GLI SPETTACOLI
ALLEGORIA
I giuochi adonii instituiti da Venere nell’essequie d’Adone, sono per farci intendere che quegli amici, i quali veramente di cuore amano, non lasciano con tutte l’ufficiose dimostrazioni possibili d’onorare eziandio dopo la morte la memoria di coloro che hanno amati in vita. Nella giostra, che dopo il tirar dell’arco, il ballo, la lotta e la scherma de’ due precedenti, è lo spettacolo del terzo ed ultimo giorno, oltre i cavalieri barbari che v’intervengono, sono adombrate molte famiglie principali d’Italia. Tra le romane ven’ha primieramente quattro che vengono da pontefici, come Farnesi, Peretti, Aldobrandini e Borghesi. L’altre che seguono sono Colonnesi, Orsini, Conti, Savelli, Gaetani, Sforzi, Cesarini, Cesi, Crescenzi, Frangipani, Molari, Cafarelli, Santacroci e Mattei. Vi si aggiugne di più il giovane sposo Lodovisio, nipote di papa Gregorio il decimoquinto, congiunto ultimamente in matrimonio con la Gesualda, principessa di Venosa. Per la persona di Sergio Carrafa s’intende il prencipe di Stigliano, che così, per quanto dicono, si chiamò il primo capo di quella casa. Ne’ tre fratelli che vengono appresso si figurano i tre figliuoli secolari del serenissimo duca di Savoia; l’uno è detto Doresio dalla Dora, fiume del Piemonte; l’altro Alpino dall’Alpi, presso allequali è il dominio di que’ prencipi; il terzo Leucippo, che vuol dire cavallo bianco, ilquale è la divisa antica di quelle altezze. I due che sono gli ultimi a comparire rappresentano Spagna e Francia. Austria si nomina la guerriera, ch’è il cognome dell’una; Fiammadoro il cavaliere, cioè Oriflamma, ch’è l’istoria nota dello scudo dell’altra. A quella si danno ed il leone e l’aquila, l’uno per esser l’arme di Castiglia, l’altra per la possessione dell’Imperio e l’uno e l’altra come geroglifici della magnanimità. A questo si danno il giglio ed il gallo, l’uno per significare il sudetto scudo, l’altro perché allude al nome della Gallia ed è dedicato a Marte, che predomina quella nazione. Nella battaglia che passa tra loro si accennano le guerre passate; e negli amori che succedono tra amendue si dinota il maritaggio seguito tra questa corona e quella. Il pronostico d’Apollo sopra lo scudo di Vulcano contiene le lodi del re Lodovico ed in breve compendio tutti i progressi della guerra mossa contro gli ugonotti.
ARGOMENTO
Dopo l’essequie nobili e pompose
Venere instituisce i giochi estremi
e, compartiti ai vincitori i premi,
il vel si squarcia ale future cose.
1
Ed ecco alfin, dopo camin sì lungo
scorge la meta il mio corsier già stanco,
onde con maggior fretta io sferzo e pungo
al pigro ingegno il travagliato fianco.
Già la voce vien men, ma mentr’io giungo
presso al’estremo, augel canoro e bianco,
vorrei, purgando il rauco spirto alquanto,
far vie più dolce e non mortale il canto.
2
Qual volubile ordigno il cui volume
misura quelche dà misura al moto,
giunto al tocco del’ora, oltre il costume
veloci i giri accelerando io roto.
Quasi lucerna, in cui s’estingue il lume
quando il vasel d’ogni alimento è voto,
svegliando il vigor languido, mi sforzo
raddoppiar lo splendor mentre l’ammorzo.
3
Somiglio peregrin che’nfermo e fioco
trascorsa già quella contrada e questa,
del patrio tetto e del paterno foco
scoprendo i fumi, i voti al tempio appresta.
Sembro nocchier, che fatto un tempo gioco
per l’immenso ocean dela tempesta,
tosto che dela riva arriva al segno
ripiglia il remo e dà la spinta al legno.
4
Son Leandro novello a cui tra l’onde
mostra lucida lampa eccelsa rocca.
Ma, mentre da vicin mira le sponde,
mentre ch’ador ador la terra tocca,
in guisa il mar orribile il confonde
che gli manca tremante il fiato in bocca
e lasciar teme, pria ch’attinga il lido,
tra gli scogli sommerso, il debil grido.
5
Pur tale e sì benigna è la mia scorta,
sì chiara splende e sì serena e bella,
che dal polo real mi riconforta
in sì dubbiosa e torbida procella;
né tem’io già che mi sia spenta o morta,
perché mai non tramonta artica stella
e può più tosto il sol perder la luce
che quel raggio immortal che mi conduce.
6
Dunque, che fai? Rinfranca ed avalora,
ahi lento nuotator, le forze oppresse.
Ben ha tanto il tuo stil di lena ancora
che ti basta a compir l’alte promesse.
Ecco già desta in ciel sorge l’aurora,
sorga la musa al bel lavor che tesse;
già con l’ultimo fil Febo la chiama
dela gran tela a terminar la trama.
7
La ninfa d’oriente aprendo il grembo
tra nuvoletti candidi e vermigli,
dolce versava ed odorato nembo
di pura manna e di celesti gigli.
Garriano intorno al rugiadoso lembo
i dipinti del’aria alati figli
e per l’ampio seren Favonio e Clori
scoteano i vanni e precorrean gli albori.
8
Sereno il ciel, d’un’aurea luce viva
fregiava l’aere puro e cristallino
e d’odor molli, mentre il sole usciva,
seminava le vie del suo camino;
ed ala funeral pompa festiva
apria dal’uscio d’oro e di rubino,
da mille trombe salutato intorno,
di mille lampi incoronato il giorno.
9
Tranquillo il mar, del’onde sue facea
senz’alcun monte una pianura eguale
e quasi una gran tavola parea
tinta di schietto azzurro orientale;
e come in specchio di zaffir, v’ardea
in tal guisa del ciel l’oro immortale,
che detto avresti o che nel mar profondo
sommerso è il sole o ch’ha duo soli il mondo.
10
Verdeggiante la terra e di bei fiori
vestito il prato e di color novelli,
richiamava, ridendo, i suoi pastori
ale ghirlande, ai pascoli gli agnelli.
Spandea liet’ombre il bosco e, spettatori
de’ bei certami i venti e gli arboscelli,
taceano intenti al nobile apparato
fermando il moto e sospendendo il fiato.
11
Tratta i zefiri a volo e l’aria scorre
del celeste senato il messo eterno;
e non fa sol le deità raccorre
ch’han dela terra o ch’han del ciel governo,
ma chiamata vi tragge e vi concorre
del pelago la turba e del’inferno.
Sol Marte irato e sol Vulcan dolente
non volse ai propri scorni esser presente.
12
Ad onorar le dolorose feste,
instituite al funeral d’Adone,
dalo stellante suo trono celeste
col consorte immortal scese Giunone.
Per sì nove mirar pompe funeste
la cieca reggia abbandonò Plutone.
E per far quell’onor vie più sollenne
il gran Giove del’acque anco vi venne.
13
Oltre Cerere e Bacco, oltre la madre
del forte Achille e’l figlio di Latona,
d’altri dei, d’altre dee v’ha varie squadre,
Berecinzia con Cinzia, Isi e Bellona:
Temi e Vesta vi son, né men leggiadre
Iride ed Ebe e Flora evvi e Pomona,
Giano, Como, Talassio, indi s’asside
tra gli immortali immortalato Alcide.
14
L’ordin non si confonde, a ciascun dassi
secondo il proprio merito la sede;
e Mercurio, il mazzier, dispon le classi
e d’onor pari al grado altrui provede.
A tutti gli altri dei, che stan più bassi,
con l’alta sposa il gran motor precede,
e giù deposto il fulmine tra loro
eminente si mostra in soglio d’oro.
15
Dopo colui che l’universo regge,
ponsi il signor che sovra l’onde regna.
Ai principi minor ch’han da lui legge
loco non lunge inferior s’assegna.
Tien presso al gran Nettun le prime segge
Nereo con Forco e gente altra più degna.
Stan con mill’altri poi cerulei numi
degli umid’antri usciti, i vecchi fiumi.
16
Segue terzo la serie il re profondo,
genero dela dea che’n Etna impera,
e seco ha quella che dal nostro mondo
discese ad abitar la città nera.
Succede, setoloso e rubicondo,
lo dio d’Arcadia con la rozza schiera;
corna e piante ha salvatiche e caprigne
e di minio le guance ognor sanguigne.
17
V’è, di ferula cinto e di ginestra,
Silvan, del’ombre l’arbitro canuto,
che Pale a manca ed ha Vertunno a destra,
dintorno un folto essercito cornuto,
rustica gioventù, plebe silvestra,
il satiro lanoso e’l fauno irsuto,
e presso a questi in non sublime scanno
geni, lari, cureti assisi stanno.
18
Gran piano innanzi ala superba entrata
del bel palagio ove Ciprigna alloggia,
spazioso vestibulo dilata
sotto l’alte finestre e l’ampia loggia,
che s’allarga e distende in piazza ovata,
quasi di circo o di teatro a foggia.
Ha la tela nel mezzo e come s’usa
di palancati e di bertesche è chiusa.
19
Scena è di lieti giochi e par steccato
fatto per diffinir risse e duelli,
tra ben salde colonne incatenato
di graticci pertutto e di cancelli;
ed ha da’ capi al’un e l’altro lato
due porte con barriere e con rastelli,
per cui passando poi, denno i campioni
rappresentar pacifiche tenzoni.
20
Non sol di Cipro i popoli e i vicini
sono al’alto spettacolo presenti,
ma da vie più remoti altri confini
vi convengono ancor straniere genti.
Paesani non men che peregrini
stan su i balconi ale bell’opre intenti.
Parte occupano intorno i catafalchi,
le sbarre il vulgo e’l baronaggio i palchi.
21
Poiché già pieno il campo in ogni parte
scorge la bella dea nata di Giove,
appresta i premi ai giochi e gli comparte
per dispensargli ale future prove.
Fa varie spoglie sue porre in disparte
e tutte rare e preziose e nove
e l’inalza e sospende, accioché sproni
sieno dela virtute i guiderdoni.
22
In alto tribunal stassene assisa,
per poter più spedita aver la vista
e, mentre ingiù lo sguardo intenta affisa,
giudicar meglio chi più loda acquista.
Intanto con l’insegna ala divisa
di porpora e d’argento a lista a lista
l’araldo con tre suoni intima il bando,
poi publica il cartel così gridando:
23
– La dea del terzo cielo in rimembranza
del morto Adon, ch’ha tanto amato in vita,
de’ sacri onori la pietosa usanza
per tre giorni continui ha stabilita.
Oggi, ch’è il primo, al’arco ed ala danza
con bella pugna i concorrenti invita;
negli altri duo vuol che si venga in mostra
ala lotta, ala scherma ed ala giostra.
24
Ben fian dela vittoria i pregi tali
che non saranno invan sparsi i sudori,
né poveri di palme trionfali
invidia avranno i vinti ai vincitori.
Chiunque in guisa indrizzerà gli strali,
che riporti in colpire i primi onori,
o per valore o per fortuna avegna,
ricompensa del’opra avrà ben degna.
25
Quella faretra avrà che colà pende
e di sagri vermiglio ha l’ornamento,
con quell’arco di bosso a cui risplende
l’un capo e l’altro di polito argento.
Chi più vicino al primo il segno offende,
d’un nobil dardo rimarrà contento.
D’ebeno è l’asta, e’l ferro è di tai tempre
che qualvolta ferisce, uccide sempre.
26
Darassi al terzo d’immortale alloro,
degna non pur d’arcier ma di poeta,
ghirlanda che le fronde ha messe ad oro,
attorta a un cordoncel di verde seta.
Fia poscia di colui ch’avrà tra loro
l’ultimo grado in accertar la meta,
spiedo di duro e noderoso cerro
ch’arma la punta di lucente ferro. –
27
Qui tace, e risonar fanno l’agone
cent’altre trombe e nacchere e cornette.
Allor quivi legato ad un troncone
lontano alquanto un cavriuol si mette.
Questo, per ordin dela dea s’impone,
ch’esser deggia bersaglio ale saette.
Ed ecco al saettar destra e leggiadra
arciera in punto e faretrata squadra.
28
Tempo distruggitor d’ogni bell’opra,
ch’affondi i nomi entro l’oscuro oblio,
consenta il tuo rigor ch’io narri e scopra
i più degni tra lor nel canto mio.
O Fama e tu ch’impero eterno hai sopra
le forze invitte del tiranno rio,
tu mel rammenta e dal’etate avara
l’offuscate memorie a me rischiara.
29
Fassi avante Arabin che’n Guba nacque,
del’Arabia petrea nobil cittate,
ma per le selve essercitar gli piacque
contro le fere la robusta etate.
Vien Silvanel, che colà dove l’acque
sen va col Tigri a mescolar l’Eufrate,
crebbe in Apamia, avezzo a ferir solo
le folighe del mar che vanno a volo.
30
Havvi Foresto il troglodito arciero,
che’l deserto per patria ebbe nascendo,
selvaggio cacciator più che guerriero,
agli elefanti ed ai leon tremendo.
V’è Ferindo d’Arsacia, il parto fiero,
che combatter non sa se non fuggendo
e’l cavo arnese al tergo e’n pugno l’arco
di saettame avelenato ha carco.
31
Ermanto v’ha, di cui giamai più dotto
non ebbe in quel mestier l’indica terra.
E Fartete il pigmeo, che fu prodotto
ad aver con le gru perpetua guerra.
E v’è Fulgerio ancor ch’è cipriotto
e di mille un sol colpo unqua non erra,
e’l superbo Medonte il battriano
che d’acciaio lunato arma la mano.
32
S’accinge al’opra e cinge al fianco Ordauro
pien di ferrate penne aureo turcasso.
Il figliuol d’Euro Euripo, il gran centauro,
tal gloria ambisce e’l sericano Urnasso.
Né men di lor Brimonte ed Albimauro
la brama, ircano l’un, l’altro circasso.
Chiedela aprova Ucciuffo ed Anazarbo,
quegli è di Tracia allievo e questi alarbo.
33
E Tirinto e Filino, i duo fratelli,
mostran d’entrar nel numero desire,
nati in Tessaglia e di ferine pelli
vestiti e molto esperti a ben ferire.
Vogliono cento e cent’altri e questi e quelli
del primo gioco al paragone uscire.
Vuol, per accrescer liti, Amor istesso
ala prova del’arco esser ammesso.
34
Or per cessar gli sdegni, onde dolersi
sol dela sorte poi deggian gli esclusi,
scriver fa Citerea nomi diversi
e porgli in urna d’or serrati e chiusi;
e poich’ivi per entro alfin dispersi
son con più d’una scossa e ben confusi,
ad un ad un dal’agitato vaso
per la man d’un fanciul fa trargli a caso.
35
Dentro l’urna il fanciul la mano ascose
e Mitrane n’uscì nel primo scritto,
Mitrane, che lasciate ha le famose
sponde del fiume onde s’impingua Egitto.
Fatto è l’arco, ch’ei tien, di due ramose
corna d’un cervo di sua man trafitto
ed ha nel mezzo le divise punte
con bel manico eburneo insieme aggiunte.
36
D’un dragone african macchiato a stelle
voto scoglio squamoso ha per frecciera
e sgangherando l’orride mascelle
il teschio serpentin gli fa baviera.
Scalze ha le piante e con la bionda pelle
dela più brava e generosa fera
tra quante n’ha Getulia unqua produtte,
ammanta il resto dele membra tutte.
37
Ponsi per dritto filo incontro al segno,
la faretra si slaccia e la disserra
e, traendone fuora alato legno,
s’abbassa e posa un de’ ginocchi in terra.
Lo squadra intorno e con industre ingegno
in un punto con l’arco il ferro afferra.
In cima il tenta e tasta pria se punge,
indi al cordone il calamo congiunge.
38
Tien nela manca il corno, e la saetta
con l’altra mano insu la fune incorda.
Trae fin al destro orecchio a forza stretta
col grosso dito e l’indice la corda,
ch’un angolo divien di linea retta,
e l’occhio intanto con la mano accorda,
e dal’arco incurvato in mezza sfera
fa per l’aria volar l’asta leggiera.
39
Liberata la canna, ancorché fosse
la testa ita a ferir del cavriuolo,
però ch’impaurito il capo ei mosse,
died’alto e passò via rapida a volo.
Il tronco nondimen giunse e percosse
dove lo ritenea stretto il lacciuolo
e sì forte ad entrarvi andò la freccia,
ch’affissa gli restò nela corteccia.
40
Fu per sorte il secondo Arconte armeno
che la man pueril dal’urna trasse,
di fero latte ed ale fere in seno
nutrito in riva al sagittario Arasse,
la’ve Nifate, d’aspre selve pieno,
volge la fronte alpestra al gelid’asse
e dela tigre il fremito dolente
vedovata de’ figli, ode sovente.
41
Raso il mento e la chioma e bruno il volto,
lunga ha la giubba e d’un tabì cangiante,
sferico lino in larghe fasce involto
gli tesse intorno al capo ampio turbante.
Di scaglie d’oro intarsiate e scolto
l’arco ha d’orribil vipera sembiante;
serpe rassembra e’n quella parte e’n questa
chiude l’estremità gemina testa.
42
Grossa canna indiana acconcia in modo
di vagina agli strali, in campo tratta,
d’un sol bocciuol dal’un al’altro nodo
dal’istessa natura ad arte fatta.
Prende il suo posto e ben acuto e sodo
un ne sceglie tra molti e poi l’adatta.
D’un anel d’osso il maggior dito cinge,
indi il calce v’appoggia e l’arco stringe.
43
Stringe, col pugno manco, il legno torto,
col dritto a più poter la corda tira,
l’un piede indietro e l’altro innanzi sporto;
curva gli omeri alquanto insu la mira,
serra il lume sinistro e l’altro accorto
su l’asta aguzza e’l braccio al segno gira,
sbarra alfin l’arco e quel caccia lo strale;
fremono intorno l’aure e fischian l’ale.
44
Lieve più che balen, fendendo il cielo,
lo stral nel caprio a sdrucciolar sen viene.
Nol fiede già, né pur gli tocca il pelo
ma nel canape dà che preso il tiene.
Vien nela corda ad incontrarsi il telo
e fa tremar il cor, gelar le vene
ala fera che tenta a’ suoi legami
romper intutto i già sfilati stami.
45
Scotonsi allor gl’imbossolati brevi
e n’escon duo, l’un prima e l’altro dopo.
Frizzardo è l’un, con le quadrella lievi
uso a chius’occhi ad affrontar lo scopo,
natio del’arso e non da piogge o nevi
rinfrescato giamai clima etiopo,
là dove d’acque e d’ombre ognor mendica
soggiace al primo sol Siene aprica.
46
Cotta ha la pelle e tutto ignudo il busto,
sol cinto in mezzo di listati lini;
tinge la chioma arsiccia e’l pelo adusto
d’odoriferi unguenti e purpurini;
tien di piume vermiglie il capo onusto
e di folte saette impenna i crini,
e, coronata di sì strania cresta,
è faretra al’arcier la propria testa.
47
L’ultimo è Dardiren, là nel’arena
nato ove nasce il solitario Oronte,
la cui serpente e flessuosa vena
ha tra’l Libano e’l Tauro il primo fonte.
Garzon di crespo crin, d’aria serena,
di viso grato e di modesta fronte,
non sol famoso a guerreggiar con l’armi,
ma maestro de’ suoni anco e de’ carmi.
48
Duo archi, un dale corde un dagli strali,
usa e con l’un e l’altro egli ferisce.
Quello stampa in altrui piaghe vitali,
questo dà morte a chi sfidarlo ardisce;
e de’ corpi e de’ cori ha palme eguali
e la dolcezza ala fierezza unisce.
Sembra, di doppio arnese ornato il collo,
con la faretra e con la cetra, Apollo.
49
L’arco guerrier che l’arma e per traverso
dal’omero gli pende al fianco cinto,
è di tasso cornuto assai ben terso,
con purpureo carcasso insieme avinto.
Di vario smalto e di color diverso,
sicom’iride in ciel, tutto è dipinto;
iride sì, però che’n guerra o in caccia
sempre pioggia di strali altrui minaccia.
50
Con lieto mormorio, con molte e molte
voci d’applauso il nome altier si lesse,
perché sapean le turbe intorno accolte
quanto in quell’arte il giovane valesse;
sapean che’l nibbio e l’aghiron più volte
fè ch’a mezz’aria insu’l volar cadesse;
e ch’avria, nonche’n ciel giunto un augello,
diviso con lo strale anco un capello.
51
Prende alor l’arco in man prima Frizzardo,
ch’è fabricato del più bianco dente
e dala selva, ond’è crinito, un dardo
svelle qual più gli par saldo e pungente.
Il segno e’l sito essamina col guardo
ed al vantaggio suo volge la mente.
L’arco in mezzo sostien con la sinistra,
con la destra il quadrel gli somministra.
52
Incoccato ch’ei l’ha, pria che lo scocchi,
pria che’l forbito avorio allarghi e stenda,
piglia la mira e studia ben con gli occhi
dove l’un drizzi e come l’altro spenda.
La distanza misura accioché tocchi
in parte l’animal ch’egli l’offenda.
L’occhio, il braccio, la mano inun rassetta,
l’arco a tempo, la corda e la saetta.
53
Tragge il gomito indietro e la pennuta
verga verso la poppa accosta insieme.
In tondo il semicircolo si muta,
vanno a baciarsi le due punte estreme,
si dischiava la noce e l’asta acuta
salta e ronza per l’aria e fugge e freme.
L’arco il suo sesto alfin ripiglia e torna,
già rallentato, a dilatar le corna.
54
Ch’arrestasse la fera alquanto il moto
l’etiopico arcier non ben sostenne,
ond’ella allor ch’al sibilar di noto
sentì del novo stral batter le penne,
fatto sforzo maggior, non solo a voto
fu cagion che la freccia a cader venne,
ma spezzato il capestro ond’era avolta,
per la piazza fuggì libera e sciolta.
55
Per rabbia e per dolor la destra sciocca
si morde il negro che quel colpo ha fatto.
Ma Dardiren, che’l dardo ha su la cocca,
più non aspetta a scaricare il tratto.
Senz’altro indugio a sé tirando il tocca
e lascia andarlo impetuoso e ratto.
Per l’aria che, qual folgore, divide
striscia lo strale e strepitoso stride.
56
Dal’arco sorian la freccia uscita
e dala man che l’impeto le diede,
va la fera a trovar che sbigottita
move, già rotto il laccio, in fuga il piede
e la raggiunge e di mortal ferita
per lo fianco sinistro il cor le fiede
e’l colpo, onde di sangue il campo bagna,
con lieti gridi il popolo accompagna.
57
Tra i quattro allor saettatori egregi,
che fur dal caso a gareggiar promossi,
fè Citerea distribuire i pregi
a suon di vari bronzi e vari bossi.
Ma Dardiren de’ più superbi fregi
come il più degno e segnalato ornossi;
onde colui, che’l volto arso ha dal sole,
sdegnoso freme e con la dea si dole:
58
– Non per valor (dicea), ma per ventura
m’usurpa oggi costui le glorie prime,
che s’avess’io qual egli ha l’armatura,
giunto non fora a quest’onor sublime.
Di tempra è l’arco suo non molto dura
e guernite ha di corno ambe le cime,
corno di capro alpin ch’agevolmente
si curva e torce ed ala man consente.
59
Di rigid’osso è il mio che pertinace
spezzar prima si può che piegar mai.
Questo adoprar sogl’io perché ferace
di tal materia è la mia terra assai.
Ma se’l discior quell’animal fugace
error fu pur, d’impazienza errai.
Vinto fui sol perch’aspettar non volsi
e per non corre il tempo, apien nol colsi.–
60
Sotto benigno e placido sorriso,
velando allora i suoi tormenti acerbi,
la dea con lieto e mansueto viso
rispose a quegli accenti aspri e superbi:
– Ragion è ben che del mio Adone ucciso
memoria ancor tra’ barbari si serbi –
e, perché vide ben ch’invidia il punse,
al già promesso dono altro n’aggiunse.
61
– Questa sottile ed ingegnosa rete
prendi (gli disse) a più color contesta.
Poco men ch’invisibili ha le sete,
opra Aracne non fè simile a questa.
Le fere di tal fraude ingorde e liete
vi corron volentier per la foresta
ed al’augel che’n sì bei nodi è colto,
il perder libertà non pesa molto. –
62
Finito il dardeggiar, con chiare note
chiama la tromba i ballatori al ballo,
poi tace e’l vulgo, che tacer non pote,
fa bisbigliando al suon breve intervallo.
Ed ecco altr’armonia l’aria percote,
vie più soave che’l guerrier metallo
e Dardiren tra’ musici stromenti
canta il trionfo suo con lieti accenti.
63
Follerio, il ballarin, fuor del drappello
degli altri tutti in prova uscì primiero;
sfrenato strale o fuggitivo augello
fora di lui men presto e men leggiero.
Questi una sua corrente agile e snello
danzò con arte tanta e magistero,
intramezzata di passaggi tali,
ch’empì d’alto stupor l’alme immortali,
64
ond’un par di coturni in premio ei n’ebbe
barbaramente ala ninfal guerniti.
Al purpureo corame il mastro accrebbe
ricchi riccami in bel tramaglio orditi
e’n guisa che stimar non si potrebbe
di figure d’argento eran scolpiti.
Ei donogli a Tersilla il giorno istesso,
che’l don pagò con mille baci appresso.
65
Passa innanzi Alibello, un che co’ salti
s’arrischia a far prodigiose prove.
Sì strani son, son sì mortali ed alti,
ch’orrore insieme e meraviglia move.
Lanciasi in aria e, con tremendi assalti,
in mille foggie inusitate e nove
su la punta or d’un brando, or d’una lancia,
or la schiena riversa ed or la pancia.
66
Poi di ferro la man, di piombo il piede
carco, passeggia l’aure e’l ciel discorre.
e per la tesa fune andar si vede,
qual Dedalo novel, da torre a torre.
Viensi alfin con ardir ch’ogni altro eccede,
col capo ingiù precipitoso a porre
e con l’estremo sol, pendente in libra
sostien sestesso e si raggira e vibra.
67
Il seconda Aquilanio, emulo antico,
degli altri saltator capo sovrano
e seco ha Clarineo, Delio, Laurico
e Garbino e Celauro e Floriano.
Tutti congiunti allor costor ch’io dico,
fan di sé l’un su l’altro un groppo estrano
ed ergendo di membre eccelse mura,
fan di corpi intessuti alta struttura.
68
Di martora ebbe l’un rara e pregiata
zanio artificioso e peregrino,
che gli occhi avea di lucida granata
e le zanne e le zampe avea d’or fino,
la cui morbida pelle era fodrata
d’un bel serico vello incremesino
e con lacci di seta intorno sparsi
poteva al fianco appendersi e legarsi.
69
L’altro non men leggiadra e preziosa
e per materia insieme e per lavoro
con foglie di rubino ebbe una rosa
e con spine di smalto e gambo d’oro.
Onorato ancor poi d’alcuna cosa
fu ciascun altro de’ compagni loro:
– Su su (Venere disse) or basti tanto,
non si tolga al mio sesso il proprio vanto.
70
Serbinsi i cor virili a lotte, a giostre,
non s’usurpi omai l’uom l’arti donnesche.
Vengano e scopran lor le ninfe nostre
come sappiam menar carole e tresche. –
Allor vaghe donzelle in varie mostre
comparver con fiorite e con moresche
e della balleria di quelle schiere
le Grazie eran maestre e condottiere.
71
V’è Lindaura gentil, Marpesia bella,
Mirtea vezzosa e Filantea gioconda,
Albarosa la bianca e Fiordistella
la bruna e, col crin d’or, Fulvia la bionda.
Ma Lilla a cui questa bellezza e quella
di gran lunga non è pari o seconda,
la pupilla d’april sembra tra’ fiori
o la lampa maggior tra le minori.
72
Prende con tanta grazia a danzar Lilla
il contrapasso pria, poi la gagliarda,
che d’amor langue e di dolcezza brilla
il misero Filen mentre la guarda;
e non solo ale fiamme onde sfavilla
l’alto sol de’ begli occhi è forza ch’arda,
non sol la bianca man lo lega e fiede,
ma trafigger si sente anco dal piede.
73
– Bel piè (seco dicea) mentreche finge
la danza essercitar mobile e vaga,
nele tue rote i circoli dipinge
dove m’incanta la mia bella maga.
Tesse mille catene onde mi stringe
ed incurva mill’archi onde m’impiaga;
que’ giri, ch’ella in tanti modi implica,
son labirinti ove’l mio core intrica.
74
O felice il terren che vai premendo!
Deh, perché non poss’io cangiarmi in sasso?
seben, mentre che’n te lo sguardo intendo,
l’anima mia calpesti a ciascun passo.
Oimé, sento il tuo moto e nol comprendo.
Com’esser puoi così veloce, ahi lasso?
Sì sì, vola pur lieve a saettarmi
poich’hai l’ali d’Amor come n’hai l’armi.–
75
Così dela sua Lilla innamorato
l’afflitto pescator tra sé dicea;
ed ella intanto avea sì ben danzato
che l’onor riportò da Citerea.
Dono d’un bel pavone ammaestrato
tra le mense a servir le fè la dea:
con la coda sapea ne’ soli ardenti
scopar le mosche e temperare i venti.
76
Uscir Clizio pastor poscia si scorge
ch’a ballar la sua Filli invita e prega,
Filli sua che ritrosa alquanto sorge,
pur quelche chiede al’amator non nega.
Levata in piè, la bella man gli porge,
la bella man che l’incatena e lega.
Reverente e tremante egli la prende
e si bacia la sua mentre la stende.
77
Seco al tenor dela maestra cetra
pianpian s’aggira pria ch’abbia a lasciarla,
indi la lascia, indi da lei s’arretra,
indi rivolto a lei, torna a baciarla;
e cortese un inchino anco n’impetra
mentre curva il ginocchio ad onorarla.
Stassi la ninfa in mezzo al cerchio immota,
Clizio qual Clizia intorno al sol si rota.
78
Del’onesto favor fatto orgoglioso,
poiché chiusa più volte egli ha la volta,
vassene in atto grave e grazioso
a restringer la man che dianzi ha sciolta.
Torna seco al passeggio aventuroso
e’ntanto egli le parla, ella l’ascolta;
e trattenendo in bassi accenti il gioco,
scopre l’un l’altro il suo celato foco.
79
La dea traendo fuor nobil cicuta
fatta di sette canne in Siracusa,
donolla a Clizio, ala cui voce arguta
ben s’accordò la sua canora musa.
Gazza loquace ch’i pastor saluta
Filli ebbe in dono, in gabbia eburnea chiusa;
umana lingua aver sembra e favella
e chiunque conosce a nome appella.
80
Due coppie ancor la dea volse ch’avesse
di colombe vezzose a meraviglia
e sì feconde che ciascuna d’esse
ben quattro volte il mese impregna e figlia.
L’una è sì bianca che le nevi istesse,
l’istesso latte nel candor somiglia;
l’altra d’un vago vezzo il collo ha cinto
di varie macchie a più color dipinto.
81
Faunia, di Citerea serva lasciva,
vien dopo loro ad occupar la lizza
e come baldanzosa ed attrattiva
prende Ardelio per man, che’n piè si drizza.
Incominciano in prima a suon di piva,
secondo l’uso a carolar di Nizza,
Nizza, che di Provenza il bel paese
rende superbo del suo forte arnese.
82
Mossersi alparo ed amboduo ballando
vedeansi a man a man, sola con solo
prima a passo veloce ir misurando
con giravolte e scorribande il suolo,
poscia l’un l’altra insu le braccia alzando
levarsi in aria e gir senz’ali a volo
e’n più scambietti al’ultima raccolta
serrar il giro e terminar la volta.
83
Così vid’io, qualora i campi aprici
fervon su’l fil dela stagione adusta,
nele selve colà liete e felici
dela famosa e fortunata Augusta
danzatori leggiadri e danzatrici
a groppo a groppo in vaga rota angusta
pender girando a suon d’arpa canora
e di plausi festanti empir la Dora.
84
Compito il primo ballo, ecco s’appresta
la coppia lieta a variar mutanza,
e prende ad agitar, poco modesta,
con mill’atti difformi oscena danza.
Pera il sozzo inventor che tra noi questa
introdusse primier barbara usanza.
Chiama questo suo giuoco empio e profano
saravanda e ciaccona il novo ispano.
85
Due castagnette di sonoro bosso
tien nele man la giovinetta ardita,
ch’accompagnando il piè con grazia mosso,
fan forte ador ador scroccar le dita.
Regge un timpano l’altro, ilqual percosso
con sonaglietti ad atteggiar l’invita;
ed alternando un bel concerto doppio
al suono a tempo accordano lo scoppio.
86
Quanti moti a lascivia e quanti gesti
provocar ponno i più pudici affetti,
quanto corromper può gli animi onesti
rappresentano agli occhi in vivi oggetti.
Cenni e baci disegna or quella or questi,
fanno i fianchi ondeggiar, scontrarsi i petti,
socchiudon gli occhi e quasi infra sestessi
vengon danzando agli ultimi complessi.
87
Letto era un pregio esposto in quelle feste
con colonne d’elettro elette e fine,
ch’avean di sfinge i piè, d’arpia le teste
e custodie di porpora e cortine
e vergate pertutto e quelle e queste
erano d’oro in triplicate trine.
Fatto il talamo ricco e prezioso
ala vista parea più ch’al riposo.
88
Dele danze sfacciate ed impudiche
volse la dea che per trofeo servisse:
– Ale vostre dolcissime fatiche
questo sia’l premio e questo il campo (disse).
Qui col mio figlio ignudo entrò già Psiche
la prima notte ale beate risse;
qui voi dar fine al gioco ed al difetto
potrete del ballar supplir col letto.–
89
Diana, che la guancia avea vermiglia
quegli atti abominabili mirando
e tenea tuttavia chine le ciglia
per la vergogna del ballar nefando,
non fu lenta a chiamar la sua famiglia,
che venne al cenno del divin comando;
e, senza uscir del’onestà devuta,
un riddon cominciò con nova muta.
90
Lucilia bella, che qual sole irraggia,
Lidia gioliva che qual fiamma sface,
Partenia casta, Gloriana saggia,
Absinzia cruda, Antifila sagace,
Florismena solinga, Egle selvaggia,
Lesbia ritrosa, Testili fugace,
Amaranta superba, Alteria altera,
danzan tutte racolte in una schiera.
91
Guidato alquanto insieme il ballo tondo,
ballar volser divise ad una ad una
e con error festevole e giocondo,
ma col decoro debito a ciascuna,
di quante danze ha più leggiadre il mondo
non tralasciaro in tai vicende alcuna,
qual più per arte o per vaghezza aggrada
del ventaglio, del torchio e dela spada.
92
Disse la dea d’amor: – L’onesto e’l bene
del meritato onor non si defraude.
Non dee vera virtù, né si conviene,
senza premio restarsi e senza laude.
Vuolsi qui dimostrar ch’al’opre oscene
Vener non più ch’a le contrarie applaude. –
E fattasi recar la statua d’oro
del’istessa Virtù, la donò loro.
93
Non vuol Febo soffrir che la sorella
l’onor del ben ballar sen porti sola,
onde dele sue Muse il coro appella
e l’aureo plettro accorda ala viola.
Vien tosto, inteso il suon, la schiera bella
al’armonia dela divina scola
e co’ legami dele braccia istesse
stranio balletto in vaghi nodi intesse.
94
Sotto la treccia dele braccia alzate
per filo or quella or questa il capo abbassa,
e torcendo le mani innanellate
altra sen’esce, altra sottentra e passa.
Poich’alfin le catene ha rallentate,
la bellissima filza il campo lassa
e soletta a ballar resta in disparte
Tersicore che diva è di quell’arte.
95
Si ritragge da capo, innanzi fassi,
piega il ginocchio e move il piè spedito
e studia ben come dispensi i passi,
mentre del dotto suon segue l’invito;
circonda il campo e raggirando vassi
pria che proceda a carolar più trito,
sì lieve che porria, benché profonde,
premer senz’affondar le vie del’onde.
96
Su’l vago piè si libra, e’l vago piede
movendo a passo misurato e lento,
con maestria, con leggiadria si vede
portar la vita in cento guise e cento.
Or si scosta, or s’accosta, or fugge, or riede,
or a manca, or a destra in un momento,
scorrendo il suol sì come suol baleno
del’aria estiva il limpido sereno.
97
E con sì destri e ben composti moti
radendo in prima il pian s’avolge ed erra,
che non si sa qual piede in aria roti
e qual fermo de’ duo tocchi la terra.
Fa suoi corsi e suoi giri or pieni, or voti,
quando l’orbe distorna e quando il serra,
con partimenti sì minuti e spessi
che’l Meandro non ha tanti reflessi.
98
Divide il tempo e la misura eguale
ed osserva in ogni atto ordine e norma.
Secondo ch’ode il sonatore e quale
o grave il suono o concitato ei forma,
tal col piede atteggiando o scende o sale
e va tarda o veloce a stampar l’orma.
Fiamma ed onda somiglia e turbo e biscia,
se poggia o cala o si rivolge o striscia.
99
Fan bel concerto l’un e l’altro fianco
per le parti di mezzo e per l’estreme;
moto il destro non fa che subit’anco
non l’accompagni il suo compagno insieme;
concordi i piè, mentre si vibra il manco,
l’altro ancor con la punta il terren preme;
tempo non batte mai scarso o soverchio,
né tira a caso mai linea né cerchio.
100
Tien ne’ passaggi suoi modo diverso,
come diverso è de’ concenti il tuono;
tanti ne fa per dritto e per traverso
quante le pause e le periodi sono
e, tutta pronta ad ubbidire al verso
che’l cenno insegna del maestro suono,
or s’avanza, or s’arretra, or smonta, or balza
e sempre con ragion s’abbassa ed alza.
101
Talor le fughe arresta, il corso posa,
indi muta tenore in un instante
e con geometria meravigliosa
apre il compasso dele vaghe piante,
onde viene a stampar sfera ingegnosa
e rota a quella del pavon sembiante;
tengono i piè la periferia e’l centro,
quel volteggia di fuor, questo sta dentro.
102
Su’l sinistro sostiensi e’n forme nove
l’agil corpo sì ratto aggira intorno
che con fretta minor si volge e move
il volubil paleo, l’agevol torno.
Con grazia poi non più veduta altrove
fa gentilmente, onde partì, ritorno;
s’erge e sospende e, ribalzando in alto,
rompe l’aria per mezzo e trincia il salto.
103
Il capo inchina pria che’n alto saglia
e gamba a gamba intreccia ed incrocicchia;
dale braccia aiutato il corpo scaglia,
la persona ritira e si rannicchia.
Poi spicca il lancio, e mentre l’aria taglia,
due volte con l’un piè l’altro si picchia
e fa, battendo e ribattendo entrambe,
sollevata dal pian, guizzar le gambe.
104
Poich’ella è giunta insù quanto più pote,
la vedi ingiù diminuir cadente
e nel cader sì lieve il suol percote
che scossa o calpestio non sene sente.
È bel veder con che mirabil rote
su lo spazio primier piombi repente,
come più snella alfin che strale o lampo
discorra a salti e cavriole il campo.
105
Immobilmente il popolo sospeso
pende da’ moti di colei che balla.
Stupisce ognun che dele membra il peso
estolla al ciel qual ripercossa palla;
serpa in obliquo o vada a passo steso,
opra il tutto con arte e mai non falla,
ond’alza un grido alfin garrulo e roco
e’l sol termina il giorno ed ella il gioco,
106
e la madre d’Amor, con queste lodi,
dele sorelle sue celebra il vanto:
– Dive immortali, vergini custodi
del pregiato licor del fiume santo,
da cui per fare al Tempo eterne frodi
hanno i miei bianchi augelli appreso il canto,
qual dono offrir vi può che vil non sia
o la sfera o la terra o l’onda mia?
107
Ecco nove corone. Elette queste
sono a fregiar le vostre chiome bionde,
peso ben degno di sì degne teste
poiché de’ cieli al numero risponde.
Son merlate di gemme ed han conteste
di smeraldo finissimo le fronde,
la cui verdura si conforma al verde
del’arbor che giamai foglia non perde.
108
A te, che fatto hai qui novo Elicona
chiudendo il festeggiar di questo giorno,
oltre ch’avrai dela gentil corona,
come l’altre compagne, il crine adorno,
questo ricco monile anco si dona
da cerchiar nove volte il collo intorno,
da cui di bel zaffir pende un branchiglio
che dal’isole vien del mar Vermiglio.
109
Ma tu, che più d’ogni altra altrui diletti,
onde stimata sei la più gentile,
Erato mia, che gli amorosi affetti
spiegando in dolce e delicato stile
lusinghi i cori, intenerisci i petti,
altro avrai che corona e che monile,
degna per la tua rara alta eccellenza
d’esser dela mia rota intelligenza.
110
Se non ho cosa che’l tuo merto agguagli,
resti del buon voler pago e contento;
togli questo scrittoio, i cui serragli,
i cui foderi son tutti d’argento.
Tien figurato di sottili intagli
in ciascun ripostiglio il suo stromento,
coltelli e righe e con mirabil arte
cent’altri arnesi da vergar le carte.
111
È di terso diaspro il bel lavoro
del’urna che l’inchiostro in sé ricetta.
Fuso, invece d’inchiostro, havvi del’oro,
di cui l’arco ha il mio figlio e la saetta.
Del più candido cigno e più canoro
penna lo sparge infra mill’altre eletta
e’l vasel dela polve in grembo tiene
ricche del Gange e preziose arene.
112
Con questo a gloria mia vo’che tu scriva
versi soavi e teneri d’amore.
Ed io, qualor su la Castalia riva
t’esserciti a cantar con l’altre suore,
farò che del tuo stil la vena viva
dolcezza assai del’altre abbia maggiore,
dando al tuo canto, accioché più s’apprezzi,
tutte le grazie mie, tutti i miei vezzi.
113
La stella mia che, quando il sol vien fora,
ultima cade e’n ciel sorge la prima,
quella che sveglia a salutar l’aurora
i sacri spirti ed a cantar in rima
e più che’n altra è solita in quell’ora
d’alzar l’ingegno ond’alte cose esprima,
vo’ che col raggio suo, sempre seconda,
furor divino ala tua mente infonda. –
114
Disse e già fuor de’ tenebrosi orrori
traea di vive perle il corno pieno
Cinzia e spargea di cristallini albori
il taciturno e gelido sereno.
Taceano i venti e languidetti i fiori
giaceano al’erba genitrice in seno.
Nel suo placido letto il mar dormiva,
del cui gran sonno il fremito s’udiva.
115
Sorse Venere bella e seco tolti
tra mille lumi i peregrini dei,
lor provide d’alloggio e fur raccolti
nel’ampia reggia ad albergar con lei.
Sgombra fu la gran piazza, ancorché molti
de’ riguardanti e nobili e plebei
volser, per non lasciar gli agiati luochi,
aspettar nel teatro i novi giochi.
116
Già lampeggiando in ciel l’alba traea
dale nubi notturne auree scintille
e colte già dal seminario avea
dele rugiade mille perle e mille,
onde con larga mano ella spargea
dal vaso d’oro innargentate stille,
innebriando di celesti umori
l’avidità, l’aridità de’ fiori,
117
quando Ciprigna ad ordinar le cose
del dì secondo uscì del ricco albergo
e de’ lottanti al vincitor propose
fiero molosso a brun macchiato il tergo,
ch’avea di piastre terse e luminose
d’acciar dorato intorno un forte usbergo
e d’un cuoio durissimo ferrato,
aspro di punte d’oro, il collo armato.
118
Col novo premio e con la luce nova,
ecco più d’una tromba ad alta voce
dela lotta citar s’ode ala prova
ed incitar la gioventù feroce.
Subito presto a comparir si trova
Cisso il tebano e Batto il cappadoce
e Clorigi è con essi e Vigorino,
il primo è cireneo, l’altro è bitino.
119
Noto al’Olimpo Olimpio ed al Citoro
Eutirto, un di Tessaglia ed un di Ponto;
Brancaforte di Tarso e Bellamoro
di Babilonia, uom celebrato e pronto,
e col temuto Uragano il fier Brunoro
mostrasi anch’egli apparecchiato e pronto,
e Bronco il forte e l’animoso Edrasto
esser bramano i primi al gran contrasto.
120
Ma Satirisco entro l’agone intanto
salta ed aspira ai preparati premi.
D’una driada e d’un fauno in Erimanto
fu generato di confusi semi.
Non è satiro intutto eccetto quanto
tengon sol dela capra i piedi estremi.
Forma umana ha nel resto e di due corna,
con cui cozza lottando, il capo adorna.
121
Corteccio allora, un contadin possente,
contro costui per tenzonar s’è mosso;
ale braccia in Arcadia uso è sovente
venir con gli orsi e n’ha le pelli addosso.
Ha, come gli orsi istessi, irto e pungente
su’l petto il pel, grande ogni membro e grosso;
è dele piante figlio e dele selve,
commun l’albergo e’l vitto ha con le belve.
122
Le selve a questo popolo e le piante,
orribil a contar, fur genitrici
e crebbe poi robusta turba errante,
senza cura di fasce o di nutrici.
Da novo piè calcata, il suoi tremante
scosse la terra infin dale radici,
quando da’ padri frassini e da’ faggi
vide i fanciulli uscir verdi e selvaggi.
123
Spaventati ed attoniti stupiro
quel dì che prima al ciel gli occhi levaro
e videro alternar con vario giro
dela notte e del giorno il fosco e’l chiaro.
Fama è che lungo tratto il sol seguiro
quando oscurar la sera il dì miraro,
temendo forte, ahi semplici! non loro
involasse per sempre i raggi d’oro.
124
Veder duo lottator tanto eccellenti
da corpo a corpo a contrastar ridutti,
fu gran diletto, ond’a mirargli intenti
in piè s’alzaro i circostanti tutti.
Non stetter molto a bada i combattenti,
ambo delpar nell’essercizio instrutti,
ma subito n’andar senz’altro dirsi
impetuosamente ad assalirsi.
125
Non da spiedo o da stral talor feriti
duo fier leoni o duo cinghiali alpestri
risonar d’urli orrendi e di ruggiti
fan con tanto furor gli antri silvestri,
con quanto insieme ad affrontarsi arditi
vennero dela lotta i duo maestri
e si strinsero a un tempo e d’alti gridi
rimbombar fer d’intorno i campi e i lidi.
126
Tra saldi nodi e rigide ritorte
avinchiati così stetter gran pezza,
poi si staccaro e con rivolte accorte
cominciaro a mostrar forza e destrezza.
Pesante è l’un, ma ben gagliardo e forte,
l’altro è leggier, ma di minor fortezza,
pur, girandosi ognor, con l’arte astuta
e con la propria agilità s’aiuta.
127
Poich’ei più volte ha circondato il piano,
le gambe allarga e ferma i piedi in terra,
le spalle incurva e l’una e l’altra mano
distende innanzi, accinto a nova guerra.
Con minaccioso scherno il fier villano
sorride e contro lui ratto si serra
e con un braccio, il più forte che pote,
di sovra la collottola il percote.
128
Quasi duro bastone o grossa trave
parve battesse al satiro la fronte
e stordito restò dal picchio grave,
pur come addosso gli cadesse un monte.
Ma si riscote intanto e perché pave
d’un nemico sì fier l’offese e l’onte,
cerca di prevaler sagace e scaltro
con stratagemi e con cautele al’altro.
129
Mostrò forte dolersi e d’aver rotta
la testa e di cader quasi s’infinse,
onde colui per dargli un’altra botta,
scioccamente ridendo, oltre si spinse
e, credendo omai vinta aver la lotta,
senza riguardo alcun, seco si strinse;
ma tutto in semedesmo ei si raccolse
ed aspettar quell’impeto non volse.
130
Mentre Corteccio, con l’ardir ch’ha preso
risoluto ritorna ala battaglia
e la seconda volta il braccio steso
per di novo ferirlo a lui si scaglia,
la fronte abbassa e, pria che l’abbia offeso,
gli entra di sotto e fa che’nvan l’assaglia
e dà loco ala furia e la ruina
del colpo irreparabile declina.
131
Schivato il colpo e col suo destro braccio
preso del’aversario il braccio manco,
quasi legato da tenace laccio
gliel’imprigiona e l’attraversa al fianco.
Tenta ben l’altro uscir di quell’impaccio,
ma perché greve e travagliato e stanco
ceder gli è forza e nel colpire a voto
è tirato a cader dal proprio moto.
132
Tutto in un tempo ei gli passò sfuggendo
sotto l’ascella e gli s’avinse al collo
e con le mani il gran ventre cingendo
gli saltò sulle terga e circondollo
in guisa tal che’n ginocchion cadendo
quei venne a terra e non potea dar crollo;
pur con sì fatto sforzo alfin si torse
che quasi in piedi libero risorse
133
e con quel dimenar diè sì grand’urto
al destro assalitor che l’avea cinto,
ch’al’improviso allor colto e di furto,
fu per caderne anch’egli, indietro spinto.
Ma pria ch’apien disciolto e’n piè risurto
fusse l’altier, già poco men che vinto,
il quasi vincitor dela contesa
non fu già lento a rattaccar la presa.
134
Robustamente con le braccia il lega,
con le corna il ferisce a capo chino
e’l ginocchio di dietro, ove si piega,
batte in un punto col tallon caprino
e tanta forza ad atterrarlo impiega,
che lo costringe a traboccar supino.
Far non potè però, quando l’oppresse,
ch’ancor sovra il caduto ei non cadesse.
135
Seco abbracciato e fortemente stretto
l’abbattuto pastor in modo il tenne,
ch’addosso in venir giù sel trasse al petto,
onde cadere ad ambodue convenne.
Cadder sossovra e d’onta e di dispetto
l’un e l’altro fremendo in piè rivenne;
e già moveansi a più rabbiose risse
ma Citerea vi s’interpose e disse:
136
– Non convien che più oltre oggi proceda,
giovani valorosi, il furor vostro,
né che cotanto un vano sdegno ecceda;
basti l’alto valor che qui s’è mostro.
Non vo’ che’l sangue alo scherzar succeda,
non è mortal conflitto il gioco nostro;
cessino l’ire; ambo egualmente siete
degni di palma ed egual premio avrete.
137
Abbiasi Satirisco il can promesso
ma non s’oblii del’altro insieme il merto;
quel pardo cacciator gli fia concesso
ch’è di spoglia ricchissima coverto. –
Più volea dir, ma su quel punto istesso
vide Membronio entrar nel campo aperto,
Membronio il fiero scita, uom ch’ale membra
animata piramide rassembra.
138
Sembra torre sensibile e spirante,
sembra viva montagna ala statura.
Non giamai, credo, in alcun suo gigante
tanta massa di carni unì Natura.
Dal vasto capo ale tremende piante
così dismisurata è la misura,
che tra gli uomini grandi è quello istesso
ch’è tra i virgulti piccioli il cipresso.
139
Pien di superbo e temerario orgoglio
questi nel chiuso cerchio entrato apena,
depon le vesti e in un confuso invoglio
furiando le gitta insu l’arena.
Poi, quasi eccelso ed elevato scoglio,
del’ampie spalle e del’immensa schiena
scopre gli eccessi e di terribil ombra,
ben piantato nel mezzo, il piano ingombra.
140
Qual Tizio fuor dela prigion tenace
libero e’n piè levato a veder fora,
se l’augel che famelico e mordace
le sue feconde viscere divora,
da’ nove campi ove disteso ei giace
sorger gli desse e respirar talora,
cotal parea quel mostro orrendo e rio,
ch’i più temuti a spaventar uscio.
141
Con bieco sguardo in prima egli si vide
torcer le luci e sollevar la faccia,
aspra se scherza ed orrida se ride,
or che fia se s’adira o se minaccia?
Indi con formidabili disfide,
ambe sbarrando incontr’al ciel le braccia,
di tai parole audaci ed arroganti
l’orecchie fulminò degli ascoltanti:
142
– Or venga a noi di quanta gente accoglie
questa di lottatori ampia adunanza,
qual più di palme cupido e di spoglie
in sestesso si fida e’n sua possanza.
Vedrem chi tanto insane avrà le voglie,
che di meco pugnar prende baldanza.
Parlo a chiunque intorno ode il mio grido
e quanti qui ne son, tanti ne sfido. –
143
Nessun risponde al’oltraggiose note,
salvo sol di Beozia un giovinetto,
ch’accende allor, perché soffrir nol pote,
di vergogna la guancia e d’ira il petto.
Incomincia a segnargli ambe le gote
del primo pelo un picciolo fregetto,
ma sotto l’ombra dele fila bionde
di qua, di là la zazzera l’asconde.
144
Crindor, dal’or del crine, egli ebbe nome,
perché sì bionde e molli e dilicate
e sì crespe e sì terse avea le chiome,
ch’auree in vero pareano e non aurate.
E qualor dala forbice, sicome
sogliono a chi si tonde, eran tagliate,
per posseder sì lucido tesoro
le compravan le donne a peso d’oro.
145
Senza accorciarla un lustro ha già nutrita
la bella chioma, ond’è diffusa e lunga
e non è di che culta e ben forbita,
de’ più pregiati aromati non l’unga.
Ma s’or avien che dal’impresa ardita
vincitor esca e ch’ala patria ei giunga,
troncar promette in voto i capei cari
e d’Apollo offerirgli ai sacri altari.
146
Poiché vede ch’alcun non osa ancora
di contraporsi a quel colosso immane,
sfibbiasi il manto e senz’altra dimora,
scinte le spoglie, ignudo ivi rimane
e del corpo viril dimostra fora
le fattezze leggiadre e sovrumane,
onde del’altre membra al vago volto
quelche i drappi ascondeano, il pregio ha tolto.
147
Sentendo nel bravar che fa colui
publica e general l’ingiuria e l’onta,
benché debil di forze, incontr’a lui
dala voglia è portato audace e pronta,
né senza tema e meraviglia altrui
il coraggioso giovane l’affronta.
Ma l’altro, con piè fermo e fronte oscura,
minacciando l’aspetta e nulla il cura.
148
Somiglia là, nelo steccato ibero
tauro cui gente irritatrice espugna,
qualor dal canneggiar fatto più fiero,
fiede il ciel con la fronte, il suol con l’ugna,
la coda inalza, abbassa il collo altero,
sbarra le nari e sfida i venti a pugna
e par, torto le corna e torvo i lumi,
quando sorge dal letto il re de’ fiumi.
149
E che può folle ardir? che può? che vale
contro sì sconcia machina e sì vasta?
che non ch’aver proporzione eguale,
con tutto il petto al capo gli sovrasta?
Lasciasi pur crollar, mentr’ei l’assale,
sostien gli urti innocenti e non contrasta;
ma’l tempo attende e con accorto ciglio
cerca ala treccia d’or dargli di piglio.
150
La treccia d’oro ch’al soffiar del vento
volava intorno innanellata e sciolta,
era molto al garzon d’impedimento
e gli occhi gli copria tant’era folta;
onde il gigante ala vittoria intento
ebbe pur d’afferrarla agio una volta;
nel’aureo crin la fiera man gli stese
e tanto ne stracciò quanto ne prese.
151
Come quando talora astuto gatto
il nemico che rode ha nela branca,
non subito l’uccide al primo tratto
ma quinci e quindi lo raggira e stanca,
finché, veggendol poi mezzo disfatto
e che lo spirto ador ador gli manca,
dopo lungo scherzar, pur finalmente
ala zampa lo toglie e dallo al dente,
152
così Membronio altero e furibondo
poiché sofferto ha il bel Crindoro alquanto,
con oltraggio crudel per lo crin biondo
lo sbatte a terra e quivi il lascia intanto;
e disprezzando insieme il cielo e’l mondo
l’insolente parlar raddoppia e’l vanto:
– Perché soffre (dicea) chi più si stima
che gli tolga un fanciul la lotta prima?
153
Venite voi, ch’io tal onor non curo,
voi forti, al braccio mio degna fatica.
Venga ciascun che vuol provar se duro
o molle è il sen dela gran madre antica. –
Così dic’egli con sembiante oscuro,
né Corimbo sostien che così dica;
di Crindoro è compagno, anch’egli greco,
e di stretta amistà legato seco.
154
Nacque su l’Acheloo, famoso fiume,
che lottò già col domator de’ forti
e contan che l’istesso umido nume
gl’insegnò l’arte e mille tratti accorti
e del pontar la pratica e’l costume
e le prese a cangiar di varie sorti;
e di persona essendo agile e destra,
vincitor riuscì d’ogni palestra.
155
Spiacque a ciascun la crudeltà villana
del barbaro feroce e discortese,
ma’l fido amico ala caduta e strana
d’ira non men che di pietà s’accese.
– Volgiti (disse) a me, bestia inumana,
che disonori l’onorate imprese
e d’avilire e d’infamar ti gonfi
l’onor dele vittorie e de’ trionfi.
156
Non superbir con vanità sì sciocca,
perché mole di membra abbi cotanta,
ché, se sembra il tuo corpo eccelsa rocca,
eccelsa rocca ancor s’abbatte e schianta.
Spesso da giogo altero al pian trabocca
tronca da picciol ferro, immensa pianta,
spesso lo smisurato angue d’Egitto
da minuto animal cade trafitto.
157
Fu l’uccisor del fier leon nemeo
vie più forse di te forte e membruto,
pur nel tallon trafitto alfin cadeo
dal morso sol d’un pesciolin brancuto.
Fu di quel ch’io mi son, del campo acheo
forse minor l’esploratore astuto,
pur tolse di sua man con picciol remo
l’arroganza e la vita a Polifemo. –
158
Con un ghigno sprezzante e pien d’orgoglio
l’ascolta il grande e qual si sia nol degna:
– Teco non con la man combatter voglio,
solo il mio piede a ben lottar insegna.
Con un calcio di quei, ch’aventar soglio,
ti manderò dove Saturno regna;
e’n tornar giù mi recherai novelle
di ciò che colassù fanno le stelle. –
159
Così rispose, e così detto prese
un salto tal che fè stupir le genti,
né l’Appennin sì forte o il Monsanese
scosso è talor da prigionieri venti.
Poi d’un grido sì fiero il cielo offese,
che la terra crollò da’ fondamenti;
vacillò la gran piazza e rimbombonne
l’aria e tremaro intorno archi e colonne.
160
Con sì fatto romor, quand’Ercol morse,
aprì latrando Cerbero le gole;
con tal rimbombo Giove a punir corse
del fier Titan la temeraria prole
e con strepito egual Pozzuol fè forse
d’alto spavento impallidire il sole,
alor ch’alo scoppiar dele campagne
vomitò fiamme e partorì montagne.
161
Senz’altro motto al vantator superbo
il buon Corimbo allor si drizza e tace.
È d’età verde e di vigore acerbo,
indomito di cor, di spirto audace,
tutto callo, tutt’osso e tutto nerbo,
di polpe asciutto e d’animo vivace.
Quadrato ha il corpo e sovra i fianchi stretto,
gli omeri larghi e spazioso il petto.
162
Stupir le turbe intorno, a cui non era
conta la fama del campion gagliardo,
quando insperato e solo uscir di schiera
l’ebber veduto e’n lui fisaro il guardo.
Ma tra color ch’avean notizia intera
di quel valor che non fu mai codardo,
meraviglia non nacque e lor non nove
l’usate n’attendean prodezze e prove.
163
Del pari ignuda e stimulata e punta
da sprone egual la fiera coppia arriva,
e poiché già concesso a prima giunta
libero ad ambo il campo è dala diva,
poich’han la pelle immorbidita ed unta
col licor verde dela molle oliva,
chinansi a terra e con furore e rabbia
fregan le mani insu la secca sabbia.
164
Quando d’arida polve ambo pres’hanno
quanto lor basta ad inasprar le palme,
non così tosto ad abbracciar si vanno
quelle due senza pari intrepid’alme.
Ma de’ corpi ch’al moto accinti stanno,
ferme nel suol le ben librate salme,
da capo a piè, da questo e da quel canto,
trattengon gli occhi a misurarsi alquanto.
165
Usa ciascun l’industria, adopra ogni arte
per aver nela luce anco vantaggio
e sceglie il sito e’n guisa il sol comparte,
che gli occhi offenda al’aversario il raggio,
cercando pur di collocarsi in parte
dove non n’abbia la sua vista oltraggio,
e’n sì fatta postura il lume piglia
che gli fieda le spalle e non le ciglia.
166
Volge Membronio al suo nemico il viso,
tien curvo il collo e tien le gambe aperte
e’ntento ad avinchiarlo al’improviso,
larghe le braccia ed inarcate ed erte.
Corimbo in sé raccolto e’n su l’aviso,
le man, gli occhi e la faccia a lui converte
ed indietro col piè, col capo avante,
tenta aver nela presa il primo istante.
167
Lanciarsi ambo in un tratto ed investiti
s’aviticchiar con noderosi groppi;
né polpo a nuotator tra’ salsi liti
tese mai nodi sì tenaci e doppi,
come fur quei, che di lor membra orditi,
tentando insidie e traversando intoppi,
strinsergli insieme in cento modi estrani
con le braccia, co’ piedi e con le mani.
168
Premer petto con petto ambo vedresti
e stinco a stinco e fronte a fronte opporsi,
ambo a prova afferrarsi agili e presti
sotto i lombi, su i colli e dietro ai dorsi.
Stan così buono spazio e quegli e questi,
pur disbrigati al fin vengono a sciorsi
e, con gran giri intorniando il loco,
van quinci e quindi e fan più largo il gioco.
169
Torna da capo ad affrontarsi e i petti
congiunge insieme la robusta coppia,
e sì forte gli tien serrati e stretti
ch’afferma ognun che già vien meno e scoppia;
poi son pur a lasciarsi alfin costretti,
indi pur l’un e l’altro ancor s’accoppia,
e l’un e l’altro mentre or lascia, or prende,
scambievolmente ognor varia vicende.
170
Come in riva palustre o in balza alpina,
quando dal furor d’euro è combattuta,
minaccia antica pianta alta ruina,
accenna arbore eccelsa alta caduta,
or la cima frondosa a terra inchina,
or in alto dal vento è sostenuta
e’l moto alterno del’altere fronti
fa stupire e tremare i fiumi e i monti,
171
così fanno quei duo. Sovente vedi
mutar fogge d’assalto or quello, or questo;
il minor dal maggior talvolta credi
già soffogato ed abbattuto e pesto;
in un momento poi risorto in piedi
rincalza l’altro ed a ghermirlo è presto;
or respinge il nemico, or n’è respinto,
né si distingue il vincitor dal vinto.
172
Su le dita de’ piè Corimbo in alto
s’erge talor, ma non gli arriva al mento;
talor prende a saltar, ma sempre il salto
appo busto sì grande è corto e lento.
Non però si ritrae dal fiero assalto,
né di forza gli cede o d’ardimento;
virtù raccolta è vie più forte e langue
troppo allargato in un gran corpo il sangue.
173
Membronio, saldo in mezzo al campo e dritto
di guardia in atto e di difesa stassi
e cerca stancheggiar l’emulo invitto
che gli va intorno con veloci passi,
ma per farglisi egual nel gran conflitto
convien che’l tergo incurvi e che s’abbassi.
Pensa dargli di piglio e l’altro fugge,
ond’ei sbuffa e bestemmia e freme e rugge.
174
Qual orbo a cui zanzara intorno o pecchia
vola importuna ad infestar la faccia,
ed or nel naso il punge or nel’orecchia,
e più ritorna quant’ei più la scaccia,
tal, quanto più si volge ed apparecchia
or quinci or quindi ala tenzon le braccia,
dal destro assalitor men si difende
e le man per pigliarlo indarno stende.
175
Già sono entrambo affaticati e stanchi
e di molle sudor bagnati e sparsi,
già con spesso alitar battono i fianchi
e vanno alquanto al travagliar più scarsi.
Ma’l più grave trafela e par gli manchi
la lena intutto e brama omai posarsi;
mostra ogni vena il corpo enfiata e rossa
e più forte anelando il fiato ingrossa.
176
Pur dal’onor sospinto in piè sostiensi
e gli usati furori in sé raccende;
ma con la vastità de’ membri immensi
più che con la possanza ei si difende.
Il greco, ch’ha più vigorosi i sensi,
più fresco al’opra e più vivace intende
ed ecco già que’ nervi intanto adocchia
che di dietro incurvar fan le ginocchia,
177
e perché lasso il vede e pien d’angoscia,
con la destra gli accenna inver la spalla.
Minaccia al collo e in un momento poscia
s’inchina, ma l’effetto al pensier falla,
che la man troppo breve al’ampia coscia,
inumidita dal licor di Palla,
non potendo fermar la palma in essa,
lubrica a sdrucciolar vien da sestessa.
178
Il superbo di Scizia, ancorché rotto
dala stanchezza, allor punto non tarda
e vistosi da lui sì malcondotto,
par che di stizza e di dispetto n’arda.
Sovra andar gli si lascia e quasi sotto
sel caccia in modo con la man gagliarda,
ch’a l’ombra del gran seno, onde il soverchia,
tutto l’asconde e con le braccia il cerchia;
179
così chi cerca con occulta mina
l’oro sepolto in sotterraneo speco,
se la rupe si rompe e’n giù ruina,
siché chiusa la buca ei resti cieco,
sotto l’alta percossa e repentina
tutti gli ordigni suoi ne tragge seco
e pon fine in un punto al’opra ardita,
a l’ingorda avarizia ed ala vita.
180
Non perde il cor Corimbo, anzi s’affretta
in caricarlo e riposar nol lassa;
e perch’a far un colpo il tempo aspetta,
sotto il braccio nemico il capo abbassa
e con più d’una scossa e d’una stretta
gli esce ale coste, indi ale spalle, e passa.
Di qua, di là, con l’una e l’altra mano
gli annoda i fianchi e tenta alzarlo invano.
181
Più volte a destra, a manca il fier gigante
spinge e respinge e con gran forza il tira,
ma non men saldo il trova o men costante
che grossa quercia a zefiro che spira.
Dele gran gambe ognor, dele gran piante
sì ben fondate tien, mentr’ei l’aggira,
le colonne e le basi insu l’arene,
che la propria gravezza in piedi il tiene.
182
Pur alfin tutto ala vittoria inteso,
ratto da faccia a faccia a lui s’aventa,
indi, quantunque intolerabil peso,
sollevandol da terra, alto il sostenta.
Quando così nel’aria ei l’ha sospeso,
non allarga i legami e non gli allenta,
ma con tutto il vigor dela persona
là dove pende più, più s’abbandona.
183
Sovra l’osso del petto alto levato
calcollo sì che’l respirar gli tolse.
Quanto d’impeto avea, quanto di fiato
nele membra e nel cor, tutto raccolse
e, piegandolo a forza al manco lato,
lui da sé spinse e sé da lui disciolse,
onde cadendo alfin, con l’ampia schiena
il membruto campion stampò l’arena.
184
Non altrimenti il generoso Alcide
quando il libico Anteo pugnando assalse,
poiché dela cagion chiaro s’avide
ond’ei più volte al suo valor prevalse,
tra le braccia possenti ed omicide
stringendolo schernì l’arti sue false
e tanto spazio lo sostenne e resse
che violenta fuor l’alma n’espresse.
185
Cadde con quel fragor che suole al basso
cader smosso dal’onde argine o ponte
e parve apunto che scosceso il sasso
venisse quasi a dirupare un monte.
Tutti a quella ruina, a quel fracasso
segno mostrar d’alta letizia in fronte
e con grido e stupore al riso misto,
favorire applaudendo ognun fu visto.
186
Mentre intorno ridea la turba pazza,
confondendo al’applauso alto bisbiglio,
fattosi Citerea venire in piazza
stranio vasel, volse a Corimbo il ciglio:
– Tua sia questa (gli disse); in questa tazza
che’n India conquistò lo dio vermiglio,
Giove bevea nel tempo già, che pria
di Ganimede a mensa Ebe il servia.
187
La tazza ha il ventre assai capace e grande
e, come vedi, è di cristallo alpino;
sorge vite dal fondo e dale bande
le serpe intorno e fa corona al vino;
son di smeraldo i pampini che spande,
l’uve son di topazio e di rubino;
e’n guisa tal che l’arte assembra caso,
il tronco inferior fa piede al vaso.
188
In mezzo al vaso ricco e prezioso
sta con arte mirabile piantato
un cespo intier del’arboscel ramoso
che fu già da Medusa insanguinato,
onde il dolce licor d’un fresco ombroso
sparge, né men ch’al labro al’occhio è grato
e mesce il rosso al verde e’nsieme serra
le delizie del mare e dela terra.
189
Dele gemme ch’ha dentro il prezzo è il meno.
Sì sottil l’artificio è di quest’opra,
perché mentre la coppa ha voto il seno,
paiono acerbi i grappoli di sopra;
ma quando poi comincia ad esser pieno,
tanto che’l vino infin al’orlo il copra,
s’annegrisce il rigor dela verdura
e diventa l’agresto uva matura. –
190
Così dic’ella e gliel consegna e porge
e, veduto Membronio ala pianura,
loqual carco di polve in piè risorge
vie più che di superbia e di bravura,
perché confuso il mira e ben s’accorge
quanto l’affligga il duol di sua sciagura,
non vuol ch’alcuno in sì festoso giorno
da lei si parta con mestizia e scorno.
191
Una gran fiasca in dono ottien da lei,
opra ben tersa d’acero tornito,
che d’un bel chiaro oscuro in duo camei
per la man del gran Guido è colorito.
In una parte de’ celesti dei
dipinto è il lauto e splendido convito,
nel’altra una vendemmia ha di baccanti,
di selvaggi sileni e coribanti.
192
Sovragiunge Crindoro il qual si lagna
del torto ingiusto e mostra interno affanno,
dicendo che da lui nela campagna
fu per fraude abbattuto e per inganno.
Graffiasi il volto e di bel pianto il bagna
e vendica nel crin l’ingiuria e’l danno
ed accrescono grazia ala beltate
le chiome polverose e lacerate.
193
Ride Ciprigna e col bel vel sottile
gli asciuga di sua man gli occhi piangenti.
Poi d’alabastro candido e gentile
fa due portar ben grandi urne lucenti,
già di ceneri sacre antiche pile,
or tutte piene d’odorati unguenti:
– Questi licori preziosi e fini
servanti (disse) a far più molli i crini. –
194
Dopo le lutte faticose e fiere
la bellicosa dea prende per mano
e la vuol seco giudice a sedere
sovra il gran palco che comanda al piano.
Poi fra le genti armigere e guerrere
fa per l’araldo suo gridar lontano
che chiunque onor brama in campo vada
a tirar d’armi ed a giocar di spada.
195
Per incitar, per allettar con l’esca
gli animi forti ala tenzon novella,
e perch’ai cori arditi ardir s’accresca,
un dolce premio a conquistar gli appella;
vergine addita lor fiorita e fresca
nata in Corinto e fra le belle bella,
bianca vie più che tenero ligustro,
e compito ha di poco il terzo lustro.
196
Fu beltà tanta ai fianchi di coloro
che deveano armeggiar, stimolo ardente,
perch’al valor che langue, alto ristoro
i trastulli d’amor recan sovente.
Tosto Brandin comparve ed Armidoro,
l’un detto il feritor, l’altro il valente,
Gauro lo scarmigliato, Ormusto il fiero,
Garinto il rosso e Moribello il nero.
197
Taurindo il mosco, il tartaro Briferro,
Argalto il siro, il persian Duarte
e Giramon che sì ben gira il ferro
e Fulgimarte, il folgore di Marte.
Magabizzo e Spadocco, un ladro, un sgherro,
ambo or rivolti a più lodevol arte.
Belisardo dal guado, Albin dal ponte,
Grottier dal bosco ed Olivan dal monte.
198
Mentre son questi in gara ed altri eroi
di cui la Musa mia l’opre non narra,
Esperio ispano di cui prima o poi
uom più audace non fu, prende la smarra;
e precorrendo i concorrenti suoi,
cacciasi il primo entro la chiusa sbarra,
indi la man toccando ala donzella,
con un sorriso altier così favella:
199
– Farà meco pugnando oggi costei
d’altra guerra miglior, campo il mio letto.
Non speri alcun dela beltà di lei
finch’avrò questa in man, prender diletto.
Chiunque opporsi ardisce ai detti miei,
venga e’l vieti, se può, ch’io qui l’aspetto.
Gli ozi più dolci son dopo i sudori,
pria convien trattar l’armi e poi gli amori. –
200
Bardo il toscano allora oltre s’avanza,
sdegnoso che costui tanto presuma
e dice: – Nel parlar tanta arroganza
là dov’è chi più val non si costuma.
Se sostegno non hai d’altra speranza,
giacerai scompagnato in fredda piuma.
Il guadagno non va senza il periglio
e’l ver piacer dela fatica è figlio. –
201
– E tu chi sei? (replica l’altro) e donde
il primo a cercar brighe esci fra tanti?
Spesso quand’altri per timor s’asconde,
chi di tutti è il peggior si tragge avanti. –
– Son chi mi sono, e qual mi sia (risponde)
son più di te, che si ti stimi e vanti
e di qualunque alpar di te s’apprezza
degno di posseder quella bellezza. –
202
Avea per cominciar deposto il manto,
ma trovò che già preso era l’arringo
e che l’avea già prevenuto intanto
e venia contr’Esperio, Ugo il fiammingo;
per attenderne il fin si trae da canto
e vede questo e quel cauto e guardingo
moversi a tempo e’n vaga pugna e nova
vicendevoli industrie usar a prova.
203
Or s’inchinano al suol curvati e bassi,
or in men d’un balen levansi in alto,
or fanno innanzi, or tranno indietro i passi,
or son rapidi al giro, or destri al salto.
Trattiensi alquanto il belga e’n guardia stassi,
alfin s’arrischia a più vicino assalto.
Fa pur l’istesso il baldanzoso ibero,
ma volge in simil atto altro pensiero.
204
Di stringersi con lui si riconsiglia
e non pone al’effetto altra dimora.
Dela spada nemica il debil piglia
siché la sforza a scaricar di fora.
Poi con la sua l’avinchia e l’attortiglia,
vista al disegno suo commoda l’ora.
In qual modo io non so, so che lontano
gliela fa svelta alfin balzar di mano.
205
Ride ed inerme il lascia ed indifeso
l’altier che’n suo valor troppo si fida
ed a schernir più che a schermire inteso
volgesi a Bardo e lo minaccia e sgrida.
Colui corre al’appello e, d’ira acceso,
vassene ad affrontar chi lo disfida,
loqual contro gli vien per fargli il tratto
che dianzi al’altro astutamente ha fatto.
206
Ma quel d’Etruria che’l suo gioco intende,
svia con la palma il ferro e lo raffrena,
con la manca la destra indi gli prende
e la guardia gli afferra e gl’incatena
e mentre in guisa il tien che non l’offende
passandogli col piè dietro la schiena,
di piatto ancor, quasi fanciul con verga,
al superbo spagnuol batte le terga.
207
Non riposa egli già poich’ha del Tago
l’altero idalgo umiliato e vinto,
ché di nova fatica è ben presago,
visto Olbrando l’insubre a pugna accinto,
che’l capo ha di gran piume ornato e vago
e di banda purpurea il petto cinto.
Largo fa questi il gioco e con bravura
leggiadra da veder più che secura.
208
Con ampie rote intorno a lui passeggia
e’l taglio adopra a dritto ed a traverso.
Senza intervallo alcun sempre colpeggia
e tien nel colpeggiar modo diverso.
L’altro sta ben coverto e temporeggia
col ferro al ferro di lontan converso.
Alfin, quando a misura esser s’accorge,
il tempo coglie e’ncontr’a lui si sporge.
209
Saggio è chi coglie a tempo il tempo lieve,
che lieve più che stral vola e che vento
ed è picciolo instante, attimo breve
e quasi indivisibile momento.
Ma se’n ogni altro affare esser non deve
altri a pigliarlo neghittoso e lento,
più nella scherma è necessario assai,
ché se’l lasci fuggir, non torna mai.
210
Tosto ch’a senno suo gli apre la porta
colui che di ferir l’aure si vanta,
più non indugia il tosco e non sopporta
ma la stoccata subito gli pianta;
e con impeto tal la punta porta
lancia ver lui con furia tanta,
ch’a cader quasi indietro ei l’ha costretto
e la spada gli rompe in mezzo al petto.
211
Applaudon tutti allor, ma quando Bardo
già nel pugno la palma aver si stima,
di lui si duol lo schermidor lombardo
e ceder non gli vuol la spoglia opima,
anzi perfido il chiama ed infingardo,
con dir che rotto il brando avea già prima
nel’assalto d’Esperio e si querela
ch’egli per fraude il vinse e per cautela.
212
La fanciulla per man Bardo tenendo
vuol pur che come sua, gli si conceda.
L’altro per l’altra ancor la vien traendo,
ciascun brama per sé la nobil preda.
Ma le due dee gli acquetano, imponendo
ch’ancor da capo a tenzonar si rieda
ed acciocché’l giudicio alfin non erri,
fan visitar con diligenza i ferri.
213
Per mostrar meglio il ver, la pugna accetta
il guerrier d’Arno, ancorché d’ira avampi,
ed ecco il ferro allor con tanta fretta
torna il bravo a rotar ch’eccede i lampi.
Ma già del’altro il ciel fa la vendetta
e’l caso vuol che l’aversario inciampi,
ch’un non so che gli s’attraversa al passo
e’l piè gli manca e sdrucciola in un sasso.
214
Con la chiave del piè guasta e scommessa
risorge Olbrando dale molli arene,
dolente sì che’n mezzo al’ira istessa
al nobil vincitor pietà ne viene,
loqual cortesemente a lui s’appressa,
a levarsi l’aita e lo sostiene
ed obliando le discordie e l’onte
gli forbisce le vesti e’l bacia in fronte.
215
La giovane tra lor già litigata
restò pur finalmente in suo potere,
e l’altro, che pur dianzi avea stracciata
la traversa vermiglia in su’l cadere,
un’altra n’ebbe, intorno intorno orlata
di merletti di perle a tre filiere
ed avea di grottesche e di fogliami,
lavor di nobil ago, ampi riccami.
216
– Più che propria virtù destin secondo
diè questa palma (ei disse) al mio rivale.
Colei che n’erge in alto e spinge al fondo,
dona spesso gli onori a chi men vale. –
E l’altro allor: – Più dee pregiarsi al mondo
favor divin d’ogni valor mortale.
Se le stelle mi fer sì fortunato,
dunque il ciel m’ama e ne ringrazio il fato. –
217
Vener qui s’interpose e sciolse il nodo
con un dolce sorriso ala favella:
– Vincasi pur in qualsivoglia modo,
che la vittoria alfin fu sempre bella. –
Tronco il filo ala lite e fisso il chiodo
al decreto immortal, la dea più bella
fè dopo questi i duo primier campioni
contenti anco restar con altri doni.
218
Ponsi poscia a mirar Marzio e Guerrino,
l’un de’ quali è guascon, l’altro normanno,
l’un e l’altro iracondo e repentino
che tolerar, che destreggiar non sanno.
Esce pria l’aquitano, indi vicino
fattosi al’altro, ove le smarre stanno,
perché vinto d’orgoglio esser non soffre,
de’ duo stili d’acciar la scelta gli offre.
219
Eran le smarre ben temprate e dure,
quantunque oltre il dever lunghe, sottili.
Guerrin sorride e dice: – Altre armature
si convengon che queste a cor virili.
Parmi un scherzar da pargoletti o pure
un pugnar da guerrier codardi e vili.
A dirti il ver, meglio amerei provarmi
con la spada di fil che con quest’armi. –
220
– A chi pace non vuol, guerra non manca
(Marzio risponde) in campo ecco mi vedi.
Voglimi o con la nera o con la bianca,
pronto sempre m’avrai qual più mi chiedi. –
Non vuol Ciprigna che la coppia franca,
che già nova disfida ha messa in piedi,
la festa sua sì dilettosa e lieta,
macchi di sangue e gliel contende e vieta.
221
Grida Guerrino: – Almen fa che sien tolti
dale punte de’ ferri i duo bottoni,
né sien da’ colpi eccettuati i volti;
mantenga poi ciascun le sue ragioni. –
– Non creder ch’io miglior novella ascolti,
né men brami di te quel che proponi –
(replica Marzio) e freme iratamente,
onde Vener, costretta, alfin consente.
222
Non molto in lungo andò tra loro il gioco,
né l’un del’altro ebbe la man men presta.
Si serrar tosto insieme i cor di foco
e la mira pigliaro ambo ala testa.
Onde l’assalto lor, che durò poco,
si terminò con azzion funesta
e passato e squarciato al’improviso
l’un con l’occhio restò, l’altro col viso.
223
Poich’ha la dea, non senza doglia acerba,
visto il tragico fin dela battaglia,
in risanargli con qualch’util’erba
prega Apollo a mostrar quant’egli vaglia.
Poi dona a Marzio d’agata superba,
da portar nel cappel, ricca medaglia
ed a Guerrin d’una fattura estrana,
per ornarsene il petto, aurea collana.
224
Sorge Altamondo, un aleman membruto,
di superbia e di vin fumante e caldo
e non attende che col suono arguto
l’inviti in campo a duellar l’araldo.
Cariclio, il greco, è contro lui venuto,
d’ossa minor, ma ben robusto e saldo,
uom di corpo, di piè, di mano attivo,
di spirto pronto e di coraggio vivo.
225
Vassene il greco senza far parole
per dargli il primo allor allor di piglio;
aspettar che si scaldi egli non vole,
né stima il dargli tempo util consiglio,
ché la ruina di sì greve mole
teme e’l restarne oppresso è gran periglio.
Onde nel ripararsi e nel colpire
del’industria si serve e del’ardire.
226
Nele sue guardie ha di svantaggio il grande
e d’uopo è ben ch’anch’egli il senno adopre,
ch’ad ogni moto che le braccia spande,
del’ampio corpo una gran parte scopre.
Mal picciolo davante e dale bande
facilmente si serra e si ricopre
e può meglio cangiar sito e postura,
non avendo a guardar tanta statura.
227
Mentre i colpi il germano adombra e finge
con molti tempi e’l tempo indarno spende,
l’ultima parte del suo forte ei spinge
siché nel mezzo il debile gli prende;
gli guadagna la spada, indi si stringe
seco ed addosso gli si scaglia e stende,
né potendol ferir di piede fermo
con fugace trapasso usa altro schermo.
228
Su per la spada, che Cariclio ha stesa,
quegli allor trae di punta inver la faccia;
ma questi anch’ei di punta a fargli offesa
sotto il braccio suo destro il ferro caccia,
e per non s’arrischiar seco ala presa,
che sa ch’ha maggior forze e miglior braccia,
senz’altro indugio in un medesmo istante
lo ferisce nel fianco e passa avante.
229
Per dargli in testa, con un tratto accorto
di riverso al cavar tira Altamondo;
ma l’altro allor, che si ritrova al corto,
mentre la spada si rivolge in tondo,
subito che del ferro il giro ha scorto
su’l primo quarto il batte col secondo,
la misura gli rompe e con tre passi,
cautamente veloce, indietro fassi.
230
E perché vede che il nemico a molta
possanza accoppia ancor scaltrito ingegno
e se sotto gli va sol una volta
non avrà quella furia alcun ritegno,
fa, con la mente in sé tutta raccolta,
ricorrendo al’astuzie, altro disegno
ed usa ogni arte accioché vinta sia
dala sagacità la gagliardia.
231
Torna e di novo ancor gli s’avicina,
fingendo di tentar nove passate,
poscia, con gran prestezza, il capo inchina
tra le cosce di lui che l’ha sbarrate
e in aria con altissima ruina
dopo’l tergo sel gitta a gambe alzate,
siché dele gran membra il vasto peso
riman, quant’egli è lungo, a terra steso.
232
Venere una cintura allor gli dona
ch’ha di sottil riccamo i guernimenti
e son d’oro le brocche, ond’ala zona
s’affibbian col tirante i perpendenti.
E’l tedesco, ch’al suol con la persona
brutta di polve, sparge alti lamenti,
guadagna anch’ei, benché turbato e tristo,
contro l’ebrezza un indico ametisto.
233
Ma già Cencio e Camillo il vulgo aspetta,
ogni voce nel circo omai gli chiama.
Tanta è l’opinion di lor concetta,
che’l popol tutto il paragon ne brama.
Coppia questa di mastri era perfetta,
emuli d’alta stima e di gran fama,
ch’ebber per mille palme infra i migliori
nele scole latine i primi onori.
234
Nacquero in riva al Tebro, ambo romani,
ma da’ nativi lor patri soggiorni
per desio di veder paesi estrani,
capitati eran qui di pochi giorni.
Già di spada e pugnale arman le mani,
d’abito lieve e rassettato adorni
e succinta hanno a studio in su’l farsetto
spoglia di bianco lino intorno al petto.
235
Ed accioché de’ colpi il segno resti
nela candida tela e vi s’imprima,
dal’un canto e dal’altro e quegli e questi
tinti han di nero i ferri insu la cima.
Non sono ad affrettarsi ancor sì presti
e non si stringon subito ala prima,
ma fanno, intenti ad ogni moto e cenno,
moderator del’ardimento il senno.
236
Tenta ciascun con ingegnose prove
farsi al proprio vantaggio adito e strada.
Concorde al corpo il piè, concorde move
l’occhio ala mano ed ala man la spada.
Or minaccia in un loco e fa ch’altrove
inaspettata la percossa cada,
or, risoluto l’un l’altro incontrando,
sottentra insieme e si sottragge al brando.
237
In ambo la ragion s’agguaglia al’ira,
l’un e l’altro è delpari agile e forte.
Quegli talor accenna e talor tira
colpi furtivi con insidie accorte;
questi girando al ferro ostil che gira,
oppon guardie sagaci, astute porte.
Se l’un con leggiadria chiama fingendo,
l’altro con maestria para ferendo.
238
Camillo, ove il passaggio aperto vede,
spinge la spada per entrar veloce:
– Ripara or questa – dice, e batte e fiede
col piè la terra e l’aria con la voce.
Ma Cencio con la sua non gliel concede,
l’urta in sul forte e la ribatte in croce,
sovra l’elsa la ferma e dal’impaccio
ritrae subito poi libero il braccio.
239
In un tempo medesmo il ferro abbassa
dritto al costato inver la manca parte
e mentre impetuoso andar si lassa,
grida: – Così s’inganna arte con arte. –
L’altro il periglio del furor che passa
schiva col fianco e traggesi in disparte;
ed ambo i ferri, mentr’un poggia un cala,
scorrono invan sul tergo e sotto l’ala.
240
Non molto stan, ch’essendo entrambo in punto
di tornar ale prese ed ale strette,
tiran di punta in un medesmo punto
sì ratti che del ciel sembran saette;
e’n quella parte ove l’un coglie apunto,
l’altro né più né men la spada mette.
A colpir questo e quel va su le cosce,
siché vantaggio in lor non si conosce.
241
La rattacca Camillo e si presenta
col piè destro davante ardito e franco
e’n passo natural vi si sostenta
di profilo col busto e mostra il fianco
e con la spada, che per dritto aventa,
stende il braccio migliore ed alza il manco.
Ripara un col pugnal la testa in alto
e l’altro il corpo dal nemico assalto.
242
Cencio incontro gli va né si scompone,
ma col sinistro piede oltre s’avanza;
nel dritto del diametro si pone,
sich’al circol pervien dela distanza
e dela manca spalla il punto oppone
verso la linea ostil, poi fa mutanza
e dal confin che dianzi s’ha prescritto,
di moto traversal move il piè dritto.
243
Esce dal primo circolo e va ratto
nel secondo de’ quattro a cangiar posto
e rimosso quel punto, annulla a un tratto
dela linea nemica il segno opposto,
e con moto minor di quelch’ha fatto
colui, che di ferirlo era disposto,
e deltutto contrario al’altrui moto,
fa che, se vuol ferir, ferisca a voto.
244
Quegli allor piede a piede insieme aggiunta,
s’apre in passo di forza e viengli addosso
e la stoccata seguita e la punta
porta a quel segno pur ch’è già rimosso
e’n lui, ma così scarso, il ferro appunta
che tocco si può dir più che percosso.
Il colpo è sì leggier, noce sì poco,
che riman dubbio a chi rimira il gioco.
245
Ma l’altro a un tempo dala parte aversa
contraposto d’obliquo ala ferita,
la spalla destra, incontr’a sé conversa,
gli ha di ferma imbroccata apien colpita
e col pugnale intanto gli attraversa
la spada ch’al tornar resta impedita;
poi si ritira e con la sua distesa
ponsi e col corpo in scorcio ala difesa.
246
Qui fè cenno agli araldi e non permise
che l’ostinata pugna oltre seguisse
e la coppia magnanima divise
la nemica degli odi e dele risse;
e fu pari la gloria e dele decise
che dipar la mercè si compartisse;
e da Ciprigna in premio e da Bellona
folgorina ebbe l’un, l’altro bisciona.
247
Erano queste due famose spade,
Enea già l’una e l’altra usò Camilla.
Ambe di rara e singolar bontade
e quella e questa svincola e sfavilla.
Sì dolce è il taglio e così netto rade,
ch’altri prima che’l senta, il sangue stilla.
Hanno ricche guaine e le lor daghe
con bei manichi d’or pompose e vaghe.
248
Intanto il sol s’inchina e fa passaggio
d’Esperia a visitar l’estremo lito
e stanco peregrin del gran viaggio,
avendo il minor circolo fornito;
carta è il ciel, l’ombra inchiostro e penna il raggio,
onde cancella il dì ch’è già compito
e’l fin del lungo corso a lettre vive
d’oro celeste in occidente scrive.
249
Sparito il sole, in apparir le stelle
voto tutto di genti il campo resta.
Chi sotto le frondose e verdi ombrelle
vassene ad alloggiar nela foresta,
chi del palagio in queste stanze e’n quelle
e chi de’ borghi in quella casa e’n questa;
altri giace in campagna e’l giorno attende
tra pergolati e padiglioni e tende.
250
Ma già traea del Gange i biondi crini
lasciando Apollo i suoi dorati alberghi
e ratto fuor degl’indici confini
ai volanti corsier sferzava i terghi,
per venirsi a specchiar ne’ ferri fini
degli elmi tersi e de’ lucenti usberghi,
onde sembrava al mattutino lampo
tutto di soli seminato il campo,
251
quando l’usata tromba ecco s’ascolta
ch’al gran bagordo appella i cavalieri.
Già s’è la turba al nuovo suon raccolta,
già si veggion passar paggi e scudieri
e trar cavalli a mano e gir in volta
con livree, con insegne e con cimieri
e portar quinci e quindi armi ed antenne,
bandiere e bande e pennoncelli e penne.
252
Mentre che del paese e di ventura
molta cavalleria concorre al gioco,
siché dela larghissima pianura
son già pieni i cantoni a poco a poco,
dela quintana esperti fabri han cura
e di piantarla in oportuno loco;
e proprio insu la sbarra appo la lizza
nel mezzo dela tela ella si drizza.
253
Sta coverto di ferro un uom di legno,
con lo scudo imbracciato e l’elmo chiuso,
ch’esposto ai colpi altrui, bersaglio e segno
termina il busto in un volubil fuso
e s’affige ala base e gli è sostegno
forato ceppo e ben fondato ingiuso,
sovra cui, quando avien ch’altri il percota,
agevolmente si raggira e rota.
254
Tre catene ha la destra e quindi avinto
di tre globi di piombo il peso pende,
siché qualora il manco braccio è spinto,
l’altro con esse si rivolge e stende,
pur come voglia, ale vendette accinto,
castigar chi fallisce e chi l’offende;
né sì cauto esser può, né gir sì sciolto,
che sul tergo il guerrier non ne sia colto.
255
Un pilier di diaspro in terra fitto
su la porta al’entrar delo steccato
in gran lamina d’or regge uno scritto
a note di rubin tutto vergato:
qui dela giostra il generale editto
che dianzi a suon di trombe è publicato,
di quanto in essa adoperar conviene
le leggi per capitoli contiene.
256
Bella è la vista a meraviglia e lieta,
varia la gente e l’abito diverso.
Chi scopre nel vestir gioia secreta,
chi tacendo si duol d’amor perverso.
Chi cifra ha d’or su l’armi e chi di seta,
altri in prosa alcun breve ed altri in verso.
Ciascuno o nel colore o nel’impresa
al’amata bellezza il cor palesa.
257
Sidonio in campo è il primo a comparire,
Sidonio dico, il genero d’Argene,
l’accorto amante il cui felice ardire
meritò d’ottener l’amato bene.
Ma mentre tutto intento a ben ferire
già con la lancia in punto oltre ne viene,
dala sua donna, ch’è sul palco assisa,
con altr’armi è ferito e d’altra guisa.
258
Quarteggiate d’argento armi azzurrine
son le divise sue pompose e belle,
di zaffir tempestate e di turchine,
fatte a sembianza d’onde e di procelle,
tra cui consparse son d’acque marine
e di brilli cilestri alquante stelle,
che fanno al sol, sicom’ai lampi il flutto,
balenar, tremolar l’arnese tutto.
259
La lorica è d’argento, adorna e ricca
dele più belle pietre di levante.
Con fibbie d’or si serra e si conficca
con chiodetti pur d’oro e di diamante.
Bandato vien d’una cerulea stricca,
con bei fiocchi di seta ingiù cascante;
e del color medesmo al destro braccio
tien di biondi capei trecciato un laccio.
260
Perché Dorisbe azzurra usa la veste,
veste anch’egli l’azzurro e l’usa e l’ama
e l’auree fila in quel cordon conteste
son dele chiome pur dela sua dama.
Con piume d’or quel fanciullin celeste,
quel nudo arcier ch’Amore il mondo chiama,
sovra la rota di Fortuna assiso
porta nel’elmo e nelo scudo inciso.
261
Esce per sorte a tutti gli altri avanti
e’l primo loco ad occupar si move.
Tre volte correr sol lice a’ giostranti
per legge dela dea figlia di Giove.
Soriano ha un corsier, che i primi vanti
riportò dela giostra in cento prove
e già chiede co’ ringhi, accinto al corso,
al suo signor la libertà del morso.
262
È baio e di fattezze assai ben fatte,
grasso petto, ampia groppa e largo fianco.
Spesso col piè sonoro il terren batte,
ora col destro il zappa, ora col manco.
Quasi notturno ciel solco di latte,
gli divide la fronte un fregio bianco,
brune ha gambe e ginocchia e brune chiome,
duo piè balzani e Balzanello ha nome.
263
Di pace impaziente e di dimora,
sente l’odor dela vicina guerra.
Tende l’orecchie e sbuffa adora adora,
le nari ador ador gonfia e disserra,
tutto spumoso il ricco fren divora,
drizza il collo, erge il crin, gratta la terra.
E tosto che tre volte ode la tromba
par sasso che volando esca di fromba.
264
Gli stringe i fianchi e l’una e l’altra costa
con gli stimuli d’or punge e ripunge,
e di là dove apunto il colpo apposta
va per dritto a ferir non molto lunge.
Il buon destrier, ch’al termine s’accosta,
para in tre salti e, quando alfin vi giunge,
al mormorio del’ottenuta laude
con la test’alta e col nitrito applaude.
265
Tra’l segno inferior ch’è nela gola
e’l secondo di mezzo il tronco ei spezza;
e benché’l pregio è d’una botta sola,
Vener, che molto il suo fedele apprezza,
col dono avantaggiato il riconsola
d’un fornimento pien d’alta ricchezza,
guernigion da destrier superba e bella
con testiera e groppiera e fascia e sella.
266
A lui succede un saracin di Tarso
che la corazza e la divisa ha nera
e di serpi d’argento il campo sparso
dela cotta che l’arma ala leggiera.
Con l’asta in pugno è nel’agon comparso,
che pur di negro in cima ha la bandiera;
sul sinistro galon curva la storta
e’l turcasso con l’arco al tergo porta.
267
Passato un cor d’acuto strale e crudo
ha per cimier la cappellina bruna.
Di gran foglie d’acciar fasciato scudo,
scudo a sembianza di non piena luna,
copre senza bracciale il braccio ignudo,
né color v’ha né v’ha pittura alcuna
fuor due righe di bianco e dice: – O morte,
l’anima senza corpo, o miglior sorte. –
268
Avea per la bellissima Adamanta,
figlia del re d’Arabia, il cor ferito.
Era però dala vezzosa infanta
ogni servigio suo poco gradito
e, benché fusse in lui prodezza quanta
illustrar possa altrui, languia schernito,
perché mento avea raso, irsuto labro,
viso pallido, brun, rugoso e scabro.
269
Tosto riconosciuto ala coverta
del’armi fu com’uom famoso e chiaro.
Veggendol poi con la baviera aperta,
le turbe intorno un lieto grido alzaro:
– Ecco Alabrun che’n ogni colpo accerta,
Alabrun dala lancia, il campion raro.
Senza dubbio egli è desso. Avrà tra poco
termin la festa e si vedrà bel gioco. –
270
Vien portato costui da un suo stornello
rapido sì, che se’n campagna il vedi
formar volte e rivolte, agile augello,
mobil paleo, volubil fiamma il credi.
E se’n fuga ne va spedito e snello,
par le procelle apunto abbia ne’ piedi.
Vergato a bruno e pien d’alto ardimento,
vola, non corre, e nome ha Passavento.
271
Sovente il crin solleva, erge la testa
e picchia il suol con la ferrata zampa,
calca nel corso l’erba e non la pesta,
preme col piè l’arena e non la stampa;
soffia borfando e’n quella parte e’n questa
sempre si volge e d’alto incendio avampa;
chiude, né trova al suo furor mai loco,
sotto il cener del manto alma di foco.
272
Contan che del’arabica pendice,
mentre pascea l’armento in riva al’acque
pien di quella incostanza, imitatrice
del mar vicino, insu gli scogli nacque.
Nettun primier domollo, anzi si dice,
che talor di montarlo ei si compiacque.
Quel veloce il portava e vie più lenti
ne venian dietro ad emularlo i venti.
273
Pungendo ei dunque a quel destrier la pancia,
è sì rapace e violento il moto,
ch’agio non ha d’arrestar pur la lancia,
perde l’incontro e fa l’arringo ir voto.
Onde, infiammato di rossor la guancia
per error sì notabile e sì noto,
ritorna a spron battuto e briglia sciolta
a serrarlo nel corso un’altra volta.
274
Vana ancora è la botta ed è tra via
dal soverchio furor dispersa e guasta,
che pria che giunto ala sortice ei sia
per sestessa in andar si rompe l’asta:
– Ancor tu contro me, Fortuna ria,
(disse) congiuri? Amor solo non basta?
Venga il mio Farfallino! – e dai sergenti
gli fu innanzi recato ai primi accenti.
275
Questo del’altro è men carnoso e grande,
stretto di ventre e corto di giunture.
È del color dell’uve e dele ghiande
quando in piena stagion son ben mature.
Biondi, quasi leone, i velli spande
ed ha luci vermiglie e gambe oscure,
membra svegliate ad ogni cenno e pronte,
rabican nela coda e nela fronte.
276
La guernitura è candida e morella
con bei puntali di lucente smalto,
ma di lame acciarine arma la sella,
ben ferme e forti ad ogni duro assalto.
Selva di folte piume ombrosa e bella
gl’imbosca il capo e si rincrespa in alto.
Semedesmo ei vagheggia ed orgoglioso
de’ ricchi fregi suoi non ha riposo.
277
Vi salse il moro e, del’error commesso
tutto stizzoso, un’altra lancia tolse
e di meglio colpir fermo in sestesso,
contro il facchin le redine gli sciolse;
e’nfin al pugno alfin la ruppe in esso
e tra’l visale e la nasella il colse;
e senon che strisciò raschiando il segno,
del primo pregio il colpo era ben degno.
278
Pur dala bella giudice, che i gesti
stava a notar de’ giostrator baroni
per compartir conformi a quegli e questi
gli onori al’opre, ale fatiche i doni,
in pegno di conforto ai pensier mesti
un paio riportò di ricchi sproni,
che di fin or le fibbie e le girelle
e d’aguzzi diamanti avean le stelle.
279
Floridauro e Rosano eran duo pegni
d’una portata insieme al mondo nati
e pargoletti ereditaro i regni
de’ Caspi alpestri e de’ Rifei gelati.
Ma poi per colpa di duo servi indegni,
che già dal morto re furo essaltati,
a tradigion del regio scettro privi
n’andaro orfani un tempo e fuggitivi.
280
Cresciuti in forze e pervenuti agli anni
mossero l’armi intrepidi guerrieri
e vendicaro i ricevuti danni
e racquistaro gli usurpati imperi.
Or già vinti ed uccisi i duo tiranni,
qua ne veniano i giovinetti alteri
e del color del’erbe e dele foglie
sparse di soli d’oro avean le spoglie.
281
L’oro forbito insu l’arnese verde
in cotal guisa folgora e risplende,
che la vista abbarbaglia e la disperde
e’l finto sol col vero sol contende
e contendendo al paragon non perde
ché, se raggi ne trae, lampi gli rende.
Ambo egualmente di due belle imprese
fanno al’elmo ornamento ed al pavese.
282
Nel’una è un sole a cui velar la luce
tenta vil nube e ricoprir la faccia;
– Ingrata al genitor che lo produce –
dice il cartiglio che lo scudo abbraccia.
Nel’altra il sol istesso anco riluce
che’l malnato vapor distrugge e straccia;
e dice il motto insu la targa al tergo:
– Io che’n alto la trassi, io la dispergo. –
283
Cavalca quei di placida andatura
destrier gentil che nel’andar paleggia.
Tranne il ciglio e’l calcagno, in cui Natura
sparse alquanto di brun, tutto biancheggia
e’l cigno intatto e la colomba pura
nela canicie del bel pel pareggia.
Sembra al’andar, sì vago è quel cavallo,
sposa in passeggio o donzelletta in ballo.
284
Nacque di padre trace e madre armena
ne’ monti là dov’aquilone alberga.
Nominossi Armellino e l’ampia schiena
un profondo canal gli riga e verga.
Rimorde il morso che con or l’affrena
e si lascia con man palpar le terga.
Sbavan le labra e con lasciva sferza
la lussuria del crin su’l collo scherza.
285
Picca quest’altro un barbaro veloce
ch’egual quasi al pensiero il corso stende.
Delo spron, dela verga e dela voce
pria che senta il comando, il cenno intende.
Fierezza vaga e leggiadria feroce
umile al morso alteramente il rende.
Steril per arte e meglio assai per questo,
fatto inabil marito, abile al resto.
286
Chiamasi il Turco e dela Furia lieve
diresti e che del’Impeto sia figlio,
lungo e sottil la gamba, asciutto e breve
il capo, alto la fronte, altero il ciglio.
Di tutto il corpo ch’è di bianca neve
l’estremo dela coda ha sol vermiglio,
picchiato a schizzi e di macchiette fosche
puntellato il mantel come di mosche.
287
Corsero alternamente e pria Rosano
ben due volte colpì nela gorgiera.
Corse la terza poi, ma corse invano,
che la sbarra toccò nela carriera.
Non fè meglio di lui l’altro germano,
che due volte tornò con l’asta intera;
fallò duo colpi ed ala terza botta
gli fè danno maggior l’averla rotta.
288
Mentre che’n cento pezzi ala goletta
la ruppe con la man possente e franca,
una scaglia volò come saetta
e si confisse al corridor nel’anca;
ond’a contaminar la neve schietta
di quella spoglia immacolata e bianca,
videsi tosto un vermiglietto rivo
per la piaga spicciar di sangue vivo.
289
Di quel caso pietosa e di quel sangue
Venere il tutto ad osservare intenta,
al primo un bel cimiero in foggia d’angue
fabricato di gemme in don presenta.
Al’altro, in vece del destriero essangue,
di pel simile al’ambra una giumenta
che già di poco ingravidata il seno
di parto ancor non ben maturo ha pieno,
290
specchio e corona dele frigie stalle,
figlia di bella e generosa madre
e dele più magnanime cavalle
scelta per la miglior fra cento squadre.
Nel petto, nele groppe e nele spalle
pomellata è di macchie assai leggiadre.
Dala vivacità che in lei sfavilla
il nome tolse e s’appellò Favilla.
291
Segue Montauro, uom ben corputo e grosso,
da sei scudieri accompagnato e cinto
con l’istessa livrea ch’ei porta addosso
stellata d’oro in un rossor mal tinto.
Lo scudo altier, che similmente è rosso,
tien del gran Giove il fulmine dipinto.
Di corona real, tutta contesta
di gemme e d’or, cerchiato ha l’elmo in testa,
292
e nela sommità del morione
par fischi e spiri fuor fiamma vivace
e spiega l’ali ed apre un fier dragone
del’ampia gola il baratro vorace.
Saginato e rossigno ha un suo ronzone
ch’ala grandezza sua ben si conface.
Nacque in India sul Gange ed è cornuto
e’l corno è lungo e più che lancia acuto.
293
Pende un fiocco di perle al corno in punta,
di perle dele noci assai maggiori.
Porpora con argento inun congiunta
d’un sovrariccio d’or broccata a fiori
che, del’estremo margine trapunta
di bei fregi ha la fascia e di lavori,
tuttutto il superbissimo Alicorno
tien dal capo al tallon bardato intorno.
294
Gonfio di gloria e di superbia pazza
in sestesso il guerrier si pavoneggia
e quantunque sia solo in sì gran piazza,
tutta ei solo l’occupa e signoreggia.
E benché forte e di feroce razza,
l’animal, che cavalca e che maneggia,
sotto il peso che porta insu la schiena,
ficca un braccio le braccia entro l’arena.
295
È re di Rodo. Il regno a cui comanda
con Cipro insu i confini è sempre in guerra.
Questi in atto sprezzante allor da banda
per giostrar su le mosse un tronco afferra.
Ma l’araldo ne vien che gli dimanda
chi siasi e di qual gente e di qual terra.
Risponde il fier, colmo d’orgoglio e sdegno:
– Chi’l sol non vede è dela luce indegno.
296
Sole è il mio nome e non è loco alcuno
dove chiaro non sia, né più dirotti
ch’esser ben devria qui noto a ciascuno
il temuto flagel de’ Cipriotti.
Ciò basti e basti sol ch’io mi son uno
uso a far molti fatti e pochi motti. –
Non bada a far, ciò detto, altro discorso,
la lancia impugna e s’apparecchia al corso.
297
L’orecchie apena il primo suon gli fiede
del tortuoso incitator metallo,
che dispicca un gran trotto e ne succede
l’effetto mal, bench’abbia scusa il fallo.
Sinistrando il destrier dal destro piede,
cadder tutti in un fascio uomo e cavallo.
Quel suo dal corno è poderoso e grave
e del mestier la pratica non have.
298
Levasi infretta dal’immonda sabbia
tra sé fremendo irato e furibondo;
e perché, quando colpa egli non v’abbia,
chi manca al primo arringo esce al secondo,
rimonta arso di scorno, ebro di rabbia
in un altro corsier membruto e tondo,
di non minor possanza e gagliardia,
che la dea degli amori in don gl’invia.
299
D’un’alfana di Scizia e d’un centauro
là nel freddo Pangeo fu generato.
Il suo pelame è del color del’auro,
il suo nome per vezzo è lo Sfacciato,
perché sol nela faccia, il resto è sauro,
d’una gran pezza bianca ei va segnato.
Di quattro gambe parimente è scalzo
e camina saltando a balzo a balzo.
300
Poco miglior del primo il second’atto
seguì, perché dal segno ancor lontano,
lo sconcerto e’l disordin fu sì fatto
che si lasciò la lancia uscir di mano.
Pur la ripiglia e studia il terzo tratto
per far buon corso e non ferire invano,
né dando loco altrui d’entrar in campo,
con l’incontro emendar cerca l’inciampo.
301
Lo scudo del facchin nel mezzo imbrocca
che la scorza ha d’acciar lubrica e liscia,
onde vien l’asta ingiù tosto che’l tocca,
di sghembo a sdrucciolar con lunga striscia.
Girasi il torno e la catena scocca,
che s’ode allor fischiar com’una biscia
e nel passar con le piombate palle,
fa lunge al cavalier sonar le spalle.
302
Qual robusto castagno o pino alpino
del celeste centauro ai primi orgogli,
s’avien che del bel verde ostro o garbino,
la folta chioma e le gran braccia spogli
o ch’a busse ne scota il contadino
gl’irsuti ricci e i noderosi scogli,
fulmina al piano i frutti suoi sonori,
dele mense brumali ultimi onori,
303
tal quella mobil machina che presta
in semedesma si raggira e libra,
facendo allor fioccar l’aspra tempesta
il braccio move e le catene vibra
e’n tal guisa al guerrier la schiena pesta
ch’ogni nervo gli dole ed ogni fibra.
Batte le palme il vulgo e fischia e grida,
non è vecchio o fanciul che non ne rida.
304
Tornaro i primi a replicar l’antenne:
tal n’ebbe onor che fu biasmato avante;
e spesso il piombo incatenato venne
a scaricar la grandine pesante.
Così la piazza un pezzo si trattenne
con gran piacer del popol circostante;
e ciascun tanto o quanto, il vile e’l prode
n’ebbe chi più, chi meno, o premio o lode.
305
Vede girando poi Vener le ciglia
a coppia a coppia entrar nela barriera
di diciotto guerrier nobil quadriglia,
ai sembianti ed agli abiti straniera.
L’armatura ciascun porta vermiglia,
salvo colui che capo è dela schiera;
e con tal grazia e maestà cavalca
che’l passo volentier gli apre la calca,
306
onde ala saggia dea dela civetta
stupida in atto si rivolge e parla:
– Che squadra è quella che fra l’altre eletta
trae tutti gli occhi intenti a vagheggiarla
e vien con sì bell’ordine ristretta,
ch’io per me non saprei, senon lodarla? –
Così dice la dea nata dal’onde
e la vergin del ciel così risponde:
307
– A la tua Teti è ben ragion che porti
questo di fortunato obligo eterno,
perché mentre pur dianzi i guerrier forti
prendendo in picciol legno i flutti a scherno
trascorreano i sentier torbidi e torti
del’elemento a lei dato in governo,
per onorar la tua famosa festa
l’acque turbò con subita tempesta;
308
onde il drappello aventurier, ch’errante
altre imprese cercando in Asia giva,
stanco dal mareggiar, fermò le piante
in quest’amena e dilettosa riva.
Or qui finché s’acqueti il mar sonante
vien per provarsi ala tenzon festiva,
peregrin di costume e d’idioma
e v’è dentro raccolto il fior di Roma.
309
Chiamala ognun la compagnia del foco
perché qual foco dissipa e consuma.
Non trova al suo valor riparo o loco,
arde pertutto e tutto il mondo alluma.
Ciascun destriero in vera pugna o in gioco
di tre penne sanguigne il capo impiuma.
Gli elmi e l’armi hanno eguali e questi e quelle
han per fregi e cimier fiamme e fiammelle.
310
Tutto delpari ala medesma guisa
l’inclito stuol di porpora è guernito,
senon quanto diversa è la divisa
di cui ciascun lo scudo ha colorito.
Solo colui, meco lo sguardo affisa
a quel primier ch’io ti dimostro a dito,
come di tutti lor suprema scorta,
differente dagli altri il vestir porta.
311
Quegli è Michel che, quasi eccelso duce
vien dela truppa e condottier sovrano,
pompa, gloria, delizia, unica luce
de’ sacri colli e del’onor romano.
Scelto fu dagli eroi ch’egli conduce
di consenso commun per capitano.
Ecco la sbarra d’ostro, ecco l’altero
leon che s’erge e tien fra l’unghie il pero.
312
Colui ch’è seco insu la fila prima,
è il gran Ranuccio, intrepido campione,
tra i più chiari guerrier di somma stima
vibri l’asta o la spada insu l’arcione;
onde, poggiato dela gloria in cima,
mille l’attendon già palme e corone.
Su la rotella d’or mira dipinti
con le foglie cerulee i sei giacinti.
313
Pietro il seconda, alta speranza e pregio
d’Italia tutta e l’onorato stemma
in celeste color con ricco fregio
d’un aureo rastro e di sei stelle ingemma.
Marcantonio è con lui, giovane egregio,
guarda colà misterioso emblemma:
convien pur che soggiaccia, il senso esprime,
l’infernal drago al’aquila sublime.
314
L’altro che segue e la colonna mostra
bianca insu’l minio ed ha sì fier l’aspetto,
Sciarra s’appella, e’n guerra mai né in giostra
non fu più ardito cor, più franco petto.
Virginio è quei che’l puro argento inostra
di tre traverse di rubino schietto,
anima illustre e d’adornar ben degna
del tuo bel fior la gloriosa insegna.
315
Vedi un che degli augei l’alta reina
tarsiata ha di scacchi orati e neri,
lucido sol dela virtù latina;
Camillo ha nome, ascritto infra i primieri.
Sabellio seco apar apar camina,
specchio immortal di duci e di guerrieri;
conosco ben l’impronta sua famosa
ch’è la colomba e tra i leon la rosa.
316
Eccone un’altra coppia; al destro fianco
veggio un baron di generose prove,
Ruggier, che sovra’l fondo azzurro e bianco
inquartato l’augel porta di Giove.
Veggio poi Sforza che gli vien dal manco,
né con minor baldanza il destrier move;
figura in su’l turchin l’orbe di smalto
aureo leon con aureo pomo in alto.
317
Ve’ Gismondo ed Emilio. O stirpe altera,
tra le fortune invitta e tra’ perigli!
Quei sovr’alta colonna aquila nera
spiega che spiega l’ali, apre gli artigli,
dove stretta in catene è quella fera
che riforma lambendo i rozzi figli.
Questi, ch’è de’ più celebri e più conti,
un cornio ha nel brocchier sovra tre monti.
318
Orazio è quegli là che nel vermiglio
tre lune d’oro ancor crescenti ha sparte.
Signor d’armi possente e di consiglio,
del guerreggiar, del comandar sa l’arte.
D’una ninfa del Tebro è costui figlio
onde figlio lo stima altri di Marte;
ed è ben tal, ché Marte ei sembra apunto,
Marte quando è però teco congiunto.
319
Mario a lato gli va. L’armi che cinge,
fuor lo scudo ch’è rosso, ha tutte bianche.
Duo leoni in quel rosso egli dipinge
che quattro pani d’oro han tra le branche.
Annibaldo la lancia aprova stringe
e’n sembianze ne vien feroci e franche.
Il bruno scorpion scolpisce in oro,
che vessillo fia poi del fiero moro.
320
Il buon Curzio procede a lui vicino,
Scipio con Fabio alfin dietro s’accampa.
L’un nel targone azzur sculto d’or fino
tien l’animal magnanimo che rampa.
L’altro il quartier dorato e purpurino
di croce trionfal per mezzo stampa.
L’ultimo ha lista d’or che per traverso
scacchier divide innargentato e perso.
321
Ma non vedi un di lor ch’ha già l’antenna
sovra la coscia e, benché grave e grossa,
lieve giunco gli sembra ed agil penna,
stiam pur dunque a mirar quant’egli possa.
Già fattosi da capo, ecco ch’accenna
dritto insu’l filo entro l’agon la mossa.
Ecco volar qual folgore leggiero
la piuma che fiammeggia insu’l cimiero. –
322
Intanto poiché furo i nomi scritti
de’ cavalier dala divisa ardente
e d’osservare i promulgati editti
giuraro e per mirar tacque la gente;
correndo ad un ad un gli emuli invitti,
tutti si segnalar notabilmente;
alcun non fu che non n’uscisse apieno
o con vittoria o con applauso almeno.
323
Restava sol colui che dela bella
brigata quasi il principal venia
quando con foggia insolita e novella,
il serraglio passò dela bastia;
né so s’alcun sì ben disposto in sella
l’agguagliasse giamai di leggiadria.
Dopo tutti, costui venne solingo
signorilmente a posseder l’arringo.
324
Il più superbo augel su la celata
trionfante nel’atto ha per cimiero,
qualor gonfio di fasto apre e dilata
dele conche di smalto il cerchio intero
e dela piuma florida e gemmata
spiegando gli orbi di sue pompe altero,
la bella scena dela coda grande
di cento specchi illuminata spande.
325
Di più color la sovravesta intesse
che la spoglia non è di Flora o d’Iri,
in cui le cime dele penne istesse
son di smeraldi in vece e di zaffiri,
sì ben da dotto artifice commesse
che par che’ntorno il fermamento ei giri.
Par con tant’occhi un Argo e sembra armato
un giardino fiorito, un ciel stellato.
326
Con l’abito ha il destrier qualch’agguaglianza,
non so s’altro mai tal ne fu veduto.
Bianco ha il mantello e’n disusata usanza
sparso di nere macchie il pel canuto;
ma le macchie e le rote hanno sembianza
di ciglia e d’occhi, ond’ei rassembra occhiuto.
Cervier s’appella e par mentre passeggia
l’orgoglioso pavon quando vaneggia.
327
Un fusto intier di frassino silvestro
per far buon colpo a bella posta elegge.
Prima sel reca in man dal fianco destro,
poi tra via l’alza e’nsu la destra il regge.
Ma qual braccio poria forte e maestro
piegarlo pur, non che ridurlo in schegge?
Tre volte corre e’l saracin percote,
ma quel duro troncon romper non pote.
328
Ed ecco dopo lui vi comparisce
altro stranier che’l popol folto allarga.
Nel suo volto e negli anni april fiorisce,
par che raggi d’amor per tutto sparga.
Per obliquo ha costui tre mezze strisce
di lucid’or nella purpurea targa
e su l’elmetto, ch’è di salda tempra,
la fenice immortal quando s’insempra.
329
Non solo eterne in questa esprime l’opre
del proprio singolar pregio e valore,
ma dela donna sua la beltà scopre,
ch’è del mio bel Sebeto unico onore.
Di morato satì l’armi ricopre,
color gentil che pur dinota amore,
in foggia di mandiglia o di guarnacca
che con bottoni di rubin s’attacca.
330
Io non so dir se quel superbo arnese
di tanti fregi e sì pomposo adorno
già dal nobil signor del bel paese,
a cui fan l’Alpi ampia corona intorno,
al gran monarca del valor francese
donato già nel trionfal ritorno,
fusse tal ch’agguagliar potesse in parte
di questa spoglia o la ricchezza o l’arte.
331
Di genitrice ispana e padre moro
regge un destrier ch’agli atti è foco e vento.
La groppa, il capo e tutto il resto ha d’oro,
fuor che’l sinistro piè che sembra argento,
e dela bardatura il bel lavoro
pur d’oro è tutto e d’oro il guernimento,
d’oro le staffe e d’oro il fren spumante
e d’or porta calzate anco le piante.
332
Del cavalier che lo cavalca e doma
è l’occhio destro e’l fior dela sua stalla.
Ei stesso il pasce e Francalancia il noma,
perché dal dritto corso unqua non falla.
Vedesi insuperbir sotto la soma,
lieto del peso che sostiene in spalla,
cavar spesso l’arena e l’or lucente
del fren sonoro essercitar col dente.
333
Senza mutar cavallo o prender fiato
questi l’uom finto in tre carriere assale
e ben tre volte in lui del pin ferrato
rompe fin ala resta il tronco frale;
e nela terza ha più secondo il fato
e fa colpo miglior con forza eguale:
nela buffa gli dà presso la vista,
si ché tre botte in una botta acquista.
334
Fuor dela lizza ei s’è ritratto apena,
quand’ecco in giubba d’or contesta a maglie
giostrator nuovo. Un corsier falbo affrena,
bravo e di sommo ardir nele battaglie.
Su la cresta del’elmo ha la sirena
tutta squamosa di dorate scaglie.
Quelche s’imbraccia dala parte manca
con tre gran fasce l’incarnato imbianca.
335
Bel cavalcante in maestoso gesto
con largo giro il chiuso pian circonda.
Va poi nel mezzo e da quel lato e questo
spinge il destrier ch’è quasi al vento fronda.
Dolce di bocca ed ala mano è presto
e di gran core e di gran lena abonda.
Spirito ha nome e gli conviene invero
perch’oltremodo è spiritoso e fiero.
336
Cordon di sottil seta il regge a freno,
barbaro pettoral l’orna a traverso,
che d’auree borchie è tempestato e pieno
e di gran perle orientali asperso.
Ala testa frontal, fermaglio al seno
gli fan due bolle di smeraldo terso
e per mezzo le coste, ove si stringe,
serica zona e gioiellata il cinge.
337
Del più fin or ch’invia l’alpe arimaspa
fabricata e contesta ha sella e frangia.
Serra la coda, il pavimento raspa
e le gemme del fren rumina e mangia.
Con tanta maestria le braccia innaspa,
con tal arte in andando il passo cangia,
che ne’ suoi vaghi atteggiamenti e moti
par che’n aria schermisca e’n terra nuoti.
338
Poiché conosce che il guerrier risolve
dar spettacolo grato al’altrui viste,
non sai dir, così destro ei si rivolve,
se vola in aria o se nel suol sussiste;
né pur col vago piè segna la polve,
né su la messe offenderia l’ariste.
E quegli or lo sospinge, or lo ritira,
or lo sospende, or com’un torno il gira.
339
A suon di tamburini e di trombette,
lo cui strepito rauco il ciel assorda,
tre volte e quattro intorno egli il rimette,
ed al pronto ubbidir l’aiuto accorda,
sempre applicando ai salti, ale corvette
col dolce impero del’agevol corda,
dela gamba, del piede e del tallone
or la polpa, or la staffa ed or lo sprone.
340
Talor l’arresta, di saltar già lasso,
e nel raccorlo imprime orma sovr’orma.
Poi di novo il volteggia a salto e passo
mutando a un punto e disciplina e norma
e mentre va con repolon più basso
terra terra serpendo, un cerchio forma.
Chiunque il mira al variar stupisce
di tanti e tali e giramenti e bisce.
341
Spesso gli fa, sicome cionco o zoppo,
o questo o quello alzar dele due braccia
e dandogli un leggier mezzo galoppo,
sovra tre piedi or quinci or quindi il caccia.
Fermo nel centro alfin, con un bel groppo
di saltetti minuti alza la faccia
e’l fa davante al tribunal divino
inginocchiar con reverente inchino.
342
Per non troppo stancarlo, ancorché tutto
sia foco e tutto spirto e tutto nervo
e perché sa ch’è per usanza instrutto
più ch’al corso al maneggio, accenna al servo,
ch’un n’ha più fresco e riposato addutto
ma disfrenato, indocile e protervo.
La coda, il crin, la gamba, il capo e’l viso
solo ha di nero, il rimanente è griso.
343
Del color del cilicio orna la spoglia
semplice berrettino e non rotato,
onde quand’uscir suol fuor dela soglia,
è da ciascun l’Ipocrito chiamato.
Par mansueto agnel pria che si scioglia,
sembra una furia poi discatenato.
Così ricopre a chi non sa suo stile
la superbia del cor d’abito umile.
344
Il cavalier con la sinistra mano
su’l pomo del’arcion la briglia stende,
spiccato un leggier salto indi dal piano,
senza staffa toccar sovra v’ascende.
Quel ritroso e restio s’impenna invano,
invan s’arretra e calcitra e contende,
che vié più del guinzaglio e del capestro
può l’arte in lui del domator maestro.
345
Pria dala verga e dalo spron corretto,
poi con vezzi addolcito e fatto molle,
quantunque ancor pien d’ombra e di sospetto
consentir gli convenne a quant’ei volle;
e benché gisse ov’era a gir costretto
con precipizio impetuoso e folle,
pur gli fè nondimeno un verde salce
romper con bell’incontro infin al calce.
346
Lascia il polledro e fa menar dal paggio
altro destrier ch’è del color del topo,
superbo sì, ma non così selvaggio
e sempre avezzo ad investir lo scopo.
Spirto ha discreto e moderato e saggio
e senza segno alcun capo etiopo.
Con occhio ardente e con orecchia aguzza
fremita, anela ed annitrisce e ruzza.
347
Di portar per l’agon l’usato incarco
ferve già d’un desir non mai satollo
e vuolsi delo sprone essergli parco,
basta accennargli ed allentargli il collo;
va più ratto che strale uscito d’arco,
senza dar ala mano un picciol crollo;
la via trangugia e rapido e leggiero,
ruba di man la briglia al cavaliero.
348
Dal correr trito e dal’andar soave
Turbine è detto e i turbini trapassa.
La destra allor di smisurata trave
arma il guerriero estrano, indi l’abbassa
e nel facchin, benché massiccia e grave,
tutta, qual fragil vetro, ei la fracassa.
Due volte corse e fè l’istesso effetto,
l’una al guanciale e l’altra al bacinetto.
349
Rivolta allora a Citerea Bellona
che tace e con stupor la mira in volto:
– Che ti par di costui (seco ragiona)
ch’ad ogni altro nel corso il pregio ha tolto?
S’io miro, oltre il valor dela persona,
la patria ond’egli uscì, non mi par molto,
poich’a lei qualunqu’altra in tali affari
convien che ceda e da lei sola impari.
350
È figlio di Partenope famosa,
Sergio, garzon d’indomito ardimento,
ch’ai monti di Venafro e di Venosa
ed ai piani di Bari e di Tarento,
gente vincendo invitta e valorosa
imposto ha il giogo e non ha peli al mento.
Se’n guerra conquistò spoglie e trofei
che farà nele giostre e ne’ tornei?
351
L’esser qui ben montato, io ben confesso,
ch’altrui val molto, e fora il dir menzogna
che dal cavallo al cavalier ben spesso
e l’onor non resulti e la vergogna.
Ma ch’ardire e vigore abbia in sestesso
e di core e di corpo anco bisogna,
loqual irruginisce e resta ottuso
quando non v’è la buona scola e l’uso.
352
Quest’uso dunque, ch’affinar si suole
col travaglio e’l sudor, fiorisce quivi,
e non v’ha loco in quanto gira il sole
dove meglio s’esserciti e coltivi.
Ma costui, d’alta stirpe altera prole,
è tal che raro fia ch’altri v’arrivi.
Rimira l’armi sue colà ritratte,
un ciel di sangue con tre vie di latte. –
353
Più volea dir, ma l’altra allor repente
il parlar le’nterruppe e disse: – Or guarda
guarda que’ tre, che fior d’ardita gente
sembrano in vista e’n armeggiar gagliarda,
mira i sembianti nobili, pon mente
come ciascun tra l’armi e splenda ed arda.
Già chi sien ben m’avviso. – E l’inventrice
del’arboscel pacifico le dice:
354
– Son, s’io mal non m’appongo e non vaneggio,
di Savoia i tre lumi, i tre fratelli,
tra quanti qui nel’assemblea ne veggio
pregiati, illustri ed incliti donzelli.
Tengon nel piano augusto il real seggio
tra que’ confin deliziosi e belli
a cui con molli braccia e dure fronti
fan riparo tre fiumi e cento monti.
355
Candida è di ciascun la sovrainsegna,
candide son le vesti e le lamiere.
Ma l’un nel’elmo e nel brocchier disegna
il sagittario del’eterne sfere;
l’altro in questo ed in quel figura e segna
croce, terror del’africane schiere;
del terzo adorna il capo, adorna il fianco,
posto in campo vermiglio un destrier bianco.
356
Tutti costor che vedi ed altri molti
son qui per arte pur giunti di Teti.
Ecco l’un dopo l’altro inun raccolti
cominciano a spezzar faggi ed abeti.
Doresio è quei che già gli occhiali ha sciolti
al destrier ch’ha nel cor spirti inquieti:
buon per giostra, atto a caccia, uso in battaglia,
altro il mondo non ha di miglior taglia.
357
Sottile il capo, il collo ha curvo ed ambe
brevi l’orecchie e l’una e l’altra acuta,
aspre di nervi e muscoli le gambe,
largo petto, ampio sen, groppa polputa.
Spesso sbrana le fauci e lecca e lambe
il fren dorato, il labro arriccia e sputa,
né fu di corso mai, né mai di core
velocità, ferocità maggiore.
358
Bruna ha la spoglia in ogni parte integra
più che spento carbone o pece schietta.
Ma bell’aria, occhio vivo e vista allegra,
morbida pelle e rilucente e netta.
Biancheggiar gli fa sol la fronte negra
in forma di cometa una rosetta.
Altri Corvo il chiamò, ma Biancastella
per tal cagione il suo signor l’appella.
359
Alpino è l’altro e del sicano armento
vivacissimo allievo un corsier preme,
ne’ campi là del fertile Agrigento
pasciuto e nato del più nobil seme.
Veste mantel tutto leardo argento
senon che fosche ha sol le parti estreme,
e l’ampia groppa e le spianate spalle
gli ara con lunga lista un nero calle.
360
Su la cervice dala destra parte
gli pende il crine e spesso il quassa e scote.
S’aggira e per l’arene intorno sparte
tesse prigioni e labirinti e rote.
Quant’è dal suol fin ala cinghia ad arte
par che misuri e’n van l’aure percote.
Ringhia, né volentier soggiace al freno,
scorre qual lampo e chiamasi Baleno.
361
Vedilo là che con la man robusta
felicemente il gran lancione ha rotto.
Ecco or Leucippo insu gli arcion s’aggiusta,
non men nel’armi essercitato e dotto.
Vedi che già per dritta linea angusta
sen va broccando il corridor ch’ha sotto.
Il produsse Granata e col pennello
nol saprebbe pittor formar più bello.
362
Non mai Saturno in sì leggiadre spoglie
sonar d’alti nitriti intorno feo,
per involarsi ala gelosa moglie,
le foreste di Pelio e di Peneo.
Al nobil volator la palma toglie
che portò già per l’aria il mio Perseo.
Perde appo lui quel che domò Polluce
e Lucifero detto è dala luce.
363
Né più grate fattezze e signorili
quel del’Aurora in oriente ha forse;
né con più baldanzosi atti gentili
il famoso Arione in Tebe corse.
Vergin non mai sì lunghi o sì sottili
in trecce e’n groppi i suoi capelli attorse,
sicome molli e delicate ei spiega
le belle sete e’n nastro d’or le lega.
364
Fama è ch’avendo il sol, giunto al’occaso,
disciolto il carro insu l’arena ibera,
del seme di Piroo concetto a caso
partorillo del Tago una destriera.
Partita con bel tratto infin al naso
ha di bianco la fronte, alquanto nera,
e di vaghi coturni innargentati
tutti fin al ginocchio i piè calzati.
365
Il resto di gran pezze ha vario il manto,
quasi per arte a più color tessute
e’l bel candor, che toglie al’Alpi il vanto
quando al verno maggior son più canute,
seminato di bigio è tuttoquanto
in spesse stelle e’n gocciole minute.
Eccetto il capo, il piè, la coda e’l crine,
spruzzato par di ceneri e di brine.
366
Già già si move e fuor del folto stuolo
del cor disfoga i generosi ardori.
Ecco lievi ondeggiar per l’aria a volo
del cimier bianco i tremolanti albori.
Par l’aura il porti, apena liba il suolo
e’l suo duce conduce a sommi onori,
là dove per valor più che per sorte
rompe il saldo troncon col braccio forte. –
367
Così dicea Minerva e ben di quanto
parlato avea veraci erano i detti,
perch’altamente ale lor prove intanto
posto avean fin gli armeggiatori eletti,
onde volendo oltre la loda e’l vanto
remunerargli con cortesi effetti,
con questo dir la dispensiera bella
rivolse a lor la faccia e la favella:
368
– Or qualcosa avrò mai ch’al vostro merto,
invitissimi eroi, ben si convegna?
Non se fusse del mar l’erario aperto,
ricchezza avria di tal valor condegna.
Man che larga altrui dona, io so ben certo,
che don picciolo e basso aborre e sdegna.
Pur senza aver riguardo a vil tesoro,
gradirete il desir con cui v’onoro.
369
Voi, che dove il Po sorge in picciol rivo,
principi generosi, avete il trono,
queste tre gemme or non prendete a schivo
che’n segno sol del buon voler vi dono.
L’una è carbonchio e v’è intagliato al vivo
cinto di fiamme il gran rettor del tuono
quando i giganti fulmina dal’Etra;
e’l foco imita ben l’istessa pietra.
370
L’altra d’Apollo con la cetra e’l plettro
mostra incisa l’effigie in un zaffiro
ed è legata in un anel d’elettro
ch’ha di smalti eritrei distinto il giro.
Nela terza lo dio che tien lo scettro
del quinto cerchio, egregie man scolpiro,
gemma di quella indomita durezza
cui né foco disfà né ferro spezza.
371
Tu, che dal bel Sebeto in qua trascorso
germoglio illustre di famosa gente,
tanto vali al maneggio e tanto al corso,
quest’elmo accetta limpido e lucente.
Rassomiglia a vederlo un teschio d’orso
e le pupille ha di piropo ardente,
le gran fauci spalanca e son costrutti
di diamanti arrotati i denti tutti.
372
Né spiaccia a te, degna progenie e chiara
di quel sangue lodato, onor degli ostri,
per cui col Tebro altero in nobil gara
fia che’l Reno minor contenda e giostri
ed a cui già con Felsina prepara
il Vaticano i più sublimi inchiostri,
il pronto, ancorché povero tributo
prender in grado, al tuo valor devuto.
373
Ecco una spoglia che i suoi stami fini
intinti ha nel licor dele cocchiglie,
ordita a sovraposte e di rubini
fregiata e d’altre ancor gemme vermiglie.
Molti piccioli specchi adamantini
accrescon del lavor le meraviglie,
consparsi in lei sì chiari e lampeggianti
ch’abbarbaglian la vista a’ riguardanti.
374
L’ostro insieme e’l cristallo accoppiar volli
a dinotarti con duo saggi avisi
e la real grandezza a cui t’estolli
e la chiara prudenza in cui t’affisi;
ond’avran maggior gloria i sacri colli
da te, da’ tuoi nel’alta sede assisi,
che quando in altra età Roma felice
fu di mille favelle imperadrice.
375
Questo di fila d’or manto tessuto
che infin al lembo è figurato a stelle,
là dove tutte han di diamante acuto
fissa al centro una punta e queste e quelle,
tuo fia, signor, ch’hai qui recar saputo
d’arnesi in campo invenzion sì belle,
che non fia mai che’n giostra altri compaia
con portatura più leggiadra e gaia.
376
E’nsieme a voi, che da’ confini estremi
del nobil Lazio per sì lunghi errori
seco veniste, d’altri pregi e premi
non mancheranno ancor publici onori.
Ma se da farvi al crin degni diademi
palme Idume non ha, Parnaso allori,
di sé s’appaghi il gran valor latino,
lumi eterni di Marte e di Quirino. –
377
Tacquesi, ed ecco allor mentre i destrieri
già già Febo inchinava al mar d’Atlante,
per diverso camin duo cavalieri
in un tempo venir d’alto sembiante.
Dorati ha l’un di lor gli arnesi interi,
sovra l’elmo l’augel del gran tonante
e nel tondo d’acciar rampante e dritto
il feroce animal d’Ercole invitto.
378
Viensene assiso in un giannetto ibero
figlio del vento e ben l’agguaglia al corso.
Zefiro nominato è quel destriero,
picciolo il capo ed ha solcato il dorso;
raro crin, folta coda, occhio guerriero,
lunato il collo e sovra’l petto il morso;
fremendo il rode e pien di spirti arditi
squarcia l’aria co’ passi e co’ nitriti.
379
Salvo la fronte, ove per mezzo scende
candidissima riga, è tutto soro.
Barde ha purpuree, di purpuree bende
gli fa ricco monile arnese moro.
Sonora piggia e tremula gli pende
giù dala sguancia di squillette d’oro.
Alto la staffa e coturnato il piede,
con lungo sprone il cavalier lo fiede.
380
L’abito del guerrier che segue appresso
è di sciamito azzur, fatto a fogliami
e di gigli minuti un nembo spesso
v’è sparso, il cui contesto è d’aurei stami.
Sculto in mezzo alo scudo ha il fiore istesso,
un giglio sol, maggior che ne’ riccami.
Ed erge per cimier di gemme adorno
il sollecito augel ch’annunzia il giorno.
381
Governa il fren d’un gran frison cortaldo
ch’è del color del dattilo maturo,
a par d’un monte ben quartato e saldo
e tre talloni ha bianchi e l’altro oscuro.
Mostra nel’occhio il cor focoso e caldo,
segna la fronte nera argento puro;
e col piè forte e col gagliardo passo
stamperia le vestigia anco nel sasso.
382
Petto largo ha tre spanne e doppia spina
e corta schiena e spaziosa coda,
bocca squarciata e testa serpentina,
di corno terso unghia sonante e soda;
leva a tempo e ripon quando camina
le grosse gambe e le ripiega e snoda.
Tremoto è il nome suo, però che’n guerra
ciò ch’urta abbatte e fa tremar la terra.
383
Nel’incognita coppia ognuno affisse,
pien di diletto e di stupore, il ciglio
e come un doppio sol quivi apparisse,
d’ognintorno ne nacque alto bisbiglio.
Il nome d’amboduo prima si scrisse,
il guerrier dal leone e quel dal giglio;
indi fur dala sorte in egual loco
a vicenda e delpari ammessi al gioco.
384
Dà di piedi al destrier prima colui
che’l giglio porta e rompe insu la cresta.
Quel che porta il leon va dopo lui
e nel loco medesmo il colpo assesta.
Altre due volte corrono ambodui,
né v’ha vantaggio in quella parte o in questa,
che l’un e l’altro con tre lance rotte
viene egualmente a guadagnar tre botte.
385
Un pregio esser non può che si divida
tra duo campioni e già ne sono a lite.
Vuol Citerea che’l dubbio si decida
con nove lance eguali e ben forbite.
Ma Palla è di parer che per disfida
le controversie lor sien diffinite.
Battansi in giostra e chi più val di loro,
sicome avrà la palma, abbia l’alloro.
386
Da corpo a corpo gli emuli superbi
concordi a terminar la differenza,
son posti in prova e con sembianti acerbi
di qua, di là ne vanno a concorrenza.
Dela vittoria a qual di lor si serbi
su le punte del’aste è la sentenza.
Cenna al trombetta allor Vener dal palco
che dia la voce al concavo oricalco.
387
Quei dal tergo onde pende in mano il toglie,
pon su l’orlo le labra e, mentre il tocca,
nel petto pria quant’ha di spirto accoglie
quinci il manda ale fauci, indi ala bocca.
Gonfia e sgonfia le gote, aduna e scioglie
l’aure del fiato e’l suon ne scoppia e scocca.
Rompe l’aria il gran bombo e’l ciel percote
e risponde tonando eco ale note.
388
Veder de’ duo destrier, poiché fur mossi
fu spavento lo scontro e fu diletto,
quando rotti i troncon nodosi e grossi,
fronte con fronte urtar, petto con petto.
Rimbombar lunge e sfavillar percossi
ambo gli scudi e l’un e l’altro elmetto.
Fu del’armi il fulgor, de’ colpi il suono
agli occhi un lampo ed al’orecchie un tuono.
389
Il broccal delo scudo al’altro incise
quel che venia con l’aquila grifagna;
falsollo e la divisa anco divise,
che dispersa n’andò per la campagna.
L’altro segnò più basso e’l ferro mise
per entro al corpo al corridor di Spagna,
che con tremoto poi venuto a fronte,
n’andò col suo signor tutto in un monte.
390
Visto il suo bel destrier che sanguinoso
per l’incontro mortal s’accoscia in terra,
di vendicarlo il cavalier bramoso
dale staffe si sbriga e’l brando afferra:
– Tu non sei né gentil né valoroso
ch’a sì degno animal fai torto in guerra,
guerrier villano e discortese, o scendi
o da simil perfidia il tuo difendi. –
391
Così dice il dorato e quel del gallo:
– Fu sciagura (risponde) e non oltraggio,
degno di scusa involontario fallo,
né creder ch’io da te voglia vantaggio. –
Smonta con questo dir giù da cavallo
e trae la spada con egual coraggio.
Così fremendo di dispetto e d’onta
l’un l’altro a un tempo in mezzo’l campo affronta.
392
Gemon l’aure dintorno e l’aria freme,
treman del vicin bosco antri e caverne.
Son di questo e di quel le forze estreme
e chi n’abbia il miglior mal si discerne.
Lampeggiar vedi aprova i ferri insieme
ed odi orrendi folgori caderne;
per traverso e per dritto, or bassi or alti,
tornan più volte a rinovar gli assalti.
393
Sonar le spade e risonar gli scudi
fa del’aspra tenzon l’alta ruina.
Par che battute da novelle incudi
escan l’armi pur or dela fucina.
Ardon lor le palpebre ai colpi crudi
gli elmi infocati, la cui tempra è fina
e le fiammelle e le scintille ardenti
gli fan quasi invisibili ale genti.
394
Senza riposo alcun, senza dimora,
or di taglio si tranno ed or di punta.
In quella cote istessa ove talora
l’acuto ferro si rintuzza e spunta
ivi s’arrota, ivi s’irrita ancora,
l’ira più dal furor scaldata e punta.
Ed ecco alfin quel dal’aurato arnese
risoluto s’aventa a nove offese.
395
Alzò la spada ed un fendente tale
sovra le tempie al’aversario trasse,
che rotto al gallo il rostro e tronche l’ale,
fè che stordito al suol s’inginocchiasse.
Fu forse Amor che per destin fatale
con fronte china e con ginocchia basse,
l’idol dal cielo a’ suoi pensieri eletto
volse pur ch’adorasse a suo dispetto.
396
Non è da dir, poich’egli in sé rivenne,
con quanta rabbia e qual furor si mosse.
Dritto verso la testa il colpo tenne,
su la barbuta ad ambe man percosse.
Al’aquila tagliò l’unghie e le penne,
spezzò del barbazzal le piastre grosse,
squillò l’acciaio e tal fu quella botta
che la spada di man gli cadde rotta.
397
Ruppe lo stocco e gli rimase apena
de l’elsa d’oro in man la guardia intera
e’l colpo uscì di sì gagliarda lena
ch’al nemico sbalzar fè la visiera.
Ma, tolto il vel che ricopria la scena,
si scoverse il guerriero esser guerriera
e con le bionde chiome al’aura sparse
bella non men che bellicosa apparse.
398
Come rosa fanciulla e pargoletta
che dal novo botton non esce ancora,
dala buccia in cui sta chiusa e ristretta
s’affaccia alquanto a vagheggiar l’aurora,
così, nel far di sé la giovinetta
publica mostra del’elmetto fora,
in quel vivo color si rinvermiglia
che l’onestà dala vergogna piglia.
399
Ala vergogna, ala fatica or l’ira
rossore aggiunge e ne divien più bella,
onde molto più spessi aventa e tira
i colpi in lui l’intrepida donzella.
Ma l’altro allor che quel bel volto mira,
senza moto riman, senza favella,
trema, sospira e sparge a mille a mille
più dal cor che dal’armi, alte faville.
400
E mentr’ella a ferirlo ha il ferro accinto
per far ch’essangue a terra alfin trabocchi:
– Che fai che fai? (le dice) eccomi estinto,
senza che più la bella man mi tocchi.
Morto m’hai già, nonch’abbattuto e vinto
co’ dolcissimi folgori degli occhi.
Crudeltà più che gloria omai ti fia
con più piaghe inasprir la piaga mia.
401
Ma poiché morto pur brama vedermi
congiunto a beltà tanta un cor sì crudo,
ecco la testa, ecco la gola inermi
t’offro senza difesa e senza scudo. –
Disse ed anch’ei restò, tolti gli schermi
dela cuffia di ferro a capo ignudo
e parve un sol, qualor più luminosi
trae fuora i raggi in fosca nube ascosi.
402
Tosto che’n luce uscì quelche pur dianzi
di celar la celata avea costume,
trovossi anch’ella un garzonetto innanzi
che mettea pur allor le prime piume.
Io non so dir, quanto l’un l’altro avanzi
e’n cui splenda d’amor più chiaro il lume.
Sembran Pallade e Marte armati in campo
di beltà, di valor gemino lampo.
403
L’afflitta Citerea, quando il bel viso
si discoverse, ancorch’alquanto smorto,
arse a un punto e gelò, ché le fu aviso
di rivedere il caro Adon risorto.
Ma che direm del fulmine improviso
che si sente nel cor, poiché l’ha scorto,
la giovane superba al primo instante?
Quelche mai più non le successe avante.
404
S’a lui spezzossi entro la destra il brando,
a lei si spezza il core in mezzo al petto,
né meno, il cupid’occhio in lui fermando,
perde le forze a quel novello oggetto.
Già comincia a gustar, ratto cangiando
nela guancia color, nel’alma affetto,
le dolci amaritudini del core,
le dolcezze amarissime d’amore.
405
Dialogi di sguardi e di sospiri
che quinci e quindi ad incontrar si vanno,
reflessi di pensieri e di desiri
un bel muto concento insieme fanno.
Ma l’un, che l’altra per maggior martiri
armata tuttavia scorge a suo danno,
pur come in atto di ferir l’aspetti,
ripiglia il favellar con questi detti.
406
– Io vo’ morir, ma volentier saprei
l’alta cagione onde’l mio mal procede.
O donna o dea, se sì spietata sei
ch’offender vogli pur chi pietà chiede,
deh fammi noto almen chi sia colei
che la pace mi nega e la mercede.
Poi mi fia dolce e cara ogni ferita,
morendo per le man dela mia vita.
407
Quelle, s’è giusto il prego, a trar sì pronte
dale mie vene il sangue armi omicide,
sospendi tanto sol che tu mi conte
chi di due morti insieme oggi m’uccide. –
Trattiene i colpi e la turbata fronte
rasserenando alquanto aspro sorride
e fiera in vista e mansueta in voce
risponde allor la vergine feroce:
408
– Non son vil feminetta; il naspo e l’ago
questa destra virile aborre e sprezza.
Di guernirla di ferro anch’io m’appago
ed è la spada a sostenere avezza.
Non ne’ cristalli fragili l’imago
piacemi vagheggiar di mia bellezza;
specchio m’è l’elmo rilucente e fino
e questo terso scudo adamantino.
409
Sdegnar dunque non dei d’oprar la spada
tentando incontr’a me l’ultima sorte,
tanto che l’un rimanga e l’altro cada
col fin dela vittoria o dela morte,
poich’io ti so ben dir ch’aver m’aggrada
più ch’aspetto leggiadro, animo forte.
Ha la man feminile anco i suoi pregi
e vinse duci e trionfò di regi.
410
Ma poich’odio non è né rissa antica
ch’oggi qui ne conduce a trattar l’armi
e tu mel chiedi con preghiera amica
ed io di rado in uso ho di celarmi,
se mi permette pur che’l tutto io dica
il tempo e’l loco e piaceti ascoltarmi,
istoria udrai, cui non fu pari alcuna
stravaganza di stato o di fortuna.
411
Venne d’Ircania ad occupar la reggia
la generosa vergine Tigrina
ed ancor la possiede e signoreggia
con quanta region seco confina;
donna ch’ala beltà l’ardir pareggia,
dele feroci Amazoni reina.
Ma, benché fusse d’un tal regno erede,
non s’appagò dela materna sede.
412
Sdegnò di star tra’l Sero e’l Messageta,
genti inumane, immansuete e crude,
né del’Imavo l’arrestò la meta
né’l fren dela Meotica palude
né’l freddo Tanai che quel passo vieta
né’l Caspio mar che quel confin rinchiude,
siché con l’altre sue che trattan l’arco,
non si spedisse a novi acquisti il varco.
413
La schiatta di costei, quant’ognun dice,
è di Pantasilea scesa e d’Ettorre.
Valore ebbe dal ciel quant’aver lice,
né donna seco in leggiadria concorre.
Ma del sesso viril disprezzatrice,
l’amorose dolcezze odia ed aborre
e’l popol feminil governa e regge
con dura troppo e’ntolerabil legge.
414
La legge dele femine guerrere
che già regnaro al Termodonte in riva
è tal che sotto pene aspre e severe
del commercio degli uomini le priva.
Quinci avien che ciascuna è del piacere
per cui si nasce totalmente schiva
e, senon quanto a conservarle basta,
vivon vita tra lor solinga e casta.
415
Era quest’uso in quelle parti antico
finché, come dirò, fu poi dismesso,
né si servian del genere nemico
se non per propagarne il proprio sesso.
Talor col forestier l’atto impudico
per cagion dela prole era permesso,
ma, serbando a nutrir sol le fanciulle,
strangolavano i maschi entro le culle.
416
Quantunque universal fusse e commune
lo statuto antichissimo ch’ho detto,
fra tante nondimen n’erano alcune
molto inclinate al natural diletto;
e non potendo più starne digiune,
né giacer solitarie in freddo letto,
fer secreta congiura, indi pian piano
si ribellaro e tolser l’armi in mano.
417
Tiranno allor di Parzia era Argamoro
che fu gran tempo di Tigrina amante,
di paese possente e di tesoro,
forte e più ch’altro mai fiero gigante.
Ma nulla gli giovò la forza o l’oro
con cor di ferro e petto di diamante;
mille rifiuti e mille scorni ei n’ebbe;
ma tra l’aspre repulse il desir crebbe.
418
Or, già ala licenza il fren disciolto,
le donzelle di Scizia e le matrone
con lui s’uniro e l’appetito stolto
col pretesto coprir dela ragione.
Ond’egli un grosso essercito raccolto,
fatto di tutte lor capo e campione,
prese, sfogando il già concetto sdegno,
a danneggiarla ed a turbarle il regno.
419
Ebbe seco in aiuto Alani e Traci
e Medi e Battri e Sarmati ed Armeni,
talché d’erranti barbari rapaci
vidersi i piani in breve spazio pieni
e di crudo signor fieri seguaci
guastar villaggi e disertar terreni,
crudelissimamente in ogni loco
sacco e sangue spargendo e ferro e foco.
420
Armò sue squadre anch’ella e virilmente
s’oppose a quel furor la donna forte,
ma di gran lunga inferior di gente
fu risospinta ale caucasee porte;
quand’ecco Austrasio il cavalier valente,
venne quivi di capo a dar per sorte
a cui d’Aspurgo appartenea lo stato,
semplice allora aventurier privato.
421
Bramoso Austrasio d’emendar l’oltraggio
e di lei già per fama acceso il core,
sentì, facendo a sì bel sol passaggio
sotto clima gelato estremo ardore
e, giunto presso a quel celeste raggio,
se dianzi ardeva, incenerì d’amore.
Amor in somma in cotal guisa il vinse
che per non mai si scior seco si strinse.
422
Scettro a scettro congiunto e spada a spada,
l’impeto affrena de’ guerrier ladroni;
scorre di qua di là l’ampia contrada
e’l gigante reprime e suoi squadroni;
poi per non star sì lungamente a bada
ed in una ridur molte tenzoni,
da sol a sol, finché l’un l’altro uccida,
in campo a tutto transito lo sfida.
423
Tigrina ogni ragion di quel reame
d’uom sì famoso entro le man rimise,
loqual venuto a singolar certame
brando per brando il fier rivale uccise
ed, al duce maggior rotto lo stame,
si ruppe anco il suo campo e si divise,
ché, vulgo imbelle essendo e mal instrutto,
fu facil cosa a dissiparlo intutto.
424
Dal gran valor del principe germano,
dal nobil volto e dal parlar cortese,
dal’obligo che porta ala sua mano,
vinta è Tigrina e non sa far difese.
Fatto al possente arcier contrasto invano,
come grata e gentile, alfin si rese
e ferita e legata e prigioniera
al gran giogo inchinò l’anima altera.
425
Ma d’onesto rispetto un dubbio greve
la costringe a celar quelche desia
che, benché dale leggi onde riceve
regola il regno suo libera sia,
in quelch’altrui vietò peccar non deve
né convien ch’a disfarla essempio dia.
Quindi onor, quinci amor le batton l’alma,
pur l’affetto più dolce ottien la palma.
426
Qual d’ognintorno assediata e cinta
da fameliche fiamme arida stoppia,
è forza pur che divorata e vinta
resti dal foco che stridendo scoppia,
tal da quel crudo a vaneggiar sospinta,
ch’ognor nov’esca al novo ardor raddoppia,
cede, e benché ritrosa, alfin si piega
e d’amor ad amor cambio non nega.
427
Austrasio intanto l’essortò parlando
la ria costuma a cancellar del regno
e le rubelle a richiamar dal bando
che ben ebber cagion di giusto sdegno.
Disse ch’abominabile e nefando,
di civiltà, d’umanitate indegno
era il rigor di quella legge dura,
contraria al cielo, al mondo ed a natura.
428
Con più d’una ragion faconda e saggia
mostrò quanto infelice è quella donna,
laqual sestessa e l’universo oltraggia
vivendo senza l’uom ch’è sua colonna;
e ch’egli è ritrosia troppo selvaggia,
quasi di fera alpestra avolta in gonna,
voler che s’aborisca e si detesti
il bel trastul degli abbracciari onesti.
429
Soggiunse ancor che’l proibire al mondo
il marital diletto era un delitto,
ch’a conservarlo e renderlo fecondo
fu dale stelle e dagli dei prescritto;
e chi s’astien da quel piacer giocondo
nega a natura il suo devuto dritto,
anzi mentre ch’amor disdegna e fugge
l’umana specie inquanto a sé distrugge.
430
Seguì di più, che se le loro antiche
per qualch’ira privata odiar gli sposi,
non devean l’altre poi sempre nemiche
mostrarsi ai dolci altrui vezzi amorosi,
né ridursi a durar tante fatiche
nate solo ai domestici riposi,
arando i campi e coltivando gli orti
ch’eran propri mestier de’ lor consorti.
431
Conchiuse alfin ch’oltre lo star sì sole
per altro erano ancor donne infelici,
ai passaggier per generar figlioli,
esposte a guisa pur di meretrici;
e ch’era non men misera la prole
che del seme nascea de’ lor nemici,
costretta ancora a perder le mammelle,
parti del sen le più gentili e belle.
432
Non penò molto il cavalier discreto
per ben disporla a far questa mutanza,
perch’oltre che la donna odio secreto
portava al’empia e scelerata usanza,
a revocar quel rigido divieto
già da sé persuasa era a bastanza,
per onestar de’ lor trafitti cori
con leggittimo titolo gli amori.
433
Così cessar le leggi inique e sozze,
del pazzo abuso s’annullaro i riti,
furon le guerre e le discordie mozze,
le contumaci donne ebber mariti,
ottenne Austrasio le bramate nozze,
passò Tigrina agl’imenei graditi,
concepinne a suo tempo e partorio
pargoletta bambina e fui quell’io.
434
Nacqui, né fui però sì tosto nata
che strano caso e portentoso avenne.
Aquila bianca, d’oro incoronata,
dal ciel battendo l’argentate penne,
per le finestre dela stanza entrata
dritto ala cuna, ov’io giacea, ne venne
e mentr’io tra le fasce ancor vagia,
mi ghermì con gli artigli e portò via.
435
Io non so se fu Giove in forma tale
ch’aver volse di me pietosa cura
o del grand’avo mio l’ombra immortale,
già difensor dele troiane mura,
che la rapace augella imperiale
per insegna portò nel’armatura.
Opra più tosto fu d’un mago antico
che dela stirpe mia fu sempre amico.
436
Ella al vecchion dela Foresta Nera,
così si nominava il negromante,
l’aure trattando rapida e leggera,
senza alcun mal depositommi avante.
Vita mena costui dura ed austera
là dela folta Ercinia infra le piante,
e’n quelle solitudini silvestri
gli sono i libri suoi muti maestri.
437
Il buon vecchio di me prese il governo,
cui per sempre obligata io mi conosco.
Con zelo m’allevò più che paterno,
sempre tra le fatiche entro quel bosco.
Varcai rigidi fiumi al maggior verno,
vegghiai gelide notti al ciel più fosco,
lottai con orsi ed affrontai leoni,
né temei d’assalir tigri e dragoni.
438
Austria nome mi pose; e’ntanto essendo
già de’ tre lustri oltre l’età cresciuta,
in Austrasio ch’un giorno a caccia uscendo
avea de’ suoi la compagnia perduta,
mentre ch’a fronte avea cinghiale orrendo
a caso m’abbattei non conosciuta.
L’uno era inerme e l’altro fiero e forte,
io questo uccisi e quel campai da morte.
439
Come alfin mi conobbe e come fui
dale selve condotta ai gran palagi,
lungo a dir fora e quali e quanti a lui
fè di me poscia il savio alti presagi.
Questo però tacer non voglio altrui,
ch’ancor tolta ai travagli e data agli agi,
tra le delizie sue la corte folle
forza non ebbe mai di farmi molle.
440
Comprender puoi dal’abito s’io nacqui
agli ozi vili o se viltà disprezzo,
al’impero d’Amor mai non soggiacqui,
mai non mi mosse allettamento o vezzo;
e di poter mostrar più mi compiacqui
in questo corpo ale fatiche avezzo
le cicatrici degli assalti audaci
che le vestigia de’ lascivi baci.
441
Tolto dal genitor dunque congedo,
di Germania soletta io fei partita
e tra vani riposi aver non credo
perduti i giorni in oziosa vita.
Ma mentre alfin per nave in patria riedo,
via sperando dal mar piana e spedita,
dopo molte aventure, a queste spiagge
tempestoso aquilone ecco mi tragge.
442
Or poiche’n brevi detti udito hai quanto
raccontar saprei mai del’esser mio,
se lice pur, posta giù l’ira alquanto,
il nemico essaudir com’ho fatt’io
fa tu, narrando il tuo meco altrettanto,
ch’ancor non men d’intenderlo desio,
e’l tuo sembiante e’l tuo parlar mi pare
di guerrier non oscuro e non vulgare. –
443
Così diss’ella e si ritrasse poi
in quel contegno suo dolce e severo,
quando: – Poiché così comandi e vuoi
(cominciò rispondendo il cavaliero)
de’ miei, simili in parte ai casi tuoi,
che sono ancor meravigliosi invero,
con non lungo sermone a darti conto,
feritrice mia bella, eccomi pronto.
444
Ardean tra’l re Francone e’l re Morgano
guerre crudeli e mortalmente orrende
e d’aspri assalti ognor con l’armi in mano
alternavan tra lor fiere vicende.
Dominava il primier tutto quel piano
che’nfin dal’Alpi ai Pirenei si stende;
l’altro reggea dela maggior Brettagna
quanto paese il gran Tamigi bagna.
445
Vennero alfin tra questa parte e quella
per maritaggio ad amicar le spade
e’l re gallo al bretton diè la sorella,
Fiordigiglio, che fior fu di beltade,
Fiordigiglio gentil, di cui più bella
non ebbe il mondo in questa o in altra etade
dal lucid’orto al’occidente oscuro,
dal’umid’austro al’agghiacciato arturo.
446
Ambiziosa di cotanto bene,
Anglia con general pompa festiva
la ricettò nele beate arene
com’a sposa real si convenia.
Felice chiama e fortunata tiene
la disgiunta dal mondo estrema riva,
dove seco traendo un dì novello
sorge al cader del sole un sol più bello.
447
Loda il candido sen, la treccia bionda,
le fresche guance, i seren’occhi ammira.
Diresti ben che gelosia n’ha l’onda
de l’ocean, ch’or viene, or si ritira,
né per altro quell’isola circonda
e dintorno a’ suoi lidi si raggira,
senon per custodir sì bel tesoro
quasi serpe che guardi i pomi d’oro.
448
Era Morgano uom di gran forze ed era
di membra poco men che gigantee,
ma non avea quella prudenza intera
che costumato principe aver dee.
D’aspra natura impaziente e fiera,
d’opre malvage e scelerate e ree.
E ben fede facean di quanto ha detto
la terribil sembianza e’l sozzo aspetto.
449
La faccia ha bruna e di color ferrigna,
illividita d’un crudel pallore,
ciglia congiunte in union maligna,
occhio fellone e sguardo traditore.
Villanamente ador ador sogghigna
con un sorriso che non vien dal core.
I movimenti, i portamenti tutti
son rigorosi e spaventosi e brutti.
450
Or io non so qual ria sciagura o sorte,
con quai d’empia malia nodi tenaci
le forze legò sì del fier consorte
ch’ei non potè mai trarne altro che baci.
Pur l’ama intanto, anzi d’amor più forte
nel vietato diletto ardon le faci
ed agli uffici inabile di sposo,
quant’egli è men potente, è più geloso.
451
Fu consiglio, cred’io, di chi governa
dele stelle lassù l’ordin fatale.
Non volse dar la providenza eterna
ad uom terreno una ventura tale
e parve indegno ala bontà superna
di cotanta beltà sposo mortale;
onde serbolla a nozze eccelse e sante
d’amor celeste e di divino amante.
452
Odi strano accidente, odi in che nova
guisa dal ciel l’origine pigliai
e dì se genitura altra si trova
sì fatta al mondo o si trovò giamai.
Indi al concetto il nascimento aprova
simile, se m’ascolti, anco vedrai,
mostruoso, ammirabile e ch’eccede
ogni credenza intutto ed ogni fede.
453
Nela stagion che dela terra l’ombra
dal fondo uscita del cimerio speco
spegne il sol, copre il cielo e l’aria ingombra
e fa muta la gente e’l mondo cieco,
mentr’ella dorme, ecco che’n sogno l’ombra
l’appar di Marte e si congiunge seco.
Poi desta il giorno, di feconde some
grave si sente il ventre e non sa come.
454
Turbasi e de’ begli occhi il lume imbruna
e languisce e stupisce e trema e gela
e di sua dura e misera fortuna
incontr’al ciel si lagna e si querela.
Pur quanto può fin ala nona luna
la gravidanza sua ricopre e cela.
Ma qual secreto alfin non manifesta
quel cauto mostro ch’ha cent’occhi in testa?
455
Morgano, entro’l cui petto il foco acceso
tempra col ghiaccio suo la gelosia,
accorto alfin del disusato peso,
del concetto innocente i segni spia.
Oltre il sen grosso, onde’l sospetto ha preso,
gli accresce nel pensier la frenesia
il veder gonfie ancor le poppe eburne
del nettare d’Amor fontane ed urne.
456
La ritira in disparte, indi le chiede
con torvo ciglio e con severa faccia
del’onor maritale e dela fede
le schernite ragioni e la minaccia.
La sventurata, che da lui si vede
già discoverta, di paura agghiaccia,
ché di quel fiero cor le son ben noti
troppo tremendi e repentini i moti.
457
Volea le labra allor allora aprire
la bella donna e raccontar la cosa;
ma non seppe il crudel tanto soffrire,
tal gli bollia nel cor rabbia gelosa.
Traendo fuor senza volerla udire,
un suo spadon, con furia impetuosa,
colpo tirò sì sconcio e smisurato
che la tagliò dal’un al’altro lato.
458
Dico che dela spada il fil le mise
sì per dritto nel corpo ed a misura,
che la ruppe a traverso e la divise
tutta per mezzo i fianchi e la cintura.
Con le gambe dal busto allor recise
quinci il tronco riman mezza figura,
quindi il bel sen sul pavimento resta
ale braccia attaccato ed ala testa.
459
Apena ella di sangue un largo fiume,
in due pezzi caduta, a terra sparse,
che fatta chiara in viso oltre il costume,
pur com’un sol visibilmente apparse.
Fuor de’ begli occhi di celeste lume
folgore uscì che l’abbagliò, che l’arse;
sentissi il fier dal raggio e dal’ardore
ferir la vista e fulminare il core.
460
E di quel lampo, ond’ebbe il cor ferito,
tanta il sacro splendor luce gli porse,
che’n sé tornando il barbaro marito,
di sua ferina immanità s’accorse.
Onde del’opra rea tardi pentito,
la man per ira e per dolor si morse
e fisi gli occhi in quell’oggetto orrendo,
forte a dolersi incominciò piangendo.
461
«Fiordigiglio mia cara (egli dicea)
il cui nome gentil veracemente
se forsennato pur non mi facea
la passion che traviò la mente,
per sestesso mostrar sol mi potea
un intatto candor d’alma innocente,
deh con qual mar di lagrime poss’io
pagar giamai d’un sì bel sangue il rio?
462
Anima disleal, perfido core,
che per sì vil misfatto infame sei,
se già non valse a moverti l’amore
che mentre visse ti portò costei,
come almen non ritenne il tuo furore
giusta pietà dela beltà di lei
dal macchiar del bel sen le pure nevi
e’nsieme quell’amor che le devevi?
463
Stolta mia destra, che d’un tanto eccesso
di ferità ti festi essecutrice,
ragion non è che del gran mal commesso
si faccia anco altra man vendicatrice.
Serrò già contro lei, contro mestesso
questo mio traditor braccio infelice,
emendi Amor l’error ch’egli commise
con l’odio che si deve a chi l’uccise.
464
Spada villana, al tuo signor ingrata,
che nel mio bene incrudelir potesti
ed ancor de’ begli ostri insanguinata
quasi accusando il feritor ne resti,
se già fosti crudel, fosti spietata
nel’alta crudeltà che commettesti,
or a quel gran dolor che mi saetta
non negar la pietate e la vendetta».
465
Così, piangendo e sospirando, disse
e, tenendo nel pugno il ferro stretto,
senza trovarsi alcun che l’impedisse
sospinse il braccio ed applicollo al petto,
e, trafitto appo lei ch’egli trafisse,
pien d’amoroso e di rabbioso aspetto
freddo cadendo e pallido ed essangue,
insieme mescolò sangue con sangue.
466
Chi crederà prodigiose e nove
altezze di miracoli divini?
chi d’un corpo ch’è morto e non si move,
uscir vide giamai vivi bambini?
Nel ventre che spaccato era là dove
hanno l’anche e le coste i lor confini,
dentro l’aperte viscere anelante,
spirar si vide e palpitar l’infante.
467
Il parto, ch’era per uscir già presto,
accelerato dal fellon crudele,
fuor del lacero sen pietoso e mesto
di lei raccolse un famigliar fedele.
A sua magion recollo in cavo cesto
sotto panni appiattato e sotto tele,
e quivi il fè con sì benigna aita
dala moglie allattar che’l tenne in vita.
468
Sì vissi e crebbi ed, oh stupor! del petto
scritte portai nela sinistra parte
note di sangue il cui tenor fu letto:
‘Fiammadoro è costui, figlio di Marte’.
Quindi poi Fiammador fui sempre detto
e fu di quel gran dio mirabil arte
che come mi campò pria ch’io nascessi,
così, credo, curò gli altri successi.
469
Il mio leal custode, il balio fido,
sovra una lieve e ben spalmata fusta
tragittando a Calesso il salso lido,
passò di Gallia al’alta reggia augusta,
dove inteso l’annunzio, udito il grido
del’onta indegna e dell’ingiuria ingiusta,
il mio gran zio che governava il regno
pianse di duolo ed avampò di sdegno.
470
Per vendicar dela sorella i torti,
mosse poi l’armi e grand’incendio accese.
Questo il principio fu di tante morti,
quinci nacquer le risse e le contese
che con odio mortal tra i petti forti
durano ancor del franco e del’inglese,
che tra lor confinando, han d’ambo i lati
cagion di star su le frontiere armati.
471
Fece il re quivi intanto ammaestrarmi
come regio garzon nutrir si debbe.
Ma di fuggir poi gli ozi e seguir l’armi
anco in me con l’età la voglia crebbe.
Vezzo, prego o consiglio a distornarmi
da sì nobil pensier forza non ebbe.
Così dal ciel guidato e dala sorte
sconosciuto e notturno uscii di corte.
472
Già di paesi e popoli diversi
costumi assai, peregrinando, ho visti.
Molto errai, molto oprai, molto soffersi
per far d’eterno onor pregiati acquisti.
Poi per l’Egeo tra i flutti e i venti aversi
ne venni anch’io sicome tu venisti;
quel borea istesso che’l tuo legno spinse
anco a prender qui porto il mio costrinse.
473
Narrate io t’ho gran meraviglie e tali
che volto forse avran di favolose;
ond’essendo sì strani i miei natali,
credo, che’l ciel mi serbi a strane cose.
E certo o di gran beni o di gran mali
fortune attendo o liete o dolorose,
secondo che di gioia o di martire
per te m’è dato o vivere o morire. –
474
Così divisa, ed ecco ingiù disceso,
mentre queste ragion passan tra loro,
tutto concorre ad onorargli inteso
del celeste collegio il concistoro.
Là’ve in duo petti era egual foco acceso,
con la madre d’Amor venner costoro;
ed ella con sereni occhi ridenti
fè l’aria risonar di tali accenti:
475
– O coppia degna e da’ più degni eroi
sol per gloria del mondo al mondo uscita,
qui gran tempo aspettata e’n ciel da noi
troppo ben conosciuta e ben gradita,
deponete omai l’armi e sia tra voi
la tenzon con lo sdegno inun sopita.
Canginsi in vezzi le discordie e l’ire
e sia pari l’amor, com’è l’ardire.
476
Ardete, anime belle; ai vostri ardori
son propizie le stelle, i cieli amici!
Già le Grazie pudiche e i casti Amori
v’arridon tutti con benigni auspici.
Fortunati desir, beati cori,
che’n sì nobile incendio ardon felici;
esca onde trae la fiaccola e’l focile
d’Amor e d’Imeneo fiamma gentile.
477
Lunga stagion tra dilettosi affanni
sotto un giogo dolcissimo vivrete.
Vivran le glorie vostre al par degli anni,
n’andranno i vostri onor di là da Lete.
Già spiegando per voi la Fama i vanni,
tutte scorre del ciel le quattro mete
e sparge intorno i fiati suoi sonori
dal meriggio ai trion, dagl’Indi ai Mori.
478
Le due gran monarchie nel mondo sole,
cedan Greci e Romani e Persi e Siri,
per voi fien grandi e per la vostra prole
laqual fia ch’Asia tema, Europa ammiri.
Le lor terre, i loro mari apena il sole
visitar potrà mai con mille giri,
d’amicizia congiunte e d’allianza,
emule di grandezze e di possanza.
479
Tu, che per doppia via l’alme rubelle,
verginella real, vinci in battaglia,
rischiara i raggi dele luci belle,
né del morto destrier punto ti caglia.
So che del sol le stalle e che le stelle
non l’hanno tal ch’appo’l tuo merto vaglia;
questo mio nondimen con lieta faccia,
ch’è miglior de’ miglior, gradir ti piaccia.
480
Là nel fonte del sol dove in pastura
la corridrice nomade col pardo
si copulò, d’adultera mistura
concetto nacque e fu chiamato Ippardo.
Parte chiara ala spoglia e parte oscura
quasi piuma di storno ha del leardo,
stellata in guisa tal tutta a rotelle
che’n lui le macchie istesse anco son belle.
481
Tenero il tolse ala materna mamma
e frenollo e domollo Arte maestra.
Spinselo or dietro a cerva, or dietro a damma,
or per campagna, or per montagna alpestra.
Pronto ai salti, agli assalti, uso è qual fiamma,
girarsi a manca e raggirarsi a destra
e veloce e feroce a meraviglia
la genitrice e’l genitor somiglia.
482
E tu franco guerrier, ch’oggi ten vai
nel trionfo d’amor con tanto fasto
e sovr’ogni trofeo ti pregi assai
d’uscir vinto e prigion dal gran contrasto,
non languir più, né più lagnarti omai
del brando rotto o delo scudo guasto.
Lascia pur l’armi usate e prendi quelle
ch’or io t’arreco assai più forti e belle.
483
Questa spada biforme onde già fue
dal buon Perseo l’orribil Orca uccisa,
Anfisbena ei chiamò, però che’n due,
come vedi, ha la lama ingiù divisa.
Aguzza l’una è dele parti sue,
ma si termina l’altra in altra guisa,
ché nel’estremità curva diviene,
l’una taglia di lor, l’altra ritiene.
484
Degna del fianco ben fora di Marte
l’arme onde possessore oggi ti faccio,
ma perde appo lo scudo il pregio in parte
che peso fia del valoroso braccio.
De’ suoi lavori il gran mistero e l’arte
altri ti scoprirà, questo mi taccio.
Vi vedrai del futuro occulte cose
e de’ tuoi successor l’opre famose. –
485
Barbaro scudo a questo dir recato
fu da molti valletti in un momento.
Nel’incude di Lenno è fabricato,
d’oro ha il bellico, il circolo d’argento
e di minute istorie effigiato
l’orlo, a cui fanno intorno ampio ornamento,
ogni figura sua vivace e bella
poco men che non spira e non favella.
486
Allor lo dio che signoreggia in Delo,
rivolto a specolar quelle sculture,
de’ secreti ineffabili del cielo
affisa gli occhi entro le nebbie oscure;
indi, squarciando il tenebroso velo
che i gesti asconde del’età future,
pien di spirito sacro ed indovino
a Fiammadoro interpreta il destino:
487
– Guarda (dicea) nel mezzo e vedrai pria
d’uno in tre gigli la mutata insegna.
Tal qual è sarà sempre in tua balia
mentre il peso mortal l’alma sostegna.
Da indi in poi custode il ciel ne fia
finché’l gran Clodoveo nel mondo vegna.
Per miracolo allor lo scudo istesso
fia dinovo alla terra ancor concesso.
488
Volgiti al cerchio poi del ricco arnese
e mira quante imagini v’ha sculte.
Son de’ tuoi gran Borbon le chiare imprese
che sotto oscuro vel giacciono occulte,
finch’un tanto splendor fatto palese
dale penne più nobili e più culte,
in quanto l’ocean bagna e circonda,
per mille lustri illustre, i rai diffonda.
489
Nel gallico terreno, ancorch’angusto
sia quasi tutto a tal legnaggio il mondo,
in cotal guisa di quel ceppo augusto
fia radicato il gran pedal fecondo,
che giamai quercia il suo robusto busto
non piantò sì nel più profondo fondo.
Tronco a cui non fia mai che vento crolli,
fertile di radici e di rampolli.
490
Per conoscer apien qual sia la pianta,
basta solo assaggiarne un frutto o dui.
Questo però di frutti ha copia tanta
che ne confonde e ne satolla altrui;
e come l’arbor d’oro onde si vanta
l’Esperia, abondasi de’ pomi sui,
che chi la scote per carpirne un solo
ne fa mille talor piovere al suolo.
491
Di tant’avi e nipoti e padri e figli
lasciando dunque il numero infinito,
converrà ch’al miglior solo m’appigli:
ed ecco un sol fra mille io ten’addito.
Vedi del’alfabeto a piè de’ gigli
il decimo elemento ivi scolpito:
il nome è quel di quel garzon reale
a cui promette il ciel gloria immortale.
492
Gloria immortal trarrà da chiari pregi
del genitor non men ch’eterno essempio,
del genitore, a’ cui gran fatti egregi
benché s’opponga il fato iniquo ed empio,
la fenice però sarà de’ regi,
di pietà, di giustizia il trono e’l tempio,
un Numa in pace, un Alessandro in guerra,
un vero nume, un vivo lume in terra.
493
L’esser nato d’un re che di valore
fia specchio al mondo e fior d’ogni bontate,
di cui saran con sempiterno onore
più vittorie che guerre annoverate,
somma laude gli fia, ma vie maggiore
il secondar di lui l’orme onorate;
felice inun di posseder ben degno
e la virtute ereditaria e’l regno.
494
Quai poeti di lui, quali oratori
potranno, ancorché celebri e celesti,
o in note sciolte o in numeri canori
tanto mai dir che più da dir non resti?
Che può pensar de’ suoi sovrani onori,
che può narrar de’ suoi sublimi gesti,
secca ogni vena, ogni virtù perduta,
intelletto confuso e lingua muta?
495
Quegl’infelici e miseri ch’oppressi
dal crudel di Bisanzio empio tiranno
dele dure catene i ferri istessi
logori quasi con le membra avranno,
per lui sol fiano in libertà rimessi,
per la sua man fia vendicato il danno;
e poiché l’oriente avrà distrutto,
si farà tributario il mondo tutto.
496
Non di sol, non di gel tanto ardimento
affrenar mai potranno ardori o brume.
Veggio l’Indo e’l Gelon, quel di spavento
gelar, questo sudar contro il costume.
Veggio la luna trace il puro argento
macchiar di sangue, impoverir di lume;
torbido il Nil già per sett’occhi piange
e l’aureo suo pallor raddoppia il Gange.
497
Veggio che sol per lui la Tana estrema
più di timor che di rigore agghiaccia;
scote i suoi boschi il Caucaso che trema
di quel valor che’l giogo gli minaccia;
già cede il Parto e disusata tema
con non mentita fuga in fuga il caccia;
veggio gli archi depor Meroe al suo nome
e di saette disarmar le chiome.
498
Marte, nonch’altri, ilqual per tema eletto
s’ha l’albergo lassù nel cerchio quinto,
converrà che più alto abbia ricetto,
s’esser non vuol anch’egli in guerra vinto.
Fia Giove ancor d’alzar il ciel costretto
ed allargar del’universo il cinto,
che’l suo nome, il suo ardir non ben si serra
tra gli spazi del’aria e dela terra.
499
E come il suo magnanimo pensiero
termine non avrà che lo capisca,
così confin che’l chiuda anco l’impero
non troverà dov’ei di gire ardisca
e non in questo sol noto emispero
fia che lo scettro suo si stabilisca,
ma dove ancor con affannata lena
giungono stanchi i miei corsieri apena.
500
È ver che’n su’l bel fior del’età fresca
contraria avrà sediziosa gente,
diversa assai dala bontà francesca,
disleale, ostinata, empia, insolente.
Vedi vedile in mano il foco e l’esca
con cui semina intorno incendio ardente,
che nel sen dela patria appreso e sparso
l’ha quasi il corpo incenerito ed arso.
501
Per intutto estirpar l’Idra ramosa,
che quanto più moltiplica più noce,
l’armi giuste intraprende e non riposa
l’infaticabil giovane feroce.
Suda ed anela ala stagion nevosa,
quando adusto da borea il verno coce;
se’n ciel rugge il leon, latra la cagna,
ei sotto i raggi miei marcia in campagna.
502
Con le squadre più fide e più devote
movesi ad espugnar l’empia caterva
che le leggi calpesta, il giogo scote
e ricusa ubbidir soggetta e serva;
vegghia, studia, travaglia il più che pote
quella peste a scacciar fiera e proterva,
che del’afflitta Gallia in modo orrendo
va per le chiuse viscere serpendo.
503
È giunto a tale il suo valor sovrano
ch’omai vince e trionfa e non combatte.
Son dal nome vie più che dala mano
prese le rocche e le città disfatte;
solo col vento dele penne al piano
la sua gran fama l’alte mura abbatte;
cede ogni forte, ogni castel si rende:
misero chi contrasta e si difende!
504
Sassel ben d’Angerì la turba stolta
che l’accordo pospone ala difesa.
Ecco Salmuria a’ rei ladron ritolta,
né Bergeracco poi fa gran contesa.
Ecco la prima e la seconda volta
Cleracco a forza è soggiogata e presa,
Pouso, Mondur, Lunello ed ecco mille
racquistate in un punto e piazze e ville.
505
Fa ben due volte a Montalban ritorno,
né per pioggia o per neve assalto allenta,
ma col fiero cannon la notte e’l giorno
l’eccelse torri e’l gran giron tormenta.
Passa quindi a Narbona e tutti intorno
gli ammutinati popoli spaventa;
e posto campo ala città sovrana
di cadaveri ostili i fossi appiana.
506
E mentre ivi di sangue il campo tinge,
da lunge ala Roccella anco fa guerra.
Spernon da un lato e Suesson la cinge
e di soccorso ogni camin le serra,
né minor forza la combatte e stringe
dala parte del mar che dela terra,
dove al gran porto del’alpestra rocca
tenta industre ingegner chiuder la bocca.
507
Spianta le selve e le miniere vota
e con legni e con ferri il mar affrena,
e copulando vien, benché remota,
d’entrambo i capi l’un’e l’altra arena;
ed acciocché sue machine non scota,
quasi in dura prigion l’onda incatena,
e’l buon duce di Guisa insu l’entrata
il varco guarda con possente armata.
508
Tien del rege costui la vece e’l loco,
guerrier cui non fia mai chi si pareggi.
Vanne e sprezza pur l’onda e sprezza il foco,
inclito eroe che la gran classe reggi!
Ben avrai quella e questo a temer poco,
milita il ciel per te mentre guerreggi
e l’un e l’altro orribile elemento
ti favorisce e la fortuna e’l vento.
509
Mira con qual inganno han mossi i legni
le ribellate e debellate genti,
che portan seco insidiosi ingegni
d’occulti fuochi e d’artifici ardenti;
ma di toccar sì nobil corpo indegni
scoppiano a voto i perfidi stromenti,
volan le fiamme e’nsieme il mar confonde
le nebbie e i fumi e le faville e l’onde.
510
Vedi ogni altro vascello irne lontano,
soletto ei si riman su l’ammirante.
Tutto incontro gli vien lo stuol villano;
ei non lascia però di girne avante,
anzi principe insieme e capitano
e soldato in un punto e navigante,
minacciando il nocchier ritroso e tardo
atterrisce il Terror sol con lo sguardo.
511
Può ben l’aspro conflitto ivi vedersi
pien d’accidenti tragici e mortali;
vele stracciate ed uomini sommersi
e remi rotti ed arbori e fanali.
Spettacoli d’orror così diversi
oggetti ti parrian più ch’infernali,
s’udir potessi ancor gli alti rimbombi
che fanno i cavi bronzi e i fusi piombi.
512
Ecco la strage delo stuol rubello,
ecco i navili suoi sparsi e distrutti.
L’animoso signor di cui favello,
fa del sangue fellon vermigli i flutti.
Saltando va da questo legno a quello
e la sua spada è scudo agli altri tutti.
Col grido e con la man fulmina e tuona,
così la fè difende e la corona.
513
Intanto al popol falso e contumace
perdona alfin placato il gran Luigi
e dopo lungo assedio e pertinace
dispiega in Mompelier la fiordiligi,
quindi con la vittoria e con la pace
tra la palma e l’olivo entra in Parigi
e lieta sotto il trionfal vessillo
torna la Francia al bel viver tranquillo.
514
Tornan l’Arti più belle e le Virtudi
poco dianzi fugaci e peregrine,
fioriscon gli alti ingegni e i sacri studi,
crescon i lauri a coronargli il crine,
riposan l’armi orrende, i ferri crudi
pendon dimessi e le battaglie han fine.
Son fatti i cavi scudi e i voti usberghi
nidi di cigni e di colombe alberghi. –
515
Qui tacque Apollo e’l pescator Fileno,
che presente ascoltò quant’egli disse,
quanto diss’egli e tutto il filo apieno
di que’ tragici amori in carte scrisse.
Giunse intanto la notte e nel sereno
tempio del ciel le sue lucerne affisse.
Tornaro a Stige le tartaree genti,
l’altre ale stelle e l’altre agli elementi.