e gli argini. Come la diga che i Fiamminghi, temendo la marea che si scaglia contro di loro, innalzano tra Wissant e Bruges perché il mare si ritiri, e come quella che i Padovani (innalzano) lungo il corso del Brenta, per proteggere le loro città e i loro borghi fortificati, prima che la Carinzia (comprendeva anche la Valsugana dove nasce il Brenta) senta il caldo (che, sciogliendo le nevi, fa ingrossare i fiumi), in tal modo erano costruiti quegli argini, benché l’artefice, chiunque egli fosse stato, non li avesse fatti né così alti né così larghi. Già ci eravamo allontanati dalla selva tanto, che non avrei veduto dove essa era, anche se io mi fossi voltato indietro, quando incontrammo un gruppo di anime che camminavano lungo l’argine, e ognuna ci osservava come ci si scruta di sera nel periodo del novilunio; e aguzzavano lo sguardo verso di noi avvicinando l’una all’altra le palpebre così come il vecchio sarto fa (nello sforzo di introdurre il filo) nella cruna dell’ago. Osservato in tal modo da questa schiera, fui riconosciuto da uno, che afferrò l’orlo della mia veste e gridò: "Quale sorpresa! " E io, allorché tese il suo braccio verso di me, fissai lo sguardo in quei lineamenti bruciati, in modo che il volto ustionato non impedì alla mia mente di riconoscerlo; e chinando il mio viso verso il suo, risposi: "Qui vi trovate, ser Brunetto? " E quello: " Figliolo, non ti rincresca il fatto che Brunetto Latini torni un po’ indietro con te e abbandoni la schiera ". Gli dissi: " Ve ne prego di tutto cuore; e se volete che mi sieda con voi, lo farò, se la cosa incontra l’approvazione di costui insieme al quale cammino ". " Figlio ", disse, " chiunque di questa schiera si ferma per un attiimo, giace poi per cento anni senza poter difendersi quando la pioggia di fuoco lo colpisce. Perciò continua a procedere: io ti camminerò accanto; poi raggiungerò la mia schiera, che sconta dolorosamente la sua pena eterna. " Io non osavo scendere dall’argine (della strada) per camminare al suo stesso livello; ma tenevo la testa china come chi cammina pieno di riverenza. Egli cominciò a parlare: "Quale caso o quale volere divino ti conduce quaggiù prima dell’ultimo giorno (prima della morte)? e chi è costui che indica la strada? " " Lassù, nel mondo luminoso " gli risposi " mi perdetti in una valle, prima che la parabola della mia vita fosse giunta al suo culmine. Soltanto ieri mattina l’ho lasciata: costui mi si mostrò nel momento in cui stavo per rientrare in essa, e mi riconduce a casa (sulla retta via) attraverso questo cammino." Ed egli: " Se tu segui l’ astro che ti guida, non puoi non approdare alla gloria, se non errai nel mio giudizio mentre ero tra i vivi; e se io non fossi morto tanto presto, vedendo il cielo a te così favorevole, ti avrei incoraggiato e sostenuto nella tua opera. Ma quel popolo ingrato e perverso che anticamente scese da Fiesole, e ancora conserva l’indole della rupe e della pietra, diventerà, per il tuo retto agire, tuo nemìco: ed è giusto, poiché il dolce fico non deve produrre i suoi frutti in mezzo ai sorbi aspri. Un antico detto nel mondo dei vivi li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: fa in modo di mantenerti immune dai loro costumi . La tua sorte ti riserva tanto onore, che sia l’uno che l’altro partito (sia i Neri che i Bianchi) vorranno divorarti; ma l’erba sarà lontana dal caprone, Le belve discese da Fiesole facciano foraggio di loro medesime (si divorino fra di loro), e non tocchino l’albero, se in mezzo alla loro sozzura se ne eleva ancor uno, nel quale riviva il sacro seme di quei Romani che lì si fermarono allorché si costituì il covo di tanta malvagità ". " Se la mia preghiera fosse stata interamente esaudita " gli risposi, " voi non sareste ancora morto (dell’umana natura posto in bando: esiliato dalla vita umana). poiché nella mia memoria è impresso, e adesso mi addolora, il caro e buon aspetto paterno che avevate quando in vita di tanto in tanto mi insegnavate come l’uomo acquista gloria imperitura: e quanto (il vostro aspetto) mi sia gradito, è giusto che si veda attraverso le mie parole. Quello che mi raccontate sul corso della mia vita lo annoto nella memoria, e lo conservo per farlo interpretare insieme con un’altra predizione (la profezia di Farinata) da una donna (Beatrìce) che ne sarà capace, se sarò in grado di arrivare fino a lei. Questo soltanto voglio che sappiate: sono preparato ai colpi della Fortuna, comunque voglia colpirmi, purché la mia coscienza non mi rimproveri. Una tale promessa non è nuova al mio udito: perciò la Fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino la sua zappa." Virgilio si volse allora indietro verso destra, e mi fissò; poi disse: "Ascolta con profitto una cosa chi sa ricordarla ". Nondimeno continuo a camminare parlando con ser Brunetto, e chiedo chi siano i suoi compagni più celebri e più egregi. Ed egli: " E’ bene apprendere qualcosa intorno ad alcuni (di loro); degli altri sarà cosa lodevole non fare menzione, poiché il tempo non basterebbe a un discorso così lungo. Sappi in breve che furono tutti ecclesiastici e dotti di grande valore e di grande rinomanza, insozzati in vita da un medesimo peccato. Con quella folla infelice se ne vanno Prisciano e Francesco d’Accorso; e se avessi avuto desiderio di guardare una tale sozzura, avresti potuto vedere in essa colui che dal pontefice fu trasferito da Firenze a Vicenza, dove lasciò la sua vita peccaminosa. Parlerei più a lungo; ma il camminare e il parlare non possono essere prolungati, poiché vedo laggiù levarsi nuova polvere dalla distesa sabbiosa. Si avvicina una schiera alla quale non devo unirmi: ti sia raccomandato il mio Tesoro nel quale sopravvívo, e non chiedo altro ". Poi si voltò, e sembrò uno di quelli che a Verona corrono nella campagna (gareggiando per vincere) il drappo verde; e sembrò quello che tra costoro vince, non quello che perde.
Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli alveari, allorché tre ombre si staccarono contemporaneamente, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia del crudele supplizio. Venivano verso di noi, e ciascuna gridava: " Fermati tu che dall’abito ci sembri essere uno della nostra città malvagia ". Ahimè, quali ferite recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro membra! Ne provo ancora dolore soltanto a ricordarmene. Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione; volse il viso verso di me, e disse: " Aspetta: bisogna essere cortesi con costoro. E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi ". Non appena ci fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero in cerchio tutti e tre, come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, nel momento in cui cercano con gli occhi la presa più vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda; e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in modo che il collo si muoveva continuamente in direzione opposta a quella dei piedi. E " Se la triste condizione di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito e devastato rendono spregevoli noi e le nostre preghiere" cominciò uno di essi " la nostra fama induca il tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da tormenti cammini ancora vivo nell’inferno. Questo, di cui mi vedi calpestare le orme, benché cammini nudo e spellato, fu di condizione più elevata di quanto tu possa credere: fu nipote della virtuosa Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e nella sua vita si distinse per ingegno e valore, Se io fossi stato al riparo dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a loro, e credo che Virgilio lo avrebbe permesso; ma poiché sarei stato arso dalle fiamme, il timore prevalse sul mio lodevole desiderio che mi rendeva bramoso di abbracciarli. Poi cominciai: "La condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me disprezzo, ma un dolore tanto grande che passerà molto tempo prima che io me ne liberi completamente, allorché Virgilio mi disse parole dalle quali argomentai che si avvicinassero anime grandi quali voi siete. Appartengo alla vostra città, e ho sempre appreso e ascoltato le vostre opere e i vostri nomi onorati con commozione. Lascio l’amarezza del peccato e mi dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla mia guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io precipiti prima fino al centro (della terra) ". "Possa tu vivere a lungo" rispose ancora quello, " e la tua fama risplendere dopo la tua morte, ma di’ se nella nostra città abitano ancora cortesia e valore così come solevano, o se sono completamente scomparsi; poiché Guglielmo Borsiere, il quale da poco soffre qui con noi, e cammina là con i compagni, ci addolora molto con le sue parole." " La gente nuova (pervenuta di recente alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te ne duoli." Così gridai a testa alta; e i tre, che interpretarono queste parole come una risposta, si guardarono l’un l’altro come ci si guarda quando si ode una verità (che rattrista). " Se ti costa sempre così poco sforzo " risposero tutti " accontentare gli altri, te fortunato se riesci ad esprimerti così bene ! Perciò, possa tu scampare a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle stelle, quando ti sarà dolce dire "Io fui (nell’inferno)", (in nome di questo augurio) fa in modo di parlare alla gente di noi. " Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili gambe sembrarono ali nel fuggire. Non si sarebbe potuto pronunciare un amen così rapidamente come essi sparirono; e perciò Virgilio giudicò opportuno che ci allontanassimo. lo lo seguivo, ed avevamo percorso poco cammino, quando il fragore dell’acqua ci fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi appena. Come quel fiume che, per primo (per chi guarda) dal Monviso verso levante, ha (tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro dell’Appennino, un corso interamente suo, il quale nella parte superiore si chiama Acquacheta, prima di scendere nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più quel nome rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che precipita attraverso una sola cascata ove dovrebbe essere ricevuto da mille (cascate), così trovammo che rimbombava quell’acqua oscura, riversandosi attraverso un pendio ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo danneggiato l’udito. Io avevo una corda legata intorno (ai fianchi), e con essa avevo pensato una volta di catturare la lonza dal manto screziato. Dopo essermi completamente slegato, così come mi aveva ordinato Virgilio, gliela porsi stretta e avvolta. Per cui egli si volse verso destra, e la gettò giù in quel profondo precipizio alquanto lontano dalla sponda. " Eppure occorre che qualcosa di nuovo appaia " dicevo fra me stesso " in risposta al segnale inusitato che Vìrgìlio segue con lo sguardo così attentamente. " Ahi quanto prudenti devono essere gli uommi davanti a coloro che non vedono soltanto le azioni, ma penetrano con l’ inteffigenza dentro i pensieri ! Egli mi disse: " Fra poco salirà ciò che attendo e che il tuo pensiero confusamente immagina : fra poco dovrà apparire alla tua vista ". L’uomo deve sempre tacere, finché può, quella verità che ha apparenza di menzogna (per il fatto che è incredibile), poiché essa, senza che egli ne abbia colpa, lo pone nella condizione di vergognarsi; ma a questo punto non posso tacere (la verità); e sui versi di questa commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non essere privi di accoglienza gradita che duri a lungo, che vidi attraverso quell’aria densa e tenebrosa venire nuotando verso l’alto una figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte, così come torna alla superficie colui che scende talvolta a disincagliare l’ancora impigliata o in uno scoglio o in altra cosa chiusa nel mare, il quale si tende nella parte superiore del corpo, e si rattrappisce in quella inferiore.
"Ecco il mostro dalla coda acuminata, che varca le montagne, e infrange ogni ostacolo; ecco quello che appesta col suo fetore l’intero universo! " Così cominciò a dirmi Virgilio; e gli fece segno di accostarsi all’orlo del burrone, vicino al termine degli argini pietrosi che avevamo percorso. E quell’immondo simbolo di frode gíunse, e portò sull’orlo la testa e il tronco, ma non depose sulla riva la coda. Il suo volto era volto di uomo onesto, tanto benevolo era il suo aspetto esteriore, e tutto il resto del corpo era quello di un serpente; aveva due zampe artigliate pelose fino alle ascelle; aveva il dorso e il petto e ambedue i fianchi disegnati con nodi e piccoli cerchi: né Tartari né Turchi fecero mai tappeti con più colori, con maggior varietà di fondi e di disegni a rilievo, né simili tele furono tessute da Aracne (espertissima tessitrice della Lidía che sfidò Minerva e fu dalla dea trasformata in ragno). Come a volte le barche sono ferme a riva, con una parte del loro scafo in acqua e una parte sulla terraferma, e come nelle terre abitate dai Tedeschi crapuloni il castoro si dispone a cacciare i pesci, così il peggiore dei mostri, stava sul margine che, pietroso, cinge la distesa di sabbia. L’intera sua coda si agitava nel vuoto, contorcendo in alto la velenosa estremità biforcuta che aveva le punte munite di aculei come quella di uno scorpione. Virgilio disse: " Occorre adesso che il nostro cammino sia deviato un poco fino a quella bestia perversa che si trova là ". Perciò scendemmo verso destra, e percorremmo dieci passi sull’estremità del cerchio, per evitare completamente la sabbia e la pioggia di fuoco. E quando fummo giunti vicino a lei, vidi un po’ più in là sulla sabbia gente che sedeva vicino all’abisso. Qui Virgilio: " Affinché tu abbia una conoscenza completa di questo girone" mi disse, "avvicinati a loro, e osserva la loro condizione. I tuoi discorsi siano lì brevi: finché non sarai tornato, parlerò con questa (bestia), perché ci offra le sue vigorose spalle ". Così me ne andai tutto solo ancora sull’orlo estremo del settimo cerchio, dove sedeva la gente tormentata. Il dolore di questi dannati prorompeva in lagrime attraverso gli occhi; si proteggevano con le mani, agitandole di qua e di là, ora dalle fiamme, e ora dal terreno infuocato: non diversamente fanno i cani d’estate ora con il muso, ora con la zampa, quando sono morsicati o dalle pulci o dalle mosche o dai tafani. Dopo che ebbi fissato lo sguardo nel volto di alcuni, sui quali cade il fuoco tormentatore, non riconobbi nessuno; ma osservai che a ciascuno di loro pendeva dal collo una borsa, che aveva un colore determinato e un determinato disegno, e sembrava che il loro sguardo traesse nutrimento da queste borse. E a mano a mano che li andavo osservando più attentamente, vidi su una borsa gialla dell’azzurro che aveva sembianza e atteggiamento di leone. Poi, mentre il carro dei mio sguardo procedeva, oltre, ne vidi un’altra rossa come sangue, che ostentava un’oca candida più del burro. E uno che aveva disegnata sulla sua borsa bianca una scrofa azzurra e pingue, mi disse: " Che fai in questa voragine? Parla, secondo la maggior parte dei critici, il padovano Reginaldo degli Scrovegni. "L'interrogazione stizzosa - scrive il Torraca - lascia intendere che l'usuraio s'è accorto di aver innanzi un vivo, e ne è scontento". Ora vattene; e poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino Vitaliano siederà qui alla mia sinistra. L'usuraio qui menzionato è probabilmente Vitaliano del Dente, podestà a Vicenza nel 1304 e a Padova nel 1307. Insieme a questi fiorentini sono padovano: molte volte mi assordano l’udíto gridando: "Venga il grande cavaliere, che porterà la borsa coi tre caproni !" " A questo punto storse la bocca e tirò fuori la lingua come un bue che sì lecca, il naso. E io, temendo che un ulteriore indugio infastidisse Virgilio che mi aveva raccomandato una breve sosta, tornai indietro (allontanandomi) da quelle anime afflitte. Trovai Virgilio che era già salito sulla groppa del mostro terrificante, e che mi disse: " Ora sii forte e coraggioso. D’ora in poi si scende con tali mezzi: sali davanti, perché io voglio stare nel mezzo, in modo che la coda non possa nuocere ". Come colui che sente così vicino il brivido della malaria, da averne già le unghie livide, e che trema in ogni sua fibra al solo vedere un luogo pieno d’ombra, tale divenni dopo le parole pronunciate (da Virgilio); ma mi ammonì il pudore, il quale rende il servo coraggioso in presenza di un valente padrone. lo mi sedetti su quelle paurose spalle: provai bensì a dire, ma la voce non uscì come credetti: " Fa in modo di cingermi con le tue braccia ". Ma egli, che già altre volte mi aveva aiutato in altri momenti di pericolo, appena fui salito, mi cinse e mi sorresse con le braccia; e disse: " Gerione, è tempo di partire: i giri siano ampi, e la discesa graduale: tieni conto del carico inusitato che trasporti ". Corne la barca si stacca dal punto dove ha attraccato procedendo a ritroso, così si staccò di lì; e dopo che si sentì del tutto a suo agio, volse la coda, là dove prima era il petto, e, tesa, la mosse come un’anguilla, e con le zampe tirò a sé l’aria. Non credo che fosse maggiore la paura quando Fetonte lasciò andare le redini, motivo per cui il cielo, come ancora si vede, fu bruciato; né quando l’infelice Icaro sentì le spalle perdere le penne a causa della cera che si era scaldata, mentre il padre gli gridava: " Fai un percorso sbagliato! ", di quanto fosse la mia, allorché vidi che mi trovavo circondato da ogni parte dall’aria, e vidi scomparire la vista di ogni cosa fuorché quella del mostro. Esso procede nuotando lentamente: scende compiendo cerchi, ma non me ne rendo conto se non per il fatto che l’aria mi colpisce in volto e dal basso. Io sentivo già a destra la cascata (del Flegetonte) fare sotto di noi uno spaventoso fragore, per cui sporsi verso il basso la testa per vedere, Allora temetti maggiormente di cadere, perché vidi fuochi e udii pianti; perciò tremando strinsi fortemente le gambe (al dorso di Gerione). E mi resi conto allora, poiché non me ne ero accorto prima, dello scendere in cerchio a causa dei grandi supplizi che si avvicinavano ora da una parte ora dall’altra. Come il falco che è stato a lungo in volo, il quale, senza aver veduto il richiamo del cacciatore o alcuna preda, fa dire al falconiere " Ahimè, tu stai calando! ", scende stanco verso il luogo dal quale si era mosso agile, con innumerevoli giri, e si posa lontano dal suo padrone, sdegnoso e crucciato, così Gerione ci depose sul fondo, proprio ai piedi della rupe tagliata a picco e, liberatosi del peso dei nostri corpi, sparì come freccia che si stacchi dalla corda dell’arco.
Vi è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, fatto interamente di una pietra del colore del ferro, come la parete rocciosa che tutt’intorno lo circonda. Proprio nel centro di questo piano malvagio si apre un pozzo molto largo e profondo, del quale descriverò la struttura quando sarà il momento. Quella fascia che resta tra il pozzo e la base dell’alta parete rocciosa è pertanto circolare, e ha la superficie suddivisa in dieci avvallamenti. Quale aspetto presenta, dove numerosi fossati circondano i castelli, per proteggerne le mura, il luogo in cui questi si trovano, tale figura offrivano lì quegli avvallamenti e come tali fortezze hanno dalle loro soglie fino alla riva esterna dell’ultimo fossato dei piccoli ponti, così dalla base della parete partivano ponti di pietra che attraversavano gli argini e i fossati fino al pozzo che li interrompe e nel quale convergono. In questo luogo ci venimmo a trovare, scesi dal dorso di Gerione; e Virgilio si diresse verso sinistra, e io mi avviai dietro di lui. Vidi verso destra nuovo dolore, pene mai prima vedute e fustigatori di nuovo genere, di cui il primo avvallamento era pieno. I dannati stavano nudi nel fondo: dalla metà della bolgia verso l’esterno procedevano in direzione contraria alla nostra, dall’altra parte camminavano nella nostra stessa direzione’, ma più velocemente’, come i Romani a causa della grande folla, nell’anno del giubileo, hanno trovato un espediente per far transitare la moltitudine sul ponte (di Castel Sant’Angelo), in modo che da un lato del ponte tutti avevano la fronte rivolta al Castello e si dirigevano verso San Pietro; dall’altro lato andavano verso il monte (Giordano: collina sta alla sinistra del Tevere). Da tutte le parti, sulla buia pietra vidi diavoli cornuti con grandi fruste, che Ii percuotevano spietatamente sulla schiena. Ahi come facevano loro alzare le calcagna fin dai primi colpi! nessuno certo aspettava i secondi e i terzi. Mentre camminavo, il mio sguardo s’imbatté in uno di loro; e immediatamente dissi: "Non è la prima volta che vedo costui "; perciò per poterlo osservare meglio mi fermai: e la mia cara guida si fermò con me, e acconsentì che tornassi un po’ indietro. E quel frustato credette di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì, poiché io gli dissi: " O tu che volgi lo sguardo a terra, se le tue fattezze non sono ingannevoli, tu sei Venedico Caccianemico: ma quale peccato ti conduce a così brucianti supplizi ? " Ed egli: " Lo dico controvoglia; ma mi costringono le tue precise parole, che richiamano alla mia memoria la vita terrena. lo fui colui che indusse Ghisolabella a cedere alle brame del Marchese, comunque venga narrata questa turpe storia. Ma non sono il solo bolognese che qui dolorosamente sconta la sua colpa; al contrario, questo luogo è così pieno di Bolognesi, che attualmente non vi sono tante lingue avvezze a dire "sia" tra i fiumi Sàvena e Reno; e se di questo fatto vuoi una prova sicura, ricordati del nostro animo avido ". Mentre così parlava un diavolo lo colpì con la sua frusta, e disse: " Vattene, ruffiano! qui non ci sono donne da prostituire ". lo mi riaccostai alla mia guida; poi, percorsi pochi passi, arrivammo in un punto dove dalla parete rocciosa si staccava un ponte di pietra. Salimmo su di esso con molta facilità; e, diretti verso destra, su per la sua superficie scheggiata, ci allontanammo da quell’eterno girare. Quando fummo nel punto in cui (il ponte) è vuoto sotto di sé per consentire ai frustati di passare, Virgilio disse: " Fermati, e fa in modo che cada su di te lo sguardo di questi altri sciagurati, dei quali ancora non hai veduto il volto poiché hanno camminato nella nostra stessa direzione ". Dal ponte antico osservavamo la fila che avanzava nella nostra direzione percorrendo l’altra parte della bolgia, e che la frusta sospingeva così come faceva con i ruffiani. E Virgilio, senza che io facessi domande, mi disse: " Guarda quel grande che si avvicina, e che non sembra versare lagrime per il dolore. Quale portamento regale ancora conserva! Quello è Giasone, che con il coraggio e la saggezza privò i Colchi del montone. Egli passò per l’isola di Lemno, dono che le audaci donne senza pietà avevano ucciso tutti i loro uomini. Qui con gesti e con parole lusinghiere ingannò Isifile, la giovane che prima aveva ingannato tutte le altre donne. La abbandonò lì, incinta, sola; questo peccato lo rende meritevole di tale supplizio; e si rende giustizia anche per il male da lui fatto a Medea. Con lui va chi usa l’inganno in tal modo: e basti questa conoscenza della prima bolgia e di coloro che essa strazia ". Ci trovavamo già nel punto dove l’angusto sentiero s’incrocia con il secondo argine, e di questo fa sostegno per un altro arco di ponte. Di qui udimmo gente che emetteva lamenti soffocati nell’altra bolgia e soffiava rumorosamente, e percuoteva se stessa con le palme aperte. Le sponde erano incrostate di muffa, a causa delle esalazioni che, provenendo dal basso vi si solidificavano formando come una pasta, la quale irritava la vista e l’olfatto. Il fondo è così profondo, che non vi è luogo adatto per vedere in esso, a meno di salire sulla sommità dell’arco, là dove il ponticello di píetra è più alto. Arrivammo in quel punto; e di là vidi in basso nella bolgia una moltitudine immersa in uno sterco che sembrava provenire dalle latrine umane. E mentre io percorrevo con lo sguardo il fondo della bolgia, scorsi uno con la testa, così imbrattata di sterco, che non si distingueva se avesse o no la tonsura. Quello mi apostrofò " Perché sei così avido di fermare il tuo sguardo su di me più che sugli altri insozzati ? " E io: " Perché, se ricordo bene, io ti ho già veduto quando i tuoi capelli erano puliti, e sei Alessio Interminelli di Lucca: per questo ti osservo più di tutti gli altri ". Ed egli allora, picchiandosi il capo: " Mi hanno fatto affondare in questo luogo le adulazioni delle quali non ebbi mai sazia la lingua ". Poi Virgilio mi disse: " Fa in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, in modo da raggiungere con gli occhi la faccia di quella sudicia e scarmigliata donnaccia che si graffia laggiù con le unghie lorde, e ora si siede in terra, e ora è dritta in piedi. E’ Taide, la meretrice che al suo amante, quando costui le chiese "Ho io per te grandi meriti?" rispose: "Più che grandi, straordinari!" E di questo spettacolo i nostri occhi siano sazi ".
O mago Simone, o suoi sciagurati seguaci, che gli uffici sacri, che devono essere uniti alla bontà (dati e ricevuti da chi è buono), voi avidamente prostituite per denaro; è giusto che adesso sia proclamata la vostra condanna, poiché vi trovate nella terza bolgia. Già eravamo saliti, nella bolgia seguente, su quel tratto del ponte che sovrasta perpendicolarmente proprio la parte mediana della bolgia. O sapienza infinita, quanta forza creativa dimostri in cielo, in terra e nell’inferno, e con quanta giustizia il tuo potere distribuisce premi e castighi ! Notai sulle pareti e sul fondo la roccia scura piena di buchi, tutti della stessa ampiezza e tutti circolari. Non mi sembravano meno larghi né più ampi di quelli che si trovano nel Battistero di San Gìovanni, creati perché in essi prendessero posto coloro che somministravano il battesimo; uno dei quali, non molti anni fa, fu da me spezzato a causa di uno che era sul punto di morirvi soffocato: e questa sia testimonianza, che tolga dall’errore ogni persona. Fuori dell’apertura sporgevano sopra ogni buco i piedi e parte delle gambe, fino alla coscia, di un dannato, e il resto dei corpo era conficcato dentro. Entrambe le piante dei piedi di tutti questi peccatori erano cosparse di fiamme; e perciò le loro articolazioni, si agitavano con tanta forza, che avrebbero spezzato funi di vimini e di erbe. Come le fiamme che consumano gli oggetti unti ne sfiorano soltanto la superficie più esterna, così avveniva sulle piante di quei piedi dalle calcagna alle punte (delle dita). " Maestro, chi è colui che manifesta il suo dolore agitando più degli altri suoi compagni di sorte " io domandai, " e che una fiamma più viva consuma ? " E Virgilio: " Se desideri che io ti accompagni laggiù scendendo da quell’ argine che è più basso (più giace: è là via più interna della bolgia, che è più bassa di quella esterna perché il piano di Malebolge declina verso il pozzo centrale), apprenderai da lui chi fu e quali furono i suoi peccati ". E io: " Tutto quello che piace a te mi è gradito: tu sei quello che comanda, e sai che non mi allontano dalla tua volontà, e conosci quello che, da parte mia, è taciuto ". Giungemmo allora sul quarto argine: ci dirigemmo e scendemmo verso sinistra giù nel fondo pieno di fori e malagevole da attraversare, Virgilio non mi pose a terra dal suo fianco, finché non mi accostò al foro di colui che tanto intensamente manifestava il proprio dolore con la gamba. " Chiunque tu sia, che hai la parte superiore del corpo in basso, anima malvagia conficcata come un palo ", presi a dire, " se ti è possibile, parla. " lo stavo nella posizione del frate che raccoglie la confessione del sicario spergiuro, il quale, dopo essere stato confitto in terra, lo richiama, in modo che allontana la morte. Ed egli gridò: " Sei già qui dritto in piedi, sei già qui dritto in piedi, Bonifacio? Il libro del futuro mi ha ingannato di molti anni. Sei tu così presto sazio di quei beni materiali per i quali non esitasti ad impadronirti con l’inganno della Chiesa, e poi a prostituirla ? " lo divenni come quelli che, per il fatto che non comprendono la risposta che viene data loro, restano come confusi, e non sanno rispondere. Allora Virgilio disse: " Digli subito: "Non sono quello, non sono quello che credi" "; e io risposi come mi fu ordinato. Per questo il dannato contorse quanto più poteva i piedi; poi, sospirando e con voce lamentosa, mi disse: " Allora, cosa vuoi sapere da me ? Se a tal punto ti importa conoscere chi io sia, da essere disceso dall’argine per questo motivo, sappi che io fui rivestito del manto papale. e fui davvero degno della famiglia degli Orsini, alla quale appartenni, a tal punto desideroso di rendere potenti gli altri membri della mia famiglia, che nel mondo misi nella borsa le ricchezze, e qui me stesso. Sotto la mia testa, nelle crepe della roccia stanno appiattiti, dopo esser stati trascinati fin li, gli altri (papi) che mi precedettero nel peccato di simonia. Anch’io precipiterò laggiù allorché giungerà colui che io ritenevo tu fossi. quando ti rivolsi l’improvvisa domanda. Ma più lungo è il tempo in cui mi sono bruciato i piedi e sono stato così capovolto, di quello in cui egli starà confitto con i piedi arsi dalle fiamme: poiché dopo di lui verrà da occidente un papa senza rispetto delle leggi umane e divine, dalla condotta ancor più riprovevole, tale da dover ricoprire sia lui (Bonifacio VIII) sia me. Sarà un novello Giasone, del quale si possono avere notizie nel libro dei Maccabei; e come nei confronti di Giasone il suo sovrano si mostrò debole, così si mostrerà debole, nei confronti di questo papa, il re di Francia ". Io non so se a questo punto fui troppo temerario (perché, pur essendo dannato, l’interlocutore era un pontefice), dal momento che gli risposi proprio in questo modo : " Orsù, dimmi adesso: quanta ricchezza pretese Gesù Cristo da San Pietro prima di mettere in suo potere le chiavi (del regno dei cieli)? Sicuramente non gli chiese se non: "Seguimi". Né Pietro né gli altri apostoli si fecero consegnare da Mattia oro e argento, allorché questi ottenne in sorte di occupare il posto perduto dal malvagio Giuda Iscariota. Perciò stattene dove sei, poiché sei giustamente punito; e custodisci con attenzione il denaro sottratto con l’inganno, che ti rese audace contro Carlo. E se non fosse per il fatto che ancora me lo impedisce il rispetto dovuto alle chiavi, simbolo della dignità pontificale, che tu avesti in tuo potere nella vita terrena, ricorrerei a parole ancora più aspre; poiché la vostra avidità corrompe il mondo, calpestando i buoni ed elevando (alle cariche più alte, per simonia) i cattivi. A voi, pontefici, pensò l’evangelista (San Giovanni), allorché quella che siede sulle acque fu da lui veduta fornicare con i re, quella che nacque con le sette teste, e trasse vigore dalle dieci corna, finché al suo sposo fu cara la virtù. Dell’oro e dell’argento avete fatto il vostro Dio: e quale altra differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non quella che, per ogni idolo che essi adorano. voi (in quanto adoratori dei denaro, di ogni pezzo d’oro e d’argento) ne adorate un numero sterminato? Ahi, Costantino, di quanto male fu cagione, non la tua conversione (alla fede cristiana), ma quella donazione che ricevette da te il primo papa che fu ricco! " E, mentre gli facevo sentire simili parole, fosse rabbia o rimorso ciò che lo tormentava, scalciava violentemente con entrambi i piedi. Credo davvero che a Virgilio piacesse (quello che avevo detto), tanto soddisfatta era l’espressione con la quale prestò attenzione, per tutta la durata del mio discorso, alle parole veraci da me pronunciate. Perciò mi prese con entrambe le braccia; e dopo avermi sollevato all’altezza del petto, risalì per il cammino dal quale era disceso. Né si stancò di tenermi abbracciato strettamente, finché non mi ebbe portato nel punto più alto del ponte che serve da passaggio dal quarto al quinto argine. Qui depose dolcemente il carico, dolcemente sul ponte irto di sporgenze e ripido che rappresenterebbe anche per le capre un passaggio malagevole. Di lì mi si aprì davanti un’altra bolgia.
Devo ora scrivere versi intorno ad una pena mai prima vista e fornire argomento al ventesimo canto della prima cantica, che è quella dei dannati sprofondati (nell’inferno). Io ero già del tutto pronto a scrutare nel fondo visibile (della bolgia), che era bagnato da lagrime d’angoscia; e notai una folla che avanzava nella gran valle circolare, silenziosa e piangente, col passo che tengono nel nostro mondo le processioni. Quando il mio sguardo scese più in basso su di loro, ognuno mi apparve essere rivolto all’indietro in modo mostruoso tra il mento e l’inizio del petto; poiché il viso era girato verso le reni, e dovevano camminare all’indietro, in quanto davanti la vista era loro preclusa. Forse già qualcuno si stravolse così completamente a causa di una paralisi; ma io non lo vidi mai, né credo che ciò avvenga. Lettore, voglia Dio lasciarti trarre profitto dalla tua lettura, (in nome di questo augurio) pensa adesso da te come avrei potuto trattenermi dal piangere, allorché vidi da vicino la nostra figura umana così stravolta, che le lagrime bagnavano la fenditura che si apre tra le natiche. In verità io piangevo, appoggiato ad una delle sporgenze dello scoglio pietroso, così che il mio accompagnatore mi disse: " Fai ancora parte degli altri stolti (che si commuovono di fronte alla punizione dei malvagi) ? Qui la pietà ha valore quando è del tutto spenta: chi é più empio di colui che mostra compassione là dove Dio ha giudicato ? Alza il capo, alzalo, e guarda colui al quale sotto gli occhi dei Tebani si spalancò la terra, così che tutti gridavano: "Dove precipiti, Anfiarao? perché abbandoni la guerra?" E non smise di precipitare in basso fino a Minosse che ghermisce tutti. Osserva come ha trasformato in petto le spalle: poiché volle veder troppo davanti a sé, (ora) guarda all’indietro e cammina a ritroso. Vedi Tiresia, che cambiò aspetto quando si tramutò da maschio in femmina mentre tutte le membra si trasformavano; e dovette poi percuotere nuovamente, con la verga, i due serpenti avvinti prima di riavere le forme maschili. Quello che volge la schiena al ventre di Tiresia è Arunte, il quale nei monti di Luni, dove i Carraresi che abitano in basso dissodano la terra, ebbe come sua dimora la grotta tra i marmi bianchi; dalla quale la vista rivolta alle stelle e al mare non gli era impedita. E colei che si copre il seno, che tu non puoi vedere, con le trecce sciolte, e ha dall’altra parte tutte le parti pelose del corpo, fu Manto, che peregrinò per molti paesi; poi si fermò là dove io nacqui: per cui sarei lieto che tu mi prestassi un po’ d’attenzione. Dopo che il padre morì, e la città di Tebe (di Baco: di Bacco, sacra a Bacco) fu asservita, costei andò per il mondo lungamente. Lassù nella bella Italia vi è un lago, ai piedi dei monti che segnano i confini della Germania sopra il Tirolo, il quale si chiama Benaco. Attraverso mille e più sorgenti, credo, la regione tra il Garda, la Val Camonica e l’Appennino, è irrigata dall’acqua che poi ristagna nel lago suddetto. In mezzo ad esso è un posto dove il vescovo di Trento, quello di Brescia e quello di Verona potrebbero dare la benedizione, se facessero quel percorso. Peschiera, bella e robusta fortezza atta a fronteggiare Bresciani e Bergamaschi, è posta dove la riva intorno è più bassa. Lì (presso Peschiera) necessariamente trabocca tutto quello che non può essere contenuto nel Benaco, e diventa fiume giù per i pascoli verdeggianti. Appena l’acqua ricomincia a correre, non si chiama più Benaco, ma Mincio, fino a Governolo, ove si getta nel Po. Dopo un percorso non lungo, esso trova un avvallamento, nel quale straripa trasformandolo in palude; e talvolta durante l’estate diventa malsano. Passando di lì la vergine crudele scorse della terra, in mezzo alla palude, non coltivata e priva di abitanti. Lì, per evitare ogni contatto umano, si fermò con i suoi servitori ad esercitare le sue pratiche magiche, e lì visse, e vi lasciò il suo corpo esanime. In seguito gli uomini che erano sparsi nei dintorni si radunarono in quel luogo, che era ben fortificato avendo da ogni lato la palude. Costruirono la città dove erano sepolte le ossa di Manto; e in onore di colei che per prima aveva scelto quel luogo, la chiamarono Mantova senza bisogno di ricorrere ad alcun sortilegio. Un tempo i suoi abitanti furono più numerosi nella cerchia delle sue mura, prima che la stoltezza di Alberto da Casalodi fosse tratta in inganno da Pinamonte. Perciò ti avverto che qualora tu udissi spiegare in modo diverso l’origine della mia città, nessuna menzogna deve alterare la verità ". Ed io: " Maestro, i tuoi ragionamenti sono per me a tal punto veritieri e conquistano talmente il mio assenso, che gli altri (ragionamenti) sarebbero per me inefficaci (tizzoni spenti, cioè privi di luce e di calore). Ma dimmi. dei dannati che camminano, se ne scorgi qualcuno degno di considerazione; perché la mia mente si indirizza di nuovo soltanto a ciò ". Allora mi disse: " Colui che lascia scendere dalle guance la barba sulle spalle abbronzate (invece che sul petto), fu, quando la Grecia rimase priva di uomini in modo che ne restarono soltanto nelle culle, un indovino, e in Aulide indicò insieme con Calcante, il momento propizio per recidere la prima gomena. Si chiamò Euripilo, e sotto questo nome lo celebra il mio sublime poema in un suo passo: lo sai bene tu che lo conosci tutto. Quell’altro che è così magro nei fianchi, fu Michele Scotto, il quale fu davvero abile nelle frodi della magia. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, il quale adesso vorrebbe essersi occupato del cuoio e dello spago, ma si pente troppo tardi. Vedi le sciagurate che abbandonarono l’ago, la spola e il fuso, e si fecero indovine; fecero incantesimi con erbe e con simulacri. Ma vieni via di qui ormai; poiché già la luna occupa il confine dei due emisferi (boreale e australe) e si immerge nel mare nelle vicinanze di Siviglia; e già ieri notte la luna fu piena: te ne devi ben ricordare, poiché ti fu utile una volta nella selva buia ". Così mi parlava, ed intanto camminavamo.
In tal modo giungemmo da un ponte all’altro (da quello della quarta bolgia a quello della quinta), discorrendo di cose che il mio poema non si propone di prendere in considerazione; e ci trovavamo sul culmine del ponte, allorché ci fermammo per vedere l’altra cavità di Malebolge e gli altri lamenti inutili; e la vidi straordinariamente buia. Come nell’arsenale dei Veneziani durante l’inverno bolle la pece che aderisce e incolla e che serve a spalmare di nuovo le loro navi danneggiate, poiché non possono navigare; e invece di navigare chi si costruisce una nave nuova e chi chiude con la stoppa le falle apertesi nelle fiancate di quella che ha fatto più viaggi; chi dà colpi di martello a prua e chi a poppa; altri fabbricano remi ed altri attorcigliano la canapa per farne funi; alcuni rattoppano la vela minore e altri quella maggiore, così, non a causa del fuoco, ma per opera di Dio, bolliva laggiù una pece densa, che aderiva viscosamente dappertutto alle pareti della bolgia. Io scorgevo questa pece, ma in essa non scorgevo se non le bolle che il bollore sollevava, e la vedevo gonfiarsi tutta quanta, ed abbassarsi come premuta. Mentre io guardavo con attenzione nel fondo della bolgia, Virgilio, dicendomi: " Sta in guardia, sta in guardia! ", mi tirò a sé dal luogo in cui mi trovavo. Allora mi voltai come colui che è impaziente di vedere il pericolo al quale deve sfuggire, e che un’improvvisa paura indebolisce, il quale, per il fatto che guarda, non rimanda la sua fuga; e vidi sopraggiungere alle nostre spalle un diavolo nero che correva sul ponticello roccioso. Ahi, quanto era feroce nell’aspetto! e quanto mi sembrava crudele nell’atteggiamento, con le ali spiegate e leggiero nel suo avanzare! Un dannato gravava con entrambi i fianchi la sua spalla, che era appuntita e sporgente, ed egli ne teneva stretta la caviglia. Dal ponte su cui ci trovavamo disse: " O Malebranche (è il nome dei diavoli di questa bolgia), ecco uno degli anziani di Lucca (città devota a Santa Zita) ! Immergetelo completamente (nella pece), poiché io torno di nuovo in quella città in cui questi peccatori abbondano: in essa ognuno è barattiere, escluso Bonturo; in essa per danaro il no è trasformato in sì ". Lo gettò laggiù, e tornò indietro sul ponte roccioso; e nessun mastino liberato dalla catena fu mai così veloce nell’inseguire il ladro. Quello sprofondò, e riemerse raggomitolato; ma i diavoli che stavano nascosti sotto il ponte, gridarono: "Qui non c’è il Santo Volto: qui si nuota diversamente che nel Serchio! Perciò, se vuoi evitare le nostre unghiate, non sporgerti al di sopra della pece ". Dopo averlo trafitto con innumerevoli uncini, dissero: " Qui dovrai darti da fare coperto (dalla pece), in modo da arraffare, se ti riesce, di nascosto ". Non diversamente i cuochi fanno immergere dai loro inservienti la carne nella pentola con gli uncini, in modo che non venga a galla. Virgilio mi disse: " Perché non si veda che tu ci sei, nasconditi giù, dietro una sporgenza rocciosa, che ti offra qualche riparo; e non lasciarti prendere dal timore, per nessuna offesa che mi venga arrecata, poiché io so come stanno le cose, e già un’altra volta mi trovai in una simile baruffa ". Poi passò oltre l’estremità del ponte; e non appena arrivò sul sesto argine, gli fu necessario avere un atteggiamento risoluto. Con lo stesso impeto e lo stesso frastuono con cui i cani si avventano contro il mendicante il quale chiede l’elemosina subito nel punto in cui si è fermato, i diavoli uscirono da sotto il ponticello, e puntarono contro di lui tutti gli uncini; ma egli gridò: " Nessuno di voi abbia cattive intenzioni ! Prima che i vostri uncini mi colpiscano, si faccia avanti uno di voi e mi ascolti, e dopo si prenda la deliberazione di uncinarmi ". Gridarono tutti: " Si faccia avanti Malacoda! "; per cui uno avanzò, e gli altri stettero fermi, e quello si avvicinò a Virgilio dicendo: " Che gli giova ? " " Credi, Malacoda, di vedermi giunto sin qui " disse Virgilio " al riparo fino ad ora da tutte le vostre opposizioni, senza la volontà di Dio e il destino favorevole? Lasciaci andare, poiché è voluto da Dio che io faccia da guida a qualcuno (Dante) per questo orrido cammino. " Allora la tracotanza lo abbandonò a tal punto, che lasciò cadere l’uncino ai suoi piedi, e rivolto agli altri disse: " Dal momento che le cose stanno così, non sia ferito ". E Virgilio: " O tu che stai appiattato tra le rocce del ponte, torna ormai presso di me senza timore ". Perciò io mi avviai, e velocemente mi avvicinai a lui; e i diavoli avanzarono tutti quanti, tanto che temetti che non avrebbero rispettato il patto: così vidi una volta essere presi dal timore i soldati che uscivano dal castello di Caprona dopo aver raggiunto un accordo sulla loro resa, vedendosi in mezzo a tanti nemici. lo mi avvicinai con tutto il mio corpo a Virgilio, e non distoglievo lo sguardo dal loro aspetto, che non era benevolo. Essi abbassavano gli uncini e: " Vuoi che lo tocchi " dicevano fra loro " sulla schiena? " E rispondevano: " Sì, fa in modo di assestargli un colpo! " Ma il diavolo che stava discorrendo con Virgilio, con grande prontezza si voltò, e disse: " Fermo, fermo, Scarmiglione! " Quindi, rivolto a noi, disse: " Non è possibile proseguire su questa fila di ponti rocciosi, poiché il sesto ponte giace sul fondo (della bolgia) ridotto in frantumi. E se tuttavia desiderate proseguire, andate su per questa roccia (l’argine che separa la quinta dalla sesta bolgia); vicino vi è un’altra serie di ponti che consente il passaggio. Ieri, cinque ore più tardi di quest’ora, si compirono 1266 anni da quando la strada franò in questo punto. Io mando in quella direzione qualcuno di questi miei sottoposti, per osservare se mai qualche dannato esce (dalla pece): andate con loro, poiché non saranno cattivi ". " Vieni avanti, Alichino, e Calcabrina ", prese a dire, " e tu, Cagnazzo; e Barbariccia sia a capo dei dieci. Venga anche Libicocco e Draghignazzo, Ciriatto munito di zanne e Graffiacane e Farfarello e il rabbioso Rubicante. Ispezionate tutt’intorno le bollenti peci: questi siano incolumi fino all’altra fila di ponti che varcano le bolge senza interrompersi. " "Ahimè, maestro, che è quello che vedo?" dissi. "Ti prego, andiamo via di qui soli senza guida, se tu conosci il cammino; poiché, per quel che mi riguarda, non ne ho bisogno. Se tu sei perspicace adesso come di solito, non vedi che digrignano i denti, e con gli occhi minacciano di procurarci dolori ? " E Virgilio: " Non voglio che tu abbia timore: lascia che digrignino come a loro piace meglio, poiché essi lo fanno per i bolliti che soffrono ". Voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ciascuno di loro, rivolto al capo che li guidava, aveva stretto, per un segnale, la lingua con i denti; ed egli aveva fatto uno sconcio suono di tromba.
Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e iniziare l’assalto e fare evoluzioni durante le parate, e a volte ritirarsi per mettersi in salvo; vidi soldati a cavallo sul vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei e cimentarsi i singoli nei duelli; a volte con trombe, e a volte con campane, con tamburi e con segnali dalle fortezze, e con strumenti nostri e forestieri; ma certamente mai con un così insolito zufolo vidi partire cavalieri o fanti, o nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una costellazione. Noi procedevamo con i dieci diavoli: ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi, e nell’osteria con i furfanti. La mia attenzione era rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni aspetto della bolgia e della moltitudine che in essa era bruciata. Come i delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai d’ingegnarsi a salvare la loro nave, così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del lampo. E come i ranocchi stanno sull’ orlo dell’acqua di un fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere le zampe e il resto del corpo, così i peccatori stavano da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava, subito si ritiravano sotto la pece bollente. Vidi, e ancora il mio cuore ne prova sgomento, uno di loro stare in attesa, così come accade che una rana resta ferma e un’altra spicca il salto; e Graffiacane che più degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che mi sembrò, una lontra. Io conoscevo già il nome di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro. " O Rubicante, fa in modo di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo! " urlavano concordi i malvagi. E io: " Maestro, cerca, se puoi, di sapere chi è lo sventurato caduto in balìa dei suoi nemici ". Virgilio gli si avvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove fosse, e quello rispose: " Io fui nativo del regno di Navarra. Mia madre, che mi aveva generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi mise al servizio di un signore. Fui in seguito alla corte del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la baratteria; del quale peccato rendo conto in questo bollore ". Tebaldo Il, re di Navarra dal 1253 al 1270, ebbe fama di sovrano munifico, giusto e clemente. E Ciriatto, al quale dalla bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava. Il topo era capitato tra gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le braccia, e disse: " State lontani, finché lo tengo stretto ". E rivolse il viso a Virgilio: " Chiedi ancora " disse " se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio ". Allora Virgilio: " Dimmi dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece, conosci qualcuno che sia italiano ? " E quello: " Io mi allontanai, poco fa, da uno che fu di quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino ". Pure Draghignazzo lo volle colpire giù nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno con espressione adirata. Quando costoro si furono un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui, che ancora osservava la sua ferita: "Chi fu quello dal quale dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla riva ? " Ed egli rispose: "Fu frate Gomita, quello di Gallura, ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe in suo potere i nemici del suo signore, e li trattò in maniera tale che ognuno se ne compiace. Prese denaro, e li lasciò andare liberi con procedimento sommario, così come egli stesso dice; e anche neglì altri incarichi non fu barattiere da poco, ma sommo. Sta spesso con lui messer Michele Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della Sardegna, non avvertono mai la stanchezza. Michele Zanche governò il giudicato di Logudoro (Sardegna nord-orientale) per incarico di re Enzo, figlio dell’imperatore Federico Il. Fu ucciso a tradimento da uno dei suoi generi, il genovese Branca D’Oria. Ahimè, guardate l’altro diavolo che digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si prepari a graffiarmi ". E il grande capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse: " Tirati in là, uccellaccio ". " Se voi desiderate vedere o ascoltare " riprese a dire quindi quello spaventato "Toscani o Lombardi, io ne farò arrivare; ma che i Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo che essi non temano le loro punizioni; ed io, stando in questo stesso luogo. per uno solo che sono, ne farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori." Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scrollando la testa, e disse: " Senti, I’astuzia che ha escogitato per tuffarsi giù! " Per cui egli, che conosceva raggiri in abbondanza, rispose: " Sono fin troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai miei compagni ". Alichino non si trattenne e, in contrasto con gli altri demoni gli disse: " Se tu ti immergi, io non ti inseguirò correndo, ma volerò sulla pece: si abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di noi ". O lettore, saprai di un gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo) che era stato il più restio a fare ciò. Di ciò ognuno si sentì colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: " Tu sei preso ! " Ma a poco gli servì perché le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura (del Navarrese) : quello s’immerse, e questo volando diresse verso l’alto il petto: non diversamente l’anitra si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina il falcone, e questo se ne torna su indispettito"e spossato. Ma Caicabrina adirato per la beffa, lo seguì volando, preso dal desiderio che il Navarrese si salvasse per aver modo di azzuffarsi con Alichino; e non appena il barattiere fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno. Ma l’altro fu davvero un rapace sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero entrambi nel mezzo della palude bollente. Il calore immediatamente li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto avevano le ali invischiate. Barbariccia crucciato insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro volassero fin sull’altra sponda con tutti i loro uncini, e questi, molto velocemente di qua, di là, calarono nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle diventata dura e noi li abbandonammo mentre si trovavano in queste difficoltà.
Silenziosi, soli, non più accompagnati (dai diavoli) procedevamo l’uno davanti all’altro, come i francescani camminano per la strada. A causa della recente zuffa il mio pensiero era rivolto alla favola di Esopo, nella quale egli narra della rana e del topo; poiché "ora" e "adesso" non sono più uguali, di quanto non lo siano la favola e la zuffa, se si confrontano con attenzione l’inizio e la fine. E come un pensiero scaturisce all’ improvviso dall’altro, così da quello ne venne fuori in un secondo tempo un altro, che raddoppiò in me la paura di prima. Io ragionavo in questo modo: " Costoro sono stati per causa nostra derisi con tale danno e tale scorno, che ritengo che a loro rincresca grandemente. Se l’ira si aggiunge alla cattiveria, essi ci inseguiranno più inferociti del cane nei confronti della lepre che addenta. Sentivo già arricciarmisi tutti i peli per lo spavento, e volgevo attento lo sguardo indietro, allorché dissi: " Maestro, se non nascondi rapidamente te e me, io ho paura dei Malebranche: li abbiamo già alle nostre spalle: li vedo a tal punto con l’immaginazione, che già li sento (dietro di noi) ". E Virgilio: " Se fossi uno specchio, non rifletterei più rapidamente la tua immagine esterna, di quanto ora imprimo in me la tua immagine interna. Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, col medesimo atteggiamento e con il medesimo aspetto dei miei, in modo che dagli uni e dagli altri ho tratto una sola risoluzione. Se si dà il caso che la parete a destra abbia una così scarsa pendenza, che noi possiamo scendere nell’altra bolgia (la sesta), sfuggiremo all’inseguimento temuto ". Non finì neppure di manifestare tale proposito, che io li vidi sopraggiungere non molto lontani da noi con le ali spiegate, per volerci ghermire. Virgilio mi afferrò immediatamente, come la madre che si sveglia al frastuono, e vede accanto a sé le fiamme ardenti, la quale afferra il figlio e fugge e, avendo più cura di lui che di se stessa, non si ferma neppure quel poco tempo necessario ad indossare una camicia; e dalla sommità dell’argine pietroso si lasciò scivolare sul dorso lungo la parete scoscesa, che chiude uno dei lati dell’altra bolgia. L’acqua non corse mai così velocemente attraverso un condotto per far girare la ruota di un mulino costruito sulla terraferma, nel punto in cui essa maggiormente si avvicina alle pale, come Virgilio su quella parete dell’argine, mentre mi portava tenendomi, sul petto, come se fossi stato suo figlio, non un compagno. Alla similitudine della madre, così ricca di contenuto umano, segue una similitudine volta a determinare soltanto la velocità con la quale Virgilio scende lungo la scarpata che porta al fondo della sesta bolgia. In essa la tinta patetica cede momentaneamente di fronte alla nuda vìolenza della figurazione rapinosamente incisiva" (Sanguineti). Appena i suoi piedi raggiunsero la superficie del fondo della bolgia, essi furono sulla sommità dell’argine sopra di noi; ma non vi era più motivo di temere, poiché la divina provvidenza che volle porli quali esecutori dei suoi decreti nella quinta bolgia, toglie a tutti loro la possibilità di allontanarsi di lì. Laggiù incontrammo una moltitudine dipinta che andava intorno con passi lentissimi, lacrimando e stanca e affranta nell’aspetto. Questi dannati indossavano cappe con i cappucci abbassati davanti agli occhi, fatte nel modo in cui si fanno a Cluny per i monaci. Esternamente sono dorate tanto da abbagliare; ma dentro sono completamente di piombo, e così pesanti, che (al confronto) Federico Il le faceva indossare di paglia. Oh veste opprimente per l’eternità! Noi ci dirigemmo ancora, come al solito, verso sinistra nella stessa direzione di quei dannati, osservandone il pianto sconsolato; ma a causa del peso quella moltitudine sfinita avanzava così lentamente, che noi avevamo nuovi compagni ad ogni passo. Perciò dissi a Virgilio: " Cerca di trovare qualcuno che sia famoso per le sue azioni o per il suo nome, e, continuando a camminare così, volgi lo sguardo intorno a te ". E uno, che udì il parlare toscano, gridò dietro di noi: " Fermatevi, voi che avanzate così veloci nell’aria buia! Forse otterrai da me quello che domandi ". Perciò Virgilio si voltò e disse: "Attendi, e poi avanza col suo passo ". Sostai, e vidi due che, con l’espressione del volto, mostravano una grande ansia di essere con me; ma il peso e l’angusto cammino li rendevano lenti. Quando furono arrivati, mi osservarono a lungo con sguardo obliquo senza parlare; quindi si rivolsero l’uno verso l’altro, dicendo fra loro: "Questo sembra vivo dal movimento della gola (perché respira); e se invece sono morti, per quale privilegio avanzano privi della pesante cappa?" Poi mi dissero: "O Toscano, che sei giunto al raduno dei tristi ipocriti, non disdegnare di dire chi sei". E io a costoro: " Nacqui e fui allevato nella grande città sulle rive del bel fiume Arno, e mi trovo qui col corpo che ho sempre avuto. Ma chi siete voi, ai quali tante lagrime quante ne vedo scendono copiose lungo le gote? e quale castigo è il vostro, che brilla in tal modo? " E uno di loro mi rispose: " Le cappe dorate sono di piombo così spesso, che i pesi fanno in tal modo gemere le loro bilance. Fummo frati Gaudenti, e bolognesi; chiamati io Catalano e questo Loderingo, e scelti entrambi dalla tua città, come è usanza che sia scelto un uomo solo per salvaguardarne la pace; e il nostro comportamento fu tale, che le conseguenze sono ancora visibili tutt’intorno al Gardingo ". Cominciai a dire: " Frati, i vostri supplizi ... "; ma non aggiunsi altro, poiché mi si presentò allo sguardo uno, crocifisso in terra per mezzo di tre pali. Quando mi vide, si contorse tutto quanto, sospirando nel folto della barba; e frate Catalano, che si era accorto di ciò, mi disse: " Quell’inchiodato che tu osservi, espresse ai Farisei il parere che era opportuno per il bene pubblico suppliziare un uomo. E’ posto di traverso, nudo, sul cammino, come tu stesso vedi, ed è necessario che egli senta, prima che sia passato, quanto pesa chiunque passa. E allo stesso modo soffrono in questa bolgia suo suocero, e gli altri appartenenti al concilio che per gli Ebrei rappresentò un inizio di sventure ". Allora vidi Virgilio stupirsi riguardo a colui che stava disteso in croce in modo così ignobile nel luogo dell’eterna dannazione. Quindi rivolse al frate queste parole: " Non vi spiaccia, se vi è permesso,. dirci se verso destra si apre un passaggio attraverso il quale noi due possiamo uscire di qui, senza dover obbligare i diavoli a venire a toglierci da questa fossa ". Allora rispose: " Più di quanto tu non speri è vicino un ponte che parte dalla grande parete che circonda Malebolge (dalla gran cerchia) e attraversa tutti gli spaventosi ripiani, il quale però in questa bolgia è spezzato e non la valica: potrete salire su per le macerie (di questo ponte), che si adagiano lungo il pendio (che giace in costa) e si elevano sul fondo della bolgia ". Virgilio restò per un po’ a testa bassa; poi disse: " Riferiva male lo stato delle cose colui che afferra con gli uncini i peccatori nella quinta bolgia ". E il frate: " A Bologna io udii una volta menzionare molti vizi del diavolo, tra i quali appresi che egli è bugiardo, e mentitore per eccellenza ". Dopo ciò Virgilio se ne andò a gran passi, un po’ alterato dall’ira nell’aspetto, per cui mi allontanai dagli oppressi dalle cappe dietro le orme degli amati piedi.
In quel periodo dell’ anno nato da poco in cui il sole rende più caldi i suoi raggi trovandosi nella costellazione dell’Acquario e già le notti si avviano a durare dodici ore, quando la brina riproduce sulla terra l’aspetto della neve, ma la sua penna (con la quale ritrae l’immagine della neve) si spunta rapidamente, il povero contadino al quale mancano le provviste, si alza, e guarda, e vede tutta la campagna imbiancata, per cui si percuote il fianco, rientra in casa, e andando di qua e di là si lamenta, come il misero che non sa cosa fare: poi torna fuori, e riprende la speranza, vedendo che il mondo ha mutato in poco tempo aspetto, e prende il suo bastone, e spinge fuori le pecorelle al pascolo. Nello stesso modo Virgilio mi fece sbigottire quando lo vidi con aspetto così turbato, ed altrettanto rapidamente giunse la medicina al mio spavento, poiché, non appena giungemmo al ponte franato, la mia guida si rivolse a me con quell’atteggiamento affettuoso che io avevo precedentemente veduto ai piedi del colle (canto I, versi 13 e 77). Aprì le braccia, dopo aver preso dentro di sé una decisione e aver osservato prima attentamente la frana, e mi afferrò. E come colui che agisce e valuta, il quale dà sempre l’impressione di pensare prima di agire, in tal modo, mentre mi sollevava verso la sommità di un masso sporgente, cercava con lo sguardo un’altra sporgenza dicendo: " Afferrati poi a quella; ma accertati prima se è abbastanza salda da reggerti ". Quella non era una strada che gli ipocriti, vestiti delle loro pesanti cappe, avrebbero potuto percorrere, poiché a stento noi, egli leggero (perché puro spirito) e io spinto da lui, potevamo salire di appiglio in appiglio; e se non fosse stato per il fatto che su quell’argine più che sull’altro il pendio era breve, non so cosa sarebbe accaduto a Virgilio, ma io senz’altro sarei stato sopraffatto (dalla stanchezza). Ma poiché Malebolge è tutta quanta inclinata verso l’apertura della voragine più bassa (che porta al nono cerchio), la posizione di ogni bolgia comporta che un argine (quello esterno) si eleva maggiormente e l’altro (quello interno) è invece più basso: noi infine giungemmo sulla sommità dalla quale l’ultimo masso (del ponte franato) sporge in fuori. Il fiato a tal punto mi era stato spremuto fuori dai polmoni nel momento in cui raggiunsi la cima, che non potevo più andare avanti, anzi mi sedetti appena arrivato. "Ormai è necessario che tu con fatiche di questo genere ti tolga di dosso la pigrizia" disse Virgilio; " poiché, adagiandosi sui cuscini, o sotto le coperte, non si raggiunge la fama; chi termina la sua vita senza questa, lascia di sé sulla terra una traccia simile a quelle che lasciano il fumo nell’aria e la schiuma nell’acqua. E perciò alzati: vinci l’affanno con la volontà che trionfa di qualsiasi difficoltà, se non si abbatte con il corpo pesante cui è legata. Occorre salire una scala più lunga (dal centro della terra alla vetta dei purgatorio); non è sufficiente che tu ti sia allontanato da questi dannati: se mi capisci, ora fa in modo che la mia esortazione ti sia d’ aiuto." Allora mi alzai, mostrandomi provvisto di forze più di quanto io stesso me ne sentissi, e dissi: " Procedi, poiché sono forte e coraggioso ". Ci incamminammo sul ponte (che varca la settima bolgia), il quale era irto di sporgenze, angusto e difficile da percorrere ed assai più ripido di quello precedente. Procedevo parlando per non apparire stanco; per cui dall’altra bolgia usci una voce, incapace di articolare parole. Non so che cosa disse, sebbene mi trovassi già sulla sommità del ponte che qui fa da valico: ma colui che parlava pareva spinto a camminare. Io ero rivolto verso il basso, ma il mio sguardo, per quanto penetrante, non poteva arrivare fino al fondo (della bolgia) a causa dell’oscurità; perciò dissi: " Maestro, fa in modo di arrivare all’altro argine e scendiamo giù da questo ponte; poiché, come di qui odo senza comprendere, così vedo quello che c’è nel fondo senza distinguere nulla ". " Non ti do altra risposta se non il fare (ciò che tu chiedi) " disse; "poiché occorre soddisfare la richiesta giusta con i fatti, senza parlare. " Discendemmo per il ponte da quella estremità in cui esso si congiunge con l’argine ottavo, e poi la bolgia mi divenne visibile: e in essa vidi uno spaventoso ammasso di serpenti, e di così strano genere, che il ricordarmene mi guasta ancora il sangue. Più non si vanti la Libia con i suoi deserti, poiché se genera chelidri, iaculi e faree, e cencri con anfisibene, mai mise in mostra tanti animali velenosi né così nocivi insieme con tutta l’Etiopia, e con la terra (l’Arabia) che è delimitata dal Mar Rosso. In mezzo a questa feroce e terribile moltitudine correvano schiere nude e atterrite, senza speranza di trovare riparo o elitropia (pietra che si credeva guarisse dal morso dei serpenti e rendesse invisibili): avevano le mani avvinte dietro la schiena con serpenti; questi spingevano la coda e la testa lungo i loro fianchi, e si attorcigliavano sul loro davanti. Ed ecco che contro uno che si trovava dalla parte del nostro argine, si scagliò un serpente che lo trafisse nel punto in cui il collo si congiunge alle spalle. Non si scrisse mai tanto rapidamente né " o " né " i ", come quello prese fuoco e bruciò, e dovette, cadendo, diventare tutto quanto cenere; e dopo che fu così annientato a terra, la cenere si radunò insieme per virtù propria, e si trasformò di colpo nello stesso dannato di prima: allo stesso modo i grandi sapienti affermano che la fenice muore e in un secondo tempo rinasce, allorché si avvicina al suo cinquecentesimo anno: mentre è in vita non si ciba né di erbe né di biada, ma solo di stille d’incenso e di amomo (resina aromatica), e morendo si avvolge nel nardo e nella mirra. E quale è colui (l’epilettico) che cade, e non ne conosce il perché, a causa di un assalto di demoni che lo fa precipitare a terra, o di un altro impedimento che lo paralizza, il quale, quando si rialza, si guarda attorno del tutto disorientato a causa del grande dolore che ha sofferto, e mentre guarda sospira, tale era il peccatore quando si rialzò. Oh quanto è severa la potenza di Dio, la quale per punizione scaglia tali colpi! Virgilio gli chiese poi chi fosse; onde egli rispose: " Io precipitai dalla Toscana, poco tempo fa, in questa bolgia crudele. Trovai di mio gradimento una vita da bestia, non da uomo, degna del bastardo che fui; sono Vanni Fucci, la bestia, e Pistoia fu il mio degno covo ". E io a Virgilio: " Digli di non sgusciar via, e chiedigli quale peccato lo spinse quaggiù; poiché io lo conobbi come uomo sanguinario e rissoso ". E il peccatore, che capì, non esitò, ma rivolse verso di me l’animo e lo sguardo, e arrossì di malvagia vergogna; poi disse: " Provo più dolore per il fatto che tu mi abbia sorpreso nella condizione miseranda nella quale mi vedi, di quello che provai morendo. Non posso ricusarti quello che mi chiedi: sono collocato così in basso perché fui ladro nella sagrestia riccamente addobbata, e il furto fu allora ingiustamente attribuito ad altri. Ma affinché tu non gioisca per avermi veduto in questo stato, se mai uscirai dall’inferno, Marte fa uscire dalla val di Magra un fulmine avviluppato in nuvole cupe; e con travolgente e aspra tempesta si combatterà a Campo Piceno; per cui esso vigorosamente dissiperà le nubi, in modo che ogni Bianco ne sarà colpito. E ho detto ciò perché ti debba far male! "
Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: " Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto! " Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire "Non voglio che parli oltre", ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento. Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori ? In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe. Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: " Dov’è, dov’è quel ribelle ? " Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane. Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui, Virgilio disse: " Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi. Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano; per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci ". Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo, se non quando gridarono: "Chi siete?": onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro. Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro, dicendo: "Dove sarà rimasto Cianfa? ": per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere. Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo. Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente. Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance; stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso. Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato. Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima, come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco. Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: " Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola ". Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia. Dall’ unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora. Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura. Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada, così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe; e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello. Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre. Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi. Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia. Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio; mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia. (Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi. Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile. La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente). Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano. Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’ infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi. Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo, uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto. Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie: ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario. Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna; e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò. Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui. Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): "Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io". Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza. E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto, che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni: l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti.
Gioisci, Firenze, poiché sei così famosa, che voli per mare e per terra, e il tuo nome si diffonde per l’inferno! Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini di tale condizione che ne sento vergogna, e tu Firenze non ne sali in grande onore. Ma se nelle prime ore del mattino si sogna il vero (si credeva nel Medioevo che i sogni fatti all’alba fossero annunciatori di verità), tu proverai tra breve quello che Prato, per non dire di altri, ti augura. E se ciò fosse già avvenuto, non sarebbe troppo presto: così fosse già avvenuto, dal momento che deve pur accadere! perché sarò più duro da sopportare, quanto più invecchio. C’incamminammo, e Virgilio risalì per la scala formata dalle sporgenze rocciose che prima ci erano servite per scendere, e mi portò con lui; e mentre proseguivamo nella via solitaria, tra le pietre e i massi del ponte il piede non riusciva ad avanzare senza l’aiuto delle mani. Allora mi addolorai, e ora nuovamente mi addoloro allorché rivolgo il pensiero a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più di quello che non sia solito fare, perché non vada troppo senza la guida della virtù, in modo che, se un benefico influsso astrale o la grazia divina mi ha dato il dono dell’ingegno, io stesso non me lo tolga. Quante lucciole il contadino che si riposa sul colle, durante la stagione in cui il sole rimane più a lungo all’orizzonte, allorché alle mosche succedono le zanzare, vede giù per la valle, dove gli sembra di scorgere le sue vigne e i suoi campi, di altrettante fiamme splendeva tutta l’ottava bolgia, così come fui in grado di vedere non appena giunsi al centro del ponte da dove era visibile il fondo. E come colui che si vendicò per mezzo degli orsi vide il carro di Elia nel momento in cui si staccò da terra, quando i cavalli si impennarono verso il cielo, tanto che non lo poteva seguire con gli occhi, in modo da non vedere altro che la sola fiamma salire in alto, come una piccola nuvola. Così nel fondo della bolgia si muove ogni fiamma, poiché nessuna fa vedere quello che essa contiene, e ogni fiamma nasconde un dannato. Stavo sul ponte diritto in piedi per guardare, così che se non mi fossi afferrato a una sporgenza, sarei precipitato anche senza essere urtato. E Virgilio, che mi vide così intento a guardare, disse: " Le anime stanno dentro i fuochi; ciascuna è avvolta dalla fiamma che la brucia ". " Maestro ", risposi, " per il fatto che lo sento dire da te sono più sicuro, ma già pensavo che fosse così, e già volevo domandarti: chi c’è dentro a quella fiamma che avanza così divisa nella parte superiore, che sembra levarsi dal rogo dove Eteocle fu posto col fratello? " Mi rispose: " Dentro a quella fiamma sono tormentati Ulisse e Diomede, e così insieme subiscono la punizione di Dio, come insieme si esposero alla sua ira; e dentro alla loro fiamma si espia l’insidia del cavallo che aprì la porta dalla quale uscì Enea, il nobile progenitore dei Romani. In essa si espia l’astuzia a causa della quale, anche ora che è morta, Deidamia continua a lamentarsi di Achille, e si soffre il castigo a causa del Palladio ". " Se essi possono parlare da dentro quelle fiamme" dissi "maestro, ti prego e torno a pregarti, e possa la mia preghiera valerne mille, che tu non mi impedisca di aspettare, fino a quando quella fiamma a due punte sia giunta qui: guarda come dal desiderio mi chino verso di lei! " E Virgilio a me: " La tua richiesta merita un grande elogio, e io perciò l’approvo: ma fa che la tua lingua si trattenga dal parlare. Lascia parlare me, poiché ho capito ciò che desideri: perché essi, essendo stati Greci, forse eviterebbero di parlare con te ". Dopo che la fiamma giunse nel punto in cui Virgilio ritenne opportuno, io lo udii parlare in questo modo: " O voi che vi trovate in due dentro una sola fiamma, se io ebbi qualche merito nei vostri riguardi, mentre ero in vita, se io l’ebbi grande o piccolo quando in terra scrissi i nobili versi, sostate: e uno di voi racconti dove, per parte sua, smarritosi andò a morire. " La punta più alta dell’antica (da secoli circonda i due dannati) fiamma cominciò a scuotersi rumoreggiando proprio come quella che il vento agita; poi, muovendo di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, getto fuori la voce, e disse: "Quando mi allontanai da Circe, che mi trattenne per oltre un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così, né la tenerezza per il figlio, né l’affetto riverente per il vecchio padre, né il dovuto amore che doveva rendere felice Penelope, poterono vincere dentro di me l’ardente desiderio che ebbi di conoscere il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini: ma mi spinsi per lo sconfinato alto mare solo con una nave, e con quella esigua schiera dalla quale non ero stato abbandonato. Vidi l’una e l’altra sponda fino alla Spagna, fino al Marocco, e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate tutt’intorno da quel mare (il Mediterraneo ) . Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti nei nostri movimenti allorché giungemmo a quell’angusto stretto dove Ercole fissò i suoi limiti, affinché l’uomo non si avventuri oltre (Ercole, secondo il mito, piantò le rupi di Calpe e di Abila, l’una sulla sponda europea, l’altra su quella africana, perché, segnando i limiti del mondo esplorabile, nessuno osasse oltrepassarli ): lasciai alla mia destra Siviglia, alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta: è l’antica Septa romana, sulla costa africana) mi aveva lasciato. "O fratelli", dissi, "che avete raggiunto il confine occidentale (il mondo finiva, per gli antichi, allo stretto di Gibilterra) attraverso centomila pericoli, a questo così breve tempo che ci rimane da vivere, non vogliate negare la conoscenza, seguendo il corso del sole, del mondo disabitato. Riflettete sulla vostra natura: non foste creati per vivere come bruti, ma per seguire la virtù e il sapere. " Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il viaggio, che a stento dopo sarei riuscito a fermarli; e rivolta verso Oriente la poppa della nostra nave, trasformammo i remi in ali per il viaggio temerario, sempre avanzando verso sinistra ( verso sud, ovest). Già la notte ci mostrava tutte le stelle dell’emisfero australe, e (ci mostrava) invece il nostro (emisfero) così basso. che non si alzava al di sopra della superficie del mare. Cinque volte si era accesa e altrettante spenta (erano passati cinque mesi) la luce che la luna mostra nella sua parte inferiore, da quando avevamo iniziato il nostro difficile viaggio, allorché ci apparve una montagna, scura a causa della distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai veduta alcuna. Noi gioimmo, e subito la nostra gioia si mutò in disperazione: perché dalla terra da poco avvistata sorse un vento vorticoso, che investì la prua della nave. Tre volte la fece girare insieme con le acque circostanti: alla quarta fece levare la poppa in alto e sprofondare la prua, come volle Dio, finché il mare si richiuse sopra di noi ".
La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché più non parlava, e già si allontanava da noi col permesso del caro Virgilio, quando un’altra, che sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo verso la sua punta a causa di un mormorio che da essa proveniva. Come il toro siciliano che muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi arnesi, muggiva con il gemito del martirizzato, tanto che, sebbene fosse fatto di rame, sembrava che lui stesso soffrisse, così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura attraverso il fuoco, le parole dolorose si mutavano nel suono di quest’ultimo. Ma dopo che ebbero trovato la loro via verso l’alto attraverso la punta, comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro impresso mentre passavano, udimmo dire: " O tu al quale rivolgo la parola e che or ora parlavi in dialetto lombardo, dicendo "Adesso vattene; più non ti sprono a parlare", sebbene io sia arrivato forse un po’ tardi, non ti dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non rincresce, eppure brucio! Se tu proprio ora sei precipitato nell’inferno da quella amata terra italiana dalla quale ho portato tutti i miei peccati, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere ". Stavo ancora attento e chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel fianco (tentò di costa), dicendo: " Parla tu; costui è italiano (latino) ". Ed io, che ero già preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio: " O anima che sei celata laggiù, la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto. Ravenna si trova nella condizione in cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se la custodisce, in modo da coprire con le ali anche Cervia. La città (la terra: Forlì) che già sostenne il lungo assedio e fece una strage di Francesi. è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli Ordelaffi). E il vecchio Malatesta da Verrucchio e suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i denti a mo’ di succhiello. Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in campo bianco, che cambia partito da una stagione all’altra. E Cesena che è bagnata dal Savio, così com’è sistemata tra la pianura e l’ Appennino, vive tra la tirannide e la libertà. Ora ti prego di raccontarci chi sei: non essere restio a parlare più che non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel mondo una fama duratura ". Dopo che la fiamma ebbe alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole : " Se io pensassi che la mia risposta fosse data a una persona che prima o poi tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa; ma poiché da questo abisso mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice, ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia. Fui guerriero, e poi frate francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio, avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che io credevo si sarebbe avverato del tutto, se non fosse stato per il papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e perché. Finché fui il principio informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe). Io conobbi tutte le astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la loro fama raggiunse i confini del mondo. Quando mi accorsi di essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie, quello che prima mi era piaciuto, allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi avrebbe giovato. Il capo (Bonifacio VIII) dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei (cioè contro i nemici della religione cattolica), giacché ogni suo avversario era cristiano, ma nessuno era stato a conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano, non rispettò in sé né l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro chi se ne cingeva. Ma come l’imperatore Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico per guarirlo dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono dissennate. Egli poi disse: "Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu indicami il modo di abbattere Palestrina. E’ in mio potere chiudere e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V, che rinunciò al trono pontificio) rifiutò ". Allora i fondati argomenti mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione peggiore, per cui dissi: "Padre, giacché tu mi assolvi da quella colpa in cui ora devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo trono". Giunse poi San Francesco, non appena fui spirato, per prendere la mia anima; ma uno dei diavoli gli disse: "Non portarla via con te: non farmi torto. Egli deve venire nell’inferno tra i miei sudditi perché ha dato il consiglio ingannatore, dopo il quale sono stato sempre pronto ad afferrarlo per i capelli; non si può infatti assolvere chi non si pente. né è possibile pentirsi e peccare al tempo stesso perché è cosa contraddittoria ". Oh misero me! come trasalii quando mi ghermì dicendomi: "Forse non pensavi che io fossi logico!" Mi condusse da Minosse; e quello avvolse otto volte la coda intorno al suo duro dorso; e dopo essersela morsicata per la grande ira, disse: " Costui è uno dei peccatori che il fuoco sottrae alla vista"; perciò io sono dannato nel luogo che vedi, e così avvolto dalle fiamme, camminando, mi cruccio. " Quando ebbe così finito di parlare, la fiamma si allontanò gemendo di dolore, torcendo e dibattendo la punta aguzza. Noi proseguimmo oltre, sia io che Virgilio, su per il ponte fino al successivo che copre la bolgia nella quale è scontata la pena da parte di coloro che, suscitando discordia, si gravano del peso della colpa.
Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le descrivesse più volte? Certamente ogni lingua sarebbe inadeguata a causa del nostro linguaggio e del nostro intelletto che hanno poca capacità a contenere fatti così straordinari. Se anche si riunisse tutta la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si dolse delle sue ferite per opera dei Romani (Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il quale non sbaglia,> con quella che provò dolori di ferite riportate nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui ossa sono tuttora raccolte a Ceprano, là dove ogni pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi, e ostentasse chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato, non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante della nona bolgia. Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o una delle laterali, non si apre certo così, come io vidi (aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano : gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore, fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in sterco ciò che si inghiotte. Mentre avidamente fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto con le mani, dicendo: " Vedi dunque come mi lacero! vedi come è straziato Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato nel volto dal mento ai capelli. E tutti gli altri che vedi in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia e di scissione, e perciò sono così spaccati. Qui dietro è un diavolo che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di nuovo ciascuno di questa turba al taglio della sua spada, quando abbiamo fatto il giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni davanti. Ma chi sei tu che ti trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di andare al castigo che è assegnato in giudizio in base a ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse; cfr. canto V, versi 7-8) ? " "Né morte ancora lo ha raggiunto, né lo spinge il peccato " rispose Virgilio " a subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa delle pene infernali, io, che sono morto, debbo guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando. " Furono più di cento le anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia a fissarmi dimenticando, per lo stupore. il loro tormento. " Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi di vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. " Dopo che aveva sollevato uno dei piedi per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi lo riappoggiò in terra per allontanarsi. Un altro, che aveva la gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non aveva più che un solo orecchio fermatosi a guardare per lo stupore con gli altri, prima degli altri spalancò la gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata, e disse: " O tu che nessun peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi trae in inganno ricordati di Pier da Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che scende da Vercelli a Marcabò. E informa i due più ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è errata, saranno gettati fuori della loro nave, e affogati presso Cattolica per il tradimento di uno sleale tiranno. Fra le isole di Cipro e di Maiorca Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da parte di pirati, né da parte di Greci. Quel traditore (Malatestino da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con un occhio, e signoreggia la città che uno che è qui con me vorrebbe non aver mai visto, li inviterà a un abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non avranno più bisogno né di voti né di preghiere per scampare dal vento dei monte Focara ". E io a lui: " Mostrami e spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te, chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di Rimini) ". Allora appoggiò la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: " E’ proprio lui, e non parla. Costui, esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione, sostenendo che chi è preparato sempre sopporta con danno l’indugio ". Oh quanto mi sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola, Curione, che fu così audace nel parlare! E uno che aveva entrambe le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto, urlò: " Ti ricorderai anche del Mosca, che dissi, ahimè!, "Cosa fatta non può disfarsi, parole che furono origine di sventure per i Toscani ". E io replicai: " E rovina della tua stirpe "; per cui egli, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e fuori di sé. Ma io restai a osservare fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che avrei timore di riferire da solo, senz’altra testimonianza, ma mi rende sicuro la coscienza, che è la valente compagnia che infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza. Senza alcun dubbio vidi, e mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa camminare come camminavano gli altri dannati della sciagurata schiera e con la mano teneva sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: " Ohimè! " Con gli occhi della propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può avvenire, lo sa Dio che così dispone. Quando si trovò proprio alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme con la testa, per farci giungere meglio le sue parole, che furono: " Osserva dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la mia. E affinché tu possa recare notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui che diede al Re giovane i cattivi consigli. Feci diventare il padre e il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi incitamenti. Poiché io divisi persone così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!, dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che sta in questo busto.
Gli innumerevoli peccatori e le mostruose ferite avevano riempito d’orrore a tal punto i miei occhi, che questi erano desiderosi di piangere; ma Virgilio mi disse: " Che cosa scruti con tanta insistenza ? perché il tuo sguardo si posa ancora laggiù in mezzo alle abiette anime mutilate ? Non hai fatto così nelle altre bolge: se tu pretendi di contare le anime, pensa che la bolgia ha una circonferenza di ventidue miglia. E la luna è già sotto di, noi (agli antipodi di Gerusalemme: sono all’incirca le ore tredici): ormai il tempo concessoci è breve (dovendo i due poeti percorrere l’ itinerario infernale in non più di ventiquattro ore ed essendone trascorse diciotto, restano loro soltanto sei ore per concludere il viaggio tra i dannati), e sono da vedere cose diverse da quelle che staì guardando". "Se tu avessi" gli risposi subito io " fatto attenzione al motivo per cui guardavo, forse mi avresti concesso di fermarmi ancora." Intanto Virgilio si avviava, e io lo seguivo. già dandogli la risposta. e soggiungendo: " Dentro quella bolgia dove io poco fa avevo lo sguardo così fisso, credo che uno spirito della mia famiglia sconti con dolore il peccato che laggiù sì paga così atrocemente ". Disse allora Virgilio: " D’ora in poi non pensare più a lui: poni mente ad altre cose, ed egli resti là; giacché io lo vidi alla base del ponticello mentre ti indicava (agli altri dannati), e proferiva aspre minacce agitando il dito, e udii che lo chiamavano Geri del Bello. Tu eri allora così completamente occupato a guardare il signore di Hautefort (colui che già tenne Altaforte: Bertran de Born), che non volgesti lo sguardo in quella direzione, finché quello (Geri) non se ne fu andato ". " O mio signore, la sua morte violenta che non è stata ancora vendicata " dissi " da alcuno che (per vincolo di sangue) sia partecipe dell’ingiuria subìta, lo riempie di sdegno; per cui egli, come io penso, si allontanò senza rivolgermi la parola: proprio per ciò mi ha reso più pietoso verso di lui. " Così discorremmo finché si giunse in quella parte del ponte dalla quale per la prima volta l’altra bolgia sarebbe visibile, se vi fosse più luce, interamente, fino in fondo. Allorché giungemmo sopra l’ultima fossa circolare di Malebolge, così che i dannati, che vi erano dentro potevano mostrarsi alla nostra vista, mi colpirono terribili lamenti, penetranti come frecce dalle punte armate di dolore; per cui mi coprii le orecchie con le mani. Quale sarebbe il dolore, se le malattie degli ospedali della Valdichiana e della Maremma e della Sardegna (tre zone particolarmente paludose e malsane) che si manifestano tra luglio e settembre, fossero riunite insieme in una fossa, tale era il dolore in questo luogo, e da esso emanava un fetore simile a quello che suole diffondersi dalle membra putrefatte. Noi scendemmo dal lungo ponte (l’insieme degli archi di pietra che attraversano Malebolge) sull’ultimo argine, sempre dalla parte sinistra; e allora la mia vista divenne più chiara giù verso il fondo, là dove l’infallibile giustizia esecutrice dei voleri di Dio punisce i falsari che segna sul suo libro mentre sono ancora ìn vita (qui: sulla terra). Non credo che fosse maggiormente triste vedere in Egina tutto il popolo malato, quando l’aria fu così piena di germi pestilenziali, che morirono tutti gli esseri viventi, fino al piccolo verme, dopodiché gli antichi abitanti, secondo quanto i poeti affermano come cosa certa, rinacquero dalla specie delle formiche, di quanto fosse vedere in quella buia valle soffrire le anime ammucchiate in cumuli orribili. Alcuni giacevano sul ventre, altri addossati gli uni alle spalle degli altri, altri ancora si trascinavano carponi lungo il miserevole cammino. Procedevamo lentamente senza parlare, osservando e ascoltando i malati, che non potevano alzarsi in piedi. lo vidi due sedere appoggiati l’uno all’altro, come si mette a scaldare teglia contro teglia, macchiati di croste dalla testa ai piedi; e giammai vidi usare la striglia da un garzone di stalla quando è atteso dal suo padrone, né da colui che sta sveglio malvolentieri (e quindi desidera terminare presto il suo lavoro), con la furia con la quale ognuno di essi si grattava spesso con le unghie per il gran tormento del prurito, che non trovava altro sollievo; e le unghie staccavano le croste, come il coltello raschia le squame della scardova (pesce d’acqua dolce) o di altro pesce che le abbia anche più grandi. " O tu che ti togli le croste (come se fossero le maglie di un’armatura: ti dismaglíe) con le unghie " cominciò a dire Virgilio a uno di loro, " e che talvolta le usi come fossero tenaglie, dicci se tra quelli che sono in questo luogo vi è qualche italiano; così possa l’unghia durarti in eterno per il lavoro che compi. " " Noi, che tu qui vedi ambedue così sfigurati, siamo italiani " rispose uno di loro piangendo; " ma tu chi sei che hai chiesto di noi? " E Virgilio disse: " Sono uno che scende giù di cerchio in cerchio con questo essere vivente, e voglio mostrargli l’inferno ". Allora si staccarono l’uno dall’altro (si ruppe lo comun rincalzo: si ruppe il reciproco appoggio); e ciascuno tremando si rivolse a me con altri che avevano ascoltato indirettamente. Il buon Virgilio si accostò con tutta la persona a me, dicendo: " Chiedi loro ciò che vuoi "; e io cominciai, dal momento che egli lo volle : " Possa il ricordo di voi non dileguarsi in terra dalla memoria degli uomini, ma possa vivere per molti anni, ditemi chi siete e di quali città: la vostra ripugnante e dolorosa pena non vi impedisca, per la paura, di rivelarmi i vostri nomi ". " Io nacqui ad Arezzo, e Albero da Siena " rispose uno " mi fece mandare al rogo; ma la colpa per la quale io morii non è quella che mi conduce in questa bolgia. E’ vero che gli dissi, scherzando: "Io saprei alzarmi in volo per l’ aria"; e quello, che era curioso e stolto, volle che gliene insegnassi la maniera; e solo perché non fecì di lui un Dedalo (il mitico costruttore del Labirinto, che attraversò a volo il Mediterraneo, da Creta alla Sicilia; cfr. canto XVII, versi 109 -111), mi fece bruciare da un tale che lo teneva in conto di figlio (il vescovo di Siena). Ma nell’ultima delle dieci bolge, per la sofisticazione dei metalli (alchimia) che praticai in terra, mi condannò Minosse, a cui non è possibile sbaglìare. " E dissi a Virgilio: "Vi fu mai gente così fatua come la senese? Di certo non lo è tanto nemmeno quella francese! " Allora l’altro lebbroso, che mi udì, rispose alle mie parole: " Escludi Stricca che seppe spendere con moderazione, e Niccolò che per primo introdusse la costosa usanza del garofano nel giardino, dove tale seme attecchisce (cioè in Siena); ed escludi la brigata facendo parte della quale Caccia d’Asciano dilapidò i vigneti e i grandi boschi, e l’Abbagliato dimostrò il suo senno. Ma affinché tu sappia chi è a tal punto d’accordo con te contro i Senesi, aguzza la vista verso di me, in modo che il mio viso ti si mostri chiaramente: così t’accorgerai che io sono l’anima di Capocchio, che per mezzo dell’alchimia falsificai i metalli: e ti devi ricordare, se ti riconosco bene, come io fui esperto imitatore della natura ".
Nel tempo in cui Giunone era adirata a causa di Semele contro la stirpe tebana, come dimostrò più volte, Atamante impazzì a tal punto che, vedendo la moglie camminare con i due figli in braccio, gridò. " Tendiamo le reti, così ch’io possa catturare mentre passa la leonessa e i suoi leoncini "; poi protese i crudeli artigli, afferrando il figlio che si chiamava Learco, e lo roteò per l’aria e lo scagliò con forza contro una roccia;. e la madre si gettò in mare, annegando con l’altro figlio che portava in braccio. E quando la fortuna abbatté la superbia dei Troiani che osava ogni cosa, di modo che il re (Priamo) fu distrutto col suo regno, Ecuba addolorata, infelice e prigioniera, dopo che vide Polissena morta, e del corpo del suo Polidoro sulla riva del mare (in Tracia, dove Polidoro era stato ucciso dal re Polinestore) piena di angoscia si accorse, fuor di senno latrò come un cane; a tal punto il dolore le sconvolse la mente. Ma non si videro mai furie tebane o troiane slanciarsi con tanta crudeltà contro qualcuno, né colpire animali, né tanto meno esseri umani. come io vidi slanciarsi due anime pallide e nude, che, dando morsi, correvano come fa il maiale quando esce fuori dal porcile, L’una raggiunse Capocchio, e l’azzannò alla nuca, così che, trascinandolo per terra, gli fece grattare il ventre sul duro terreno. E l’Aretino, che restò lì, tremante di paura, mi disse. "Quello spiritello è Gianni Schicchi, e va rabbiosamente riducendo in questo stato gli altri". " Oh! " gli dissi, " augurandoti che quell’altro spiritello non ti addenti, non ti dispiaccia dirmi chi esso sia prima che si allontani di qui " Mi rispose: " Quello è l’antico spirito della sciagurata Mirra, che diventò contro ogni lecito amore la amante del padre. Costei giunse a peccare con quello, mutando le proprie sembianze in quelle di un’altra, così come Gianni Schicchi che là cammina, osò, per prendersi la cavalla migliore della mandria, fingersi Buoso Donati, facendo testamento e dando a questo testamento valore, legale ". E dopo che i due furenti sui quali avevo soffermato lo sguardo, passarono oltre, rivolsi l’attenzione agli altri sventurati. Ne vidi uno, simile a un liuto, se soltanto avesse avuto l’ inguine separato dalle gambe. La pesante idropisia, la quale deforma a tal punto le membra a causa degli umori naturali che non riesce ad assimilare, che la faccia non é proporzionata al ventre, gli faceva tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per la sete rivolta un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. " O voi che vi trovate nel mondo del dolore senza alcuna pena, e non ne conosco la ragione ", ci disse quello, " osservate e fate attenzione all’infelicità del maestro Adamo: io ebbi, da vivo, tutto ciò che desiderai, e ora misero me! ardentemente desidero una sola goccia di acqua. i piccoli ruscelli che dai verdi colli del Casentino scendono giù nell’Arno, rendendo freschi e umidi i loro alvei, mi sono sempre davanti agli occhi, e non invano, poiché il ricordo che ho di essi m’inaridisce ben più che il male a causa del quale mi assottiglio nel volto. L’inflessibile, giustizia che mi tormenta trae motivo dal luogo dove io peccai per farmi emettere più frequenti sospiri. Lì si trova Romena, dove falsificai la moneta che porta impressa l’immagine di San Giovanni Battista (il fiorino di Firenze); per questo abbandonai sulla terra il mio corpo bruciato. Ma se mi fosse concesso di vedere qui l’anima malvagia di Guido (Guido Il dei conti Guidi) o di Alessandro o dei loro fratello (Aghinolfo o Ildebrandino), non cambierei tale vista con (tutta l’acqua di) fonte Branda (la celebre fontana senese o, secondo alcuni, una fonte nei pressi di Romena). In questa bolgia si trova già una (di queste anime), se gli spiriti rabbiosi che s’aggirano qui intorno dicono la verità; ma a che mi giova, dal momento che non posso muovermi ? Se io fossi ancora agile soltanto quanto basta per percorrere un’oncia (circa due centimetri e mezzo) in cent’anni, mi sarei messo gia in cammino, cercandolo in questa moltitudine deforme, nonostante che la bolgia abbia una circonferenza di undici miglia, e non sia larga meno di mezzo miglio. Per causa loro mi trovo in tale compagnia: essi mi costrinsero a coniare i fiorini che avevano tre carati di metallo vile. " E io a lui: "Chi sono i due infelici che fumano come d’inverno una mano bagnata, giacendo accostati l’uno all’altro alla tua destra? " " Li trovai qui " rispose, " quando caddi in questo precipizio, e da allora non si sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più. Una di quelle anime è la bugiarda che accusò Giuseppe; l’altra è il menzognero Sinone, il greco che ingannò i Troiani: emanano tanto puzzo di untume bruciato a causa della febbre ardente. " E uno di loro, che s’ebbe a male forse d’essere menzionato con tanto disonore, gli colpì col pugno il teso ventre. Quello risuonò come fosse stato un tamburo; e maestro Adamo gli colpì la faccia col suo braccio, che non sembrò meno duro (del pugno di Sinone), dicendogli: " Anche se non posso muovermi a causa delle membra che sono pesanti, ho il braccio agile per colpire ". Allora l’altro rispose: "Quando tu .andavi al rogo, non l’avevi tanto pronto (cioè: eri legato): ma così pronto e anche di più l’avevi quando coniavi le monete false ". E l’idropico: " In ciò tu dici il vero; ma non fosti altrettanto verace testimonio quando a Troia ti chiesero la verità (a proposito del cavallo di legno) ". " Se io dissi il falso, ebbene tu hai falsificato il denaro " disse Sinone; " e se io sono qui per una sola colpa, tu, invece (ti trovi qui) per aver commesso più colpe (ogni fiorino, da te falsificato, è una colpa) che qualsiasi altro dannato! " "Ricordati, o spergiuro, del cavallo " rispose quello che aveva la pancia gonfia; " e ti sia motivo d’amarezza che tutti lo sappiano! " " E a te sia motivo d’amarezza la sete che ti screpola la lingua " disse il greco " e gli umori putridi che gonfiano il tuo ventre a tal punto da trasformarlo in una siepe che t’impedisce la vista! " E quello delle monete. " In modo non diverso ti si lacera la bocca a causa della tua malattia (che ti costringe a tenerla spalancata), come al solito; poiché se io ho sete e l’idropisia mi gonfia, tu hai il bruciore e il mai di testa; e per leccare lo specchio in cui Narciso affogò (cioè l’acqua; Narciso è il mitico giovane che si invaghì della propria immagine riflessa in uno stagno e che, volendo afferrarla, annegò), non chiederesti di essere invitato con molte parole ". Ero tutto intento ad ascoltarli, quando Virgilio mi disse: " Continua pure a guardare! manca poco infatti che io non venga a lite con te ". Allorché udii che mi parlava con ira, mi volsi verso di lui con tale vergogna, che ancora ne serbo un vivo ricordo. Non diversamente da chi sogna di ricevere un danno, il quale mentre sogna desidera che il suo sia soltanto un sogno, per cui aspira a ciò che è (il sogno, che è reale, in quanto sta realmente sognando), come se non fosse, mi comportai, non essendo capace di parlare, io che desideravo scusarmi, e di fatto mi scusavo (proprio per il fatto che la vergogna mi impediva di esprimermi), e non ne ero consapevole. "Una vergogna minore (di quella che stai provando) cancella una colpa maggiore di quanto non sia stata la tua" disse Virgilio; " liberati pertanto da ogni afflizione. E fa. conto che io mi trovi sempre al tuo fianco, se mai debba ancora accadere che le circostanze, ti facciano capitare in luoghi dove siano persone impegnate in un tal genere di contesa: poiché è un desiderio meschino voler ascoltare simili alterchi. "
Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto: così sento dIre che la lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo tempo di una offerta buona. Noi voltammo le spalle alla decima bolgia lungo !’argine che la circonda, attraversandolo senza parlare. Qui era meno buio ché di notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono così fragoroso, che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il quale suono, continuando a percorrere il suo cammino, fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico punto in direzione opposta a quella da cui proveniva. Dopo la grave disfatta, quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non suonò in modo così terribile Orlando. Avevo per poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione, allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per cui dissi: "Maestro, dimmi, che città è questa? " E Virgilio a me: " Poiché tu ti spingi con lo sguardo attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu confonda nel raffigurarti ciò che vedi. Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il senso (della vista) possa errare da lontano; perciò sprona maggiormente te stesso". Poi mi prese affettuosamente per mano, e disse: " Prima che noi giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno sorprendente, devi sapere che non sono torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo la sua parete circolare dall’ombelico in giù ". Come quando la nebbia si dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che nasconde il vapore che rende densa l’aria, così, penetrando con lo sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio errore e aumentava la mia paura; poiché come il castello di Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura che lo circondano, così la sponda che gira intorno al pozzo soverchiavano come torri con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove sembra ancora minacciare col tuono dal cielo. E io già di uno di costoro intravedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i fianchi. Certamente la natura, quando smise di produrre simili esseri viventi, fece cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della guerra) tali esecutori (delle sue volontà). E se la natura non si pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con attenzione, la giudica per questo più giusta e più assennata; poiché nei casi in cui lo strumento della ragione si aggiunge alla volontà di nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono opporre alcuna difesa. La faccia di quel gigante mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è all’interno del Vaticano, nel cortile detto della, Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa; così che la sponda, che gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù, lasciava vedere tanto della parte superiore del suo corpo, che di arrivargli ai capelli tre abitanti della Frisia (rinomati per la loro alta statura) difficilmente avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in giù. "Raphél may améch zabi almì" cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale non si addicevano discorsi più gradevoli. E Virgilio, rivolgendosi a lui: " Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione! Cerca intorno al tuo collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo petto possente ". Poi mi disse: " Da solo rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio. Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il suo, che non è conosciuto da nessuno. Percorremmo dunque un più lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele nell’aspetto e più grande. Chi fosse l’artefice che lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il braccio sinistro e dietro il braccio destro per mezzo di una catena che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte visibile del corpo. "Questo superbo volle sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove " disse Virgilio, " per cui ha una simile ricompensa. Il suo nome è Fialte, e mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che egli mosse. " E io a lui: "Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero l’ immane Briareo", Per cui Virgilio rispose: " Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo dell’inferno. Quello che tu vuoi vedere é molto più distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di Fialte, tranne che appare più terribile nel volto ". Mai vi fu terremoto tanto violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto con il quale fu pronto a scuotersi Fialte. Allora più che mai ebbi paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non avessi veduto le catene. Allora proseguimmo nel nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva conto della testa. "O tu che nella fortunosa valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale fu volto in fuga col suo esercito, portasti un giorno innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è chi potrebbe credere che avrebbero vinto i giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito. Non ci fare andare né da Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona, il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò abbassati, e non volgere altrove il viso. Egli ti può ancora dare, gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé prima dei tempo. " Così parlò Virgilio; e Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia guida. Virgilio, quando si sentì afferrare, mi disse: "Avvicinati, così che io possa prenderti"; poi fece in modo che egli ed io formassimo un solo fascio. Come appare la Garisenda (la minore delle due famose torri di Bologna) quando la si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a terra), così apparve Anteo a me che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare per un’altra strada. Ma dolcemente ci depose sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così chinato, lì indugiò, ma si levò diritto come in una nave l’ albero.
Se i miei versi fossero aspri e striduli in misura adeguata al malvagio cerchio sopra il quale premono tutte le altre rocce, io esprimerei più compiutamente la sostanza dei mio pensiero; ma dal momento che non dispongo di tali versi, non senza timore mi accingo a parlare; poiché non è un’impresa da prendere alla leggiera descrivere il centro di tutto l’universo (nel sistema tolemaico il centro della terra coincide con il centro dell’universo; esso, nel mondo immaginato da Dante, è occupato da Lucifero, che si trova nel punto centrale dei nono cerchio), né tale da essere espressa da una lingua infantile ma soccorrano il mio poetare le Muse che aiutarono Anfione a cingere Tebe di mura, in modo che le mie parole non si allontanino dalla realtà. O anime più delle altre sciagurate che state nel luogo del quale è arduo parlare, meglio per voi se nel mondo foste state pecore o capre! Non appena fummo in fondo al buio pozzo assai più in basso dei piedi del gigante (poiché la superficie ghiacciata di Cocito è inclinata verso il suo centro e Anteo ha deposto i due pellegrini ad una certa distanza da sé, questi si trovano in un luogo più basso di quello ove il gigante poggia i piedi), e io guardavo ancora l’alta parete (del pozzo), udii dirmi: " Fai attenzione a come cammini; avanza, in modo da non calpestare con i piedi le teste degli infelici fratelli doloranti (di noi, che fummo uomini come te, e quindi siamo tuoi fratelli) ". Perciò mi volsi, e vidi stendersi davanti a me e sotto i miei piedi un lago che sembrava di vetro e non d’acqua. Il Danubio in Austria (la Danoia in Osterlicchi), o il Don sotto il freddo cielo boreale non formano durante l’inverno una crosta di ghiaccio così spessa, sullo scorrere delle loro acque, come quella che si trovava in quel posto; infatti se il monte Tambura, o la Pania della Croce (due montagne delle Alpi Apuane) vi fossero caduti sopra, non avrebbe scricchiolato nemmeno dalla parte dei margine (dove lo spessore del ghiaccio è minore). E come la rana sta a gracidare col muso fuori dell’acqua, nel periodo estivo, quando la contadina sogna spesso di raccogliere il grano, allo stesso modo, livide, le ombre dei dannati erano confitte nel ghiaccio fino al punto nel quale la vergogna si manifesta (solo il viso sporgeva cioè dalla superficie ghiacciata), emettendo, col battere dei denti, un suono simile a quello prodotto dalle cicogne. Ognuna teneva il volto abbassato: in loro il freddo è attestato dalla bocca (attraverso il battere dei denti), e il dolore dagli occhi. Dopo essermi alquanto guardato intorno, rivolsi lo sguardo ai miei piedi, e vidi due così vicini, che avevano i capelli mescolati insieme. " Ditemi, voi che così strettamente siete abbracciati ", dissi, " chi siete? " E quelli alzarono la testa; e dopo che ebbero levato lo sguardo verso di me, i loro occhi, che prima erano bagnati dalle lagrime soltanto all’interno, le lasciarono cadere fino alle labbra, e il gelo le trasformò in ghiaccio fra loro e li strinse l’uno all’altro. Una spranga di ferro non tenne mai così fortemente unito un pezzo di legno ad un altro pezzo di legno; per cui essi come due arieti cozzarono l’uno contro l’altro, tanta fu l’ira che li sopraffece. Ed uno di loro che a causa del freddo aveva perduto entrambi gli orecchi, continuando a tenere il viso abbassato, disse: " Perché ci fissi tanto intensamente ? Se vuoi apprendere chi sono questi due, sappi che la valle attraverso la quale scende il fiume Bisenzio appartenne al loro padre Alberto ed a loro. Furono generati da una medesima madre; e potrai cercare per tutta la Caina, senza trovare un dannato più meritevole di essere confitto nel ghiaccio; non colui del quale, per mano di Artù, il petto e l’ombra furono trafitti da un solo colpo di lancia; non Focaccia; non costui che mi ostruisce la vista con la sua testa, in modo che io non riesco a vedere più in là, ed ebbe nome Sassolo Mascheroni: se sei toscano, sai bene ormai di chi parlo. Focaccia è il soprannome del pistoiese di parte bianca Vanni dei Cancellieri, reo di aver ucciso proditoriamente il cugino Detto dei Cancellieri. E perché tu non mi faccia più oltre parlare, sappi che fui Camicione dei Pazzi; e aspetto Carlino che mi faccia apparire meno colpevole ". Poi vidi un’infinità di volti resi paonazzi dal freddo; per cui sento un brivido, e lo sentirò sempre, al pensiero degli stagni ghiacciati. E mentre avanzavamo in direzione del centro (della terra e dell’universo) verso il quale ogni peso converge, e io tremavo nella gelida ombra eterna, se lo feci deliberatamente o per volontà di Dio o per caso, non so; ma, mentre passeggiavo fra le teste, colpii violentemente col piede una di queste nel volto. Piangendo mi rimproverò: " Perché mi percuoti? se tu non vieni ad accrescere la punizione assegnatami a causa di Montaperti, perché mi tormenti? " Ed io: "Maestro, aspettami ora qui, in modo che io chiarisca un mio dubbio per mezzo di costui; poi mi farai affrettare quanto vorrai ". Virgilio si fermò, e io dissi a quello che continuava ad imprecare aspramente: "Chi sei tu che mi rimproveri in modo così violento? " " Di’ tu piuttosto chi sei che cammini per l’Antenora colpendo " rispose "le guance a me, in modo che, se io fossi vivo, la tua sarebbe un’offesa troppo grave (cioè: saprei vendicarmi)? ". " Son io che sono vivo, e ti può essere gradito " risposi, " se desideri fama, che io registri il tuo nome tra le altre cose che ricorderò. " Ed egli: " Desidero proprio l’opposto; va via di qua e non mi dare più fastidio, perché senza risultato usi le tue lusinghe in questa bassura! " Allora lo afferrai per la collottola, e dissi: " Occorrerà che tu dica il tuo nome, o che nemmeno un capello rimanga sulla tua testa". Per cui egli: "Per il fatto che tu mi strappi i capelli, né ti dirò chi sono, né te lo rivelerò, se anche tu mi cada sulla testa mille volte ". lo avevo già afferrato e attorcigliato i suoi capelli, e gliene avevo strappati più di una ciocca, mentre egli latrava con gli occhi ostinatamente volti in basso, allorché un altro gridò: " Che ti prende, Bocca? non ti basta battere i denti? hai bisogno anche di latrare? quale diavolo ha messo la mano su di te? " " Ormai " dissi " non ho più bisogno che tu parli, perverso traditore; ìnfatti, per aumenta. re la tua vergogna, io porterò notizie vere sul tuo conto. " " Vattene " rispose, " e racconta ciò che vuoi; ma non tralasciare, se potrai uscire di qui, di menzionare colui che poco fa è stato così pronto a parlare. Egli è punito qui per il denaro ricevuto dai Francesi: "Io vidi" potrai dire "quello di Dovera là dove i dannati soffrono il freddo ". Se ti venisse chiesto "Chi altro c’era?", sappi che accanto a te si trova quello dei Beccaria al quale Firenze tagliò il collo. Credo che più in là sì trovi Gianni dei Soldanieri con Gano e Tebaldello, che aprì le porte di Faenza di notte. " Ci eravamo già allontanati da lui, quando vidi in una sola buca sepolti nel ghiaccio due dannati, in modo che la testa dell’uno faceva da cappello a quella dell’altro; e con la stessa avidità con cui l’affamato mangia il pane, così quello che stava di sopra aveva conficcato i denti nell’altro nel punto in cui il cervello si congiunge al midollo spinale: non diversamente Tideo rose per odio il capo di Menalippo, da come quel dannato rodeva il cranio e il cervello. "O tu che manifesti attraverso un atto così bestiale il tuo odio verso colui che stai divorando, dimmene il motivo" dissi, "a questo patto, che se tu giustamente ti duoli di lui, sapendo chi siete e la sua colpa, su nel mondo io ti possa ricompensare, se quella lingua con la quale io parlo non si inaridirà.".
Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore. Poi incominciò a dire: "Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli. Ma se le mie parole devono essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere. Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare mi sembri davvero fiorentino. Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto. Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi; ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi. Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne) che a causa mia è soprannominato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro. Costui (l’ arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca. Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne fameliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a cacciare ed esperte. Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate. Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pane. Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere? Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola. Io non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?" Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba. Non appena un po’ di luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi, e dissero: "Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene". Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti? Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: "Padre, perché non m’ aiuti?" Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ". Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane. Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particella affermativa il "sì"), dal momento che le città vicine tardano a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirreno, situate in corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi abitanti! Poiché se correva voce che il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli. La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza. Passammo oltre, là dove il ghiaccio avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa verticalmente, ma tutta quanta supina. Il pianto stesso in quel luogo non consente di piangere, e il dolore che trova sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad aumentare l’angoscia, poiché le prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia, come visiere di cristallo. E sebbene a causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la dimora del mio volto, così come accade per una parte callosa, mi sembrava già di sentire parecchio vento: per cui dissi: " Maestro, chi lo produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore per produrre il vento)? " E Virgilio: " Presto sarai nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda ". Ed uno degli sciagurati immersi nella lastra gelata ci gridò: " Anime a tal punto spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora, toglietemi dal volto il ghiaccio, in modo che io possa sfogare un poco (attraverso le lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che il pianto geli nuovamente ". Onde io: " Se vuoi che ti aiuti (ti sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino in fondo a Cocito ". Allora rispose: " Sono frate Alberigo; sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è frutto più prelibato del fico)". " Oh! " gli dissi, " sei già morto? " Ed egli: " In quali condizioni si trovi il mio corpo nel mondo dei vivi, non so. Questa Tolomea ha il privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre Parche che recideva il filo della vita) le imprima il movimento. E perché più volentieri tu mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non appena l’anima tradisce nel modo usato da me, il suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli per vivere. Essa precipita in questo pozzo (il nono cerchio); e forse è ancora visibile nel mondo il corpo appartenente all’anima che qua dietro a me sverna. Tu lo devi sapere, se soltanto ora scendi nell’inferno: è ser Branca d’Oria, e vari anni sono trascorsi da quando è stato chiuso in tal modo (nel ghiaccio) ". "Credo" gli dissi " che tu m’inganni; poiché Branca d’Oria non è ancora morto, è vivo e sano. " " Nella bolgia" disse " custodita dai Malebranche, dove la pece vischiosa ribolle, non era ancora arrivato Michele Zanche che costui lasciò nel corpo al posto suo un diavolo, ed altrettanto fece un suo parente che compì il tradimento insieme con lui. Ma stendi ormai la mano verso di me; aprimi gli occhi. " E io non glieli apersi; e fu atto nobile essere villano nei suoi confronti. Ahi Genovesi, uomini lontani da ogni buona usanza e pieni d’ogni vizio, perché non siete estirpati dal mondo? Poiché insieme con l’anima più perversa della Romagna (frate Alberigo) trovai un vostro concittadino tale, che a causa delle sue azioni già sta immerso con l’anima nel Cocito, e col corpo appare ancora vivente sulla terra.
"Si avanzano i vessilli del re dell’inferno (le sei ali di Lucifero) verso di noi; guarda perciò davanti a te" disse Virgilio "se riesci a scorgerlo." Come quando una densa nebbia si diffonde, o quando il nostro emisfero si abbuia, appare da lontano un mulino la cui ruota è fatta girare dal vento, mi sembrò allora di vedere una tale macchina; poi, a causa del vento; mi rifugiai dietro a Virgilio, poiché non vi era altro riparo. Già mi trovavo, e con paura lo ricordo nei miei versi, là dove i dannati erano tutti coperti (dal ghiaccio), e trasparivano come un fuscello rimasto incorporato nel vetro. Alcuni stanno distesi; altri eretti, chi con la testa e chi cori i piedi in alto; altri, piegati all’indietro, raggiungono, a guisa di arco, col volto i piedi. Quando ci fummo inoltrati tanto, che Virgilio ritenne opportuno mostrarmi colui che era stato il più bello degli angeli, si scostò e mi fece fermare, dicendo: "Ecco Dite (è il nome di Plutone, re degli inferi, nella mitologia) ed ecco il luogo ove occorre che tu ti armi di coraggio ". Non chiedere, o lettore, quale gelo allora mi invase e come la voce mi si fermò, poiché non lo scrivo, ogni parola essendo inadeguata ad esprimerlo. Io non rimasi né vivo né morto: immagina ormai da solo, se appena hai un poco d’intelligenza, come divenni, privo sia di vita che di morte. Il sovrano dell’inferno sporgeva fuori dal ghiaccio a partire da metà del petto; e c’è più proporzione fra me e un gigante, che fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai quanto deve essere grande l’intera massa di quel corpo perché sia proporzionato a simili braccia. Se fu così bello com’è brutto attualmente, e (ciononostante) si ribellò al suo Creatore, è ben naturale che ogni male derivi da lui. O come mi sembrò cosa degna di grande meraviglia vedere che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era rossa; delle altre due, che si congiungevano a questa sorgendo in corrispondenza della parte mediana di ciascuna spalla, e si congiungevano fra di loro nella parte mediana del volto dove alcuni uccelli hanno la cresta, la destra appariva di un colore tra il bianco e il giallo; la sinistra appariva di un colore simile a quello delle popolazioni originarie della regione da cui il Nilo scende a valle. Sotto ciascuna faccia sporgevano due grandi ali, proporzionate alle dimensioni di un così grande uccello: non vidi mai vele di imbarcazioni marine così grandi. Non avevano penne, ma il loro aspetto era quello delle ali del pipistrello; e le agitava, in modo che da lui si originavano tre venti: Per quel che riguarda le ali di Lucifero, il loro numero è uguale a quello delle ali dei serafini, gli angeli più vicini a Dio, ma, a differenza di quelle dei serafini, piumate e splendenti, quelle del sovrano dell’inferno sono prive di penne e nerastre. perciò l’intero Cocito era trasformato in ghiaccio. Piangeva con sei occhi, e su tre menti faceva gocciare lagrime miste a bava sanguigna. In ogni bocca frantumava con i denti un peccatore, come una gramola (maciulla: strumento che serve a tritare la canapa o il lino), in modo da tormentarne così tre. Per quello che era maciullato nella bocca anteriore il mordere di Lucifero era poca cosa rispetto al graffiare dei suoi artigli, tanto che a volte la sua schiena restava interamente priva di pelle. "Quel dannato lassù, che è sottoposto ad un maggiore tormento" disse Virgilio, " è Giuda Iscariota, il quale tiene la testa dentro la bocca di Lucifero e agita fuori di essa le gambe. Degli altri due, che hanno la testa rovesciata in basso, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto, vedi come si divincola! e non emette lamento!; l’altro, che appare così muscoloso, è Cassio. Ma sta scendendo nuovamente la notte (i due poeti hanno dunque impiegato ventiquattro ore per percorrere tutto l’inferno), e ormai occorre allontanarci, poiché abbiamo veduto tutto (l’inferno). " Gli avvinsi il collo con le braccia secondo la sua volontà; ed egli scelse il momento ed il luogo opportuno; e quando le ali furono abbastanza aperte, si afferrò ai fianchi villosi: poi si calò di ciuffo in ciuffo nello spazio compreso tra il folto pelo e la superficie ghiacciata. Quando ci trovammo nel punto in cui la coscia si articola, proprio in corrispondenza della parte più grossa dell’anca (è la parte centrale del corpo di Lucifero e corrisponde al centro dell’universo), Virgilio, faticosamente ed affannosamente, si girò portando la testa in direzione dei piedi di Lucifero, e si aggrappò al pelo come chi sale, in modo che io credevo di tornare ancora nell’ inferno. "Tienti stretto, poiché per scale di tal genere" disse Virgilio, ansimando come un uomo stanco, " occorre allontanarsi dall’inferno. " Poi uscì attraverso l’apertura di una roccia, e mi fece sedere sull’orlo di essa; quindi diresse verso di me con cautela il suo passo (staccandosi così dal pelo di Lucifero). Volsi in alto lo sguardo. e pensai di vedere Lucifero nella posizione in cui lo avevo lasciato; e vidi invece che teneva le gambe rivolte in alto; e se io allora mi turbai, lo immagini la gente ignorante, che non comprende (come non avevo compreso io) quale è il punto che avevo oltrepassato (il centro della terra). " Alzati in piedi " disse Virgilio " poiché la via che dobbiamo percorrere è lunga e il cammino malagevole, e già il sole ritorna all’ora media (circa le sette e mezza del mattino) fra la prima ora canonica (corrisponde alle sei) e la terza (corrisponde alle nove). " Non ci trovavamo là in una sala di palazzo,, ma in un sotterraneo naturale che aveva il suolo irregolare e mancanza di luce. " Maestro, prima che io mi stacchi dall’inferno ", dissi quando fui in piedi, " parlami un poco per togliermi dal dubbio. Dov’è il ghiaccio? e come mai Lucifero vi è confitto così rovesciato? e come, in così breve tempo, il sole ha fatto il percorso dalla sera alla mattina? " Ed egli: " Tu ritieni di essere ancora dall’altra parte del centro della terra, là dove mi afferrai al pelo del maligno verme che perfora il mondo. Ti trovasti dall’altra parte per tutto il tempo durante il quale io scesi; allorché mi girai, oltrepassasti il punto (il centro della terra) verso il quale si portano da ogni direzione i pesi. E sei ora giunto sotto l’emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale) che ricopre la terra emersa, e sotto il cui meridiano centrale (sotto ‘l cui colmo: a Gerusalemme, situata, secondo le credenze del Medioevo, al centro della terra emersa) fu ucciso l’uomo che nacque e visse senza peccato (Cristo) : tu poggi i piedi sulla piccola superficie che corrisponde nell’emisfero australe a quella costituita dalla Giudecca in quello boreale. Qui è mattina, quando nell’emisfero boreale è sera: e Lucifero, che col suo pelo ci servì come scala; è ancora confitto nella posizione nella quale si trovava prima. Dalla parte di questo emisfero precipitò dal cielo; e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero, per paura di lui (che precipitava) si ritrasse sotto il mare, ed emerse nel nostro emisfero; e forse la terra che è visibile (l’isola del purgatorio) da questa parte (nell’emisfero australe), per evitare il contatto con Lucifero (fermatosi nel centro della terra) lasciò qui un luogo vuoto (è la natural burella in cui i due poeti si trovano), e si spinse in alto". Vi è laggiù un luogo situato all’estremità del sotterraneo che avevamo percorso, lontano da Lucifero tanto quanto è lungo questo sotterraneo, riconoscibile non per mezzo della vista (a causa del buio), ma per il rumore di un piccolo ruscello che qui scende (si tratta verosimilmente del Leté, il corso d’acqua che nel paradiso terrestre, posto sulla sommità della montagna del purgatorio, toglie alle anime purganti, nel momento in cui si accingono a salire in cielo, la memoria dei loro peccati; in tal modo ogni traccia di peccato torna nell’inferno) attraverso l’apertura di una roccia, a esso scavata, col suo corso a spirale, e in lieve pendenza. Virgilio ed io ci avviammo per quella via nascosta (nel grembo della terra; è la via che conduce dall’estremità della natural burella alla superficie dell’ emisfero australe) per ritornare nel mondo luminoso; e senza curarci di interrompere il nostro cammino per riposare, salimmo, egli per primo e io dietro di lui, finché attraverso un foro rotondo vidi la luce degli astri: e attraverso questo foro uscimmo a rivedere il firmamento.
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