IL CONTE DI CARMAGNOLA
è preceduta da “Notizie storiche” sul protagonista e sugli avvenimenti che fanno da soggetto della tragedia.
Francesco Bussone nacque intorno al 1390 da un contadino e da bambino fu avviato a pascolare le pecore. Un soldato di ventura si imbatté in lui per puro caso e, rimasto colpito "dall'aria fiera del suo volto", gli propose di seguirlo al servizio del celebre condottiero mercenario Facino Cane. Il giovinetto acconsentì e ben presto si mise in luce per coraggio e determinazione, tanto da fare una rapida carriera militare. Si segnalò soprattutto al servizio di Filippo Maria Visconti, della cui potenza fu il principale artefice, sicché il duca lo nominò condottiero del suo esercito, gli conferì il titolo di Conte di Castelnuovo, gli consentì le nozze con Antonietta Visconti e gli permise di costruirsi un palazzo in Milano. La crescente potenza anche politica del Bussone venne però in sospetto del duca che tentò -a ciò spinto anche da non pochi cortigiani gelosi dell'ascesa del Carmagnola- di liberarsi di lui mandandolo governatore disarmato a Genova. Il Conte accettò l'incarico ma si rifiutò di rinunziare al comando delle milizie, ben prevedendo che quello sarebbe stato l'inizio d'una sua totale emarginazione dalla vita del ducato. Tentò di far desistere Filippo, ma visto inutile ogni tentativo, decise di abbandonarlo e di offrire il suo servizio prima al Duca Amedeo di Savoia e poi alla Repubblica di Venezia, tradizionali nemici dei Visconti. Fu Venezia ad accettarlo anche perché era allora in discussione un'alleanza coi Fiorentini per far guerra ai Visconti. Forse la guerra fu decisa proprio perché i Veneziani nutrivano grosse speranze di successo sull'abilità di condottiero del Carmagnola e sull'odio che questi aveva accumulato contro il suo vecchio signore. Ma nella battaglia di Maclodio, vittoriosa per il Carmagnola, questi mandò liberi, com'era usanza dei capitani di ventura, tutti i prigionieri, facendo sorgere il sospetto di essere ancora sentimentalmente legato ai vecchi compagni d'arme. Alcuni successivi insuccessi di lieve entità alimentarono i sospetti circa un qualche suo disegno di riconciliazione col Visconti a tutto danno della Repubblica e perciò i Veneziani decisero di intervenire senza mezzi termini e stroncare sul nascere l'eventuale tentativo di diserzione: invitato il Conte a lasciare temporaneamente l'esercito e venire a Venezia per discutere circa una eventuale pace da proporre al Visconti, lo catturarono di sorpresa, lo accusarono di tradimento e lo condannarono alla decapitazione. Gli storici non dispongono di documenti certi per giudicare le reali intenzioni del Carmagnola e dovendo procedere, per così dire, ad un'istruttoria indiziaria, si sono naturalmente divisi in colpevolisti ed innocentisti. Il Manzoni si è schierato dalla parte di questi ultimi ed ha tratteggiato il suo personaggio come la vittima di una infamante calunnia.
Il primo atto della tragedia ci porta nella sala delle riunioni del Senato di Venezia, ove il doge Francesco Foscari mette in discussione se accettare l’alleanza proposta dai Fiorentini, se è conveniente dichiarare la guerra ai Milanesi e se è opportuno affidarne il comando al Carmagnola.
Uno dei capi del Consiglio dei Dieci, Marino, diffida apertamente della lealtà del Conte e scongiura di non affidare a lui la difesa della Repubblica, ma il doge è di avviso contrario anche in considerazione dell’attentato alla vita del Conte ordito dal Visconti e fortunosamente sventato, ed ottiene il voto favorevole dei senatori su tutti e tre i quesiti proposti. La scena si sposta poi in casa del Carmagnola ove un senatore si reca per informare il Conte delle decisioni adottate e per avvertirlo della presenza di nemici occulti.
Nel secondo atto, la prima parte si svolge nel campo dei Milanesi, ove i capi militari sono divisi sulla opportunità di attaccare il nemico o attendere una migliore occasione: vince il partito dei più giovani che vogliono lo scontro immediato. Nella seconda parte si passa nel campo dei Veneziani, ove il Carmagnola, con estrema calma e convinta certezza di vittoria, mette a punto il piano di battaglia e dà le ultime istruzioni ai suoi ufficiali.
A questo punto si inserisce il Coro che consente al Poeta di esprimere il suo giudizio morale su quella vicenda. La battaglia è iniziata e si fa presto assai violenta. Qual nemico straniero è venuto ad insanguinare le nostre belle contrade? - si domanda il Poeta -. Ma non sono stranieri! Gli uni e gli altri parlano lo stesso linguaggio e sono figli della stessa Terra. Ma se sono fratelli, chi per primo osò trarre il sacrilego brando? “Del conflitto esecrando / la cagione esecranda qual è?”. Il colmo della sventura è che quei contendenti non hanno motivo di odiarsi e la cagione di quella guerra neppure la sanno: “a dar morte, a morire / qui senz'ira ognun d'essi è venuto; / E venduto ad un duce venduto, / con lui pugna, e non chiede il perché”. E quando la battaglia volge al termine e si profila con chiarezza la vittoria d’uno dei due eserciti, un corriere monta a cavallo per recare la lieta notizia. Ma come può mai esser lieta codesta notizia se deve pur dire: “i fratelli hanno ucciso i fratelli”? E intanto lo straniero si affaccia dai monti e con sguardo sinistro di gioia conta compiaciuto le migliaia di morti e calcola quand’è che può scendere senza rischi a conquistare l’Italia. Il commento morale del Manzoni alle vicende della tragedia è troppo evidente per dover essere spiegato, ma ci preme ugualmente di sottolineare come, anche in questo Coro, il cuore e la mente del Manzoni superino la vicenda nazionale e considerino invece il problema della guerra e della sopraffazione in rapporto all’intera umanità:
Tutti fatti a sembianza d'un solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
Il terzo atto si svolge tutto nella tenda del Carmagnola, ma è anch’esso da dividere in due parti: nella prima ci si compiace della vittoria ottenuta sui Milanesi, mentre nella seconda si assiste ad uno scontro verbale fra il Carmagnola ed i Commissari preposti alla vigilanza dell’esercito per conto del governo veneziano: questi ultimi manifestano il loro disappunto per il rilascio dei prigionieri e pretendono che il condottiero dia l’ordine di inseguire il nemico fino a Milano; il Carmagnola risponde che il rilascio dei prigionieri rientra nelle consuetudini di guerra e che non è prudente inseguire il nemico senza essersi prima garantita la sicurezza alle spalle; e poi taglia corto, dicendo che gli lascino fare il suo mestiere di soldato in pace e che gli revochino pure l’incarico se nutrono sospetti sulla sua lealtà o sulle sue capacità.
Nel quarto atto il Gran Consiglio, dopo aver deciso di attirare con un tranello il Conte a Venezia per processarlo di tradimento, mette sotto accusa il senatore Marco per aver parlato in difesa del Carmagnola, suo amico. Marco è costretto a sottoscrivere un giuramento che gli impone di non svelare al Conte i piani del Consiglio e riceve l’ordine di allontanarsi da Venezia e di recarsi a Tessalonica in missione. Prima di partire, medita dolorosamente su quella che ritiene una viltà nei confronti dell’amico, ma anche sui suoi doveri di senatore che gli impongono di custodire i segreti di stato senza cedere ai sentimenti personali. Il soliloquio di Marco è forse la pagina più bella di tutta la tragedia. La scena si sposta poi nella tenda del Conte che, ricevuto l’invito a recarsi a Venezia, l’accetta di buon grado nonostante le diffidenze e i timori manifestatigli dal fedele Gonzaga.
Anche il quinto ed ultimo atto si divide in tre parti: nella prima il Conte è ricevuto dal Gran Consiglio che, dopo aver discusso la pace per saggiare l’animo del condottiero, lo accusa di tradimento e lo dichiara in arresto; nella seconda il Gonzaga si reca in casa del Carmagnola per dare la triste notizia alla moglie ed alla figlia dello sventurato condottiero; nella terza il Conte riceve nella sua cella l’ultima visita delle due donne, che cerca di confortare, dando prova di estrema fierezza nell’accettare un supplizio che non lo scalfisce minimamente nell’intimo, avendo egli conservata intatta e pura la propria coscienza.
«Il nucleo vitale della tragedia - afferma il Flora - è lo svolgimento della vicenda che conduce il Carmagnola ad una accettazione religiosa della morte, già tante volte sfidata sui campi di battaglia per una sfida mondana: il trapasso da un sentimento guerriero a un sentimento di suprema pace. Su questo dramma si leva il Coro in cui il poeta esprime la tragedia italiana dei popoli fratricidi, riconducendo anche quella alla contemplazione ultima della morte, al giudizio di Dio... La più intima verità poetica di questa tragedia s'è veduta nello svolgimento del protagonista e nel coro che sovrasta a tutte le scene come un cielo in presagio di tempesta. Non la gelida parte del Doge o magari l'eloquenza di Marino, primo a diffidare del conte: non l'insidia per la quale la Repubblica trae il Carmagnola a morte hanno vera virtù di contrasto drammatico: sono soltanto i modi accennati attraverso i quali il Carmagnola svolgerà la sua dura esperienza e risentirà il richiamo di Dio. E qui il poeta trova il suo limpido tono».