A D E L C H I
Prima rappresentazione: 1822
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA POTÉ SERBARE UN ANIMO VERGINALE CONSACRA QUESTO ADELCHI L'AUTORE DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA MEMORIA DI TANTA VIRTÙ.
FATTI ANTERIORI ALL'AZIONE COMPRESA NELLA TRAGEDIA
Nell'anno 568, la nazione longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì dalla Pannonia, che abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila Sassoni e d'uomini d'altre nazioni nordiche, scese in Italia, la quale allora era soggetta agl'imperatori greci; ne occupò una parte, e le diede il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la residenza reale. Con l'andar del tempo, i Longobardi dilatarono in più riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del regno, o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà dell'ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l'esarcato di Ravenna tenuto ancora dall'Impero, come pure alcune città marittime della Magna Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli imperatori; ma la loro autorità vi si andava restringendo e indebolendo di giorno in giorno, e vi cresceva quella de' pontefici. I Longobardi fecero, in diversi tempi, delle scorrerie su queste terre; e tentarono anche d'impossessarsene stabilmente.
754
Astolfo, re de' Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il rimanente. Il papa Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a Pipino, che unge in re de' Franchi. Pipino scende in Italia; caccia Astolfo in Pavia, dove lo assedia, e, per intercessione del papa, gli accorda un trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città occupate.
755
Ripartiti i Franchi, Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia Roma, e ne devasta i contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino: questo scende di nuovo: Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell'Alpi: Pipino le supera, e spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si presentarono a Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a pregarlo, con promesse di gran doni, che rimettesse all'Impero le città dell'esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose che non avea combattuto per servire né per piacere agli uomini, ma per divozione a San Pietro, e per la remissione de' suoi peccati; e che, per tutto l'oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a San Pietro ciò che una volta gli aveva dato. Così fu troncata brevemente nel fatto quella curiosa questione, sul diritto della quale s'è disputato fino ai nostri giorni inclusivamente: tanto l'ingegno umano si ferma con piacere in una questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a patti, e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia, e mandò al papa la donazione in iscritto.
756
Muore Astolfo: Desiderio, nobile di Brescia, duca longobardo, aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana, dove si trovava, speditovi da Astolfo, e viene da essi eletto re. Ratchis, quel fratello d'Astolfo, ch'era stato re prima di lui, e s'era fatto monaco, ambisce di nuovo il regno; esce dal chiostro, fa raccolta di uomini e va contro Desiderio. Questo ricorre al papa ; il quale, fattogli promettere che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non ancora rilasciate, consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce e Desiderio rimane re de' Longobardi.
Non si sa precisamente in qual anno, ma certo in uno dei primi del suo regno, Desiderio fondò, insieme con Ansa sua moglie, il monastero di San Salvatore, che fu poi detto di Santa Giulia, in Brescia: Ansberga, o Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima badessa.
758
Alboino, duca di Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si ribellano a Desiderio, mettendosi sotto la protezione di Pipino. Desiderio gli attacca, gli sconfigge, fa prigioniero Alboino, e mette in fuga Liutprando. In quest'anno, o nel seguente, fu associato al regno il figliuolo di Desiderio, nelle lettere de' papi e nelle cronache chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici, Adelchis.
Nell'anno 768 morì Pipino; il regno de' Franchi fu diviso fra Carlo e Carlomanno suoi figli. Le lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III, successori di Stefano II, sono piene di lamenti e di richiami contro Desiderio, il quale non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove occupazioni.
770
Bertrada, vedova di Pipino, desiderosa di stringer legami d'amicizia tra la sua casa e quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due matrimoni: di Desiderata o Ermengarda, figlia di Desiderio, con uno de' suoi figli, e di Gisla sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive ai re Franchi la celebre lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal contrarre un tal parentado. Ciononostante, Bertrada condusse seco in Francia Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò. Il matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.
771
Carlo, non si sa bene per qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa Ildegarde, di nazione Sveva. La madre di Carlo biasimò il divorzio; e questo fu cagione del solo dissapore che sia mai nato tra loro. Muore Carlomanno: Carlo accorre a Carbonac nella Selva Ardenna, al confine de' due regni: ottiene i voti degli elettori: è nominato re in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi alla morte di Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co' suoi due figli, e con alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio. Carlo ne fu punto sul vivo.
772
A Stefano III succede Adriano. Desiderio gli spedisce un'ambasciata per chiedergli la sua amicizia: il nuovo papa risponde che desidera stare in pace con quel re, come con tutti i cristiani; ma che non vede come possa fidarsi d'un uomo il quale non ha mai voluto adempir la promessa, fatta con giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le appartiene. Desiderio invade altre terre della Donazione.
FATTI COMPRESI NELL'AZIONE DELLA TRAGEDIA
772-774
Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ai quali prese Eresburgo (secondo alcuni, Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per vendicarsi di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d'indur questo a incoronar re de' Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi barbari, il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò, come doveva, allienissimo dal secondare un tal disegno; del resto, disse d'esser pronto ad abboccarsi col re, dove a quei fosse piaciuto, quando però fossero state restituite alla Chiesa le terre occupate. Desiderio ne invase dell'altre, e le mise a ferro e fuoco. In tali angustie, e dopo avere invano spedito un'ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano mandò un legato a chieder soccorso a Carlo. Poco dopo, arrivarono a Roma tre inviati di questo, Albino suo confidente, Giorgio vescovo, e Wulfardo abate, per accertarsi se le città della Chiesa erano state sgomberate, come Desiderio voleva far credere in Francia. Il papa, quando partirono, mandò in loro compagnia una nuova ambasciata, per fare un ultimo tentativo con Desiderio; il quale, non potendo più ingannar nessuno, disse che non voleva render nulla. Con questa risposta i Franchi se ne tornarono a Carlo, il quale svernava in Thionville; dove gli si presentò pure Pietro, il legato d'Adriano.
Circa quel tempo, dovette il re de' Franchi ricevere una men nobile ambasciata, inviatagli segretamente da alcuni tra' principali longobardi, per invitarlo a scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno, promettendogli di dargli in mano Desiderio o le sue ricchezze.
Carlo radunò il campo di maggio, o, come lo chiamano alcuni annalisti, il sinodo, in Ginevra; e la guerra vi fu decisa. S'avviò quindi con l'esercito alle Chiuse d'Italia. Erano queste una linea di mura, di bastite e di torri, verso lo sbocco di Val di Susa, al luogo che serba ancora il nome di Chiusa. Desiderio le aveva ristaurate e accresciute; e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di Carlo vi trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino. Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che Adelchi, robusto, come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia una mazza di ferro, gli appostava dalle Chiuse, e piombando loro addosso all'improvviso, co' suoi, percoteva a destra e a sinistra, e ne faceva gran macello. Carlo, disperando di superare le Chiuse, né sospettando che ci fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già stabilito di ritornarsene, quando arrivò al campo de' Franchi un diacono, chiamato Martino, spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo il passo per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de' successori di Leone su quella sede.
Mandò Carlo per luoghi scoscesi una parte scelta dell'esercito, la quale riuscì alle spalle de' Longobardi, e gli assalì; questi, sorpresi dalla parte dove non avevano pensato a guardarsi, e essendo tra loro de' traditori, si dispersero. Carlo entrò allora col resto de' suoi nelle Chiuse abbandonate. Desiderio, con parte di quelli che gli eran rimasti fedeli, corse a chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona, dove condusse Gerberga co' figliuoli. Molti degli altri Longobardi sbandati ritornarono alle loro città: di queste alcune s'arresero a Carlo, altre si chiusero e si misero in difesa. Tra quest'ultime fu Brescia, di cui era duca il nipote di Desiderio, Poto, che, con inflessione leggiera, e conforme alle variazioni usate nello scrivere i nomi germanici, è in questa tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo suo fratello, vescovo della stessa città, si mise alla testa di molti nobili, e resistette a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare quella città. Più tardi, il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo esercitava contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i due fratelli ad arrendersi.
Carlo mise l'assedio a Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie, Ildegarde; e vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto, andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i limini apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio liberatore. L'assedio di Pavia durò parte dell'anno 773 e del seguente: non credo che si possa fissar più precisamente il tempo, senza incontrar contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al caso nostro, e forse insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto Pavia, i Longobardi, stanchi dall'assedio, gli apriron le porte. Desiderio, consegnato da' suoi Fedeli al nemico fu condotto prigioniero in Francia, e confinato nel monastero di Corbie, dove visse santamente il resto de' suoi giorni. I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi, e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando si presentasse sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerbega gli andò incontro coi figli, e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò Verona, che s'arrese; e di là si rifugiò a Costantinopoli, dove, accolto onorevolmente, si fermò: dopo vari anni, ottenne il comando d'alcune truppe greche, sbarcò con esse in Italia, diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso.
Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo anacronismo, e l'altro d'aver supposta Ansa già morta prima del momento in cui comincia l'azione (mentre in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s'è cercato d'accomodare i discorsi de' personaggi all'azioni loro conosciute, e alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d'un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d'Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici, con un'infelicità, che dal più difficile e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall'autore.
Usanze caratteristiche alle quali si allude nella tragedia
ATTO I
Scena II, v. 149
Il segno dell'elezione de' re longobardi era di mettere loro in mano un'asta.
Scena III, v. 212
Alle giovani longobarde si tagliavano i capelli quando andavano in marito: le nubili sono dette nelle leggi: figlie in capelli. Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch'erano chiamate intonse; e vuole che di qui sia venuta la voce tosa, che vive ancora in qualche dialetto di Lombardia.
Scena V, v. 335
Tutti i Longobardi in caso di portar l'armi, e che possedevano un cavallo, eran tenuti a marciare; il Giudice poteva dispensarne un piccolissimo numero.
ATTO III
Scena I, v. 78
Ne' costumi germanici, il dipendere personalmente da' principali era, già ai tempi di Tacito, una distinzione ambita. Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il servizio domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza onorevole e di devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa condizione erano dai Longobardi chiamati Gasindi: ne' secoli posteriori invalse il titolo domicellus; e di qui il donzello, che è rimasto nella parte storica della lingua. Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova ugualmente ne' secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze che hanno quei tempi con quelli che Vico chiamò della barbarie seconda. Patroclo, ancor giovinetto, dopo aver ucciso, in una rissa, il figlio d'Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in casa del cavalier Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al servizio d'Achille, suo figlio.
Scena IV, v. 212
L'omaggio si prestava dai Franchi in ginocchio, e mettendo le mani in quelle del nuovo signore.
ATTO IV
Scena II, v. 221
Una delle formalità del giuramento presso i Longobardi, era di metter le mani su dell'armi, benedette prima da un sacerdote.
Coro, ST. 7
Carlo, come i suoi nazionali, era portato per la caccia. Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di Virgilio, come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una caccia di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando da un'altura.
Coro, ST. 10
Si dilettava anche molto dei bagni d'acque termali: e perciò fece fabbricare il palazzo d'Aquisgrana.
Il vocabolo Fedele, che torna spesso in questa tragedia, c'è sempre adoperato nel senso che aveva ne' secoli barbari, cioè come un titolo di vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per evitar l'equivoco che farebbe col senso attuale, non s'è potuto far altro che distinguerlo con l'iniziale grande. Drudo, che aveva la stessa significazione, ed è d'evidente origine germanica, riuscirebbe più strano, essendo serbato a un senso ancor più esclusivo. Nella lingua francese, il fidelis barbarico s'è trasformato in féal, e c'è rimasto; e le cagioni della differente fortuna di questo vocabolo nelle due lingue, si trovano nella storia de' due popoli. Ma c'è pur troppo, tra quelle così differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi hanno conservato nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di sangue; e a forza di lacrime e di sangue è stata cancellata dal nostro.