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Alessandro Manzoni - I POEMETTI










































La poetica del Manzoni





moltissimo sul fine della letteratura, il ruolo del poeta nella società, i mezzi di cui potesse servirsi, il pubblico cui dovesse rivolgersi, il valore e la sostanza dei diversi generi letterari, ecc. Egli pertanto ci ha lasciato esposte le sue idee in merito, in una serie di scritti che vanno dal carme “In morte di C. Imbonati”, del 1806, al discorso “Del romanzo storico”, del 1850. Tra l’uno e l’altro stanno la “Lettera al Signor Chauvet”, la “Prefazione” alla tragedia “Carmagnola”, la “Lettera al marchese C. D’Azeglio” nota anche come lettera sul Romanticismo, il dialogo “Dell’invenzione”. A parte vanno considerati invece i diversi scritti sulla lingua.
Abbiamo per primo citato il carme “In morte di C. Imbonati” perché esso contiene alcune dichiarazioni che già hanno a che fare con la poesia. Quando infatti nella finzione poetica il giovane Alessandro chiede all’Imbonati dei precetti da poter seguire nella sua vita, il vecchio così gli dice: “Sentir e meditar... non ti far mai servo /non far tregua coi vili: il santo Vero /mai non tradir: né proferir mai verbo /che plauda al vizio o la virtù derida...”. Ora da questi versi è sicuramente lecito trarre un indirizzo di natura artistica che si esprime nel rifiuto di una poesia servile, o anche semplicemente encomiastica, e di ogni forma di compromesso con il potere politico dominante, nonché il carattere morale dell’arte che non può indulgere alle passioni e ai vizi degli uomini. Vi è poi il riferimento esplicito al Vero, che costituirà per Manzoni oggetto di riflessioni che nel tempo andarono sempre più approfondendosi e meglio chiarendo.
Nella “Lettera al Signor Chauvet” e nella “Prefazione” al “Carmagnola” egli discute della liceità del genere drammatico e delle scelte tecniche da lui operate. Occorre ricordare, per comprendere ciò, che sul genere tragico pesava da una parte una precettistica di eredità rinascimentale, e, dall’altra, la condanna dei moralisti francesi, in particolare di Nicole e di Bossuet. In polemica contro questi filosofi Manzoni afferma che la tragedia di per sé non è né morale né immorale, che tale diviene solo in rapporto ai contenuti che le si danno, ed osserva che la condanna dei moralisti era scaturita da un’analisi limitata al sistema tragico francese. Per quanto riguarda invece la precettistica, lo scrittore respinge la necessità del ricorso sia all’unità di tempo che a quella di luogo, per le quali l’azione dovrebbe svolgersi dall’inizio alla fine tutta in uno stesso luogo e nell’arco di tempo di un giorno. Queste regole per Manzoni andavano rifiutate perché non in sintonia con gli altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie e, soprattutto, provocano la caduta di quello fondamentale della verosimiglianza. D’altra parte egli osservava che le migliori opere prodotte nel passato sono proprio quelle degli autori che non ne tennero conto. Ovviamente egli poi pensava che fosse da conservare l’unità d’azione come la sola capace di garantire all’opera un carattere unitario. Ciò posto lo scrittore rende ragione della novità dell’introduzione del coro nelle sue tragedie. L’idea egli confessa essergli venuta leggendo quanto Schlegel aveva scritto nel suo “Corso di letteratura drammatica” a proposito della tragedia greca antica. Manzoni riteneva un coro del tipo di quello della tragedia greca non combinabile con il sistema tragico moderno; tuttavia pensava che se fosse stato indipendente dall’azione, avrebbe potuto essere giovevole “riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria” diminuendo così “la tentazione di introdursi nell’azione e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti”. E’ chiara con ciò la volontà dello scrittore di realizzare una poesia oggettiva, libera dalla presenza della personalità dello scrittore, ma anche la volontà di guidare, proprio attraverso il commento all’azione che il coro esprime, la riflessione dello spettatore, o lettore che fosse.
Ma il documento più importante della poetica manzoniana è certamente la “Lettera al marchese Cesare D’Azeglio” altrimenti nota come “Lettera sul Romanticismo”. Nonostante la denominazione, si tratta di un vero e proprio saggio che può essere diviso in due parti: la prima, di polemica contro i classicisti; la seconda di esposizione di quei concetti che stanno a fondamento della poesia romantica italiana. Nella parte polemica, o “negativa”, egli tende ad escludere l’uso della mitologia, l’imitazione dei classici, le regole fondate su fatti speciali e non su principi generali. Queste stesse questioni furono dibattute anche dagli altri scrittori romantici, ma Manzoni vi portò una rara incisività e chiarezza di ragionamento e, per quanto riguarda il rifiuto della mitologia, una motivazione nuova ed originale. Se gli altri infatti la consideravano cosa fredda, incapace di suscitare vere emozioni e memorie, cosa noiosa, ridicola, Manzoni poi la rifiutò soprattutto per un motivo ideologico e la definì “nuova idolatria”. La mitologia infatti ai suoi occhi “non consisteva soltanto nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali...ma anche nel desiderio delle cose terrene, delle passioni, de’ piaceri portato fino all’adorazione; nella fede in quelle cose come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare”. Ora per Manzoni l’uso della mitologia in poesia diventa un mezzo per conservare quei valori su cui si fondò il mondo pagano, e l’effetto che produce non può che essere quello di “trasportarci alle idee di quei tempi in cui il Maestro non era venuto...di farci parlare oggi, come se Egli non avesse insegnato” , insomma di farci amare tutto quello che Cristo intese combattere. Quanto alla seconda parte, quella “positiva” , il succo del discorso si può condensare nella formuletta che appariva nella prima stesura del documento, con la quale si diceva che l’arte dovesse proporsi “l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo”. Questi tre elementi risultano strettamente connessi tra loro, ma non devono far pensare ad una variante dell’oraziano miscère utile dulci (unire utile e dilettevole). Per rendersene conto giova fermare l’attenzione sul concetto di vero. Al tempo della composizione delle tragedie Manzoni lo aveva fatto coincidere con la verità della storia, subito chiarendo però la differenza tra vero storico e vero poetico. Nella Lettera allo Chauvet questi sono visti come complementari l’uno dell’altro e tali da completarsi a vicenda. Compito dello storico infatti sarebbe illustrare i fatti, quello del poeta invece ricostruire i sentimenti, le passioni, le sofferenze che li determinarono e che ne conseguirono, illustrandoli così dall’interno del cuore umano e badando a ciò che lo storico di professione non può notare. Nella lettera sul Romanticismo questo concetto di vero si amplia. L’autore stesso dichiara che è qualcosa di diverso rispetto a ciò che ordinariamente si vuole esprimere con questa parola, lasciando quindi intendere che possa coincidere con le verità morali del Cristianesimo. Tornando ora alla succitata formuletta, occorre specificare anche che quando il poeta parla di interessante vuole semplicemente combattere l’accademismo fumoso e retorico e, nello stesso tempo, proporre una poesia che non sia fredda ed astratta, ma tale da poter essere “sentita” dal lettore, trovando rispondenza nella sua realtà quotidiana. Una poesia cioè, come diceva anche Berchet, ancorata al tempo presente, espressione dei problemi, delle esigenze, delle aspirazioni, dei sentimenti dei contemporanei; capace di riflettere la realtà e la società da cui nasce. Questo interessante perciò sottintende anche lo speciale destinatario, che non è più il pubblico delle Accademie e dei letterati, bensì quello che i romantici chiamavano “popolo”. A questo punto siamo in grado di comprendere anche il reale significato dell’espressione “utile per iscopo”. E’ chiaro infatti che qui non si tratta più di un utile spicciolo, pratico; non siamo di fronte ad una riproposta dell’estetica didascalica volta a fornire, attraverso la poesia, insegnamenti di varia natura. L’utile di cui parla Manzoni è quello d’ordine superiore, quello etico, che afferisce alla vita dello spirito. La poesia così viene destinata a provocare la crescita spirituale e morale dell’individuo e della nazione.
Lo scritto successivo fu il trattato “Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione” pubblicato nel 1845. Qui Manzoni torna sui problemi affrontati nella Lettera allo Chauvet e finisce con il pronunciare una condanna di tutte le opere in cui storia ed invenzione poetica si mescolino. Egli ormai era convinto che questa mescolanza non fosse ammissibile e che generasse qualcosa di sostanzialmente inautentico. Né ritenne più che storia e poesia potessero convivere, avendo esse oggetti diversi, la prima cioè mirando al vero, la seconda al verosimile. La conclusione fu che non esiste che una verità che è quella della storia. Conseguentemente, ed incredibilmente, Manzoni arrivò così a condannare le sue tragedie e lo stesso romanzo.
Nel 1850 infine lo scrittore pubblicò il dialogo “Dell’invenzione”. Qui finalmente egli risolse il problema del vero identificandolo non più nella Storia, ma con una verità ideale che la trascende, non creata dal poeta, ma rinvenibile nelle cose (di qui il termine “invenzione” del titolo, dal latino invenio=trovo) e negli avvenimenti; verità che finisce con il coincidere con la Rivelazione cristiana.
Concludendo possiamo con N. Sapegno dire che “una poetica siffatta esclude ogni forma di abbandono sentimentale, di compiacimento idillico, di divertimento fantastico; essa bandisce e allontana da sé per sempre ogni concetto della poesia come lirica effusione...tende cioè a mettere in primo piano l’oggettività della materia poetica e a collocare in ombra, fin quasi ad annullarlo, l’intervento soggettivo dello scrittore...E in quanto supremamente oggettiva, questa poetica vuol essere anche realistica”. Essa pose infine anche l’esigenza di una lingua antiaccademica, viva e reale, di immediata comprensione e forza espressiva.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Del trionfo della libertà

Canto Primo

Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole,

E le spade stringea d'aspre ritorte,
E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la morte;

E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline;

Quand'io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some.

E mi ferì le luci un vivo lume ,
Ove non potea l'occhio essere inteso,
E vinto fu del mio veder l'acume,

Com'uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l'occhio offeso,

Le confuse palpebre agita e scote,
Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote;

Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
Da sostener la vista de gli Dei.

Non cred'io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
Cui non lice fissar cose immortali.


Forse fu, s'egli è ver che in noi s'annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
Onde come io non so, so ben ch'io vidi.

Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l'andar suo cosa mortale ,
Né mai fu tale che vestisse gonna.

Di portamento altera , e quanta e quale
Su gli astri incede quella al maggior Dio
Del talamo consorte e del natale.

Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l'armonia celeste
Comprenderla non può chi non l'udio.

Sovra l'uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste.

Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
Oh con quanto stupor me ne rimembra!

Siede su cocchio di finissim'oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro.

Stringe la manca la fatal bipenne,
E l'altra il brando scotitor de' troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne

La gran madre de' Fabj e de' Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l'alte cervici umili e proni.

Pronte a' suoi cenni stanle d'ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
Pendon de l'universo incerti i fati.


L'una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
E il mondo rasserena d'un sorriso.

E l'altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d'affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo.

Due bandiere scotean de l'aure i vanni;
Su l'una scritto sta: Pace a le genti,
Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.

Taceano al lor passar l'ire de' venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
Lo baciavano umili e reverenti.

Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto;

E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
Alza la scure adeguatrice, e taglia.

E con la destra alto sospende e libra
L'intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra.

Non del sangue il valor, ch'è lieve ciancia,
E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.

Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
Il cor con l'alma face infiamma e cuoce;

E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de' metalli tuoi;


Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
E scritto ha in petto: O Libertate o morte.

D'ogn'intorno commosso il suol fioriva,
L'aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva.

E a color che fuggir l'aspra catena,
Prorompeva su gli occhi e su le labbia
Impetuosa del piacer la piena;

Come augel, che fuggì l'antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

Quindi s'udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi.

Impugnando un flagel d'anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
E si graffiava le villose gene.

E i torbid'occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l'atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto;

Come notturno augel, che le latebre
Ospiti cerca allor che il Sole incalza
Ne' buj recinti l'orride tenebre.

Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E 'l caccia in mano a l'uomo e dice: Scanna,
E forsennata va di balza in balza.

Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l'insaziabil canna.


E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l'ara pone,
E osa tendere al Ciel gli occhi profani.

Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
E il volgo la chiamò Religione.

Si scolorar le faccie maledette,
E l'una a l'altra larva s'avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette,

Che il cor de l'una al sen de l'altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
La coppia abbominosa si rannicchia.

Qual'è lo can che tremando s'accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.

Ma poi che di quell'altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,

Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
Fia di letizia a chi 'l procaccia seme?

Tutto si tenti e si ritenti tutto;
E se morire è forza pur, si moja ,
Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.

Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
E l'altra surse e gorgogliava: Moja.

Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo.


Acuto allor s'intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
E di morsi e percosse un mormorio.

Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi;

Come allor che nel fosco aer sparuto
In fra 'l notturno vel si mostra e fugge
Un focherello passeggiero e muto.

L'infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge.

Contra miglior voler voler mal pugna ;
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna.

Ma stavan l'aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
E pendevan le rive irresolute.

La Dea mirolle, e rise un cotal riso
Di scherno e di disdegno, che dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.

E immobile in suo seggio il cocchio spinge
Su le attonite larve, e le fracassa,
E l'auree rote del lor sangue tinge.

Né per timore o per desio s'abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa.

Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond'esalava abbominoso lezzo,
E da l'ime radici ne fu scossa.


Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.

Quinci acuto s'udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja.

S'alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
Ché l'arse penne ricusaro il volo.

Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
A gl'intimi recessi di Lamagna.

Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe' paventar de la lor sorte,
E mal frenato in su le gote uscio,

E gliele tinse d'un color di morte.

Canto Secondo

Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia
I' era immerso in quell'altera vista,
Come colui che tace e maraviglia;

Qual dicon che de' Spirti in fra la lista,
Stette mirando le magiche note
Il furente di Patmo Evangelista.

Quand'io vidi la Dea, che su l'immote
Maladette sorelle il cocchio spinse,
E su le infami cigolar le rote,

Primamente un terror freddo mi strinse,
Poi surse in petto con subita forza
La letizia, che l'altro affetto estinse.


Qual se fiamma divora arida scorza
Avidamente, e d'improvviso d'acque
Talun l'inonda, subito s'ammorza,

Così sotto la gioja il timor giacque;
Poi surse un novo di stupore affetto,
E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.

Però ch'io vidi un bel drappello eletto
Di Lor che sordi furo al proprio danno,
Caldi d'amor di Libertade il petto.

Vidi colui che contro al rio Tiranno
Fe' la vendetta del superbo strupo,
Poi che s'avvide del lascivo inganno,

E corse furioso, come lupo,
Se mai rapace cacciator gli fura
I cari figli dal natio dirupo.

E seco è Lei, che d'alma intatta e pura,
Benché polluta ne la spoglia in vita,
Lavò col sangue la non sua lordura.

Quei che ritolse ai figli suoi la vita,
Poi che ne fero uso malvagio e rio,
Immolando a la Patria, ostia gradita,

L'affetto di parente, e dir s'udio:
Quei che di fede a la sua patria manca
Non è figlio di Roma, e non è mio.

Siegue Quei che la destra ardita e franca
Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
E fe' tremar Porsenna colla manca.

Ve' la Vergin che corse a le natie
Piaggie, fuggendo del Tiranno l'onte,
Per le amiche del Tebro ospite vie.


Ecco quel forte, che al famoso ponte
Contra l'Etruria congiurata tenne
Ferme le piante e immobile la fronte.

E l'urto d'un esercito sostenne,
E contra mille e mille lancie stette,
Onde immortale a' posteri divenne.

Ma ben poria le più sottili erbette
Annoverar nel prato e 'n ciel le stelle
E le arene nel mar minute e strette

Chi noverar volesse l'alme belle
Ch'ivi eran, di valore inclito speglio,
Sol de la Patria e di Virtute ancelle.

Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,
Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli
La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.

Fu la figlia che disse al padre: Cogli
Questo immaturo fior: tu mi donasti
Queste misere membra, e tu le togli,

Pria che impudico ardir le incesti e guasti;
E in quello cadde il colpo, e impallidiro
Le guancie e i membri intemerati e casti,

E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,
Ed a la vista orribile fremea
Il superbo e deluso Decemviro,

Cui stimolava la digiuna e rea
Libidine, e struggea l'insana rabbia,
Che i già protesi invan nervi rodea;

Qual lupo, che la preda perdut'abbia,
Batte per fame l'avida mascella,
Rugge, e s'addenta le digiune labbia.


Quindi segue una coppia rara e bella,
Che ria di ben oprar mercede colse
Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.

V'è quel grande che Roma ai ceppi tolse,
Indi de l'Afro le superbe mine
E le audaci speranze in lui rivolse:

Per cui sovra le libiche ruine
Vide Roma discesa al gran tragitto
Il fulgor de le fiaccole Latine.

E quei che Magno detto era ed invitto,
Che, insiem con Libertà, spoglia schernita
Giacque su l'infedel sabbia d'Egitto.

V'era la non mai doma Alma, che ardita
Temé la servitù più de la morte,
Amò la Libertà più de la vita;

Dicendo: Poi che la nimica sorte
Tanto è contraria a Libertate, e invano
La terribile armò destra quel forte,

Alzisi omai la generosa mano,
E l'alma fugga pria che servir l'empio,
Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.

E seco è Lei, che con novello scempio
Dietro la fuggitiva Libertate
Corse animata dal paterno esempio.

Quindi un drappel venia d'ombre onorate
Sacre a la patria, che di sangue diro
Ne spruzzar le ruine inonorate.

Bruto primo sorgea, che torvi in giro
Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,
E da l'imo del cor trasse un sospiro.


E a l'ombre circostanti si rivolse,
In cui non fu la virtù patria doma,
Indi la lingua in tai parole sciolse:

Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,
Or che strappotti il glorioso lauro
Invida man da la vittrice chioma.

Ov'è l'antico di virtù tesauro?
Ove, ove una verace alma Latina?
Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?

Ahi! de la Libertà l'ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
Ed or serva sei fatta di reina;

Ché il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.

E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!

E il popol reverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!

Che valse a me di sacri ferri e pii
Armar le destre, e franger la catena?
Lasso! e per chi la grande impresa ardii?

Spento un Tiranno, un altro surse, piena
Di schiavi de la terra era la Donna,
Infin che strinse la temuta abena

Quei che la Galilea dimessa donna
Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi
Vestì di tolta altrui fulgida gonna;


E maritolla a’ suoi nefandi Drudi
Incestamente, e al vecchio Sacerdote
A la canna scappato e a le paludi,

Che infallibil divino a le devote
Genti s'infinse, che a la Putta astuta
Prestaro omaggio e le fornir la dote.

E nel Roman bordello prostituta,
Vile, superba, sozza e scellerata
Al maggior offerente era venduta.

Ivi un postribol fece, ove sfacciata
Facea di sé mercato, ed a' suoi Proci
Dispensava ora un detto, ora un'occhiata.

Ma poi che ferma in trono fu, feroci
Sensi vestì, l'armi si cinse, e infece
D'innocuo sangue le mal compre croci.

E sue ministre ira e vendetta fece,
L'inganno, la viltà, la scelleranza,
E fe' sua legge: Quel che giova lece.

Quindi la maladetta Intolleranza
Del detto e del pensier, quindi Sofia
Stretta in catene, e in trono l'Ignoranza.

O ditel voi, che di saver sì ria
Mercede aveste di sospiri e pianto
Da l'empia de l'ingegno tirannia.

O ditel voi, ch'io già non son da tanto;
Gridino l'ossa inonorate, e il suono
A l'Indo ne pervenga e al Garamanto.

Questi i diletti de l'Eterno sono?
Questi i ministri del divin volere?
E questi è un Dio di pace e di perdono?


Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere
Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco
Di veritate apristi e di sapere.

Contra te i dardi dal diabolic'arco
Sfrenò l'invidia, e contra i tuoi sistemi
Indarno trasse in campo e Luca e Marco.

Empj! che di ragione i divi semi
Spegner tentaro ne gli umani petti,
E colpirono il ver con gli anatemi.

Van predicando un Nume, e a' suoi precetti
Fan fronte apertamente, e a chi gl'imita
Fulminan le censure e gl'interdetti.

Povera, disprezzata, umil la vita
Quel che tu adori in Galilea menava,
E tu suo servo in Roma un Sibarita.

O greggia stolta, temeraria e prava,
Che col suo Nume e con se stessa pugna;
Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.

Altri nemico di se stesso impugna
Crudo flagello, e il sangue fonde, e 'l fura,
A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,

Devoto suicida, ed a la dura
Verginità consacrasi, i desiri
Soffocando e le voci di natura.

Stolto crudel, che fai? de' tuoi martiri
Forse l'amante comun Padre frue?
O si pasce di sangue e di sospiri?

Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue
Dita divine la diversa brama
Pose Colui, che disse “sia”, e fue.


Ei con la voce di natura chiama
Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,
E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.

E tu fuggi colei che per compagna
Ei ti diede, e i fratei credi nemici,
E invan natura, invan grida e si lagna.

E tal sotto i flagelli ed i cilici
Cela i pugnali, e vassi a capo chino
Meditando veleni e malefici.

O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi obliando, al Galileo
Cedesti i fasci del valor Latino,

Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo
Dei nostri figli si fan scherno e gioco...
Ma qui si tacque, e dir più non poteo;

Ché tal la carità del natio loco
Lo strinse, e sì l'oppresse, che morio
La voce in un sospir languido e fioco.

Quindi tra le commosse ombre s'udio
Sorgere un roco ed indistinto gemito,
Poscia un cupo e profondo mormorio;

Sì come allor che con interno tremito
Quassano i venti il suol che ne rimbomba,
S'ode sonar da lunge un sordo fremito,

Che tra le foglie via mormora e romba.

Canto Terzo

I tronchi detti e il lagrimoso volto
Di quella generosa Anima bella
Avean là tutto il mio pensier raccolto,


Quando tutto a sé 'l trasse una novella
Turba, che di rincontro a me venia,
D'abito più recente e di favella.

Confuso e irresoluto io me ne gìa,
Com'uom che in terra sconosciuta mova,
Che lento lento dubbiando s'avvia.

Ed erano color che per la nova
Libertade s'alzar fra l'alme prime,
Di sé lasciando memoranda prova.

Grandeggiava fra queste una sublime
Alma, come fra 'l salcio umile e l'orno
Torreggian de' cipressi alto le cime.

Avea di belle piaghe il seno adorno,
Che vibravan di luce accesa lampa,
E fean più chiaro quel sereno giorno;

Ché men rifulge il sol quando più avvampa,
E sovra noi da lo stellato arringo
L'orme fiammanti più diritte stampa.

Allor ch'egli me vide il pie' ramingo
Traggere incerto per l'ignota riva,
Meditabondo, tacito e solingo,

A me corse, gridando: Anima viva,
Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
E per amor di Libertà s'arriva;

Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in Libertate? è in calma?
O guerra ancor la strazia e servitute?

Io prodigo le fui di non vil alma,
E nel cruento suo grembo ospitale
Giacqui barbaro pondo, estrania salma.


Né m'accolse nel seno il suol natale,
Né dolce in su le ceneri agghiacciate
Il suon discese del materno vale.

Barbaro estranio tu? non son sì ingrate
L'anime Italiane, e non è spento
L'antico senso in lor de la pietate.

Oh qual non fece Insubria mia lamento
Più sul tuo fato, che sul suo periglio!
Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.

E te, discinta e scarmigliata, figlio
Chiamò, baciando il tronco amato e santo,
E con la destra ti compose il ciglio.

E adorò 'l tuo cipresso al quale accanto
Il caro germogliò lauro e l'ulivo,
Che i rai le terse del bilustre pianto.

Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,
Che inondò i membri inanimati e rubri
Di te, che 'n cielo e ne' bei cor se' vivo.

Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,
Deh! resti a noi, ma l'onorata spoglia
Trasse Francia gelosa a' suoi delubri.

Ma de l'itala sorte, onde t'invoglia
Tanto desio, come farò parola?
Ché un seme di Tiranni vi germoglia.

E sotto al giogo de la greve stola
La gran Donna del Lazio il collo spinse,
E guata le catene, e si consola.

E Partenope serve a lei, che vinse
In crudeltà la Maga empia di Colco,
E de' più disumani il grido estinse.


Ed il Siculo e 'l Calabro bifolco
Frange a crudo signor le dure glebe,
E riga di sudore il non suo solco.

Al mio dir disiosa urtò la plebe
Un'ombra, sì com'irco spinge e cozza
In su l'uscita le ammucchiate zebe.

Avea i luridi solchi in su la strozza
Del capestro, e la guancia scarna e smunta,
E la chioma di polve e sangue sozza.

E' surse de le piante in su la punta,
Come chi brama violenta tocca,
E uno sciame d'affetti in sen gli spunta,

Ed il cor sopraffatto ne trabocca
Inondato e sommerso, e l'alma fugge
Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.

Poi gridò: L'empia vive, e non l'adugge
Il telo, che temuto è sì là giue?
E 'l dolce lume ancor per gli occhi sugge?

Né pur la pena di sue colpe lue,
Ma vive, e vive trionfante, e regna:
Regna, e del frutto di sue colpe frue.

O tu, diss'io, che sì contra l'indegna
Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
Spiegami il duol che sì l'alma t'impregna.

Più volte egli tentò formar parola,
Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
Che 'l duol la sospingeva ne la gola;

Sì come arretra il suo corso veloce,
E spumeggia e gorgoglia onda restia,
Se impedimento incontra in su la foce.


Ma poi che vinse il duol la cortesia,
E per le secche fauci il varco aperse,
E fu spianata al ragionar la via,

Gridò: Tu vuoi ch'io fuor dal seno verse
Il duol, che tanto già mi punse e punge,
Se pur si puote anco qua su dolerse.

Ma in quale arena mai grido non giunge
Di sua nequizia e de' fatti empi e rei?
E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.

Io di sua crudeltà la prova fei,
E giacqui ostia innocente in su l'arena,
Per amor de la Patria e di Costei,

Di ciò l'alma e la bocca ebbi ognor piena,
Che a me fu sempre fida stella e duce,
Ed or mi paga la sofferta pena.

Poi che apparve un'incerta e dubbia luce
Sovra l'Italia addormentata, e sparve,
Onde la notte nereggiò più truce,

E una benigna Libertade apparve,
Che al duro appena ci rapì servaggio,
Indi sparì come notturne larve,

Io corsi là, com'a un lontano raggio
Correndo e ansando il pellegrin s'affretta,
Smarrito fra 'l notturno ermo viaggio.

Ahi breve umana gioja ed imperfetta!
Venne, con l'armi no, con le catene
Una ciurma di schiavi maladetta.

E gli abeti secati a le Rutene
Canute selve del Cumeo Nettuno
Gravaro il dorso, e ne radean le arene.


Corse fremendo ed ululando il bruno
Tartaro antropofàgo, che per fame
Spalanca l'atro gorgozzul digiuno.

E l'Anglo avaro, che mercato infame
Fa de le umane vite, e in quella sciarra
Lo spinsero de l'or le ingorde brame.

Né più i solchi radea sicula marra,
Né più la falce, ma le verdi biade
Mieteva la cosacca scimitarra.

E non bastar le peregrine spade;
Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!
Vomitò contra sé fiere masnade.

Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!
Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,
Qual tolto al pastorale e quale al remo.

Oh ciurma infame! e un porporato mostro
Duce si fe' de le ribelli squadre,
Celando i ferri sotto al fulgid'ostro.

Costor le mani violente e ladre
Commiser ne la Patria, e tutta quanta
D'empie ferite ricovrir la madre.

Di Libertà la tenerella pianta
Crollar, sì come d'Eolo irato il figlio
L'aereo pin da le radici schianta.

Poscia un confuso regnava bisbiglio,
Un sordo mormorar fra denti ed una
Paura, un cupo sovvolger di ciglio;

Come allor che da lunge il ciel s'imbruna,
Siede sul mar, che a poco a poco s'ange,
Una calma che annunzia la fortuna;


Mentre cigola il vento, che si frange
Tra le canne palustri, e cupo e fioco
Rotto dai duri massi il fiotto piange.

Ma surse irata la procella, poco
Durò la calma e quel servir tranquillo;
Sangue al pianto successe e ferro e foco.

E l'aer muto ruppe acuto squillo
Annunziator di stragi, e sulla torre
L'atro di morte sventolò vessillo.

Il furor per le vie rabido scorre,
E con grida i satelliti, e con cenni
Incora e sprona, e a nova strage corre.

Allor s'ode uno strider di bipenni,
Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come
Oltre veder con questi occhi sostenni!

Chi solo amò di Libertate il nome,
O appena il proferì, dai sacri lari
Strappato e strascinato è per le chiome.

Ai casti letti venian que' sicari,
Qual di lupi digiuni atro drappello,
D'oro e di sangue e di null'altro avari.

E invan le spose al violato ostello,
Di lagrime bagnando il sen discinto,
Fean con la debil man vano puntello;

Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto
Entro il seno pregnante: oh scelleranza!
E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto.

Gli empj no, che con fiera dilettanza
Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
E fean periglio di crudel costanza.


E i pargoletti a que' feroci lupi
Con un sorriso protendean le mani,
Con un sorriso da spetrar le rupi.

Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani
Tigri! col ferro rimovean l'amplesso,
E fean le membra tenerelle a brani.

Non era il grido ed il sospir concesso;
Era delitto il lagrimar, delitto
Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.

Morte gridava irrevocando editto.
La coronata e la mitrata stizza
L'avean col sangue d'innocenti scritto.

Intanto a mille eroi l'anima schizza
Dal gorgozzule oppresso, e brancolando
Il tronco informe su l'arena guizza.

Anelando, fremendo, mugolando
Gli spirti uscien da' straziati tronchi,
Non il lor danno, ma il comun plorando.

Ivi sorgean due smisurati tronchi,
Cui l'adunato sangue era lavacro,
E d'intorno eran membri e capi cionchi.

Quinci era il tronco infame a morte sacro,
Irto e spumoso di sanguigna gruma,
Quindi stava di Cristo il simulacro;

E il percotea la fluttuante schiuma,
Che fea del sangue e de la tabe il lago,
Che ferve e bolle e orrendamente fuma.

Fiero portento allor si vide, un vago
Spettro spinto da voglia empia ed infame
Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.


Avidamente pria fiutò il carname,
E rallegrossi, e poi con un sogghigno
Guatò de' semivivi il bulicame.

Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,
E il diguazzò per entro a la fiumana,
E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.

Come rabido lupo si distana,
Se a le nari gli vien di sangue puzza,
E ringhia e arrota la digiuna scana,

E guata intorno sospicando, e aguzza
Gli orecchi e ognor s'arretra in su i vestigi,
Così colei, che di sua salma appuzza

Le viscere cruente di Parigi,
Rigurgitando velenosa bava,
La barbara consorte di Luigi,

Venia gridando: Insana ciurma e prava,
Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
E al regno agogni, nata ad esser schiava,

Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe
Il fio tu paga, e sì dicendo morse
Le membra, e rosicchiò l'ossa e le polpe.

Indi da l'atro desco il grifo torse
Gonfia di sangue già, ma non satolla,
Quando novo spettacolo si scorse.

Venia uno stuolo di Leviti, colla
Faccia di rabbia e di furor bollente,
E inzuppata di sangue la cocolla.

Ciascun reca una coppa, e d'innocente
Sangue l'empiero, e le posar su l'ara.
E lo vide e 'l soffrì l'Onnipossente!


E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.
Danzava intorno oscenamente Erinni,
E scoteva la cappa e la tiara.

E i profani s'udian rochi tintinni
De' bronzi, e l'aria, con le negre penne,
Gl'infernali scotean diabolic'inni.

Bramata alfine ed aspettata venne
A me la morte, ed il supremo sfogo
Compì su la mia spoglia la bipenne.

Allora scossi l'abborrito giogo,
E, l'ali aprendo a la seconda vita,
Rinacqui alfin, come fenice in rogo.

Ed ancor tace il mondo? ed impunita
È la Tigre inumana, anzi felice,
E temuta dal mondo e riverita?

Deh! vomiti l'accesa Etna l'ultrice
Fiamma, che la città fetente copra,
E la penetri fino a la radice.

Ma no: sol pera il delinquente, sopra
Lei cada il divo sdegno e sui diademi,
Autori infami de l'orribil'opra.

E fin da lunge ne' recessi estremi,
Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti
L'oda l'empia Tiranna, odalo e tremi.

E disperata mora, e ai suoi singulti
Non sia che cor s'intenerisca e pieghi,
E agli strazj perdoni ed a gli insulti,

O dal Ciel pace a l'empia spoglia preghi;
Ma l'universo al suo morir tripudi,
E poca polve a l'ossa infami neghi.


E l'alma dentro a le negre paludi
Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,
E tutto Inferno a tormentarla sudi,

Se pur tanta nequizia entro vi cape.

Canto Quarto

Tacque ciò detto, e su l'enfiate labbia
Gorgogliava un suon muto di vendetta,
Un fremer sordo d'intestina rabbia.

E le affollate intorno ombre, “vendetta”
Gridar, “vendetta”, e la commossa riva
Inorridita replicò “vendetta”.

I torbid'occhi il crino a lui copriva;
Fascio parea di vepri o di gramigna,
Onde un'atra erompea luce furtiva;

Come veggiamo il sol, se una sanguigna
Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua
Vibrar l'incerta luce e ferrugigna.

Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!

Gonfia di sangue la corrente e impura
Portò l'umil Sebeto, e de la cruda
Novella Tebe flagellò le mura.

Tigre inumana di pietate ignuda,
Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un Bruto
Dov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?

Questi sensi io volgea per entro al muto
Pensier, che tutto in quell'orror s'affisse,
Allor che venne al mio veder veduto


D'Insubria il Genio, che le luci fisse
In me tenendo, armoniosa e scorta
Voce disciolse, e scintillando disse:

Mortal, quello che udrai là giuso porta.
Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca
Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.

Tu la cadente poesia rinfranca,
Tu la rivesti d'armonia beata,
E tu sostieni la virtù, che manca;

Tu l'ali al pensier presta, o Diva nata
Di Mnemosine, e fa' che del mio plettro
Esca la voce ai colti orecchi grata,

E spargi i detti miei d'eterno elettro.
Già, proseguiva, del real potere
Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.

Ché gli ubertosi colli e le riviere,
Ove Natura a se medesma piace,
No, che non son per le Tedesche fiere.

Pace altra volta tu le desti, pace,
O Tiranno, giurasti, e udir le genti
Il real giuro, e lo credean verace.

Ma di Tiranno fede i sacramenti
Frange e calpesta, e la legge de' troni
Son gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.

Venne in fin dai settemplici trioni,
Da te chiamato, e da le fredde rupi
Un torrente di bruti e di ladroni.

Come in aperto ovile iberni lupi,
Tal su l'Insubria si gittar quegli empi,
Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.


Fino i sacri vestibuli di scempi
Macchiaro e d'adulteri. Oh quali etati
Fur mai feconde di siffatti esempi?

Ma non fur quegli insulti invendicati,
Né il vizio trionfò: l'infame tresca
Franse il ferro e 'l valor: gli addormentati

Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
La virtù Cisalpina e la Francesca.

Torna, arrogante a questi lidi, torna;
Qui roco ancor di morte il telo romba,
Qui la tua morte appiattata soggiorna.

Qui il cavo suol de' sepolcri rimbomba
De la tua pube, che ancor par che gema:
Vieni in Italia, e troverai la tomba.

Altra volta scendesti avido, e scema
Ti fu l'audacia temeraria e sciocca:
Rammenta i campi di Marengo, e trema.

Ché la fatal misura ancor trabocca;
Non affrettar de la vendetta il die,
Il dì che impaziente è su la cocca.

Pace avesti pur anco, e questa fie
La novissima volta; in l'alemanno
Confin le tigri tue frena e le arpie.

Ma tu, misera Insubria, d'un Tiranno
Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille.
Ahi che d'uno passasti in altro affanno!

Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti estrane
Son le tue voglie e le tue forze ancille.


Langue il popol per fame, e grida: “pane”;
E in gozzoviglia stansi e in esultanza
Le Frini e i Duci, turba, che di vane

Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
A piena bocca sclamando: Eguaglianza;

Il volgo, che i delitti e la nefanda
Vita vedendo, le prime catene
Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.

De l'inope e del ricco entro le vene
Succian l'adipe e 'l sangue, onde Parigi
Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.

E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e chino.
E tal di risse amante e di litigi

D'invido morso addenta il suo vicino,
Contra il nemico timido e vigliacco,
Ma coraggioso incontro al cittadino.

Tal ne' vizj s'avvolge, come ciacco
Nel lordo loto fa; soldato esperto
Ne' conflitti di Venere e di Bacco.

E tal di mirto al vergognoso serto
Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
Ricco d'audacia, e povero di merto.

Tal pasce il volgo di sonanti fole:
Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
E liberal non è che di parole.

E questi studio d'allargare il censo
Avito rode, e quel tal altro brama
Di farsi ricco di tesoro immenso.


Senti costui, che “morte, morte” esclama,
E le vie scorre, furibonda Erinni,
Di sangue ingordo, e dove può si sfama.

Vedi quei, che sua gloria nei concinni
Capei ripone. Oh generosi Spirti
Degni del giogo estranio e de' cachinni!

Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti
Risveglia alfine, e da l'olente chioma
Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.

Ve' come t'hanno sottomessa e doma,
Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
La Tirannia, che Libertà si noma.

Mira le membra illividite e i tuoi
Antichi lacci; l'armi, l'armi appresta,
Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.

E a l'elmo antico la dimessa cresta
Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
E stringi l'asta ai regnator funesta;

Come destrier, che fra l'erbette e i fiori,
Placido, in diuturno ozio recuba,
Sol meditando vergognosi amori,

Scote nitrendo la nitente giuba,
Se il torpido a ferirlo orecchio giugne
Cupo clangor di bellicosa tuba,

E stimol fiero di gloria lo pugne,
Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,
E l'indegno terren scalpe con l'ugne.

Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,
Che fosti serva, ed or sarai reina.


Disse e tacque, raggiandomi d'un riso,
Che del mio spirto superò la forza,
Così ch'io ne restai vinto e conquiso.

Mi scossi, e la rapita anima a forza,
Come chi tenta fuggire e non puote,
Cacciata fu ne la mortale scorza.

Io restai come quel che si riscote
Da mirabile sogno, che pon mente
Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.

O Pieride Dea, che 'l foco ardente
Ispirasti al mio petto, e i sempiterni
Vanni ponesti a la gagliarda mente,

Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e governi,
E i nomi incidi nel Pierio legno,
Che non soggiace al variar de' verni.

Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,
Tu co' suoi divi carmi il vizio fiedi,
E volgi l'alme a glorioso segno.

Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi
La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.

Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,
E l'avanzi talor; d'invidia piene
Ti rimiran le felle alme da lungi,

Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.

Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
Cigni non già, ma Corvi da carogne.



Ma tu l'invida turba addietro lassi,
E le robuste penne ergendo, come
Aquila altera, li compiangi, e passi.

Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l'invidia, al proprio danno industre,
Da le inquiete sibilanti chiome.

Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
A me fo scorta ne l'arringo illustre.

E te veggendo su l'erto cacume
Ascender di Parnaso alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.

Forse, oh che spero! io la seconda vita
Vivrò, se a le mie forze inferme e frali
Le nove Suore porgeranno aita.

Ma dove mi trasporti, estro? mortali
Son le mie penne, e periglioso il volo,
Alta e sublime è la caduta; l'ali

Però raccogli, e riposiamci al suolo.

Urania

Su le populee rive e sul bel piano
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva coronate attolle
La mia città le favolose mura,
Prego, suoni quest'Inno: e se pur degna
Penne comporgli di più largo volo
La nostra Musa, o sacri colli, o d'Arno
Sposa gentil, che a te gradito ei vegna
Chieggo a le Grazie. Ché dai passi primi
Nel terrestre viaggio, ove il desio
Crudel compagno è de la via, profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio de le Muse antico.
Né fuggitive dai laureti achei
Altrove il seggio de l'eterno esiglio
Poser le Dive; e quando a la latina
Donna si feo l'invendicato oltraggio,
Dal barbaro ululato impaurite
Tacquero, è ver, ma l'infelice amica
Mai non lasciar; ché ad alte cose al fine
L'itala Poesia, bella, aspettata,
Mirabil virgo, da le turpi emerse
Unniche nozze. E tu le bende e il manto
Primo le desti, e ad illibate fonti
La conducesti; e ne le danze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu de l'ira maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo
Su la vedova terra il sole invia,
Nol sa la valle ancora e la cortese
Vital pioggia di luce ancor non beve,
E già dorata il monte erge la cima.
A queste alme d'Italia abitatrici

Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Ché vil fra 'l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
Interrogar che valga a l'infelice
Mortal del canto il dono. Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l'ingrato
Recar le Muse. Urania al suo diletto
Pindaro li cantò. Perché di tanto
Degnò la Dea l'alto poeta e come,
Dirò da prima; indi i celesti accenti
Ricorderò, se amica ella m'ispira.
Fama è che a lui ne la vocal tenzone
Rapisse il lauro la minor Corinna
Misero! e non sapea di quanto dio
L'ira il premea; ché a la famosa Delfo
Venendo, i poggi d'Elicona e il fonte
Del bel Permesso ei salutando ascese;
Ma d'Orcomene, ove le Grazie han culto,
Il cammin sacro omise. Il dévio passo
Vider da lunge e il non curar superbo
Del fatal giovanetto le Immortali,
E promiser vendetta. Al meditato
Inno di lode liberato il volo
Pindaro avea, quando le belle irate,
Aerie forme a mortal guardo mute,
Venner seconde di Corinna al fianco.
Aglaja in pria su la virginea gota
Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite
Raggio di gioja le diffuse in fronte:
Ma la fragranza de' castalj fiori
Che fanno l'opra de l'ingegno eterna,
Eufrosine le diede; e tu pur anco,
Dolce qual tibia di notturno amante,
Lene Talia, le modulasti il canto.
Di tanti doni avventurata in mezzo
Corinna assurse: il portamento e il volto
Stupia la turba, e il dubitar leggiadro

E il bel rossor con che tremando al seno
Posò la cetra; e, sotto la palpebra
Mezza velando la pupilla bruna,
Soave incominciò. Volava intorno
La divina armonia che, con le molli
Ale i cupidi orecchi accarezzando,
Compungea gl'intelletti, e di giocondo
Brivido i cori percotea. Rapito
L'emulo anch'ei, non alito, non ciglio
Movea, né pria de' sensi ebbe ripresa
La signoria, che verdeggiar la fronda
Invidiata vide in su le nere
Trecce di lei, che fra il romor del plauso
Chinò la bella gota ove salia
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
Di dolor punto e di vergogna, al volgo
L'egregio vinto si sottrasse, e solo
Sul verde clivo, onde l'aeria fronte
Spinge il Parnaso, s'avviò. Dolente
Errar da l'alto Licoreo lo scòrse
Urania Dea, cui fu diletto il fato
Del giovanetto, e di blandir sua cura
Nel pio voler propose. È nei riposti
Del sacro monte avvolgimenti un bosco
Romito, opaco, ove talor le Muse,
Sotto il tremolo rezzo esercitando
L'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbe
Da mortal orma non offese ancora.
A l'entrar de la selva, e sovra il lembo
Del vel che la tacente ombra distende,
Balza l'Estro animoso, e de le accese
Menti il Diletto, e, ne la palma alzata
Dimettendo la fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio, che per man lo tiene.
Bella figlia del Tempo e di Minerva
V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva. A l'appressarsi,

De l'aura sacra a l'aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
Sentia l'eletto, ed una fiamma leve
Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
Poi che ne l'alto de la selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l'altezza
Del solitario trono, e nel segreto
Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato a l'imo,
Né mai grado calcar né offender sasso;
Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la celeste. Indi la fronte
Spoglia di raggi, e d'ale il tergo, e vela
D'umana forma il dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de' carmi e de la lira
A Pindaro maestra; e tal repente
A lui s'offerse. Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta
Speme d'onor mi lusingasti in vano?
Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
E blandamente gli sorride in volto
Perch'ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno. Onde sì ratto
“L'anima tua è da viltate offesa”?
Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant'alto io promettea. Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl'Immortali alcuno
Rendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,

Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L'egro mio spirto consolar col canto.
Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d'uom che d'udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l'erba s'adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest'Inno
Che in minor suono il canto mio ripete.
Fra le tazze d'ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De' paterni conviti eran le Muse
Ne' palagi d'Olimpo, e le terrene
Valli non use a visitar; ma primo,
Scola e conforto de la vita, in terra
Di Giove il cenno le inviò. Vedea
Giove da l'alto serpeggiar già folta
La vaga mortale orma, e sotto il pondo
Di tutti i mali andar curvata e cieca
L'umana stirpe: del rapito foco
Piena gli parve la vendetta; e a l'ira
Spuntate avea l'acri saette il tempo.
Alfin più mite ne l'eterno senno
Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le Dire empio governo
Fer de la terra; assai ne' petti umani
Commiser d'odj, e volser prone al peggio
Le mortali sentenze. Di felici
Genj una schiera al Dio facea corona,
Inclita schiera di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor nome). A questi in pria
Scorrer la terra e perseguir le crude
De l'uom nemiche ed a più miti voglie
Ricondur l'infelice, impose il Dio.
Al basso mondo ove la luce alterna,
Sceser gli spirti obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in van; ché non levossi

A tanto raggio de' mortali il guardo;
E di Giove il voler non s'adempìa.
Però baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà che a l'impotente è freno,
Stimolo al forte; essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento. Al desco
Del Tonante le Muse una concorde
Movean d'inni esultanza; inebriate
Tacean le menti de gli Dei; fe' cenno
Ei la destra librando; e la crescente
Del volubile canto onda ristette
Improvviso. Raggiò pacato il guardo
A le Vergini il Padre; e questo ad elle
D'amor temprato fe' volar comando,
Figlie, a bell'opra il mio voler ministre
Elegge or voi. Non conosciute ancora
Errar vedete le Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra: d'amor santo indarno
Arder tentaro i duri petti, e vinte
Farsi de l'ardue menti aprir le porte:
La forza sol de l'arti vostre il puote:
Là giù dunque movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie; e senza voi men bella
Già la mia reggia il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio e da le labra rise
Blandamente. Al divino atto commossa
Balzò l'eterea vetta, e d'improvviso
Di tutta luce biondeggiò l'Olimpo.
Nel primo aspetto de la terra intanto
Il lungo duol de le Virtù neglette
Vider le Muse: ma di lor la prima
Chi fu che volse le propizie cure
I bei precetti ad avverar del Padre?
Calliope fu che fra i mortali accorta
Orfeo trascelse; e sì l'amò che il nome
A lui di figlio non negò. Vicina
A l'orecchio di lui, ma non veduta,

Stette la Diva, e de l'alunno al core
Sciolse la bella voce onde si noma.
Il bel consiglio di Calliope tutte
Imitar le sorelle; e d'un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L'alme col canto ivan tentando, e l'ira
Vincea quel canto de le ferree menti.
Così dal sangue e dal ferino istinto
Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l'avvenir fa servo,
Levar di nova forza avvalorato.
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
La compagnia de gli stranier divini,
Che a le Dire fea guerra. Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea,
Orribil mostro che ferisce e ride,
Vider Pietà che, mollemente intorno
Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici
Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l'Offesa
Vider, gl'ingegni provocando, e mite
Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.
Blando a la Dira ei s'offeria: seguace
Lenta ma certa, l'orme sue ricalca
Nemesi, e quando inesaudito il vede,
Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fine
Ne gl'iterati giri, orba dinanzi
Le vien l'Offesa: al tacit' arco impone
Nemesi allor l'amata pena; aggiunge
L'aerea punta impreveduta il fianco,
E l'empio corso allenta. Inonorata
La Fatica mirar, che gli ermi intorno
Campi invano additava, a cui per anco

Non chiedea de la messe il pigro ferro
Gli aurei doni dovuti: a lei compagno
L'Onor si fea; se forse a la sua luce
Più cara a l'occhio del mortal venisse
L'utile Dea. Vider la Fede, immota
Servatrice dei giuri, e l'arridente
Ospital Genio che gl'ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera dia ne l'opra affaticarsi.
Videro, e novo di pietà, d'amore
Ne gli attoniti surse animi un senso,
Che infiammando occupolli. E già de' lieti
Principj in cor secure, il plettro e l'arte
Sacra del plettro ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie il dilettar donaro
E il suader potente. Essi a la turba
Dei vaganti fratelli ivan cantando
Le vedute bellezze. Al suon che primo
Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico
Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,
Che provasti, o mortal, quando sul core
La prima stilla d'armonia ti scese?
Quale a l'ara de' Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e tremolando rosse
Su le brage stridenti erran le fiamme,
Se la man pia del sacerdote in esse
Versi copia d'incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi il foco, e dal placato
Ardor repente un vortice s'innalza
Tacito, e tutto d'odorata nebbia
Turba l'etere intorno e lo ricrea;
Tal su i cori cadea rorido, e l'ira
V'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama. A l'uom così le prime
Virtù fur conosciute onde beata,
Quanto ad uom lice, e riposata e bella
Fassi la vita. Allor in cor portando

Il piacer de l'evento, e la divina
Giocondità del beneficio in fronte,
A l'auree torri de l'Olimpo il volo
Rialzar le Camene. Ivi le prove
De l'alma impresa e le fatiche e il fine
Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di lui scorrea quel dolce
Canto a l'orecchio dei miglior, la lode.
Ma stagion lunga ancor volta non era,
Che ne le Nove ritornate un caro
De la terra desio nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
Che un gentil fatto ti rimembri: e questa
Elesser sede che secreta intorno
Religion circonda, e, l'arti antiche
Esercitando ancor, l'aura divina
Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno
Colpir le menti d'immortal parola.
E te dal nascer tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro, Urania. E s'oggi, o figlio,
Tanto amor non ti valse, ell'è d'un Nume
Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto
Negasti, a l'alme del favor ministre
Dee, senza cui né gl'Immortai son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
È di gentile, e sol qua giù nel canto
Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna de le Grazie attinga;
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega. E la rapita lode
Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de le digiune frondi:
Ed ecco il verno la dissipa; e intanto
Tacitamente il solitario arbusto
Gran parte abbranca di terreno, e, mille


anzoni, durante la sua  attività  letteraria,  meditò     
M
Rami nutrendo nel felice tronco,
Al grato pellegrin l'ombra prepara.
Signor così de gl'inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l'amor mio rimembri. ?
Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,
Candida luce la ricinse: aperte
Le azzurre penne s'agitar sul tergo,
Mentre nel folto de la selva al guardo
Del suo Poeta s'involò. La Diva
Ei riconobbe, e di terror, di lieta
Maraviglia compunto, il prezioso
Dono tenea: ne l'infiammata fronte
Fremean d'Urania le parole e l'alta
Promessa e il fato: e la commossa corda,
Memore ancor del pollice divino,
Con lungo mormorar gli rispondea.

Benedetto o Gaudenzio Bordiga Ritratto di Alessandro Manzoni 1802 - disegno - Milano - Biblioteca Nazionale Braidense in deposito al Centro Nazionale Studi Manzoniani