La poetica del Manzoni
moltissimo sul fine della letteratura, il ruolo del poeta nella società, i mezzi di cui potesse servirsi, il pubblico cui dovesse rivolgersi, il valore e la sostanza dei diversi generi letterari, ecc. Egli pertanto ci ha lasciato esposte le sue idee in merito, in una serie di scritti che vanno dal carme “In morte di C. Imbonati”, del 1806, al discorso “Del romanzo storico”, del 1850. Tra l’uno e l’altro stanno la “Lettera al Signor Chauvet”, la “Prefazione” alla tragedia “Carmagnola”, la “Lettera al marchese C. D’Azeglio” nota anche come lettera sul Romanticismo, il dialogo “Dell’invenzione”. A parte vanno considerati invece i diversi scritti sulla lingua.
Abbiamo per primo citato il carme “In morte di C. Imbonati” perché esso contiene alcune dichiarazioni che già hanno a che fare con la poesia. Quando infatti nella finzione poetica il giovane Alessandro chiede all’Imbonati dei precetti da poter seguire nella sua vita, il vecchio così gli dice: “Sentir e meditar... non ti far mai servo /non far tregua coi vili: il santo Vero /mai non tradir: né proferir mai verbo /che plauda al vizio o la virtù derida...”. Ora da questi versi è sicuramente lecito trarre un indirizzo di natura artistica che si esprime nel rifiuto di una poesia servile, o anche semplicemente encomiastica, e di ogni forma di compromesso con il potere politico dominante, nonché il carattere morale dell’arte che non può indulgere alle passioni e ai vizi degli uomini. Vi è poi il riferimento esplicito al Vero, che costituirà per Manzoni oggetto di riflessioni che nel tempo andarono sempre più approfondendosi e meglio chiarendo.
Nella “Lettera al Signor Chauvet” e nella “Prefazione” al “Carmagnola” egli discute della liceità del genere drammatico e delle scelte tecniche da lui operate. Occorre ricordare, per comprendere ciò, che sul genere tragico pesava da una parte una precettistica di eredità rinascimentale, e, dall’altra, la condanna dei moralisti francesi, in particolare di Nicole e di Bossuet. In polemica contro questi filosofi Manzoni afferma che la tragedia di per sé non è né morale né immorale, che tale diviene solo in rapporto ai contenuti che le si danno, ed osserva che la condanna dei moralisti era scaturita da un’analisi limitata al sistema tragico francese. Per quanto riguarda invece la precettistica, lo scrittore respinge la necessità del ricorso sia all’unità di tempo che a quella di luogo, per le quali l’azione dovrebbe svolgersi dall’inizio alla fine tutta in uno stesso luogo e nell’arco di tempo di un giorno. Queste regole per Manzoni andavano rifiutate perché non in sintonia con gli altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie e, soprattutto, provocano la caduta di quello fondamentale della verosimiglianza. D’altra parte egli osservava che le migliori opere prodotte nel passato sono proprio quelle degli autori che non ne tennero conto. Ovviamente egli poi pensava che fosse da conservare l’unità d’azione come la sola capace di garantire all’opera un carattere unitario. Ciò posto lo scrittore rende ragione della novità dell’introduzione del coro nelle sue tragedie. L’idea egli confessa essergli venuta leggendo quanto Schlegel aveva scritto nel suo “Corso di letteratura drammatica” a proposito della tragedia greca antica. Manzoni riteneva un coro del tipo di quello della tragedia greca non combinabile con il sistema tragico moderno; tuttavia pensava che se fosse stato indipendente dall’azione, avrebbe potuto essere giovevole “riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria” diminuendo così “la tentazione di introdursi nell’azione e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti”. E’ chiara con ciò la volontà dello scrittore di realizzare una poesia oggettiva, libera dalla presenza della personalità dello scrittore, ma anche la volontà di guidare, proprio attraverso il commento all’azione che il coro esprime, la riflessione dello spettatore, o lettore che fosse.
Ma il documento più importante della poetica manzoniana è certamente la “Lettera al marchese Cesare D’Azeglio” altrimenti nota come “Lettera sul Romanticismo”. Nonostante la denominazione, si tratta di un vero e proprio saggio che può essere diviso in due parti: la prima, di polemica contro i classicisti; la seconda di esposizione di quei concetti che stanno a fondamento della poesia romantica italiana. Nella parte polemica, o “negativa”, egli tende ad escludere l’uso della mitologia, l’imitazione dei classici, le regole fondate su fatti speciali e non su principi generali. Queste stesse questioni furono dibattute anche dagli altri scrittori romantici, ma Manzoni vi portò una rara incisività e chiarezza di ragionamento e, per quanto riguarda il rifiuto della mitologia, una motivazione nuova ed originale. Se gli altri infatti la consideravano cosa fredda, incapace di suscitare vere emozioni e memorie, cosa noiosa, ridicola, Manzoni poi la rifiutò soprattutto per un motivo ideologico e la definì “nuova idolatria”. La mitologia infatti ai suoi occhi “non consisteva soltanto nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali...ma anche nel desiderio delle cose terrene, delle passioni, de’ piaceri portato fino all’adorazione; nella fede in quelle cose come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare”. Ora per Manzoni l’uso della mitologia in poesia diventa un mezzo per conservare quei valori su cui si fondò il mondo pagano, e l’effetto che produce non può che essere quello di “trasportarci alle idee di quei tempi in cui il Maestro non era venuto...di farci parlare oggi, come se Egli non avesse insegnato” , insomma di farci amare tutto quello che Cristo intese combattere. Quanto alla seconda parte, quella “positiva” , il succo del discorso si può condensare nella formuletta che appariva nella prima stesura del documento, con la quale si diceva che l’arte dovesse proporsi “l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo”. Questi tre elementi risultano strettamente connessi tra loro, ma non devono far pensare ad una variante dell’oraziano miscère utile dulci (unire utile e dilettevole). Per rendersene conto giova fermare l’attenzione sul concetto di vero. Al tempo della composizione delle tragedie Manzoni lo aveva fatto coincidere con la verità della storia, subito chiarendo però la differenza tra vero storico e vero poetico. Nella Lettera allo Chauvet questi sono visti come complementari l’uno dell’altro e tali da completarsi a vicenda. Compito dello storico infatti sarebbe illustrare i fatti, quello del poeta invece ricostruire i sentimenti, le passioni, le sofferenze che li determinarono e che ne conseguirono, illustrandoli così dall’interno del cuore umano e badando a ciò che lo storico di professione non può notare. Nella lettera sul Romanticismo questo concetto di vero si amplia. L’autore stesso dichiara che è qualcosa di diverso rispetto a ciò che ordinariamente si vuole esprimere con questa parola, lasciando quindi intendere che possa coincidere con le verità morali del Cristianesimo. Tornando ora alla succitata formuletta, occorre specificare anche che quando il poeta parla di interessante vuole semplicemente combattere l’accademismo fumoso e retorico e, nello stesso tempo, proporre una poesia che non sia fredda ed astratta, ma tale da poter essere “sentita” dal lettore, trovando rispondenza nella sua realtà quotidiana. Una poesia cioè, come diceva anche Berchet, ancorata al tempo presente, espressione dei problemi, delle esigenze, delle aspirazioni, dei sentimenti dei contemporanei; capace di riflettere la realtà e la società da cui nasce. Questo interessante perciò sottintende anche lo speciale destinatario, che non è più il pubblico delle Accademie e dei letterati, bensì quello che i romantici chiamavano “popolo”. A questo punto siamo in grado di comprendere anche il reale significato dell’espressione “utile per iscopo”. E’ chiaro infatti che qui non si tratta più di un utile spicciolo, pratico; non siamo di fronte ad una riproposta dell’estetica didascalica volta a fornire, attraverso la poesia, insegnamenti di varia natura. L’utile di cui parla Manzoni è quello d’ordine superiore, quello etico, che afferisce alla vita dello spirito. La poesia così viene destinata a provocare la crescita spirituale e morale dell’individuo e della nazione.
Lo scritto successivo fu il trattato “Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione” pubblicato nel 1845. Qui Manzoni torna sui problemi affrontati nella Lettera allo Chauvet e finisce con il pronunciare una condanna di tutte le opere in cui storia ed invenzione poetica si mescolino. Egli ormai era convinto che questa mescolanza non fosse ammissibile e che generasse qualcosa di sostanzialmente inautentico. Né ritenne più che storia e poesia potessero convivere, avendo esse oggetti diversi, la prima cioè mirando al vero, la seconda al verosimile. La conclusione fu che non esiste che una verità che è quella della storia. Conseguentemente, ed incredibilmente, Manzoni arrivò così a condannare le sue tragedie e lo stesso romanzo.
Nel 1850 infine lo scrittore pubblicò il dialogo “Dell’invenzione”. Qui finalmente egli risolse il problema del vero identificandolo non più nella Storia, ma con una verità ideale che la trascende, non creata dal poeta, ma rinvenibile nelle cose (di qui il termine “invenzione” del titolo, dal latino invenio=trovo) e negli avvenimenti; verità che finisce con il coincidere con la Rivelazione cristiana.
Concludendo possiamo con N. Sapegno dire che “una poetica siffatta esclude ogni forma di abbandono sentimentale, di compiacimento idillico, di divertimento fantastico; essa bandisce e allontana da sé per sempre ogni concetto della poesia come lirica effusione...tende cioè a mettere in primo piano l’oggettività della materia poetica e a collocare in ombra, fin quasi ad annullarlo, l’intervento soggettivo dello scrittore...E in quanto supremamente oggettiva, questa poetica vuol essere anche realistica”. Essa pose infine anche l’esigenza di una lingua antiaccademica, viva e reale, di immediata comprensione e forza espressiva.