OPERE PRIMA DELLA CONVERSIONE
“In morte di Carlo Imbonati”, che abbiamo già più volte richiamato e che è opera per molti aspetti pregevole e comunque notevole per farci intendere la personalità umana ed artistica del Manzoni, dobbiamo ricordare “Il Trionfo della Libertà”, “Adda”, “I Sermoni” e “Urania”.
“Il trionfo della Libertà” è un poemetto in quattro canti, in terzine, che il Manzoni scrisse all’età di 15 anni, nel 1801, all’indomani di Marengo. L’opera non fu mai resa pubblica dall’Autore, che l’affidò all’amico G.B. Pagani, che la fece conoscere parzialmente solo dopo la morte del Manzoni. Fu poi pubblicata nel 1878 a cura di C. Romussi.
Dopo la Pace di Lunéville si immagina che la Libertà celebri il proprio trionfo procedendo per le vie su un cocchio dorato, “coronata di rose e di viole”, affiancata dalla Pace e dalla Guerra e seguita dall’Eguaglianza e dall’Amor Patrio. Con essa sfilano pure gli eroi antichi della libertà (fra cui Bruto, l’uccisore di Cesare, che pronuncia un’accesa invettiva contro il papato e il clero) e quelli recenti. In effetti il Poeta, mentre esalta i primi liberatori francesi, che hanno portato in Italia le idee di libertà, eguaglianza e giustizia e l’hanno liberata dal giogo austriaco, impreca contro gli altri francesi che l’hanno poi depredata d’ogni ricchezza e l’hanno asservita ad un giogo ancora peggiore, tanto che “il vulgo sospira le prime catene e 'l suo tiranno al ciel domanda”.
Particolarmente feroce è l’anticlericalismo del Manzoni il quale sentì di dover precisare all’amico Pagani che l’invettiva non riguardava affatto i princìpi cattolici, ma la condotta dei preti: «Altronde il Vangelo stima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando; e qui si attacca la crudeltà, l'avidità delle ricchezze e del comando; cose tutte che diametralmente si oppongono a questi princìpi ai quali per conseguenza diametralmente si opposero e s'oppongono coloro che qui son descritti». Il poemetto risente notevolmente dell’influsso del Monti, ma anche del Parini e dell’Alfieri, ed è molto acerbo, ovviamente, dal punto di vista estetico. Costituisce però già una chiara testimonianza della moralità dell’Autore, il quale così scrisse, in tempi più maturi, del poemetto: «Questi versi scriveva io, Alessandro Manzoni, nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza e presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna, esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e civile animo».
L’ “Adda” è un idillio di 84 endecasillabi sciolti che il Manzoni scrisse per il Monti, nel 1803, inviandoglielo con una lettera nella quale, tra l’altro, dice: «Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere ch'io non sono né l'uno né l'altro, vi mando questi versi. Ma il principal fine di essi si è il ricordarsi l'alta mia estimazione per voi, la vostra promessa, e il desiderio con cui vi sto attendendo. Credo inutile avvertirvi che sono opera di un giorno; essi risentono pur troppo della fretta con cui son fatti. Nullameno ardisco pregarvi di dirmene il parer vostro e di notarne i maggiori vizi». Il Monti giudicò positivamente l’idillio e così rispose: «I versi che mi hai mandato sono belli... Rileggendoli, appena scontro qualche parola che, volendo essere stitico, muterei, ed è probabile che non sarebbe che in peggio. Dopo tutto, sempre più mi confermo che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera, e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali». Nonostante il lusinghiero giudizio dell’amico e maestro, il Manzoni non pubblicò l’idillio, che vide la luce solo nel 1875 ad opera di G. Gallia. Nell’idillio il Poeta fa parlare l’Adda che invita il Monti a venire a trascorrere un po' di tempo nella pace dei suoi campi, che già erano stati cortesi di riposo e di conforto al grande Parini. Così il fiume protagonista, affluente del Po, termina il suo appassionato discorso:
Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
già mi preparo a salutar da lunge
l'alto Eridano tuo, che al novo suono
trarrà meravigliando il capo algoso;
e tra gl'invidi plausi de le Ninfe,
bella d’un inno tuo, corrergli in seno.
“I Sermoni” furono composti quasi certamente durante la permanenza del Manzoni a Venezia (1803-1804) o quanto meno ispirati alle esperienze fatte in quella città. Sono quattro componimenti satirici in versi, di ispirazione pariniana, con i quali il Poeta sferza i corrotti costumi del popolo, specie quelli di quanti, approfittando dei rivolgimenti politici sempre in atto, riescono a mantenersi a galla con qualsivoglia padrone e perfino ad acquistar beni e prestigio, come quel Fulvio «il quale pur ieri / villano, oggi pretor, poco si stima / minor di Giove, e spaventar mi crede / con la forzata maestà del guardo». Il primo sermone, “Panegirico a Trimalcione”, è l’ironica esaltazione, da parte di un poeta parassita, della famiglia di un arricchito, a partire dal capostipite, un semplice villico, alla madre di Trimalcione, che fu «di Venere ministra e dei suoi doni... larga dispensatrice», fino alle previsioni dei discendenti, che saranno «togati, vindici delle leggi, e, d'oro aspersi, correttori di popoli». Il secondo Sermone è diretto contro i poetastri del tempo, ma anche contro la presunzione “democratica” di quanti, magari fabbri o venditori ambulanti di castagne, si arrogano il diritto di giudicare una tragedia dell’Alfieri per aver essi pagato il biglietto d’ingresso al teatro. Il terzo, a G. B. Pagani, spiega le ragioni che hanno indotto il Poeta a scrivere satire: egli non sa liberarsi della malattia contratta fin dagli anni di collegio, cioè della malattia di far versi, e la sua Musa gli impone di cantare solo quel che vede: colpa sua se quel che vede è solo marciume? Nel quarto sermone, “Amore a Delia”, si scaglia contro la corruzione dei costumi familiari: la madre di Delia tradisce ripetutamente il marito e, quanto più va avanti con gli anni, tanto più si fa avida di uomini e finisce con l’adescare e iniziare gli adolescenti; da vecchia si chiude in se stessa e adorna le pareti della casa di tante immagini di Santi, che vengono però spazzate via dalla giovane nuora che ripete la... storia della suocera.
“In morte di Carlo Imbonati” è un carme, come abbiamo già detto, che il Manzoni compose alla morte del conte per consolare la madre, Giulia Beccaria. Il Poeta immagina che lo Spirito del defunto, dopo un’aspra critica alla corruzione dei tempi, elogi il suo comportamento di giovane dedito agli studi seri e severi, disponibile alla sola amicizia degli spiriti eletti ed incline al Vero ed al Bene, e gli offre un vero e proprio testamento morale, nel quale possiamo cogliere i princìpi essenziali della moralità del Manzoni. Il carme fu composto nel 1805 e pubblicato l’anno dopo dallo stesso Manzoni. Nello stesso anno lo ristampò a Milano l’amico G.B. Pagani, che ebbe l’imprudenza e l’impudenza di premettere al testo un’ampollosa lettera dedicatoria a Vincenzo Monti, lettera che dispiacque tanto all’Autore che fu sul punto di lagnarsene pubblicamente per iscritto.
Il Manzoni in seguito volle far dimenticare quest’opera e ne impedì ulteriori pubblicazioni, ma, dopo la sua morte, il carme fu riscoperto e molto ammirato dai posteri.
“Urania” è un poemetto mitologico di 358 endecassilabi sciolti, iniziato molto probabilmente a Parigi nel 1806, ma pubblicato solo nel 1809 a Milano. Successivamente il Manzoni ripudiò l’opera ed è logico che così facesse dopo quanto aveva scritto, nel 1823, contro la mitologia: il rifiuto dell’opera risale infatti ad una lettera indirizzata al Fauriel nel 1826, nella quale il Poeta definisce sia l’ “Urania” che il Carme all’Imbonati “delicta juventutis”, delitti di gioventù. Però il ripudio ed anche la motivazione implicita nella condanna della mitologia (bollata di “idolatria”) sembrano per davvero eccessive, sia perché l’opera non è priva di una certa grazia di immagini e musicalità di versi, sia perché la mitologia usata è originalissima, assai poco pagana e già intrisa di quella spiritualità cristiana che non tarderà a venire alla luce nella coscienza del Poeta: nel poemetto, infatti, compaiono le “Virtù” (l’Onore, la Carità, la Fraternità, la Pietà che si oppone alla Crudeltà, il Perdono che si oppone all’Offesa), che rappresentano un fatto nuovo e singolare nel campo della mitologia e sono affatto estranee al mondo pagano. Ed ecco in breve il contenuto: Urania, Musa dell’Astronomia, per confortare il giovane Pindaro che è stato sconfitto in una gara poetica da Corinna, gli narra che Giove, quando decise di porre fine alla sua vendetta contro gli uomini per il “rapito fuoco”, inviò sulla terra le Virtù perché rendessero gli uomini civili. Le Virtù non furono comprese e allora giove mandò le Muse perché donassero agli uomini la poesia e la capacità di crearla, e le Grazie perché donassero l’arte del dilettare e del persuadere. Urania svela a Pindaro il motivo per cui ha perso la gara con la giovinetta Corinna: egli ha trascurato il culto delle Grazie dedicandosi solo a quello delle Muse.