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Alessandro Manzoni - OPERE PRIMA DELLA CONVERSIONE









































OPERE PRIMA DELLA CONVERSIONE





“In morte di Carlo Imbonati”, che abbiamo già più volte richiamato e che è opera per molti aspetti pregevole e comunque notevole per farci intendere la personalità umana ed artistica del Manzoni, dobbiamo ricordare “Il Trionfo della Libertà”, “Adda”, “I Sermoni” e “Urania”.
“Il trionfo della Libertà” è un poemetto in quattro canti, in terzine, che il Manzoni scrisse all’età di 15 anni, nel 1801, all’indomani di Marengo. L’opera non fu mai resa pubblica dall’Autore, che l’affidò all’amico G.B. Pagani, che la fece conoscere parzialmente solo dopo la morte del Manzoni. Fu poi pubblicata nel 1878 a cura di C. Romussi.
Dopo la Pace di Lunéville si immagina che la Libertà celebri il proprio trionfo procedendo per le vie su un cocchio dorato, “coronata di rose e di viole”, affiancata dalla Pace e dalla Guerra e seguita dall’Eguaglianza e dall’Amor Patrio. Con essa sfilano pure gli eroi antichi della libertà (fra cui Bruto, l’uccisore di Cesare, che pronuncia un’accesa invettiva contro il papato e il clero) e quelli recenti. In effetti il Poeta, mentre esalta i primi liberatori francesi, che hanno portato in Italia le idee di libertà, eguaglianza e giustizia e l’hanno liberata dal giogo austriaco, impreca contro gli altri francesi che l’hanno poi depredata d’ogni ricchezza e l’hanno asservita ad un giogo ancora peggiore, tanto che “il vulgo sospira le prime catene e 'l suo tiranno al ciel domanda”.
Particolarmente feroce è l’anticle­ricalismo del Manzoni il quale sentì di dover precisare all’amico Pagani che l’invettiva non riguardava affatto i princìpi cattolici, ma la condotta dei preti: «Altronde il Vangelo stima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando; e qui si attacca la crudeltà, l'avidità delle ricchezze e del comando; cose tutte che diametralmente si oppongono a questi princìpi ai quali per conseguenza diametralmente si opposero e s'oppongono coloro che qui son descritti». Il poemetto risente notevolmente dell’influsso del Monti, ma anche del Parini e dell’Alfieri, ed è molto acerbo, ovviamente, dal punto di vista estetico. Costituisce però già una chiara testimonianza della moralità dell’Autore, il quale così scrisse, in tempi più maturi, del poemetto: «Questi versi scriveva io, Alessandro Manzoni, nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza e presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna, esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e civile animo».
L’ “Adda” è un idillio di 84 endecasillabi sciolti che il Manzoni scrisse per il Monti, nel 1803, inviandoglielo con una lettera nella quale, tra l’altro, dice: «Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere ch'io non sono né l'uno né l'altro, vi mando questi versi. Ma il principal fine di essi si è il ricordarsi l'alta mia estimazione per voi, la vostra promessa, e il desiderio con cui vi sto attendendo. Credo inutile avvertirvi che sono opera di un giorno; essi risentono pur troppo della fretta con cui son fatti. Nullameno ardisco pregarvi di dirmene il parer vostro e di notarne i maggiori vizi». Il Monti giudicò positivamente l’idillio e così rispose: «I versi che mi hai mandato sono belli... Rileggendoli, appena scontro qualche parola che, volendo essere stitico, muterei, ed è probabile che non sarebbe che in peggio. Dopo tutto, sempre più mi confermo che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera, e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acqui­sterà tutti i caratteri originali». Nonostante il lusinghiero giudizio dell’amico e maestro, il Manzoni non pubblicò l’idillio, che vide la luce solo nel 1875 ad opera di G. Gallia. Nell’idillio il Poeta fa parlare l’Adda che invita il Monti a venire a trascorrere un po' di tempo nella pace dei suoi campi, che già erano stati cortesi di riposo e di conforto al grande Parini. Così il fiume protagonista, affluente del Po, termina il suo appassionato discorso:
Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
già mi preparo a salutar da lunge
l'alto Eridano tuo, che al novo suono
trarrà meravigliando il capo algoso;
e tra gl'invidi plausi de le Ninfe,
bella d’un inno tuo, corrergli in seno.
“I Sermoni” furono composti quasi certamente durante la permanen­za del Manzoni a Venezia (1803-1804) o quanto meno ispirati alle esperienze fatte in quella città. Sono quattro componimenti satirici in versi, di ispirazione pariniana, con i quali il Poeta sferza i corrotti costumi del popolo, specie quelli di quanti, approfittando dei rivolgimenti politici sempre in atto, riescono a mantenersi a galla con qualsivoglia padrone e perfino ad acquistar beni e prestigio, come quel Fulvio «il quale pur ieri / villano, oggi pretor, poco si stima / minor di Giove, e spaventar mi crede / con la forzata maestà del guardo». Il primo sermone, “Panegirico a Trimalcione”, è l’ironica esaltazione, da parte di un poeta parassita, della famiglia di un arricchito, a partire dal capostipite, un semplice villico, alla madre di Trimalcione, che fu «di Venere ministra e dei suoi doni... larga dispensatrice», fino alle previsioni dei discendenti, che saranno «togati, vindici delle leggi, e, d'oro aspersi, correttori di popoli». Il secondo Sermone è diretto contro i poetastri del tempo, ma anche contro la presunzione “democratica” di quanti, magari fabbri o venditori ambulanti di castagne, si arrogano il diritto di giudicare una tragedia dell’Alfieri per aver essi pagato il biglietto d’ingresso al teatro. Il terzo, a G. B. Pagani, spiega le ragioni che hanno indotto il Poeta a scrivere satire: egli non sa liberarsi della malattia contratta fin dagli anni di collegio, cioè della malattia di far versi, e la sua Musa gli impone di cantare solo quel che vede: colpa sua se quel che vede è solo marciume? Nel quarto sermone, “Amore a Delia”, si scaglia contro la corruzione dei costumi familiari: la madre di Delia tradisce ripetutamente il marito e, quanto più va avanti con gli anni, tanto più si fa avida di uomini e finisce con l’adescare e iniziare gli adolescenti; da vecchia si chiude in se stessa e adorna le pareti della casa di tante immagini di Santi, che vengono però spazzate via dalla giovane nuora che ripete la... storia della suocera.
“In morte di Carlo Imbonati” è un carme, come abbiamo già detto, che il Manzoni compose alla morte del conte per consolare la madre, Giulia Beccaria. Il Poeta immagina che lo Spirito del defunto, dopo un’aspra critica alla corruzione dei tempi, elogi il suo comportamento di giovane dedito agli studi seri e severi, disponibile alla sola amicizia degli spiriti eletti ed incline al Vero ed al Bene, e gli offre un vero e proprio testamento morale, nel quale possiamo cogliere i princìpi essenziali della moralità del Manzoni. Il carme fu composto nel 1805 e pubblicato l’anno dopo dallo stesso Manzoni. Nello stesso anno lo ristampò a Milano l’amico G.B. Pagani, che ebbe l’imprudenza e l’impudenza di premettere al testo un’ampollosa lettera dedicatoria a Vincenzo Monti, lettera che dispiacque tanto all’Autore che fu sul punto di lagnarsene pubblicamente per iscritto.
Il Manzoni in seguito volle far dimenticare quest’opera e ne impedì ulteriori pubblicazioni, ma, dopo la sua morte, il carme fu riscoperto e molto ammirato dai posteri.
“Urania” è un poemetto mitologico di 358 endecassilabi sciolti, iniziato molto probabilmente a Parigi nel 1806, ma pubblicato solo nel 1809 a Milano. Successivamente il Manzoni ripudiò l’opera ed è logico che così facesse dopo quanto aveva scritto, nel 1823, contro la mitologia: il rifiuto dell’opera risale infatti ad una lettera indirizzata al Fauriel nel 1826, nella quale il Poeta definisce sia l’ “Urania” che il Carme all’Imbonati “delicta juventutis”, delitti di gioventù. Però il ripudio ed anche la motivazione implicita nella condanna della mitologia (bollata di “idolatria”) sembrano per davvero eccessive, sia perché l’opera non è priva di una certa grazia di immagini e musicalità di versi, sia perché la mitologia usata è originalissima, assai poco pagana e già intrisa di quella spiritualità cristiana che non tarderà a venire alla luce nella coscienza del Poeta: nel poemetto, infatti, compaiono le “Virtù” (l’Onore, la Carità, la Fraternità, la Pietà che si oppone alla Crudeltà, il Perdono che si oppone all’Offesa), che rappresentano un fatto nuovo e singolare nel campo della mitologia e sono affatto estranee al mondo pagano. Ed ecco in breve il contenuto: Urania, Musa dell’Astronomia, per confortare il giovane Pindaro che è stato sconfitto in una gara poetica da Corinna, gli narra che Giove, quando decise di porre fine alla sua vendetta contro gli uomini per il “rapito fuoco”, inviò sulla terra le Virtù perché rendessero gli uomini civili. Le Virtù non furono comprese e allora giove mandò le Muse perché donassero agli uomini la poesia e la capacità di crearla, e le Grazie perché donassero l’arte del dilettare e del persuadere. Urania svela a Pindaro il motivo per cui ha perso la gara con la giovinetta Corinna: egli ha trascurato il culto delle Grazie dedicandosi solo a quello delle Muse.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Epigrammi

Contro un frate
Il padre fra' Volpino
Che pien di santo zelo
Suda sui libri ascetici
E veglia sul Vangelo,
E quando alcun s'aspetta
Di Bayle e di Calvino
I dogmi iniqui e pazzi,
Il seme giacobino, ecc.

Per l'inizio della "Mascheroniana"
Al dir del Monti, Mascheron che muore
È fiamma, pesce, augello, anima e fiore.

Contro il Monti
       Per la sua ode “Fior di gioventute”

Un vate di gran lode
Sul principio d'un'ode
Piange il suo fior gentile
E il suo vigor virile,
5E quando alcun s'aspetta
Ch'egli invochi il Paletta
Od altro di tal arte,
Invoca Bonaparte.

Liriche giovanili

Autoritratto

Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
naso non grande e non soverchio umile,
tonda la gota e di color vivace,
stretto labbro e vermiglio, e bocca esile;

lingua or spedita, or tarda, e non mai vile,
che il ver favella apertamente, o tace;
giovin d'anni e di senno, non audace;
duro di modi, ma di cuor gentile.

La gloria amo, e le selve, e il biondo Iddio;
spregio, non odio mai; m'attristo spesso;
buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.

A l'ira presto, e più presto al perdono;
poco noto ad altrui, poco a me stesso:
gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

A Francesco Lomonaco

Per la “Vita di Dante”
Come il divo Alighier l'ingrata Flora
Errar fea, per civil rabbia sanguigna,
Pel suol, cui liberal natura infiora,
Ove spesso il buon nasce e rado alligna,

Esule egregio, narri: e Tu pur ora
Duro esempio ne dài, Tu, cui maligna
Sorte sospinse, e tiene incerto ancora
In questa di gentili alme madrigna.

Tal premj, Italia, i tuoi migliori, e poi
Che pro se piangi, e il cener freddo adori,
E al nome voto onor divini fai?


Sì da' barbari oppressa opprimi i tuoi,
E ognor tuoi danni e tue colpe deplori,
Pentita sempre, e non cangiata mai.

Alla Musa

Novo intatto sentier segnami, o Musa,
Onde non stia tua fiamma in me sepolta.
È forse a somma gloria ogni via chiusa,
Che ancor non sia d'altri vestigj folta?

Dante ha la tromba, e il cigno di Valchiusa
La dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascre agguagliosse; e Orobia incolta
Emulò Smirna, e vinse Siracusa.

Primo signor de l'italo coturno,
Te vanta il secol nostro, e te cui dièo
Venosa il plettro, e chi il flagello audace?

Clio, che tratti la tromba e il plettro eburno,
Deh! fa’ che, s'io cadrò sul calle Ascreo,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.

Alla sua donna

Se pien d'alto disdegno e in me securo
Alteramente io parlo e penso e scrivo
Oltre l'etate e il vil tempo in ch'io vivo,
E piacer sozzo e vano onor non curo;

Opra è tua, Donna, e del celeste e puro
Foco che nel mio petto accese il vivo
Lume de gli occhi tuoi, che mi fa schivo
Di quanto parmi, al tuo paraggio, impuro.

Piacerti io voglio; né piacer ti posso,
Fin ch'io non sia, ne gli atti e pensier miei,
Mondo così ch'io ti somigli in parte.



Così per la via alpestra io mi son mosso:
Né, volendo ritrarmene, il potrei;
Perché non posso intralasciar d'amarte.

Ode amorosa

Qual su le Cinzie cime
Alta sovrasta a le minori Oreadi
Col volto, e col sublime
D'auree frecce sonante omero Delia,
E appar movendo per la sacra riva
Veracemente Diva;
Tal prima a gli occhi miei
Non ancor dotti d'amorose lagrime
Appariva costei,
Vincendo di splendor l'emule Vergini
Per mover d'occhi dolcemente grave
E per voce soave.
Da gl'innocenti sguardi
Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,
Escono accesi dardi,
Non certi men, né di più leve incendio,
Se dal fronte scendendo il crine avaro
Dolce fa lor riparo.
Non altrimenti in Cielo
Febo sorgendo, di dorata nuvola
A suoi splendor fa velo,
Che vincitor superbi indi sfavillano;
E la terra soggetta in suo viaggio
Tinge di dubbio raggio.
Oh qual tutta di nove
Fatali grazie ride allor che l'invido
Crin col dito rimove,
E doppio appresta di beltà spettacolo
Sul picciol fronte trascorrendo lieve
Con la destra di neve.
Né tacerò la bella
Bocca gentile, ove s'asconde il candido

Riso, e l'alma favella,
E in cui prepara, ahi per chi dunque? Venere
Gli accesi baci e le punture ardite
E le dolci ferite.
Me con queste possenti
Armi assaliva il fanciulletto Idalio
Mentr'io per le fiorenti
Ascree piagge scorrea lungo le Aonie
Secrete acque, onde a me l'adito schiuse
Il favor de le Muse.
Ahi! né valido usbergo
Gli aspri precetti di Zenon mi furono,
Né dar fuggendo il tergo
Al lui mi valse, ché trionfo nobile
Me in suo regno ponea, fatto possente
Del core e della mente.
Né vuol ch'io canti rossa
Di sangue Italia, onde ancor pochi godono,
Né di plebe commossa
Le feroci vendette ed i terribili
Brevi furori e i rovesciati scanni
De’ tremanti Tiranni.
Ma a dir m'insegna, come
Trasse da’ gorghi del paterno Oceano
Le rugiadose chiome,
Sul mar girando i rai lucenti, Venere,
A la mirante di Nereo famiglia
Invidia e meraviglia:
E il Zeffiro lascivo,
Che ne le zone de le incaute vergini
Scherzar gode furtivo,
Onde audaci i pastor maligni ridono;
E a lor la guancia bella e vergognosa
Tinge virginea rosa.

Frammento d'un'ode alle muse

Nove fanciulle d'immortal bellezza,
Vergini tutte e d'un sol padre nate,
Di diversa vaghezza
M'han preso il cor, che fra lor dubbio stassi,
Né sa qual segua o lassi;
Ché varia è in lor, non disugual, beltate:
Io chiamato le seguo e con lor vivo,
Di lor sol penso ed ho tutt'altro a schivo.
Una sorge tra lor quasi primiera,
Signoreggiando con la regia chioma;
E su la fronte altera
Si legge ben che suo valor l'è conto;
E dal passo e dal pronto
Sguardo e da gli occhi belli, onde si noma,
Manda virtù che doppio effetto figlia,
E amore insieme e reverir consiglia.
Ma il crin disciolto e più negletto il manto
Un'altra porta, e un duolo in fronte ha scolto.
Ed ha su gli occhi un pianto
Tal che letizia fa parer men bella.
Ma ben di Lei sorella
L'accusan gli atti e il portamento e il volto
Che par che dica: io de' miei tristi e negri
Pensier mi godo; alcun non mi rallegri.
Ecco saltante per la sacra riva,
Con pie' securo e con allegra faccia,
Venir la terza Diva,
Bruna la chioma e bruna la pupilla,
Dal cui mover scintilla
L'ira faceta e il riso e la minaccia,
Che del vile nel cor mette paura,
Ed il miglior conforta e rassecura.

Adda
Idillio a Vincenzo Monti
15 settembre 1803

Diva di fonte umil, non d'altro ricca
Che di pura onda e di minuto gregge,
Te, come piacque al ciel, nato a le grandi
De l'Eridano sponde, a questi ameni
Cheti recessi e a tacit'ombre invito.
Non feroci portenti o scogli immani
Né pompa io vanto d'infinito flutto
O di abitati pin; né imperioso
Innalzo il corno, a le città soggette
Signoreggiando le torrite fronti;
Ma verdi colli e biancheggianti ville
E lieti colti in mio cammin saluto
E tenaci boscaglie, a cui commisi
Contro i villani d'Aquilone insulti
Servar la pace del mio picciol regno
e con Febo alternar l'ombre salubri.
Né al piangente colono è mio diletto
Rapir l'ostello e i lavorati campi,
Ad arricchir l'opposta avida sponda,
Novo censo al vicin; né udir le preci
Inesaudite e gl'imprecanti voti
De le madri, che seguono da lunge
Con l'umid'occhio e con le strida il caro
Pan destinato a la fame de' figli,
E la sacra dimora e il dolce letto.
Sol talor godo con l'innocua mano
Piegar l'erbe cedenti, e da le rive
Sveller fioretti, per ornarmi il seno
E le treccie stillanti. Né gelosa
Tolgo a gli occhi profani il mio soggiorno,
Ma dai tersi cristalli altrui rivelo
La monda arena; anzi sovente, scesi
Dai monti Orobj, i Satiri securi
Tempran nel fresco mio la siria fiamma,

Col pie' caprigno intorbidando l'onda.
Forse, al par d'Aretusa e d'Acheloo,
Natal divin non vanto e sede arcana,
Sacra ai congressi de le Aonie suore;
Pur soave ed umil vassi Aganippe
Su la Libetride erba mormorando.
Ben so che d'altro vanto aver corona
Pretende il Re de' fiumi, e presso al Mincio,
Del primo onor geloso, ancor s'ascolta
Fremer l'onda sdegnosa arme ed amori;
E so ch'egli n'andò poi de la molle
Guarinia corda, or de la tua superbo;
Ma non vedi con l'irta alga natia
Splendermi il lauro in su la fronte? Salve,
Vocal colle Eupilino: a te mai sempre
Sul pian felice e sul sacrato clivo
Rida Bacco vermiglio e Cerer bionda;
Salve onor di mia riva: a te sovente
Scendean Febo e le Muse Eliconiadi,
Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana.
Quivi sovente il buon Cantor vid'io
Venir trattando con la man secura
Il plettro di Venosa e il suo flagello;
O traendo l'inerte fianco a stento,
Invocar la salute e la ritrosa
Erato bella, che di lui temea
L'irato ciglio e il satiresco ghigno;
Seguialo alfine, e su le tempia antiche
Fea di sua mano rinverdire il mirto.
Qui spesso udillo rammentar piangendo,
Come si fa di cosa amata e tolta,
Il dolce tempo de la prima etade;
O de' potenti maledir l'orgoglio,
Come il Genio natio movealo al canto,
E l'indomata gioventù de l'alma.
Or tace il plettro arguto, e ne' miei boschi
È silenzio ed orror; Te dunque invito,
Canoro spirto, a risvegliarmi intorno

Novo romor Cirreo. A te concesse
Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi
E le immagini e l'estro e il furor sacro
E l'estasi soave e l'auree voci
Già di sua man rinchiuse. A te venturo
Fiorisce il dorso Brianteo; le poma
Mostra Vertunno, e con la man ti chiama.
Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
Già m'apparecchio a salutar da lunge
L'alto Eridano tuo, che al novo suono
Trarrà maravigliando il capo algoso,
E fra gl'invidi plausi de le Ninfe,
Bella d'un inno tuo, corrergli in seno.

In morte di Carlo Imbonati

Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre
Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo.
Casa, Gennaio 1806

Se mai più che d'Euterpe il furor santo
E d'Erato il sospiro, o dolce madre,
L'amaro ghigno di Talia mi piacque
Non è consiglio di maligno petto.
Né del mio secol sozzo io già vorrei
Rimescolar la fetida belletta,
Se un raggio in terra di virtù vedessi,
Cui sacrar la mia rima. A te sovente
Così diss'io: ma poi che sospirando,
Come si fa di cosa amata e tolta,
Narrar t'udia di che virtù fu tempio
Il casto petto di colui che piangi;
Sarà, dicea, che di tal merto pera
Ogni memoria? E da cotanto esemplo
Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
Pensiero i sensi m'avea presi; quando,

Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
Dentro limpida luce a me venire,
A tacit'orma. Qual mentita in tela,
Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,
Quasi a culto, la miri, era la faccia.
Come d'infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
Che sotto i solchi del dolor, nel volto
Mostra la calma, era l'aspetto. Aperta
La fronte, e quale anco gl'ignoti affida:
Ma ricetto parea d'alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
Non difficile il labbro. A me dappresso
Poi ch'e' fu fatto, placido del letto
Su la sponda si pose. Io d'abbracciarlo,
Di favellare ardea; ma irrigidita
Da timor da stupor da reverenza
Stette la lingua; e mi tremò la palma,
Che a l'amplesso correva. Ei dolcemente
Incominciò: Quella virtù, che crea
Di due boni l'amor, che sian tra loro
Conosciuti di cor, se non di volto,
A vederti mi tragge. E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno; e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
Non m'è, com'io bramava, a passo a passo
Per man guidarti su la via scoscesa,
Che anelando ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensa
Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
Risposi: Allor ch'io l'amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l'esser teco presentia, chi detto
M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo

Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
E come il pellegrin, che d'amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fòri e case
Tutto in ruina inospital converso;
E i meschini rimasti interrogando,
Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; a questo modo
Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d'incolpato
Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,
Non vantator di probità, ma probo:
Com'oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l'altrui danno. Egli ascoltava
Con volto né superbo né modesto.
Io rincorato proseguia: Se cura,
Se pensier di quaggiù vince l'avello
Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto. E se possanza
Di pietoso desio t'avrà condotto
Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
Grondar la stilla del dolor sul primo
Bacio materno. Io favellava ancora,
Quand'ei l'umido ciglio e le man giunte
Alzando inver lo loco onde a me venne,
Mestamente sorrise, e: Se non fosse
Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto
Quell'anima gentil fuor de le membra

Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
Di Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
Ché finch'io non la veggo, e ch'io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.
Poi che il pianto e i singulti a le parole
Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe
Sarà dittamo e latte il raccontarle
Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
Ten prego, dammi che d'un dubbio fero
Toglierla io possa. Allor che de la vita
Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
Di possanza vital feceti a gli occhi
Il dardo balenar che ti percosse?
O pur ti giunse impreveduto e mite?
Come da sonno, rispondea, si solve
Uom, che né brama né timor governa,
Dolcemente così dal mortal carco
Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,
Più non la vidi. E s'anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov'è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov'è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.

Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l'onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d'amici
Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com'io valgo, e tenni viva
Finor. Né ti dirò com'io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
De l'insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia. A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita,
Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte

Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio e l'arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama
Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Né lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco

Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
L'ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
Se' per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L'intensa amaritudine le molci.
Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede
Metter su l'orme mie; dille che i fiori,
Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà né bruma,
Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
Turba m'assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
E con l'acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.

A Parteneide

E tu credesti che la vista sola
Di tua casta bellezza innamorarmi
Potente non saria, che anco del suono
Di tua dolce parola il cor mi tenti,
Vergine Dea? Col tuo secondo Duca
Te vidi io prima, e de le sacre danze
O dimentica o schiva; e pur sì franco,
Sì numeroso il portamento e tanto
Di rosea luce ti fioriva il volto,
Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
D'amor primiero ti porgea la destra,
Di sì fidata compagnia, che primo
Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
Affrontasse del Tuna, e tremebondo
Da la mobil Vertigo, e da l'ardente
Confusion battuto, in sul petroso
Orlo giacesse. Entro il mio cor fean lite
Quegli avversarj che van sempre insieme,
Riverenza ed Amor: ma pur sì pio
Aprivi il riso, e non so che di noto
Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
E m'appressai securo. E quel cortese,
Di cui cara l'immago ed onorata
Sarammi infin che la purpurea vita
M'irrigherà le vene, a me rivolto,
Con gentil piglio la tua man levando,
Fea d'offrirmela cenno. Ond'io più baldo
La man ti stesi; ma tremò la mano
E il cor: ché tutto in su la fronte allora
Vidi il dio sfolgorarti e tosto in mente
Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta
Aria nutrita, ed a che scorte avvezza.
Mesto allor la tua vista abbandonai;
Ma l'inquieto immaginar, che sempre

Benché d'alto caduto in alto aspira,
Sovra l'aspro sentiero a vol si mosse
Del tuo viaggio, e a te fidato, al sommo
Stette de l'Alpe, e si librò securo
Sovra i vestigj e i desiderj umani.
Poi riverito il tuo celeste nido,
Di pensiero in pensier, di monte in monte,
Seguitando il desio, ver la mia sacra
Terra drizzai le penne, ed i cognati
Reti giganti valicando, alfine
Vidi l'Orobia valle. Ivi un portento
Al mio guardar s'offerse: una indistinta
Aeria forma or si movea qual pura
Nuvoletta d'argento, ed or di neve
Fiocco parea che un bel cespuglio vesta.
Ma pur l'immagin bella e fuggitiva
Tanto con l'occhio seguitai, che vera
Alfin m'apparve, a te simile alquanto,
Vergin né tocca né veduta ancora,
E d'immortal concepimento anch'ella.
Non tenea scettro, non cingea corona
Se non di fiori; e sol di questi vaga,
Fra i color mille, onde splendea distinta
La verdissima piaggia, or la viola,
Or la rosa sceglieva, or l'amaranto,
Tal che Matelda rimembrar mi feo,
Qual la vide il divin nostro Poeta
Ne l'alta selva da lui sol calcata.
Ed ecco alfin, del mio venire accorta,
Volger le luci al pellegrin parea
Piene di maraviglia, e la rosata
Faccia levando, mi parea guardarlo,
E sorridere a lui come si suole
Ad aspettato. E quando io, de la diva
Bellezza innebriato e del gentile
Atto, con l'ali de la mente a lei
Appressarmi tentai, se udir potessi
Come in cielo si parla, affaticate

Caddero l'ali de la mente, e al guardo
Tacque la bella vision. Ma sempre
Da quel momento la memoria al core
Di lei ragiona. E quando in sul mattino
Leve lo spirto dal sopor si scioglie
(Allor per l'aria de' pensier celesti
Libero ei vola, e da le basse voglie
De la vita mortal quasi il divide
Un deserto d'oblio), sempre in quell'ora,
Più che mai bella, quella eterea Virgo
Mi vien dinnanzi. Or d'oro e d'onor vani
Nessun mi parli; un solo amor mi regge,
Sola una cura: degli Orobj dorsi
Rivisitar l'asprezza, e questa Diva,
Deh mel consenta!, accompagnar primiero
Per le italiche ville pellegrina.
Che se l'evento il mio sperar pareggia,
Se né la vita né l'ardir mi falla,
Forse, più ardito condottier già fatto,
Te piglierò per mano; e come io valgo,
Maraviglia gentile a la mia sacra
Italia io mostrerotti, a quell’augusta
D'uomini Madre e d'intelletti, augusta
Di memorie nutrice e di speranze.

I sermoni

Amore a Delia

A te non noto ancora,
se non di nome, io vengo, io quel di Cipri
fra gli uomini e gli Dei fanciul famoso;
dubbio innoltrando il pie’, che già due lustri
da queste stanze ad altre sedi io trassi,
quando la Madre tua savia divenne,
e cessò d'esser bella. Or riconosco
de' miei trionfi i monumenti; or veggio
il fido letto, ch'io nel dì lucente,
la notte il sonno coniugal calcava,
e or sola, dopo il sibilar di molte
preci e molto sbadiglio, in su la sera
l'accoglie. Imen vuol che dapprima i suoi
seguaci il sonno abbian comune e il cibo
indi fuor che la mensa a parte il tutto.
Qui gli sdegni, le tregue, indi le paci,
indi novelli sdegni e nove paci
lungo tempo alternati ad arte usai.
Su questa sedia or per età vetusta
cader lasciossi da gelosa rabbia
oppressa a un tratto, i languidi chiudendo
occhi, scomposta il crin, madido il fronte
di sudor freddo; il natural rossore
sbbandonolle il volto, e sol restovvi
l'imposta rosa; l'innocente lino
provò le ingiurie de l'acuto dente.
Qui l'immaturo Giovane inesperto
modesta accolse in pria, che dopo lungo
conversar con Minerva e con le Muse
su me pur venne alfin, piena la mente
di sermon Lazio e di raccolti Dommi.
Qui si sdegnò de l'ardir suo, qui ruppe
un nascente sorriso, qui compose
s matronal severitade il guardo;

e con la dotta man compose il velo
in modo tal che ne apparisse il seno.
Placossi alfin: più debolmente alfine
l'audace man respinse; l'ostinata
garrula voce infievolissi, e tacque;
e con un guardo di sdegno, e d'amore
parea dicesse: a te do in sacrificio
mia virtù novilustre; e stanca ormai
di sonanti virili ispidi nèi,
anco sentì sollicitarsi il volto
da la molle lanuggine cedente
che ancor la mano del tonsor non seppe.
Ma quali veggio a le pareti appese
nove immagini, tetri simulacri
d'occhi incavati, e di compunti visi?
Oh strano cangiamento! or finta in tela
la penitente grotta di Marsiglia
sostiene il chiodo, onde pendea dipinto
il Latmio bosco e la Vulcania rete.
Addio pertanto, o meste stanze! A voi
ritornerò quando novella Nuora
venga a mutar le imagini e gli arredi;
e dato esiglio a le canute chierche,
i bei tumulti e i giochi e me richiami
e la letizia, di giocondi amici
popolando la casa del marito.

...
Già i Parenti e i Congiunti e i fidi Amici
van disegnando ne lo stuol crescente
di te degno e di lor Genero, cui
nuova cura di pubbliche faccende
e veste di pretorio oro insignita
faccia illustre, o i non ben dimenticati,
con l'arse pergamene e con le rase
da l'alte porte e dai lucenti cocchi
mistiche insegne, titoli vetusti.
Ben nel mio Regno inviolata io serbo

equalitade; io spesso anche al sublime
talamo esalto del Signor beato
il rude Servo, a lui per indomata
fedeltade e destrezza e pronto ingegno,
e a la sposa di lui per giovanili
membra caro e per inguine possente.
Anco avran caro, a cui rivestan molti
le Briantee colline arsi racemi,

onor d'Insubri mense: e molti buoi
rompan le pingui Lodigiane glebe
e chiomate cavalle, e quel che il latte
dona armento minor pascan gli acquosi
immensi prati, onde lo sguardo è vinto.
Perché tai cure oggi al giurato altare
conducano i garzoni e le nolenti
donzelle, ascolta. Acerba lite un giorno
ebbi con Pluto; ei per vendetta Imene
d'una catena d’or tutto ricinse
e lo trasse con seco e sel fe' schiavo.
Ma il favor de l'eterne ali avea tolto
a sue ricerche. Egli al sacrato patto
solo presieder volle. Io con la stessa
catena ambo gli avvinsi, e donno e servo
sottoposi a mia legge. Indi ei sovente
a viso aperto e con mentite forme
in mio favor combatte. Ei ne le ricche
officine s'innoltra, e di lucente
crisolito o di limpido adamante
in aureo anello o di gemmata cifra,
quasi Proteo novel, prende l'aspetto.
Come talor quel che non fecer preghi
e sospiri e bellezza, egli m'ottenne!
E spesso ne' tuguri anco il condussi
col villeggiante Cittadin, che sazio
di profumate mogli, ebbe disio
di Venere silvestre; ivi la dura
per più Lune ad un sol serbata fede

ruppe il fulgor del magico metallo.
Così dopo gran pugna il buon Atlante
a lo scudo fatal toglieva il velo,
ricorso estremo ne le dubbie cose;
e abbagliati i Cavalli e i Cavallieri,
facendo agli occhi de la destra schermo,
lasciate l'arme al suol, cadean prostesi,
abbandonando l'ostinato arcione.
Già intorno a te molta oziosa turba
di Giovani s'aggira, e parte, e torna,
come a rosa sbucciante in sul mattino
ronzanti pecchie. Altri agli esperti inchini
e a le accorte parole assai più grato
ti fia degli altri tutti; a cui matura
gioventude le gote orna di folta
gemina striscia, che il cammin del mento
segna a l'orecchio. Ah fuggi, incauta, il troppo
dolce periglio. Egli ne' miei misteri
già troppo è dotto, ei sa l'ore diverse,
che al Castaldo ed al Tempio ed a Licori
sacre ha più d'un Marito; ei le secrete,
non da profano pie' trite, conosce
anguste scale, onde ai beati vassi
aditi de le mogli mattutine.
Ivi è Signor, fin che di nuovo giunto
seguace di Gradivo indi nol cacci,
che da l'Alpi a bear venne la ricca
di messi Insubria e d'uomini sinceri;
senza cura o timor, che il mal mentito
guascone inviso accento, onde cotanto
in fine orecchio Parigin s'offende,
i titoli smentisca, e l'ampie case,
che in Lutezia ei possiede, e le cagioni
ond'ei di Marte le abborrite insegne
prima seguì, per evitar la cieca
famosa falce, che trovò l'acuto
gallico ingegno, onde accorciar con arte
la troppo lunga in pria strada di Lete,

e la curva strisciante in su le selci
stridula scimitarra in rilucente
breve spadina, ed il calzar ferrato
in nitida calzetta, che il colore
agguaglia de le perle, onde Amfitrite
il sen s'adorna e la stillante treccia,
cangiò, come a me piacque e a l'alma Pace.
Quei de' mutati sguardi e del rivolto
viso intende il linguaggio, e si ritira
quasi Marito, ma nel cor fremendo.
E cangiato sentier, giù per le late
scale vien saltellando, e per le vie
cercando va col curioso sguardo
qual fra le case abbandonata Moglie
rinchiuda; ed anco da maligno Genio
spinto, a le incaute Vergini s'appiglia,
a lor tentando il cor, non senza qualche
sguardo a la madre e a la fedele Ancella.
Contro i poetastri
Se alcun da furia d'irritato nervo
O da grave Ciprigna o da loquace
Tosse dannato a l'odiosa coltre
Me sanator volesse, il poverello,
Cred'io, n'andrebbe a giudicar se vera
D'Aristippo o di Plato è la sentenza.
Venga un altro e mi dica: Il mal vicino
Deviò l'acqua dal mio fondo: a lui
Vo' mover piato e mio legal t'eleggo.
Fingi che, posto il trito Flacco, io tenti
Con l'inesperta man scotere il dritto
Fuor de la polve de l'enorme Baldo.
Che fia? Con danno il misero cliente,
Io con vergogna fuggirem dal Fòro,
Molto ridendo l'avversario e Temi.
Or d'onde è mai che il medico e il perito
Di legge osin far versi? Anzi non sia
Chi, dotto appena ad allogare un tempo
Le sparse membra di Maron, che a lui

Disgiunse ad arte il precettor, non creda
Poter, quando che voglia, esser poeta.
Nulla di questo appar più lieve: eppure
Tal vinse acri nemici e tenne il morso
A genti ardite, che domar non seppe
I numeri ritrosi: ed io conosco
Di questa plebe indocile i tumulti.
Tu, di cui su quel carme io leggo il nome,
Se onesto interrogar non è conteso,
Dimmi, sei tu poeta? — Il ciel mi guardi.
— Perché dunque far versi? — A le preghiere
E a lo sponsal solenne di un amico
Quattro versi negar come potea?
E sai che a figlia d'incolpato padre
Non è minor vergogna al santo giuro
Senza un sonetto andar, che se indotata
Porti a l'avaro conjugal piattello
La man rapace e l'affamato ventre.
Amico tal non credere che possa
Vantar l'antica età; poi che se Oreste,
Quando le Dire aveangli guasto il senno,
A quel suo fido d'amicizia specchio
Detto avesse: Fa’ versi, io non saprei
Se quel Pilade saggio avria potuto
Al matto amico compiacer. Ma dimmi:
Se per nuovo pensier questo marito
Sì t'avesse parlato: Io bramo, o caro,
Che la mia Betta o Maddalena o quale
Ch'ella si sia, come conviensi a sposa,
Esca in publico ornata; ond'io ti prego
Che tu con le tue man, se non ti grava,
A lei la vesta nuzial lavori:
Che detto avresti? — A le lattughe, ai bagni
Io mandato l'avrei con tanta fune,
Quanta al più pingue figlio di Francesco
Cinger potria l'incastigato addome.
Che se avessi obbedito, a me tal pena
Non converrebbe? Un che sartor non sia,

Se la rapace forbice e le spille
Osa trattar con le profane dita,
Stolto nol dici? — E chi non è poeta,
Se mai fa versi, con che nome il chiami?
O cucir drappi è più difficil opra
Che concluder poemi? A te vergogna
Sarà, se donna in publico apparisca
Abbigliata da te, sì che i fanciulli
Petulanti del trivio a lei d'intorno
Scaglin, gridando, i mezzi pomi e l'altre
Tante reliquie de la samia cena:
Ma onor sarà, quando a l'udir tue rime
Vanno in fuga le Muse, e al casto orecchio
De l'indice vocal si fanno scudo?
Io non dirò, come vantar da molti
Con riso udii, che l'arte del poeta
Sia necessaria e sacra. A l'arte prima,
Che dal sen de la terra a trarre insegna
Onde il mondo si nutra; a quella ond'hanno
Freno i ribaldi e sicurezza i buoni,
Tanto nome si dia. Ciò solo affermo,
Che un'arte ell'è, qual ch'ella siasi un'arte.
Or quale è mai scienza o disciplina
Tanto volgar, che da se stessa informi
Non sudato cerebro? Eppur non manca
Chi fogli empia di versi, onde la mente
Riposar da le pubbliche faccende
E dai privati affari, e per sollievo
Canti amori o battaglie, o lei che meglio
Suol gorgheggiar da l'alta scena, o quella
Che sa dir con le gambe: idolo mio.
Quando su l'orme de l'immenso Flacco
Con italico pie' correr volevi,
E de' potenti maledir l'orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
E cento lustri, il postero fanciullo

Con balba cantilena al pedagogo
Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
Ma Labeone al truce pedagogo
Trattar la verga non farà, né Codro
Al putto ignaro ruberà la cena.
La ruota, i serpi e la forata secchia,
O Pluto, a quel che col dannoso acume
Primo il tipo scoverse. A lui, di quanti
Versi in onta d'Apollo uscir da quella
Sua macchina infernal, rogo si faccia
D'eterne fiamme; o per maggior tormento,
Stretto a leggerli sia. Ché asciutto ancora
Su le carte febee non è l'inchiostro,
Che al torchio illustrator vanno. Ed omai
Tante fronde l'Aprile, e tanti sofi
L'Europa oggi non ha, né tante leggi
Già in venti lune partorì l'invitto
Senno e polmon degl'Insubri Licurghi,
Quanti ogni dì veggo apparir poeti.
Quando poi da lo scrigno e da le miti
Orecchie degli amici al banco aperto
De l'avaro librar passano i versi
E a le mani del volgo, a cui non lice
Dannar Flacco e Maron, laudar Pantilio,
E al crin di Mevio decretar corona?
Che dirò dei teatri? O sii tu servo
O duro fabbro, o venda in sui quadrivi
Castagne al volgo, un quarto di Filippo
Ti fa Visco e Quintilio. Entra e decidi.
Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, o la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l'armata
Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
Odi sclamar dai palchi: Oh duri versi!
Oh duro amante! Dal suo fero labbro
Un ben mio! non s'ascolta. Oh quanto meglio
Megacle ed Aristea, Clelia ad Orazio!
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,

Primo signor de l'Italo coturno?
Te ad imparar come si faccia il verso
De gl’Itali Aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le Ausonie scene
Or giganteggia. Al destro pie' si calza
L'alto coturno, e l'umil socco al manco;
Quindi va zoppicando. Informe al volto
Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue. Allor che al denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che, per le cave
Volte romoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro, e fa restar per via
Maravigliato il passaggier notturno.
Io, perché de la plebe il grido insano
Non mi fieda l'orecchio, in questa cella
Mi chiudo, e meco i miei pensieri e libri,
Quanti con l'occhio annoverar tu possa.
Ché se alcuno è tra lor che ponga in mostra
Maldigesta dottrina o versi inetti,
Nel vimine ibernal presso al camino
O in loco va, che nel purgato verso
Nega pudica rammentar Talia.

A G. Battista Pagani

Saepe stylum vertas

Perché, Pagani, de l'assente amico
Non immemore vivi, il ciel ti serbi
Sano e celibe sempre: or breve al tuo
Di me benigno interrogar rispondo.
Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
Non chiegga di Galen; men sano alquanto
Il frammento di Giove; e non è rado
Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
O la smania d'onor mi giovin l'erbe
De l'orto Epicureo. Che se mi chiedi
A che l'ingegno giovanetto educhi:
Non a cercar come si possa in campo
Mandar più vivi a Dite, o con la forza
Nel robusto cerebro ad un volere
Ridur le mille volontà del volgo;
Ma misurar parole, e i miei pensieri
Chiuder con certo pie', questa è la febre,
Da cui virtù di Farmaco o di voto
Non ho speranza che sanar mi possa.
Pensier null'altro io m'ebbi in fin d'allora
Che a me tremante il precettor severo
Segnava l'arte, onde in parole molte
Poco senso si chiuda; ed io, vestita
La gonna di Vetturia, al figlio irato
Persuadea coi gonfi sillogismi
Che, posto il ferro parricida, amico
E umil tornasse e ripentito a Roma,
Allor sol degno del materno amplesso.
Me da la palla spesso e da le noci
Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte; né giammai di verga
Mi rosseggiò la man perché di Flacco
Recitar non sapessi i molli scherzi
O le gare di Mopso, o quel dolente:

“Voi che ascoltate in rime sparse il suono”.
Ed or, di pel già asperso il volto e quasi
Fra i coscritti censito, in quella mente
Vivo; e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
A me concederanno ho stabilito
Consecrarlo a le Muse. Or come il mio
Furor difenda, o dolce amico, ascolta.
“Il Savio è re, libero, bello e Giove”,
Zenon barbato insegna; or, perché pari
Temeaci a lui, quel buon Figliuol di Rea
Temprò di molta insania il divo foco,
Onde il Deucalioneo selce s'informa.
Quindi brama talun che dal suo muro
pendan avi dipinti; altri che a lui
Ridan da l'arca impenetrabil molti
Cesari fulvi; altri a l'avita Pale
Nato in capanna umil vorria la veste
Sparger d'oro pretorio. Odi quest'altro:
Oh s'io posso il mio tetto alzar sul fumo
De l'umile vicino, e nel palagio
Entrar da quattro porte! E quei che tenta
Eccelsi fatti, onde del figlio il figlio
Di lui favelli; e seminar s'affanna
Ciò che raccolga ne la tomba? E sano
Direm colui, che di precetti spera
Far sano il mondo? A me più mite forse
Giove impose il far versi; a che la mente
Di sì bella follia purgar mi curo,
Onde ad altra nocente, o men soave
Dare il voto cerebro e il docil petto?
Or ti dirò perché piuttosto io scelga
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre d’antichi eroi. Fatti e costumi
Altri da quel ch'io veggio a me ritrosa
Nega esprimer Talia. Che se propongo
Dir Penelope fida e il letto intatto
De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente


Lidia m'occorre, che di frutti estrani
Feconda l'orto del marito, cui
Non Ilio pertinace o il vento avverso,
Ma il prego mattutino o l'affrettata
Visita de l'amico, o il diligente
Mercurio tiene ad ingrassare il censo
De l'erede non suo. L'imprese appena
Tento di Cincinnato e il glorioso
Ferro alternato alla callosa destra
O i Legati di Pirro innanzi al duro
Mangiator del magnanimo Legume,
Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
Villano, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove, e spaventarmi crede
Con la forzata maestà del guardo.
Che se dirai, che di famose gesta
Non men che al tempo di quei prischi grandi
Abbonda il secol nostro, io lo confesso:
Ma non ho voce onde a cantare io vaglia
Le battaglie, le Leggi, e i rinnovati
Fra noi Greci e Quiriti, e quella cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
Gallico ingegno, onde accorciar con arte
La troppo lunga in pria strada di Lete.

Venezia, 25 marzo 1804

Panegirico a Trimalcione

Poi che sdegnato dai patrizi deschi
Partissi Como, ed a la sua nemica
Temperanza diè loco, a nove mense
Bacco recando e la seguace Gioja
E i rari augelli e i preziosi parti
De la greggia di Proteo e i macri servi
Del biondo nume, io, del bel numer uno,
A la tua ricca mensa, o generoso
Trimalcione, lo seguo, e a l'affollata
Cena il mio ventre e la mia lira aggiungo.
Ma che dirò che dal tuo divo ingegno
Merti plauso indulgente? Ed al conviva
Faccia dal caro piatto ergere il grifo,
E strappi un bravo, al qual confuso e rotto
Contenda il varco l'occupata bocca?
Cui di tuo cuor l'altezza, e di tua mente
Non è noto l'acume? E l'infinito
Favor di Pluto e i greggi e i lati campi,
Che apprestavano un tempo al cocollato
Figliuol di Benedetto e di Bernardo
Gli squisiti digiuni? Io de' tuoi pregi
Il men noto finor, forse il più grande,
Farò soggetto al canto. Io di tua stirpe
Porrò in luce i gran fatti, e torrò il velo
A le origini auguste, a cui non giunse
Occhio profano mai; siccome un tempo
Negava il Nil le mistiche sorgenti
Al curioso adorator d'Osiri.
L'origin, dunque, gl'incrementi e i casi
Dimmi, immortal Camena, onde l'egregio
Trimalcion da l'occupata mente
Di Giove e da l'inglorio ozio del caos
Venne a l'onor de la beata mensa.
A quel che primo a me rammenta Euterpe
Piacquer l'armi eleusine e la divina
Gloria del campo: come un tempo è fama

Che profugo dal ciel di Giove il padre
Col ferro il grembo conjugal fendesse
De la gran madre de gli Dei Tellure.
Ma il pacifico solco e le modeste
Arti del padre fastidì l'ardente
Spirto del figlio, e salutato il tetto
Ed il natal suo regno, andò cercando
Novo campo d'onor sott'altro cielo.
Quei che da Troja fuggitivo e spinto
Da l'iniqua Giunon tanti anni corse
Ver la fuggente Italia, ov'ebbe alfine
L'impero e il tempio e di Maron la tromba,
Taccio innanzi a costui ch'esule, inerme,
Sempre in guerra con Pluto, in terre estrane
Portò su le pie spalle i Lari algenti.
Taccio Creusa e l'infelice Elissa;
Né a sue gran genti aggiungerò l'immenso
Stuol de’ piccioli Ascanii, ond'egli accrebbe
Le discorse città. Te sol rammento,
Vergin bella e pudica, unico frutto
Di stabile Imeneo, te che sdegnasti
Giunger tua destra a mortal destra, e il Divo
Nome sacro de' tuoi cedere al nome
Di terrestre marito. Ohimè! recisa
Dunque è l'augusta pianta! Or dove sono
Gli sperati nipoti ed il promesso
Trimalcione? E tu il comporti, o Giove?
Ma che favello io stolto? Ecco, oh stupore!
Sotto la zona verginal, che appesa
Al profano sacello Amor non vide,
Crescer l'intatto grembo; e viva e vera
Uscirne al mondo l'insperata prole.
Di qual semenza, di qual gente assai
Fu contesa fra il volgo. A me, dal volgo
Tratto in disparte, la fatal cortina
Rimove Apollo, ove i gran fatti ei cela.
E m'accenna col dito il ferreo Marte
Che in remota selvetta il santo rito

d'Ilia rinnova, e l'atterrita virgo
Che per fuggir s'affanna, rispingendo
L'istante Nume, e fassi invano usbergo
Le inviolate bende, e scuoter tenta
Il futuro Quirin, che il destinato
Alvo ricerca, e il puro seggio occupa;
E Amor che sorridendo i rami affolta,
Ed intricando i pronubi virgulti
Fa siepe intorno, e la facella ammorza,
Perché maligno non penetri il guardo!
Tanta agli Dei di sì gran gente è cura!
Né il sangue avito ed il natal divino
Smentì il marzio fanciullo; anzi l'antico
Padre emulando dei rettor del mondo
Sparse il fraterno sangue, e quanti e quali
Entro il solco fatal Romolo accolse
Volle compagni al fianco. Oh! qual s'avanza
D'amore esemplo e di gentili studj
Nobilissima coppia? Io vi saluto,
Chiari gemelli, onde la fama è vinta
Del prisco ovo di Leda: e te cui piacque
Impor cavalli al cocchio: e te che amasti
Nei fori e ne le vie sacre a Diana
Scagliar pietre volanti, ed incombente
Corpo atterrar di poderoso atleta.
Che più vi resta? Alti nel ciel locarvi
Fra il Cancro ardente e il rapitor d'Europa.
Raggio invocato ai pallidi nocchieri,
E accoglier miti con sereno volto
Da le salvate prore inni votivi.
Spesso Saturnio e il popol suo degnaro,
Velato intorno di mortal sembianza
L'inostensibil Dio, scender dal cielo
A popolar la terra. Il sa di Acrisio
La invan triplice torre: il sa la bella
Sicula piaggia che mirò presente
L'amante Pluto e vide il puro cielo
Contaminato d'infernal tenebra

Ed immonda favilla, e allividite
L'erbe e i fior pesti da l'ugne fuggenti
Dei corsieri d'Averno, e i chiari fonti
Arsi al passar de le roventi rote.
Né pochi eroi di sempiterno seme
Creati o di divin concepimento
Vanta l'evo primier; ma poi che mista,
E adulterata di mortal semenza
Cresce la stirpe, ne la turba immensa
Dei morituri si confonde, e accusa
La comun pasta del Giapezio loto.
Non così l'alta stirpe, onde cantiamo,
Muse figlie di Giove; anzi dal suolo
Poggia a le sfere, e per sublimi gradi
De' semidei terrestri ascende ai Numi.
Ché un Dio ben è colui che segue, al pari
Del facondo Cillenio abil messaggio
Di nunzi arcani e con giocoso furto
Al par destro a celar quanto gli piacque.
Quale stupor se a tanto senno, a tanta
Virtù mercede infami ceppi e dira
Croce donar di Pirra i ciechi figli!
O degnato abitar l'ingrata terra,
Perché, divo immortal, perché patisti
Sì ratto esserci tolto? Oh se a la nostra
Età più saggia eri servato, allora
Che i primi fasci a noi recò Sofia,
Te gran lator di legge e del comune
Dritto tutor sui clamorosi scanni
Mirato avria lo stupefatto volgo.
Or m'aprite Elicona, o Dee sorelle,
Abitatrici dell'Olimpia rocca
Che alta la cima infra le nubi asconde,
Ov'io poeta or salgo. E qual di voi
Tant'alto il canto mio sciorrà, ch'io vaglia
Con degno verso celebrar, se tanto
Lice a lingua mortal, de l'arbor sacro
L'estreme frondi, onde il gran frutto è nato

Ch'io qui presente adoro? Ei l'arti vostre
Seguir degnossi, e il nome suo risplende
Negli annali di Pindo. Ei sol potea
Cantar se stesso; io le famose gesta
Di tenue Musa adombrerò qual posso.
E certo al nascer suo l'acuto ingegno
Invase auspice Febo. Ospite muro
Né certa patria a lui concesse il fato,
Né d’altro avea del suo fuor che la lira.
Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
Fu costretto a varcar le iberne cime;
E in man recando la frassinea cetra
Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
A lusingar de gli unguentati eroi
E del Mavorzio mercator britanno.
Poi che la sorte e l'onorate prove
Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
Gl'incantati palagi e l'aste infrante,
Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
Dei convivi d'Artur. Né tu, ch'io creda,
A contesa verrai, benché ti vanti
Secondo ad Alighier, primo ad ogni altro,
Eridanio cantore. I merti e l'opre
Di quella tacerò che a lui fu sposa,
Madre a Trimalcion. Che non, se cento
Bocche a voce di bronzo in petto avessi,
Potrei dir tanto che il soggetto adegui.
Sol questo io canterò, ch'ella fu prima
Di Venere ministra e dei suoi doni
Larga dispensatrice: e se null'altra
Luce di padri e nobiltà di sangue
Ell'avesse quaggiù, ciò fora assai
Per collocarla infra l'eccelse dame.
Or chi m'apre il futuro? Oh qual vegg'io
Schiera d'eroi non nati! Ecco togati
Vindici de le leggi e d'oro aspersi
Correttori di popoli. Tremate,
Barbare madri: ecco i guerrier di Marte.

Oh quanto sangue a voi sovrasta! Oh quanto
Pianger pe' figli in stranio suol sepolti!
Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto
Seguia con l'ale del pensier su l'alte
Cime di Pindo, che sul desco adorno
Il fagian si raffredda, ed il valletto
Toglier l'onor già de la mensa anela;
E me a l'usato uffizio e al lavor dolce
Chiama il rinato lamentar del ventre.

Frammenti di "Le visioni poetiche"
I

In quella età che, di veder bramoso,
Ancor l'ingegno a le cagioni è cieco,
Ascoso un Genio, anco a me stesso ascoso,
Disse improvviso al mio pensier: Son teco.
Ei le cose mi mostra che animoso
Primier, siccome io valgo, in luce io reco;
Sicché da lui le tenga ogni cortese
Cui non incresca de l'averle intese.

II

Qual compagno s'avesse a la sua via
Infin d'allora il giovinetto acerbo,
Tal savio il vide, e a lui ne presagia
Cose che or fora il rammentar superbo;
Ben di poche memorie in compagnia
Ne la custodia del mio cor le serbo;
Dubbio le serbo al paragon sincero
Del Tempo, certo testimon del vero.

III

Questo Genio talor de la mia mente
I freni abbandonati in man si piglia,
E volge ove a lui piaccia obbediente
Tutta l'alata dei pensier famiglia;
Tal che dal petto interno odo sovente
Una voce, che irata mi consiglia,
Che almen fra tanti il primo mio concetto
Torni al Fonte Divin d'ogni intelletto.

IV

Ei fra le piante, ove più spesso io sono
Di campi lodator non cittadino,
A visitarmi appare, e porta in dono

Le visioni ed il furor divino;
Ben talor fra le cure ed il frastuono
De la cittade a me vien pellegrino:
Dissimulando io nel mio cor l'accolgo:
L'alta presenza sua non sente il volgo.

V

Ma nel mistico punto allor che l'alma
Dai pigri nodi del sopor si scote,
Che sol di sé s'accorge, e lieve in calma,
Il soffio de la vita la percote;
Né giunta a soverchiarla ancor la salma
È de le cure e de le voglie note,
Sì che il pensier disprigionato e solo
Batte per aria più celeste il volo;

VI

Sempre in quell'ora il veggio, e risplendenti
Schiere ha con sè d'aerei simolacri;
Quai muovon per lo spazio i passi lenti,
E quai festivi ed in lor luce alacri;
E fan motti fra loro e parlamenti
Misteriosi, e balli ordiscon sacri:
Il Genio li governa; io stommi e guato
In tanta pompa di veder beato.

VII

Ma se le viste cose a narrar prendo,
Gran parte la memoria m'abbandona,
Ché, i terrestri pensier sopravvegnendo,
Al primo tocco di leggier s'adona;
E quel pur, che a fatica in carte io stendo,
Del concetto minor troppo mi suona,
Ch'io sento come il più divin s'invola,
Né può il giogo patir de la parola.


VIII

Lui che di tanto il guardo mio fe' degno
Io prego or che anco al dir siemi in aiuto,
Perch' egli è sacro e fuor del mortal regno
E troppo oltre il narrar quel che ho veduto.
Ei regga l'ali mie; da lui l'ingegno
Ne l'alta region sia sostenuto
Tanto che per la via novella e lunga
L'alto argomento del mio canto aggiunga.

IX

L'alto argomento del mio canto io dico,
Ben che tal volgo il chiamerà volgare


ra le opere anteriori alla conversione, oltre al  carme
F
Tomba di Alessandro Manzoni nel Cimitero Monumentale di Milano