OPERE DOPO LA CONVERSIONE
la composizione di dodici inni sacri che avrebbero dovuto celebrare e illustrare le festività più importanti della Chiesa cattolica. Gli Inni sarebbero dovuti essere un’occasione al Poeta per esaltare la riacquistata Fede, l’effetto da essa prodotto sulla sua coscienza, e, ad un tempo, un tentativo di spiegare al popolo il significato ed il valore, sia religioso che morale e sociale, di quelle festività rievocatrici dei momenti salienti dell’incontro dell’umanità col Cristo Redentore. In effetti, se si eccettua la “Pentecoste”, gli altri Inni falliscono sostanzialmente entrambi gli scopi, perché, come giustamente osserva il Momigliano, «quando il Manzoni li scriveva, era certo fervidamente religioso, ma c'era ancora in lui l'ardore di chi è nuovo ad un sentimento e, quindi, senza accorgersi, lo falsa con la retorica o s'accontenta di un'espressione poco meditata e condensata»; d’altra parte l’eccesso di riferimenti biblici e di figure retoriche certo non poteva giovare ad una facile comprensione degli Inni: «La semplicità - osserva ancora il Momigliano -, in misura diversa, difetta nei quattro minori Inni Sacri; e questo vizio si rivela specialmente nella fredda abbondanza delle figure retoriche».
Il piano dell'opera è rivelato dallo stesso Manzoni nella seconda delle 46 carte in cui egli trascrisse gli Inni di suo pugno. Qui sono indicati i titoli dei dodici Inni e sono segnati con una X quelli che andava componendo:
1. Il Natale X
2. L’Epifania
3. La Passione X
4. La Risurrezione X
5. L’Ascensione
6. La Pentecoste X
7. Il Corpo del Signore
8. La Cattedra di S. Pietro
9. L’Assunzione
10. Il nome di Maria X
11. Ognissanti
12. I Morti
Come si vede, solo cinque Inni furono portati a termine, ma il Manzoni iniziò anche un sesto, “Ognissanti”, che abbandonò dopo solo quattro strofe.
Il poeta compose il suo primo Inno, “La Risurrezione”, tra l’aprile e il giugno del 1812: nella prima parte (vv. 1-70) il Poeta rievoca il momento della resurrezione di Cristo che, gettata via la pietra sepolcrale, sale in cielo fra lo sbigottimento delle donne preganti sulla sua tomba e la sinistra paura che assale la “scolta insultatrice”; gli fanno scorta le anime dei Profeti che Egli è disceso a liberare dal Limbo, mentre il monte di Sion, su cui sorge Gerusalemme, commosso ed esultante per l’avvenimento, si scuote come per un terremoto. Nella seconda parte (vv.71-112) si descrive l’esultanza del mondo cristiano: i sacerdoti sostituiscano i paramenti color viola con quelli bianchi, le madri facciano indossare ai figli gli abiti della festa e il ricco doni il superfluo della sua mensa a quella del povero perché anch’essa sorrida in questo fausto giorno. Peccato che molti, ribelli alla legge del Signore, non risorgeranno dalle tenebre dell’inferno: solo chi confida in Dio risorgerà nel giorno del Giudizio Universale.
“Il nome di Maria” fu composto tra il novembre del 1812 e l’aprile del 1813: è l’Inno meno denso di reminiscenze bibliche e liturgiche. Se, infatti, si eccettua l’iniziale racconto della visita di Maria alla cugina Elisabetta, tutto l’inno scorre facile sull’esaltazione del nome della Vergine, venerato in tutte le parti della terra ed invocato dal fanciullo impaurito come dal marinaio in pericolo, e dalla femminetta che a Lei “della sua immortale alma gli affanni espone”: a Lei tutti possono ricorrere perché Ella non distingue il dolore “degl'imi e de' grandi”. Tutti debbono onorare il nome di Maria ed anche gli Ebrei, ricordando che la Madre di Cristo fu della loro stirpe, cantino con i Cristiani: «Salve, o degnata del secondo nome, / o Rosa, o Stella ai periglianti scampo;/ inclita come il sol, terribil come / oste schierata in campo».
Tra il luglio e il settembre del 1813 fu composto “Il Natale”, che, nelle varie edizioni degli Inni Sacri, occupa il primo posto. Dopo aver ricordato che l’uomo, condannato per l’antico peccato, si giaceva in terra come un masso che, caduto dall’alta vetta, resta immobile a valle senza aver la forza di risalire su, annunzia la nascita del Salvatore nell’umile presepe e l’avvento della nuova speranza. Il procedimento narrativo usato dal Poeta con frequente ricorso a reminiscenze bibliche e liturgiche, spegne in parte lo slancio lirico iniziale, sicché conveniamo col Busetto, secondo il quale «ciò che difetta in modo manifesto è la sintesi poetica, poiché i particolari motivi e le varie rappresentazioni, rampollanti dal sentimento meravigliato e devoto del grande evento, non si raccolgono in un'organica visione religiosa e umana, né convergono armoniosamente ad illuminare il significato misterioso e solenne dell'avvenimento celebrato...Di questo motivo religioso e umano, fecondo d'alta poesia, il Manzoni ebbe l'intuizione e s’abbandonò, nel primo impeto, all'alto volo: ma poi gli si confuse la visione di questo legame tra il figlio dell'Uomo e il figlio di Dio, attorno a cui s'annoda tutta la poesia del Cristianesimo, e si perse a commentare il gran fatto a mo' dei sermoni chiesastici e a verseggiare il testo biblico».
“La Passione” fu composta tra il marzo del 1814 e l’ottobre del 1815: rappresenta con ordine e scrupolosa aderenza ai testi biblici la vicenda del Cristo che, venuto al mondo per dividere coi fratelli tapini il funesto retaggio del peccato originale, fu vilipeso, deriso, tradito ed infine ucciso col più atroce ed infamante supplizio: ma quel Sangue versato per la riconciliazione dell’uomo con Dio, discenda sui “ciechi” figli della terra e sia “pioggia di mite lavacro”. L’ispirazione è piuttosto fiacca e lontanissima da quella che animò la lauda di Jacopone da Todi: «Jacopone è così icasticamente nudo - avverte il Momigliano -, divino; Manzoni è spesso così enfatico e riflessivo».
Nel giorno di Natale del 1833 morì Enrichetta Blondel e il Manzoni, che per questa perdita rimase terribilmente affranto, vagheggiò l’idea di riscrivere l’inno sacro dedicato al Natale. Solo due anni dopo si accinse a farlo, iniziando un inno che nel manoscritto porta il titolo “Il Natale del 1833”. L’inno fu abbandonato dopo la quarta strofa.
Egual destino toccò anche all’inno “Ognissanti” che, iniziato nel 1847 - secondo la testimonianza della seconda moglie -, fu interrotto alla quarta strofa.
Un discorso a parte merita “La Pentecoste”, composta fra il giugno del 1817 ed il settembre del 1822.
L’inno si divide in tre parti: nella prima (vv. 1-48) si rievoca l’origine della Chiesa, la “Madre de' Santi”, che è ad un tempo “del sangue incorruttibile / conservatrice eterna” e “campo di quei che sperano”: quando il suo Signore fu tratto dai perfidi a morire sul colle e quando la sua divina spoglia uscì dalle tenebre e salì al trono del Genitore, recandosi in mano il prezzo del perdono, i suoi primi sacerdoti, gli undici Apostoli, se ne stavano rinchiusi nel Cenacolo timorosi della sorte che era toccata al Maestro, ma lo Spirito Santo discese su di loro (appunto nel giorno della Pentecoste, cioè il cinquantesimo giorno dopo la Resurrezione) e li animò ad uscire alla luce per diffondere il Verbo. La seconda parte (vv. 49-80) è dedicata alla spiegazione dei miracolosi effetti della predicazione apostolica che ha raggiunto tutte le regioni della terra e si è rivolta a tutti gli uomini, ai liberi ed agli schiavi, ai ricchi ed ai poveri, alle spose ed alle vergini, annunziando una nuova gloria “vinta in più belle prove” ed una nuova pace “che il mondo irride, ma che rapir non può”.
La terza ed ultima parte (vv. 81-144) è una solenne preghiera allo Spirito Santo perché discenda continuamente, propizio ai suoi cultori ed a chi l’ignora, per rianimare i cuori estinti nel dubbio, per donarsi come premio ai vinti, per consolare gli sventurati e sgomentare le ire superbe dei potenti insegnando loro la pietà: lo Spirito Santo faccia che il povero sollevi lo sguardo al cielo e “volga i lamenti in giubilo” e che il ricco dispensi i suoi beni con volto amico e “con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa”: ed accompagni l’uomo dalla nascita al suo tramonto, fino a brillare “nel guardo errante di chi sperando muor”.
Il significato globale dell’Inno è che l’umanità, redenta dal Salvatore, non ha tuttavia la forza morale di conservare la Grazia: il corpo è debole e le tentazioni della terra sono tante, perciò occorre che il miracolo della Pentecoste, della discesa dello Spirito Santo in soccorso dell’umanità, si rinnovi quotidianamente. Detto significato non si ricava, come di solito negli Inni precedenti, da un discorso lucido quanto freddo, ma da una serie di immagini che zampillano, l’una dietro l’altra, dalla fantasia vivida e commossa del Poeta, che sente profondamente la grande forza rigeneratrice della nuova Fede e vive tuttavia il dramma della fragilità umana, delle perenni ingiustizie sociali, dei travagli che affaticano i miseri ed abbattono i più deboli: che è poi la caratteristica dominante della sua particolare religiosità, tendente a privilegiare gli effetti della nuova Fede sulla realtà quotidiana della storia, prima ancora che quelli relativi al destino soprannaturale.
«Ma quel che distingue la Pentecoste - afferma il Momigliano - è il gaudio dell'anima che si sente legata, insieme con tutti gli uomini, a Dio; il suo abbandono appassionato alla guida suprema; il volo ampio dello spirito che raccoglie con sé, in una sola adorazione, come genuflessa in una chiesa sterminata, tutta l'umanità. Il ritmo che move l'inno dal principio alla fine, è pieno di palpiti; ma ciascuna frase, presa a sé, è per lo più serena, precisamente tornita. Anche qui si rivela il poeta che sa frenare i sentimenti più impetuosi e fissarli nella forma più nitida... ».
c’è da registrare, dal punto di vista estetico, una enorme differenza di valore fra le prime, composte rispettivamente nel 1814 e nel 1815, e quelle del 1821, rientranti negli anni più fecondi e più felici dell’ispirazione manzoniana.
L’ “Aprile 1814” fu composta in occasione della vittoria degli Austriaci sui Francesi e del conseguente “cambio della guardia” nel governo lombardo. Per un po' si sperò che gli Austriaci non ripristinassero l’antico dominio sulla regione e volessero conservare il Regno italico, affrancandolo però dal giogo francese e difendendone l’indipendenza. Anche il Manzoni credette in questo sogno e compose in fretta questa canzone, ma poi l’abbandonò allo stato di abbozzo, quando gli Austriaci si insediarono in Milano “per diritto di conquista” e ne ebbero riconfermato il possesso dal Congresso di Vienna. L’opera, che si compone di 91 versi, fu poi pubblicata dal Bonghi nel primo decennale della morte dell’Autore.
La canzone è una vera e propria arringa contro le prevaricazioni dei Francesi, usi a spogliare d’ogni ricchezza le terre “liberate” e ad imporre le inique leggi dei conquistatori come messaggi di redenzione, doni di civiltà.
Le speranze del Manzoni per una Patria libera ed indipendente si rifecero vive quando il 30 marzo 1815, durante l’avventura napoleonica dei Cento giorni, Gioacchino Murat, re di Napoli e cognato del Bonaparte, lanciò da Rimini un proclama a tutti gli Italiani perché si unissero a lui nel disegno di realizzare l’unità e l’indipendenza della Nazione: «Italiani, l’ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dall’Alpi allo Stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza d’Italia». Ma gli Italiani non si mossero: essi diffidavano più dei Francesi che degli Austriaci. Il Manzoni fu uno dei pochi a credere alla buona fede del Murat ed alla possibile realizzazione della sua impresa, e compose “Il Proclama di Rimini”, una canzone che l’esito rovinoso della campagna militare intrapresa dal Murat contro gli Austriaci, troncò nel bel mezzo, al verso 51. Il frammento fu pubblicato nel 1848.
Nella canzone si fa l’esaltazione dell'ardimento di Gioacchino Murat e della nobiltà della sua causa: il re di Napoli chiama a raccolta i figli migliori di quell’Italia che, negletta ai conviti dei popoli, al pari di un mendicante a cui è già cortesia non fargli dispetto, solo dai suoi figli aspetta la redenzione e dalla Giustizia di Dio, che aprì le acque del Mar Rosso per far fuggire gli Ebrei e le richiuse poi sugli inseguitori. Tutte queste immagini saranno riprese con maggior efficacia in “Marzo 1821”. Nel “Proclama di Rimini” invece l’andamento è fiacco, la passione poco eccitata, l’interesse propagandistico troppo scoperto. Lo stesso Manzoni come riferisce il Cantù, ebbe a dire, a proposito di questa canzone e riferendosi al verso 34: «Io e Mazzini abbiamo avuto sempre fede nell'indipendenza d'Italia, compiuta e assicurata con l'unità. In questa unità era sì grande la mia fede, che le ho fatto il più grande de' sacrifici, quello di scrivere scientemente un brutto verso: Liberi non sarem se non siam uni».
Di ben altro respiro e di ben diversa intensità lirica sono le due odi del 1821, composte quasi di getto.
Il 10 marzo del 1821 scoppiò in Piemonte quel moto rivoluzionario liberale che avrebbe dovuto dare la Costituzione al Piemonte e l’indipendenza alla Lombardia. Le truppe degli insorti, giunte sulla sponda del Ticino, che segnava i confini fra le due regioni, erano prossime a varcare quei termini per marciare contro gli Austriaci e liberare i fratelli lombardi: auspicio perché il moto si estendesse in tutta Italia e realizzasse l’unità del Paese e l’indipendenza dallo straniero. Purtroppo quel fiume non fu varcato e l’8 aprile di quello stesso anno gl’insorti erano stati già sconfitti dalle truppe congiunte del generale piemontese de La Tour e dell’austriaco Bubna. Il Manzoni, animato dalla sua fede fortissima nell’unità d’Italia, aveva precorso gli eventi e immaginata la redenzione della Patria: in pochi giorni compose l’ode “Marzo 1821”, così ricca d’amor patrio, così vibrante del sentimento della libertà e dignità dei popoli, così calda di accenti cristiani che non danno luogo a manifestazioni di odio, ma sempre e soltanto di amore e di carità verso gli uomini in generale e verso le vittime in particolare. L’ode, dopo l'esito di quelle vicende, non poté ovviamente essere pubblicata e fu tenuta nascosta dall’Autore fino al 1848, quando vide la luce, dopo le “cinque giornate” di Milano, a spese del Governo Provvisorio, che premise all’edizione questa avvertenza: «Edizione messa sotto la tutela delle vigenti leggi e convenzioni, e che si vende una lira italiana, in favore dei profughi veneti, per cura della Commissione Governativa delle offerte per la causa nazionale».
I patrioti piemontesi, sostenuti da Carlo Alberto, hanno attraversato il Ticino ed hanno giurato: «Non fia loco ove sorgan barriere / tra l'Italia e l'Italia, mai più! ». Da tutte le contrade d’Italia altri forti rispondono a quel giuramento, e solo colui che fosse capace di distinguere e dividere nel Po le acque confuse dei suoi numerosi affluenti, potrebbe ancora dividere una “gente risorta” in “volghi spregiati”. I figli d’Italia finalmente son sorti a pugnare e non potranno che vincere perché hanno dalla loro parte la forza di una causa giusta e l’aiuto di quel Dio che «nell'onda vermiglia / chiuse il rio che inseguiva Israele», quel Dio che «è Padre di tutte le genti; / che non disse al germano giammai: / Va’, raccogli ove arato non hai; / spiega l'ugne, l'Italia ti do». Al solo pronunciare il dolce nome d’Italia, l’animo del Poeta si intenerisce e prorompe in un grido soffocato dal pianto: “Cara Italia!”. Il Poeta rievoca allora le ingenue speranze degli Italiani che si aspettavano la libertà dallo straniero, ma il cuore e la mente sono ora attenti al nuovo evento e trepidanti:
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
stretti intorno a’ tuoi santi colori,
forti, armati de' propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.
.............................................
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito de' popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa
sotto l'orrida verga starà.
L’ultima strofa rappresenta l’omaggio più riverente e commosso che si possa fare a quanti combattono per la libertà della propria Patria: tale omaggio salta evidente dalla amara e malinconica delusione di quanti non avranno potuto partecipare in prima persona al risorgimento della Patria e avranno appreso la lieta novella dal labbro d’altrui, come gente straniera.
E si ricollega idealmente alla “dedica” rivolta molto nobilmente ad un poeta-soldato, che ha lasciato la vita sul campo di Lipsia per difendere la libertà della propria terra, un poeta-soldato che appartiene alla stirpe dei conquistatori e dei dominatori dell’Italia, ma che si innalza al di sopra della viltà della sua gente per unirsi alla schiera dei Martiri del nostro Risorgimento. In ciò è manifesta l’intima ispirazione cristiana dell’ode, che, al di là del motivo patriottico più immediato, coglie l’essenza del valore della Libertà e di quello della Patria, i quali non dovrebbero dividere gli uomini, ma affratellarli come figli di un solo Padre. A noi sembra quanto mai significativo il giudizio di Ferruccio Ulivi, secondo il quale «sentimentalmente e moralmente, l'ode sta sul piano dell'evocazione di una società cristiana degli Inni Sacri, e non è dubbio che il Manzoni connetta la visione dell'indipendenza e unità nazionali a una concezione integrale sub specie cristiana».