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I TRASTULLI

ALLEGORIA

Il Piacere, che nel giardino del tatto sta in compagnia della Lascivia, allude alla scelerata opinione di coloro che posero il sommo bene ne’ diletti sensuali. Adone che si spoglia e lava, significa l’uomo che, datosi in preda alle carnalità e attuffandosi dentro l’acque del senso, rimane ignudo e privo degli abiti buoni e virtuosi. I vezzi di Venere, che con essolui si trastulla, vogliono inferire le lusinghe della carne licenziosa e sfacciata, laquale ama e accarezza volentieri il diletto.

ARGOMENTO

Perviene Adone ale delizie estreme
e, prendendo tra lor dolce trastullo,
l’innamorata diva e ‘l bel fanciullo
ala meta d’amor giungono insieme.

1
Giovani amanti e donne innamorate
in cui ferve d’amor dolce desio,
per voi scrivo, a voi parlo, or voi prestate
favorevoli orecchie al cantar mio.
Esser non può ch’ala canuta etate
abbia punto a giovar quelche cant’io;
fugga di piacer vano esca soave
bianco crin, crespa fronte e ciglio grave.
2
Spesso la curva e debile vecchiezza,
che gelate ha le vene e l’ossa vote,
incapace del’ultima dolcezza
aborre quel, che conseguir non pote;
uom non atto ad amar, disama e sprezza
anco il tenor del’amorose note
e ‘l ben che di goder si vieta a lui
per invidia dannar suole in altrui.
3
Lunge, deh! lunge, alme severe e schive
dala mia molle e lusinghiera musa!
da poesie sì tenere e lascive
incorrotta onestà vadane esclusa.
Ah! non venga a biasmar quant’ella scrive
d’implacabil censor rigida accusa,
la cui calunnia con maligne emende
le cose irriprensibili riprende.
4
Di poema moral gravi concetti
udir non speri ipocrisia ritrosa,
che, notando nel ben solo i difetti,
suol cor la spina e rifiutar la rosa.
So che, fra le delizie e fra i diletti
degli scherzi innocenti, alma amorosa
cautamente trattar saprà per gioco,
senza incendio o ferita, il ferro e ‘l foco.
5
Suggon l’istesso fior ne’ prati iblei
ape benigna e vipera crudele,
e, secondo gl’instinti o buoni o rei,
l’una in tosco il converte e l’altra in mele.
Or s’averrà ch’alcun da’ versi miei
concepisca veleno e tragga fele,
altri forse sarà men fiero ed empio
che raccolga da lor frutto d’essempio.
6
Sia modesto l’autor; che sien le carte
men pudiche talor, curar non deve.
L’uso de’ vezzi e ‘l vaneggiar del’arte
o non è colpa, o pur la colpa è lieve.
Chi, dale rime mie, d’amor consparte,
vergogna miete o scandalo riceve,
condanni o scusi il giovenile errore,
ché, s’oscena è la penna, è casto il core.
7
Già sergenti ed ancelle avean levati
dale candide nappe i nappi d’oro,
in cui di cibi eletti e dilicati
i duo presi d’amor preser ristoro;
onde, poich’a versar fiumi odorati
venne l’aureo baccin tra le man loro,
sula mensa volò lieta e fiorita
il bianco bisso ad asciugar le dita.
8
Allor, dal seggio suo Venere sorta,
verso l’ultima torre adduce Adone.
Vien tosto a disserrar l’aurata porta
l’ostier del’amenissima magione.
Ignudo ha il manco braccio, e l’unghia torta
v’affige dentro e stringelo un falcone.
Le talpe, le testudini e l’aragne
son sempre di costui fide compagne.
9
Chiuso nel’ampio e ben capace seno
è quel giardin dela maestra torre,
degli altri assai più spazioso e pieno
di quante seppe Amor gioie raccorre.
Un largo cerchio e di bell’ombre ameno
vien un teatro sferico a comporre,
che, col gran cinto del’eccelse mura,
protege la gratissima verdura.
10
Adon va innanzi e par che novo affetto
d’amorosa dolcezza il cor gli stringa.
Non fu mai d’atto molle osceno oggetto
che quivi agli occhi suoi non si dipinga:
sembianti di lascivia e di diletto,
simulacri di vezzo e di lusinga,
trastulli, amori, o fermi il guardo o giri,
gli son sempre presenti, ovunque miri.
11
Sembra il felice e dilettoso loco
pien d’angelica festa un paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco.
Stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso.
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure e col Trastullo scherza.
12
Chino la fronte e con lo sguardo a terra
l’amoroso Pensier rode sestesso.
Chiede conforto al Duol, pace ala Guerra
il Prego, in atto supplice e dimesso.
Scopre negli occhi quelche ‘l petto serra
il Cenno, del Desir tacito messo.
Sporge le labra e l’altrui labra sugge
il Bacio e, nel baciar, sestesso strugge.
13
Sta l’Adulazion sovra le soglie
del dolce albergo e ‘l peregrin vi guida.
La Promessa l’invita e ‘n guardia il toglie,
la Gioia l’accompagna e par che rida.
La Vanità ciascun che v’entra accoglie
e la Credenza ogni ritroso affida.
La Ricchezza, di porpore vestita,
superbamente i suoi tesor gli addita.
14
Havvi l’Ozio che langue e si riposa,
lento ed agiato, e in ogni passo siede.
Pigro e con fronte stupida e gravosa
seguelo il Sonno e mal sostiensi in piede.
Ordir di giglio, incatenar di rosa
fregi al suo crin la Gioventù si vede.
Seco strette ha per mano in compagnia
Beltà, Grazia, Vaghezza e Leggiadria.
15
Con l’ingordo Desio ne vien la Speme,
Perfida, adulatrice e lusinghiera.
Mascherati la faccia, errano insieme
l’accorto Inganno e la Menzogna in schiera.
Sparsa le chiome insu la fronte estreme
fuggendo va l’Occasion leggiera.
Balla per mezzo la Letizia stolta,
salta per tutto la Licenzia sciolta.
16
L’esca e ‘l focile in man, sfacciata putta,
tien la Lussuria ed al’Infamia applaude.
Baldanzosa l’Infamia, ignuda tutta,
non apprezza e non cura onore o laude.
Le serpi dela chioma orrida e brutta
copre di vaghi fior l’astuta Fraude
e ‘l velen dela lingua aspro ed atroce,
di dolce riso e mansueta voce.
17
Tremar l’Audacia ai primi furti e starsi
vedi smorto il Pallor caro agli amanti.
Volan con lievi penne in aria sparsi
gli Spergiuri d’amor vani e vaganti.
Con l’Ire molli e facili a placarsi
van le dubbie Vigilie e i rozzi Pianti
e le gioconde e placide Paure
e le Gioie interrotte e non secure.
18
Ride la terra qui, cantan gli augelli,
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde,
le pietre istesse e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.
19
– A dio, ti lascio; omai fin qui (di Giove
disse là giunto il messaggier sagace)
per ignote contrade ed a te nove
averti scorto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine insu ‘l confin, là dove
ogni guerra d’amor termina in pace.
Di quel senso gentil questa è la sede,
a cui sol di certezza ogni altro cede.
20
Ogni altro senso può ben di leggiero
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no loqual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.
Gli altri, non possedendo il corpo intero,
ma qualche parte sol, non son perfetti;
questo, con atto universal, distende
le sue forze pertutto e tutto il prende.
21
Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo
più d’un dubbio sottil dele mie scole;
ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo
che la maestra tua non vuol parole.
Io qui rimango, ad Erse mia tessendo
ghirlandetta di mirti e di viole.
Tu vanne e godi. Io so che ‘n tanta gioia
qualunque compagnia ti fora a noia. –
22
Con un cenno cotal di ghigno astuto
si rivolse a Ciprigna in questo dire;
poi smarrissi da lor, siché veduto
non fu per più d’un dì, fino al’uscire.
Ma pria che desse l’ultimo saluto
ai due focosi amanti insu ‘l partire,
del’un e l’altro, in pegno di mercede,
giunse le destre e gl’impalmò per fede.
23
Restar soletti in quell’orror frondoso
poiché Mercurio dipartissi e tacque.
Rigava un fonte il vicin margo erboso
in cui forte Natura si compiacque.
L’acque innaffiano il bosco e ‘l bosco ombroso
specchia sestesso entro le limpid’acque,
talch’un giardino in duo giardin distinto
vi si vedea, l’un vero e l’altro finto.
24
Porta da questo fonte umile e lento
per torto solco il picciol corno un rio.
Parria vero cristallo e vero argento,
senon sene sentisse il mormorio.
D’oro ha l’arene, e quindi è sempre intento
di sua mano a raccorlo il cieco dio,
onde fabrica poi gli aurati strali,
strazio immortal de’ miseri mortali.
25
In duo rivi gemelli si dirama
l’amoroso ruscel: l’uno è di mele,
pien di quanta dolcezza il gusto brama,
l’altro corrompe il mel di tosco e fele,
quel fel, quel tosco ond’armò già la Fama
l’aspre saette del’arcier crudele.
Crudel arcier, ch’anco il materno seno
infettò d’amarissimo veleno.
26
Dal velenoso e torbido compagno
sen va diviso il fiumicel melato,
onde per canal d’or più d’un rigagno
verga di belle linee il verde prato
e sboccan tutte in un secreto bagno
che nel centro del bosco è fabricato.
Di questo bagno morbido e soave
la Lascivia e ‘l Piacer tengon la chiave.
27
Siede al’uscio il Piacer di quell’albergo
con la Lascivia a trastullarsi inteso,
garzon di varia piuma alato il tergo,
ridente il volto e di faville acceso;
l’aurato scudo, il colorato usbergo
giacegli inutilmente a piè disteso;
torpe tra’ fior, pacifico guerriero,
l’elmo, ch’una sirena ha per cimiero.
28
Curvo arpicordo da’ vicini rami
pende e spesso dal’aura ha moto e spirto.
D’ambra tersa e sottile in biondi stami
forcheggia il crine intortigliato ed irto,
tutto impacciato di lacciuoli e d’ami,
di fresca rosa e di fiorito mirto.
Arco di bella e varia luce adorno
li fa diadema in testa, iride intorno.
29
Né di men bella o men serena faccia
mostrasi in grembo a lui la lusinghiera;
di viti e d’edre i capei d’oro allaccia,
di canuti armellin guarda una schiera.
Un capro a lato e con la destra abbraccia
il collo d’una libica pantera;
regge con l’altra ad un troncon vicino
ammiraglio lucente e cristallino.
30
Quivi al venir d’Adone e Citerea,
componendo del crin le ciocche erranti,
i dolcissimi folgori tergea
dele luci umidette e scintillanti.
Spesso a un nido di passere volgea,
che sul’arbor garrian, gli occhi incostanti
e la succinta, anzi discinta, gonna
scorciava più che non conviensi a donna.
31
Feriro il bell’Adon di meraviglia
quelle forme vezzose e lascivette,
e, con l’alma sospesa insu le ciglia,
a contemplarle immobile ristette.
Ella, d’un bel rossor tutta vermiglia,
impedita da scherzi e lusinghette,
col suo drudo per man dal’erba sorse
ed al donzel che l’incontrava occorse.
32
Vergata a liste d’or candida tela
di sottil seta e di filato argento
vela le belle membra e, quasi vela,
si gonfia in onde e si dilata al vento,
e l’interno soppanno apre e rivela,
tra’ suoi volazzi, in cento giri e cento.
Crespa le rughe il lembo e non ben chiude
l’estremità dele bellezze ignude.
33
Dal’ali del’orecchie ingiù pendente
di due perle gemelle il peso porta.
Sostiene il peso, di fin or lucente,
sferica verga in picciol’orbe attorta.
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta
e dela bianca man, ch’ad arte stende,
d’indiche fiamme il vivo latte accende.
34
Dal’estivo calor, che mentre bolle
le ‘nfiamma il volto d’un incendio greve,
schermo si fa d’un istromento molle
di piuma vie più candida che neve
e, per gonfiar di sua superbia folle
con doppio vento il vano fasto e lieve,
v’ha di cristallo oriental commessi
duo specchi in mezzo, e si vagheggia in essi.
35
Tese costei sue reti al vago Adone,
ogni atto er’amo, ogni parola strale.
Rompea talor nel mezzo il suo sermone
languidamente e con dolcezza tale
che ‘l diamante spezzar dela ragione
potea, nonché del senso il vetro frale.
Parlava, e ‘l suo parlar tronco e diviso
fregiava or d’un sospiro, or d’un sorriso.
36
– Se quanto di beltà nel volto mostri
tanto di cortesia chiudi nel petto,
ché tal certo (diss’ella) agli occhi nostri
argomento di te porge l’aspetto,
venirti a sollazzar ne’ chiusi chiostri
non sdegnerai di quel beato tetto.
Nel tetto là ch’io ti disegno a dito,
come degno ne sei, sarai servito.
37
Questi è quei, se nol sai, ch’altrui concede
quel ben che può far gli uomini felici.
Ognuno il cerca, ognuno il brama e chiede,
usan tutti per lui vari artifici.
Chi ritrovar nele ricchezze il crede,
chi nele dignità, chi negli amici,
ma raro il piè da quest’albergo ei move,
né, fuorché nel mio grembo, abita altrove.
38
Del sozzo vaso, ov’ogni mal s’accoglie,
apena uscì che fu chiamato in cielo;
ma gli convenne pria depor le spoglie,
talch’ignudo v’andò senz’alcun velo.
Scende dal ciel sovente in queste soglie
dov’io gelosa agli occhi indegni il celo,
il celo altrui con ogni industria ed arte,
solo a qualche mio caro io ne fo parte.
39
Quando volò nel’immortal soggiorno,
nacque nel mondo un temerario errore;
del manto ch’ei lasciò si fece adorno
un aversario suo, detto Dolore;
questi sen va con le sue vesti intorno,
siché ‘l somiglia al’abito di fore;
onde ciascun mortal, preso al’inganno,
invece del Piacer segue l’Affanno.
40
Io on poi sua compagna, io son colei
che volgo in gioia ogni travaglio e duolo.
Da noi soli aver puoi, se saggio sei,
quel piacer de’ piacer ch’al mondo è solo.
De’ suoi seguaci e de’ seguaci miei
è quasi innumerabile lo stuolo;
né tu dei men felice esser di questi,
poiché giunger tant’oltre oggi potesti.
41
Qui lavarti conviene. A ciò t’invita
il loco agiato e la stagion cocente.
Nostra legge il richiede e la fiorita
tua bellezza ed etate anco il consente.
Ma più quella beltà che teco unita,
teco, o te fortunato, arde egualmente.
Non entra in questa casa, in questo bosco
chi non vaneggia e non folleggia nosco. –
42
A queste parolette Adon confuso
nulla risponde e taciturno stassi,
ch’a tenerezze tante ancor non uso
tien dimessa la fronte e gli occhi bassi.
Ma da più ninfe è circondato e chiuso
che non voglion soffrir ch’innanzi passi.
Qual dal bel fianco la faretra scioglie,
qual gli trae la cintura e qual le spoglie.
43
Al’importuno stuol che l’incatena
non senza scorno il giovinetto cede
e, salvo un lento vel che ‘l copre apena,
nudo si trova dala testa al piede.
Gira la vista allor lieta e serena
ala sua diva, e nuda anco la vede,
ch’ogni sua parte più secreta e chiusa
confessa agli occhi ed ala selva accusa.
44
Ella tra ‘l verde del’ombrosa chiostra
vergognosetta trattasi in disparte,
sue guardinghe bellezze or cela or mostra,
fa di sestessa inun rapina e parte;
impallidisce, indi i pallori inostra,
sembra caso ogni gesto ed è tutt’arte;
giungon vaghezza ai vaghi membri ignudi
consigliati disprezzi, incolti studi.
45
Copriala aprova ogni arboscel selvaggio
con braccia di frondosa ombra conteste,
peroché ‘l sol con curioso raggio
spiar volea quella beltà celeste.
Videsi di dolcezza ancora il faggio,
il faggio, onde pendean l’arco e la veste,
non possendo capir quasi in sestesso
far più germogli e divenir più spesso.
46
Il groppo allor che ‘nsu la fronte accolto
stringea del crine il lucido tesoro,
con la candida man lentato e sciolto
sparse Ciprigna in un diluvio d’oro,
onde, a guisa d’un vel dorato e folto
celando il bianco sen tra l’onde loro,
in mille minutissimi ruscelli
dal capo scaturir gli aurei capelli.
47
Celò ‘l bel sen con l’aureo vel, ma come
appiattando la testa in cespo erboso
invan l’augel che trae di Fasi il nome
crede tutto a chi ‘l mira essersi ascoso,
così, seben dele diffuse chiome
fece al’altre bellezze un manto ombroso,
scopriva intanto infra quell’ombre aurate
sol nel sol de’ begli occhi ogni beltate.
48
Oltre che di quel sol chiaro e sereno
quella nube gentil non splendea manco.
Ella pur cerca or il leggiadro seno
velarsi, or il bel tergol or il bel fianco;
ma le fila del’or tenersi a freno
sul’avorio non san, lubrico e bianco
e quelche di coprir la man si sforza,
audace venticel discopre a forza.
49
Vanno al gran bagno. Or dal’antiche carte
di Baia e Cuma il paragon si taccia.
In un quadro perfetto è con bell’arte
disposto, ed ogni fronte è cento braccia,
di ben commodi alberghi in ogni parte
cinto, e tre ne contien per ogni faccia;
camere e logge in triplicata fila
vistanno ed ogni stanza ha la sua pila.
50
In mezzo al’edificio alto si scorge
piantato di diaspro un gran pilastro
per le cui vene interne il fonte sorge,
forate sì da diligente mastro
che per dodici canne intorno porge
l’acque in vasi d’acate e d’alabastro.
È d’argento ogni canna assai ben tersa,
come d’argento son l’acque che versa.
51
Vansi l’acque a versar, ma pigre e lente,
in ampie conche di forbiti sassi,
siché raccor si può l’umor cadente
dal’ordin primo de’ balcon più bassi.
Pigra dico sen va l’onda lucente
e move tardi i cristallini passi
che ‘n sì ricco canal mentre s’aggira,
le sue delizie ambiziosa ammira.
52
E quindi poscia per occulta tromba
a sua propria magion passa ciascuna,
e, traboccando con fragor, rimbomba,
tanto lucida più quanto più bruna.
Rassembra ogni magion spelonca o tomba,
par la luce del sol luce di luna.
Pallido v’entra per anguste vie,
tanto che non v’è notte e non v’è die.
53
Il portico a cui l’onda in grembo piove
serie di curvi fornici sostiene.
Fregiano il muro interior là dove
l’umido gorgo a scaricar si viene,
marmi dipinti in strane fogge e nove
di belle macchie e di lucenti vene.
Lusingan d’ognintorno i bei riposi
covili opachi e molli seggi ombrosi.
54
Ma null’opra mortal l’arte infinita
dela cava testudine pareggia,
che di pietre mirabili arricchita
splende, e gemma plebea non vi lampeggia:
v’ha quelche ‘l ciel, v’ha quelche l’erba imita,
v’ha quelch’emulo al foco arde e rosseggia;
stucchi non v’ha, ma di sottil lavoro
smalti sol coloriti in lame d’oro.
55
Tra’ bei confin dele gemmate rive
sì serena traspar l’onda raccolta
che i non suoi fregi usurpa, e ‘n sé descrive
tutti gli onor dela superba volta.
Non tanto forse in sì bell’acque e vive
sdegneria Cinzia esser veduta e colta;
forse in acque sì belle il suo bel viso
meglio ameria di vagheggiar Narciso.
56
Quinci, penso, adivien che la loquace
già ninfa che per lui muta si tacque,
d’abitar, fatta voce, or si compiace
dov’ei di vaneggiar già si compiacque.
Quivi de’ detti estremi ombra seguace
d’arco in arco lontan fugge per l’acque;
e, qual d’Olimpia entro l’eccelsa mole,
moltiplica risposte ale parole.
57
Venne allor l’una coppia, e l’altra scorse
de’ bei lavacri al più vicin recesso;
né molto andò che quindi uscir s’accorse
d’accenti e baci un fremito sommesso.
Adone a quella parte il passo torse
tanto che per veder si fè dapresso.
Vide, e gli cadder gli occhi in fondo al fonte
tanta vergogna gli gravò la fronte.
58
Su la sponda d’un letto ha quivi scorto
libidinoso satiro e lascivo
ch’a bellissima ninfa in braccio attorto
il fior d’ogni piacer coglie furtivo.
Del bel tenero fianco al suo conforto
palpa con una man l’avorio vivo,
con l’altra, ch’ad altr’opra intenta accosta,
tenta parte più dolce e più riposta.
59
Tra’ noderosi e nerboruti amplessi
del robusto amator la giovinetta
geme, e con occhi languidi e dimessi
dispettosa si mostra e sdegnosetta.
Il viso invola ai baci ingordi e spessi,
e nega il dolce, e più negando alletta;
ma mentre si sottragge e gliel contende,
nele scaltre repulse i baci rende.
60
Ritrosa a studio e con sciocchezze accorte
svilupparsi da lui talor s’infinge,
e ‘ntanto tra le ruvide ritorte
più s’incatena e più l’annoda e cinge,
in guisa tal che non giamai più forte
spranga legno con legno, inchioda e stringe.
Flora non so, non so se Frine o Taide
trovar mai seppe oscenità sì laide.
61
Serpe nel petto giovenile e vago
l’alto piacer del’impudica vista,
ch’ale forze d’Amor tiranno e mago
esser non può ch’un debil cor resista;
anzi dal’esca dela dolce imago
l’incitato desio vigore acquista;
e, stimulato al natural suo corso,
meraviglia non fia se rompe il morso.
62
E la sua dea, che d’amorosi nodi
ha stretto il core, a seguitarlo intenta,
con detti arguti e con astuti modi
pur tra via motteggiando il punge e tenta:
– Godi pur (dicea seco) il frutto godi
de’ tuoi dolci sospir, coppia contenta.
Sospir ben sparsi e ben versati pianti,
felici amori e più felici amanti!
63
Sia fortuna per voi. Non so se tanto
fia cortese per me chi m’imprigiona. –
Così favella al suo bel sole a canto
e sorride la dea mentre ragiona,
facendo pur del destro braccio intanto
al suo fianco sinistro eburnea zona.
E già colei che gl’introdusse quivi
spargea dal suo focil mille incentivi.
64
Come fiamma per fiamma accresce foco,
come face per face aggiunge lume,
o come geminato a poco a poco
prende forza maggior fiume per fiume,
così ‘l fanciullo al’inonesto gioco
raddoppia incendio e par che si consume,
e, tutto in preda ala lascivia ingorda
dela modestia sua non si ricorda.
65
Già di sestesso già fatto maggiore
drizzar si sente al cor l’acuto strale,
tanto ch’omai di quel focoso ardore
a sostener lo stimulo non vale;
ond’anelando il gran desir che ‘l core
con sollecito spron punge ed assale
e bramoso di farsi apien felice,
pur rivolto ala dea, la bacia e dice:
66
– Io moro, io moro oimé, se non mi dona
oportuna pietà matura aita.
Se di me non vi cal, già si sprigiona,
già pendente al suo fin corre la vita.
Ferve la fiamma, ed imminente e prona
l’anima già prorompe insu l’uscita.
Quella beltà per cui convien ch’io mora
suscita con gli spirti i membri ancora.
67
Tosto ch’a dolce guerra amor protervo
mi venne oggi a sfidar con tanti vezzi,
tesi anch’io l’arco, ed or già temo il nervo
per soverchio rigor non mi si spezzi.
Non posso più, del’umil vostro servo
il troppo ardir non si schernisca o sprezzi,
che vorria pur, come veder potete,
dela gloria toccar l’ultime mete. –
68
Così parlando e dela lieve spoglia
la falda alquanto in languid’atto aperta,
l’impazienza del’accesa voglia
senz’alcun vel le dimostrò scoverta.
– Soffri (diss’ella allor) finché n’accoglia
apparecchio miglior, la speme e certa;
dala Commodità, mia fida ancella,
data in breve ne fia stanza più bella.
69
Ritardato piacer, portalo in pace,
nele dilazion cresce non poco.
Bastiti di saver che mi disface
di reciproco amor scambievol foco.
Teco insu l’ora dela prima face
m’avrai, ti giuro, in più secreto loco.
Fa pur bon cor, tien la mia fede in pegno,
tosto averrà che ‘n porto entri il tuo legno.–
70
Come a fiero talor veltro d’Irlanda
buon cacciator che ‘nfuriato il veda,
benché venga a passar dala sua banda
vicina assai la desiata preda,
la libertà però che gli dimanda
non così tosto avien che gli conceda,
anzi fermo e tenace ad ogni crollo
tira il cordon che gl’imprigiona il collo,
71
così né men, per più scaldar l’affetto
nel difficil goder l’amante accorta,
mentr’ei volea del suo maggior diletto
con la chiave amorosa aprir la porta,
di quel primo appetito al giovinetto
l’impeto affrena e ‘l bacia e ‘l riconforta.
Poi con la bella man quindi il rimove
e l’invita a girar le piante altrove.
72
Può da que’ chiusi alberghi al’ampia corte
libero uscir per più d’un uscio il piede;
e scritta dele stanze insu le porte
d’ogni lavanda la virtù si vede.
Ciascun’acqua ha virtù di varia sorte,
come l’esperienza altrui fa fede.
Qual vigor, qual sapore in sé contegna
il tatto e ‘l gusto espressamente insegna.
73
O miracol gentil, vena che scorre
d’un sasso solo in varie urne stillante,
come possa distinte in sé raccorre
doti diverse e qualità cotante!
Chi può di tutte i propri effetti esporre?
Qual più, qual meno è gelida o fumante,
altra più torbidetta, altra più chiara,
altra dolce, altra salsa ed altra amara.
74
La tempra di quell’onde ove fu posta
la bella dea con l’idol suo gradito
del fonte insidioso era composta
che congiunse a Salmace Ermafrodito,
e ‘n sé tenea proprietà nascosta
di rinfiammare il tepido appetito,
oltre l’erbe ch’infuse erano in essa,
dotate pur dela virtute istessa.
75
V’era il fallo e ‘l satirio in cui figura
oscene forme il fiore e la radice,
la menta che salace è per natura,
l’eruca degli amori irritatrice,
e v’era d’altri semplici mistura,
già di Lampsaco colti ala pendice.
Amor, ma dimmi tu nel bel lavacro
qual fu nudo a veder quel corpo sacro.
76
Non così belle con le chiome sparse
quando ala prima ingiuria il mar soggiacque
ai duci d’Argo vennero a mostrarse
le vezzose Nereidi in mezzo al’acque.
Tal mai non so se la sua stella apparse
qualor dal’ocean più chiara nacque;
pare il bel volto il sol nascente, e pare
il seno l’alba e quella conca il mare.
77
Simulacro di ninfa, inciso e fatto
di qual marmo più terso in pregio saglia,
posto in ricca fontana, o bel ritratto
d’avorio fin, cui nobil fabro intaglia,
somiglia apunto ala bianchezza, al’atto,
senon che ‘l moto sol la disagguaglia;
e la fan differir dal sasso scolto
l’oro del crin, la porpora del volto.
78
Al folgorar dele tremanti stelle
arser gli umori algenti e cristallini,
ed avampar d’insolite fiammelle
l’umide pietre e i margini vicini.
Vedeansi accese entro le guance belle
dolci fiamme di rose e di rubini
e nel bel sen per entro un mar di latte
tremolando nuotar due poma intatte.
79
Or qual Fortuna insu la fronte ammassa
l’ampio volume dela treccia bionda;
or qual cometa andar parte ne lassa
dopo le terga ad indorar la sponda;
aura talor che la scompiglia e squassa
fa rincresparla ed ondeggiar con l’onda,
onde il crin rugiadoso e sparso al vento
oro parea che distillasse argento.
80
Parea, battuta da beltà sì cara,
disfarsi di piacer l’onda amorosa,
e bramava indurarsi e spesso avara
in sen la si chiudea, quasi gelosa.
Chiudeala, ma qual pro s’era sì chiara
che mal teneala al bell’Adone ascosa?
Però che tralucea nel molle gelo
come suol gemma in vetro o lampa in velo.
81
O qual gli move al cor lascivo assalto
l’atto gentil, mentre si lava e terge!
Or nel’acque s’attuffa, or sorge in alto,
or le vermiglie labra entro v’immerge,
or di quel molle e cristallino smalto
con la man bianca il caro amante asperge,
or il sen sene spruzza ed or la fronte
e fa d’alto piacer piangere il fonte.
82
Adone anch’egli de’ leggiadri arnesi
scinto, e pien di stupore e di diletto,
sotto effigie gelata ha spirti accesi,
agghiacciando di fore, arde nel petto
e mentre ha gli occhi al suo bel foco intesi,
svelle dale radici un sospiretto
così profondo e fervido d’amore
che par che sospirar si voglia il core.
83
– Ahi qual m’abbaglia (sospirando dice)
folgore ardente e candido baleno?
quai vibrar veggio, spettator felice,
fiamme i begli occhi e nevi il bianco seno?
forse del ciel del’acque abitatrice
fatta è quest’alma? o questo è un ciel terreno?
Traslato è in terra il ciel. Venga chi vole
in aquario quaggiù vedere il sole.
84
Beltà, cred’io, non vide in val di Xanto
Paride tal nela medesma diva,
né d’amoroso foco arse cotanto
quando mirò la malmirata argiva,
qual’io la veggio allettatrice e quanto
sento l’alma stemprarmi in fiamma viva;
fiamma di cui maggior non so se fusse
quella che la sua patria arse e distrusse.
85
Dimmi, padre Nettun, se ti rimembra
quand’ella uscì dele tue salse spume,
di’ se vedesti nele belle membra
tanto splendore accolto e tanto lume.
Dimmi tu, Sol, quella beltà non sembra
oggi maggior del solito costume?
maggior che quando in ciel fosti di lei
invido testimonio agli altri dei.
86
Fosti men fortunato, Endimione,
indegno di mirar quelch’oggi io miro,
quando a te scese dal sovran balcone
la bianca dea del’argentato giro.
Cedimi cedi, o misero Atteone,
ch’io per più degno oggetto ardo e sospiro;
e differente è ben la nostra sorte,
ch’io ne traggo la vita e tu n’hai morte.
87
O bellezza immortal, perché nel’onde
ti lavi tu, se son di te men pure?
l’acque ale macchie tue divengon monde
e fansi belle con le tue brutture.
Deh, poich’a sì soavi e sì seconde
destinato son io gioie e venture,
ch’io ti lavi e t’asciughi ancor consenti
con vivi pianti e con sospiri ardenti.
88
E, s’è ver che ne’ fonti anco e ne’ fiumi
amoroso talor foco sfavilli,
fa che com’Aci in acqua io mi consumi
e com’Alfeo mi liquefaccia e stilli.
Forse raccolto tra’ cerulei numi,
mirando i fondi miei chiari e tranquilli,
fia che nela stagion contraria al ghiaccio
la bella fiamma mia mi guizzi in braccio. –
89
Così discorre, e ‘ntanto i freddi umori
prendon vigor dal’amorose faci.
Amor gli stringe e stringe i corpi e i cori
con lacci indissolubili e tenaci.
Del nodo che temprò que’ fieri ardori
fè catene le braccia e groppi i baci,
e con la propria benda ai vaghi amanti
forbì le membra gelide e stillanti.
90
Giunto era il sol del gran viaggio al fine
lasciando al suo sparir smarriti i fiori.
Facean scorta ai silenzi ed ale brine
l’ombre volanti e i sonnacchiosi orrori.
Chiudea la notte in bruno velo il crine
mendica de’ suoi soliti splendori,
ché la stella d’amor, d’amore accesa,
in ciel non venne, ad altro ufficio intesa.
91
Cameretta riposta, ove consperse
olezzan l’aure d’aliti soavi,
ai solleciti cori Amor aperse
Amor l’uscier che ne volgea le chiavi.
Tutte incrostate e qual diamante terse
v’ha di fino cristallo e mura e travi,
che con lusso superbo, ov’altri miri,
son specchi agli occhi e mantici ai desiri.
92
Talamo sparso di vapor sabeo,
cortine ha qui di porpora di Tiro.
Quelche per Arianna e per Lieo
d’indiche spoglie le baccanti ordiro,
quelch’a Teti le ninfe ed a Peleo
fabricar di corallo e di zaffiro,
povero fora al paragon del letto
ch’è dale Grazie ai lieti amanti eretto.
93
Splende il letto real di gemme adorno
e colonne ha di cedro e sponde d’oro.
Fanno le coltre al’oriente scorno,
vincono gli origlieri ogni tesoro.
Purpurea tenda gli distende intorno
fregiato un ciel di barbaro lavoro;
biancheggiano fra gli ostri e fra i rubini
morbidi bissi ed odorati lini.
94
Quattro strani sostegni ha ne’ cantoni
su le cui cime il padiglion s’appoggia.
Son fatti a guisa d’arbori a tronconi
d’oro e smeraldo in disusata foggia.
Qui, quasi in verdi e concave prigioni,
stuol d’augellini infra le fronde alloggia,
onde s’alcun talor scote la pianta
ode concerto angelico che canta.
95
Questo fu il porto che tranquillo accolse
la nobil coppia dal dubbioso flutto.
Qui del seme d’amor la messe colse,
qui vendemmiò de’ suoi sospiri il frutto;
qui, tramontando il sol, Vener si tolse
d’Adon più volte il bel possesso intutto;
e qui per uso al tramontar di quello
spuntava agli occhi suoi l’altro più bello.
96
Daché la queta, oscura, umida madre
del silenzio e del sonno i colli adombra,
finché le bende tenebrose ed adre
il raggio mattutin lacera e sgombra,
di quelle membra candide e leggiadre
gode la dea gli abbracciamenti al’ombra,
senza luce curar, senon la cara
luce che le sue tenebre rischiara,
97
e dal’orto ancor poi fin al’occaso
se ‘l cova in grembo e con le braccia il fascia.
Notte e dì sempr’è seco; e se per caso
di necessario affar talvolta il lascia,
che sia brev’ora senza lei rimaso
sentesi sospirar con tanta ambascia,
ch’aver sembra nel cor la fiamma tutta
che Troia accese e Mongibello erutta.
98
Quando il rapido sol per dritta verga
poggiando a mezzo ‘l ciel fende le piaggie,
là ‘ve de’ monti le frondose terga
tesson verde prigion d’ombre selvagge,
per soggiornar dove il suo bene alberga
solitaria sovente il piè ritragge,
e gode o lungo un fiume o sotto un speco
partir l’ore, i pensieri e i detti seco,
99
e sempre in suo desir costante e salda
o siede o giace o scherza il dì con esso.
Concorde al’acque del’ombrosa falda
freme de’ baci il mormorar sommesso,
né raggio d’altro sol la fiede o scalda
che de’ begli occhi in cui si specchia spesso,
né sul meriggio estivo aura cocente
senon sol quella de’ sospir, mai sente.
100
Vassene poi per questa riva e quella
l’orme seguendo del’amate piante,
predatrice di fere ardita e bella,
del caro predator compagna errante,
e l’arco in mano, al fianco le quadrella
porta talor del fortunato amante,
talch’ogni fauno ed ogni dea silvana
gli crede Apollo l’un, l’altra Diana.
101
Così qualor giovenca giovinetta
sen va per campi solitari ed ermi,
tenera sì che calpestar l’erbetta
ancor non sa con piè securi e fermi,
né curva in sfera ancor piena e perfetta
dela fronte lunata i novi germi,
seguela, ovunque va, per la verdura
la torva madre e la circonda e cura.
102
Fatta gelosa è sì di quel bel volto
che teme Amor d’amor non sen’accenda;
teme non Borea in turbine disciolto
dale nubi a rapirlo in terra scenda;
teme non Giove in ricca pioggia accolto
a sì rara bellezza insidie tenda.
Vorria poter celar luci sì belle
ala vista del sole e dele stelle.
103
Se si rischiara il mondo o se s’imbruna,
spieghi, o pieghi la notte il fosco velo,
del’aurora ha sospetto e dela luna,
ch’a lei nol furi e non sel porti in cielo.
Odia come rival l’aura importuna,
gli augelli, i tronchi, i fior l’empion di gelo.
Ha quasi gelosia de’ propri baci,
de’ propri sguardi suoi troppo voraci.
104
Sotto le curve e spaziose spalle
d’un incognito al sol poggio frondoso,
cinto da cupa e solitaria valle,
s’appiatta in cavo sasso antro muscoso.
Raro de’ suoi recessi il chiuso calle
altri tentò che ‘l Sonno e che ‘l Riposo.
L’ombre sue sacre, i suoi riposti orrori
e fere reveriscono e pastori.
105
Questo, l’Arte imitando, avea Natura
di rozzi fregi a meraviglia adorno.
L’avea con vaga e rustica pittura
sparso di fronde e fior dentro e dintorno.
Gli fea d’appio e di felce un’ombra oscura
schermo al’ingiurie del cocente giorno.
Difendea l’edra incontr’al sol l’entrata
di cento braccia e cento branche armata.
106
Qui spesso ricovrar da’ campi aprici
la bellissima coppia avea costume,
e ‘n liet’ozio passar l’ore felici,
secura dal’ardor del maggior lume.
Eran de’ sonni lor l’aure nutrici,
cortinaggi le fronde e l’erbe piume,
secretarie le valli e le montagne,
e l’erme solitudini compagne.
107
Incontro al biondo arcier che folgoranti
dritto dal’arco d’or scoccava i raggi,
scudo faceano ai duo felici amanti
con torte braccia i Briarei selvaggi.
Mossi dal’aure vane e vaneggianti
con alterni sussurri abeti e faggi
pareano dire, e lingua era ogni fronda:
Più ne nutrisce amor che ‘l sole e l’onda.–
108
Or quivi un dì fra gli altri, ecco che stanco
tornar di caccia ed anelante il vede.
L’or biondo e crespo, il terso avorio e bianco
tre volte e quattro a rasciugar gli riede.
Gli fa catena dele braccia al fianco,
sel reca in grembo e ‘n grembo al’erba siede;
e ‘n vagheggiando lui che l’invaghisce,
pur com’aquila al sol, gli occhi nutrisce.
109
Tien le luci ale luci amate e fide
congiunte, il seno al seno, il viso al viso.
Divora e bee, qualora ei bacia o ride,
con la bocca e con l’occhio il bacio e ‘l riso.
– Deh chi dagli occhi miei pur ti divide,
o non da’ miei pensier giamai diviso?
qual’altra esser può mai cura che vaglia
a far che del mio duol nulla ti caglia?
110
Or m’avveggio ben io che d’egual foco,
chi creduto l’avria? meco non ardi,
e che formi talor, sicome poco
avezzo a ben amar, vezzi bugiardi,
poiché posposto ala fatica il gioco,
dale tue cacce a me torni sì tardi,
e curi, come suole ogni fanciullo,
più che tutt’altro, un pueril trastullo. –
111
Così dicendo col bel vel pianpiano
gli terge i molli e fervidi sudori,
vive rugiade, onde il bel viso umano
riga i suoi freschi e mattutini fiori.
Poi degli aurei capei di propria mano
coglie le fila e ricompon gli errori
e di lagrime il bagna e mesce intanto,
tra perle di sudor, perle di pianto.
112
Ed egli a lei: – Deh! questi pianti asciuga,
deh! cessa omai queste dogliose note.
Pria seminar di neve, arar di ruga
tu vedrai queste chiome e queste gote,
che mai per altro amor sia posto in fuga
l’amor che dal mio cor fuggir non pote.
Se tu, fiamma mia cara, immortal sei,
immortali saran gl’incendi miei.
113
Per quella face ond’infiammato io fui
giuro, e per quello stral che ‘l cor m’offende,
giuro per gli occhi e per le chiome, in cui
lo strale indora Amor, la face accende,
ch’Adon fia sempre tuo, né mai d’altrui,
tal è quel sol ch’agli occhi suoi risplende.
S’altro che ‘l ver ti giuro, o bella mia,
di superbo cinghial preda mi sia.–
114
Ed ella a lui: – Se tu, ben mio, sapessi
quanto sia dolce esser amato amando,
e quant’è duro esperienza avessi
lunge dal’amor suo girsene errando,
di scambievole amor segni più espressi
mi daresti talor meco posando,
e saremmo egualmente amanti amati,
tu contento, io felice, ambo beati.
115
È ver che nulla il bel pensiero affrena,
che sempre al’occhio il caro oggetto appressa.
In alme strette di leal catena
so che per lontananza amor non cessa.
Dividale, se può, libica arena,
oceano profondo, alpe inaccessa:
pur lasciar il suo bene è peggio assai
che desiarlo e non goderlo mai.
116
Godianci, amianci. Amor d’amor mercede,
degno cambio d’amore è solo amore.
Fansi in virtù d’un’amorosa fede
due alme un’alma e son duo cori un core.
Cangia il cor, cangia l’alma albergo e sede,
in altrui vive, in semedesma more.
Abita amor l’abbandonata salma,
e vece vi sostien di core e d’alma.
117
O dolcezza ineffabile infinita,
soave piaga e dilettosa arsura,
dove, quasi fenice incenerita,
ha culla insieme il core e sepoltura;
onde da duo begli occhi alma ferita
muor non morendo e ‘l suo morir non cura
e, trafitta d’amor, sospira e langue
senza duol, senza ferro e senza sangue.
118
Così dolce a morir l’anima impara
esca fatta al’ardor, segno alo strale,
e sente in fiamma dolcemente amara
per ferita mortal morte immortale.
Morte, ch’al cor salubre, ai sensi cara,
non è morte, anzi è vita, anzi è natale.
Amor che la saetta e che l’incende,
per più farla morir, vita le rende.
119
Or se risponde il tuo volere al mio
e son conformi i miei desiri ai tuoi;
se quanto aggrada a te, tanto bram’io
e quanto piace a me tanto tu vuoi;
s’è diviso in duo petti un sol desio
ed è commune un’anima tra noi;
se ti prendi il mio core e ‘l tuo mi dai,
perché de’ corpi un corpo anco non fai?
120
O del’anima mia dolce favilla,
o del mio cor dolcissimo martiro,
o dele luci mie luce e pupilla,
o mio vezzo, o mio bacio, o mio sospiro,
volgimi quegli, ond’ogni grazia stilla,
fonti di puro e tremulo zaffiro,
porgimi quella ove m’è dato in sorte
in coppa di rubino a ber la morte.
121
Que’ begli occhi mi volgi. Occhi vitali,
occhi degli occhi miei specchi lucenti,
occhi, faretre ed archi e degli strali
intinti nel piacer fucine ardenti,
occhi del ciel d’amor stelle fatali
e del sol di beltà vivi orienti;
stelle serene, la cui luce bella
può far perpetua ecclisse ala mia stella.
122
Quella bocca mi porgi. O cara bocca,
dela reggia del riso uscio gemmato,
siepe di rose, in cui saetta e scocca
viperetta amorosa arabo fiato,
arca di perle ond’ogni ben trabocca,
cameretta purpurea, antro odorato,
ove rifugge, ove s’asconde Amore
poich’ha rubata un’alma, ucciso un core. –
123
Tace, ma qual fia stil che di ciascuna
paroletta il tenore a pien distingua?
Certo indegna è di lor, senon quell’una
che la forma sì dolce, ogni altra lingua.
Sì parlando e mirando ebra e digiuna
pasce la sete sì, non che l’estingua,
anzi, perché più arda e si consumi,
bacia le dolci labra e i dolci lumi.
124
Bacia e dopo ‘l baciar mira e rimira
le baciate bellezze or questi, or quella.
Ribacia, e poi sospira e risospira
le gustate dolcezze or egli, or ella.
Vivon due vite in una vita e spira,
confusa in due favelle, una favella.
Giungono i cori insu le labra estreme,
corrono l’alme ad intrecciarsi insieme.
125
Di note ador ador tronche e fugaci
risona l’antro cavernoso e scabro.
– Dimmi o dea (dice l’un) questi tuoi baci
movon così dal cor, come dal labro? –
Risponde l’altra: – Il cor nele mordaci
labra si bacia, amor del bacio è fabro,
il cor lo stilla, il labro poi lo scocca,
il più ne gode l’alma, il men la bocca.
126
Baci questi non son, ma di concorde
amoroso desio loquaci messi.
Parlan tacendo in lor le lingue ingorde
ed han gran sensi in tal silenzio espressi.
Son del mio cor, che ‘l tuo baciando morde,
muti accenti i sospiri e i baci istessi.
Rispondonsi tra lor l’anime accese
con voci sol da lor medesme intese.
127
Favella il bacio e del sospir, del guardo
voci anch’essi d’amor, porta le palme,
perch’al centro del cor premendo il dardo
su la cima d’un labro accoppia l’alme.
Che soave ristoro, al foco ond’ardo,
compor le bocche, alleggerir le salme!
Le bocche, che di nettare bramose
han la sete e ‘l licor, son api e rose.
128
Quel bel vermiglio che le labra inostra
alcun dubbio non ha che sangue sia.
Or se nel sangue sta l’anima nostra,
sicome i saggi pur vogliono che stia,
dunque, qualor baciando entriamo in giostra,
bacia l’anima tua l’anima mia,
e mentre tu ribaci ed io ribacio,
l’alma mia con la tua copula il bacio.
129
Siede nel sommo del’amate labbia,
dove il fior degli spirti è tutto accolto,
come corpo animato in sé pur abbia,
il bacio che del’anima vien tolto.
Quivi non so d’amor qual dolce rabbia
l’uccide, e dove muor resta sepolto;
ma là dove ha sepolcro, ancora poi,
baci divini, il suscitate voi.
130
Mentre a scontrar si va bocca con bocca,
mentre a ferir si van baci con baci,
sì profondo piacer l’anime tocca,
ch’apron l’ali a volar, quasi fugaci;
e di tanta che ‘n lor dolcezza fiocca
essendo i cori angusti urne incapaci,
versanla per le labra e vanno in esse
anelando a morir l’anime istesse.
131
Treman gli spirti infra i più vivi ardori
quando il bacio a morir l’anima spinge.
Mutan bocca le lingue e petto i cori,
spirto con spirto e cor con cor si stringe.
Palpitan gli occhi e dele guance i fiori
amoroso pallor scolora e tinge;
e morendo talor gli amanti accorti
ritardano il morir, per far due morti.
132
Da te l’anima tua morendo fugge,
io moribonda insu ‘l baciar la prendo,
e ‘n quel vital morir che ne distrugge,
mentre la tua mi dai, la mia ti rendo;
e chi mi mira sospirando e sugge,
suggo, sospiro anch’io, miro morendo;
e per morir, quando ti bacio e miro,
vorrei ch’anima fusse ogni sospiro. –
133
– Fa dunque, anima mia (l’altro le dice)
ch’io con vita immortal cangi la morte.
Voli l’anima al ciel, siché felice
sia degli eterni dei fatta consorte.
Fa ch’io viva e ch’io mora, e, se ciò lice,
fa ch’io riviva poi con miglior sorte.
Dolcemente languendo al’istess’ora,
fa che ‘n bocca io ti viva, in sen ti mora.
134
Un albergo medesmo in que’ dolci ostri
unisca il mio desir col tuo desire.
Le nostr’anime, i cor, gli spirti nostri
vadano insieme a vivere e morire.
Ferito a un punto il feritor si mostri,
pera la feritrice insu ‘l ferire,
onde, mentre ch’io moro e che tu mori,
ravivi il morir nostro i nostri ardori.
135
Sostien, diletta mia, ch’a mio diletto
senza cessar dale tue labra io penda,
ma col labro vermiglio il bianco petto
avarizia d’amor non mi difenda,
né que’ begli occhi al mio vorace affetto
dispettoso rigor, prego, contenda.
Morendo io vivrò in te, tu in me vivrai,
così ti renderò quanto mi dai.
136
Se nulla è in noi di nostro e non v’ha loco
cosa che possa tua dirsi né mia,
se ‘l mio cor non è mio molto né poco,
come ‘l tuo credo ancor, che tuo non sia;
poiché tu sei mia fiamma, io son tuo foco,
e ciò che brama l’un, l’altro desia;
poiché di propria mano amor ha fatto
e fermato tra noi questo contratto,
137
consenti pur ch’io ti ribaci e dammi
ch’io te, come tu me, stringa ed abbracci.
Pungi, ferisci, uccidi e svenir fammi
finché l’anima sudi e ‘l core agghiacci.
Te l’ardor mio, me la tua fiamma infiammi
e me teco e te meco un laccio allacci.
Perpetuo moto abbian le lingue e doppi
sien dele braccia e dele labra i groppi.
138
Per mezzo il fior dele tue labra molli
Amor, qual augellin vago e vezzoso,
con cento suoi fratei lascivi e folli
vola scherzando e vi tien l’arco ascoso.
Né vuol ch’io le mie fami ivi satolli,
dele dolcezze sue quasi geloso,
ché, tosto ch’io per mitigar l’ardore
ne colgo un bacio, ei mi trafige il core.
139
Ma qualor da lui scampo e là rifuggo
dov’ha più di vermiglio il tuo bel viso,
più dolce ambrosia, o me beato, io suggo
di quella che si gusta in paradiso.
Zefiretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar dele tue rose al riso,
loqual del foco che ‘l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie più l’alluma.
140
No, che baci non son questi ch’io prendo,
son dela dolce Arabia aure odorate,
d’una soavità ch’io non intendo,
più che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor ch’ei va traendo
dal’incendio del’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mele han Parnaso, Ibla ed Imetto.
141
Felice me, che meritar potei
quel dolce mai che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sì grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar, fuorché ‘n quest’atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo ale parole. –
142
– Ed io (dic’ella) che fruir mi vanto
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassù diletto tanto,
ch’ala gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando e tremando il cor sen viene.
143
Deh nel core, o mio core, omai m’aventa
quella lingua d’amor dolce saetta,
e ‘n cote di rubino aguzzar tenta
la punta ch’a morir dolce m’alletta;
e fa tanto ch’anch’io morir mi senta,
del tuo dolce morir dolce vendetta.
Serpe sembri al ferir, ché ben ascose
stan sovente le serpi infra le rose.
144
E se, perch’ella è velenosa e schiva,
forse imitar la vipera ti spiace,
movila almen, sicome suol lasciva
coda guizzar di rondine fugace.
O pur qual fronda di novella oliva
rincresparla t’insegni Amor sagace.
Vibrala sì, che la tua bocca arciera
emula de’ begli occhi, il cor mi fera. –
145
– Non sono (egli ripiglia) or non son questi
gli occhi, onde dolci al cor strali mi scocchi?
Gli occhi, onde dolce il cor dianzi m’ardesti?
Begli occhi! – e ‘n questo dir le bacia gli occhi.
– Begli occhi (ella soggiunge) occhi celesti
cagion che di dolcezza il cor trabocchi.
Core, ond’io vivo senza cor, tesoro,
ond’io povera son, vita, ond’io moro. –
146
Allora il vago: – Anzi tu sol tu sei
quel core onde ‘l mio cor vita riceve.
Cor mio... – Più volea dir, quando colei
la parola in un bacio e ‘l cor gli beve.
Ella per lui si strugge, egli per lei,
com’a raggio di sol falda di neve.
Suonano i baci e mai dal cavo speco
forse a più dolce suon non rispos’eco.
147
Fa un groppo allor del’un e l’altro core
quel sommo del piacer, fin del desio.
Formano i petti in estasi d’amore
di profondi sospiri un mormorio.
Stillansi l’alme in tepidetto umore,
opprime i sensi un dilettoso oblio.
Tornan fredde le lingue e smorti i volti,
e vacillano i lumi al ciel travolti.
148
Tramortiscon di gioia ebre e languenti
l’anime stanche, al ciel d’amor rapite.
Gl’iterati sospiri, i rotti accenti,
le dolcissime guerre e le ferite,
narrar non so. Fresche aure, onde correnti,
voi che ‘l miraste e che l’udiste, il dite,
voi secretari de’ felici amori
verdi mirti, alti pini, ombrosi allori.
149
Ma già fugge la luce e l’ombra riede,
e s’accosta a Marocco il sole intanto;
imbrunir d’oriente il ciel si vede,
cangia in fosco la terra il verde manto.
Già cede al grillo la cicala e cede
il rossignuolo ala civetta il canto,
che garrisce le stelle e dice oltraggio
del bel pianeta al fuggitivo raggio.




GIOVAN BATTISTA MARINO


L' ADONE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
GIOVAN BATTISTA MARINO
L' ADONE
_________

GIOVAN BATTISTA MARINO  - L' ADONE
1. Il nuovo poema europeo
Pubblicato a Parigi nel 1623 il poema di venti canti dedicati all'amore tra Venere e il giovane Adone (episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio ), ebbe subito un grandissimo successo anche grazie ai numerosi rinvii della pubblicazione che ingenerarono nella comunità dei letterati una grande e curiosa attesa. L'edizione parigina, con la dedica rivolta al re Luigi XIII e la dedicatoria alla regina madre Maria de' Medici, contiene in premessa una Lettre ou Discours de M. Chapelain con la quale il Marino intende rivolgersi agli eventuali detrattori del poema. Lo Chapelain dichiara che si tratta di una nuovo tipo di poema (“poema di pace”) che ricerca la meraviglia non nell'invenzione del soggetto ma nella trattazione elegante ed umile di una favola semplice. Per il Marino, nel costante raffronto con la Liberata del Tasso, la quantità era un fattore strettamente legato alla qualità di un'opera. Nel 1615 scriveva al Sanvitale:

In Parigi penso di dare alle stampe parecchie opere mie, e specialmente l'Adone, il quale se bene è poema giovanile, composto ne' primi anni della mia età, nondimeno piace tanto a tutti gli amici intelligenti per la sua facilità e venustà, che mi son deliberato di pubblicarlo: e avendo fatta questa risoluzione, l'ho accresciuto ed impinguato in modo ch'è molto maggiore l'aggionta della fabrica nuova che non sono le fondamenta vecchie. L'ho diviso in dodici canti assai lunghi, talché il volume sarà né più né meno quanto la Gierusalemme del Tasso. Staremo a vedere la riuscita che farà.

Scrive ancora nel 1615 Ciotti: «il volume sarà poco meno della Gerusalemme del Tasso»; e allo Stigliani: «l'Adone, poema quanto la Gierusalemme del Tasso». Si vanta in una lettera del 1621 a Giulio Strozzi: "Il poema pian piano si è ridotto a tale ch'è per sei volte quanto la Gerusalemme del Tasso. Io non nego che le buone poesie non si misurano a canne; ma quando con la qualità si accoppia insieme la quantità, fanno scoppio maggiore; percioché le storiette e le cartucce alla fine son portate via dal vento, ed i volumi grossi e pesanti se ne stanno sempre immobili." E infine ancora al Ciotti: "La stampa riesce magnifica e veramente degna di poema regio, perché si fa in foglio grande con dieci ottave per facciata in due file; onde la spesa è grossa, per esser volume forse di trecento fogli, e si fa il conto che sia per sette volte maggiore della Gierusalemme del Tasso".

2. Le fonti
In questo poema smisurato confluivano le sterminate letture condotte dal Marino nell'arco di una vita. In una nota lettera del 1620 a Claudio Achillini scriveva:

Sappia tutto il mondo che infin dal primo dì ch'io incominciai a studiar lettere, imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch'io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo: ché insomma questo è il frutto che si cava dalla lezione de' libri. … Perciò se … razzolando col detto ronciglio, ho pur commesso qualche povero furtarello, me ne accuso e me ne scuso insieme, poiché la mia povertà è tanta, che mi bisogna accattar delle ricchezze da chi n'è più di me dovizioso.

Rispetto alla tradizione classicista italiana scelse però delle strade diverse. Si è già detto dell'assunzione delle Dionisiache di Nonno e della poesia ellenista ad alternativa di una letteratura classicista latina. Presente e determinante tuttavia nel poema mariniano è l'opera di Claudiano. Come non trascurabili sono le derivazioni da Apuleio e Lucano.
Sul versante cosmogonico Marino non si avvale dei classici quali Esiodo e Lucrezio o dei padri della Chiesa (Basilio, Ambrogio). Fondamentale per l'Adone è, ancora una volta, il Tasso con Le sette giornate del mondo creato.

3. «La favola è angusta»
La trama, nella sua struttura narrativa principale, è molto semplice e quasi povera. Lo stesso Marino, a proposito dell'Adone, scriveva a un amico nel 1616: «La favola è angusta ed incapace di varietà d'accidenti; ma io mi sono ingegnato d'arricchirla d'azioni episodiche, come meglio mi è stato possibile»; e ancora ad Andrea Barbazza nel 1620: «lo stile può passare per essere fiorito e venusto, ma la favola è alquanto povera d'azioni». La vicenda mitologica di Adone viene sin dal primo canto condotta sotto il segno di Venere e ai valori (amore, pace, mansuetudine, grazia, pace, ozio, gioia e diletto) che le sono prossimi in contrapposizione alle ragioni della guerra: «Tu dar puoi sola altrui godere in terra / di pacifico stato ozio sereno. / Per te Giano placato il tempio serra, / addolcito il Furor tien l'ire a freno; / poiché lo del'armi e dela guerra / spesso suol prigionier languirti in seno, / e armi di gioia e di diletto / guerreggia in pace, ed è steccato il letto.» (I, 2)

4. La storia
– Le iniziazioni (I-XI)
Come in tutti i poemi mitologici la vicenda è chiusa, nel senso che ogni lettore conosce la storia e il suo intreccio e non si aspetta cambiamenti nelle principali vicende della struttura narrativa che può essere scandita in quattro scansioni: l'incontro e l'innamoramento di Venere e Adone; la vita amorosa e felice comune; l'incidente mortale di caccia occorso ad Adone; la nuova vita di Adone trasformato in anemone dalla dea.
Su questo schema Marino opera e introduce vicende e personaggi che espandono e variano la fissità della vicenda: Amore, per vendicarsi della madre che lo aveva battuto, decide di far innamorare Venere del bellissimo ma mortale Adone. Il piccolo dio riesce a fare arrivare Adone a Cipro dove, davanti al palazzo dell'amore, Clizio (Giovan Vincenzo Imperiale) gli racconta la vicenda del giudizio di Paride. Il palazzo di Venere non viene descritto ma rappresentato attraverso un percorso narrativo che ne proietta la costruzione interna attraverso un'architettura simbolica che diviene una sorta di carme figurato. Venere incontra Adone dormiente e, colpita dalla freccia di Amore, se ne innamora. Puntasi il piede con la spina di una rosa viene medicata da Adone che si innamora a sua volta. Amore racconta ad Adone della sua passione per Psiche e Venere gli ingiunge di non andare a caccia narrandogli il mito di Atteone sbranato dai suoi propri cani. Adone e Venere si spostano poi nell'esotico giardino del piacere suddiviso in cinque zone che rimandano ciascuna ad ogni senso del corpo umano. Nel giardino del tatto i due si uniscono in matrimonio. Visitano l'isola della poesia dove Fileno (alter ego del Marino) racconta la sua vita. Guidati da Mercurio visitano i cieli della Luna (che consente l'elogio delle scoperte galileiane), di Mercurio e di Venere dove vengono passate in rassegna le anime delle future donne celebri.

5. La storia
– Le peripezie (XII-XX)
L'arrivo del geloso Marte provoca la fuga di Adone che viene dotato di un anello magico in grado di vanificare gli incanti. Adone viene dunque privato dell'anello magico e imprigionato dalla maga Falsirena, a sua volta invaghitasi del giovane, nella propria dimora sotterranea. Trasformato per errore in pappagallo, Adone fugge dalla prigione e gli capita di assitere agli amoreggiamenti di Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna quindi alla prigione per recuperare sia l'anello che l'originaria forma umana. Tuttavia porta con sé le fatali armi di Meleagro che conducono alla morte colui che le usa. Dopo disavventure e peripezie amorose, Adone riesce a riprendere la sua relazione con Venere. Attraverso una prova di bellezza ottiene di diventare re di Cipro. Regno tuttavia che perde dopo poco ma con grande consolazione per i trastulli offerti da Venere che tuttavia deve lasciare Cipro per presenziare alle feste in suo onore sull'isola di Citera. Adone, grazie all'assenza di Venere, può finalmente dedicarsi alla caccia nel parco di Diana dove però gli viene teso un agguato da Marte che gli scaglia contro la furia di un cinghiale. Adone, che già porta con sé le mortifere armi di Meleagro, gli scocca contro una freccia di Amore. L'attacco del cinghiale diviene quindi un'assalto di passione che ferisce a morte il giovane in fuga. Alla notizia del ferimento di Adone Venere giunge in tempo per assistere agli ultimi istanti di vita di Adone. Nel frattempo il cinghiale viene processato e, dopo aver appurato che l'omicidio era stato causato dall'invasamento amoroso, assolto. Alla morte di Adone seguono i funerali e Venere trasforma il suo cuore in un anemone. Tre giorni di giochi e spettacoli, ai quali accorrono le divinità, e il matrimonio di Fiammadoro (la Francia) e Austria (la Spagna) concludono il racconto.

6. Il fine del poema
Del poema sulla favola mitologica di Venere e Adone al Marino non interessavano questioni quali l'unità dell'azione o la coerenza dei piani narrativi sui quali il Tasso della Liberata, ad esempio, si era molto concentrato. Sulla scorta delle letture di Nonno di Panopoli, Ovidio, Apuleio e attingendo alle arti vicine (come la pittura e la musica), mette in scena e inanella, su di un esile filo narrativo, una lunga e vertiginosa serie di episodi e di idilli letterari e mitologici impreziositi da una lingua sovrabbondante e multiforme, e da soluzioni metriche originali, che intendono generare nel lettore gli effetti di stupore, meraviglia e diletto.

7. Didascalie
Sono poi presenti lunghi momenti didascalici dedicati ai luoghi, ai personaggi e alle cose in una moltiplicazione di dettagli e di esplorazioni descrittive minute. Non mancano, nella scia dei poemi esameronici, la descrizione del mondo e delle conoscenze scientifiche anche più moderne (limitate all'astronomia e alle scoperte astronomiche di Galileo) come testimoniano le felici invenzioni linguistiche (non dettate da vere preoccupazioni scientifiche) derivanti dalle recenti applicazioni della tecnica. Noto è il riferimento all' «ammirabile stromento» galileiano che «scorciar potrà lunghissimi intervalli \ per un picciol cannone e duo cristalli» (X, 42, 7-8) che testimonia la volontà di creare una poesia scientifica che riveli una nuova realtà e una nuova visione del mondo.
E non mancano i riferimenti alla contemporaneità che tuttavia sono limitati a forme di omaggio resi a nazioni e città che nulla hanno a che fare con l'ideologia politica del poema epico. Ne risulta un testo consapevolmente concepito per sedurre il pubblico e volutamente incurante delle armonie classiche.

8. Il personaggio di Adone
Come protagonista Adone è un personaggio piuttosto passivo. Non prende mai iniziative e non decide nulla. È piuttosto l'oggetto delle altrui iniziative. Maschio antieroico e imbelle, inetto e facile alla fuga di fronte alle difficoltà, sembra avere più i tratti di una vergine fanciulla che di un eroe epico o da romanzo. Le sue grane vengono risolte da interventi divini. Vince slealmente una partita a scacchi con Venere. Anche la morte, che arriva dall'impeto virile del cinghiale, lo coglie intento alla fuga.

9. La metafora nell'Adone
Anche per l'Adone vale la preminenza della metafora nella costruzione della lingua e dei concetti. Con la predilezione e la preminenza di questa figura in tutto il sistema retorico, la metafora diviene dunque una macchina creatrice di forme e di contenuti attraverso un procedimento che mira costantemente allo spettacolarizzare la parola e a sorprendere il lettore. Un approccio questo che vediamo anche in Emanuele Tesauro, che intitola il suo trattato sulla retorica appunto il Cannocchiale aristotelico.

10. Il modello ingombrante del Tasso
Nemmeno i valori etici sono più quelli dell'epica tassiana che aveva puntato sulla materia della prima crociata, sul valore morale e sulle armi sacre della guerra santa. Nell'Adone i valori vengono cambiati di segno: dal campo di battaglia di Gerusalemme si passa al giardino di Armida. Nel poema del Marino esce di scena la storia e l'ideologia della missione cristiana in luogo di un regno senza tempo dove la pace, l'amore e i piaceri profani diventano il polo attrattivo di tutto lo spazio poetico e narrativo.
Significativa è la dimensione simbolica dei luoghi rappresentati soprattutto per le suggestioni liriche e sensuali. Una moltiplicazione, un pullulare di vicende, racconti ed episodi che non modificano il nucleo narrativo della favola dove il momento mitico ed edenico di Cipro (come l'isola di Alcina e di Armida nell'Orlando Furioso e nella Gerusalemme liberata) divengono qui l'intero dilatato sfondo di tutto il poema. L'isola rappresenta dunque un luogo senza tempo di felicità e trastulli al quale si contrappone il sotterraneo di Falsirena. Ma anche nei giardini più belli può nascondersi l'insidia della serpe e sull'isola ciprigna Adone non solo deve affrontare masnadieri e briganti che lo proiettano nella dimensione romanzesca ma è su questo paradiso terrestre che il giovane viene sopraffatto dalla furia fatale e appassionata del cinghiale. In qualche modo si può anzi ravvisare nella figura di Adone una sorta di anti-Rinaldo. Laddove il giovane guerriero, traviato dalle delizie del giardino di Armida e dall'amore, recupera il senso sacrale della sua missione crociata compiendo il suo destino nella liberazione del santo sepolcro, la sorte di Adone, tutta inscritta sull'isola dorata e senza tempo di Cipro, si compirà antieroicamente per opera di un cinghiale innamorato.
Si può senz'altro affermare che il Tasso provocò nel Marino quella che il critico americano Harold Bloom definisce l' «angoscia dell'influenza» ossia un constante confronto con l'opera e il modello di un maestro riconosciuto ma al tempo stesso ingombrante che ingenera un'ansia creativa, tra la pulsione della sfida e il desiderio di emancipazione, nel tentativo di un superamento.
Un tratto esemplare è costituito da quanto il Marino scrive all'amico Castello Link13 in una lettera del 1613:

Siami lecito in confidenza di rompere il freno della modestia e di smoderare alquanto in arroganza. Iddio mi dotò (la sua mercé) d'intelletto tale, che si sente abile a comporre un poema non meno eccellente di quel che si abbia fatto il Tasso. … E se sarà per avventura manchevole in alcuna di quelle parti, nelle quali il sudetto è stato singolare, abbonderò forse di molte di quelle condizioni nelle quali egli è stato difettoso. Tanto basti, e sia detto con quella riverenza che si conviene ad uomo sì grande. Tuttavia ad ogni scimia paiono belli i suoi scimiotti, e s'io non mi posso in altro agguagliare a quel gran poeta, voglio almento pretendere di vincere il paragone nell'esser più matto di lui.

Nella citata lettera all'Achillini Link39 del 1620, argomentando sul concetto di imitazione, rimarca quello che a suo avviso è il limite della Liberata:

Il Tasso … è stato maggiore e più manifesto dell'Ariosto imitatore delle particolarità, percioché senza velo alcuno trapportaciò che vuole imitare, usando assai forme di dire ed elocuzioni latine, delle quali troppo evidentemente si serve, sì come poco più più destro parmi che dimostrato si sia nelle universalità.

LA FORTUNA

ALLEGORIA

Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto.

ARGOMENTO

Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.
Amor gli turba intorno i venti e l’acque,
Clizio pastor l’accoglie in sua magione


1
Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella dea d’Amatunta e di Citera;
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
dela notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il cielo ed innamora il mondo;
2
tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno;
poiché lo dio del’ armi e dela guerra
spesso suol prigionier languirti in seno
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace ed è steccato il letto.
3
Dettami tu del giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe;
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe
e le dolci querele e ‘l dolce pianto;
e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.
Letteratura italiana Einaudi 2
4
Ma mentr’io tento pur, diva cortese,
d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati e poi sì gravi affanni,
Amor, con grazie almen pari al’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni
e con la face sua, s’io ne son degno,
dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.
5
E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,
di beltà vinci e di splendore abbagli
e, seguendo ancor tenero i vestigi
del morto genitor, quasi l’agguagli,
per cui suda Vulcano, a cui Parigi
convien che palme colga e statue intagli,
prego intanto m’ascolti e sostien ch’io
intrecci il giglio tuo col lauro mio.
6
Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto
col favor che mi regge ed aure ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme al’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.
7
Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna
per domar la superbia e la possanza
del tiranno crudel che ‘n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ‘nsu ‘l fiore a maturar si vegna,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 3
Giovanbattista Marino - Adone
allor, con spada al fianco e cetra al collo,
l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo.
8
Così la dea del sempreverde alloro,
parca immortal de’ nomi e degli stili,
ale fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
9
La donna che dal mare il nome ha tolto,
dove nacque la dea ch’adombro in carte,
quella che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte,
quella che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe nel’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’amor penna lasciva.
10
Ombreggia il ver Parnaso e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela,
quasi in rozzo Silen, celesti arcani.
Però dal vel che tesse or la mia tela
in molli versi e favolosi e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
smoderato piacer termina in doglia.
11
Amor pur dianzi, il fanciullin crudele,
Giove di nova fiamma acceso avea.
Letteratura italiana Einaudi 4
Arse di sdegno e ‘l cor d’amaro fiele
sparsa, gelò la sua gelosa dea,
e ‘ncontro a lui con flebili querele
richiamossi del torto a Citerea;
onde il garzon sovra l’etade astuto
dala materna man pianse battuto.
12
– Oimé, possibil fia (dicea Ciprigna)
ch’io mai per te di pace ora non abbia?
Qual cerasta più livida e maligna
nutre del Nilo la deserta sabbia?
qual furia insana, o qual arpia sanguigna
là negli antri di stige ha tanta rabbia?
Dimmi, quel tosco ond’ogni core appesti,
aspe di paradiso, onde traesti?
13
Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
le leggittime gioie e i casti amori?
Udrò di te mai più richiamo alcuno,
ministro di follie, fabro d’errori,
sollecito avoltor, verme importuno,
morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori,
di fraude nato e di furor nutrito,
omicida del senno, empio appetito?
14
Ira mi vien di romperti que’ lacci
e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
né so chi mi ritien ch’or or non stracci
quante reti malvage ordisci e spandi,
che per sempre dal ciel non ti discacci,
che ‘n essilio perpetuo io non ti mandi
su i gioghi ircani e tra le caspie selve,
arcier villano, a saettar le belve.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 5
Giovanbattista Marino - Adone
15
Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martiri e mali,
convien, malgrado mio, ch’io mi contentia;
ma soffrirò che ‘n ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando ale beate genti?
che sostengan per te strazi sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli dei?
16
Che più? fin dele stelle il sommo duce
questo malnato di sforzar si vanta,
e spesso a stato tale anco il riduce
ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? – E ciò dicendo il batte.
17
Con flagello di rose insieme attorte
ch’avea groppi di spine, ella il percosse
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli e la stellata corte
a quel fiero vagir tutta si mosse;
mossesi il ciel, che più d’Amor infante
teme il furor che di Tifeo gigante.
18
Dela reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la vipera africana
o l’orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor dela sassosa tana
Letteratura italiana Einaudi 6
e va fremendo per gli orror più cupi
dele valli lucane e dele rupi.
19
Sferzato e pien di dispettosa doglia,
fuggì piangendo ala vicina sfera,
là dove cinto di purpurea spoglia,
gran monarca de’ tempi, il Sole impera
e ‘nsu l’entrar dela dorata soglia,
stella nunzia del giorno e condottiera,
Lucifero incontrò, che ‘n oriente
apria con chiave d’or l’uscio lucente.
20
E ‘l Crepuscolo seco, a poco a poco
uscito per la lucida contrada
sovra un corsier di tenebroso foco,
spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
di fresco giglio e di vivace croco
forier del bel mattin spargea la strada
e con sferza di rose e di viole
affrettava il camino innanzi al Sole.
21
La bella luce, che ‘n su l’aurea porta
aspettava del Sol la prima uscita,
era di Citerea ministra e scorta,
d’amoroso splendor tutta crinita.
Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta
già la biga rotante avea spedita
e ‘l venir dela dea stava attendendo,
quando il fier pargoletto entrò piangendo.
22
Pianse al pianger d’Amor la mattutina
del re de’ lumi ambasciadrice stella
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 7
Giovanbattista Marino - Adone
e di pioggia argentata e cristallina
rigò la faccia rugiadosa e bella,
onde di vive perle accolte in brina
potè l’urna colmar l’Alba novella,
l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio
l’umido raggio al lagrimoso ciglio.
23
Ricoverato al ricco albergo Amore,
trovò che, posto a’ corridori il morso,
già s’era accinto il principe del’ore
con la verga gemmata al novo corso
e i focosi destrier, sbuffando ardore,
l’altere iube si scotean su ‘l dorso
e, sdegnosi d’indugio, il pavimento
ferian co’ calci e co’ nitriti il vento.
24
Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
che sempre il fin col suo principio annoda
e ‘n forma d’angue innanellato e torto
morde l’estremo ala volubil coda
e, qual Anteo caduto e poi risorto,
cerca nova materia ond’egli roda;
v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucenti,
i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.
25
L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
del Tempo gli ponean le quattro figlie.
Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
dodici brune e dodici vermiglie.
Mentre accoppiavan queste al carro adorno
gli aurati gioghi e le rosate briglie,
gli occhi di foco il Sol rivolse e ‘l pianto
vide d’Amor, che gli languiva a canto.
Letteratura italiana Einaudi 8
26
Era Apollo di Venere nemico
e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
daché lassù del’adulterio antico
publicò lo spettacolo lascivo,
quando accusò del talamo impudico
al fabro adusto il predator furtivo
e, con vergogna invidiata in cielo,
ai suoi dolci legami aperse il velo.
27
Orché gli espone Amor sua grave salma:
– E che sciocchi dolor (dice) son questi?
Se’ tu colui che litigar la palma
in riva di Peneo meco volesti?
Tu tu, mente del mondo, alma d’ogni alma,
vincitor de’ mortali e de’ celesti,
or con strale arrotato e face accesa
vendicar non ti sai di tanta offesa?
28
Quanto fora il miglior, sicome afflitto
di lagrime infantili il volto or bagni,
volgere il duolo in ira e ‘l dardo invitto
aguzzar nel’ingiuria onde ti lagni?
Fa che con petto lacero e trafitto
per te pianga colei per cui tu piagni;
ché, se vorrai, non senza gloria e nome
seguiranne l’effetto; ascolta come.
29
Là nela region ricca e felice
d’Arabia bella, Adone il giovinetto,
quasi competitor dela fenice
senza pari in beltà vive soletto.
Adon nato di lei, cui la nutrice
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 9
Giovanbattista Marino - Adone
col proprio genitor giunse in un letto,
di lei che, volta in pianta, i suoi dolori
ancor distilla in lagrimosi odori.
30
Schernì la scelerata il re malsaggio
accesa il cor di sozzo foco indegno,
ond’egli poi per così grave oltraggio
quant’ella già d’amore, arse di sdegno
e le convenne in loco ermo e selvaggio
girne ad esporre il malconcetto pegno,
pegno furtivo, a cui la propria madre
fu sorella in un punto, avolo il padre.
31
Fattezze mai sì signorili e belle
non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
Sventurato fanciullo, a cui le stelle
prima il rigor che lo splendor mostraro:
contro gli armò crude influenzie e felle,
ancor da lui non visto, il cielo avaro,
poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque,
al morir dela madre il figlio nacque.
32
Qual trofeo più famoso? e qual altronde
spoglia attendi più ricca o più superba,
se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,
il cor le ferirai di piaga acerba?
Dolci le piaghe fian, ma sì profonde
ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.
Questa fia del tuo mal degna vendetta:
spirto di profezia così mi detta.
33
Più oltre io ti dirò. Mira là dove
a caratteri egizzi in note oscure
Letteratura italiana Einaudi 10
intagliati vedrai per man di Giove
i vaticini del’età future:
havvi quante il destino al mondo piove
da’ canali del ciel sorti e venture,
che de’ pianeti al numero costrutte
sono in sette metalli incise tutte.
34
Quivi ciò che seguir deggia di questo
legger potrai, quasi in vergate carte:
prole tal nascerà del bell’innesto,
che non ti pentirai d’avervi parte.
In lei, pur come gemme in bel contesto,
saran tutte del ciel le grazie sparte;
e questa, o per tai nozze apien beato,
al tiranno del mar promette il fato.
35
Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
la memoria tra noi de’ gran contrasti,
ma tal premio n’avrai d’un dono mio,
che ‘n mercé di tant’opra io vo’ che basti;
lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
ch’ha d’or le corde e di rubino i tasti;
fu d’Armonia tua suora ed io di lei
con questa celebrai gli alti imenei.
36
Questa fia tua. Così qualor ti stai
di cure e d’armi alleggerito e scarco
musico com’arcier, trattar potrai
il plettro a par di me non men che l’arco;
ché l’armonia non sol ristora assai
qualunque sia più faticoso incarco,
ma molto può co’ numeri sonori
ad eccitare ed incitar gli amori. –
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 11
Giovanbattista Marino - Adone
37
Fur queste efficacissime parole
folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio,
ond’irritato abbandonò del Sole
senza far motto il lampeggiante soglio
e, ruinando dal’eterea mole
inver le piagge del materno scoglio,
corse col tratto dele penne ardenti,
più che vento leggier, le vie de’ venti.
38
Come prodigiosa acuta stella,
armata il volto di scintille e lampi,
fende del’aria, orribil sì ma bella
passaggiera lucente, i larghi campi;
mira il nocchier da questa riva e quella
con qual purpureo piè la nebbia stampi
e con qual penna d’or scriva e disegni
le morti ai regi e le cadute ai regni:
39
così mentrech’Amor dal ciel disceso
scorrendo va la region più bassa,
con la face impugnata e l’arco teso
gran traccia di splendor dietro si lassa;
d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
riga intorno le nubi ovunque passa
e trae per lunga linea in ogni loco
striscia di luce, impression di foco.
40
Su ‘l mar si cala, e sicom’ira il punge,
sestesso aventa impetuoso a piombo;
circonda i lidi quasi mergo e lunge
fa del’ali stridenti udire il rombo;
né grifagno falcon quando raggiunge
Letteratura italiana Einaudi 12
col fiero artiglio il semplice colombo
fassi lieto così, com’ei diventa
quando il leggiadro Adon gli si presenta.
41
Era Adon nel’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva
ed avea dispostezza ala novella
acerbità degli anni intempestiva,
né su le rose dela guancia bella
alcun gemoglio ancor d’oro fioriva
o, se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato o stella in cielo.
42
In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine;
del’ampia fronte in maestà ridente
sotto gli sorge il candido confine;
un dolce minio, un dolce foco ardente,
sparso tra vivo latte e vive brine,
gli tinge il viso in quel rossor che suole
prender la rosa infra l’aurora e ‘l sole.
43
Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene?
chi dele dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
o qual candor d’avorio o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un ciel di meraviglie in quel bel volto?
44
Qualor feroce e faretrato arciero
di quadrella pungenti armato e carco,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 13
Giovanbattista Marino - Adone
affronta o segue, inun leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco
e in atto dolce cacciator guerriero
saettando la morte incurva l’arco,
somiglia intutto Amor, senon che solo
mancano a farlo tale il velo e ‘l volo.
45
Egli tanto tesoro in lui raccolto
di natura e d’amor par ch’abbia a vile
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il sole, inorridir l’aprile,
ma, minacci cruccioso o vada incolto,
esser però non sa senon gentile
e, rustico quantunque e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
46
Or mentre per l’arabiche foreste,
dov’ei nacque e menò l’età primiera,
l’orme seguia per quelle macchie e queste
d’alcuna vaga e timidetta fera,
errore il trasse, o pur destin celeste,
dala terra deserta ala costiera,
colà dove fa lido ala marina
del lembo ultimo suo la Palestina.
47
Giunto ala sacra e gloriosa riva
che con boschi di palme illustra Idume,
dietro una cerva lieve e fuggitiva
stancando il piè, sicom’ avea costume,
trovò, di guardia e di governo priva,
ritratta in secco appo le salse spume,
da’ pescatori abbandonata e carca
d’ogni arredo marin, picciola barca.
Letteratura italiana Einaudi 14
48
Ed ecco varia d’abito e di volto
strania donna venir vede per l’onde,
ch’ha su la fronte il biondo crine accolto
tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde;
vermiglio e bianco il vestimento sciolto
con lieve tremolio l’aura confonde;
lubrico è il lembo e quasi un aer vano,
che sempre a chi lo stringe esce di mano.
49
Nel’ampio grembo ha dela copia il corno
e nela destra una volubil palla;
fugge ratto sovente e fa ritorno
per le liquide vie scherzando a galla;
alato ha il piede e più leggiera intorno
che foglia al vento si raggira e balla
e, mentre move al ballo il piè veloce,
in sì fatto cantar scioglie la voce:
50
– Chi cerca in terra divenir beato
goder tesori e possedere imperi,
stenda la destra in questo crine aurato,
ma non indugi a cogliere i piaceri,
ché, se si muta poi stagione e stato,
perduto ben di racquistar non speri:
così cangia tenor l’orbe rotante,
nel’incostanza sua sempre costante. –
51
Così cantava; indi, arrestando il canto,
con lieto sguardo al bel garzone arrise,
ed alo scoglio avicinata intanto
spalmò quel legno e ‘n sul timon s’assise.
– Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 15
Giovanbattista Marino - Adone
cortese stella al nascer tuo promise;
prendi la treccia d’or che ‘n man ti porgo,
né temer di venirne ov’io ti scorgo.
52
Benché vulgare opinione antica
mi stimi un idol falso, un’ombra vana
e cieca e stolta e di virtù nemica
m’appelli, instabil sempre e sempre insana
e tiranna impotente altri mi dica
vinta talor dala prudenza umana,
pur son fata e son diva e son reina,
m’ubbidisce natura, il ciel m’inchina.
53
Chiunque Amore o Marte a seguir prende
convien che ‘l nome mio celebri e chiami;
chi solca l’acqua e chi la terra fende
o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,
porge preghi al mio nume e voti appende
ed io dispenso altrui scettri e reami;
toglier posso e donar tutto ad un cenno
e quanto è sotto il sol reggo a mio senno.
54
Me dunque adora e ‘nsu l’eccelsa cima
dela mia rota ascenderai di corto;
per me nel trono, onde ti trasse in prima
l’empio inganno materno, or sarai scorto;
solché poi dove il fato or ti sublima
sappi nel conservarti essere accorto,
ché spesso suol con preveder periglio
romper fortuna rea cauto consiglio. –
55
Tace ciò detto ed egli, vago allora
di costeggiar quel dilettoso loco,
Letteratura italiana Einaudi 16
entra nel legno e del’angusta prora
i duo remi a trattar prende per gioco.
Ed ecco al sospirar d’agevol ora
s’allontana l’arena a poco a poco,
siché mentr’ei dal mar si volge ad essa
par che navighi ancor la terra istessa.
56
Scorrendo va piacevolmente il lido
mentr’è placido e piano il molle argento
e da principio, del suo patrio nido
rade la riva a passo tardo e lento,
indi al’instabil fè del flutto infido
sestesso crede e si commette al vento
lunge di là dov’a morir va l’onda
e con roco latrar morde la sponda.
57
Trasparean sì le belle spiagge ondose,
che si potean del’umide spelonche
nele profonde viscere arenose
ad una ad una annoverar le conche.
Zefiri destri al volo, Aure vezzose
l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche,
il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede:
oh malcauto colui ch’ai venti crede.
58
O stolto quanto industre, o troppo audace
fabro primier del temerario legno,
ch’osasti la tranquilla antica pace
romper del crudo e procelloso regno;
più ch’aspro scoglio e più che mar vorace
rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,
quando sprezzando l’impeto marino
gisti a sfidar la morte in fragil pino.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 17
Giovanbattista Marino - Adone
59
Per far una leggiadra sua vendetta
Amor fu solo autor di sì gran moto;
Amor fu ch’a pugnar con tanta fretta
trasse turbini e nembi, africo e noto.
Ma dela stanca e misera barchetta
fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto;
fece vela del vel, vento con l’ali,
e fur l’arco timon, remi gli strali.
60
Dala madre fuggendo iva il figliuolo
quasi bandito e contumace intorno,
perché, com’io dicea, vinto dal duolo,
di fanciullesca stizza arse e di scorno.
Né perché poscia il richiamasse, il volo
fermar volse giamai né far ritorno
e ‘n tal dispetto, in tant’orgoglio salse
che di vezzo o pregar nulla gli calse.
61
Per gli spazi sen gìa del’aria molle
scioccheggiando con l’Aure Amor volante
e dettava talor rabbioso e folle
tragiche rime a più d’un mesto amante;
talor lungo un ruscello o sovra un colle
piegava l’ali e raccogliea le piante
e, dovunque ne giva, il superbetto
rubava un core o trapassava un petto.
62
– Non è questo lo stral possente e fiero
ch’al rettor dele stelle il fianco offese?
per cui più volte dal celeste impero
l’aureo scettro deposto in terra scese?
quel ch’al quinto del ciel nume guerriero
spezzò, passò l’adamantino arnese?
Letteratura italiana Einaudi 18
quel che punse in Tessaglia il biondo dio,
superbo sprezzator del valor mio?
63
Questa la face è pur cui sola adora,
nonché la terra e ‘l ciel, Stige e Cocito,
che strugger fè, che fè languir talora
il signor dele fiamme incenerito,
quella da cui non si difese ancora
di Teti il freddo ed umido marito,
che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,
tra l’ombre i boschi e tra le nevi i monti.
64
Ed or costei, da cui con biasmo eterno
mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui,
perché dee le mie forze aver a scherno,
seben dal ventre suo concetto io nacqui?
Dunque andrà da que’ lacci il cor materno
libero, a cui, nonch’altri, anch’io soggiacqui?
arse per Marte, è ver, ma questo è poco,
lieve piaga fu quella e debil foco.
65
Altro ardor più penace, altra ferita
vo’ che più forte al cor senta pur anco.
Si vedrà ch’ella istessa ha partorita
la vipera crudel, che l’apre il fianco.
Degg’io sempre onorar chi più m’irrita?
forse per tema il mio valor vien manco?
No no, segua che può... – Così dicea
l’implacabil figliuol di Citerea.
66
Mentre che quinci e quindi, or basso or alto
vola e rivola il predator fellone,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 19
Giovanbattista Marino - Adone
come prima lontan dal verde smalto
vede in picciol legnetto il vago Adone,
subitamente al disegnato assalto
l’armi apparecchia e l’animo dispone
e, tutto inteso a tribular la madre,
vassene in Lenno ala magion del padre.
67
Nela fuliginosa atra fucina
dove il zoppo Vulcan, suo genitore,
de’ numi eterni i vari arnesi affina
tinto di fumo e molle di sudore,
entra per fabricar tempra divina
d’un aureo strale imperioso Amore,
stral ch’efficace e penetrante e forte
possa un petto immortal ferire a morte.
68
Libero l’uscio al cieco arciero aperse
la gran ferriera del divino artista,
parte di già polite opre diverse,
parte imperfette ancor, confusa e mista.
Colà fan l’armi lampeggianti e terse
del celeste guerrier superba vista,
qui la folgor fiammeggia alata e rossa
del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.
69
V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,
il rastello di Cerere e ‘l bidente,
l’acuto spiedo di Diana casta,
la grossa mazza d’Ercole possente,
la falce, onde Saturno il tutto guasta,
l’arco, ond’Apollo uccise il fier serpente,
di Nettuno il trafiero e di Plutone
con due punte d’acciaio havvi il forcone.
Letteratura italiana Einaudi 20
70
Le trombe v’ha con cui volando suona
la Fama e gli altrui fatti or biasma or loda;
v’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona
i venti insani e le tempeste inchioda;
v’ha le catene, onde talor Bellona
il Furor lega e la Discordia annoda;
e v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra
Giano il gran tempio suo serra e disserra.
71
Presso al focon di mille ordigni onusto
travaglia il nero fabro entro la grotta.
Più d’un callo ha la man forte e robusto,
ale fatiche essercitata e dotta;
ruginosa la fronte, il volto adusto,
crespa la pelle ed abbronzata e cotta,
sparso il grembial di mill’avanzi e mille
di limature e ceneri e faville.
72
Quand’egli scorge il nudo pargoletto,
la forbice e ‘l martel lascia e sospende
e curvo e chino entro il lanoso petto
con un riso villan da terra il prende.
Tra le ruvide braccia avinto e stretto
l’ispido labro per baciarlo stende
e la sudicia barba ed incomposta
al molle viso e dilicato accosta.
73
Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,
raccolto in braccio, con paterno zelo,
Amor, perché baciando il punge e tinge,
la faccia arretra dal’irsuto pelo
e, con quel sozzo lin che ‘l sen gli cinge,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 21
Giovanbattista Marino - Adone
per non macchiarsi di carbone il velo,
al’aspra guancia d’una in altra ruga
del’immondo sudor le stille asciuga.
74
– Padre, dala tua man (poscia gli dice)
voglio or or sovrafina una saetta,
che fia de’ torti tuoi vendicatrice:
lascia la cura a me dela vendetta.
Il come appalesar né vo’ né lice,
basti sol tanto, spacciati, ch’ho fretta;
non porta indugio il caso, altro or non puoi
da me saper, l’intenderai ben poi.
75
Il quadrel ch’io ti cheggio esser conviene
di perfetto artificio e ben condotto,
ch’esserne fin nele più interne vene
deve un petto divin forato e rotto.
S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene
il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,
fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse,
del gran saper le meraviglie espresse.
76
Starò qui teco a ministrarti intento
sotto la rocca del camin che fuma;
accioché ‘l foco non rimanga spento,
mantice ti farò del’aurea piuma
e s’egli averrà pur che manchi il vento
al folle che l’accende e che l’alluma,
prometto accumular tra questi ardori
in un soffio i sospir di mille cori. –
77
Non pon Vulcano in quell’affar dimora,
ma sceglie la miglior fra cento zolle,
Letteratura italiana Einaudi 22
e pria che ‘nsu l’incudine sonora
ei la castighi, al focolar la bolle;
e non la batte e non la tratta ancora
finché ben non rosseggia e non vien molle;
divenuta poi tenera e vermiglia,
con la morsa tenace ei la ripiglia.
78
Amor presente ed assistente al’opra
come l’abbia a temprar, come l’aguzzi
gli mostra, accioché poi quando l’adopra
non si rompa o si pieghi o si rintuzzi
e di sua propria man vi sparge sopra
del’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,
piena di stille di dogliosi pianti
di sfortunati e desperati amanti.
79
Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli
ch’un sol occhio hanno in fronte e son giganti,
con vicende di tuoni i gran martelli
movono a grandinar botte pesanti
e ‘l dotto mastro al martellar di quelli,
che fan tremar le volte arse e fumanti,
per dar effetto a quel ch’ha nel disegno,
pon gli stromenti in opera e l’ingegno.
80
Tosto che ‘l ferro è raffreddato, in prima
sbozza il suo lavorìo rozzo ed informe,
poi, sotto più sottil minuta lima,
con industria maggior gli dà le forme;
l’arrota intorno e lo forbisce in cima,
applicando al pensier studio conforme;
col foco alfin l’indora e col mordente
e fa l’acciaio e l’or terso e lucente.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 23
Giovanbattista Marino - Adone
81
Poiché l’egregio artefice alo strale
pertutto il liscio e ‘l lustro ha dato apieno,
n’arma il fanciullo un’asticciuola frale,
ma che trafige ogni più duro seno;
gl’impenna il calce di due picciol ale
e ‘l tinge di dolcissimo veleno
e, tutto pien d’una superbia stolta,
pon la caverna e i lavoranti in volta.
82
Va dela dea che generaro i flutti
il baldanzoso e temerario figlio
spiando intorno e i ferramenti tutti
dela scola fabril mette in scompiglio;
or de’ ciclopi mostruosi e brutti
la difforme pupilla e ‘l vasto ciglio,
or il corto tallon del piè paterno
prende con risi e con disprezzi a scherno.
83
Veggendo alternamente arsicci e neri
pestar ferro con ferro i tre gran mostri
– Troppo son (dice) deboli e leggieri
a librar le percosse i polsi vostri;
omai con colpi assai più forti e fieri
questa mano a ferir v’insegni e mostri;
impari ognun dala mia man, che spezza
qualunque di diamante aspra durezza. –
84
Volto a colui, ch’ha fabricato il telo
soggiunge poscia: – In questa tua fornace
le fiamme son più gelide che gelo,
altro ardor più cocente ha la mia face. –
Tolto indi in mano il fulmine del cielo
Letteratura italiana Einaudi 24
e sciolto il freno al’insolenza audace,
in cotal guisa, mentre il vibra e move,
prende le forze a beffeggiar di Giove:
85
– Deh quanto, o tonator, che dale stelle
fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,
più dela tua, ch’a spaventar Babelle
dal ciel con fiero strepito discende,
atta sola a domar genti rubelle
senza romor la mia saetta offende;
tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme,
l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme. –
86
Depon l’arme tonante e ricercando
di qua di là l’affumigato albergo,
trova di Marte il minaccioso brando,
il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.
– Or la prova vedrem (dice scherzando)
s’a difender son buoni il fianco e ‘l tergo. –
Lo strale in questa uscir dal’arco lassa,
falsa lo scudo e la lorica passa.
87
Di sì fatte follie sorridea seco
lo dio distorto, che ‘l mirava intanto.
– Tu ridi (disse il faretrato cieco)
né sai che l’altrui riso io cangio in pianto,
e più che la fumea di questo speco,
farti d’angoscia lagrimar mi vanto. –
Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,
che nel mondo del’acque ha sommo impero.
88
Velocemente a Tenaro sen viene,
e l’aria scossa al suo volar fiammeggia.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 25
Giovanbattista Marino - Adone
Abitator dele più basse arene
quivi ha Nettun la cristallina reggia,
che dal’umor, di cui le sponde ha piene,
battuta sempre e flagellata ondeggia.
Rende dagli antri cavi eco profonda
rauco muggito alo sferzar del’onda.
89
Al’arrivo d’Amor da’ cupi fonti
sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca,
quinci e quindi gli estremi in duo gran monti
sospende e in mezzo si divide e manca,
e, scoverti del fondo asciutti i ponti,
del gran palagio i cardini spalanca.
Passa ei nel regno ove la madre nacque,
patria de’ pesci e region del’acque.
90
Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia
quasi per stretta e discoscesa valle.
L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia,
ritira indietro il piè, volge le spalle.
Filano acuto gelo a goccia a goccia
ambe le rupi del profondo calle,
e tra questo e quell’argine pendente
apena ei scorger può l’aria lucente.
91
Né già mentre varcava i calli ondosi
la faretra o la face in ozio tenne,
ma con acuti stimoli amorosi
faville e piaghe a seminar vi venne;
e là dove, del’acqua augei squamosi,
spiegano i pesci l’argentate penne,
tra gl’infiniti esserciti guizzanti
sparse mill’esche di sospiri e pianti.
Letteratura italiana Einaudi 26
92
Strana di quella casa è la struttura,
strano il lavoro e strano è l’ornamento;
ha di ruvide pomici le mura
e di tenere spugne il pavimento;
di lubrico zaffiro è la scultura,
dela scala maggior l’uscio è d’argento,
variato di pietre e di cocchiglie
azzurre e verdi e candide e vermiglie.
93
Nel’antro istesso è la magion di Teti
e gran famiglia di Nereidi ha seco,
che ‘n vari uffici ed essercizi lieti
occupate si stan nel cavo speco.
Queste con passi incogniti e secreti
e per sentier caliginoso e cieco
van, del’arida terra irrigatrici,
a nutrir piante e fiori, erbe e radici.
94
Intorno e dentro al’umida spelonca
chi danzando di lor le piante vibra,
chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,
chi fila l’oro e chi l’affina e cribra;
qual de’ germi purpurei i rami tronca,
qual degli ostri sanguigni i pesi libra
e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe
che van di musco ad infiorar le linfe.
95
Belle son tutte sì, ma differenti,
altra ceruleo ed altra ha verde il crine,
altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,
altra intrecciando il va d’alghe marine;
e di manti diafani e lucenti
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 27
Giovanbattista Marino - Adone
velan le membra pure e cristalline;
simili al viso ed agili e leggiadre
mostran che figlie son d’un stesso padre.
96
Pasce Proteo pastor mandra di foche,
orche, pistri, balene ed altri mostri,
dele cui voci mormoranti e roche
fremon pertutto i cavernosi chiostri;
e le guarda e le conta e non son poche,
e scagliose han le terga e curvi i rostri;
glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto,
e di teneri giunchi il crine involto.
97
Giunto ala vasta e spaziosa corte
stupisce Amor da tuttiquanti i lati,
poiché per cento vie, per cento porte
cento vi scorge entrar fiumi onorati,
che quindi poi con piante oblique e torte
tornan per invisibili meati
fuor del gran sen, che gli concepe e serra,
con chiare vene ad innaffiar la terra.
98
Vede l’Eufrate divisor del mondo,
che i bei cristalli suoi rompendo piange.
Vede l’original fonte profondo
del Nil che ‘l mar con sette bocche frange
e vede in letto rilucente e biondo
del più fino metal corcarsi il Gange,
il Gange onde trae l’or, di cui si suole
vestir quand’esce insu ‘l mattino il sole.
99
Vede pallido il Tago insu la riva
non men ricchi sputar vomiti d’oro
Letteratura italiana Einaudi 28
e trar groppi di gel nel’onda viva
il Reno e l’Istro e ‘l Rodano sonoro;
di salce il Mincio, l’Adige d’oliva,
l’Arno alpar del Peneo cinto d’alloro,
di pampini il Meandro e d’edre l’Ebro
e d’auree palme incoronato il Tebro.
100
Vede di verdi pioppe ombrar le corna
l’Eridano superbo e trionfale,
ch’ove il rettor del pelago soggiorna
vien dal’Alpi a votar l’urna reale
e mercé de’ suoi duci il ciglio adorna
di splendor glorïoso ed immortale,
onde quel ch’è nel ciel, di lume agguaglia
e con fronte di luna il sole abbaglia.
101
Poi di grido minor ne vede molti
che con rami divisi in varie parti
per l’Italia felice errano sciolti,
del gran padre Appennin concetti e parti
e, quai di canna e quai di mirto avolti
le tempie e quai di rosa ornati e sparti,
somministran con l’acque in lunga schiera
sempiterno alimento a primavera.
102
Tra questi, umil figliuol del bel Tirreno,
il mio Sebeto ancor l’acque confonde,
picciolo sì, ma di delizie pieno,
quanto ricco d’onor, povero d’onde.
– Giriti intorno il ciel sempre sereno,
né sfiori aspra stagion le belle sponde,
né mai la luce del tuo vivo argento
turbi con sozzo piè fetido armento.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 29
Giovanbattista Marino - Adone
103
Giacque in te la Sirena e per te poi
sorger virtute e fiorir gloria io veggio,
trono di Giove e di pregiati eroi
felice albergo e fortunato seggio;
dolce mio porto, agli abitanti tuoi,
ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.
Padre di cigni e lor ricovro eletto,
e de’ fratelli miei fido ricetto. –
104
Con questi encomi affettuosi Amore
del patrio fiume mio le lodi spande,
che ‘l riconosce al limpido splendore
che fra mill’altri è segnalato e grande
e de’ cedri fioriti al grato odore
di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.
Intanto nela gelida caverna,
dove siede Nettuno, i passi interna.
105
Seggio di terso oriental cristallo
preme de’ flutti il regnator canuto,
che da colonne d’oro e di corallo
con basi di diamante è sostenuto.
E chi d’una testudine a cavallo
chi d’un delfin, chi d’un vitel cornuto,
cento altri dei minor, numi vulgari,
cedono a lui la monarchia de’ mari.
106
– Non pensar che per ira (Amor gli disse)
gran padre dele cose a te ne vegna,
ché non può dio di pace amar le risse
e nel petto d’Amore odio non regna;
ma perché novamente il ciel prefisse
impresa al’arco mio nobile e degna,
Letteratura italiana Einaudi 30
per render l’opra agevole e spedita
di cortese favor ti cheggio aita.
107
Tu vedi là, dove di Siria siede
la spiaggia estrema che col mar confina,
vago fanciul del mio bel regno erede
col remo essercitar l’onda marina.
Questo, che di bellezza ogni altro eccede,
ala mia bella madre il ciel destina,
onde frutto uscir dee di beltà tanta
che fia simile intutto ala sua pianta.
108
Se deriva da te l’origin mia,
s’a chi mi generò desti la cuna,
se ‘l tuo desir, quando d’amor languìa,
ottenne unqua da me dolcezza alcuna,
accioch’io possa per più facil via
condurlo a posseder tanta fortuna,
mercé di quanto feci o a far mi resta
siami nel regno tuo breve tempesta.
109
Di questa immensa tua liquida sfera
turbar la bella e placida quiete
piacciati tanto sol, ch’innanzi sera,
venga Adone a cader nela mia rete;
e fia tutto a suo pro, perché non pera
sì ricca merce in malsecuro abete,
il cui navigio con incerta legge
più ‘l timor che ‘l timon governa e regge.
110
Sai che quando Ciprigna in novi amori
occupata non è, com’ha per uso,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 31
Giovanbattista Marino - Adone
usurpando a Minerva i suoi lavori
non sa senon trattar la spola o ‘l fuso,
onde inutil letargo opprime i cori,
torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,
manca il seme ala vita ed infecondo
a rischio va di spopolarsi il mondo.
111
Oltre queste cagion, per cui devrei
impetrar qualch’effetto ale mie voci,
dee l’util proprio almeno a’ preghi miei
far più le voglie tue pronte e veloci:
da questi felicissimi imenei
corteggiata da mille e mille proci,
Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella
fia dele Grazie l’ultima sorella.
112
Costei, sicome mi mostraro in cielo
l’adamantine tavole immortali,
dove nel cerchio del signor di Delo
Giove scolpì gli oracoli fatali,
concede al re del liquefatto gelo
l’alto tenor di quegli eterni annali,
perché venga a scaldar col dolce lume
del freddo letto tuo l’umide piume.
113
Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio
chi move il tutto, il fato altro volgesse,
seben di Tebe il giovinetto dio
fia tuo rival nele bellezze istesse,
a dispetto del ciel tel promett’io,
scritte in diamante sien le mie promesse.
Io, che Giove o destin punto non curo,
per l’acque sacre e per mestesso il giuro. –
Letteratura italiana Einaudi 32
114
Così parlava e ‘l re del’onde intanto
a lui si volse con tranquilla faccia:
– O domatore indomito di quanto
il ciel circonda e l’oceano abbraccia,
a chi può dar altrui letizia e pianto
ragion è ben ch’apieno or si compiaccia:
spendi comunque vuoi quanto poss’io,
pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.
115
E qual’onda fia mai, ch’a tuo talento
qui non si renda o torbida o tranquilla,
s’ardon nel molle e mobile elemento
per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla?
Come fia tardo ad ubbidirti il vento
se ‘l re de’ venti ancor per te sfavilla
e ricettan l’ardor ne’ freddi cori
Borea d’Orizia e Zefiro di Clori?
116
Tu virtù somma de’ superni giri,
dispensier dele gioie e de’ piaceri,
imperador de’ nobili desiri,
illustrator de’ torbidi pensieri,
dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,
dolce union de’ cori e de’ voleri,
da cui natura trae gli ordini suoi,
dio dele meraviglie e che non puoi?
117
Sicome tanti qui fiumi che vedi,
del mio reame tributari sono,
così, signor che l’anime possiedi,
tributario son io del tuo gran trono.
Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 33
Giovanbattista Marino - Adone
da questo scettro a te devoto in dono,
o gioia, o vita universal del mondo,
altro che l’esseguir più non rispondo. –
118
Così dice Nettuno e così detto
crolla l’asta trisulca e ‘l mar scoscende.
D’alpi spumose oltre il ceruleo letto
cumulo vasto inver le stelle ascende;
urtansi i venti in minaccioso aspetto,
dele concave nubi anime orrende
e par che rotto o distemprato in gelo
voglia nel mar precipitare il cielo.
119
Borea d’aspra tenzon tromba guerriera
sfida il turbo a battaglia e la procella;
curva l’arco dipinto Iride arciera,
e scocca lampi in vece di quadrella;
vibra la spada sanguinosa e fiera
il superbo Orion, torbida stella
e ‘l ciel minaccia ed ale nubi piene
d’acqua insieme e di foco apre le vene.
120
Fuor del confin prescritto in alto poggia
tumido il mar di gran superbia e cresce;
ruinosa nel mar scende la pioggia,
il mar col cielo, il ciel col mar si mesce;
in novo stile, in disusata foggia,
l’augello il nuoto impara, il volo il pesce;
oppongonsi elementi ad elementi,
nubi a nubi, acque ad acque e venti a venti.
121
Potè, tant’alto quasi il flutto sorse,
la sua sete ammorzar la cagna estiva
Letteratura italiana Einaudi 34
e di nova tempesta a rischio corse,
non ben secura in ciel, la nave argiva.
E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse,
malgrado ancor dela gelosa diva,
nel mar vietato i luminosi velli
lavaste pur dele stellate pelli.
122
Deh che farai dal patrio suol lontano,
misero Adone, a navigar mal atto?
vaghezza pueril tanto pian piano
il mal guidato palischelmo ha tratto,
che la terra natia sospiri invano,
dal gran rischio confuso e sovrafatto.
Tardi ti penti e sbigottito e smorto
omai cominci a desperar del porto.
123
Già già convien che il timido nocchiero
al’arbitrio del caso s’abbandoni;
fremono per lo ciel torbido e nero
fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni
e tuona anch’egli il re del’acque altero,
ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni,
col fulmine dentato, emulo a Giove,
tormentando la terra, il mar commove.
124
Corre la navicella e ratta e lieve
la corrente del mar seco la porta;
piega l’orlo talvolta e l’onda beve,
assai vicina a rimanerne absorta;
più pallido e più gelido che neve
volgesi Adon, né scorge più la scorta
e di morte sì vasta il fiero aspetto
confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 35
Giovanbattista Marino - Adone
125
Ma mentre privo di terreno aiuto
l’agitato battel vacilla ed erra,
ambo i fianchi sdruscito e combattuto
da quell’ondosa e tempestosa guerra,
quando il fanciul più si tenea perduto,
ecco rapidamente approda in terra
e, tra’ giunchi palustri insu l’arena
vomitato dal’acque, il corso affrena.
126
Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima
il pianeta maggior che ‘l dì rimena,
sotto benigno e temperato clima
stende le falde un’isoletta amena.
Quindi il superbo Tauro erge la cima,
quinci il famoso Nil fende l’arena;
ha Rodo incontro e di Soria vicini
e di Cilicia i fertili confini.
127
Questa è la terra ch’ala dea, che nacque
dal’onde con miracolo novello,
tanto fu cara un tempo e tanto piacque,
che, disprezzato il suo divino ostello,
qui sovente godea fra l’ombre e l’acque
con invidia del’altro un ciel più bello
e v’ebbe eretto, al’immortale essempio
dela sua diva imago, altare e tempio.
128
Scende quivi il garzon salvo al’asciutto,
ma pur dubbioso e di suo stato incerto,
ch’ancor gli par del’orgoglioso flutto
veder l’abisso orribilmente aperto.
Volgesi intorno e scorge esser pertutto,
circondato dal mar, bosco e deserto,
Letteratura italiana Einaudi 36
ma quella solitudine che vede,
gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede.
129
Quivi si spiega in un sereno eterno
l’aria in ogni stagion tepida e pura,
cui nel più fosco e più cruccioso verno
pioggia non turba mai, né turbo oscura,
ma, prendendo dipar l’ingiurie a scherno
del gelo estremo e del’estrema arsura,
lieto vi ride né mai varia stile
un sempreverde e giovinetto aprile.
130
I discordi animali in pace accoppia
Amor, né l’un dal’altro offeso geme;
va con l’aquila il cigno in una coppia,
va col falcon la tortorella insieme,
né dela volpe insidiosa e doppia
il semplicetto pollo inganno teme;
fede al’amica agnella il lupo osserva,
e secura col veltro erra la cerva.
131
Da’ molli campi, i cui bennati fiori
nutre di puro umor vena vivace,
dolce confusion di mille odori
sparge e ‘nvola volando aura predace:
aura, che non pur là con lievi errori
suol tra’ rami scherzar spirto fugace,
ma per gran tratto d’acque anco da lunge
peregrinando i naviganti aggiunge.
132
Va oltre Adone e Filomena e Progne
garrir ode pertutto ovunque vanne
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 37
Giovanbattista Marino - Adone
e di stridule pive e rauche brogne
sonar foreste e risonar cappanne
di villane sordine e di sampogne,
di boscherecci zuffoli e di canne
e, con alterno suon, da tutti i lati
doppiar muggiti e replicar balati.
133
Solitario garzon posarsi stanco
vede al’ombra d’un lauro in rozza pietra;
ha l’arco a’ piedi e gli attraversa il fianco
d’un bel cuoio linceo strania faretra;
veste pur di cerviero a negro e bianco
macchiata spoglia e tiene in man la cetra;
dolce con questa al mugolar de’ tori
accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.
134
Di dorato coturno ha il piè vestito,
eburneo corno a verde fascia appende;
ride il labro vivace e colorito,
sereno lampo il placid’occhio accende;
ha fiorita la guancia, il crin fiorito
e fiorita è l’età che bello il rende;
tutto in somma di fiori è sparso e pieno,
fior la man, fior la chioma e fiori il seno.
135
Formidabil mastin dal destro lato
in un groppo giacer presso gli scorse,
che con rabbioso ed orrido latrato
quando il vide apparir contro gli corse.
Ma posto il plettro insu l’erboso prato
il cortese villan subito sorse,
e l’indomito can, perché ristesse,
fugò col grido e col baston corresse.
Letteratura italiana Einaudi 38
136
Ubbidisce il superbo, a piè gli piega
l’irsuta testa e l’irta coda abbassa;
quegli ala gola intorno allor gli lega
con tenace cordon serica lassa;
poscia il real donzello invita e prega
ch’oltre vada securo: ed egli passa.
Passa colà, dove raccoglie umile
famiglia pastoral rustico ovile.
137
Stassene alcun su le fiorite rive
d’una sorgente cristallina e fresca;
altri per l’elci folte al’ombre estive
i vaghi augelli insidioso invesca;
altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive
d’amor tutto soletto il foco e l’esca;
altri rintraccia di sua ninfa l’orme,
altri salta, altri siede ed altri dorme.
138
Quei con versi d’amor l’aure addolcisce
al sussurrar de’ lubrici cristalli;
questi al tauro, al monton, che gli ubbidisce,
insegna al suon dela siringa i balli;
qual fiscelle d’ibisco e qual ordisce
serti di fiori o purpurini o gialli;
chi torce al’agne le feconde poppe,
chi di latte empie i giunchi e chi le coppe.
139
Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende
pergolato di mirti, il pastor siede.
Quivi Adon sue fortune a narrar prende,
dela contrada e di lui stesso chiede.
L’un gli risponde e l’altro intanto pende
dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 39
Giovanbattista Marino - Adone
– Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi,
peregrino gentil, sono i tuoi casi!
140
Ma cangiar patria omai, deh! non ti spiaccia
con sì bel loco e rasserena il ciglio,
ché se pur, come mostri, ami la caccia,
qui fere avrai senz’ira e senz’artiglio.
Né creder vo’ che ‘ndarno il ciel ti faccia
campar da tanto e sì mortal periglio
o senz’alta cagion per via sì lunga
perduto legno a queste rive giunga.
141
Così compia i tuoi voti amico cielo
e secondi i desir destra fortuna,
come, fra quanti col suo piè di gelo
paesi inferior scorre la luna;
non potea più conforme a sì bel velo
terra trovarsi o regione alcuna.
Certo con lei, che con Amor qui regna,
sol di regnar tanta bellezza è degna.
142
L’isola, dove sei, Cipro s’appella,
che del mar di Panfilia in mezzo è posta;
la gran reggia d’Amor, vedila, è quella
ch’io là t’addito inver la destra costa,
né, se non quanto il vuol la dea più bella,
colà giamai profano piè s’accosta.
Scender di ciel qui spesso ella ha per uso;
in altro tempo il ricco albergo è chiuso.
143
V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco,
simulacri, olocausti e sacerdoti,
Letteratura italiana Einaudi 40
dove, in segno d’onor, del popol greco
pendono affissi in lunga serie i voti.
Offrono al nume faretrato e cieco
vittime elette i supplici devoti
e gli spargono ognor, tra roghi e lumi,
di ghirlande e d’incensi odori e fumi.
144
Qui per elezzion, non per ventura,
già di Liguria ad abitar venn’io;
pasco per l’odorifera verdura
i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio;
del suo bel parco la custodia in cura
diemmi la madre del’alato dio,
dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice,
ed ala dea selvaggia e cacciatrice.
145
Trovato ho in queste selve ai flutti amari
d’ogni umano travaglio il vero porto;
qui dale guerre de’ civili affari,
quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto;
serici drappi non mi fur sì cari
come l’arnese ruvido ch’io porto
ed arno meglio le spelonche e i prati,
che le logge marmoree e i palchi aurati.
146
Oh quanto qui più volentieri ascolto
i sussurri del’acque e dele fronde,
che quei del foro strepitoso e stolto
che il fremito vulgar rauco confonde!
Un’erba, un pomo e di fortuna un volto
quanto più di quiete in sé nasconde
di quel ch’avaro principe dispensa
sudato pane in malcondita mensa.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 41
Giovanbattista Marino - Adone
147
Questa felice e semplicetta gente
che qui meco si spazia e si trastulla,
gode quel ben che tenero e nascente
ebbe a goder sì poco il mondo in culla:
lecita libertà, vita innocente,
appo ‘l cui basso stato il regio è nulla,
ché sprezzare i tesor né curar l’oro,
questo è secolo d’or, questo è tesoro.
148
Non cibo o pasto prezioso e lauto
il mio povero desco orna e compone;
or damma errante, or cavriuolo incauto
l’empie, or frutto maturo in sua stagione;
detto talora a suon d’avena o flauto
ai discepoli boschi umil canzone;
serva no, ma compagna amo la greggia;
questa mandra malculta è la mia reggia.
149
Lunge da’ fasti ambiziosi e vani
m’è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
scusano coppa e nettare il ruscello;
son ministri i bifolci, amici i cani,
sergente il toro e cortigian l’agnello,
musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
piume l’erbette e padiglion le fronde.
150
Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,
ai lor silenzi i più canori accenti;
ostro qui non fiammeggia, or non riluce,
di cui sangue e pallor son gli ornamenti;
se non bastano i fior che ‘l suol produce,
Letteratura italiana Einaudi 42
di più bell’ostro e più bell’or lucenti,
con sereno splendor spiegar vi suole
pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole.
151
Altro mormorator non è che s’oda
qui mormorar che ‘l mormorio del rivo;
adulator non mi lusinga o loda
fuorché lo specchio suo limpido e vivo;
livida invidia, ch’altrui strugga e roda,
loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo,
senon sol quanto in questi rami e ‘n quelli
gareggiano tra lor gli emuli augelli.
152
Hanno colà tra mille insidie in corte
Tradimento e Calunnia albergo e sede,
dal cui morso crudel trafitta a morte
è l’Innocenza e lacera la Fede;
qui non regna Perfidia e, se per sorte,
picciol’ape talor ti punge e fiede,
fiede senza veleno e le ferite
con usure di mel son risarcite.
153
Non sugge qui crudo tiranno il sangue,
ma discreto bifolco il latte coglie;
non mano avara al poverello essangue
la pelle scarna o le sostanze toglie;
solo al’agnel, che non però ne langue,
havvi chi tonde le lanose spoglie;
punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,
non desire immodesto il petto a noi.
154
Non si tratta fra noi del fiero Marte
sanguinoso e mortal ferro pungente,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 43
Giovanbattista Marino - Adone
ma di Cerere sì, la cui bell’arte
sostien la vita, il vomere e ‘l bidente,
né mai di guerra in questa o in quella parte
furore insano o strepito si sente,
salvo di quella che talor fra loro
fan con cozzi amorosi il capro e ‘l toro.
155
Con lancia o brando mai non si contrasta
in queste beatissime contrade;
sol di Bacco talor si vibra l’asta,
onde vino e non sangue in terra cade;
sol quel presidio ai nostri campi basta
di tenerelle e verdeggianti spade
che, nate là su le vicine sponde,
stansi tremando a guerreggiar con l’onde.
156
Borea con soffi orribili ben pote
crollar la selva e batter la foresta:
pacifici pensier non turba o scote
di cure vigilanti aspra tempesta.
E se Giove talor fiacca e percote
del’alte querce la superba testa,
in noi non avien mai che scocchi o mandi
fulmini di furor l’ira de’ grandi.
157
Così tra verdi e solitari boschi
consolati ne meno i giorni e gli anni;
quel sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,
serena anco i pensier, sgombra gli affanni;
non temo o d’orso o d’angue artigli o toschi,
non di rapace lupo insidie o danni,
ché non nutre il terren fere o serpenti,
o se ne nutre pur, sono innocenti.
Letteratura italiana Einaudi 44
158
Se cosa è che talor turbi ed annoi
i miei riposi placidi e tranquilli,
altri non è ch’amor. Lasso, dapoi
che mi giunse a veder la bella Filli,
per lei languisco e sol per gli occhi suoi
convien che quant’io viva arda e sfavilli
e vo’ che chiuda una medesma fossa
del foco insieme il cenere e del’ossa.
159
Ma così son d’amor dolci gli strali,
sì la sua fiamma e la catena è lieve,
che mille strazi rigidi e mortali
non vagliono un piacer che si riceve.
Anzi pur vaga de’ suoi propri mali
conosciuto velen l’anima beve
e ‘n quegli occhi ov’alberga il suo dolore,
volontaria prigion procaccia il core.
160
Curi dunque chi vuol delizie ed agi,
io sol piacer di villa apprezzo ed amo;
co’ tuguri cangiar voglio i palagi,
altro tesor che povertà non bramo;
sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,
ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo,
qui sol quella ottener gioia mi giova
che ciascun va cercando e nessun trova.
161
Non ti meravigliar che la selvaggia
vita tanto da me pregiata sia,
ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia
ne cantai già con rustica armonia;
onde vanto immortal d’arguta e saggia
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 45
Giovanbattista Marino - Adone
concesse Apollo ala sampogna mia,
de’ cui versi lodati in Elicona
il ligustico mar tutto risona. –
162
Del maestro d’amor gli amori ascolta
stupido Adone ed a’ bei detti intento.
Colui, poich’affrenò la lingua sciolta,
fè da’ rozzi valletti in un momento
recar copia di cibi, a cui la molta
fame accrebbe sapore e condimento;
mel di diletto e nettare d’amore
soave al gusto e velenoso al core;
163
né mai di loto abominabil frutto
di secreta possanza ebbe cotanto,
né fu giamai con tal virtù costrutto
di bevanda circea magico incanto,
che non perdesse e non cedesse intutto
al pasto del pastor la forza e ‘l vanto:
licore insidioso, esca fallace,
dolce velen ch’uccide e non dispiace.
164
Nel giardin del Piacer le poma colse
Clizio amoroso e quindi il vino espresse,
ond’ebro in seno il giovinetto accolse
fiamme sottili, indi s’accese in esse.
Non però le conobbe e non si dolse,
ché, finch’uopo non fu, giacquer soppresse,
qual serpe ascosa in agghiacciata falda,
che non prende vigor se non si scalda.
165
Sente un novo desir ch’al cor gli scende
e serpendo gli va per entro il petto;
Letteratura italiana Einaudi 46
ama né sa d’amar, né ben intende
quel suo dolce d’amor non noto affetto;
ben crede e vuole amar, ma non comprende
qual esser deggia poi l’amato oggetto
e pria si sente incenerito il core
che s’accorga il suo male essere amore.
166
Amor ch’alzò la vela e mosse i remi
quando pria tragittollo al bel paese,
va sotto l’ali fomentando i semi
dela fiamma ch’ancor non è palese.
Fa su la mensa intanto addur gli estremi
dela vivanda il contadin cortese;
Adon solve il digiuno e i vasi liba,
e quei segue il parlar mentr’ei si ciba
167
– Signor, tu vedi il sol ch’aventa i rai
di mezzo l’arco, onde saetta il giorno;
però qui riposar meco potrai
tanto che ‘l novo dì faccia ritorno.
Ben da sincero cor, prometto, avrai
in albergo villan lieto soggiorno;
avrai con parca mensa e rozzo letto
accoglienze cortesi e puro affetto.
168
Tosto che sussurrar tra ‘l mirto e ‘l faggio
io sentirò l’auretta mattutina,
teco risorgerò per far passaggio
ala casa d’Amor ch’è qui vicina.
Tu poi quindi prendendo altro viaggio,
potrai forse saldar l’alta ruina,
conosciuto che sii l’unico e vero
successor dela reggia e del’impero. –
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 47
Giovanbattista Marino - Adone
169
Benché non tema il folgorar del sole,
tra fatiche e disagi Adon nutrito,
di quell’oste gentil non però vole
sprezzar l’offerta o ricusar l’invito.
Risposto al grato dir grate parole,
quivi di dimorar prende partito
e ringrazia il destin che, lasso e rotto,
a sì cara magion l’abbia condotto.
170
Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi
lasciò le piagge scolorite e meste
e, pascendo i destrier fumanti ed arsi
nel presepe del ciel biada celeste,
di sudore e di foco umidi e sparsi
nel vicino Ocean lavar le teste;
e l’un e l’altro sol stanco si giacque,
Adon tra’ fiori, Apollo in grembo al’acque.
IL PALAGIO D’AMORE

ALLEGORIA

Le ricchezze della casa d’Amore e le sculture della porta di essa, contenenti l’azzioni di Cerere e di Bacco, ci danno a conoscere le delizie della sensualità, e quanto l’uno e l’altra concorrano al nutrimento della lascivia. Le cinque torri comprese nel detto palazzo son poste per essempio de’ cinque sentimenti umani, che son ministri delle dolcezze amorose; e la torre principale, ch’è più elevata dell’altre quattro, dinota in particolare il senso del tatto, in cui consiste l’estremo e l’eccesso di simili dilettazioni. La soavità del pomo gustato da Adone ci insegna che per lo più sogliono sempre i frutti d’amore essere nel principio dolci e piacevoli. Il giudicio di Paride è simbolo della vita dell’uomo, a cui si rappresentano innanzi tre dee, cioè l’attiva, la contemplativa e la voluttaria; la prima sotto nome di Giunone, la seconda di Minerva la terza di Venere. Questo giudicio si commette all’uomo, a cui è dato libero l’arbitrio della elezzione, perché determini qual di esse più gli piaccia di seguitare. Ed egli per ordinario più volentieri si piega alla libidine e al piacere che al guadagno o alla virtù.

ARGOMENTO

Al palagio, ov’amor chiude ogni gioia,
ne van Clizio e Adone in compagnia.
Clizio gli prende a raccontar per via
il gran giudicio del pastor di Troia.

1
Giunto a quel passo il giovinetto Alcide,
che fa capo al camin di nostra vita,
trovò dubbio e sospeso infra due guide
una via, che ‘n due strade era partita.
Facile e piana la sinistra ei vide,
di delizie e piacer tutta fiorita;
l’altra vestìa l’ispide balze alpine
di duri sassi e di pungenti spine.
2
Stette lungh’ora irrisoluto in forse
tra duo sentieri il giovane inesperto;
alfine il piè ben consigliato ei torse
lunge dal calle morbido ed aperto;
e dietro a lei, ch’a vero onor lo scorse,
scelse da destra il faticoso ed erto,
onde per gravi rischi e strane imprese
di somma gloria insu la cima ascese.
3
E così va ehi con giudicio sano
di virtù segue l’onorata traccia.
Ma chiunque credendo al vizio vano
cerca il mal, ch’ha di ben sembianza e faccia,
giunge per molle e spazioso piano
dove in mille catene il piede allaccia.
Quante il perfido ahi! quante e ‘n quanti modi
n’ordisce astute insidie, occulte frodi.
4
Per l’arringo mortal, nova Atalanta,
l’anima peregrina e semplicetta
corre veloce, e con spedita pianta
del gran viaggio al termine s’affretta.
Ma spesso il corso suo stornar si vanta
il senso adulator, ch’a sé l’alletta
con l’oggetto piacevole e giocondo
di questo pomo d’or, che nome ha mondo.
5
Curi lo scampo suo, fugga e disprezzi
le dolci offerte, i dilettosi inganni,
né perché la lusinghi e l’accarezzi,
disperda in fiore il verdeggiar degli anni.
Mille ognor le propon con finti vezzi
per desviarla da’ lodati affanni
gioie amorose, amabili diporti,
che poi fruttano altrui ruine e morti.
6
Da sì fatte dolcezze ella invaghita
di farsi esca al focile e segno al’arco,
nela cruda magion passa tradita
di mille pene a sostener l’incarco;
gabbia senz’uscio e carcer senza uscita,
mar senza riva e selva senza varco,
labirinto ingannevole d’errore,
tal è il palagio, ov’ha ricetto Amore.
7
Già l’augel mattutin battendo intorno
l’ali, a bandir la luce ecco s’appresta,
e ‘l capo e ‘l piè superbamente adorno
d’aurato sprone e di purpurea cresta,
dela villa oriuol, tromba del giorno,
con garriti iterati il mondo desta,
e sollecito assai più che non suole,
già licenzia le stelle e chiama il sole,
8
quando di là, dove posò pur dianzi
dal suo sonno riscosso Adon risorge,
che veder vuol, pria che ‘l calor s’avanzi,
se ‘l ciel di caccia occasion gli porge.
Clizio pastor con la sua greggia innanzi
al vicin bosco l’accompagna e scorge,
là dove a suon di rustica sambuca
convien su ‘l mezzo di ch’ei la riduca.
9
Disegna Adon, se pur tra via s’abbatte
in damma, in daino o in altra fera alcuna,
errando ancor per quell’ombrose fratte
torcer del’arco la cornuta luna.
Quest’armi avea, come non so, ritratte
in salvo dal furor dela fortuna
né so qual tolto avrìa, fra le tempeste
più tosto abbandonar la vita o queste.
10
Così, mentre vagante e peregrino
scorre l’antico suo paterno regno,
del crudo arcier, del perfido destino
affretta l’opra, agevola il disegno.
Ma stimando fatale il suo camino,
poiché campò gran rischio in picciol legno,
spera, quando alcun di quivi soggiorni,
che lo scettro perduto in man gli torni.
11
Veggendo come per sì strania via
dala terra odorifera Sabea
mirabilmente al’isola natia
pietà d’amico ciel scorto l’avea,
e che del loco, ond’ebbe origin pria,
il leggittimo stato in lui cadea,
nel favor di fortuna ancor confida,
che de’ suoi casi a’ bei progressi arrida.
12
Apunto il sol su la cornice allora
dela finestra d’or levava il ciglio,
forse per risguardar s’avesse ancora
nulla esseguito Amor del suo consiglio,
quando di lei, che ‘l terzo giro onora,
dolente pur del fuggitivo figlio,
vie più da lui, che dal pastor guidato,
giunse presso al’ostello aventurato.
13
Anchorché chiusa sia, com’ognor suole,
l’entrata principal dela magione,
tanta è però di sì superba mole
la luce esterior, ch’abbaglia Adone.
La reggia famosissima del sole
de’ suoi chiari splendori al paragone
fora vile ed oscura, e ‘l giovinetto
d’infinito stupor ne colma il petto.
14
Sorge il palagio, ov’ha la dea soggiorno,
tutto d’un muro adamantino e forte.
I gran chiostri, i gran palchi invidia e scorno
fanno ale logge del’empirea corte.
Ha quattro fronti e quattro fianchi intorno,
quattro torri custodi e quattro porte;
e piantata ha nel mezzo un’altra torre,
che vien di cinque il numero a comporre.
15
Ne’ quattro angoli suoi quasi a compasso
poste le torri son tutte egualmente.
Quella di mezzo è del medesmo sasso,
ma del’altre maggiore e più eminente.
L’una al’altra risponde e s’apre il passo
per più d’un ponte eccelso e risplendente,
e con arte assai bella e ben distinta
ciascuna dele quattro esce ala quinta.
16
Sì alto e sì sottile è ciascun arco
che sotto ciascun ponte si distende,
che ben si par che quel sublime incarco
per miracol divino in aria pende.
L’incurvatura, ond’ogni ponte ha varco,
di tante gemme variata splende,
ch’ogni arco ai lumi ed ai color che veste,
somiglia in terra un’iride celeste.
17
Le quattro torri insu i canton costrutte
son fatte in quadro e son d’egual misura,
tranne la principal fra l’altre tutte,
ch’è fabricata in sferica figura.
Son distanti del pari e son condutte
le linee a fil con vaga architettura,
e salvo la maggior che ‘n grembo il tiene,
per ogni torre in un giardin si viene.
18
Non di porfidi ornaro o serpentini
quello strano edificio i dotti mastri,
ma fer di sassi orientali e fini
comignoli e cornici, archi e pilastri.
Preziosi crisoliti e rubini
segar di marmi invece e d’alabastri,
e tutte qui del’indiche spelonche,
e de’ lidi eritrei votar le conche.
19
Dale vene del Gange il fabro scelse
il più pregiato e lucido metallo,
e dale rupi del’Arabia svelse
il diamante purissimo e ‘l cristallo,
onde compose le colonne eccelse
con ben dritta misura ed intervallo,
che su diaspro rilucente e saldo
ferman le basi e i capi han di smeraldo.
20
Tra colonna e colonna al peso altero
sommessi i busti smisurati e grossi,
servon d’appoggio al grave magistero
in forma di giganti alti colossi.
Son fabricati d’un berillo intero
e d’ardente piropo han gli occhi rossi;
ciascun regge un feston distinto e misto
di zaffir, di topazio e d’ametisto.
21
Splende intagliata di fabril lavoro
la maggior porta del mirabil tetto.
Sovra gangheri d’or spigoli d’oro
volge, e serragli ha d’or limpido e schietto,
e sostegno e non fregio al gran tesoro
del ricco ingresso il calcidonio eletto.
Soggiace al piè, quasi sprezzato sasso,
nela lubrica soglia il fin balasso.
22
Quel di mezzo è d’argento, e mille in esso
illustri forme industre mano incise,
e di lor col rilievo e col commesso
gli atti e i volti distinse in varie guise.
Vero il finto dirà, vero ed espresso,
uom, che v’abbia le luci intente e fise.
L’opra, ch’opra è del’arte e quasi spira,
com’opra di sua man, Natura ammira.
23
In una parte del superbo e bello
uscio, ch’al vivo ogni figura esprime,
scolpì Vulcan col suo divin scarpello
l’alma inventrice dele biade prime.
Fumar Etna si vede e Mongibello
fiamme eruttar dale nevose cime.
Ben sepp’egli imitar del patrio loco
con rubini e carbonchi il fumo e ‘l foco.
24
Vedesi là per la campagna aprica,
tutta vestita di novella messe,
biondeggiar d’oro ed ondeggiar la spica,
sparsa pur or dale sue mani istesse.
– Scoglio gentil (par che tacendo dica
sì ben le voci ha nel silenzio espresse)
siami fido custode il tuo terreno
del caro pegno ch’io ti lascio in seno. –
25
Ecco ne vien con le compagne elette
la vergin fuor dela materna soglia,
e per ordir monili e ghirlandette
de’ suoi fregi più vaghi il prato spoglia.
Già par che i fior tra le ridenti erbette
apra con gli occhi e con le man raccoglia.
Ritrar non sapria meglio Apelle o Zeusi
la bella figlia dela dea d’Eleusi.
26
Ed ecco aperte le sulfuree grotte,
mentre ch’ella compon gigli e viole,
dal fondo fuor dela tartarea notte
il rettor dele furie uscire al sole.
Fuggon le ninfe e con querele rotte
la rapita Proserpina si dole.
Spuman tepido sangue e sbuffan neri
aliti di caligine i destrieri.
27
Ecco Cerere in Flegra afflitta riede,
ecco gemino pin succide e svelle
e, per cercarla, fattone due tede,
le leva in alto ad uso di facelle.
Simile al vero il gran carro si vede
ricco di gemme sfavillanti e belle.
Van con lucido tratto il ciel fendenti
l’ali verdi battendo i duo serpenti.
28
Dal’altro lato mirasi scolpito
il giovinetto dio che ‘l Gange adora,
come immaturo ancor, non partorito
Giove dal sen materno il tragge fora,
come gli è madre il padre, indi nutrito
dale ninfe di Nisa i boschi onora.
Stranio parto e mirabile, che fue
una volta concetto e nacque due.
29
In un carro di palmiti sedere
vedilo altrove, e gir sublime e lieve.
Tirano il carro rapide e leggiere
quattro d’Ircania generose allieve.
Leccano intinto il fren l’orride fere
del buon licor che fa gioir chi ‘l beve.
Egli tra i plausi dela vaga plebe
passa fastoso e trionfante a Tebe.
30
Il non mai sobrio e vecchiarel Sileno
sovra pigro asinel vien sonnacchioso,
tinto tutto di mosto il viso e ‘l seno,
verdeggiante le chiome e pampinoso.
Già già vacilla e per cader vien meno,
reggon satiri e fauni il corpo annoso.
Gravi porta le ciglia e le palpebre
di vino e di stupor tumide ed ebre.
31
Vulgo dal destro lato e dal sinistro
di fanciulli e di ninfe si confonde.
e par ch’a suon di crotalo e di sistro
vibrin tirsi e corimbi e frasche e fronde.
Inghirlandan di Bacco ogni ministro
verdi viticci, uve vermiglie e bionde;
e son le viti di smeraldo fino,
l’uve son di giacinto e di rubino.
32
Quinci e quindi dintorno ondeggia e bolle
la turba dele vergini baccanti,
e corre e salta infuriato e folle
lo strepitoso stuol de’ coribanti.
Par già tutto tremar facciano il colle
buccine e corni e cembali sonanti.
Pien di tant’arte è quel lavor sublime,
che nel muto metallo il suono esprime.
33
Quanto Adon più dapresso al loco fassi,
più la mente gl’ingombra alto stupore.
– Questo è il ciel dela terra e quinci vassi
ale beatitudini d’amore. –
Così, colà volgendo i guardi e i passi,
in fronte gli mirò scritto di fore.
Tutto d’incise gemme era lo scritto,
tarsiato a caratteri d’Egitto.
34
– Ecco il palagio, ove Ciprigna alberga,
(disse allor Clizio) e dov’Amor dimora.
Io, quando avien che ‘l sol più alto s’erga,
menar qui la mia greggia uso talora,
né, finché poi nel’ocean s’immerga,
la richiama al’ovil canna sonora.
Ma poiché Sirio latra, io vo’ ben oggi
miglior ombra cercar tra que’ duo poggi.
35
Tra que’ duo poggi che non lunge vedi,
teco verrò per solitarie vie.
Poi da te presi i debiti congedi,
t’attenderò su ‘l tramontar del die
e recherommi a gran mercé se riedi
a ricovrar nele cappanne mie.
Forse intanto il tuo legno esposto al’onda
fia che guidi a buon porto aura seconda. –
36
Adon, disposto di seguir sua sorte,
cortesemente al contadin rispose.
In questo mentre innanzi ale gran porte
estranie vide e disusate cose.
In mezzo un largo pian che vi fa corte,
stende tronco gentil braccia ramose,
di cui non verdeggiò mai sotto il cielo
più raro germe o più leggiadro stelo.
37
Cedan le ricche e fortunate piante,
che dispiegaro la pomposa chioma
nel bel giardin del libico gigante,
che ‘l tergo incurva ala stellata soma.
Non so se là nele contrade sante,
carica i rami di vietate poma,
arbor nutrì sì preziosa e bella
quelche suo paradiso il mondo appella.
38
Ha di diamante la radice e ‘l fusto,
di smeraldo le fronde, i fior d’argento.
Son d’oro i frutti, ond’è maisempre onusto,
e la porpora al’or cresce ornamento.
Di contentar dopo la vista il gusto
al curioso Adon venne talento,
ond’un ne colse e, com’apunto grave
fusse d’ambrosia, il ritrovò soave.
39
E tutto colmo d’un piacer novello
al pastor dimandò: – Che frutto è questo? –
– Il frutto di quel nobile arboscello
non è (rispose) di terreno innesto;
e s’è dolce ala bocca, agli occhi bello,
ben di gran lunga è più perfetto il resto.
Per la virtù ch’asconde il suo sapore,
s’accresce grazia e si raddoppia amore.
40
Udito hai ragionar del pomo ideo,
che ‘n premio di bealtà Venere ottenne,
per cui con tanto sangue il ferro Acheo
fè il ratto del’adultera sollenne.
Questo, poiché di lei restò trofeo,
la dea qui di sua mano a piantar venne
e, piantato che fu, volse dotarlo
dela proprietà di cui ti parlo. –
41
– Deh (gli soggiunse Adon) se non ti pesa,
narra l’origin prima e ‘n qual maniera
nacque fra le tre dee l’alta contesa,
com’ella andò di sì bel pomo altera;
dale ninfe sabee n’ho parte intesa,
ma bramo udir di ciò l’istoria intera.
Così men malagevole ne fia
l’aspro rigor dela malvagia via. –
42
– Poich’ebbe Amor con tanti lacci e tanti,
(il pastor cominciò) tese le reti,
ch’alfin pur strinse dopo lunghi pianti
in nodo marital Peleo con Teti,
le nozze illustri di sì degni amanti
vennero ad onorar festosi e lieti
quanti son numi in ciel, quanti ne serra
il gran cerchio del mare e dela terra.
43
Fu di Tessaglia aventuroso il monte,
dove si celebrar questi imenei.
Di mirti e lauri gli fiorì la fronte,
del trionfo d’amor fregi e trofei;
e le stelle gli fur propizie e pronte,
e le genti mortali e gli alti dei,
se non spargea dissension crudele
tra le dolci vivande amaro fiele.
44
Senza invidia non è gioia sincera,
né molto dura alcun felice stato.
Quel gran piacer dala Discordia fiera,
madre d’ire e di liti, ecco è turbato;
ch’esclusa fuor dela divina schiera
e dal convito splendido e beato,
gli alti diletti e l’allegrezze immense
venne a contaminar di quelle mense.
45
Al’arti sue ricorre e, col consiglio
di quella rabbia che la punge e rode,
corre al giardin d’Esperia e dà di piglio
ale piante che ‘l drago ebber custode.
Quindi un pomo rapisce aureo e vermiglio,
de’ cui rai senz’offesa il guardo gode.
Di minio e d’oro un fulgido baleno
vibra e gemme per semi accoglie in seno
46
Nela scorza lucente e colorita,
il cui folgore lieto i lumi abbaglia,
la diva, di disdegno inviperita,
cui nulla Furia in fellonia s’agguaglia,
di propria man, come il furor l’irrita,
parole poi sediziose intaglia.
Dice il motto da lei scolpito in quella:
«Diasi questo bel dono ala più bella».
47
Torna ove la richiama ala vendetta
del’alta ingiuria la memoria dura
e, d’astio accesa e di veleno infetta,
nel velo ascosa d’una nube oscura,
con la sinistra man su ‘l desco getta
del’esca d’or la perfida scrittura.
Questo magico don fra tante feste
gettò nel mezzo al’assemblea celeste.
48
Lasciaro i cibi e da’ fumanti vasi
le destre sollevar tutti coloro
e, di stupore attoniti rimasi,
presero a contemplar quel sì bell’oro.
Donde si vegna non san dir, ma quasi
un presente del fato ei sembra loro;
e dì di sé gli alletta al bel possesso,
che par ch’Amor si sia nascosto in esso.
49
Ma sovra quanti il videro e ‘l bramaro
le tre cupide dee n’ebber diletto
e, stimulate da desire avaro
che di quel sesso è natural difetto,
la sollecita man steser di paro
ala rapina del leggiadro oggetto
e con gara tra lor non ben concorde
sene mostraro a meraviglia ingorde.
50
Quando lo dio, che del signor d’Anfriso
guardò gli armenti e che conduce il giorno,
meglio in esso drizzando il guardo fiso
vide le lettre ch’avea scritte intorno;
e lampeggiando in un gentil sorriso,
di purpuree scintille il volto adorno,
fè, dele note peregrine e nove
sculte su la corteccia, accorger Giove.
51
Letta l’inscrizzion di quella scorza,
le troppo avide dee cessaro alquanto
e cangiar volto e ‘nsu la mensa a forza
il deposito d’or lasciaro intanto.
Cede il merto al desio, ma non s’ammorza
l’ambizion ch’aspira al primo vanto.
San ch’averlo non può se non sol una,
il voglion tutte e nol possiede alcuna.
52
Degli assistenti l’immortal corona
nova confusion turba e scompiglia.
Con vario disparer ciascun ragiona,
chi di qua, chi di là freme e bisbiglia.
Sovra ciò si contende e si tenzona,
omai tutta sossovra è la famiglia.
Tutta ripiena è già d’alto contrasto
la gran sollennità del nobil pasto.
53
Giunon superba è sì di sua grandezza,
che più del’altre due degna s’appella.
Né sé cotanto Pallade disprezza,
che non pretenda la vittoria anch’ella.
Vener, ch’è madre e dea dela bellezza,
e sa ch’è destinato ala più bella,
ridendosi fra sé di tutte loro,
spera senz’altro al mirto unir l’alloro.
54
Tutti gli dei nel caso hanno interesse
e son divisi a favorir le dee.
Marte vuol sostener con l’armi istesse,
che ‘l ricco pomo a Citerea si dee.
Apollo di Minerva in campo ha messe
le lodi e chiama l’altre invide e ree.
Giove, poich’ascoltato ha ben ciascuno,
parzial dela moglie, applaude a Giuno.
55
Alfin, perch’alcun mal pur non seguisse
in quel drappel ch’al paragon concorre,
bramoso di placar tumulti e risse
e querele e litigi in un comporre,
«Le cose belle (a lor rivolto disse)
son sempre amate, ognun v’anela e corre,
ma quanto altrui più piace il bello e ‘l bene,
con vie maggior difficoltà s’ottiene.
56
Ubbidir fia gran senno, ed è ben dritto
ch’ala ragion la passion soggiaccia,
e ch’a quanto si vole ed è prescritto
dala necessità si sodisfaccia;
che seben di chi regna alcuno editto
talor troppo severo avien che spiaccia,
non ostante il rigor con cui si regge,
giusto non è di violare la legge.
57
Parlo a voi, belle mie, tutte rivolte
ala pretension d’un pregio istesso.
Pur non può questo pomo esser di molte,
sapete ad una sola esser promesso.
Or se le bellezze eguali in voi raccolte
ponno egualmente aver ragione in esso,
né voglion l’altre due dirsi più brutte,
come possibil fia contentar tutte?
58
Giudice delegar dunque conviensi,
saggio conoscitor del vostro merto,
a cui conforme il guiderdon dispensi
con occhio sano e con giudicio certo.
A lui quanto di bello ascoso tiensi
vuolsi senz’alcun vel mostrar aperto,
perché le differenze, onde garrite,
distinguer sappia e terminar la lite.
59
Io renunzio al’arbitrio; esser tra voi
arbitro idoneo inquanto a me non posso,
ché s’ad una aderisco, io non vo’ poi
l’odio del’altre due tirarmi addosso.
Amo dipar ciascuna, i casi suoi
pari zelo a curar sempre m’ha mosso.
Potess’io trionfanti e vincitrici
vedir così dipar tutte felici.
60
Pastor vive tra’ boschi in Frigia nato,
ma sol nel nome e nel’ufficio è tale,
ché, s’ancor non tenesse invido fato
chiuso tra rozze spoglie il gran natale,
al mondo tutto il suo sublime stato
conto fora e ‘l legnaggio alto e reale.
Di Priamo è figlio, imperador troiano,
di Ganimede mio maggior germano.
61
Paride ha nome, e non è forse indegno
ch’egli tra voi la question decida,
poich’ha l’integrità pari al’ingegno
da poter acquetar tanta disfida.
Sconosciuto si sta nel patrio regno
dove il Gargaro altier s’estolle in Ida.
Itene dunque là, colui che porta
l’ambasciate del ciel vi sarà scorta».
62
Così diss’egli e con applauso i detti
raccolti fur del gran rettor superno,
e scritti per man d’Atropo fur letti
nel bel diamante del destino eterno;
e le dive a quel dir sedar gli affetti,
pur di vento pascendo il fasto interno.
Già s’apprestano a prova al gran viaggio,
e ciascuna s’adorna a suo vantaggio.
63
L’altera dea, che del gran rege è moglie,
del’usato s’ammanta abito regio.
Di doppie fila d’or son quelle spoglie
tramate tutte, e d’oro han doppio fregio;
sparse di soli e folgorando toglie
ogni sole al sol vero il lume e ‘l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
e lo scettro gemmato in man si stringe.
64
Quella ch’Atene adora, ha di bei stami
di schietto argento e semplice la vesta,
riccamata di tronchi e di fogliami
di verde olivo e di sua man contesta.
Tien d’una treccia degl’istessi rami
il limpid’elmo incoronato in testa.
Sostien l’asta la destra e ‘l braccio manco
di scudo adamantin ricopre il fianco.
65
L’altra, ch’ha ne’ begli occhi il foco e ‘l telo,
d’artificio fabril pompa non volse,
ma d’un serico apena azzurro velo
la nudità de’ bianchi membri involse;
color del mare, anzi color del cielo,
quello la generò, questo l’accolse;
leggier leggiero e chiaramente oscuro
che facea trasparer l’avorio puro.
66
Prende Mercurio il pomo, agili e presti
ponsi ale tempie i vanni ed a’ talloni,
e la verga fatal, battendo questi,
si reca in man ch’attorti ha duo, dragoni.
Per ben seguirlo, l’emule celesti
lascian colombe e nottule e pavoni,
ed è lor carro un nuvoletto aurato
lievemente da zefiro portato.
67
Dipinge un bel seren l’aria ridente
di vermiglie fiammelle e d’aurei lampi,
e qual sol, che calando in occidente
di rosati splendori intorno avampi,
segnando il tratto del sentier lucente
indora e inostra i suoi cerulei campi,
mentre condotta dala saggia guida
la superbia del ciel discende in Ida.
68
Stassene in Ida ale fresch’ombre estive
Paride assiso a pasturar le gregge,
là dove intorno in mille scorze vive
il bel nome d’Enon scritto si legge.
Misera Enon, se dele belle dive
giudice eletto ei la più bella elegge,
di te che fia, ch’hai da restar senz’alma?
Ahi che perdita tua fia l’altrui palma!
69
Voglion costor la tua delizia cara,
lassa, rapirti, e ‘l tuo tesor di braccio.
Vanne dunque infelice, e pria ch’avara
fortuna un tanto ardor converta in ghiaccio,
quanto gioir sapesti, or tanto impara
a dolerti di lui che scioglie il laccio;
e mentre puoi, dentro il suo grembo accolta
bacia Paride tuo l’ultima volta.
70
A piè d’un antro nel più denso e chiuso
siede il pastor dela solinga valle.
La mitra ha in fronte e, qual de’ Frigi è l’uso,
barbaro drappo annoda insu le spalle.
Lungo il chiaro Scamandro erra diffuso
l’armento fuor dele sbarrate stalle;
e ‘l verde prato gli nutrisce e serba
di rugiada conditi i fiori e l’erba.
71
Egli gonfiando la cerata canna,
v’accorda al dolce suon canto conforme.
Per gran dolcezza, le palpebre appanna
il fido cane e non lontan gli dorme.
Tacciono intente a piè dela cappanna
ad ascoltarlo le lanose torme.
Cinti le corna di fiorite bacche
obliano il pascolar giovenchi e vacche.
72
Quand’ecco declinar la nube ei vede
che ‘l fior d’ogni bellezza in grembo serra,
e rotando colà dov’egli siede
di giro in giro avicinarsi a terra.
Ecco ala volta sua drizzano il piede
accinte a nova e dilettosa guerra
le tre belle nemiche, a’ cui splendori
rischiara il bosco i suoi selvaggi orrori.
73
In rimirando sì mirabil cosa
stringe le labra allor, curva le ciglia,
e su la fronte crespa e spaventosa
scolpisce col terror la meraviglia.
Sovra il tronco vicin la testa posa,
ed al tronco vicin si rassomiglia.
La canzon rompe, e lascia intanto muta
cadersi a piè la garrula cicuta.
74
«Fortunato pastor, giovane illustre,
(il messaggio divin dissegli allora)
il cui gran lume ascoso in vel palustre
lo stesso ciel nonché la terra onora;
degno ti fa la tua prudenza industre
di venture a mortal non date ancora.
A te con queste dee Giove mi manda,
e che tu sia lor giudice comanda.
75
Vedi questo bel pomo? Ala contesa
quello, che fu suggetto, or premio fia.
Colei l’avrà che ‘n così bella impresa
di bellezza maggior dotata sia.
Donalo pur senza temere offesa
a chi ‘l merita più, ch’a chi ‘l desia.
Ben sopir saprai tu discordie tante
come bel, com’esperto e com’amante.»
76
Tanto dic’egli, e l’aureo pomo sporto
consegna al’altro, ilqual fra gioia e tema
in udir quel parlar facondo e scorto,
e ‘n risguardar quella beltà suprema,
il prende e tace, e sbigottito e smorto
fuor di sestesso impallidisce e trema.
Pur fra tanto stupor che lo confonde,
moderando i suoi moti alfin risponde:
77
«La conoscenza ch’ho del’esser mio,
o dele stelle ambasciador felice,
queste gran novità, che qui vegg’ io,
al mio basso pensier creder disdice;
gloria, di cui godere ad alcun dio
maggior forse lassù gloria non lice,
che dal ciel venga a povero pastore
tanto bene insperato e tanto onore.
78
Ma ch’abbia a proferir lingua mortale
decreto in quel ch’ogn’intelletto eccede,
quanto alo stato mio sì diseguale
più mi rivolgo ei tanto meno il crede.
Nulla degnar mi può di grado tale,
senon l’alto favor che mel concede.
Pur, se ragion di merito mi manca,
grazia celeste ogni viltà rinfranca.
79
Può ben d’umane cose ingegno umano
talor deliberar senza periglio.
Trattar cause divine ardisce invano
senz’aiuto divin saggio consiglio.
Come dunque poss’io rozzo e villano
nonché le labbra aprir, volgere il ciglio,
dove l’istessa ancor somma scienza
non seppe in ciel pronunziar sentenza?
80
Com’esser può che l’esquisita e piena
perfezzion dela beltà conosca
uom, ch’oltre la caligine terrena
tra queste verdi tenebre s’imbosca,
dov’altro mai di sua luce serena
non n’è dato mirar ch’un’ombra fosca?
Certo inabil mi sento e mi confesso
di tali estremi a misurar l’eccesso.
81
S’avessi a giudicar fra toro e toro,
o decretar fra l’una e l’altra agnella,
discerner saprei ben forse di loro
qual si fusse il migliore e la più bella.
Ma così belle son tutte costoro,
che distinguer non so questa da quella.
Tutte egualmente ammiro e tutte sono
degne di laude eguale e d’egual dono.
82
Dogliomi, che tre pomi aver vorrei
qual’è quest’un ch’a litigar l’ha mosse,
ch’allor giusto il giudizio io crederei,
quando commun la lor vittoria fosse.
Aggiungo poi che degli eterni dei
paventar deggio pur l’ire e le posse,
poiché di questa schiera aventurosa
due son figlie di Giove e l’altra è sposa.
83
Ma daché tali son gli ordini suoi
forza immortale il mio difetto scusi,
purché dele due vinte alcuna poi
non sia ch’irata il troppo ardire accusi.
Intanto, o belle dee, se pur a voi
piace che ‘l peso imposto io non ricusi,
quel chiaro sol che tanta gloria adduce
ritenga il morso ala sfrenata luce».
84
Qui Cillenio s’apparta, ed ei restando
chiama tutti a consiglio i suoi pensieri,
e gli spirti al gran caso assottigliando
comincia ad aguzzar gli occhi severi.
Già s’apparecchia ala bell’opra, quando
con atti gravi e portamenti alteri
di real maestà gli s’avicina
e gli prende a parlar la dea Lucina:
85
«Poich’al giudicio uman si sottomette
dala giustizia tua fatta secura
la ragion, che le prime e più perfette
meraviglie del ciel vince ed oscura,
dela beltà, ch’eletta è fra l’elette,
dei conoscer, pastor, la dismisura;
ma conosciuta poi, riconosciuta
convien che sia con la mercé devuta.
86
E s’egli è ver che l’eccellenza prima
possa sol limitar la tua speranza
di mai meglio veder, vista la cima
e ‘l colmo di quel bel ch’ogni altro avanza,
accioché l’occhio tuo, ch’or si sublima
sovra l’umana e naturale usanza,
non curi Citerea più né Minerva,
in me rimira e mie fattezze osserva.
87
Tu discerni colei, se me discerni,
cui cede ogni altro nume i primi onori,
imperadrice degli eroi superni,
consorte al gran motor re de’ motori.
Vedi il più degno infra i suggetti eterni,
che ‘l cielo ammiri o che la terra adori;
innanzi ai raggi dela cui beltade
lo stupor di stupor stupido cade.
88
L’istesso sol d’idolatrarmi apprese
di scorno spesso e di vergogna tinto;
e ‘l mio più volte il suo splendore accese,
l’estinse pria, poi ravivollo estinto.
Negar dunque non puoi di far palese
quel lume altrui che ‘l maggior lume ha vinto,
senza accusar di cecità la luce
di colui che per tutto il dì conduce».
89
Rompe allora il silenzio ed apre il varco
ala voce il pastor con questo dire:
«Poich’a’ suoi cenni col commesso incarco
legge di ciel mi sforza ad ubbidire,
non fia ritroso ad onorarvi o parco,
gloriosa reina, il mio desire,
del cui pronto voler vi farà noto
un schietto favellar libero il voto.
90
Io vi giudico già tanto perfetta,
che più nulla mirar spero di raro,
talché ‘l merto di quel ch’a voi s’aspetta,
contentar ben vi può, ch’a tutti è chiaro,
senza bisogno alcun, ch’io vi prometta
ciò che tor non vi dee giudice avaro,
onde cosa la speme abbia a donarvi,
che ‘n effetto il dever non può negarvi.
91
Ben volentier, se senza ingiuria altrui
così determinar fusse in mia mano,
concederei questo bel pomo a vui,
né dal dritto giudicio andrei lontano.
Ma mi convien, com’ammonito fui
dal facondo corrier del re sovrano,
darlo a colei ch’al’altre il pregio invola;
e voi scesa dal ciel non siete sola».
92
L’orgogliosa moglier del gran tonante
sì fatte lodi udir non si scompiacque,
e senza trionfar già trionfante
attese il fin di quel certame e tacque.
Ed ecco allor, colei trattasi avante
che senza madre del gran Giove nacque,
d’onestà virginal sparsa le gote
chiede il pomo al pastor con queste note:
93
«Tutti i mortali e gl’immortali in questo
sospetti a mio favor sarebbon forse.
Paride sol ch’amico è del’onesto
e dal giusto e dal ver giamai non torse,
degno è d’ufficio tale, ed io ben resto
paga d’un tant’onor che ‘l ciel gli porse,
poiché non so da cui più certo or io
mi potessi ottener quanto desio.
94
Tu, che lume cotanto hai nela mente,
ed appregi valore e cortesia,
rivolgerai nel’animo prudente
tutto ciò ch’io mi vaglia e ciò ch’io sia,
ond’oggi crederò che facilmente
vincitrice farai la beltà mia,
quell’ossequio e quel dritto a me porgendo
che merito, che bramo e che pretendo.
95
Non son non son qual credi; in me vedere
di Vener forse o di Giunon pensasti
lusinghe false ed apparenze altere,
i risi e i vezzi e le superbie e i fasti?
Cose tu vedi essenziali e vere,
vedi Minerva e tanto sol ti basti,
senza cui nulla val regno o ricchezza,
fuor del cui bel difforme è la bellezza.
96
Virtù son io, di cui non altro mai
vide uom mortal ch’una figura, un’orma.
A te però con disvelati rai
ne rappresento la corporea forma;
da cui, se saggio sei, prender potrai
dela vera beltà la vera norma
e conoscer quaggiù fuor d’ogni nebbia
quelche seguir, quelch’adorar si debbia.
97
Forse mentre tu miri ed io ragiono,
per troppo meritar mi stimi indegna,
e la vergogna di sì picciol dono
ti fa parer che poco a me convegna.
Ma io mi scorderò di quelche sono,
solché la palma di tua mano ottegna.
Purch’ella oggi da te mi sia concessa,
per amor tuo sconoscerò mestessa.»
98
Dala virtù di quel parlar ferito
Paride parer cangia e pensier muta
e, dal presente oggetto instupidito,
la memoria del’altro ha già perduta:
«Diva (risponde) il merito infinito
di cotanta beltà non più veduta
dona al mio cieco ingegno occhi abastanza
da poter ammirar vostra sembianza.
99
Io ben conosco che quel ch’oggi appare
in quest’ombroso e solitario chiostro
è puro specchio e lucido essemplare
dela divinità ch’a me s’è mostro.
Ma se vittime e voti, incensi ed are
consacra il mondo al simulacro vostro,
qual sacrificio or v’offerisco e porgo
io, che vivo e non finto il ver ne scorgo?
100
Il presentarvi ciò che vi conviene
è dever necessario e giusta cosa
e l’istessa ragion che v’appartiene,
vi fa senza il mio dir vittoriosa.
La speranza del ben potete bene
concepire omai lieta e baldanzosa.
Intanto in aspettandone l’effetto
purghi la grazia vostra il mio difetto».
101
Queste offerte cortesi assai possenti
furo nel cor dela più saggia dea.
E qual più certo omai di tali accenti
pegno, i suoi dubbi assecurar potea?
Da parole sì dolci e sì eloquenti,
con cui quasi il trofeo le promettea,
presa rimase, e fu delusa anch’essa
la sapienza e l’eloquenza istessa.
102
Ma la madre d’Amor, nel cui bel viso
ogni delizia lor le Grazie han posta,
quel ciglio ch’apre in terra il paradiso,
verso il garzon volgendo a lui s’accosta
e la serenità del dolce riso
d’una gioconda affabiltà composta,
la favella de’ cori incantatrice
lusinghevole scioglie e così dice:
103
«Paride, io mi son tal che nel’acquisto
del desiato e combattuto pomo
senza temer d’alcun successo tristo
rifiutar non saprei giudice Momo;
te quanto meno, in cui sovente ho visto
accortezza e bontà più che ‘n altr’uomo;
quanto più volentier senza spavento
al foro tuo di soggiacer consento?
104
In terra o in ciel tra più tenaci affetti
qual cosa più sensibile d’amore?
qual possanza o virtù, ch’abbia ne’ petti
più dele forze sue forza e valore?
Or che pensi? che fai? che dunque aspetti?
dove, dove è il tuo ardir? dove il tuo core?
Dimmi come avrai core e come ardire
da poterti difendere o fuggire?
105
Se ‘l pomo per cui noi stiam qui pugnando,
come senso non ha, potesse averlo,
tu lo vedresti a me correr volando,
né fora in tua balia di ritenerlo.
Poich’e’ venir non pote, io tel dimando,
sicome degna sol di possederlo.
Qualunque don la mia beltà riceve
è tributo d’onor che le si deve.
106
La vista, il veggio ben, del mio bel volto
t’ha dolcemente l’anima rapita.
Or riprendi gli spirti, e ‘n te raccolto
il cor rinfranca e la virtù smarrita.
Quelche mirabil’è mirato hai molto,
comprender non si può luce infinita.
Gli occhi tuoi che veduto oggi tropp’hanno,
ad ogni altro splendor ciechi saranno.
107
Faccian prima però di quanto han scorto
testimoni del ver, fede ala bocca,
accioché poi sentenziando il torto
non s’abbia a dimostrar maligna o sciocca.
E s’ è dever di giudicante accorto
a ciascun compartir ciò che gli tocca,
bella colei dichiara infra le belle
che di beltà sovrasta al’altre stelle.
108
Poiché l’istesso dono a sé mi chiama,
il dritto il chiede e la ragione il vole;
poiché del senno tuo la chiara fama
t’obliga ad esseguir quelch’egli suole;
s’a quant’oggi da me si spera e brama
non corrisponderan le tue parole,
la giustizia dirò ch’ingiusta sia,
e che la verità dica bugia».
109
Vinto il pastor da parolette tali
e da tanta beltà legato e preso,
a que’ novi miracoli immortali
senza spirito o polso è tutto inteso.
Amor gli ha punto il cor di dolci strali
e di dolci faville il petto acceso,
onde con sospirar profondo e rotto
geme, langue, stupisce e non fa motto.
110
Paride, a che sospiri o perché taci?
Dove bisogna men, più ti confondi.
Tu desti al’ altre due pegni efficaci
di tua promessa; a questa or che rispondi?
Sono i silenzi tuoi nunzi loquaci
d’effetti favorevoli e secondi?
Dunque del tuo tacer s’appaghi e goda,
se di ciò la cagion le torna in loda.
111
Pensa, né sa di quella schiera eterna
qual beltà con più forza il cor gli mova,
che mentre gli occhi trasportando alterna
or a questa or a quella, egual la trova.
Là dove pria s’affisa e ‘l guardo interna
ivi si ferma, e quelch’ha innanzi approva.
Volgesi al’una e bella apien la stima
poscia al’altra passando oblia la prima.
112
Bella è Giunone e ‘l suo candore intatto
di perla oriental luce somiglia.
Ha leggiadro ogni moto, accorto ogni atto
del maggior dio la bellicosa figlia.
Ma tien dela bellezza il ver ritratto
la dea d’amor nel volto e nele ciglia
e tutta, ovunque a risguardarla prenda,
dale chiome ale piante è senza emenda.
113
Un rossor dal candor non ben distinto
varia la guancia e la confonde e mesce.
Il ligustro di porpora è dipinto,
là dove manca l’un, l’altra s’accresce.
Or vinto il giglio è dala rosa, or vinto
l’ostro appar dal’avorio, or fugge, or esce.
Ala neve colà la fiamma cede,
qui la grana col latte inun si vede.
114
D’un nobil quadro di diamante altera
la fronte e chiara alpar del ciel lampeggia.
Quivi Amor si trastulla e quindi impera
quasi in sublime e spaziosa reggia.
Gli albori l’alba, i raggi ogni altra sfera
da lei sol prende e ‘n lei sol si vagheggia,
il cui cristallo limpido riluce
d’una serena e temperata luce.
115
Le luci vaghe a meraviglia e belle
senz’alcun paragone uniche e sole,
scorno insieme e splendor fanno ale stelle,
in lor si specchia, anzi s’abbaglia il sole.
Dal’interne radici i cori svelle
qualor volger tranquillo il ciglio suole.
Nel tremulo seren che ‘n lor scintilla,
umido di lascivia il guardo brilla.
116
Per dritta riga da’ begli occhi scende
il filo d’un canal fatto a misura,
da’ cui fior chi s’appressi, invola e prende
più che non porge, aura odorata e pura.
Sotto, ove l’uscio si disserra e fende
del’erario d’amore e di natura,
apre un corallo in due parti diviso
angusto varco ale parole, al riso.
117
Né di sì fresche rose in ciel sereno
ambiziosa Aurora il crin s’asperse,
né di sì fini smalti il grembo pieno
Iride procellosa al sole offerse,
né di sì vive perle ornato il seno
rugiadosa cocchiglia al’alba aperse,
che la bocca pareggi, ov’ha ridente
di ricchezze e d’odori un oriente.
118
Seminate in più sferze e sparse in fiocchi
sen van le fila innanellate e bionde
de’ capei d’or, ch’a bello studio sciocchi
lasciva trascuragine confonde.
Or su gli omeri vaghi or fra’ begli occhi
divisati e dispersi errano in onde;
e crescon grazia ale bellezze illustri
arti neglette e sprezzature industri.
119
Dele ninfe del ciel gli occhi e le guance
considerate, e le proposte udite,
mentr’ancor vacillante in dubbia lance
del concorso divin pende la lite,
più non vuole il pastor favole o ciance,
più non cura mirar membra vestite,
ma più dentro a spiar di lor beltade
la curiosità gli persuade.
120
«Poiché delpari in quest’ agon si giostra,
più oltre (dice) essaminar bisogna,
né diffinir la controversia vostra
si può, se ‘l vel non s’apre ala vergogna;
perché tal nel difuor bella si mostra,
che senza favellar dice menzogna.
Pompa di spoglie altrui sovente inganna
e d’un bel corpo i mancamenti appanna.
121
Ciascuna dunque si discinga e spogli
de’ ricchi drappi ogni ornamento, ogni arte,
perché la vanità di tali invogli
nele bellezze sue non abbia parte.»
Giunon s’oppone, e con superbi orgogli
ciò far ricusa e traggesi in disparte.
Minerva ad atto tal non ben si piega,
tien gli occhi bassi e per modestia il nega.
122
Ma la prole del mar, che ne’ cortesi
gesti ha grazia ed ardir quanto aver pote,
«esser vogl’io la prima a scior gli arnesi,
(prorompe) ed a scoprir le parti ignote,
onde chiaro si veggia e si palesi
che non solo ho begli occhi e belle gote,
ma ch’è conforme ancora e corrisponde
al bello esterior quelche s’asconde.»
123
«Orsù (Palla soggiunse) ecco mi svesto,
ma pria che scinte abbiam le gonne e i manti,
fa tu, pastor, ch’ella deponga il cesto,
se non vuoi pur che per magia t’incanti.»
Replicò l’altra: «Io non ripugno a questo,
ma tu che di beltà vincer ti vanti,
perché non lasci il tuo guerriero elmetto
e lo spaventi con feroce aspetto?
124
Forse che ‘n te si noti e si riprenda
degli occhi glauchi il torvo lume hai scorno?»
Impon Paride allor, che si contenda
senza celata e senza cinto intorno.
Restò l’aspetto lor, tolta ogni benda,
senz’alcuna ornatura assai più adorno,
sì di sestesse e non d’altr’armi altere
nel grand’arringo entrar le tre guerrere.
125
Quando le vesti alfin que’ tre modelli
dela perfezzione ebber deposte
e de’ lor corpi immortalmente belli
fur le parti più chiuse al guardo esposte,
vider tra l’ombre lor lumi novelli
le caverne più chiuse e più riposte;
ne presente vi fu creata cosa,
che non sentisse in sé forza amorosa.
126
Il sol ritenne il corso al gran viaggio,
inutil fatto ad illustrare il mondo,
perché vide offuscato ogni suo raggio
da splendor più sereno e più giocondo.
Volea scendere in terra a fargli omaggio,
ambizioso pur d’esser secondo;
poi tra sé si pentì del’ardimento,
e d’ammirarlo sol restò contento.
127
Onorata la terra e fatta degna
d’abitatrici sì beate e sante,
con bella gratitudine s’ingegna
di rispondere in parte a grazie tante.
Di bei semi d’amor gravida impregna
e partorisce a que’ begli occhi avante.
Ringiovenì natura e primavera
germogliò d’ognintorno ove non era.
128
Contro i lor naturali aspri costumi
generar dolci poma i pini irsuti.
Nacquer viole da’ pungenti dumi,
fiorir narcisi insu i ginebri acuti.
Scaturir mele e corser latte i fiumi,
e ‘l mar n’ebbe più ricchi i suoi tributi.
Sparser zaffiro i rivi, argento i fonti,
fur d’ostro i prati e di smeraldo i monti.
129
Lascia il canto ogni augel dela foresta
per pascer gli occhi di sì lieto oggetto.
L’acque loquaci in quella rupe e ‘n questa
fermaro il mormorio per gran diletto.
L’aere confuso di dolcezza arresta
i sussurri del’acque al lor cospetto.
Trema al dolce spettacolo ogni belva,
e con attenzion tace la selva.
130
Tacea, senon che gli arbori felici
allievi dela prossima palude,
mossi talor da venticelli amici
bisbigliavano sol ch’erano ignude.
E voi di tanta gloria spettatrici
sentiste altro velen, vipere crude,
onde tornando ai vostri dolci amori
vi saettaste con le lingue i cori.
131
Le naiadi lascive, i fauni osceni
abbandonano gli antri, escon del’onde.
Ciascun per far con gli occhi ai bianchi seni
qualche furto gentil, presso s’asconde.
Vegeta amor ne’ rozzi sterpi, e pieni
d’amor ridono i fior, l’erbe e le fronde.
Ai sassi esclusi dal piacere immenso
spiace sol non avere anima e senso.
132
Paride istesso in quelle gioie estreme
non vive no, senon per gli occhi soli.
Tanto eccesso di luce il miser teme
non la vista e la vita inun gl’involi.
Sguardo non ha per tanti raggi insieme,
né cor bastante a sostener tre soli.
Triplicato balen gli occhi gli serra,
un sole in cielo e tre ne vede in terra.
133
«O dei (dicea) che meraviglie veggio?
chi del’ottimo a trar m’insegna il meglio?
Son prodigi del ciel? sogno o vaneggio?
qual di lor lascio o qual fra l’altre sceglio?
Deh poiché ‘nvan, per far ciò che far deggio,
i sensi affino e l’intelletto sveglio,
in tanto dubbio alcun de’ raggi vostri,
o bellezze divine, il ver mi mostri.
134
Perché non son colui che d’occhi pieno
la giovenca di Giove in guardia tenne?
Avessi in fronte, avessi intorno almeno
quante luci la Fama ha nele penne.
Fossi la notte o fossi il ciel sereno,
poiché dal ciel tanta bellezza venne,
per poter rimirar cose sì belle
con tante viste quante son le stelle.
135
Qual di santa onestà pudico lume
in quella nobil vergine sfavilla?
quanto di venerando ha l’altro nume?
qual d’augusto decoro aria tranquilla?
Ma qual vago fanciul batte le piume
intorno a questa e che dolcezza stilla?
Par che ritenga in sé dolce attrattivo
non so che di ridente e di festivo.
136
Ciò però non mi basta, ancor sospeso
un ambiguo pensier m’aggira e move.
Mentr’or a questa, or son a quella inteso,
bramo il sommo trovar, né so ben dove.
S’io non vo’ di sciocchezza esser ripreso,
conviemmene veder più chiare prove.
Fia d’uopo investigar meglio ciascuna,
e mirarle in disparte ad una ad una.»
137
Fa, così detto, allontanar le due,
e soletta ritien seco Giunone,
laqual promette lui, che se le sue
bellezze ale bell’emule antepone,
principe alcun giamai non fia né fue
più di scettri possente e di corone;
e ch’ogni gente al giogo suo ridutta,
il farà possessor del’Asia tutta.
138
Spedito di costei, Pallade appella,
che ‘n aspetto ne vien bravo e virile,
e patteggiando gli promette anch’ella
gloria cui non fia mai gloria simile;
e che se lei dichiarerà più bella,
farallo invitto in ogni assalto ostile,
chiaro nel’armi e sovra ogni guerriero
inclito di trofei, di palme altero.
139
«No no, cosa in me mai forza non ebbe
da poter la ragion metter di sotto.
Tribunal mercenario il mio sarebbe
s’oggi a venderla qui fossi condotto.
Giudice giusto parteggiar non debbe,
né per prezzo o per premio esser corrotto.
Perdon di vero dono il nome entrambi,
s’avien che con l’un don l’altro si cambi.»
140
Così risponde, e nel medesmo loco
accenna a Citerea che vegna in campo.
Ella comparve e di soave foco
nel teatro frondoso aperse un lampo.
Da quell’oggetto incontr’a cui val poco
a qual più freddo cor difesa o scampo,
non sa con pena di diletto mista
l’ingordo spettator sveller la vista.
141
La qualità di quelle membra intatte
quai descriver saprian pittori industri?
Rendono oscuro e l’alabastro e ‘l latte,
vincono i gigli, eccedono i ligustri.
Piume di cigno e nevi non disfatte
son foschi essempi ai paragoni illustri.
Vedesi lampeggiar nel bel sembiante
candor d’avorio e luce di diamante.
142
«Eccomi (disse) omai fa che cominci
a specolar con diligenza il tutto,
e dimmi se trovar gli occhi de’ linci
sapriano in beltà tanta un neo di brutto.
Ma mentre ogni mia parte e quindi e quinci
rimiri pur per divenirne instrutto,
vo’ che gli occhi e gli orecchi in me rivolti,
le fattezze mirando, i detti ascolti.
143
So che sei tal che signoria non brami,
né di scettri novelli uopo ti face,
ch’ad appagar del tuo desir le fami
il gran regno paterno è ben capace.
Da guerreggiar non hai, poiché i reami
e di Frigia e di Lidia or stanno in pace,
né dei tu, d’ozi amico e di riposi,
altri conflitti amar che gli amorosi.
144
Le battaglie d’amor non son mortali,
né s’essercita in lor ferro omicida.
Dolci son l’armi sue, son dolci i mali,
senza sangue le piaghe e senza strida.
Ma non pertanto ad imenei reali
denno aspirar le villanelle d’Ida,
né dee povera ninfa ardere il core
a chi pote obligar la dea d’amore.
145
Ad uom che d’alta stirpe origin tragge,
sposa non si convien di bassa sorte.
Nulla teco hanno a far nozze selvagge,
nulla confassi a te rozza consorte.
Cedano a’ tetti illustri inculte piagge,
ceda l’umil tugurio al’ampia corte.
Curar non dee di contadini amori
pastor fra’ regi e rege infra’ pastori.
146
Tu fra quanti pastor guardano ovili
sei per forma il più degno e per etate;
ma le fortune tue rustiche e vili
mi fan certo di te prender pietate.
Peregrini costumi e signorili,
pregio di gioventù, fior di beltate,
deh! che giovano a te, se gli anni verdi
e te medesmo inutilmente perdi?
147
Perché tra boschi e rupi e piante e sassi
in questa solitudine romita
così senz’alcun prò corromper lassi
la primavera tua lieta e fiorita?
Perché più tosto a ben menar non passi
in qualche città nobile la vita,
cangiando in letti aurati erbette e fiori,
e ‘n donzelle e scudier pecore e tori?
148
Giovinetta sì bella in Grecia vive
che di bellezza ogni altra donna eccede;
né sol fra le corinzie e fra l’argive
questo publico onor le si concede,
ma poco inferior tiensi ale dive
e quasi in nulla a memedesma cede.
Questa agli studi miei forte inclinata,
ama, amica d’amor, d’essere amata.
149
Lasciò Giove di Leda il ventre greve
di questo novo sol di cui favello,
quando in sen le volò veloce e lieve
trasfigurato in nobil cigno e bello.
Candida e pura è sì com’esser deve
fanciulla nata d’un sì bianco augello.
Molle e gentil come nutrita a covo
dentro la scorza tenera d’un ovo.
150
Ha tanta di beltà fama costei,
tanto poi dal’effetto il grido è vinto,
che Teseo il gran campion s’armò per lei
e lascionne di sangue il campo tinto.
Chiedeano i felicissimi imenei
d’Argo i principi aprova e di Corinto,
ma Menelao fra gli altri il più gradito
parve d’Elena sol degno marito.
151
Pur se ti cal di conquistarla e vuoi
con un pomo mercar tanto diletto,
la ricompensa de’ servigi tuoi
fia di donna sì bella il grembo e ‘l letto.
Al primo incontro sol degli occhi suoi
farti di lei signore io ti prometto.
Farò, ch’abbandonato il lido greco,
dovunque più vorrai, ne venga teco.
152
Là di Lacedemonia al’alta reggia
tu ten’andrai per via spedita e corta.
Ingegnati sol tu ch’ella ti veggia,
lascia cura del resto ala tua scorta.
Intutto ciò ch’un tanto affar richeggia,
Amor fido ministro, io duce accorta,
co’ suoi compagni e con le serve mie
la verremo a dispor per mille vie.»
153
Qui tacque, e fiamma de’ begli occhi uscio
atta a mollir del Caucaso l’asprezza,
ond’ egli ogni altro bel posto in oblio
a quell’incomparabile bellezza,
sforzato dal poter di quel gran dio
ch’ogni cor vince, ogni riparo spezza,
baciato il pomo e ‘n lei le luci affisse,
reverente gliel porse e così disse:
154
«O bella oltre le belle, o sovra quante
ha belle il ciel, bellissima Ciprigna;
foco gentil d’ogni felice amante,
madre d’ogni piacer, stella benigna;
sola ben degna a cui s’inchini avante
l’Invidia istessa perfida e maligna;
se null’ altra beltà la vostra agguaglia,
ragion è ben che sua ragion prevaglia.
155
Sebene a sì gran luce umil farfalla,
il più di voi mi taccio e ‘l men n’ accenno,
audace il dico e so che ‘n me non falla
dal sentier dritto traviato il senno.
Perdonimi Giunon, scusimi Palla
gareggiar vosco disputar non denno.
Giudico che voi sola al mondo siate
l’idea nonché la dea dela beltate.
156
Basta ben ch’ala gloria a voi concessa
fu lor dato poggiar pur col pensiero;
né fu lor poco onor che fusse messa
la certezza in bilancio, in dubbio il vero.
Or di mia bocca la Giustizia istessa
publica il suo parer chiaro e sincero.
L’obligo suo, per la mia mano offerto,
questo pomo presenta al vostro merto».
157
Atteggiata di gioia, ebra di fasto
Venere il prende, indi volgendo i lumi,
«cedetemi l’onor del gran contrasto,
(disse ridente ai duo scornati numi)
confessa pur Giunon ch’io ti sovrasto,
e ch’a torto pugnar meco presumi.
Né spiaccia a te, Bellona, a vincer usa,
di chiamarti da me vinta e confusa.
158
Pensò l’una di voi di superarmi
per esser forse in ciel somma reina.
E credea l’altra con sue lucid’armi
di spaventar la mia beltà divina.
Ma poco vi giovò, per quanto parmi,
opporsi al ver ch’al paragon s’affina.
E sì possenti dee vie più m’aggrada
senza scettro aver vinte e senza spada.
159
Venite Grazie mie, venite Amori,
vigorose mie forze, invitte squadre.
Incoronate de’ più verdi allori
la vostra omai vittoriosa madre.
Ite cantando in versi alti e sonori,
e rispondano al suon l’aure leggiadre.
Viva amor, viva amor, che ‘n cielo e ‘n terra
dela pace trionfa e dela guerra.»
160
Mentre intento il pastore ascolta e mira
la bella, a cui ‘l bel pregio è tocco in sorte,
le due sprezzate dee ver lui con ira
volgon le luci dispettose e torte.
Orgoglio ogni lor atto e sdegno spira,
quasi ruina minacciante e morte.
Giunon però dissimular non pote
la rabbia sì, che non la sfoghi in note:
161
«Misero, e come del suo proprio velo
il cieco arcier (dicea) gli occhi t’involse,
siché dela ragion perduto il zelo,
il bel lume del ver scorger ti tolse?
Te dunque scelse il gran rettor del cielo?
te deputar per giudice ne volse,
quasi un uomo il miglior del’universo,
perché poi si scoprisse il più perverso?
162
Vie più che gloriosa, a te funesta
sarà, sii certo, elezzion sì fatta.
E sappi pur che quest’onore e questa
gloria, che m’abbi al tuo giudicio tratta,
il vituperio fia dela tua gesta
e l’infamia immortal dela tua schiatta.
Quella istessa beltà malvagia e ria
che fu il tuo premio, il tuo supplicio fia.
163
Quella impudica e disonesta putta
che dee con dolce incendio arderti il core,
ancor sarà dela tua patria tutta
e di tutto il tuo regno ultimo ardore.
Caduto Ilio per te, Troia distrutta,
così ferisce e così scalda amore,
sarà del’armi e dele fiamme gioco,
campo di sangue e Mongibel di foco.
164
Tempo verrà, che detestando il fato,
perch’abbi i rai del sol goduti e visti,
il sen bestemmierai che t’ha portato
e l’ora e ‘l punto ch’ala luce uscisti.
Il rimorso e ‘l dolor del’esser nato
fia ‘l minor mal che la tua vita attristi.
Del’aver sostenuto un sì vil pondo
farà sol la memoria infame il mondo.
165
Le stelle che tal peste hanno concetta,
l’aure ch’al suo natal nutrita l’hanno,
quelle congiureransi ala vendetta,
queste il proprio fallir sospireranno.
Natura, che per te fia maledetta,
t’aborrirà con rabbia e con affanno;
e farà che nel fine albergo e fossa
neghi al’anima il ciel, la terra al’ossa».
166
Dopo la dea di Samo a lui si volta
con cruccioso parlar l’altra più casta,
né la superbia e l’ira al petto accolta
la modestia del viso a coprir basta:
«Lingua bugiarda e temeraria e stolta,
(dice, con fiera man crollando l’asta)
ben si conforma il tuo decreto iniquo
al cor fellone ed al pensiero obliquo.
167
Ah! così ben distribuisci i premi
preso a vil’ esca di fallaci inganni?
Così mi paghi i gloriosi semi,
ch’io t’infusi nel cor fin da’ prim’ anni,
che la lascivia essalti e ‘l valor premi
e ‘l vizio abbracci e la virtù condanni
e per sozza mercé di molli vezzi
onor rifiuti e castità disprezzi?
168
Ma per cotesta tua data in malpunto
sentenza detestabile e proterva,
non vien già la mia stima a mancar punto,
ch’io pertutto sarò sempre Minerva.
Se perdo il pomo, in un medesmo punto
il merto e la ragion mi si conserva,
a te ‘l danno col biasmo, e fia ben pronta
l’occasion di vendicar quest’ onta.
169
Sarà questo tuo pomo empio e nefando
seminario di guerre e di ruine.
Che farai, che dirai, misero, quando
cotante ti vedrai stragi vicine?
Pentito alfin piangendo e sospirando
t’accorgerai con tardo senno alfine
quant’erra quei che, dietro a scorte infide,
la ragion repulsando al senso arride».
170
Al parlar dela coppia altera e vaga
l’infelice pastor trema qual foglia,
e del’audacia sua pentito, paga
il passato piacer con doppia doglia,
laqual ne’ suoi sospir par che presaga
strani infortuni annunziar gli voglia.
Ma partite le due, Venere bella
soavissimamente gli favella:
171
«Paride caro, e qual timor t’assale?
s’ è teco Amor di che temer più dei?
Non sai che ‘nsu la punta del suo strale
tutti i trionfi stan, tutti i trofei?
ch’appo ‘l valor che sovr’ogni altro vale
sono impotenti i più potenti dei?
e che del foco suo l’invitta forza
di Giove istesso le saette ammorza?
172
Quell’unica beltà ch’io già ti dissi,
ti farà fortunato infra le pene.
Le chiome ch’indorar porian gli abissi,
fian del’anima tua dolci catene.
Quelle possenti a rischiarar l’ecclissi,
idoli del tuo cor, luci serene
ti faranno languir di tal ferita
ch’avrai sol per morir cara la vita.
173
Sì ben d’ogni bellezza in quel bel volto
epilogato il cumulo s’unisce
e sì perfettamente insieme accolto
quanto ha di bel la terra in lei fiorisce,
che l’istessa Beltà, vinta di molto,
il paraggio ne teme e n’arrossisce;
e d’aver lavorato un sì bel velo
pugnan tra loro e la Natura e ‘l Cielo.
174
Or non può sola imaginata l’ombra
dela figura che t’accenno or io,
con quella idea che nel pensier t’adombra
felicitar per sempre il tuo desio?
Sì sì, sostien l’alta speranza e sgombra
dal petto ogni timor, Paride mio,
sapendo che d’Amor la genitrice
di tutto il suo poter t’è debitrice».
175
A quest’ultimo motto ancelle e paggi,
Grazie ed Amori intorno a lei s’uniro,
e ‘l carro cinto di purpurei raggi
spalmando per lo sferico zaffiro,
la portar da que’ luoghi ermi e selvaggi
sovra l’ali de’ cigni al terzo giro,
e dipar con gli augei bianchi e canori
sen gir cantando e saettando fiori.
176
Qual meraviglia poi ch’alcuno, avezzo
i piati a giudicar de’ cittadini,
real ministro, per lusinga o prezzo
dala via del dever talor declini,
se ‘n virtù sol d’un amoroso vezzo
costui trapassa i debiti confini?
e d’un futuro e tragico piacere
il promesso guadagno il fa cadere?
177
Che non potran la face e l’arco d’oro?
Qual cor non fia dale lor forze oppresso,
se ‘l sacro olivo e ‘l sempiterno alloro
inducono a sprezzar Paride istesso?
e l’umil mirto ei preferisce loro
anzi più tosto il funeral cipresso,
poiché ‘l suo nome, onde si canta e scrive,
per tante morti immortalato vive? –
178
Tenea l’orecchie il bell’Adone intente
le lodi ad ascoltar di Citerea,
e si gia figurando entro la mente
la bella ancor non conosciuta dea.
Ma giunti al loco ove del dì cocente
Clizio sottrarsi al gran calor devea,
dal benigno pastor tolta licenza
con pensier di tornar fece partenza.
179
Tolto apena commiato, un caso estrano,
mercé d’Amor che lo scorgea, gli avenne.
Prese un cervo a seguir che per quel piano
parve in fuggendo aver ne’ piè le penne;
e poch’assai seguito ei l’ebbe invano,
stanco il passo e smarrito alfin ritenne
là dove molto da villaggi e case
e da gregge e pastor lunge rimase.

CANTO I
CANTO II
L’INNAMORAMENTO.

ALLEGORIA

In Amore, che ferisce il cuore alla madre, si accenna che questo irreparabile affetto non perdona a chi che sia. In Venere, che s’innamora d’Adone addormentato, si dinota quanto possa in un animo tenero la bellezza, eziandio quando ella non è coltivata. Nella medesima, che volendo guadagnarsi l’affezzion d’Adone cacciatore, prende la sembianza della dea cacciatrice e d’impudica si trasforma in casta, s’inferisce che chiunque vuole adescare altrui si serve di que’ mezzi a’ quali conosce essere inclinato l’animo di colui che disegna di tirare a sé, e che molte volte la lascivia viene mascherata di modestia; né si trova femina così sfacciata, ch’almeno insu i principi non si ricopra col velo della onestà. Nella rosa tinta del sangue di essa dea ed a lei dedicata, si dimostra che i piaceri venerei son fragili e caduchi; e sono il più delle volte accompagnati da aspre punture o di passione veemente o di pentimento mordace.

ARGOMENTO

Mentreché stanco Adon dorme insu ‘l prato,
la bella Citerea n’arde d’amore.
Egli si desta e pien di pari ardore
vassene seco inver l’ostel beato.

1
Perfido è ben Amor, chi n’arde il sente,
ma chi è che nol senta o che non n’arda?
E pur la cieca e forsennata gente
segue il suo peggio e ‘l proprio mal non guarda!
Fascino dilettoso, ond’uom sovente
pasce, credulo augello, esca bugiarda.
Vede tese le reti e non le fugge,
né vorria non voler quelche lo strugge.
2
Corre vaga farfalla al chiaro lume,
solca incauto nocchier le placid’onde;
quella nel fiero incendio arde le piume,
questo assorbon talor l’acque profonde.
Spesso arsenico in oro e per costume
rigido tra’ bei fiori angue s’asconde;
e spesso in dolce pomo ed odorato
suol putrido abitar verme celato.
3
Così spada lucente, arco depinto
con la pittura e con la luce alletta;
ma se l’una è trattata e l’altro è spinto
l’una trafige poi, l’altro saetta.
Così nuvolo ancor di raggi cinto
fiamme nel seno e fulmini ricetta;
e con dorato e luminoso crine
minaccia empia cometa alte ruine.
4
Sirena, iena, che con falsa voce
e con canto mortale altrui tradisce.
Foco coverto, ch’assecura e coce,
aspe che dorme e ‘l tosco in sen nutrisce.
Spietato lusinghier, ch’alletta e noce,
pietoso micidial, ch’unge e ferisce,
cortese carcerier, ch’a’ rei di morte
quando chiusi li ha in ceppi, apre le porte.
5
Dura legge, se legge esser può dove
oppressa la ragion, regna la voglia
e l’alma folle in strane guise e nove
per vestirsi d’altrui di sé si spoglia.
Crudo signor, ch’a forza i sensi move
a procacciarsi sol tormento e doglia.
Fere come la morte e non perdona
senza distinguer mai stato o persona.
6
O del mondo tiranno e di natura,
se del materno duol gioisci e godi,
qual fia che schermo o scampo alma secura
abbia dale tue forze o dale frodi?
Lasso, e di me che fia, che ‘n prigion dura
vivo e scioglier del cor non spero i nodi,
finché quel nodo ancor non si discioglia,
che tien legata l’anima ala spoglia?
7
Era nela stagion, che ‘l can celeste
fiamme essala latrando e l’aria bolle,
ond’arde e langue in quelle parti e ‘n queste
il fiore e l’erba e la campagna e ‘l colle;
e ‘l pastor per spelonche e per foreste
rifugge al’ombra fresca, al’onda molle
mentre che Febo al’animal feroce
che fu spoglia d’Alcide il tergo coce.
8
L’olmo, il pino, l’abete, il faggio e l’orno
già le braccia e le chiome ombrosi e spessi,
che dar sul fil del più cocente giorno
agli armenti solean grati recessi,
appena or nudi e senza fronde intorno
fanno col proprio tronco ombra a sestessi;
e mal secura dal’eterna face
ricovra agli antri suoi l’aura fugace.
9
Già varcata ha del dì la mezza terza
sul carro ardente il luminoso auriga
e i volanti corsier, ch’ei punge e sferza,
tranno al mezzo del ciel laurea quadriga.
Tepidetto sudor, che serpe e scherza,
al bell’Adon la bella fronte irriga
e ‘n vive perle e liquide disciolto
cristallino ruscel stilla dal volto.
10
Sotto l’arsura del’estiva lampa,
che dal più alto punto il suol percote,
tutto anelante il garzonetto avampa
e il grave incendio sostener mal pote.
Purpureo foco gli colora e stampa
di più dolce rossor le belle gote,
che ‘l sol, che secca i fiori in ogni riva,
in que’ prati d’amor vie più gli aviva.
11
Mentre che pur, dov’egli arresti il passo,
parte cerca più fresca e meno aprica,
ode strepito d’acque a piè d’un sasso,
vede chiusa valletta al sol nemica.
Or questo, il corpo a sollevar già lasso
e travagliato assai dala fatica,
seggio si sceglie e stima util consiglio
qui depor l’armi e dar ristoro al ciglio.
12
Fontana v’ha, cui stende intorno oscura
l’ombra sua protettrice annosa pioppa,
dove larga nutrice empie Natura
di vivace licor marmorea coppa.
Latte fresco e soave è l’onda pura,
un antro il seno ed un cannon la poppa.
A ber sugli orli i distillati umori
apron l’avide labbra erbette e fiori.
13
L’arco rallenta e del’usato pondo
al fianco ingiurioso il fianco alleggia
e ‘l volto acceso e ‘l crin fumante e biondo
lava nel fonte, che ‘nsu ‘l marmo ondeggia.
Poi colà dove il rezzo è più profondo
e d’umido smeraldo il suol verdeggia,
al’erba in grembo si distende e l’erba
ride di tant’onor lieta e superba.
14
Il gorgheggiar de’ garruletti augelli,
a cui da’ cavi alberghi eco risponde;
il mormorar de’ placidi ruscelli,
che van dolce nel margo a romper l’onde;
il ventilar de’ tremuli arboscelli,
dove fan l’aure sibilar le fronde,
l’allettar sì, che ‘nsu le sponde erbose
in un tranquillo oblio gli occhi compose.
15
Non lunge è un colle, che l’ombrosa fronte
di mirti intreccia e ‘l crin di rose infiora,
e del Nilo fecondo il chiuso fonte
vagheggia esposto ala nascente aurora.
E quando rosseggiar fa l’orizzonte
l’aureo carro del sol, che i poggi indora,
sente a l’aprir del mattutino Eoo
d’Eto i primi nitriti e di Piroo.
16
A piè di questo i suoi giardini ha Clori
e qui la dea d’amor sovente riede
a corre i molli e rugiadosi odori
per far tepidi bagni al bianco piede.
Ed ecco sovra un talamo di fiori
qui giunta a caso, il giovinetto vede.
Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo,
Amor crudele in lei rivolge il dardo.
17
Per placar quel feroce animo irato,
Venere sua, ch’ alpar degli occhi l’ama,
con l’esca in man d’un picciol globo aurato
gonfio di vento, a sé da lunge il chiama.
Tosto che vede il vagabondo alato
la palla d’or, di possederla brama,
per poter poi con essa in chiuso loco
sfidar Mercurio e Ganimede a gioco.
18
Movesi ratto e in spaziosa rota
gli omeri dibattendo ondeggia ed erra,
solca il ciel con le piume, in aria nuota,
or l’apre e spiega, or le ripiega e serra.
Or il suol rade, or ver la pura e vota
più alta region s’erge da terra.
Alfin colà dove Ciprigna stassi
china rapido l’ali e drizza i passi.
19
Ella il richiama, egli rifugge, e poi
torna, e ‘ntorno le scherza alto sui vanni.
Anime incaute e semplicette, o voi,
non sia chi creda a que’ soavi inganni.
Fuggite, oimé, gli allettamenti suoi,
insidie i vezzi, e son gli scherzi affanni,
sempre là dov’ei ride è strazio acerbo;
o Dio quanto è crudel, quanto è superbo!
20
Questa dolce magia, che per usanza
l’anime nostre a vaneggiar sospinge,
tal in sé di piacer ritien sembianza,
che quasi in amo d’or le prende e stringe.
Or se tanta han d’amor forza e possanza
soli gli effetti, allor ch’inganna e finge,
deh! che fora a mirar viva e sincera
di quel corpo immortal la forma vera?
21
Di splendor tanto e sì sereno ognora
quel bel corpo celeste intorno è sparso,
che perderebbe ogni altro lume e fora,
senza escluderne il sol, debile e scarso.
Stupor non sia se Psiche, e chiusi ancora
avea gli occhi dal sonno, il cor n’ebb’arso
e vide innanzi a quella luce eterna
vacillando languir l’aurea lucerna.
22
O se nel fosco e torbido intelletto
di quella luce una scintilla avessi,
siché come scolpito il chiudo in petto,
così scoprirlo agli occhi altrui potessi,
farei veder nel suo giocondo aspetto
di bellezze divine estremi eccessi;
onde, scorgendo in lui tanta bellezza,
ragion la madre ha ben se l’accarezza.
23
Bionda testa, occhi azzurri e bruno ciglio,
bocca ridente e faccia ha dilicata,
né su la guancia ove rosseggia il giglio
spunta ancor la lanugine dorata.
Piume d’oro, di bianco e di vermiglio
quinci e quindi sugli omeri dilata
ed ha, come pavon, le penne belle
tutte fregiate d’occhi di donzelle.
24
Molli d’ambrosia e di rugiada ha sparte
le chiome e l’ali e ‘ngarzonisce apena.
Bendato e senza spoglie il copre in parte
sol una fascia che di cori è piena.
Arma la man con infallibil arte
d’arco, di stral, di face e di catena.
L’accompagna in ogni atto il riso, il gioco,
e somiglia al color porpora e foco.
25
Corre ingordo a l’invito e colmo un lembo
di fioretti e di fronde in prima coglie,
poi poggia in aria e sul materno grembo
in colorita grandine lo scioglie;
ed ei nel molle ed odorato nembo
chiuso e tra fiori involto e tra le foglie
piover si lassa leggiermente, e sovra
la bellissima dea posa e ricovra.
26
Tal di donna real delizia e cura
picciolo can che le sta sempre innanzi,
e dele dolci labra ha per ventura
di ricevere i baci e ber gli avanzi,
se con cenno o con cibo l’assecura
la bella man, che lo scacciò pur dianzi,
scote la coda e saltellando riede
umilemente a rilambirle il piede.
27
Pargoleggiando il bianco collo abbraccia,
bacia il bel volto e le mammelle ignude.
Ride per ciancia e la vermiglia faccia
dentro il varco del petto asconde e chiude.
Ella, ch’ancor non sa quai le minaccia
l’atto vezzoso acerbe piaghe e crude,
colma di gioia tutta e di trastullo
si stringe in grembo il lusinghier fanciullo.
28
Stretto in grembo si tien la dea ridente
il dolce peso entro le braccia assiso.
Sul ginocchio il solleva e lievemente
l’agita, il culla e se l’accosta al viso.
Or degli occhi ribacia il raggio ardente,
or dela bocca il desiato riso;
né sa che gonfia di mortal veleno
una serpe crudel si nutre in seno.
29
Le colorite piume e le bell’ali
che ‘l volo scompigliò, l’aura disperse,
e le chiome incomposte e diseguali
polisce con le man morbide e terse.
Ma l’arco traditor, gl’infidi strali,
onde dure talor piaghe sofferse,
non s’arrischia a toccar, che sa ben ella
qual contagio hanno in sé l’aspre quadrella.
30
Seco però, mentre che ‘n braccio il tiene,
d’alquanto divisar pur si compiace.
– Figlio, dimmi (dicea) poiché conviene
ch’esser tra noi non deggia altro che pace,
perché prendi piacer del’altrui pene?
Come sei sì protervo e tanto audace,
ch’ognor con l’armi tue turbi e molesti
la quiete del cielo e de’ celesti? –
31
– Madre (risponde Amor) s’erro talora,
ogni error mio per ignoranzia accade.
Tu vedi ben che son fanciullo ancora,
condona i falli al’immatura etade.–
– Tu fanciul? (replicò Venere allora)
Chi sì stolto pensier ti persuade?
Coetaneo del tempo e nato avante
a le stelle ed al ciel, t’appelli infante?
32
Forse perché non hai canute chiome,
testesso in ciò semplicemente inganni?
e ti dai pur di pargoletto il nome,
quasi l’astuzia poi non vinca gli anni? –
– E qual mia colpa (Amor soggiunge) o come
altri da me riceve offese o danni?
perché denno biasmar l’inique genti
sol di gioia ministre armi innocenti?
33
In che pecco qualora altrui mostr’io
le cose belle? o che gran mal commetto?
Non accusi alcun l’arco o il foco mio,
ma semedesmo sol, ch’erra a diletto.
Se ‘l tuo gran padre o qualunqu’altro dio
si lagna ale mie forze esser soggetto,
dì che ‘l dolce non curi, il bel non brami,
e chi d’amor non vuol languir, non ami. –
34
Ed ella: – Or tu, ch’ognor tante e sì nove
spieghi superbo in ciel palme e trofei;
tu, che con alte e disusate prove
puoi tutti a senno tuo domar gli dei;
tu, che non pur del sommo istesso Giove
vittorioso e trionfante sei,
ma da’ tuoi strali ancor pungenti e duri
me, che ti generai, non assecuri,
35
dimmi ond’avien, che sol, pur come spenta
abbi la face e la faretra vota,
contro Minerva è la tua man sì lenta,
che non l’arda già mai né la percota?
che sol fra tanti un cor piaghe non senta,
che gli sia la tua fiamma intutto ignota,
soffrir non posso; o le facelle e i dardi
depon per tutti, o lei ferisci ed ardi. –
36
Ed egli: – Oimé! Costei di sì tremendo
sembiante arma la fronte e sì severo,
che qualor per ferirla io l’arco tendo
temo l’aspetto suo virile e fiero.
Poi del grand’elmo ador ador scotendo
il minaccioso ed orrido cimiero,
di sì fatto terror suole ingombrarmi,
ch’ala stupida man fa cader l’armi. –
37
Ed ella a lui: – Pur Marte era più molto
feroce e formidabile di questa;
da’ tuoi lacci però non n’andò sciolto,
malgrado ancor dela terribil cresta. –
Ed egli a lei: – Marte il rigor del volto
placa sovente e mi fa gioco e festa,
m invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre;
l’altra sempre mi scaccia e sempre aborre.
38
Talor ch’osai d’avicinarmi alquanto,
giurò, per quel signor che regge il mondo,
o con l’asta o col piè rotto ed infranto
precipitarmi al’erebo profondo.
D’angui chiomato ha poi nel petto, ahi quanto
squallido in vista! un teschio e furibondo,
del cui ciglio uscir suol tanto spavento,
che ‘n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. –
39
– Odi (dic’ella) odi sagace scusa.
Sì certo sì. Dunque paventi e tremi
nel sen di Palla a risguardar Medusa,
e pur di Giove il folgore non temi?
Ma dimmi or perché ‘l cor d’alcuna Musa
non mai del foco tuo riceve i semi?
Queste sguardo non han rigido e crudo,
né del Gorgone il mostruoso scudo. –
40
– Vero dirotti (egli ripiglia) io queste
non temo no, ma reverente onoro.
Accompagnata da sembianze oneste
virginal pudicizia io scorgo in loro.
Poi sempre intente al bel cantar celeste,
o in studio altro occupato è il sacro coro;
talché non mai, senon ne’ molli versi,
da conversar tra lor varco m’apersi.–
41
Ed ella allor: – Poiché ritiene a freno
tanto furor qui zelo, ivi paura,
vorrei saver perché Diana almeno
dale quadrella tue vive sicura? –
– Né di costei (risponde) il casto seno
vaglio a ferir, rivolta ad altra cura.
Fugge per monti, né posar concede,
sich’ozio mai la signoreggi al piede.
42
Ben ho quel chiaro dio, che di Latona
seco nacque in un parto, arciero anch’esso,
dico quel che di foco il crin corona,
piagato e d’altra fiamma acceso spesso. –
Così mentre con lei scherza e ragiona,
il tratto studia e le si stringe appresso;
e tuttavia dialogando seco,
coglie il tempo a colpir l’occhiuto cieco.
43
Dal purpureo turcasso, ilqual gran parte
dele canne pungenti in sé ricetta,
parve caso improviso e fu bell’arte,
la punta uscì dela fatal saetta.
Punge il fianco ala madre, indi in disparte
timidetto e fugace il volo affretta;
in un punto medesmo il fier garzone
ferille il core ed additolle Adone.
44
Gira la vista a quel ch’Amor l’addita,
che scorgerlo ben può, sì presso ei giace,
ed: – Oimé! (grida) oimé ch’io son tradita,
figlio ingrato e crudel, figlio fallace!
Ahi! qual sento nel cor dolce ferita?
ahi! qual ardor che mi consuma e piace?
qual beltà nova agli occhi miei si mostra?
A dio Marte, a dio ciel, non son più vostra!
45
Pera quell’arco tuo d’inganni pieno,
pera, iniquo fanciul, quel crudo dardo.
Tu prole mia? no no, di questo seno
no che mai non nascesti, empio bastardo!
Né mi sovien tal foco e tal veleno
concetto aver, per cui languisco ed ardo.
Ti generò di Cerbero Megera,
o del’oscuro Cao la Notte nera. –
46
Si svelle in questo dir con duolo e sdegno
lo stral, ch’è nel bel fianco ancor confitto
e tra le penne e ‘l ferro in mezzo al legno
trova il nome d’Adon segnato e scritto.
Volto ala piaga poi l’occhio e l’ingegno
vede profondamente il sen trafitto
e sente per le vene a poco a poco
serpendo gir licenzioso foco.
47
Ben egli è ver che quella fiamma è tale,
che non senza piacer langue e sospira;
e vaga pur del non curato male,
mille in sé di pensier machine aggira.
Or si rivolge al velenoso strale,
or l’esca del suo ardor lunge rimira
e ‘n questi accenti ale confuse voglie
con un ahi doloroso il groppo scioglie:
48
– Ahi ben d’ogni mortal femina vile
omai lo stato invidiar mi deggio,
poiché di furto e con insidia ostile
da chi meno il devria schernir mi veggio.
Mi ferisce il suo stral, m’arde il focile,
né dele mie sventure è questo il peggio;
ch’alfin le fiamme sue son tutte spente,
se la madre d’Amore amor non sente.
49
Ma ch’io soggiaccia a sì perversa sorte,
che le bellezze mie si goda un fabro,
un aspro, un rozzo, un ruvido consorte,
inculto, irsuto, affumigato e scabro?
e che legge immortal peggior che morte
mi costringa a baciar l’ispido labro?
labro assai più nel’orride fornaci
atto a soffiar carbon, ch’a porger baci?
50
Un ch’altro unqua non sa, che col martello
tempestando l’ancudini infernali,
le caverne assordar di Mongibello
per temprar del mio padre i fieri strali,
che dan cadendo in questo lato e ‘n quello
vano spavento ai semplici mortali
e, del maestro lor sembianti espressi,
com’è torto il suo piè son torti anch’essi?
51
Deh quante volte audacemente accosta
importuno ala mia l’adusta faccia
e quella man, ch’ha pur allor deposta
la tanaglia e la lima, in sen mi caccia!
Ed io, malgrado mio, son sottoposta
ai nodi pur del’aborrite braccia
ed a soffrir, che mentre ei mi lusinga,
la fuligine e ‘l fumo ognor mi tinga.
52
Pallade, o saggia lei, quantunque meco
non s’agguagli in beltà, ne fè rifiuto.
Né Giove il volse in ciel, ma nel più cieco
fondo il dannò d’un baratro perduto;
onde piombando in quell’arsiccio speco
l’osso s’infranse e zoppicò caduto.
E pur zoppo ne venne entro il mio letto
l’altrui pace a turbar col suo difetto.
53
Già non m’è già di mente ancor uscita
la rimembranza del’indegne offese.
Altamente nel cor mi sta scolpita
l’insidia, che sì perfida mi tese,
quando ala rete di diamante ordita
questo sozzo villan nuda mi prese,
follemente scoprendo ai numi eterni
dele mie membra i penetrali interni.
54
Un rabbioso dispetto ancor sent’io
del grave oltraggio onde delusa fui,
poiché diè con sua infamia e biasmo mio
vergognosa materia al riso altrui.
Or non si dolga no chi mi schernio,
se l’onta che mi fè ricade in lui;
s’ei volse cancellar corno con scorno
io saprò vendicar scorno con corno.
55
L’Aurora innanzi dì si cala in terra
per abbracciar d’Atene il cacciatore.
La Luna a mezza notte il ciel disserra
per vagheggiar l’arcadico pastore.
Io perché no? Se ‘l mio desir pur erra,
quella somma beltà scusa ogni errore.
Vo’ che ‘l garzon, ch’io colà presso ho scorto,
sia vendetta al’ingiuria, emenda al torto. –
56
Qui tace e poi, qual cacciatrice al guado
colà correndo, al’alta preda anela.
Vesta di lieve e candido zendado
le membra assai più candide le vela,
che, com’opposto al sol leggiero e rado
vapor, le copre sì, ma non le cela.
Vola la falda intorno abile e crespa,
zefiro la raccorcia e la rincrespa.
57
Sudata dal’artefice marito
su l’omero gentil fibbia di smalto
con branche d’oro lucido e forbito
sospende ad un zaffir l’abito in alto.
L’arco, onde suole ogni animal ferito
mercé dela man bella ambir l’assalto,
con la faretra ch’al bel fianco scende
ozioso e dimesso al tergo pende.
58
Sotto il confin dela succinta gonna,
salvo il bel piè, ch’ammanta aureo calzare,
del’una e l’altra tenera colonna
l’alabastro spirante ignudo appare.
Non vide il mondo mai, se la mia donna
non l’agguaglia però, forme sì care.
Da lodar, da ritrar corpo sì bello
Tracia canto non ha, Grecia pennello.
59
Voi Grazie voi, che dolcemente avete
nel nettare del ciel le labra infuse
e ne’ lavacri più riposti siete
nude le sue bellezze a mirar use,
voi snodar la mia lingua e voi potete
narrar di lei ciò che non san le Muse.
Intelletto terreno al ciel non sale,
né fa volo divin penna mortale.
60
Pastor di Troia, o te felice allora
che senza vel tanta beltà mirasti;
e saggio te, quanto felice ancora,
che ‘l pregio a lei d’ogni beltà donasti.
Beltà che gli occhi e gli animi innamora,
diva dele bellezze, e tanto basti.
Se non fuss’ella Citerea, direi,
che Citerea s’assomigliasse a lei.
61
Non osa al bell’Adon Venere intanto
il vero aspetto suo scoprir sì tosto,
ma vuol, per torne gioco innanzi alquanto,
che sia sotto altra imagine nascosto.
Novo, i’ non saprei dir con qual incanto,
simulacro mentito ha già composto
e già sì ben di Cinzia arnesi e gesti
finge, che ‘n tutto lei la crederesti.
62
Va come Cinzia inculta ed inornata,
e veste gonna di color d’erbetta.
Tutta in un fascio d’or la chioma aurata
le cade sovra l’omero negletta.
Nulla industria però ben ordinata
tanto con l’artificio altrui diletta,
quanto al bel crin, ch’ogni ornamento sprezza,
accresce quel disordine bellezza.
63
Tien duo veltri la destra, al lato manco
pende d’aurea catena indico dente.
D’argento in fronte immacolato e bianco,
vedesi scintillar luna lucente.
Lasciasi l’arco e la faretra al fianco,
prende d’acuto acciar spiedo pungente.
Tal ch’ai cani, agli strali, al corno, al’asta
la più lasciva dea par la più casta.
64
Non sol per suo diletto ella usar vole,
ma per infamar l’emula quest’arte,
perché temendo, se la vede il Sole,
non l’accusi a Vulcano overo a Marte,
vuol ch’egli, o qualche satiro, che suole
da lui fuggire in quell’ombrosa parte,
a Pan piuttosto il riferisca e dica,
ch’ancor Diana sua non è pudica.
65
Per più spedito agevolarsi il calle
l’aureo coturno si disfibbia e scalza,
poi del’obliqua ed intricata valle
premendo va la discoscesa balza.
L’erbe dal sole impallidite e gialle
verdeggian tutte, ogni fior s’apre ed alza;
sotto il piè pellegrin del bosco inculto
ogni sterpo fiorisce, ogni virgulto.
66
Ed ecco audace e temeraria spina,
ma quanto temeraria anco felice,
che la tenera pianta alabastrina
punge in passando, e ‘l sangue fuor n’elice
e vien di quella porpora divina
ad ingemmar la cima impiagatrice.
Ma colorando i fior del proprio stelo,
scolora i fior dela beltà del cielo.
67
Pallidetta s’arresta e dolorosa
que’ begli ostri a stagnar col bianco lino
e ‘n tanto folgorar vede la rosa,
già di color di neve, or di rubino.
Ma per doppia ferita ancor non posa,
né dela traccia sua lascia il camino.
Vinta la doglia è dal desire e cede
ala piaga del cor quella del piede.
68
Or giunta sotto il solitario monte,
dove raro uman piè stampò mai l’orme,
trova colà sul margine del fonte
Adon, che ‘n braccio ai fior s’adagia e dorme;
ed or che già dela serena fronte
gli appanna il sonno le celesti forme
e tien velato il gemino splendore,
veracemente egli rassembra Amore.
69
Rassembra Amor, qualor deposta e sciolta
la face e gli aurei strali e l’arco fido,
stanco di saettar posa talvolta
su l’Idalio frondoso o in val di Gnido
e dentro i mirti, ove tra l’ombra folta
han canori augelletti opaco nido,
appoggia il capo ala faretra e quivi
carpisce il sonno al mormorar de’ rivi.
70
Sicome sagacissimo seguso,
poiché raggiunta ha pur tra fratta e fratta
vaga fera talor, col guardo e ‘l muso
esplorando il covil fermo s’appiatta
e ‘n cupa macchia rannicchiato e chiuso
par che voce non oda, occhio non batta,
mentre il varco e la preda ov’ella sia
immobilmente insidioso spia,
71
così la dea d’amor, poiché soletta
giunge a mirar l’angelica sembianza,
ch’ale gioie amorose il bosco alletta
e del suo ciel le meraviglie avanza,
resta immobile e fredda, e ‘nsu l’erbetta
di stupor sovrafatta e di speranza,
siede tremante e il bel che l’innamora,
stupida ammira e reverente adora.
72
In atto sì gentil prende riposo,
che tutto leggiadria spira e dolcezza;
e ‘l Sonno istesso in sì begli occhi ascoso
abbandonar non sa tanta bellezza;
anzi par che, di lor fatto geloso,
di starsi ivi a diletto abbia vaghezza
e con nido sì bel non gli dispiaccia
cangiar di Pasitea l’amate braccia.
73
Placido figlio dela Notte bruna
il Sonno ardea d’amor per Pasitea
e perché questa dele Grazie er’una,
l’ottenne in sposa alfin da Citerea.
Or mentre che di lor se ‘n gia ciascuna
l’erbe scegliendo per lavar la dea,
scherzando intorno ignudo spirto alato
partir non si sapea dal vicin prato.
74
Vanno ove Flora i suoi tapeti stende
le Grazie a côr qual più bel fior germoglia.
Qual dala spina sua rapisce e prende
la rosa e qual del giglio il gambo spoglia.
Quella al balsamo ebreo la scorza fende,
questa al’indica canna il crin disfoglia.
Altra, ove suol vibrar lingue di foco,
ricerca di Cilicia il biondo croco.
75
Or il tranquillo dio, mentre che move
invisibil tra lor l’ali sue chete,
posar veggendo il bell’Adon là dove
tesson notte di fronde ombre secrete,
per piacer ala figlia alma di Giove,
gli pone agli occhi il ramoscel di Lete;
talché ben pote, oppresso in quella guisa,
star quanto vuole a contemplarlo assisa.
76
Tanta in lei gioia dal bel viso fiocca,
e tal da’ chiusi lumi incendio appiglia,
che tutta sovra a lui pende e trabocca
di desir, di piacer, di meraviglia.
E mentre or dela guancia, or dela bocca
rimira pur la porpora vermiglia,
sospirando, un oimé svelle dal petto,
che non è di dolor ma di diletto.
77
Qual industre pittor, che ‘ntento e fiso
in bel ritratto ad emular natura,
tutto il fior, tutto il bel d’un vago viso
celatamente investigando fura,
del dolce sguardo e del soave riso
pria l’ombra ignuda entro ‘l pensier figura,
poi con la man discepola del’arte
di leggiadri color la veste in carte,
78
tal ella quasi con pennel furtivo
l’aria involando del’oggetto amato,
beve con occhio cupido e lascivo
le bellezze del volto innamorato;
indi del’idol suo verace e vivo
forma l’essempio con lo strale aurato
e con lo stral medesimo d’Amore
se l’inchioda e confige in mezzo al core.
79
A piè gli siede e studia attentamente
come la bella imago in sen si stampi.
In lui si specchia ed al’incendio ardente
tragge nov’esca, onde più forte avampi.
Ma dele stelle innecclissate e spente
suscitati veder vorrebbe i lampi
e consumando va tra lieta e trista
in quel dolce spettacolo la vista.
80
Benché ‘l favor de’ rami ombrosi e densi
dal sol difenda il giovane che giace,
pur l’aria, impressa di vapori accensi
e ripercossa dal’estiva face
e quelche lega dolcemente i sensi
e sopisce i pensier sonno tenace,
il volto insieme ed umidetto ed arso
di fiamme tutto e di sudor gli han sparso,
81
onde la dea pietosa or dela vesta
il lembo, or un suo vel candido e lieve
in lui scotendo, a lusingar s’appresta
dela fronte e del crin l’ambra e la neve.
E mentre l’aria tepida e molesta
move e scaccia il calor noioso e greve,
con l’aure vane a vaneggiar intesa
sfoga in sospir l’interna fiamma accesa.
82
– Aure o Aure (dicea) vaghe e vezzose
peregrine del’aria, Aure odorate,
voi che di questa selva infra l’ombrose
cime sonore a stuol a stuol volate,
voi, cui de’ miei sospir l’aure amorose
doppian forza ale piume, Aure beate,
voi dal’estivo ingiurioso ardore
deh defendete il nostro amato amore!
83
Così di verno mai, così di gelo
ira nemica non v’offenda o tocchi;
e quando i monti han più canuto il pelo
dolce dale vostr’ali ambrosia fiocchi;
e securo vi presti il bosco e ‘l cielo
schermo dal vivo sol di que’ begli occhi;
e molle abbiate e di salute piena
ombra sempre tranquilla, aria serena. –
84
Indi al fiorito e verdeggiante prato,
letto del vago suo, rivolta dice:
– Terreno alpar del ciel sacro e beato,
aventurosi fiori, erba felice,
cui sostener tanta bellezza è dato,
cui posseder tanta ricchezza lice,
che del’idolo mio languido e stanco
siete guanciali al volto e piume al fianco,
85
sia quel raggio d’amor, che vi percote,
di sole in vece a voi, fiori ben nati.
Ma che veggio? che veggio? or che non pote
la virtù de’ begli occhi ancor serrati?
Dal bel color dele divine gote,
dal puro odor di que’ celesti fiati
vinta la rosa e vergognoso il giglio,
l’una pallida vien, l’altro vermiglio. –
86
Volgesi agli occhi e dice: – Un degli ardenti
vostri lampi, occhi cari, or mi consoli,
occhi vaghi e leggiadri, occhi lucenti
occhi de’ miei pensieri e porti e poli,
occhi dolci e sereni, occhi ridenti,
occhi de’ miei desiri e specchi e soli,
finestre del’aurora, usci del die,
possenti a rischiarar le notti mie.
87
Occhi, ov’Amor sostien lo scettro e ‘l regno,
ov’egli arrota i più pungenti artigli,
voi sol potete il mio battuto ingegno
campar dale tempeste e da’ perigli,
non men che stanco e travagliato legno
soglian di Leda i duo lucenti figli.
Già parmi in voi veder, veggio pur certo
tra due chiuse palpebre un cielo aperto.
88
Ma perché non v’aprite? e i dolci rai
non volgete a costei, ch’umil v’inchina?
Aprigli, neghittoso, e sì vedrai
a qual ventura il fato or ti destina.
Rendi ai sensi il vigor, richiama omai
l’anima da’ bei membri peregrina.
Ah non gli aprir! che chiuso anco il bel ciglio
spira l’ardor del mio spietato figlio.
89
Sonno, ma tu, s’egli è pur ver che sei
viva e verace imagine di Morte,
anzi di qualità simile a lei
suo germano t’appelli e suo consorte,
come, come potresti a’ danni miei
entrar del ciel nele beate porte?
con che licenza oltre l’usato ardita
puoi negli occhi abitar dela mia vita?
90
E se sei pur del’ombre e degli orrori,
oscuro figlio e gelido compagno,
come i cocenti raggi e i chiari ardori
soffri di quel bel viso, ond’io mi lagno?
Fuggi il rischio mortal! Semplici cori
fan tra i vezzi d’amor scarso guadagno.
Vanne vanne lontan, vattene in loco,
dove tanto non sia splendore e foco!
91
Ma se stender vuoi pur le brune piume
sovra il novello autor de’ miei tormenti,
deh! porgi a l’ombre tue tanto, di lume,
che l’imagine mia gli rappresenti,
laqual sicome dolce io mi consume
gli mostri in atti supplici e dolenti,
onde nel pigro cor, mentre giac’egli
sonnacchioso dormendo, Amor si svegli.–
92
Appena ha queste note ultime espresse,
che l’amico Morfeo, che l’è vicino,
fabrica d’aria e di vapori intesse
simulacro leggiadro e peregrino.
Di tai forme si veste e scopre in esse
di celeste beltà lume divino.
Donna, ch’è tutta luce e foco spira,
nel teatro del sonno Adone ammira.
93
Corona tal, ch’altrui la vista offende,
cerchia la fronte lucida e serena
e di gemme stellata avampa e splende
e di stelle gemmata arde e balena.
E dal titolo suo ben si comprende,
che non è chi la tien cosa terrena.
Havvi scritto dintorno in lettre aurate:
«madre d’Amore e dea dela beltate.»
94
Mentre d’alto stupore Adon vien manco,
già pargli già la bella larva udire,
che stendendo una man d’avorio bianco:
«Adon, dammi il tuo cor» gli prende a dire.
E fu quasi un sol punto aprirgli il fianco,
dispiccarglielo a forza e disparire.
Sognando il bel garzon si dole e geme,
siché la vera dea ne langue insieme,
95
e, traendo un sospir piano e sommesso,
tempra il novo martir che la tormenta
e languisce e gioisce a un tempo istesso,
spera, teme, arde, agghiaccia, osa e paventa.
La mano e ‘l sen s’empie di fiori e spesso
sul viso un nembo al bel fanciul n’aventa.
Indi, ché lui destar non vuol, s’inchina
dolcemente a baciar l’erba vicina.
96
Poscia il bel riso entro le labra accolto,
che ‘n carcere di perle s’imprigiona,
contempla attentamente e del bel volto
vagheggiando la bocca a lei ragiona:
– Urna di gemme, ov’è il mio cor sepolto,
a temedesma il mio fallir perdona,
s’io troppo ardisco; orché tu taci e dormi
l’alma, che mi rapisti, io vo’ ritormi.
97
Che fo (seco dicea) che non accosto
volto a volto pian piano e petto a petto?
Vola il tempo fugace e seco tosto,
seguito dal dolor, fugge il diletto.
Ahi! quel diletto, a cui non vien risposto
con bel cambio d’amor, non è perfetto,
né con vero piacer bacio si prende,
cui l’amata beltà bacio non rende.
98
Qual dunque tregua attendo a’ miei martiri
s’occasion sì bella oggi tralasso?
Ma s’avien che si svegli e che s’adiri,
dove rivolgerò confusa il passo?
Moveranno il suo cor pianti e sospiri
purché non abbia l’anima di sasso.
Non l’avrà, s’egli è bel. – Così dubbiosa
per baciarlo s’abbassa, e poi non osa.
99
Come resta il villan, s’ale fresch’onde
quando più latra in ciel Sirio rabbioso
corre per bere e vede insu le sponde
la vipera crudel prender riposo,
o come il cacciator, che fra le fronde
cerca di Filomena il nido ascoso
e ficcando la man dentro la cova
in vece del’augel, l’aspe vi trova,
100
così lieta in un punto e timidetta
trema costei, quanto pur dianzi ardia.
L’afflige la beltà, che la diletta,
il troppo stimular la fa restia.
Brama quelche l’offende ed è costretta
tuttavolta a temer quelche desia.
Pentesi, che tant’oltre erri il desire
e si pente ancor poi del suo pentire.
101
Tre volte ai lievi e dolci fiati appressa
la bocca e ‘l bacio e tre s’arresta e cede,
e sprone insieme e fren fatta a sestessa,
vuole e disvuole, or si ritragge, or riede.
Amor, che pur sollecitar non cessa,
la sforza alfine ale soavi prede,
sì ch’ardisce libar le rugiadose
di celeste licor purpuree rose.
102
Al suon del bacio, ond’ella ambrosia bebbe,
l’addormentato giovane destossi
e poi ch’alquanto in sé rivenne ed ebbe
dal grave sonno i lumi ebri riscossi,
tanto a quel vago oggetto in lui s’accrebbe
stupor, ch’immoto e tacito restossi;
indi da lei, ch’al’improviso il colse,
per fuggir sbigottito il piè rivolse.
103
Ma la diva importuna il tenne a freno:
– Perché (disse) mi fuggi? ove ne vai?
Mi volgeresti il bel’guardo sereno,
se sapessi di me ciò che non sai. –
Ed egli allora abbarbagliato e pieno
d’infinito diletto a tanti rai,
a tanti rai ch’un sì bel sol gli offerse,
chiuse le luci, indi le labra aperse,
104
ed: – O qual tu ti sia, ch’a me ti mostri
tutta amor, tutta grazia, o donna, o diva
diva certo immortal da’ sommi chiostri
scesa a bear questa selvaggia riva,
se van (disse) tant’alto i preghi nostri,
se reverente affetto il ciel non schiva,
spiega la tua condizion, qual sei
o fra gli uomini nata, o fra gli dei. –
105
A la madre d’Amor, ch’altro non vole
ch’aver le luci a quelle luci affisse,
parve, ch’aprendo l’un e l’altro sole
de’ duo begli occhi, il paradiso aprisse.
E le calde d’amor dolci parole,
ch’a lei tremando e sospirando disse,
le furo soavissime e vitali
fiamme al cor, lacci al’alma, al petto strali.
106
Ma pur del’esser suo celando il vero,
mentitrice favella intanto forma.
– Così poco conosci, incauto arciero,
lei, che non solo il primo cielo informa,
ch’ha nel centro infernal non solo impero,
ma da cui queste selve han legge e norma?
E pur m’imiti e segui a tutte l’ore.
(poco men che non disse: «e m’ardi il core»).
107
I’ men venia, sicome soglio spesso
quando l’estivo can ferve e sfavilla,
in questo bosco a meriggiar là presso
in riva al’onda lucida e tranquilla,
ch’una bolla vivente aperta in esso
di cavernosa pomice distilla
e forma un fonticel, ch’ale vicine
odorifere erbette imperla il crine,
108
quando il mio piè, che per l’estrema arsura,
sicome vedi, è d’ogni spoglia ignudo,
con repentina e rigida puntura
ago trafisse ingiurioso e crudo.
E bench’uopo non sia medica cura
per farmi incontr’al duol riparo e scudo,
colsi quest’erbe, il cui vigore affrena
il corso al sangue e può saldar la vena.
109
Ma perch’ogni mia ninfa erra lontano
e chi tratti non ho l’aspra ferita,
porgimi tu con la cortese mano,
a te ricorro, in te ricovro, aita. –
Qui del trafitto piè, del cor non sano
l’una piaga nasconde e l’altra addita
e scioglie, testimon de’ suoi martiri,
un sospiro diviso in duo sospiri.
110
Non era Adon di rozza cote alpina,
né di libica serpe al mondo nato.
Ma quando fusse ancor d’adamantina
selce e di crudo tosco un petto armato,
ogni cor duro, ogni anima ferina
fora da sì bel sol vinto e stemprato.
Né meraviglia fia, qualor s’accosta,
ch’arda a fiamma vorace esca disposta.
111
Reverenza, pietate, amore e tema
fan nel dubbioso cor fiera contesa;
ma perché deve ogni fortuna estrema
subitamente esser lasciata o presa,
non ricusa il favor, ma gela e trema,
mentre s’appresta a sì soave impresa,
in quel gesto pietoso ed attrattivo,
con cui ride languendo occhio lascivo.
112
– Santo nume (dicea) cui Cinto e Delo
porge voti, offre incensi, altari infiora,
vostra grande in abisso, in terra e ‘n cielo
virtù, chi non conosce e non adora?
Scusate il cor, se con perfetto zelo
celebrar non vi sa quanto v’onora
e l’ardir dela man prendete in pace,
che ‘n sì degn’opra è d’ubbidirvi audace.
113
Deh qual ventura mai, qual proprio merto
d’infelice mortal tant’alto giunse?
Ben ho da benedir questo deserto,
che le fide da voi serve disgiunse
e quel, per cui m’è tanto bene offerto,
spinoso stel, che ‘l bianco piè vi punse;
e vo’segnar per tante glorie mie
con pietra lesbia un sì felice die.
114
Scintillan tante fiamme e tanti raggi
nel sembiante, ch’io scorgo altero e bello
che dar poriano invidia e far oltraggi
al vostro ardente e lucido fratello.
Onde non già de’ boschi aspri e selvaggi,
ma dea de’ cori e degli amor v’appello;
che s’io m’affiso in voi, di veder parmi
al volto Citerea, Diana al’armi.–
115
Con questo ragionar del piè gentile
si reca in grembo l’animato latte
e, poscia che con vel bianco e sottile
n’ha le gelate stille espresse e tratte,
dela destra v’accosta assai simile
quasi in bel paragon, le nevi intatte.
Disse Amor, che non era indi lontano:
– Non volea sì bel piè men bella mano! –
116
Tasta la cicatrice e terge e tocca
morbidamente i sanguinosi avori
e, mentre un rio di nettare vi fiocca
tra cento erbe salubri e cento odori,
fan con occhio loquace e muta bocca
eco amorosa i tormentati cori,
dove invece di voce il vago sguardo
quinci e quindi risponde: «ardi, ch’io ardo»
117
Dicea l’un fra suo cor: – Deh! quali io miro
strani prodigi e meraviglie nove?
Il ciel d’amor dal cristallino giro
di sanguigne rugiade un nembo piove.
Quando tra gli alabastri unqua s’udiro
nascer cinabri in cotal guisa o dove?
Da fonte eburneo uscir rivi vermigli,
dale nevi coralli, ostri dai gigli?
118
Sangue puro e divin, ch’a poco a poco
fai sovra il latte scaturir le rose,
vorrei da te saver, sei sangue o foco,
che tante accogli in te faville ascose?
O non mai più vedute in alcun loco
gemme mie peregrine e preziose,
di sì nobil miniera usciste fore,
che ben si vende a tanto prezzo un core.
119
E tu candido piede insanguinato,
che di minio sì fino asperso sei
e ricca pompa fai così smaltato
de’ tesori d’amore agli occhi miei,
quanto più del mio cor sei fortunato,
del mio cor, che trafitto è da costei?
Langue ferita e di ferir pur vaga
impiagato m’ha il cor con la sua piaga.
120
A te fasciato pur di bianco invoglio
efficace licor rimedio serba.
Senza fasce ei si dole, al suo cordoglio
non giova industria d’arte o virtù d’erba.
Consenta pur Amor, che s’io mi doglio,
trovi ristoro almen la doglia acerba
e, stringendomi il fianco in dolce laccio,
se mi ferisce il piè, mi sani il braccio.
121
Chi più giamai di me felice fia,
s’egli averrà, che questa bella essangue,
ch’al chiuder dela sua la piaga mia
apre così, che ‘l cor ne geme e langue,
d’omicida crudel medica pia
m’asciughi il pianto, ov’io l’asciugo il sangue?
siché tra noie e gioie e guerre e paci
quante mi dà ferite io le dia baci? –
122
– Lassa (l’altra dicea) che dolce pena!
Questa, che la mia piaga annoda e cinge,
non è fascia, anzi è ceppo, anzi è catena,
che mentre il piè mi lega, il cor mi stringe.
Questo purpureo umor, che ‘n larga vena
di vivace rossor mi verga e tinge,
ahi! ch’è l’anima mia, che ‘n sangue espressa
vuole a costui sacrificar sestessa.
123
Erbe felici, ch’ale mie ferute
dolor recate e refrigerio insieme,
benché d’alto valor, quella virtute
che vive in voi, non è virtù di seme.
Vien dala bella man la mia salute,
da quella man, che vi distilla e preme,
emula de’ begli occhi e del bel viso,
che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.
124
O bella mano, ond’è che curar vuoi
la piaga del mio piè con tanto affetto?
Forse sol per poter farmene poi
mille più larghe e più profonde al petto?
Fors’è destin, che fuor ch’a’ colpi tuoi,
non dee corpo celeste esser soggetto.
La palma, che di me morte non ebbe,
a te sol si concede, a te si debbe.
125
Ma che più tardo a disvelar quest’ombra,
che tiene il mio splendor di nube cinto?
S’or che le mie bellezze in parte adombra
magica benda, il mio aversario è vinto,
che fia quando ogni nebbia intutto sgombra,
verrà che ceda al vero oggetto il finto? –
Disse e squarciando le fallaci larve,
in propria effigie al giovinetto apparve.
126
Qual vergine talor semplice e pura
s’avien, ch’astuta mano alzi e discopra
drappo, ch’alcuna in sé sacra figura
effigiata ad arte abbia di sopra,
ma secreta nasconda altra pittura,
di lascivo pennel piacevol opra,
tingendo il bel candor di grana fina,
dal’inganno confusa, i lumi inchina,
127
tal si smarrisce Adon, quando scoverto
dela dea gli si mostra il lume intero;
e tanto più, pur di sognar incerto,
d’alta confusion colma il pensiero,
perché conosce espressamente aperto
del sogno suo nela vigilia il vero,
rivedendo colei, che poco dianzi,
rubatrice del cor gli apparve innanzi.
128
Al bel garzon, che stupefatto resta
veduto il primo aspetto in aria sciolto,
la bella dea discopre e manifesta
in un punto medesmo il core e ‘l volto:
– Ben mio (dicea) qual meraviglia è questa,
che tra dubbi pensier ti tiene involto?
quel traveder, che ti fa star dubbioso,
fu di mia deità scherzo amoroso.
129
Or non più mi nascondo. Io mi son quella
per cui d’amore il terzo ciel s’accende;
quella son io, la cui lucente stella
innanzi al sole, emula al sol risplende.
Taccio che dal mio bel, qualunque bella
bella è detta quaggiù, bellezza prende,
taccio che figlia son del sommo padre:
dirò sol ch’amo e che d’Amor son madre.
130
Quando ben fusse a tua notizia ignoto
quelche t’abbaglia, insolito splendore,
qual è clima sì inospito e remoto,
alma qual’è, che non conosca amore?
Che se pur poco agli altri sensi è noto,
malgrado suo n’ha conoscenza il core.
Se ti piace d’amor dunque il piacere,
dimmi il tuo stato e dammi il tuo volere. –
131
Sì disse e Pito il persuase e vinse,
ch’entro le labra dela dea s’ascose;
Pito, ministra sua, d’ambrosia intinse
quelle faconde ed animate rose;
Pito in leggiadri articoli distinse
le note accorte e ‘l bel parlar compose;
Pito dala dolcissima favella
sparse catene ed aventò quadrella.
132
Fusse la gran soavità di queste
voci, che ‘l giovenil petto percosse,
o del bel cinto, ond’ella il fianco veste,
pur la virtù miracolosa fosse,
dal dolce suon del ragionar celeste
invaghito il fanciul tutto si mosse;
ma quelche ‘n lui più ch’altro ebbe possanza,
fu la divina oltramortal sembianza.
133
Un diadema Ciprigna avea gemmante,
gemme possenti a concitare amore:
v’era la pietra illustre e folgorante,
ch’ha dala luna il nome e lo splendore,
la calamita, ch’è del ferro amante
e l’giacinto, ch’a Cinzio accese il core.
Ma la virtù de’ lucidi gioielli
fu nulla appo l’ardor degli occhi belli.
134
La destra ella gli stese e ‘l vago lino
scorciò, che nascondea la neve pura,
ond’implicato in un cerchietto fino,
che con mista di gemme aurea scultura
facea maniglia al gomito divino
rigido di barbarica ornatura,
fuss’arte o caso, dilicato e bianco
fece il fuso veder del braccio manco.
135
Tenea, com’io dicea, le membra belle
appannate d’un vel candido e netto
e, quai d’Adria veggiam donne e donzelle,
infin sotto le poppe ignudo il petto.
Fe’ vista allor tra ‘l seno e le mammelle
voler groppo annodar non ben ristretto
e più leggiadra e più secreta parte
fingendo di coprir, scoverse ad arte.
136
Mentre languia l’innamorata dea,
Adon con fise ciglia in lei rivolto
tutto rapito a contemplar godea
le meraviglie del celeste volto
e quivi in vista attonito scorgea
il bel del bello in breve spazio accolto.
Fra i detti intanto e fra gli sguardi amore
gli entrò per gli occhi e per l’orecchie al core.
137
Nel’udir, nel mirar s’accese ed arse
di non sentite ancor fiamme novelle
e del foco del cor l’incendio sparse
su per le guance dilicate e belle.
Inchinò a terra, onestamente scarse,
vergognosetto le ridenti stelle,
poi verso lei con un sospir le volse,
alfin lo spirto in queste voci sciolse:
138
– O dea cortese, o s’altro è pur fra noi
titol, ch’a maestà tanta convegna,
qual può mai cosa offrir vil servo a voi,
la cui pietà di cotal grazia il degna?
Lo scettro no, poiché ne’ regni suoi
povero diredato or più non regna;
la vita no, che da voi dei fatali
il vivere e ‘l morir pende a’ mortali.
139
Voi siete tal, ch’altri non può mirarvi,
che mirando d’amor non sen’accenda;
ma non può alcuno accendersi ad amarvi,
ch’amando non v’oltraggi e non v’offenda.
Offesa v’è servirvi ed adorarvi,
v’oltraggia uom vil, che cotant’alto intenda,
perché con quel, ch’ogni misura passa,
proporzion non ha scala sì bassa.
140
Non dee tanto avanzarsi umano ardire,
che presuma d’amar bellezza eterna,
ma curvar le ginocchia e reverire
con devota umiltà chi ‘l ciel governa.
È ben ver che, qualora entra in desire
d’inferior natura alma superna,
quella bontà, quella virtù sublime
nel’amato suggetto il merto imprime.
141
Quel merto, ch’esser suol d’amor cagione
in noi mortali, è in voi celesti effetto,
siché, quando alcun dio d’amar dispone
uom terreno e caduco, il fa perfetto;
che, benché disegual sia l’unione,
l’un del’altro però sgombra il difetto;
e d’ogni indignità purgando il vile,
ciò ch’è per sé villan, rende gentile.
142
Amor di voi m’innamorò per fama
pria ch’a veder vostra beltà giungessi
e da lunge v’amai non men che s’ama
oggetto bel, ch’ingorda vista appressi.
Orché, quanto il mio cor sospira e brama
son condotto a mirar con gli occhi istessi,
e ch’oltre il rimirarvi altro m’è dato,
vo’, contentando voi, far me beato.
143
Quanto darvi mi lice e quanto è mio
vi sacro e del’ardir cheggio perdono.
Se degno son di voi, vostro son io
e se il cor vi fia in grado, il cor vi dono.
Se mendica è la man, ricco è il desio,
siete donna di me più ch’io non sono.
Né fuorché l’amor vostro amar potrei,
né potendo voler, poter vorrei.
144
Il mio volere al voler vostro è presto
tanto che quasi in me nulla n’avanza.
Lo stato mio, s’a tutti è manifesto,
come a voi di celarlo avrei baldanza?
Mirra, dirollo, il cui nefando incesto
la vergogna rinova ala membranza,
fu la mia genitrice e da colui
che generolla, generato io fui.
145
Ed or selvaggio cacciator ramingo,
sagittario di damme e di cervette,
l’arco per mio trastullo incocco e stringo
ed impenno la fuga ale saette.
Felice error, che per l’orror solingo
di quest’ombre beate e benedette
fuor di via mi tirò, né ciò mi dole,
poiché perdo una fera e trovo un sole.
146
Ne’ be’ vostr’occhi, per cui vivo e moro,
l’anima omai depositar mi piace;
ma perché ‘l cor sacrificato in loro
già sento già, che ‘n vivo ardor si sface
e perch’a quella bocca, ov’è ‘l tesoro
d’amor, non è d’avicinarsi audace,
ecco, con questo bacio, ancorché indegno,
a te, candida mano, io la consegno. –
147
Ed ella allor: – Che tu ti sia, mia vita,
esperto arcier, saettatore accorto
altra prova non vo’che la ferita,
che ‘n mezzo al petto immedicabil porto.
Ma d’aver tal beltà mai partorita,
Mirra, credilo a me, si vanta a torto,
perché fra l’ombre il sol non si produce,
né può la notte generar la luce.
148
Ella il padre ingannò di notte oscura
e tu porti negli occhi un dì sereno.
Ella di scorza alpestra il corpo indura
e tu più che di latte hai molle il seno.
Ella amara e spiacente è per natura
e tu sei tutto di dolcezza pieno.
Ella distilla lacrimosi umori
e tu fai lagrimar l’anime e i cori.
149
Sol quelle luci tue rapaci e ladre,
ch’involando da’ petti i cori vanno,
parto furtivo di furtiva madre
t’accusan nato e con furtivo inganno.
Or se membra sì belle e sì leggiadre
fur concette di furto e furar sanno
non ti meravigliar, se voglio anch’io,
che chi mi fura il cor sia furto mio.
150
Non pur gli occhi e le mani a tuo talento,
la bocca e ‘l sen t’è posseder concesso,
ma t’apro il proprio fianco e ti presento
in cambio del tuo core il core istesso.
Vedrai, che quell’amor, ch’al core io sento,
t’ha sculto no, ma trasformato in esso,
ché sei de’ miei pensieri unico oggetto
e ch’altro cor che te non ho nel petto. –
151
Con tai lusinghe il lusinghiero amante
la lusinghiera dea lusinga e prega.
Ella arditetta poi la man tremante
gli stende al collo e dolcemente il lega.
Qui, mentr’Amor superbo e trionfante
l’amoroso vessillo in alto spiega,
strette a groppi di braccia ambe le salme,
ammutiscon le lingue e parlan l’alme.
152
Dolce de’ baci il fremito rimbomba
e, furandone parte invido vento,
degli assalti d’amor sonora tromba,
per la selva ne mormora il concento;
a cui la tortorella e la colomba
rispondono con pur con cento baci e cento.
Amor de’ furti lor dal vicin speco,
occulto spettator, sorrise seco.
153
Fu così stretto il nodo, onde s’avinse
l’aventurosa coppia e sì tenace,
che non più forte vite olmo mai strinse,
smilace spina o quercia edra seguace.
Vaga nube d’argento ambo ricinse,
quivi gli scorse e chiuse Amor sagace,
la cui perfidia vendicando l’onta
con mille piaghe una sferzata sconta.
154
La bella dea, che ‘nsanguinò la rosa,
benché trafitta il sen di colpo acerbo,
contro il figliuol non si mostrò sdegnosa
per non farlo più crudo e più superbo;
ma premendo nel cor la piaga ascosa,
si morse il dito e disse: – Io tela serbo.
Per questa volta con l’altrui cordoglio
tanta mia gioia intorbidar non voglio. –
155
Poi le luci girando al vicin colle,
dov’era il cespo, che ‘l bel piè trafisse,
fermossi alquanto a rimirarlo e volle
il suo fior salutar pria che partisse;
e vedutolo ancor stillante e molle
quivi porporeggiar, così gli disse:
– Salviti il ciel da tutti oltraggi e danni,
fatal cagion de’ miei felici affanni.
156
Rosa riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior donna sublime.
157
Quasi in bel trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona e d’ostro il manto.
158
Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
159
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.
160
E ben saran tra voi conformi voglie,
di te fia ‘l sole e tu del sole amante.
Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie
l’Aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno
porterai sempre un picciol sole in seno.
161
E perch’a me d’un tal servigio ancora
qualche grata mercé render s’aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual donna più bella il mondo onora
io vo’ che tanto sol bella sia detta,
quant’ornerà del tuo color vivace
e le gote e le labra. – E qui si tace.
162
Il palagio d’Amor ricco e pomposo
da quel bosco lontan non era guari,
ma di ciò che tenea nel grembo ascoso
degni giamai non fece occhi vulgari.
Non molto andar, che di fin or squamosi
vider lampi vibrar fulgidi e chiari
il tetto, onde facea mirabilmente
l’edificio sublime ombra lucente.
163
Quella casa magnifica, che raro
al’altrui vista i suoi secreti aperse,
al novo comparir d’oste sì caro
quanto di bello avea tutto gli offerse;
e non sol di quel loco illustre e chiaro
la gloria incomparabile scoverse,
ma l’attuffò nel pelago profondo
di quante ha gioie e meraviglie il mondo.
164
Nela torre primiera a destra mano
entrando il bell’Adon le piante mosse
e si trovò dentro un cortile estrano,
il più ricco, il più bel, che giamai fosse.
Quadro è il cortile e spazioso e piano
ed ha di pietre il suol candide e rosse.
Par che ‘l pavese un tavolier somigli
scaccheggiato a quartier bianchi e vermigli.
165
Torreggiante nel mezzo ampia e sublime
sorge lumaca, onde si scende e poggia.
Quattr’archi, ch’escon fuor dele sue cime,
fanno una croce, ch’ai balcon s’appoggia,
a cui congiunte son le stanze prime,
onde scorrer si può di loggia in loggia,
sì ch’una scala abbraccia e signoreggia
per quattro corridoi tutta la reggia.
166
Ne’ quattro quarti intorno, onde il cortile
dala croce diviso si comparte,
havvi intagliate da scarpel fabrile
quattro illustri fontane, una per parte,
di lavor sì stupendo e sì sottile,
che ben si scorge che divina è l’arte.
Due d’alabastro e d’agata scolpite,
una di corniola, una d’ofite.
167
Nettuno è in una, in atto effigiato
di ferir col tridente un scoglio alpino
e ne fa scaturir per ogni lato
fiume d’acqua lucente e cristallino.
Sta sovra un nicchio da delfin tirato,
vomita ancor cristallo ogni delfino.
Quattro tritoni intorno in mille rivi
versan per le lor trombe argenti vivi.
168
Nel’altra entr’una pila incisi e scolti,
ch’a colonnetta picciola fa tetto,
stan tergo a tergo l’un l’altro rivolti
Piramo e Tisbe con la spada al petto;
e spruzzan fuor molti ruscelli e molti
per la piaga mortal di vino schietto,
onde viene a cader per doppia canna
dentro il vaso maggior purpurea manna.
169
Tien l’altra fonte in una conca tonda
seno a seno congiunto e bocca a bocca
Ermafrodito insu la fresca sponda,
che la bella Salmace abbraccia e tocca
ed a questa ed a quello in guisa d’onda
dale membra e da’ crini ambrosia fiocca
e su i lor capi una grand’urna piena
piove nettare puro in larga vena.
170
La quarta esprime Amor, che sovra un sasso
quasi dormendo si riposa in pace.
Le Grazie sotto lui stan più da basso,
come per custodir l’arco e la face.
Sparge balsamo fuor per lo turcasso
l’orbo fanciul, che sonnacchioso giace;
e l’amorose sue vaghe donzelle
stillan l’istesso umor per le mammelle.
171
Per l’alloggio d’Adon tra quelle mura
va in volta la sollecita famiglia;
ma mentreché la dea minuta cura
degli affari domestici si piglia,
col figlio a risguardar l’alta struttura
in disparte il garzon trattien le ciglia;
e chi sia dela fabbrica che vede,
il possessor, l’abitator, gli chiede.
172
– Questo (con un sospiro Amor risponde)
che cotante in sé chiude opre sublimi,
è il mio diletto albergo ed ho ben donde
pregiarlo sì, che sovra ‘l ciel lo stimi.
Qui già le dolci mie piaghe profonde,
qui, lasso, incominciar gl’incendi primi,
qui per colei, che preso ancor mi tiene,
fu il principio fatal dele mie pene.
173
Non creder tu che libera se n’vada
dale forze amorose alma divina,
ch’a bramar quel piacer, che tanto aggrada,
forte desir naturalmente inclina.
Ch’a questa legge sottogiaccia e cada
anco il re de’ celesti, il ciel destina.
Ed io pur io, dala cui mano istessa
piove gioia e dolor, passai per essa.
174
Non restai di languir, perch’io possegga
la face eterna, insuperabil dio,
e tratti l’arco onnipotente e regga
gli elementi e le stelle a voler mio.
E se m’ascolterai, vo’ che tu vegga,
che fui dal proprio stral ferito anch’io
e che del proprio foco acceso il core
ed arse e pianse innamorato Amore. –
175
Così l’arcier, che di Ciprigna nacque,
venia di Mirra al bel figliuol parlando;
e perch’assai d’udirlo ci si compiacque,
ale sue note attenzion mostrando,
il dir riprese e, poich’alquanto tacque,
non però già di passeggiar lasciando,
nel grazioso Adon gli occhi converse
e ‘n più lungo parlar le labra aperse.
LA NOVELLETTA.

ALLEGORIA

La favola di Psiche rappresenta lo stato dell’uomo. La città dove nasce, dinota il mondo. Il re e la reina, che la generano, significano Iddio e la materia. Questi hanno tre figliuole, cioè la Carne, la Libertà dell’arbitrio e l’Anima; la qual non per altro si finge più giovane, se non perché vi s’infonde dentro dopo l’organizzamento del corpo. Descrivesi anche più bella, percioch’è più nobile della Carne e superiore alla Libertà. Per Venere, che le porta invidia, s’intende la Libidine. Costei le manda Cupidine, cioè la Cupidità, laquale ama essa Anima e si congiunge a lei, persuadendole a non voler mirar la sua faccia, cioè a non volere attenersi ai diletti della concupiscenza né consentire agl’incitamenti delle sorelle Carne e Libertà. Ma ella a loro instigazione entra in curiosità di vederlo e discopre la lucerna nascosta, cioè a dire palesa la fiamma del disiderio celata nel petto. La lucerna, che sfavillando cuoce Amore, dimostra l’ardore della concupiscibile, che lascia sempre stampata nella carne la macchia del peccato. Psiche, agitata dalla Fortuna per diversi pericoli e dopo molte fatiche e persecuzioni copulata ad Amore, è tipo della istessa anima, che per mezzo di molti travagli arriva finalmente al godimento perfetto.

ARGOMENTO

Giunto al’albergo de’ vezzosi inganni
il bell’Adon, là dov’Amor s’annida,
gli conta Amor, che lo conduce e guida,
le fortune di Psiche e i propri affanni.

1
È di dura battaglia aspro conflitto
questa che vita ha nome, umana morte,
dov’ognor l’uom con mille mali afflitto
vien combattuto da nemica sorte.
Ma fra l’ingiurie e fra i contrasti invitto
non però sbigottisce animo forte,
anzi contr’ogni assalto iniquo e crudo
s’arma e difende, e sua virtù gli è scudo.
2
Talor ne tocca la paterna verga,
ma ‘l suo giusto rigor non è crudele,
anzi perché la polvere disperga
ne scote i panni e porta in cima il mele.
Non desperi mai sì che si sommerga
chi per quest’ocean spiega le vele,
ma de’ flutti e de’ venti al fiero orgoglio
faccia un’alta costanza ancora e scoglio.
3
Sembra il flagel, che correggendo avisa
anima neghittosa, amaro in vista,
ma di salubre pur calice in guisa
la purga e giova altrui, mentre ch’attrista.
Vite dal podador tronca e recisa
fecondità dale sue piaghe acquista.
Statua dalo scarpel punta e ferita
ne diventa più bella e più polita.
4
Selce, ch’auree scintille in seno asconde,
il lor chiuso splendor mostrar non pote,
se dal’interne sue vene profonde
non le tragge il focil che la percote.
Corda sonora a dotta man risponde
con arguta armonia di dolci note
e ‘l vantaggio che trae di tal offesa,
quanto battuta è più, vie più palesa.
5
Rotta la conca da mordace dente,
la porpora real si manifesta.
Né del gran, né del vin si gusta o sente
l’eccellenza e ‘l valor, se non si pesta.
Stuzzicato carbon vien più cocente,
soffiata fiamma più s’accende e desta,
palla a terra sospinta al ciel s’inalza
e sferzato palco più forte sbalza.
6
La fatica e ‘l travaglio è paragone,
dove provar si suol nostra finezza;
né senz’affanno e duol, premi e corone
può di gloria ottener vera fortezza.
Del’amica d’Amor, tel mostri Adone
la tribulata e misera bellezza,
orch’egli i tanti suoi strani accidenti
ti prende a raccontar con tali accenti:
7
– In real patria e di parenti regi
nacquer tre figlie, d’ogni grazia ornate.
Natura l’arricchì di quanti pregi
possa in un corpo accumular beltate.
Ma versò de’ suoi doni e de’ suoi fregi
copia maggior nela minore etate,
peroché la più giovane sorella
era del’altre due troppo più bella.
8
Le prime due, quantunque accolta in esse
fusse d’alte bellezze immensa dote,
tai non eran però, che non potesse
umana lingua esprimerla con note.
Ma l’ultima di loro, a cui concesse
quanto di bello il ciel conceder pote,
tanto d’ogni beltà passava i modi,
ch’era intutto maggior del’altrui lodi.
9
Per alpestri sentier stampando l’orme
nazion peregrine e genti estrane
per veder s’era al grido il ver conforme
vi concorrean da region lontane
e, giunte a contemplar sì belle forme,
dico quel fior dele bellezze umane,
si confessavan poi tutti costoro
obligati per sempre agli occhi loro.
10
Dal desir mossi e dala fama tratti
or quinci or quindi artefici e pittori,
per fabricarne poi statue e ritratti,
veniano e con scarpelli e con colori
e, sospesi in mirarla e stupefatti,
immobili non men de’ lor lavori
dal’attonita mano e questi e quelli
si lasciavan cader ferri e pennelli.
11
Quel divin raggio di celeste lume,
ch’avrebbe il ghiaccio istesso arso e distrutto,
risplendea sì, che qual terrestre nume
adorata era omai dal popol tutto;
loqual dela gran dea, che dale spume
prodotta fu del rugiadoso flutto,
tutti gli onor, tutte le glorie antiche
publicamente attribuiva a Psiche.
12
Sì di Psiche la Fama intorno spase,
tal era il nome suo, celebre il grido,
che questa opinion si persuase
di gente in gente in ogni estremo lido.
Pafo d’abitator vota rimase,
restò Citera abbandonata e Gnido;
nessun più vi recava ostia, né voto
orator fido o passaggier devoto.
13
Manca il concorso ai frequentati altari,
mancano i doni ala gran diva offerti;
non più di fiamme d’or lucenti e chiari,
ma son di fredde ceneri coverti.
Da simulacri venerati e cari
omai non pendon più corone o serti.
Lasciando d’onorar più Citerea,
sacrifica ciascuno a questa dea.
14
Crede ciascun, che stupido s’affisa
di que’ begli occhi ai luminosi rai,
novo germe di stelle in nova guisa
veder, non più quaggiù veduto mai;
e dala terra e non dal mar s’avisa
esser più degna e più gentile assai
pullulata altra Venere novella,
casta però, modesta e verginella.
15
La vera dea d’amor, che dal ciel mira
cotanto insolentir donna mortale,
e vede pur, che ‘ndegnamente aspira
a divin culto una bellezza frale,
impaziente a sostener più l’ira,
dassi in preda ai furori in guisa tale,
che crollando la fronte e ‘l dito insieme,
questi accenti fra sé mormora e freme:
16
«Or ecco là chi da’ confusi abissi
l’universo costrusse e ‘l ciel compose,
per cui distinto in bella serie aprissi
l’antico seminario dele cose;
colei ch’accende i lumi erranti e i fissi
e ne fa sfavillar fiamme amorose;
di quanto è nato, e quanto pria non era
la madre prima e la nutrice vera.
17
Con la mia deità dunque concorre
un corpo edificato d’elementi?
Soffrirò ch’ogni vanto a me di torre
creatura caduca ardisca e tenti?
che sovra l’are sue vittime a porre,
sprezzando i templi miei, vadan le genti?
che ‘l sacro nome mio con riti insani
in suggetto mortale or si profani?
18
Sì sì soffriam, che con oltraggio indegno
nostra compagna pur costei si dica;
che commune abbia meco il nume e ‘l regno
la mia vicaria in terra, anzi nemica.
Ancor di più: dissimuliam lo sdegno,
che siam dette io lasciva, ella pudica;
ond’io ceda in tal pugna e far non basti,
che non mi vinca ancor, nonché contrasti.
19
Deh, che mi val, già figlia al gran tonante,
posseder d’ogni onor le glorie prime?
e poter dela via bianca e stellante
a mio senno varcar l’eccelse cime?
qual prò, ch’ogni altro dio m’assorga avante
come a dea tra le dee la più sublime?
e che quantunque il sol vede e camina,
mi conosca e confessi alta reina?
20
Lassa, i’ son pur colei, ch’ottenni in Ida
titolo di beltà sovra le belle,
e ‘l litigato d’or pomo omicida
trionfando portai meco ale stelle;
che fu principio a così lunghe strida
ed esca del’argoliche fiammelle,
onde sorser tant’armi e tanti sdegni,
per cui già d’Asia inceneriro i regni.
21
Ed or fia ver, che ‘n temeraria impresa
la palma una vil femina mi tolga?
Attenderò, che fin in cielo ascesa
l’orbe mio, la mia stella aggiri e volga?
Ah, di divina maestate offesa
giusto fia ben ch’omai si penta e dolga;
ché l’ingiuria, in colui che tempo aspetta,
cresce col differir dela vendetta.
22
Qualqual si sia, l’usurpatrice ardita
del grado altier di sì sublime altezza,
non molto gioirà, non impunita
n’andrà lunga stagion di sua sciocchezza;
vo’ che s’accorga, alfin tardi pentita,
che dannosa le fu tanta bellezza.
Stolta del’alte dive emula audace,
io ti farò.» Qui tronca i detti e tace.
23
Il carro ascende e d’impiegar disegna
del figlio in quest’affar le forze e l’armi;
ma convien ch’i suoi cigni a fren ritegna,
ché dubbiosa non sa dove trovarmi.
Per le belle contrade, ov’ella regna,
di lido in lido invan prende a cercarmi,
poiché quivi e pertutto in terra e ‘n cielo,
come e quando mi piace, altrui mi celo.
24
Prendo qual forma voglio a mio talento
e con l’acque e con l’aure io mi confondo.
Talor grande così mi rappresento,
che visibil mi faccio a tutto il mondo.
Talvolta poi sì picciolo divento,
ch’entro il giro d’un occhio anco m’ascondo.
Infin son tal, che benché m’abbia in seno
chi più mi sente, mi conosce meno.
25
Lascia la Grecia e prende altri sentieri,
vaga d’udir novelle, ov’io mi sia;
né più del’Asia entro i famosi imperi
dele vestigia mie la traccia spia,
ma stimulando i musici corsieri,
verso le piagge italiche s’invia,
ché sa ben quanto in que’ fioriti poggi,
vie più ch’altrove, io volentieri alloggi.
26
Giunge in Adria la bella e quivi intese
che v’albergava il mio nemico Onore
e Beltà cruda ed Onestà cortese,
Nobiltà, Maestà, Senno e Valore.
Passò poscia a Liguria e vi comprese
apparenza d’amor vie più ch’amore,
ch’io ne’ begli occhi e ne’ leggiadri aspetti
sol vi soglio abitar, ma non ne’ petti.
27
Vide poi la Marecchia e ‘l Serchio e ‘l Varo
la Brenta, il Brembo e la Livenza e ‘l Sile
e l’Adda e l’Oglio e ‘l Bacchiglione alparo,
superbo il Mincio, il picciol Reno umile,
il Tanaro, il Tesin, la Parma e ‘l Taro,
e la Dora, che d’or riveste aprile,
e Stura e Sesia e, di fresche ombre opaco,
da foce aurata scaturir Benaco.
28
Quindi al gran trono degli erculei regi
su l’Po volando i bianchi augei rivolse,
dove ricca sedea d’illustri fregi
la città, che dal ferro il nome tolse.
Ma le fu detto, che Fortuna i pregi,
di cui fiorir solea, sparse e disciolse;
mille già v’ebbi un tempo e palme e prede,
poi tra Secchia e Panara io cangiai sede.
29
Non lunge dal maggior fiume toscano
vide l’Arbia con l’Ombro, indi il Metauro
e con l’Isapi, suo minor germano,
presso il Ronco e ‘l Monton correr l’Isauro
e ‘l Tremisen, là dove il verde piano
vermiglio diverrà del sangue mauro,
e dal freddo Appennin discender Trebbia,
genitor di caligine e di nebbia.
30
Tra’ campi arrivò poi fertili e molli,
dove del Tebro il mormorio risona
e de’ suoi sette trionfanti colli
il gran capo del Lazio s’incorona.
Ma seppe quivi furiosi e folli
più tosto soggiornar Marte e Bellona
e con Perfidia e Crudeltà tra loro
baccar sete di sangue e fame d’oro.
31
Posciaché quindi le lombarde arene
ha tutte scorse e quanto irriga l’Arno
e quinci di Clitunno e d’Aniene
e d’altri frati lor le rive indarno,
a visitar dal Gariglian ne viene
Crati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno
e vede irne tra lor pomposo e lieto
degli onori di Bacco il bel Sebeto.
32
Quivi tra ninfe amorosette e belle
trovommi a conquistar spoglie e trofei.
E seben tempo fu ch’io fui di quelle
già prigionier con mille strazi rei,
alme però non ha sotto le stelle
che sien più degni oggetti a’ colpi miei,
né so trovar altrove in terra loco,
dove più nobil esche abbia il mio foco.
33
Allor mi stringe entro le braccia e mille
groppi mi porge d’infocati baci,
poi per l’oro immortal, per le faville
dele quadrella mie, dele mie faci,
quanto può mi scongiura e vive stille
mesce di pianto a suppliche efficaci,
che senza vendicarla io non sopporti
più lungamente i suoi dispregi e i torti.
34
Dela bella rubella in voce amara
l’orgoglio e ‘l fasto a raccontar mi prende
e come seco in baldanzosa gara
contumace beltà pugna e contende.
Distinto alfine il suo desir dichiara
e quanto brama ad esseguir m’accende.
Vuol che di stral villano il cor le punga,
e ch’a sposo infelice io la congiunga.
35
Uom, che povero d’or, colmo di mali
e da Natura e da Fortuna oppresso,
sia, cadavere vivo infra i mortali,
sich’abbia invidia ai morti, odio a sestesso
e senza essempio di miserie eguali
tutto voti Pandora il vaso in esso.
Ch’a tal consorte, in tal prigion la stringa
mi comanda, mi prega e mi lusinga.
36
Scorgemi intanto al loco, ove m’addita
la meraviglia dele cose belle,
che, circondata intorno e custodita
da vago stuol di leggiadrette ancelle,
par, tra le spine sue, rosa fiorita,
par la luna, anzi il sole infra le stelle.
«Mira colà, quella è la rea (mi dice)
dele bellezze mie competitrice.»
37
Dal carro, che con morso aureo l’affrena,
scioglie, ciò detto, le canute guide
e d’un delfino insu l’arcuta schiena
solca le vie de’ pesci e ‘l mar divide.
Così di Cipro ala nativa arena
torna, che lieta al suo ritorno arride;
ed io rimango a contemplar soletto
quel sovruman, sovradivino oggetto.
38
Veggio doppio oriente e veggio dui
cieli, che doppio sol volge e disserra,
dico que’ lumi perfidi, ch’altrui
uccidon prima e poi bandiscon guerra,
siché mirando un cor quel bello, a cui
paragon di beltà non ha la terra,
quando pensa al riparo il malaccorto
e vuol chieder mercé, si trova morto.
39
Né dele guance la vermiglia aurora
al sol degli occhi di bellezza cede,
i cui candori un tal rossor colora,
qual in non colto ancor pomo si vede.
Ombra soave, ch’ogni cor ristora,
un rilievo vi fa, che non eccede,
e con divorzio d’intervallo breve
distingue in duo confin l’ostro e la neve.
40
Somiglia intatto fior d’acerba rosa,
ch’apra le labra dele fresche foglie
l’odorifera bocca e preziosa,
ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie,
che l’India non dirò ricca e famosa,
ma ‘l ciel nulla ha di bel, s’a lei nol toglie.
Se parla o tace, o se sospira o ride,
che farà poi baciando? i cori uccide.
41
In reticella d’or la chioma involta,
più ch’ambra molle e più ch’elettro bionda,
o stretta in nodi, o in vaghe trecce accolta,
o su gli omeri sparsa ad onda ad onda,
tanto tenace più, quanto più sciolta,
tra procelle dorate i cori affonda.
L’aure imprigiona, se talor si spiega,
e con auree catene i venti lega.
42
Che dirò poi del candidetto seno,
morbido letto del mio cor languente?
ch’a’ bei riposi suoi, qualor vien meno,
duo guanciali di gigli offre sovente?
Di neve in vista e di pruine è pieno,
ma nel’effetto è foco e fiamma ardente;
e l’incendio, che ‘n lor si nutre e cria,
le salamandre incenerir poria.
43
Quand’ebbi quel miracolo mirato,
dissi fra me, da me quasi diviso:
«Sono in ciel? sono in terra? il ciel traslato
è forse in terra? o cielo è quel bel viso?
sì sì, son pur lassù, son pur beato
tuttavia, come soglio, in paradiso.
Veggio la gloria degli eterni dei;
la bella madre mia non è costei?
44
No che non è, vaneggio, il ver confesso,
Venere da costei vinta è di molto.
Ahi! che ‘l pregio ala madre a un punto istesso
ed al figlio egualmente il core ha tolto.
Chi può senza morir mirar l’eccesso
di sì begli occhi, oimé! di sì bel volto,
vadane ancora poi, vada e s’arrischi
a mirar pur securo i basilischi.
45
O macelli de’ cori, occhi spietati,
di chi morir non pote anco omicidi,
voi voi possenti a soggiogare i fati
siate le sfere mie, siate i miei nidi.
In voi l’arco ripongo e i dardi aurati;
che se poi contro me saranno infidi,
più cara, in tali stelle è la mia sorte,
del’immortalità mi fia la morte».
46
Veggiola, mentre parlo, in atti mesti
starsi sola in disparte a trar sospiri;
ché, quantunque le sue più che celesti
forme, ben degne degli altrui desiri,
da mille lingue e da quegli occhi e questi
vagheggiate e lodate, il mondo ammiri,
alcun non v’ha però di genti tante,
che cheggia il letto suo, cupido amante.
47
Le suore, ancorché fussero appo lei
vie più d’età che di beltà fornite,
a grandi eroi con nobili imenei
per giogo maritale erano unite.
Ma Psiche, unico sol degli occhi miei,
parea dal’olmo scompagnata vite
e ne menava in dolorosi affanni,
sterili e senza frutto i più verd’anni.
48
Il miser genitor, mentr’ella geme
l’inutil solitudine che passa,
perché l’ira del ciel paventa e teme,
che spesso ai maggior re l’orgoglio abbassa,
pensoso e tristo infra sospetto e speme
la cara patria e ‘l dolce albergo lassa
e va per esplorar questo secreto
dal’oracolo antico di Mileto.
49
Là dove giunto poi, porge umilmente
incensi e preghi al chiaro dio crinito,
da cui supplice chiede e reverente,
al’infeconda sua, nozze e marito.
Ed ecco intorno rimbombar si sente
spaventoso fragor d’alto muggito
e col muggito alfin voce nascosta
dale cortine dar questa risposta:
50
«La fanciulla conduci in scoglio alpino
cinta d’abito bruno e funerale.
Né genero sperar dal tuo destino
generato d’origine mortale,
ma feroce, crudele e viperino,
ch’arde, uccide, distrugge e batte l’ale
e sprezza Giove ed ogni nume eterno,
temuto in terra, in cielo e nel’inferno».
51
Pensa tu qual rimase e qual divenne
il sovr’ogni altro addolorato vecchio.
Pensa qual ebbe il cor, quando gli venne
la sentenza terribile al’orecchio.
Torna ne’ patrii tetti a far sollenne
di quelle pompe il tragico apparecchio,
accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,
del decreto d’Apollo al sacro editto.
52
Del vaticinio infausto e del’aversa
sorte nemica si lamenta e lagna
e con l’amare lagrime che versa,
dele rughe senili i solchi bagna;
e la stella accusando empia e perversa,
l’antica moglie i gemiti accompagna;
e pietoso non men piagne con loro
dele figlie dolenti il flebil coro.
53
Ma del maligno inevitabil fato
il tenor violento è già maturo.
Del’influsso crudel già minacciato
giunto è l’idol mio caro al passo duro.
Raccoglie già con querulo ululato
la bella Psiche un cadaletto oscuro,
laqual non sa fra i tanti orrendi oggetti
se ‘l talamo o se ‘l tumulo l’aspetti.
54
Di velo avolti tenebroso e tetro
e d’arnesi lugubri in vesta nera,
van padre e madre il nuzzial feretro
accompagnando e le sorelle in schiera.
Segue la bara il parentado e dietro
vien la città, vien la provincia intera;
e per tale sciagura odesi intanto
del popol tutto un publico compianto.
55
Ma più d’ogni altro il re meschin piangendo
sfortunato s’appella ed infelice,
e gli estremi da lei baci cogliendo
la torna ad abbracciar, mentre gli lice.
«Così dunque da te congedo io prendo?
così figlia mi lasci? (egli le dice)
son questi i fregi?, oimé! la pompa è questa,
ch’al tuo partire il patrio regno appresta?
56
In essequie funebri inique stelle
cangian le nozze tue liete e festanti?
le chiare tede in torbide facelle
le tibie in squille e l’allegrezze in pianti?
sono i crotali tuoi roche tabelle?
ti son gl’inni e le preci applausi e canti?
e là dove destin crudo ti mena
reggia il lido ti fia, letto l’arena?
57
O troppo a te contrario, a me nemico,
implacabil rigor d’avari cieli!
Te del tuo bel, me del mio ben mendico
perché denno lasciar fati crudeli?
Qual tua gran colpa o qual mio fallo antico
cagion, che tu t’affligga, io mi quereli,
te condanna a morire ed a me serba,
in sì matura età, doglia sì acerba?
58
Ad esseguir quanto lassù si vole
dura necessità, lasso! m’affretta
e, vie più ch’altro, mi tormenta e dole,
ch’a sì malvagio sposo io ti commetta.
Ch’io deggia in preda dar l’amata prole
a mostro tal che l’universo infetta,
questo so ben, che ‘l fil farà più corto,
che fu da Cloto ala mia vita attorto.
59
Ma poiché pur la maestà superna
così di noi disporre or si compiace,
cancellar non si può sua legge eterna,
ma convien, figlia mia, darsene pace.
De’ consigli di lui, che ne governa,
è l’umano saver poco capace,
poiché i giudici suoi santi e divini
son ordinati a sconosciuti fini.
60
Bench’a sposar lo struggitor del mondo
ti danni Apollo in suo parlar confuso,
chi sa s’altro di meglio in quel profondo
archivio impenetrabile sta chiuso?
Spesso effetto sortì lieto e giocondo
temuto male, ond’uom restò deluso.
Servi al ciel, soffri e taci.» E con tai note
verga di pianto le lanose gote.
61
La sconsolata e misera donzella
vede ch’ei viva a sepelir la porta
e tal sollennità ben s’accorg’ella,
ch’a sposa nò, ma si conviene a morta;
magnanima però non men che bella,
l’altrui duol riconsola e riconforta,
e i dolci umori, onde il bel viso asperge,
col vel purpureo si rasciuga e terge.
62
«Che val pianger? (dicea) che più versate
lagrime intempestive e senza frutto?
a che battete i petti ed oltraggiate
di livore e di sangue il viso brutto?
Ah non più no; di lacerar lasciate
la canicie del crin con tanto lutto,
offendendo con doglia inefficace
e la vostra vecchiezza e la mia pace.
63
Fu già, quando la gente a me porgea,
al ciel devuto, onor profano ed empio,
quando quasi d’amor più bella dea
ebbi, voi permettenti, altare e tempio,
allor fu da dolersi, allor devea
pianger ciascuno il mio mortale scempio.
Or è il pianto a voi tardo, a me molesto;
di mia vana bellezza il fine è questo.
64
L’invidia rea, che l’altrui ben pur come
suo proprio male aborre, allor mi vide.
I’ so pur ben, che l’usurpato nome
dela celeste Venere m’uccide.
Che bado? andianne pur; quest’auree chiome
con vil ferro troncate, ancelle fide;
quel sì temuto omai consorte mio
già di veder, già d’abbracciar desio.»
65
Qui tace e già d’una montagna alpestra
eccola intanto giunta ala radice,
ch’al sol volge le terga e piega a destra
sotto il gran giogo l’ispida cervice.
Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra
pende sassosa e rigida pendice,
rigida sì ch’apena s’assecura
d’abitarvi l’Orror con la Paura.
66
Il mar sonante a fronte ha per confine,
da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,
dirupati macigni e rocce alpine,
oscure tane e cavernose grotte,
precipizi profondi, alte ruine,
dove riluce il dì come la notte,
dove inospiti sempre e sempre foschi
dilatan l’ombre lor baratri e boschi.
67
Ecco l’infausto monte, ov’a fermarsi
ne venne il funeral tragico e mesto.
Quivi ha, quant’ognun crede, a consumarsi
il maritaggio orribile e funesto.
Ond’ai fieri imenei da celebrarsi
scelto già per teatro essendo questo,
dopo lagrime molte al vento sparte
la mestissima turba alfin si parte.
68
Partissi alfin, poiché tesor sì caro
depositò nel destinato loco,
lasciando nel partir col pianto amaro
dele fiaccole sacre estinto il foco.
Ai regi alberghi i genitor tornaro
e, la luce vital curando poco,
dannaro gli occhi a lunga notte oscura
e si chiusero vivi in sepoltura.
69
Restò la giovinetta abbandonata
su la deserta e solitaria riva
sì tremante, sì smorta e sì gelata,
ch’apena avea nel cor l’anima viva.
Veder quivi languir la sventurata
quasi di senso e movimento priva,
del’onde esposta al tempestoso orgoglio,
altro già non parea, che scoglio in scoglio.
70
Le man torcendo e ‘n vermiglietti giri
dolcemente incurvando i mesti lumi,
con che lagrime, o Dio! con che sospiri
si scioglie in acque e si distempra in fumi;
ma, raccogliendo il mar tra’ suoi zaffiri
dele stille cadenti i vivi fiumi,
ambizioso e cupido d’averle,
le serba in conche e le trasforma in perle.
71
Con le man su ‘l ginocchio, in terra assisa,
filando argento da’ begli occhi fore,
china al petto la fronte e ‘n cotal guisa
tra sestessa consuma il suo dolore.
Poi, mentre ai salsi flutti il guardo affisa,
sfoga parlando l’angoscioso core
e perde, apostrofando al mar crudele,
tra gli strepiti suoi queste querele:
72
«Deh placa, o mare, i tuoi furori alquanto,
pietoso ascoltator de’ miei cordogli,
e di quest’occhi il tributario pianto,
che ‘n larga vena a te sen corre, accogli.
Teco parlo, or tu m’odi, e fa che ‘ntanto
abbian quest’onde tregua e questi scogli;
né sen portino intutto invidi i venti,
come fer le speranze, anco i lamenti.
73
Nacqui agli scettri e ‘nsu i reali scanni
più di me fortunata altra non visse.
Bella fui detta, e ‘l fui, se senza inganni
lo mio specchio fedele il ver mi disse.
Or a quel fin su ‘l verdeggiar degli anni
corro, che ‘l fato al viver mio prescrisse,
abbandonando insu l’età fiorita
la bella luce e la serena vita.
74
Di ciò non mi dogl’io né mi lamento
dela bugiarda adulatrice speme;
né del colpo fatal prendo spavento,
che mi porti sì tosto al’ore estreme.
Chi sol vive al dolore ed al tormento
e suol vita aborrir, morte non teme;
a chi malvive il viver troppo è greve,
chi vive in odio al ciel viver non deve.
75
Lassa, di quelch’io soffro, aspro martire
vie maggiore e più grave è il mal ch’attendo.
Ch’io deggia entro il mio seno, oimé! nutrire
un mostro abominevole ed orrendo,
questo innanzi al morir mi fa morire,
questo morte sprezzar mi fa morendo.
Deh! dammi pria ch’un tanto mal succeda,
padre Nettuno, ale tue fere in preda.
76
Se provocò del ciel l’ira severa
da me commesso alcun peccato immondo
e da te deve uscir l’orrida fera,
che me divori e che distrugga il mondo,
fia ventura miglior, ch’absorta io pera
da questo ingordo pelago profondo.
Più tosto il ventre suo tomba mi sia,
e lavin l’acque tue la macchia mia.
77
Ma s’egli è ver, che pur a torto e senza
colpa incolpata e condannata io mora,
e se nume è lassù, che l’innocenza
curi e prego devoto oda talora,
da lui cheggio pietà, spero clemenza;
e quando il reo destin sia fermo ancora,
venga, e ‘l suo nero strale in me pur scocchi,
morte per sempre a suggellar quest’occhi.»
78
Più altro, ch’io ridir né so né posso,
parlava la dolente al sordo lito,
ch’avria qual cor più perfido commosso,
anzi il porfido istesso intenerito.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d’ognintorno udito
e, rispondendo in roche voci e basse
parea che de’ suoi casi il mar parlasse.
79
Per risguardar chi sia che si consuma
in note pur sì dolorose e meste,
rompendo in spessi circoli la spuma
molte ninfe e tritoni alzar le teste,
ma, vinti da quel sol che l’acque alluma
e tocchi il freddo sen d’ardor celeste,
per fuggir frettolosi, i bei cristalli
seminaro di perle e di coralli.
80
Mentre là dove il vertice s’estolle
del’erta rupe, è posta in tale stato,
novo sente spirar di lungo il colle
di mill’aure sabee misto odorato,
indi d’un aere dilicato e molle
sibilar, sussurrar placido fiato,
che, dolcemente rincrespando l’onde,
fa tremar l’ombre e sfrascolar le fronde.
81
Era Zefiro questi. Io già, che ‘ntento
altrove non avea l’occhio e ‘l pensiero,
volsi far quel benigno amico vento
dele mie gioie essecutor corriero.
Gonfia la mobil gonna e, piano e lento,
col suo tranquillo spirito leggiero,
dala scoscesa e ruinosa balza
senz’alcun danno ei la solleva ed alza,
82
e colà presso, ove di fior dipinta
fa sponda al mar quella valletta erbosa
e di giovani allori intorno è cinta,
soavissimamente alfin la posa.
Qui da novo stupor confusa e vinta
su ‘l fiorito pratel siede pensosa,
che fresco insieme e morbido le serba
tetto di fronde e pavimento d’erba.
83
Poiché ‘l dolor, che de’ suoi sensi è donno,
satollato ha di pianti e di lamenti,
stanca omai sì, che le palpebre ponno
apena sostener gli occhi cadenti,
viensene il sonno a torla in braccio, il sonno,
tranquillità dele turbate menti.
Dal sonno presa al fremito del’acque
su ‘l verde smalto addormentossi e giacque.
84
Negli epicicli lor duo soli ascosi
i begli occhi parean dela mia Psiche,
dove chiusi traean dolci riposi
dal’amorose lor lunghe fatiche.
Duo padiglioni lievemente ombrosi
le velavan le luci alme e pudiche.
Le belle luci, onde languisco e moro,
legate eran dal sonno ed io da loro.
85
Vedesti ala stagion, quando le spine
fioriscon tutte di novella prole,
sparso di fresche perle e mattutine,
piantato in riva al mar, nascosto al sole,
spiegar il molle e giovinetto crine
giardinetto di gigli e di viole?
Dirai ben tal sembianza assai conforme
ala leggiadra vergine che dorme.
86
Così posava; e vidi a un tempo istesso
liev’Aura, Aura vezzosa, Aura gentile
scherzarle intorno e ventilarle spesso
il crespo dela chioma oro sottile.
Per baciarla talor si facea presso
a quella bocca ov’è perpetuo aprile,
ma, timidetta poi quanto lasciva,
da’ respiri respinta, ella fuggiva.
87
I’ non so già se Zefiro cortese
fu, che spettacol dolce allor m’offerse,
che la tremula vesta alto sospese
e dele glorie mie parte m’aperse.
So ben, che con sua neve il cor m’accese,
quando il confin del bianco piè scoverse.
Scoverse il piede e del’ignuda carne
quanto a casta beltà lice mostrarne.
88
Poich’assai travagliato e poco queto
in più pezzi ha carpito un sonno corto,
destasi e da quel loco ameno e lieto
piover si sente al cor novo conforto.
Sorge dal’odorifero roseto
e qua ne vien, dove ‘l mio albergo ha scorto.
Questo istesso palagio, ov’ora sei,
come raccoglie te, raccolse lei.
89
Nel limitar dela gemmata soglia
mette le piante e va mirando intorno;
mira il bel muro e di pomposa spoglia,
di fulgid’oro il travamento adorno,
sì che può far, quantunque il sol non voglia,
col proprio lume a sé medesmo il giorno.
Mira gli archi, le statue e l’altre cose,
che senza prezzo alcun son preziose.
90
Senza punto inchinar le luci al basso
del tetto ammira le mirabil opre,
ma pur del tetto il rilucente sasso
la superbia del suol chiara le scopre;
stupisce il guardo e si trattiene il passo
al bel lavor, che ‘l pavimento copre,
perché tante ricchezze in terra vede,
che di calcarle si vergogna il piede.
91
Ella rapita da sì ricchi oggetti
entra e d’alto stupor più si confonde,
poich’ala maestà di tai ricetti
ben la gran supellettile risponde.
Ecco, dove al cantar degli augelletti
fermossi; ivi spiegò le trecce bionde;
qui, poiché intorno a spaziar si mise,
respirò dolcemente e qui s’assise.
92
Quelche più l’empie il cor di meraviglia,
è che negletto è qui quanto si gode.
Casa sì signoril non ha famiglia,
abitante non vede, ostier non ode,
castaldo alcun di lei cura non piglia
né di tanto tesor trova custode.
Vaga con gli occhi e ‘l vago piè raggira,
tutto insomma possiede e nessun mira.
93
Voce incorporea intanto ode, che dice:
«Di che stupisci? o qual timor t’ingombra?
sappi cauta esser sì, come felice,
omai dal petto ogni sospetto sgombra;
non bramar di veder quelche non lice,
spirito astratto ed impalpabil ombra.
Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,
ciò che qui vedi o che veder non puoi».
94
Da non veduta man sentesi in questa
d’acque stillate in tepida lavanda
condur pian piano, indi spogliar la vesta
e i bei membri mollir per ogni banda.
Dopo i bagni e gli odor, mensa s’appresta
coverta di finissima vivanda;
e sempre ad operar pronte e veloci
son sue serve e ministre, ignude voci.
95
Dato al lungo digiun breve ristoro
con cibi, che del ciel foran ben degni,
entra pur ala vista occulto coro,
sceso quaggiù da’ miei beati regni,
concordando lo stil dolce e canoro
ala facondia degli arguti legni.
Benché né di cantor né di stromenti
scorga imagine alcuna, ode gli accenti.
96
Già l’Oblio taciturno esce di Lete,
già la notte si chiude e ‘l dì vien manco,
e le stelle cadenti e l’ombre chete
persuadono il sonno al mondo stanco,
onde disposta alfin di dar quiete
al troppo dianzi affaticato fianco,
ricovra a letto in più secreto chiostro,
piumato d’oro, incortinato d’ostro.
97
Allor mi movo al dolce assalto e tosto
ch’entro la stanza ogni lumiera è spenta,
invisibile amante, a lei m’accosto,
che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.
Ma se l’aspetto mio tengo nascosto,
le scopro almen l’ardor che mi tormenta
e, da lagrime rotti e da sospiri,
le narro i miei dolcissimi martiri.
98
Ciò ch’al buio tra noi fusse poi fatto,
più bel da far che da contar, mi taccio.
Lei consolata alfin, me sodisfatto,
basta dir ch’amboduo ne strinse un laccio.
Dela vista il difetto adempie il tatto,
quelche cerca con l’occhio, accoglie in braccio;
s’appaga di toccar quelche non vede,
quanto al’un senso nega, al’altro crede.
99
Ma su ‘l bel carro apena in oriente
venne del’ombre a trionfar l’Aurora
e i suoi destrier con l’alito lucente
fugate non avean le stelle ancora,
quando al bell’idol mio tacitamente
uscii di braccio e sorsi innanzi l’ora;
innanzi che del sol l’aurato lume
spandesse i raggi suoi, lasciai le piume.
100
Tornan da capo ala medesma guisa
l’ascose ancelle ed aprono i balconi
e dela sua virginitate uccisa
motteggian seco; ed ecco i canti e i suoni.
Si leva e lava ed ode, a mensa assisa,
epitalami in vece di canzoni
e le son pur non conosciute genti
camerieri, coppier, scalchi e sergenti.
101
Così dal’uso assecurata e fatta
più coraggiosa omai dala fidanza,
già già meco e co’ miei conversa e tratta
con minor pena e con maggior baldanza.
E leggiadra e gentil, seben s’appiatta,
imaginando pur la mia sembianza,
dal suono incerto dela voce udita
prende trastullo ala solinga vita.
102
Ma quant’ella però contenta vive,
tanto menano i suoi vita scontenta,
e di tal compagnia vedove e prive
più d’ogni altro le suore il duol tormenta.
Vigilando, il pensier lor la descrive,
dormendo, il sogno lor la rappresenta;
ond’alfin per saver ciò che ne sia,
là dove la lasciar, prendon la via.
103
Io, come soglio, insu la notte ombrosa
seco in tal guisa il ragionar ripiglio:
«Psiche caro mio cor, dolce mia sposa,
fortuna ti minaccia alto periglio,
là dove uopo ti fia d’arte ingegnosa,
di cautela sottile e di consiglio.
Ignoranti del ver, le tue sorelle
di te piangendo ancor cercan novelle.
104
Su que’ sassi colà ruvidi ed erti,
onde campata sei, son già tornate.
Io farò, se tu vuoi, per compiacerti
che sieno a te da Zefiro portate.
Ma ben t’essorto, a quant’io dico averti,
fuggi le lor parole avelenate.
Nel resto io ti concedo interamente,
che le lasci da te partir contente.
105
Vo’ che de’ petti lor l’avare fami
satolli a piena man d’argento e d’oro.
Non ti lasciar però, se punto m’ami,
persuader dale lusinghe loro.
Non l’ascoltar; se d’ascoltarle brami,
pensa ascoltar dele sirene il coro,
dal cui dolce cantar tenace e forte,
mascherata di vita, esce la morte.
106
E se pur troppo credula vorrai
prestar fede ala coppia iniqua e ria,
in ciò ti prego almen non l’udir mai,
in cercar di saver qual io mi sia.
Con un tardo pentir, se ciò non fai,
ti soverrà del’avertenza mia.
A me sarai cagion di grave affanno,
ed a te porterai l’ultimo danno.»
107
Taccio ed ella ascoltando i miei ricordi,
promette d’osservar quanto desio.
«Di mestessa (dicea) fia che mi scordi
pria che gli ordini tuoi ponga in oblio.
A’ tuoi fian sempre i miei desir concordi,
tu se’, qualunque sei, lo spirto mio.
Abbine di mia fe’ pegno securo,
per me, per te, per Giove stesso il giuro.»
108
Già dando volta al bel timon dorato
e de’ monti indorando omai le cime,
il carro di Lucifero rosato
dale nubi vermiglie il giorno esprime,
quando a quel dir svanitole da lato,
volo per l’aure e fo portar sublime
l’indegna coppia innanzi ala mia vita
dal bel signor dela stagion fiorita.
109
Le ‘ncontra e bacia e ‘n dolci atti amorosi
fa lor liete accoglienze, ossequi cari.
Le ‘ntroduce ala reggia, ov’entro ascosi
servon senza scoprirsi i famigliari.
Tra ricchi arnesi e tra tesor pomposi
trovan cibi e lavacri eletti e rari,
sich’elle a tanto cumulo di bene
già nutriscon l’invidia entro le vene.
110
Le dimandan chi sia di cose tante
signor, di che fattezze il suo diletto.
Ella, fin a quel punto ancor costante,
non obliando il marital precetto,
s’infinge e dice: «Il mio gradito amante
più ch’altro leggiadro un giovinetto;
ma l’avete a scusar, ch’agli occhi vostri,
occupato ale cacce, or non si mostri».
111
Ciò detto le ribacia e le rimanda
colme di gemme e di monili il seno.
Ai cari genitor si raccomanda,
poi le consegna al venticel sereno,
che, presto ad esseguir quanto comanda,
rapido più che strale o che baleno,
con vettura innocente in braccio accolte
le riporta alo scoglio, onde l’ha tolte.
112
Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando e ‘n tali accenti
con l’altra il suo furor sfogava l’una.
«Or guata cieca, ingiusta e dale genti
forsennata a ragion detta Fortuna.
Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?
e tu tel vedi e tu tel soffri o cielo?
113
Figlie d’un ventre istesso al mondo nate
perché denno sortir sorti diverse?
Noi le prime e maggior, malfortunate
tra le sciagure e le miserie immerse;
ed or costei, che ‘nsu l’estrema etate
già stanco in luce il sen materno aperse,
se fu del nostro ben trista pur dianzi,
lieta del nostro mal fia per l’innanzi.
114
Un marito divin chi né godere
né conoscer sel sa, gode a sue voglie.
Vedesti tu per quelle stanze altere
quante gemme, quant’oro e quali spoglie?
S’egli e pur ver che con egual piacere
giovane così fresco in braccio accoglie
e di tanta beltà, quant’ella dice,
più non vive di lei donna felice.
115
Altri certo non può che dio celeste
esser l’autor di meraviglie tali;
e s’ei pur l’ama, com’appar da queste,
la porrà tra le dee non più mortali.
Non vedi tu, ch’ad ubbidirla preste
insensibili forme e spiritali,
quasi vili scudier, move a suo senno?
comanda ai venti ed e servita a cenno?
116
Misera me, cui sempre il letto e ‘l fianco
ingombra inutilmente un freddo gelo,
impotente fanciullo e vecchio bianco,
uom che vetro ha la lena e neve il pelo.
Né sposo alcun, sicome infermo e stanco,
più spiacente e geloso è sotto il cielo,
che custode importun la casa tiene
sempre di ferri cinta e di catene.»
117
«Ed io (l’altra soggiunge) un ne sostegno
impedito dal morbo e quasi attratto
e calvo e curvo e men che sasso o legno
ai congressi amorosi abile ed atto;
cui più serva che moglie esser convegno,
con le cui ritrosie sempre combatto;
conviemmi ognor curarlo e ‘n tali affanni,
vedova e maritata, io piango gli anni.
118
Ma tu sorella, con ardir ti parlo,
con cor troppo servil soffri i tuoi torti.
Io non posso per me dissimularlo,
né più oltre sarà che mel sopporti.
Mi rode il petto un sì mordace tarlo,
che non trovo pensier, che mi conforti.
Animo, generoso aborre e sdegna
tal ventura caduta in donna indegna.
119
Non ti sovien con qual superbia e quanto
fasto, quantunque a non curarla avezze,
poiché n’accolse, ambizioso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi, benché n’abondi tanto,
poca parte donò di sue ricchezze
e poiché fastidita ne rimase,
subito ne scacciò dale sue case.
120
Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu, come credo, unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio,
s’a mortal precipizio io non la reco.
Per or, tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d’aver parlato seco;
non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.
121
Assai noistesse pur visto n’abbiamo
e di troppo aver visto anco ne spiace.
A que’ poveri alberghi omai torniamo,
dove mai non si gode ora di pace.
Là consiglio miglior vo’ che prendiamo
a punir di costei l’insania audace,
onde s’accorga alfin d’aver sorelle
suo malgrado più degne e non ancelle.»
122
Tal accordo conchiuso, a quella parte
le scelerate femine sen vanno
e con guance graffiate e chiome sparte
pur l’usato lamento aprova fanno.
I ricchi doni lor celano ad arte,
tra sé ridendo del’ordito inganno.
Così con finti pianti e finti modi
van machinando le spietate frodi.
123
Tosto che la stagion serena e fosca
l’aere abbraccia dintorno, io l’ali spiego
e qual velen quelle due furie attosca
racconto ala mia Psiche e la riprego
a voler, bench’apien non mi conosca,
contentarsi del più, se ‘l men le nego.
le scopro il cor, coprendole il sembiante,
e può veder l’amor, se non l’amante.
124
Le mostro che soverchio è voler poi
investigar la mia vietata faccia,
poiché però non crescerà tra noi
quel grand’amor, che l’un e l’altro allaccia.
L’essorto che non guasti i piacer suoi
per un lieve desio, ma goda e taccia:
quanto può giusto sdegno io le rammento
e la fede promessa e ‘l giuramento.
125
Le fo saver che nel bel sen fecondo
un fortunato infante ha già concetto,
che fia divino ed immortale al mondo,
se s’asterrà dal mio conteso aspetto.
Ma se vorrà mirar quelche l’ascondo,
a morte lo farà nascer soggetto.
L’ammonisco a schivar tanta ruina
al fanciul sovrastante, a lei vicina.
126
Ella giura e scongiura e ‘nsomma vole
pur riveder quella sorella e questa;
e fa con lagrimette e con parole
un bacio intercessor dela richiesta;
ed io col proprio crin, mentre si dole,
rasciugando le vo’ la guancia mesta;
lasso, che non potrà, se in me può tanto
l’amorosa eloquenza del bel pianto?
127
Nulla alfin so negarle e tosto quando
s’apre il ciel mattutino ai primi albori,
risorgo e lieve insu lo scoglio mando
il padre fecondissimo de’ fiori.
Già l’empie, che stan pur quivi aspettando,
delo spirto gentil senton gli odori;
ed ei pur quasi a forza insu le spalle
le ritragitta ala fiorita valle.
128
Trovan la bella e sotto liete fronti
coprono il fiel che ‘l cor fellone asconde.
Ella con atti pur cortesi e pronti
ala mentita affezzion risponde.
Caldi vapori d’odorati fonti
in conche d’oro ai lassi membri infonde
e ‘n ricchi seggi infra delizie immense
degne le fa dele beate mense.
129
Comanda poscia agli organi sonanti,
chiama al concerto le canore voci
e i ministri invisibili volanti
al primo cenno suo vengon veloci.
Ma quella melodia di suoni e canti,
che placherebbe gli aspidi feroci,
dele serpi infernali, ancorché dolce,
la perfidia crudel punto non molce,
130
anzi, con lo stupor, tanto più fiera
cresce l’invidia che le morde e lima,
onde la pregan pur che chiara e vera
del vago suo la qualitate esprima.
La semplicetta garrula e leggiera,
cui non sovien ciò che lor disse in prima,
perch’accusar del fatto il ver non vole,
aviluppa e compon novelle fole;
131
dice che ricco d’or per varie strade
con varie merci a traficar intende
e che la neve dela fredda etade
già già le tempie ad imbiancar gli scende.
Poi, perché ratto ale natie contrade
le riconduca, a Zefiro le rende
che, come suole, ale paterne spiagge
di novi doni onuste indi le tragge.
132
«Deh! che ti par dele menzogne insane,
(l’una al’altra dicea) di questa sciocca?
cacciator dianzi, dale prime lane
quel suo non avea pur la guancia tocca;
or mercando sen va per rive estrane
e la bruma senil su ‘l crin gli fiocca;
o che finge, o che mente, o ch’ella stessa
non sa di ciò la veritate espressa.
133
Tempo è, comunque sia, da far cadere
tutte le gioie sue disperse e rotte.»
Con sì fatto pensier vanno a giacere
e ‘n vigilia crudel passan la notte.
Col favor di favonio indi leggiere
a Psiche insu ‘l mattin son ricondotte,
che gode pur d’accarezzar le due,
sorelle non dirò, vipere sue.
134
Giunte, esprimendo a forza in larghe vene
lagrime fuor degli umidetti rai,
che sempre, e dir non so dove le tiene,
quel sesso a voglia sua n’ha pur assai
«Dolce (presero a dirle) amata spene,
tu secura qui siedi e lieta stai
e, malcauta al periglio e trascurata,
l’ignoranza del mal ti fa beata.
135
Ma noi, noi che sollecite ala cura
dela salute tua siam sempre intente,
convien ch’a parte d’ogni tua sciagura
abbiam del commun danno il cor dolente.
Sappi che quel, che ‘nsu la notte oscura
giacer teco si suole, è un fier serpente;
un serpente crudele esser per certo
quelche teco si giace, abbiam scoverto.
136
Videl più d’un pastor non senza rischio
quando a sera talor torna dal pasto,
guadar il fiume e, variato a mischio,
trarsi dietro gran spazio il corpo vasto.
Intorno a sé dal formidabil fischio
lasciando il ciel contaminato e guasto,
con lunghe spire per l’immonde arene,
se vederlo sapessi, a te ne viene.
137
Viensene in più volubili volumi
divincolando il flessuoso seno.
Da minacciosi e spaventosi lumi
esce strano fulgor, ch’arde il terreno
e di nebbia mortal torbidi fumi
infetti di pestifero veleno
sbuffando intorno, a lato a te si caccia
e fa la cova sua fra le tue braccia.
138
Par ch’oltre a sé si sporga e ‘n sé rientre
e ne’ lubrici tratti onda somiglia,
e fuggendo e seguendo il proprio ventre,
lascia sestesso e sestesso ripiglia.
Poi chiude i giri in un sol groppo e mentre
in mille obliqui globi s’attortiglia,
di ben profondo solco, ove s’accampa,
quasi vomere acuto, il prato stampa.
139
Quando del cupo suo nativo bosco
dala fame ad uscir per forza è spinto,
d’un verde bruno e d’un ceruleo fosco
mostra l’ali fregiate e ‘l dorso tinto.
Squallido d’oro e turgido di tosco,
di macchie il collo a più ragion dipinto,
scopre di quanti al sol vari colori
l’arco suo rugiadoso iride infiori.
140
Ahi! che figura abominanda e sozza,
se talor per lo pian stende le strisce,
e poiché vomitata ha dala strozza
carne di gente uccisa, ei la lambisce,
o, se del sangue che maisempre ingozza
avien che ‘l tergo e ‘l petto al sol si lisce,
il tergo e ‘l petto armato a piastre e maglie,
di doppie conche e di minute scaglie:
141
livido foco che le selve appuzza
spira la gola ed aliti nocenti.
Vibra tre lingue e nele fauci aguzza
un tripartito pettine di denti.
Sanguigne schiume dala bocca spruzza
ed ammorba co’ fiati gli elementi;
l’aure corrompe, mentre l’aria lecca,
strugge i fior, l’erbe uccide e i campi secca.
142
Guarditi, o suora, il ciel dala sua stizza,
scampiti Giove pur da quella peste,
qualor per ira si contorce e guizza
e sbarra le voragini funeste,
la superba cervice in alto drizza,
erge del capo le spietate creste,
e ribattendo le sonore squamme,
Mongibello animato, aventa fiamme.
143
Perché con tanta industria e secretezza
credi la propria effigie ei tenga ascosa,
senon perché sua natural bruttezza
agli occhi tuoi manifestar non osa?
Ma seben or t’adula e t’accarezza
sotto quel dolce titolo di sposa,
pensi però che la sua cruda rabbia
lungo tempo digiuna a tener abbia?
144
Aspetta pur che del tuo ventre cresca,
come già va crescendo, il peso intutto.
Lascia che venga con più stabil esca
di tua pregnanza a maturarsi il frutto.
Allor vedrai, sii certa, ove riesca
il sozzo amor d’un animal sì brutto.
Allor fia, chi nol sa? che fuor d’inganni,
preda a suo modo opima, ei ti tracanni.
145
S’a noi non credi, ed oh, queste parole
sparse sien pur al vento e non al vero!
credi a quel che mentir né può né suole,
del’oracol febeo presagio fiero.
Il presagio in oblio por non si vuole,
ch’imaginandol pur trema il pensiero,
ch’esser ti convenia moglie d’un angue,
morte e strage del mondo e foco e sangue.
146
Che farai dunque? o col tuo scampo a noi
consentirai, d’ogni sospetto sciolta,
o tanto attenderai che tu sia poi
nele ferine viscere sepolta?
Se ‘n tal guisa nutrir più tosto vuoi,
non so s’io dica o pertinace o stolta,
l’empia ingordigia del’osceno mostro,
adempito abbiam noi l’ufficio nostro.
147
Ma se non vuoi dele voraci brame
cibo venir di sì vil bocca indegno,
pria ch’alfin sazia la lascivia infame
teco trangugi l’innocente pegno,
dela fera crudel tronchi lo stame
senz’altro indugio un generoso sdegno,
e prendi a un colpo d’estirpar consiglio
il proprio essizio e ‘l publico periglio».
148
Sentesi Psiche a quel parlar, d’orrore
tremare i polsi ed arricciare i crini;
sudan l’estremità, palpita il core,
spariscon dal bel volto ostri e rubini,
gelan le fibre e di gelato umore
lucidi canaletti e cristallini
stilla essangue la fronte, a punto quali
suole aurora d’april rugiade australi.
149
Contrarie passion, tra cui s’aggira,
in quel semplice cor fan guerra interna.
D’amore e d’odio e di spavento e d’ira
gran tempesta la volge e la governa.
Nave rassembra a cui mentr’ostro spira
or garbino or libecchio i soffi alterna.
Pur dopo molti alfin pensier diversi
nel fondo d’ogni mal lascia cadersi.
150
Dimenticata già d’ogni promessa,
tutto il secreto a buona fè rivela.
Del furtivo marito il ver confessa
e che fugge la luce e che si cela.
Rapita dal timor, dal duolo oppressa,
geme, freme, s’afflige e si querela,
e, mancandole in ciò saldo discorso,
di pietà le riprega e di soccorso.
151
Contro il tenero core allor si scaglia
dele donne malvage il furor crudo
e, con aperta e libera battaglia,
stringon già dela fraude il ferro ignudo.
«Fuorché ‘l partito estremo, altro che vaglia
non hanno i casi estremi o schermo o scudo.
Al’intrepide genti e risolute
la desperazion spesso è salute.
152
Ti puoi dela salute il calle aprire,
se la speme non mente, assai spedito.
Né scemar deve in te punto l’ardire
biasmo di fellonia con tal marito.
Chi t’inganna ingannar non è tradire,
giusto è che sia lo schernitor schernito,
ché, quando ad opra rea vien che consenta,
la fede sceleragine diventa.
153
Sotto il letto vogliam che tu nasconda
un ferro acuto ed una luce accesa,
e come pria la creatura immonda
nel’usato covil si sia distesa
e nel colmo del’ombra alta e profonda
sarà dal maggior sonno avinta e presa,
sorgi pian piano e tuo ministro e duce
sprigiona il ferro e libera la luce.
154
La luce il modo allor fia che ti scopra,
ben oportuna e consigliera e guida.
Non temer no, che d’ambe noi nel’opra
avrai, s’uopo ti fia, l’aita fida.
Senz’alcuna pietà, giuntagli sopra,
fa che del fier dragone il capo incida,
perché con bestia sì feroce e strana
qualunque umanità fora inumana.»
155
E, così detto, l’una e l’altra prende
commiato e parte; ella riman soletta,
senon sol quanto agitatrici orrende
seco le Furie in compagnia ricetta.
Ma, seben risoluta al’opra intende
e la machina appresta e ‘l tempo aspetta,
pur con affetti vari in tanta impresa
litigando tra sé pende sospesa.
156
Ancor dubbia e pensosa ed ama e teme,
or confida, or diffida, or vile, or forte.
Quinci e quindi in un punto il cor le preme
ardimento d’amor, terror di morte.
In un corpo medesmo insieme insieme
aborrisce il serpente, ama il consorte;
e stan pugnando in un istesso loco
tra rispetto e sospetto il ghiaccio e ‘l foco.
157
Già nel’occaso i suoi corsier chiudea,
giunto a corcarsi, il gran pianeta errante,
e già vicin, mentre nel mar scendea,
sentiva il carro d’or stridere Atlante,
quand’io, che cieco in tenebre vivea
dal mio terrestre sol lontano amante,
per far giorno al mio cor, dal’alto polo
men venni ingiù precipitando il volo.
158
Psiche mia con lusinghe mi riceve,
l’apparecchio crudel dissimulando.
Ma poich’alato a lei mi vengo in breve,
stanco da’ primi assalti, addormentando,
mentre piacevolmente il sonno greve
sto con leggieri aneliti soffiando,
sorge e sospinta da pensier maligni
del sacrilegio suo prende gli ordigni.
159
Dele pria care e poscia odiate piume
viensi accostando inver la sponda manca.
Nela destra ha il coltel, nel’altra il lume,
d’orrore agghiaccia e di paura imbianca.
Ma per farle esseguir quanto presume
sdegno il suo debil animo rinfranca
e la forza del fato al’atto fiero
arma d’audacia il feminil pensiero.
160
Fa l’ascolta pertutto e ‘nsu la porta
dela stanza si ferma e guata pria.
Sporge innanzi la mano e la fa scorta
al piè che lento al talamo s’invia.
Tende l’orecchie e sovr’aviso accorta
ogni strepito e moto osserva e spia.
Sospende alto le piante e poi leggiere
le posa in terra e non l’appoggia intere.
161
Quando là dov’io poso è giunta appresso
voce non forma, accento non esprime,
di tirar non s’arrischia il fiato istesso
e, se spunta un sospir, tosto il reprime.
Caldo desio rinvigorisce il sesso,
freddo timor le calde voglie opprime;
brama e s’arretra, ardisce e si ritiene,
bollon gli spirti e gelano le vene.
162
Ma non sì tosto il curioso raggio
del lume esplorator venne a mostrarse,
dal cui chiaro splendor del cortinaggio
ogni latebra illuminata apparse,
che, sbigottita del’ingiusto oltraggio,
stupì repente e di vergogna n’arse.
Non sa s’è sogno o ver, ché, quando crede
veder un drago, un garzonetto vede.
163
Gran villania le parve aver commessa
e di tanta follia forte le ‘ncrebbe.
Spegner la luce perfida e con essa
l’arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a sestessa
e senza dubbio alcun fatto l’avrebbe
se dala man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.
164
Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,
di toccar l’armi mie desio la spinge
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale e di rosato sangue
l’estremità del pollice si tinge;
mirasi punto incautamente il dito
e si sente in un punto il cor ferito.
165
Così si stava e romper non ardiva
la mia quiete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
del’aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e, vomitando dala fiamma viva
di fervido licor pungente stilla,
al’improviso con tormento atroce
su l’ala destra l’omero mi coce.
166
Desto in un tratto io mi risento e salto
fuor dela cuccia, ed ella a me s’apprende,
m’abbraccia i fianchi e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M’afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo ed ella meco ascende.
Così pendente per l’aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.
167
Da me spiccata, amaramente al suolo
ululando e piangendo ella si stese.
Io mi volsi a que’ pianti e del suo duolo
in mezzo al’ira la pietà mi prese,
onde l’ali arrestai, fermando il volo,
a sì tristo spettacolo sospese,
e mi posi a mirarla intento e fiso
d’un cipresso vicin tra i rami assiso.
168
«Ingrata (a dirle indi proruppi) ingrata,
sì tosto in Lete un tanto ardore è spento?
Così dala memoria smemorata
l’aviso mio ti cadde in un momento?
Quest’è l’amor? quest’è la fè giurata?
Dunque tu paglia al foco, io foco al vento?
tu dunque onda alo scoglio, io scoglio al’onda?
io stabil tronco e tu volubil fronda?
169
Io, dela madre mia posto in non cale
l’ordin, cui convenia pur ch’ubbidissi,
quando d’ogni sventura e d’ogni male
sepelir ti volea sotto gli abissi,
il cor per tua cagion col proprio strale
inavedutamente mi trafissi;
per te trafitto e per tuo bene ascoso
volsi ad onta del ciel farmiti sposo.
170
E tu sleal, pur come fusse poco
d’invisibil ferita il cor piagarmi,
volesti me, ch’era tua gioia e gioco,
quasi serpe crudel, ferir con l’armi;
e non contenta d’amoroso foco
co’ tuoi begli occhi l’anima infiammarmi,
hai voluto con arte empia e malvagia
ardermi ancora il corpo in viva bragia.
171
Già più volte predetto il ver ti fue,
né frenar ben sapesti un van desire.
Ma quelle egregie consigliere tue
la pena pagheran del lor fallire.
Giusto flagel riserbo ad ambedue,
te sol con la mia fuga io vo’ punire.
Rimanti, a Dio; da te cercato invano
e col corpo e col cor già m’allontano.»
172
Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse
che la caduta sua la mia salita,
poiché gran tratto d’aria alfin le tolse
l’amata imago in apparir sparita,
per lung’ora di là sorger non volse,
dove attonita giacque e tramortita;
poi la fronte levando afflitta e bassa
tra sospiro e sospir ruppe un «ahi lassa».
173
«Lassa (dicea) tu m’abbandoni e vai
da me lontano e fuggitivo, Amore.
Fuggisti, Amor. Che più mi resta omai,
senon sol di mestessa odio ed orrore?
Ben dala vista mia fuggir potrai,
ma non già dal pensier, non già dal core.
Se ‘l ciel dagli occhi miei pur ti dilegua,
fia che col core e col pensier ti segua.
174
Sì per poco ti sdegni? e tocco apena
da picciola scintilla t’addolori?
Quest’alma or che farà d’incendio piena?
Che farà questo cor fra tanti ardori?»
Così doleasi, e copiosa vena
versando intanto d’angosciosi umori,
sommersi dale lagrime cadenti
in bocca le morir gli ultimi accenti.
175
Dopo molto lagnarsi in piè risorge,
ratto poi drizza al vicin prato il passo,
ché con corso pacifico vi scorge
torcersi un fiumicel tra sasso e sasso.
Va su l’estremo margine, che sporge
l’orlo curvo e pendente al fondo basso,
e desperata e dal dolor trafitta
precipitosamente ingiù si gitta.
176
Ma quel cortese e mansueto rio,
o ch’a me compiacer forse volesse,
ricordevole pur che son quell’io
che so fiamme destar tra l’acque istesse,
o che con gli occhi, ov’arde il foco mio,
rasciutte un sì bel sol l’onde gli avesse,
del’altra riva insu le spiagge erbose
con innocente vomito l’espose.
177
Vede, uscita dal rischio, al’ombra assiso
d’Arcadia il rozzo dio ch’ivi soggiorna.
Tutto d’ebuli e mori ha tinto il viso
e di pelle tigrina il fianco adorna;
fa d’edra fresca un ramoscel reciso
ombroso impaccio al’onorate corna,
e tien, con l’edra incatenando il faggio,
impedito di fronde il crin selvaggio.
178
Mentre le capre sue vaghe e lascive
pendon dal’erta con gli amici agnelli
e del fiume vicin lungo le rive
tondono i verdi e teneri capelli,
egli ale canne, che fur ossa vive
di lei che gli arse il cor con gli occhi belli,
inspira dalo spirto innamorato
voce col suono ed anima col fiato.
179
Sette forate e stridule cicute
con molle cera di sua man composte
bella varietà di voci argute
formano in disegual serie disposte,
onde il silenzio dele selve mute
impara ad alternar dolci risposte
ed ale note querule e canore
fa la ninfa degli antri aspro tenore.
180
Questi veduta allor la meschinella
languida starsi e sconsolata e sola,
pietosissimamente a sé l’appella
e con dolci ragion poi la consola:
«Rustico mi son io, giovane bella,
ma dotto assai nel’amorosa scola,
e di quel mai che ‘n te conosco aperto
per lunga età, per lunga prova esperto.
181
Il piè tremante, il pallidetto volto,
quegli umid’occhi e que’ sospiri accesi
mi dan pur chiaro a diveder che molto
hai dal foco d’amor gli spirti offesi.
Odimi dunque, e l’impeto sì stolto
frena de’ tuoi desiri a morte intesi,
né più voler, del’opre lor più belle
omicida crudel, tentar le stelle.
182
Il mai che ben si porta è lieve male
e vince ogni dolor saggio consiglio
e nelo stato misero mortale
è maggior gloria ov’è maggior periglio.
Mi son noti i tuoi casi e so ben quale
sia dela bella dea l’alato figlio.
Non ti doler, che seben or ti fugge,
so che non men di te per te si strugge.
183
L’ire degli amator fidi e veraci
non son senon d’amor mantici e venti
che de’ freddi desii destan le faci
e le fiamme del cor fan più cocenti,
onde le risse alfin tornano in paci
e ‘n gioie a terminar vanno i tormenti.
Giova poi la memoria, ed è soave
a rimembrar quelch’a soffrir fu grave.
184
Or del cor tempestoso acqueta i moti
e cessa il pianto ch’i begli occhi oscura,
né voler con guastar le proprie doti
far torto al cielo ed oltraggiar natura.
Umil più tosto con preghiere e voti
quel sì possente dio placar procura,
loqual, credimi pur, fia ch’a’ tuoi preghi
ogni sdegno deposto alfin si pieghi.»
185
Ringrazia Psiche il satiro pietoso
che sì ben la conforta e la lusinga,
poi s’accommiata e senz’alcun riposo
per traverse remote erra solinga.
Alfin là dove domina lo sposo
dela suora maggior giunge raminga.
Giunta, l’altra l’abbraccia e la saluta
e chiede la cagion di sua venuta.
186
La già schernita, a vendicarsi accinta,
seco d’amor le dimostranze alterna,
e d’allegrezza astutamente infinta
vestendo il volto e l’apparenza esterna,
«Dal tuo consiglio stimulata e spinta
presi il ferro (le dice) e la lucerna
per uccider colui che di marito
usurpato s’avea nome mentito.
187
Tacitamente a mezzanotte io sorsi
ed avendo a ferir stretto il coltello,
lassa, ch’un mostro, è vero, un mostro scorsi
ma mostro di beltà pur troppo bello.
Quel lume spettator ch’innanzi io sporsi
a quanto narro in testimonio appello,
che quando un tal oggetto a mirar ebbe
raddoppiando splendore ardore accrebbe.
188
Ahi non senza sospir mene rimembra,
ché, contemplando quel leggiadro velo,
dico il corpo divin che certo sembra
meraviglia del mondo, opra del cielo,
al’armi, al’ali, ale purpuree membra,
ond’uscia foco da stemprare il gelo,
m’accorsi alfin che quelch’ivi giacea
era il vero figliuol di Citerea.
189
Ma quel perfido lume e maledetto,
accusator dele bellezze amate,
non so s’invido pur del mio diletto
o vago di baciar tanta beltate,
al sonnacchioso arcier, ch’ignudo in letto
le palpebre tenea forte serrate,
con acuta favilla il tergo cosse,
sich’al’aspra puntura ei si riscosse,
190
e, veggendomi armata in sì fier atto,
scacciommi e non fe’ più meco dimora.
‘Vanne (disse) crudel, vattene ratto
e dal mio letto e dal mio petto fora.
Io tutti i miei pensier per tal misfatto
volgo in tua vece ala maggior tua suora;
ella (e t’espresse a nome), io vo’ che sia
e di me donna e dela reggia mia’.
191
Disse e fuor del suo albergo al’altra riva
soffiar mi fe’ dal portator volante.
Va dunque, occupa il loco ond’io son priva,
godi quelch’io perdei, celeste amante.
A me, che più non spero infin ch’io viva
romper la stella mia dura e costante,
chieder convien tributo a tutte l’ore
di pianto agli occhi e di sospiri al core».
192
Apena ella ha di dir fornito questo
che quell’invida arpia le piante affretta
e giunta insu ‘l fatal monte funesto,
dov’andar suole il vento, il vento aspetta,
«Vienne Zefiro, vien veloce e presto,
angel di primavera, amica auretta,
vienne (dicea) tu condottier, tu scorta,
preda ben degna al mio signor mi porta.»
193
Sente allora spirar di su la cima
del’alta costa un ventolin sottile,
onde fuor d’ogni dubbio attende e stima
ch’a lei ne vegna il precursor d’aprile.
Scagliasi a piombo e gravemente al’ima
parte del poggio il corpo immondo e vile
ruinoso trabocca e tra que’ sassi
misera, in cento pezzi a franger vassi.
194
Con l’arte istessa ancor poco dapoi
ingannò l’altra giovane meschina,
che pur, fede prestando a’ detti suoi,
salse anelante insu la rupe alpina
e similmente imaginar ben puoi
se dal monte balzando ala marina
lasciò, condegno premio ale sue colpe,
lacerate le viscere e le polpe.
195
Tra le pietre medesme, ahi semplicetta,
lasciò le membra dissipate e sciolte.
Così fur con egual giusta vendetta
le due pesti maligne al mondo tolte.
E così chi di fraude si diletta
ne’ propri lacci suoi cade ale volte.
Volse farle ambedue fato consorte
come complici al mal, compagne in morte.
196
Ma Psiche or quinci or quindi errante e vaga
ricercando di me, le vie scorrea,
di me che per dolor di doppia piaga
su le piume materne egro giacea;
e, benché di sue ingiurie alquanto paga,
pur tra duri martir l’ore traea,
spendendo i giorni in gemiti dirotti
e consumando in lacrime le notti.
197
Stavasi intanto la mia bella madre
nel profondo oceano, ove già nacque,
quelle membra a lavar bianche e leggiadre,
ond’ella agli occhi tuoi cotanto piacque.
Ed ecco a lei dale volanti squadre
un marittimo augel ch’abita l’acque,
sotto l’onde attuffando allor le penne,
tutto il successo a rivelar le venne.
198
Le prende a raccontar l’iniquo mergo
e le mie nozze e ‘l già concetto pegno;
scopre ch’io porto nel’adusto tergo
di grave cicatrice impresso segno;
narra ch’ascoso entro l’usato albergo
languisco in amor sozzo, in ozio indegno;
conchiude alfine il relator loquace
eh ‘l mondo tutto a biasmo suo non tace.
199
O qual nel cor di Venere s’aduna
fiamma di sdegno allor fervida e viva;
dimanda al messo in vista oscura e bruna
chi sia l’amica mia, chi sia la diva;
se sia del popol dele ninfe alcuna
o dele dee nel numero s’ascriva;
se tolta io l’abbia e qual scelta di loro
o dele Muse o dele Grazie al coro.
200
Risponde non saver di questa cosa
l’alato ambasciador quando né come,
senon che strugge Amor fiamma amorosa
e ch’egli ama una tal che Psiche ha nome.
Sembra la dea non dea, furia rabbiosa
a quell’annunzio e con discinte chiome
esce del mar correndo e ‘nsu le soglie
giunta dela mia stanza il grido scioglie.
201
«Così dunque ubbidisci a’ detti miei,
quant’io t’impongo ad esseguire accinto?
ito in tal guisa a vendicarmi sei?
ed hai di Psiche il tant’orgoglio estinto?
O degne palme, o nobili trofei,
ecco il forte campion che ‘l mondo ha vinto,
l’arciero egregio, il feritore invitto
or da donna mortal langue trafitto.
202
Ecco quel grande e generoso duce
per cui soffre ogni cor tormento e pena,
e con infamia tanta or si riduce
a lasciarsi legar con sua catena,
e ‘n vil trionfo prigionier l’adduce
bellezza corrottibile e terrena;
quel buon figlio leal, ch’un van diletto
suole anteporre al maternal precetto.
203
E forse ch’io ministra anco non fui
di questa sceleragine e mezzana,
quando diedi primier notizia a lui
dela malvagia femina profana?
Ch’io deggia sopportar crede costui
una nuora vulgar di stirpe umana
e che venga anco in cielo a farmi guerra
l’emula mia, la mia nemica in terra?
204
Pensi tu che ‘l mio ventre insterilito
concepir più non possa un altro Amore?
Vedrai s’io saprò ben prender partito
e figlio generar di te migliore.
Anzi, per farti più restar schernito,
voglio un servo degnar di questo onore;
un de’ valletti miei voglio adottarmi,
dargli tutti i tuoi fregi e tutte l’armi.
205
Lui vestirò de’ colorati vanni,
egli avrà l’arco d’or che tu possiedi,
gli strali ond’escon sol ruine e danni
e la fiaccola ardente e gli altri arredi,
i quali a te, fellon, mastro d’inganni,
a quest’uso malvagio io già non diedi,
né gli hai già tu d’eredità paterna,
ma beni son dela mia dote eterna.
206
Fin da’ prim’anni tuoi veracemente
fosti licenzioso e mal avezzo.
Sei contro i tuoi maggiori irreverente,
né val teco adoprar minaccia o vezzo.
Anzi qual vedovetta orba sovente
la propria madre tua togli in disprezzo,
dico mestessa, ond’alimento prendi,
spesso oltraggiasti ed ogni giorno offendi.
207
Né pur del forte tuo terribil dio
temi l’armi guerriere e vincitrici,
anzi talor per maggior scorno mio
concubine gli trovi e meretrici.
Ma di si fatti scherzi i’ so ben io
come far l’ire mie vendicatrici.
Vo’ che tante follie ti costin care
e queste nozze tue ti sieno amare.
208
Deh, che far deggio? o come al’insolenza
di questo sfrenatel stringere il morso?
Mi convien pur malgrado al’Astinenza,
mia nemica mortal, chieder soccorso.
Per dargli al fallo egual la penitenza,
forza è pur ch’a costei rivolga il corso;
costei, benché da me sempre aborrita,
fia che mi porga ala vendetta aita.
209
Ella di quest’altier che sì presume
domi le forze e suoi pensier perversi.
Io fin che quel crin d’or, che per costume
più d’una volta innanellando tersi,
per me tronco non veggia, e quelle piume,
che ‘n questo sen di nettare gli aspersi,
di mia man non gli svella, unqua non fia
che sodisfaccia al’alta ingiuria mia.»
210
Con questo dir, da’ suoi furor rapita,
va per far al mio core oltraggio e danno,
e Cerere e Giunon trova al’uscita,
che le van contro e compagnia le fanno
e, veggendola afflitta e scolorita,
dimandan la cagion di tanto affanno.
Ella di quel dolor la somma spiega
e sue ragioni ad aiutar le prega.
211
«Se mi siete (dicea) fidate amiche,
s’è l’amor vostro al’amor mio conforme,
datemi in man la fuggitiva Psiche,
usate ogni arte a ricercarne l’orme».
L’accorte dee, già mie seguaci antiche,
in cui sopito il foco mio non dorme,
del’arrabbiato cor l’ire feroci
s’ingegnan mitigar con queste voci:
212
«E qual gran fallo o qual peccato grave
il tuo figlio commise, o dea cortese,
se lo sguardo piacevole e soave
d’una vaga fanciulla il cor gli accese?
Amorosa e divina alma non have
onde sdegnarsi per sì lievi offese.
Fora certo più tosto il tuo devere
amar ciò ch’ama e ciò che vuol volere.
213
Sai ben ch’ei non è più tenero in erba,
forz’è ch’al foco pur s’accenda l’esca.
Se tu rimiri ala sembianza acerba
o vuoi forse aspettar ch’egli più cresca,
tal nela guancia sua vaghezza serba,
sempre ignuda di pelo e sempre fresca,
Sì tien con la statura il tempo occulto
che ti parrà bambin, quantunque adulto.
214
Or tu, che de’ piacer sei dispensiera,
tu, che pur madre sei, che sei prudente,
vorrai ritrosa ognor dunque e severa
spiar gli affari suoi sì sottilmente?
Chi fia che non t’appelli ingiusta e fiera,
se tu, che seminando infra la gente
a tutte l’ore vai fiamme ne’ cori,
vuoi dala casa tua scacciar gli amori?»
215
Così parlando a mio favor le due
scusan la colpa e prendon l’ira a gioco,
temendo lor non sia, come già fue,
ferito il petto di pungente foco.
Ella, sdegnando che l’ingiurie sue
passino in riso e sien curate poco,
le lascia ed a sfogar la rabbia altrove
velocissimamente i passi move.
216
Intanto Psiche mia per varie strade
inquieta d’errar giamai non cessa
e discorsi or di sdegno, or di pietade
volge incerta e dubbiosa infra sestessa.
Or dal grave timor battuta cade,
or le sorge nel cor la speme oppressa.
Teme, spera, ama, brama e si consuma
come a fervido sol gelida bruma.
217
Di me novelle investigando invano,
quasi smarrita e saettata cerva
fugge per boschi a più poter lontano
del’orgogliosa dea l’ira proterva.
Vorria, punita sol dala mia mano,
titol, se non di sposa, almen di serva
e l’amaro addolcir ch’io chiudo in seno
se non con vezzi con ossequi almeno.
218
Tempio che d’arte ogni edificio avanza
sovra la sommità d’un monte mira
e vaga di saver se v’abbia stanza
l’occulta deità per cui sospira,
tosto lo stanco piè, dala speranza
rinvigorito, a quella parte gira
e ‘nsu la cima dopo l’erta strada
trova fasci di gran, mucchi di biada.
219
In quella guisa che dopo la messe
ventilate e battute alcun l’ha viste
giacer su l’aia, accumulate e spesse
stavan sossovra le mature ariste,
e falci e rastri e vomeri con esse
e vanghe e marre inun confuse e miste
e pale e zappe e cribri e quanti arnesi
usa il cultor ne’ più cocenti mesi.
220
Devota allor con umiltà profonda
sceglie, compon, dispon le sparse spiche,
quando si mostra a lei la dea feconda
«Che fai (dicendo) o poverella Psiche?
Tu qui spargi oziosa e vagabonda
in vane cure inutili fatiche,
e Citerea, che morte ti minaccia,
va con cupida inchiesta ala tua traccia.»
221
Innanzi al divin piede allor si stende
e con larghe fontane il lava tutto
e col bel crin che fin a terra scende,
scopando a un punto il suolo, il rende asciutto.
«Deh, per le cerimonie (a dir le prende)
e i lieti riti del tuo biondo frutto,
per gli occulti secreti e venerandi
del’auree ceste, onde i tuoi semi spandi,
222
per le rote volanti e per le faci,
per gli dragoni che ‘l tuo carro imbriglia,
per le glebe fruttifere e feraci
onde Sicilia ancor si meraviglia,
per la rapina de’ destrier fugaci,
per gli oscuri imenei dela tua figlia
e per quant’altre cose umile ancora
ne suoi sacri silenzi Eleusi onora,
223
sovien prodiga dea, pregoti, a questa
perseguitata e misera, sovieni.
Sotto le spiche dela folta testa
sol tanto ascosa per pietà mi tieni
che di colei che le mie paci infesta
passi alquanto il furor, l’ira s’affreni
e con breve quiete almen ristori
le membra stanche da sì lunghi errori».
224
Mover potea con questi preghi un scoglio,
ma da Cerer però trovossi esclusa,
che, non osando inacerbir l’orgoglio
del’altera cognata, alfin si scusa,
onde doppiando al cor tema e cordoglio
quindi dal suo sperar parte delusa,
né ben scorge il camin, sì spesso e tanto
le piove agli occhi e l’abbarbaglia il pianto.
225
Vede un’altra non lunge eccelsa mole
che par che fin al ciel s’estolla ed erga.
Scritte mostran su l’uscio auree parole
del nume il nome che là dentro alberga.
Per supplicar la dea ch’ivi si cole
s’asciuga i fiumi, onde la guancia verga,
e, poiché dentro s’avicina e passa,
gli occhi solleva e le ginocchia abbassa,
226
ed abbracciando reverente e china
l’altar di sacro sangue ancor fumante
«O (dice) dele dee degna reina,
germana e moglie del sovran tonante;
o che Samo t’accolga, a cui bambina
desti i primi vagiti ancor lattante,
o di Cartago la beata sede,
che spesso assisa insu ‘l leon ti vede,
227
o che d’Inaco pur tra i verdi chiostri
cerchi di Giove l’amorose frodi,
o che ‘ntesa a guardar dal ciel ti mostri
le mura argive, ond’hai tributi e lodi,
tu che Lucina sei detta da’ nostri,
ch’alma con alma in maritaggio annodi,
deh propizia a’ miei voti or me ritogli
al vicin rischio e ‘n tua magione accogli».
228
Giunon, mentr’ella prega e l’ara abbraccia,
l’appare in vista umana e mansueta,
ma per non consentir cosa che spiaccia
ala motrice del gentil pianeta,
le nega albergo e con tal dir la scaccia:
«Servo fugace ricettar si vieta».
A quest’altra repulsa aspra e severa
di sua salute intutto ella despera.
229
Con cor tremante e con tremante piede
fugge la tapinella e non sa dove.
In ciò che ‘ntorno ascolta, in ciò che vede,
vede di novo orror sembianze nove.
Lieve arboscel cui debil aura fiede,
lieve augellin che geme o che si move,
lieve foglia che cade o che si scote
di terror doppio il dubbio cor percote,
230
e per deserti inospiti fuggendo,
così co’ suoi pensier tra sé discorre:
«Or qual suffragio in si grand’uopo attendo,
se ‘l cielo istesso i miei lamenti aborre?
se la forza divina, ancor volendo,
aiutar non mi può, chi mi soccorre?
chi mi difenderà, s’anco gli dei
non mi sanno schermir contro costei?
231
In qual grotta sì fosca o sì profonda
chiuder mi deggio? o dove andar sì lunge
ch’agli occhi inevitabili m’asconda
di Citerea, che ‘n ogni parte giunge?
Fia dunque il meglio ch’al destin risponda
e ‘l corso affretti, ov’ei mi sferza e punge.
Che tardo? Un franco ardir tronchi ogn’indugio
e l’altrui crudeltà sia mio refugio.
232
Colà n’andrò dov’ella alberga e regna
in prigion volontaria a farmi ancella.
Forse quell’ira alfin del cielo indegna
pietosa deporrà, sicome bella.
Forse ancor fia ch’ivi trovar m’avegna
chi m’aventò nel cor fiamme e quadrella
e che con lieta o con infausta sorte
m’impetri perdono o mi dia morte.»
233
Mentr’ella in guisa tal s’aggira ed erra,
drizzando i passi ove di gir propone,
e per ottener pace a tanta guerra
gli argomenti tra via studia e compone,
stanca Ciprigna di cercarla in terra,
i rimedi del ciel tentar dispone;
rivolge il carro inver le stelle e poggia
su i chiostri empirei, ove il gran Giove alloggia.
234
Quivi Mercurio con preghiere astringe
che la bandisca e sappia ove si cela;
gli narra la cagion ch’a ciò la spinge,
promette premiar chi la rivela,
dichiara il nome e le fattezze pinge,
aggiungendo gl’indizi ala querela,
accioché, s’egli avien ch’alcun la trovi,
scusa poi d’ignoranza altrui non giovi.
235
L’una a casa ritorna e l’altro piomba
veloce in terra a promulgar l’editto.
«Qualsivoglia mortale (a suon di tromba
publicato per lui dice lo scritto)
Psiche, degna di carcere e di tomba,
rubella e rea di capital delitto,
fia ch’a Venere bella accusi e scopra,
ricompensa ben degna avrà del’opra.
236
Venga là tra le piagge a lei dilette,
dove il tempio de’ mirti erge Quirino,
che dala dea benigna avrà di sette
baci soavi un guiderdon divino,
e più dolce fra gli altri un ne promette
in cui lingueggi il tenero rubino,
in cui labro con labro il dente stringa
e di nettare e mel si bagni e tinga.»
237
Questo grido tra’ popoli diffuso
alletta tutti ala mercé proposta,
onde non trova alcun loco sì chiuso
che non v’entri a spiar se v’è nascosta.
Ella con piè smarrito e cor confuso
già dela diva ala magion s’accosta,
dale cui porte incontr’a lei s’avanza
una ministra sua, ch’è detta Usanza.
238
«Pur ne venisti (ad alta voce esclama)
schiava sfacciata, ove il castigo è certo!
O non t’è forse ancor giunta la fama
di quanto in te cercando abbiam sofferto?
Giungi a tempo a pagarlo, e già ti chiama
giustissimo supplicio al proprio merto.
Tra le fauci del’orco alfin pur desti,
perché l’orgoglio tuo punito resti».
239
Così parlando le cacciò le mani
de’ capei d’oro entro le bionde masse
e con motti oltraggiosi e con villani
scherni, volesse o no, seco la trasse.
Giunta ala dea, da tanti strazi strani
rotta, con viso chino e luci basse
le ginocchia abbracciolle, innanzi al piede
le cadde a terra e le gridò mercede.
240
Con un riso sprezzante a lei rivolta
dice Venere allor: «Se’ tu colei
ch’ale dee di beltà la gloria hai tolta?
ch’hai domo il domator degli altri dei?
Ecco pur la tua socera una volta
degnata alfin di visitar ti sei.
O vien forse a veder l’egro marito,
ch’ancor per tua cagion langue ferito?
241
Or io ti raccorrò, vivi secura,
come buona raccor nuora conviene!
Su suso, ancelle mie, Tristezza e Cura,
date a costei le meritate pene!»
E tosto a far maggior la sua sventura
ecco duri flagelli, aspre catene.
Battendola con rigide percosse
la fiera coppia ad ubbidir si mosse.
242
La rimenano avante al suo cospetto,
poich’ambedue l’han tormentata forte,
spettacol da commovere ogni petto,
senon di lei, che la disama a morte.
Di corruccio sfavilla e di dispetto
e, dale luci allor traverse e torte
girando obliquo il guardo al’infelice,
aspramente sorride e così dice:
243
«E’ par mi voglia ancor col peso immondo
del suo tumido ventre indur pietate,
e mi prometta già, tronco fecondo,
gloriose propagini e beate.
Felicissima me, ch’avola il mondo
m’appellerà nela più verde etate,
e ‘l figlio d’una vil serva impudica
fia che nipote a Venere si dica.
244
Ma perché tanto onor? Di nozze tali
figlio nascer non può, spurio più tosto.
Son illecite, ingiuste ed ineguali,
fur di furto contratte e di nascosto,
onde quelche trarrà quindi i natali
tra gl’infami illeggittimi fia posto,
se però tanto attenderem ch’al sole
esca il bel parto di sì degna prole.
245
No no, far non poss’io che rompre il freno
sofferenza irritata alfin non deggia;
vo’ di mia man da quel nefando seno
trar l’eterno disnor dela mia reggia;
pace mai non avrò tanto ch’apieno
e lei sbranata e me sbramata io veggia;
sazia mai non sarò finch’abbia presa
giusta vendetta del’ingiusta offesa».
246
Tace e le dà di piglio, e dagl’infermi
membri tutte le squarcia e vesti e pompe.
La misera sel soffre e non fa schermi,
né pur in picciol gemito prorompe.
Vadan pur fra’ tiranni i corpi inermi,
l’armi però del cor forza non rompe,
la costanza viril, ch’è ne’ tormenti
lo scudo adamantin degl’innocenti.
247
Poi di vari granelli accolti insieme
confuso un monte, ala fanciulla impera
che prenda a separar seme da seme
e sia l’opra spedita innanzi sera.
Vassene ala gran cena, e fuor di speme
sola la lascia, e pensa in qual maniera
Psiche potrà nel tempo a lei concesso
agevolarsi il gran lavor commesso.
248
Psiche, atterrita dal crudel comando,
stupisce e tace e d’ubbidir diffida,
ché, l’assegnato cumulo mirando,
non sa come lo scelga o lo divida;
tenta indarno ogn’industria e, paventando
la rigorosa dea che non l’uccida,
di non poter distinguere si dole
quella incomposta inestricabil mole,
249
quando in soccorso suo corse veloce
l’agricoltrice e provida formica,
quella che suol, quando più l’aria coce,
da’ campi aprici depredar la spica.
Questa, biasmando dela dea feroce
l’atto e mossa a pietà di sua fatica,
dale vicine allor valli e campagne
tutto il popol chiamò dele compagne.
250
Concorre tosto in numerose schiere
con sollecita cura e diligente
rigando il verde pian di linee nere
il lungo stuol dela minuta gente,
e la mistura, ove l’uman savere
manca e per cui la donna è sì dolente,
con sommo studio e con mirabil arte
ordinata e partita, alfin si parte.
251
La notte intanto i rai d’Apollo spense
e già con l’ombre Arpocrate sorgea
e i balli suoi per l’alte logge immense
tra le ninfe del ciel Cinzia traea,
quando tornò dale celesti mense,
di balsamo e di vin colma, la dea
e, tutta cinta d’odorate rose,
terminate trovò l’imposte cose.
252
«Non tua, né di tua man, senon m’inganno,
fu già quest’opra, o scelerata (disse)
opra fu di colui che per tuo danno
di te volse il destin che s’invaghisse.
Ma godi pur, ch’al’un e l’altra stanno
le devute da me pene prefisse».
E, partendo da lei, poich’ha ciò detto,
consente al sonno e si ritragge in letto.
253
Nel’ora poi che fa dal mar ritorno
l’Alba e colora il ciel di rosa e giglio,
e ‘nsu l’aureo balcon, che s’apre al giorno,
rasciuga al primo sole il vel vermiglio,
dal ricco strato e di bei fregi adorno
la pigra fronte e ‘l sonnacchioso ciglio
sollevando Ciprigna, ala donzella,
sdegnosa tuttavia, così favella:
254
«Vedi quel bosco, le cui ripe rode
precipitoso e rapido ruscello?
Pecorelle colà senza custode
pascon lucenti di dorato vello.
Io vo’ veder se pur con nova frode
t’ingegnerai di ritornar da quello.
Vattene dunque e dele spoglie loro
recami incontanente un fiocco d’oro».
255
Risoluta di cedere al destino
va Psiche per sommergersi in quell’onde,
ma verde canna, che del rio vicino
vive su le palustri e fresche sponde,
animata da spirito divino
e mossa da leggiere aure seconde,
ode con dolce e musico concento
sussurrar questo suon tremulo e lento:
256
«O da tanti travagli e sì diversi
essercitata per sì lunghe vie,
deh! non volere i bei cristalli tersi
macchiar col sangue tuo del’acque mie,
né contro i mostri andar crudi e perversi,
ch’abitan queste spiagge infami e rie;
fere ch’han di fin or la pelle adorna,
ma sasso hanno la fronte, acciar le corna.
257
Tocche dal sol, qualor più forte avampa,
entrano in rabbia immoderata orrenda,
dal cui dente crudel morte non scampa
chiunque il morso avelenato offenda.
Aspetta pur che la più chiara lampa
a mezzo ‘l cielo insu ‘l meriggio ascenda;
nel centro allor del’ampia selva ombrosa
la greggia formidabile si posa.
258
E tu di quel gran platano nascosta
sotto i frondosi e spaziosi rami,
finché l’ira dormendo abbia deposta,
potrai tutto esseguir, quantunque brami,
e secura carpir quindi a tua posta
del’auree lane e i preziosi stami
che rimangon negli arbori che tocca
implicati e pendenti a ciocca a ciocca».
259
Con questi accenti il calamo sonoro
Psiche gentil di sua salute informa,
che, ben instrutta e ‘ntesa al bel tesoro,
attende ch’ogni pecora si dorma,
e, poich’ha da que’ tronchi il sottil oro
rapito alfin dela lanosa torma,
con esso in grembo a Citerea sen riede,
che, veggendola viva, apena il crede.
260
Con torvo ciglio e grosso cor la mira,
né cessa l’odio, anzi s’avanza e poggia
e vie più cresce essacerbata l’ira,
sicome in calce suol foco per pioggia.
A nova occasion la mente gira
e d’affligerla pensa in altra foggia.
«So ben l’autor (dicea) di questa prova,
ma vo’ vederne esperienza nova.
261
Da quell’alpestra e ruvida montagna,
ch’al raggio oriental volge le spalle,
fiume, che d’acque brune i sassi bagna,
scorrer vedrai nela vicina valle;
questo, senza sboccar nela campagna
esce di Stige per occulto calle,
e ‘n quella nera e fetida palude
dopo lungo girar s’ingorga e chiude.
262
Se spavento il tuo petto or non occupa
ed hai pur, come mostri, animo ardito,
là nel più alto colmo, onde dirupa
l’acqua, hai tosto a salir con piè spedito,
e dala scaturigine più cupa
del fonte, che rampollo è di Cocito,
tentando il fondo del’interna vena,
trarmi di sacro umor quest’urna piena».
263
Dopo questo parlar la fronte crolla
intorbidando de’ begli occhi il raggio,
né ben di perseguirla ancor satolla,
par la minacci di più grave oltraggio.
Presa da lei la cristallina ampolla,
Psiche al gran monte accelera il viaggio,
sperando pur ch’a tante sue ruine
un mortal precipizio imponga fine.
264
Ma come arriva ale radici prime
del poggio altier, che volge al sol la schiena,
vede l’erta sì aspra e sì sublime
che volarvi gli augei possono apena.
Inaccessi recessi, aguzze cime,
dove non tuona mai, né mai balena,
poich’al verno maggior le nubi e ‘l gelo
gli fan dal mezzo ingiù corona e velo.
265
Lubrico è il sasso e dale fauci aperte
vomita il fiume oscuro in viva cote,
che per latebre tortuose incerte
e per caverne concave ed ignote
serpe, e tra pietre rotto ispide ed erte
con rauchi bombi i margini percote;
caduto stagna e si diffonde in laghi,
dove fischiano intorno orridi draghi.
266
Raccoglie la vallea del’acqua stigia
tutta la piena nel suo ventre interno;
riga l’onda il terren pallida e bigia,
orribil sì che poco è più l’inferno.
Quivi raro uman piè segnò vestigia,
né la visita mai raggio superno,
anzi le nevi insu ‘l bollir del’anno
a dispetto del sol sempre vi stanno.
267
Quel fiume, ancorché crudo, ebbe pietate
di veder spenti sì sereni rai
e parea dir con l’onde innamorate:
«Fuggi, mira ove sei, guarda che fai!
Deh! non lasciar perir tanta beltate!
Torna tornati indietro; ove ne vai?
È follia più che senno e più che sorte,
senza riscossa alcuna esporsi a morte».
268
Psiche presso la foce, onde deriva
il torrente infernal, di sasso muto
resta quasi cangiata in statua viva,
quel giogo insuperabile veduto,
sì d’ogni moto e d’ogni senso priva
che ‘l conforto del pianto anco ha perduto.
Ma qual cosa mortale è che non scerna
il tuo grand’occhio, o providenza eterna?
269
Spiegò l’augel real dal ciel le penne,
forse ingrato al mio nume esser non volse,
ché del’antico ossequio gli sovenne,
quando il frigio coppier tra l’unghie accolse;
questi rapidamente a lei ne venne
e ‘n sì fatto parlar la lingua sciolse:
«Spera dunque, o malcauta, il tuo desio
stilla attigner giamai di questo rio?
270
Fatale è il rio che vedi, e son quest’acque
a Giove istesso orribili e temute,
e i giuramenti suoi fermar gli piacque
inviolabilmente in lor virtute.
Ma dammi pur cotesto vetro». E tacque
e, preso il vaso entro le grinfe acute,
volando sovra l’apice del monte,
l’empiè del’onda del tartareo fonte.
271
Ciò fatto, la guastada in man le porge
e torna al ciel per via spedita e corta.
Psiche, che del licor colma la scorge,
volentier la riprende e la riporta
e, fra tante sciagure, in lei risorge
speme che la rinfranca e la conforta,
ch’ha sotto ignudo petto armato core,
forte, senon di ferro, almen d’amore.
272
Chi può dir ciò che disse e ciò che feo
la diva allor di Pafo e d’Amatunta?
Non freme sì dal cacciator rifeo
barbara tigre saettata e punta,
o dagli austri sferzato il vasto Egeo,
come mormora e sbuffa ala sua giunta;
non sa come sfogar l’astio crudele
e le si gonfia di gran rabbia il fiele.
273
«Ben ti mostri (dicea) com’esser devi,
di malizie maestra e di malie,
poiché sapesti in tante imprese grevi
sì ben tutte adempir le voglie mie.
Far certo un tal miracolo potevi
sol per arte d’incanti e di magie,
ma cosa non minor forse di questa,
bella mia pargoletta, ancor ti resta.
274
Prendi questo vasel, ch’io t’appresento,
discendi a Dite e subito ritorna,
là dove a comandar pena e tormento
la reina dell’erebo soggiorna;
dì che mi mandi del suo fino unguento,
che la pelle ammollisce e ‘l viso adorna;
ma convienti spacciar tosto la via,
perch’al pasto di Giove a tempo io sia.»
275
Psiche, senza far motto, a terra fissi
tien que’ bei lumi, ond’io sospiro e gemo,
ché ben s’accorge, andando inver gli abissi,
d’esser mandata al’infortunio estremo.
Pensa qual mi fess’io, qual mi sentissi,
quando solo in narrarlo ancor ne tremo,
vederla astretta allor col proprio piede
a girne in parte ond’uom giamai non riede.
276
Poco oltre va, che trova eccelsa rocca
e là rivolge desperata i passi,
perché pensa tra sé, s’indi trabocca,
poter girne in tal guisa ai regni bassi.
La torre, o meraviglia!, apre la bocca
e discioglie la lingua ai muti sassi.
Che non potrà chi potè ‘l cor piagarmi,
se può dar senso agl’insensati marmi?
277
Lascio di raccontar con qual consiglio
scese d’abisso ale profonde conche,
con quai tributi senz’alcun periglio
passò di Pluto al’intime spelonche
e, de’ mostri d’Averno al fiero artiglio
le forze tutte rintuzzate e tronche
per via, che ‘ndietro mai non riconduce,
ritornò salva a riveder la luce.
278
E taccio come poi le venne audace
di quel belletto d’Ecate desio,
indi il pensier le riuscì fallace,
ché ‘l Sonno fuor del bossoletto uscio,
onde d’atra caligine tenace
le velò gli occhi un repentino oblio
e, da grave letargo oppressa e vinta,
cadde immobile a terra e quasi estinta.
279
Io, sano già dela ferita e molto
da sì lunga prigion stancato omai,
per un picciol balcon libero e sciolto
fuor dela chiusa camera volai,
e, vago pur di riveder quel volto
bramato, amato e sospirato assai,
parvi, battendo le veloci piante,
stella cadente o folgore volante.
280
Là dove senza mente e senza moto
giace, mi calo ed a’ begli occhi volo,
ne tergo il sonno e nel’avorio voto
di novo il chiudo, e ben n’ha sdegno e duolo;
con l’aurea punta delo stral la scuoto,
pria la riprendo e poi la riconsolo,
talché, con lieta speme al cor concetta,
porta il dono infernale a chi l’aspetta.
281
Giunse le palme, umile in atto, e fuori
tai note espresse: «Andai sotterra e venni,
eccomi fuor de’ sempiterni orrori,
e ‘l licor di Proserpina n’ottenni;
impommi pur difficoltà maggiori:
nulla ricuserò di quanto accenni,
ch’una devota affezzion tutt’osa
e fa potere ogn’impossibil cosa.
282
Ma non fia mai quel dì, lassa, ch’io speri
picciola requie ala penosa vita?
quando vedrò di que’ begli occhi alteri,
ch’innamorano il ciel, l’ira addolcita?
Se fermo è pur ch’io fra tant’odi fieri
d’ogni calamità sia calamita,
fa di tua man che ‘l fiato, ond’oggi io spiro,
sia dela morte il precursor sospiro.
283
Deh, donde aviene, o dea pietosa e santa,
che tu meco in tal guisa incrudelisca?
Se pur è ver che ‘n questa, che m’ammanta,
spoglia mortal qualche beltà fiorisca,
già non è in me temerità cotanta
che d’emularti o di sprezzarti ardisca.
Dei tu, che reggi l’amorosa stella,
odiarmi perché ‘l ciel mi fece bella?
284
Perfida io già non fui; se forse errai,
colpevol son d’involontario errore.
Un scusabil fallir perdona omai,
se pur fallo può dirsi amar Amore,
colui dale cui forze, e tu tel sai,
difendersi non vale ardito core;
dunque t’adirerai perch’abbia amato
quelche pur del tuo grembo al mondo è nato?
285
L’amo, nol nego, e fia che ‘n me si scioglia
prima il nodo vital che l’amoroso.
E seben fui pur dianzi al vento foglia,
ond’al cospetto suo tornar non oso,
più giamai perder fede o cangiar voglia
non mi vedrà, siami nemico o sposo,
tanto che ‘l sole a questi occhi dolenti
porti l’ultimo dì de’ miei tormenti.
286
Non cheggio il letto suo, né mi si debbe,
so ben che di tal grazia indegna sono;
ma in quel bel seno, ond’egli nacque e crebbe,
spero trovar pietà, nonché perdono».
Più oltre ancor continovato avrebbe
dele sue note addolorate il suono,
ma la doglia nel cor l’abondò tanto
che diè fine al parlar, principio al pianto.
287
La dea l’ascolta e di stupore impetra,
che ‘n tanti rischi indomita la trova;
ma ‘l petto a quel parlar l’apre e penetra
un non so che di tenerezza nova.
Il diamante del cor pietà le spetra,
ond’a forza convien che si commova;
ella nol mostra e col suo sdegno ha sdegno
che cede vinta al’aversaria il regno.
288
In questo mezzo io pur temendo in vero
il minacciato mal, con tanta fretta
rivolo inverso il ciel, che men leggiero
di mal pieghevol arco esce saetta.
Quivi al monarca del celeste impero
espongo ogni ragion, ch’a me s’aspetta;
narro di lei gl’ingiusti oltraggi, e come
grava ognor Psiche d’indiscrete some.
289
Prego, lusingo il suo gran nume eterno
e gli fo del mio cor la fiamma nota.
Sorrise Giove e con amor paterno
mi prese il mento e mi baciò la gota.
«Seben (disse) il tuo ardir con tanto scherno
sovente incontr’a me gli strali arrota,
sich’a tor forme indegne anco m’ha mosso
a’ tuoi preghi però mancar non posso».
290
Gli dei convoca e quest’affar consiglia
e le mie nozze celebrar comanda;
essorta a contentarsene la figlia,
poscia il suo fido nunzio in terra manda.
Rapita già tra l’immortal famiglia,
gusta il cibo divino e la bevanda,
e meco dopo tante aspre fatiche
nel teatro del ciel sposata è Psiche.
291
L’Ore, spogliando de’ lor fregi i prati,
tutto di rose imporporaro il cielo;
sparser le Grazie aromati odorati,
cantar le Muse la mia face e ‘l telo;
le corde d’oro e i calami cerati
toccar lo dio d’Arcadia e quel di Delo;
resse Imeneo la danza e volse in essa
ballar con l’altre dee Venere istessa.
292
Così di tanti affanni a riva giunsi
e per sempre il mio bene in braccio accolsi,
con cui, mentre ch’alfin mi ricongiunsi,
tanto mi trastullai, quanto mi dolsi;
né dal’amato sen più mi disgiunsi,
né dal nodo gentil più mi disciolsi,
e del mio seme, entro il bel sen concetto,
nacque un figliuol che si chiamò Diletto –.
293
Amor così ragiona, e l’altro intanto
il suo parlar meravigliando ascolta,
e per pietà d’affettuoso pianto
qualche perla gentil stilla talvolta,
ma con le faci e le faville a canto
sente avampar nel cor la fiamma accolta;
la fiamma, che ‘l pastor con sue vivande
gl’infuse al cor, già si dilata e spande.


CANTO III
CANTO IV
LA TRAGEDIA.

ALLEGORIA

Per Mercurio, che mettendo Adone in parole gli persuade con diversi essempi a ben amar Venere, si dimostra la forza d’una lingua efficace e come l’essortazioni de’ perversi ruffiani sogliono facilmente corrompere un pensier giovanile. Ne’ favolosi avvenimenti di que’ giovani da esso Mercurio raccontati, si dà per lo più ad intendere la leggerezza ed incostanza puerile. In Narciso è disegnata la vanità degli uomini morbidi e deliziosi iquali, non ad altro intesi che a compiacersi di sé medesimi e disprezzatori di Eco, ch’è figura della immortalità de’ nomi, alla fine si trasformano in fiori, cioè a dire che se ne muoiono miseramente senza alcun pregio, poiché niuna cosa più di essi fiori è caduca e corrottibile. In Ganimede fatto coppier di Giove, vien compreso il segno d’aquario, ilqual con larghissime e copiosissime piogge dà da bere a tutto il mondo. Per Ciparisso mutato in cipresso, siamo avertiti a non porre con ismoderamento la nostra affezzione alle cose mortali, accioché poi mancandoci, non abbiamo a menar la vita sempre in lagrime ed in dolori. Ila, come accenna l’importanza della voce greca, non vuol dir altro che selva ed è amato da Ercole, percioché Ercole come cacciatore di mostri, era solito di frequentar le foreste. Atide, infuriato prima e poi divenuto pino per opera di Cibele, ci discopre quanto possa la rabbia della gelosia nelle donne attempate, quando con isproporzionato maritaggio si ritrovano a giovane sposo congiunte. La rappresentazione d’Atteone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa cosa il volere irreverentemente e con soverchia curiosità conoscere de’ secreti divini più di quelche si conviene e quanto pericolo corra la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni, seguitando gli appetiti ferini.

ARGOMENTO

Entra il garzon per dilettosa strada
nel bel palagio infra delizie nove.
Seco divisa il messaggier di Giove,
poi con scene festive il tiene a bada.

1
L’umana lingua è quasi fren che regge
dela ragion precipitosa il morso.
Timon ch’è dato a regolar con legge
dela nave del’alma il dubbio corso.
Chiave ch’apre i pensier, man che corregge
dela mente gli errori e del discorso.
Penna e pennello, che con note vive
e con vivi color dipinge e scrive.
2
Istromento sonoro, or grati, or gravi,
or di latte, or di mel sparge torrenti.
Son del suo dire inun fieri e soavi
tuoni le voci e fulmini gli accenti.
Accoppia in sé del’api e gli aghi e i favi,
atti a ferire, a raddolcir possenti;
divin suggel che, mentr’esprime i detti,
imprime altrui negli animi i concetti.
3
Ma come spada che difende o fere
s’avien che bene o male oprata sia,
secondo il divers’uso, in più maniere
qualità cangia e divien buona o ria
e, se dal dritto suo fuor del devere
in malvagio sermon torta travia,
trafige, uccide e, del mordace dente,
benché tenera e molle, è più pungente.
4
Seben però, qualor saetta o tocca,
stampa sempre in altrui piaghe mortali,
non fa colpo maggior che quando scocca
in petto giovenil melati strali.
Versa catene d’or faconda bocca
che, molcendo e traendo i sensi frali,
tesson legame al cor dolce e tenace
ch’imprigiona e lusinga e noce e piace.
5
Un mezzano eloquente, un scaltro messo,
paraninfo di cori innamorati,
che viene e torna e patteggiando spesso
dele compre d’Amor tratta i mercati,
con le parole sue fa quell’istesso
ne’ rozzi petti e ne’ desir gelati
che suol ne’ ferri far la cote alpina,
che non ha taglio e le coltella affina.
6
O vi fulmini il ciel, v’assorba Dite,
infernali Imenei, sozzi oratori,
corrieri infami, al’anime tradite
di scelerati annunzi ambasciadori,
che con ragioni essortatrici ardite
di stimulare i semplicetti cori,
corrompendo i pensier con dolci inganni!
Qual ufficio più vil fa maggior danni?
7
Qual meraviglia, se de’ sommi eroi
l’interprete immortal, l’astuto araldo,
possente ad espugnar co’ detti suoi
ogni voler più pertinace e saldo,
su’l fiore, o bell’Adon, degli anni tuoi
il tuo tenero cor rende sì caldo?
Virtù di quel ministro, ilqual per prova
nela casa d’Amor sempre si trova.
8
Somiglia Adone attonito villano
uso in selvaggio e poverel ricetto,
se talora a mirar vien di lontano
pompa real di cittadino tetto.
Somiglia il domator del’oceano
quando d’alto stupore ingombro il petto,
vide primiero in region remote
meraviglie novelle e genti ignote.
9
Volge a tergo lo sguardo e mira e spia
se calle v’ha per rinvenir l’uscita.
Ma la porta superba, ond’entrò pria,
con sue tante ricchezze è già sparita.
Né sa guado veder, né trovar via
per indietro tornar, che sia spedita;
e quasi verme di bei stami cinto
va tessendo a sestesso il labirinto.
10
Tosto ch’egli colà pose le piante,
ben d’Amor prigioniero esser s’accorse,
ma fra delizie sì soavi e tante
dala cara catena il piè non torse;
anzi spontaneo e volontario amante
al ceppo il piede, al giogo il collo porse;
e poich’ha di tal carcere ventura,
servaggio apprezza e libertà non cura.
11
Non manca quivi a corteggiarlo accinta
di festevoli ninfe accorta schiera,
né con piuma qual d’oro e qual dipinta
vago drappel di gioventute arciera,
ch’al bel fanciul, da cui fu presa e vinta
la bella dea che ‘n quell’albergo impera,
stanno in guisa d’ancelle e di sergenti,
diversi uffici a ministrare intenti.
12
Chi d’ambrosia gl’impingua il crin sottile,
chi di rosa l’implica e chi di persa,
chi di pomposo e barbaro monile
la bella gola e candida attraversa,
altri al’orecchie di lavor simile
gemma gli appende folgorante e tersa;
talché tutto si vede intorno intorno
di molli arnesi e feminili adorno.
13
Incantato da’ vezzi e tutto inteso
a cose Adon sì disusate e nove,
parte d’alto stupor che l’ha sorpreso
vinto, bocca non apre, occhio non move,
parte sovra pensier, seco sospeso
volge suo stato e con cui siasi e dove;
e sparso intanto d’un gentil vermiglio
basso tien per vergogna a terra il ciglio.
14
Qui presente d’Atlante era il nipote,
perché non pur la sua natia Cillene
lascia talor, ma dal’eterne rote
per scherzar con Amor, spesso ne viene.
Questi al garzon s’accosta e sì lo scote
ch’alzar gli fa le luci alme e serene.
Favoleggiando poi dolce il consiglia
e con modi piacevoli il ripiglia:
15
– O damigel, che sott’umano velo
di consorzio divin sei fatto degno,
dela tua sorte invidiata in cielo
ecco ch’io teco a rallegrar mi vegno.
Così ‘l tuo foco mai non senta gelo,
come a curar non hai del patrio regno,
quando di sé lo scettro e del suo stato
la reina de’ regi in man t’ha dato.
16
Ma perché muto veggioti e pensoso,
sia pensier, sia rispetto o sia cordoglio;
consolar mesto, assecurar dubbioso,
consigliar sconsigliato oggi ti voglio.
Del bel, per cui ne vai forse fastoso,
ah non ti faccia insuperbire orgoglio,
però ch’è fior caduco e, se nol sai,
fugge e fuggito poi non torna mai.
17
E ti vo’ raccontar, se non t’aggrava,
ciò ch’adivenne al misero Narciso.
Narciso era un fanciul ch’innamorava
tutte le belle ninfe di Cefiso.
La più bella di lor, che s’appellava
Eco per nome, ardea del suo bel viso
ed adorando quel divin sembiante
parea fatta idolatra e non amante.
18
Era un tempo costei ninfa faconda
e note sovr’ogni altra ebbe eloquenti,
ma da Giunon crucciosa ed iraconda
le fur lasciati sol gli ultimi accenti.
Pur, seben la sua pena aspra e profonda
distinguer non sapean tronchi lamenti,
supplia, pace chiedendo ai gran martiri,
or con sguardi amorosi, or con sospiri.
19
Ma l’ingrato garzon chiuse le porte
tien di pietate al suo mortal dolore.
Porta negli occhi e nele man la morte,
dele fere nemico e più d’amore.
Arma, crudo non men che bello e forte,
d’asprezza il volto e di fierezza il core.
Di sé s’appaga e lascia in dubbio altrui
se grazia o ferità prevaglia in lui.
20
«Amor (dicean le verginelle amanti)
o da questo sord’aspe Amor schernito,
dov’è l’arco e la face onde ti vanti?
perché non ne rimane arso e ferito?
Deh fa signor che con sospiri e pianti
ami invan non amato e non gradito!
Come più tant’orgoglio omai sopporti?
vendica i propri scorni e gli altrui torti.»
21
A quel caldo pregar l’orecchie porse
l’arcier contro il cui stral schermo val poco
e ‘l cacciator superbo un giorno scorse
tutto soletto in solitario loco.
Stanco egli di seguir cinghiali ed orse
cerca riparo dal celeste foco;
tace ogni augello al gran calor ch’essala,
salvo la roca e stridula cicala.
22
Tra verdi colli in guisa di teatro
siede rustica valle e boschereccia;
falce non osa qui, non osa aratro
di franger gleba o di tagliar corteccia;
fonticel di bell’ombre algente ed atro
inghirlandato di fiorita treccia
qui dal sol si difende e sì traluce
ch’al fondo cristallin l’occhio conduce.
23
Su la sponda letal di questo fonte
che i circostanti fior di perle asperge
e fa limpido specchio al cavo monte
che lo copre dal sol quando più s’erge,
appoggia il petto e l’affannata fronte,
le mani attuffa e l’arse labra immerge.
E quivi Amor, mentr’egli a ber s’inchina,
vuol ch’impari a schernir virtù divina.
24
Ferma nele bell’onde il guardo intento
e la propria sembianza entro vi vede;
sente di strano amor novo tormento
per lei che finta imagine non crede;
abbraccia l’ombra nel fugace argento
e sospira e desia ciò che possiede;
quelche cercando va porta in sestesso,
miser, né può trovar quelch’ha da presso.
25
Corre per refrigerio al’onda fresca,
ma maggior quindi al cor sete gli sorge;
ivi sveglia la fiamma, accende l’esca,
dove a temprar l’arsura il piè lo scorge;
arde e perché l’ardor vie più s’accresca
la sua stessa beltà forza gli porge
e, nel’incendio d’una fredda stampa,
mentre il viso si bagna il petto avampa.
26
La contempla e saluta e tragge ahi folle!
da mentito sembiante affanno vero.
Egli amante, egli amato, or gela, or bolle,
fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero.
Invidia a quell’umor liquido e molle
la forma vaga e ‘l simulacro altero
e, geloso del bene ond’egli è privo,
suo rival su la riva appella il rivo.
27
Mancando alfin lo spirto al’infelice,
troppo a sestesso di piacer gli spiacque.
Depose a piè del’onda ingannatrice
la vita e, morto in carne, in fior rinacque.
L’onda che già l’uccise, or gli è nutrice,
perch’ogni suo vigor prende dal’acque.
Tal fu il destin del vaneggiante e vago
vagheggiator dela sua vana imago.
28
E così fece il ciel del grave oltraggio
dela sprezzata ninfa alta vendetta.
Ma tu, credo ben io, se sarai saggio,
aborrir non vorrai quelche diletta
e, sgombro il sen d’ogni rigor selvaggio,
godrai l’età fiorita e giovinetta,
idolo d’una dea, dal cui bel viso
impara ad esser bello il paradiso;
29
di quella dea per cui strugger si sente
lo dio del foco in maggior foco il petto
e da martel più duro e più possente
batter il cor d’amore e di sospetto,
quella che i danni del’offesa gente
vendica sol col mansueto aspetto;
ché, sel folgore suo percote altrui,
un sol guardo di lei trafige lui;
30
di quella dea che può col seno ignudo
vincer l’invitto dio d’armi guernito,
loqual non può sì forte aver lo scudo
che non ne resti il feritor ferito,
né di sì salde tempre il ferro crudo
che tempri il mal da que’ begli occhi uscito;
quella che può bear l’alme beate
beltà del cielo e ciel d’ogni beltate.
31
Giovane il mondo in altra età qual ebbe
amato mai da deitate alcuna,
e qual cotanto al cielo in grazia crebbe,
che possa pareggiar la tua fortuna?
Non quegli a te paragonar si debbe
ch’accese il cor dela gelata Luna,
non l’altro che ‘nsu ‘l bel carro fiorito
fu dala bionda Aurora in ciel rapito.
32
Mille di mille dee, di mille dei,
che quaggiù di lassù spiegaro il volo,
amori annoverar qui ti potrei,
ma lascio gli altri e tene sceglio un solo.
Oso di dir che più felice sei
di quelche piacque al gran rettor del polo.
Non so se ti sia nota, o forse oscura,
del troiano donzel l’alta ventura.
33
Dal sovrano balcon rivolto avea
il motor dele stelle a terra il ciglio,
quando mirò giù nela valle Idea
del re di Frigia il giovinetto figlio.
Mirollo e n’arse. Amor che l’accendea,
l’armò di curvo rostro e curvo artiglio,
gli prestò l’ali e gli destò vaghezza
di rapir la veduta alta bellezza.
34
La maestà d’un sì sublime amante
bramoso d’involar corpo sì bello,
dela ministra sua prese sembiante,
ché non degnò cangiarsi in altro augello,
peroché tutto il popolo volante
più magnanimo alcun non n’ha di quello,
degno, daché portò tanta beltate,
d’aver di stelle in ciel l’ali gemmate.
35
Bello era e non ancor gli uscia su’l mento
l’ombra ch’aduggia il fior de’ più begli anni.
Iva tendendo a rozze prede intento
ai cervi erranti insidiosi inganni.
Ed ecco il predator che ‘n un momento,
falcate l’unghie e dilatati i vanni,
in alto il trasse e per lo ciel sostenne
l’amato incarco insu le tese penne.
36
Mira da lunge stupido e deluso
lo stuol de’ servi il vago augel rapace.
Seguon latrando e risguardando insuso
i cani la volante ombra fugace.
Il volo oblia d’alto piacer confuso,
Giove, e di gioia e di desir si sface,
gli occhi fiso volgendo e le parole,
aquila fortunata, al suo bel sole:
37
«Fanciul (dicea) che piagni? a che paventi
cangiar col cielo, ah semplicetto, i boschi?
con l’aure sfere e con le stelle ardenti
le tane alpestri e gli antri ombrosi e foschi?
e con gli dei benigni ed innocenti
le fere armate sol d’ire e di toschi?
Fatto, mercé di lui ch’el tutto move,
di rozzo cacciator coppier di Giove?
38
Son Giove istesso. Amor m’ha giunto a tale:
non prestar fede ale mentite piume.
Aquila fatto son; ma che mi vale,
s’aquila ancor m’abbaglio a tanto lume?
Io quel, quell’io che col fulmineo strale
tonar sovra i giganti ho per costume,
sì son pungenti i folgori che scocchi,
saettato son già da’ tuoi begli occhi.
39
Qual pro ti fia per balze e per caverne
seguir de’ mostri orribili la traccia?
Vienne vien meco ale delizie eterne,
maggior preda fia questa e miglior caccia.
E s’avien che colà nele superne
piagge i bei membri essercitar ti piaccia,
trarrai per le stellate ampie foreste
dietro al’orse del polo il can celeste.
40
Lascia omai più di ricordar, rivolto
ale selve, agli armenti, Ida né Troia.
Sei celeste e felice; avrai raccolto
tra gli eterni conviti eterna gioia.
E nel’aspra stagion, quand’austro sciolto
l’aria, la terra e ‘l mar turba ed annoia,
visitata dal sol, lucida e bella
scintillerà la tua feconda stella.»
41
Così gli parla e ‘ntanto al sommo regno
dela gente immortal patria serena,
non però senza scorno e senza sdegno
dela gelosa dea, lo scorge e mena,
dove del nobil grado il rende degno,
ché sempre in ogni prandio, in ogni cena,
a mensa in cavo e lucido diamante
porga il nettare eterno al gran tonante.
42
Ebe e Vulcan, che poco dianzi quivi
dela gran tazza il ministero avieno,
già rifiutati e del’ufficio privi
cedono al novo aventurier terreno.
Ei l’ama sì ch’innanzi a dive e divi,
quando il sacro teatro è tutto pieno,
ancor presente la ritrosa moglie,
da Ganimede suo mai non si scioglie.
43
Non gli reca il garzon giamai da bere
che pria nol baci il re che ‘n ciel comanda
e trae da quel baciar maggior piacere
che dala sua dolcissima bevanda.
Talvolta a studio e senza sete avere,
per ribaciarlo sol, da ber dimanda,
poi gli urta il braccio o in qualche cosa intoppa,
spande il licore o fa cader la coppa.
44
Quando torna a portar l’amato paggio
il calice d’umor stillante e greve,
rivolti in prima i cupid’occhi al raggio
de’ bei lumi ridenti, egli il riceve
e, col gusto leggier fattone un saggio,
il porge a lui, ma mentr’ei poscia il beve,
di man gliel toglie e le reliquie estreme
cerca nel vaso e beve e bacia insieme.
45
Ma che? Tu sovra questo e sovra quanti
più pregiati ne furo unqua tra noi
darti ben a ragion titoli e vanti
d’aventuroso e fortunato puoi,
poiché ‘l più bel de’ sette lumi erranti
hai potuto invaghir degli occhi tuoi
e por testesso in signoria di quella
ch’influisce ogni grazia amica stella.
46
E però ti consiglio e ti ricordo
che di tanto favor ringrazi il fato.
Non esser al tuo ben cieco né sordo,
sappi gioir di sì felice stato,
né cagion lieve o van desire ingordo
partir ti faccia mai dal fianco amato;
perché cose s’incontrano sovente
onde, quando non vale, altri si pente.
47
La fanciullesca età tenera e molle
è quasi incauta e semplice fanciulla,
lo cui desir precipitoso e folle
corre a ciò che l’alletta e la trastulla.
Or piange or ride e mentr’ondeggia e bolle
suole immenso dolor tragger di nulla
e procacciar non senza gravi affanni
da leggieri accidenti eterni danni.
48
Troppo talvolta a vani oggetti intenta
quelche rileva più, sprezza ed oblia,
e così pargoleggia e si lamenta
s’avien che perda poi ciò che desia.
Un’essempio n’avrai, se ti rammenta
degno ch’a mente ognor certo ti sia,
per cui l’alma anzi tempo uscì divisa
d’una spoglia leggiadra, odi in che guisa.
49
Vezzoso cervo si nutriva in Cea,
di cui più bel non fu daino né damma,
sacro ala casta e boschereccia dea,
più vivace e leggier che vento o fiamma.
Quando apena lasciato il nido avea,
d’una capra poppò l’ispida mamma,
onde conforme al’alimento ch’ebbe
qualità prese e mansueto crebbe.
50
È canuto qual cigno e ‘l pelo ha bianco
più che latte rappreso o neve alpina;
sol di purpuree macchie il petto e ‘l fianco
sparso a guisa di rose insu la brina.
Con le ninfe conversa e talor anco
in udir chiamar Cinzia egli s’inchina,
pur come a reverir nome sì degno
umano spirto il mova, umano ingegno.
51
Tra fauni e driadi il dì spazia e soggiorna
in aperta campagna o in chiuso ovile,
che per fregiargli le ramose corna
van dele pompe sue spogliando aprile.
D’oro l’orecchie e d’or la fronte adorna,
gli circonda la gola aureo monile
ch’un tal breve contien: «ninfe e pastori,
di Diana son io, ciascun m’onori».
52
Le ninfe fontaniere e le montane
nela stagion ch’al cervo il corno casca,
onde povero ed orbo ei ne rimane
per più corsi di sol pria che rinasca,
gli componeano in mille forme estrane
su la vedova fronte ombrosa frasca
e con bell’arte il rifacean cornuto,
quelche già per natura avea perduto.
53
Tra quanti il favoriro e l’ebber caro
fu Ciparisso, un pellegrin donzello,
per cui languiva il gran signor di Claro,
ché non vide giamai viso più bello.
L’età con la bellezza iva di paro
ch’era degli anni ancor sul fior novello
e del suo bel mattin l’alba amorosa
le guance gli spargea di fresca rosa.
54
Questo fanciul, da’ cui begli occhi acceso
più che da’ propri raggi ardeva Apollo,
sempre a seguirlo, a custodirlo inteso,
in pregio l’ebbe e sovr’ogni altro amollo.
Gli avea di propria man fatto ed appeso
di squillette d’argento un serto al collo,
perché qualor da lunge il suon n’udiva
lo potesse trovar se si smarriva.
55
Erra il giorno con lui, la sera riede
là’ ve d’erbe e di fior letto l’accoglie.
Spesso in braccio gli corre, in grembo siede,
e prende di sua mano or acque, or foglie.
Orgoglioso ei ne va che lo possiede,
umil l’altro ubbidisce ale sue voglie
e, con serico fren, pronto e leggiero
si lascia maneggiar come un destriero.
56
Era nel tempo dele bionde spiche,
quando il pianeta fervido di Delo
i raggi a piombo insu le piagge apriche
non vibra no, ma fulmina dal cielo.
Il bel garzon fra molte querce antiche,
che tessean di folt’ombra un verde velo,
dopo lungo cacciar stanco ne venne
e ‘l domestico suo dietro gli tenne.
57
Or mentre il cervo pasce ed egli porge
riposo ai membri in mezzo ala foresta,
erger vago fagian non lunge scorge
fuor d’una macchia la purpurea testa.
Prende l’arco pian pian, dal’erba sorge,
e ‘l miglior stral dela faretra appresta;
tende prima la corda, indi l’allenta
e la canna ferrata innanzi aventa.
58
Dove l’arcier l’invia, lo stral protervo,
ma dov’ei non vorrebbe, i vanni affretta.
Dopo quel cespo il suo diletto cervo
erasi posto a ruminar l’erbetta.
Onde scagliato dal possente nervo
il fianco inerme al misero saetta.
Pensati tu, s’ala mortal ferita
cade e ‘n vermiglio umor versa la vita.
59
V’accorre il suo signor, volgendo dritto
verso il flebil muggito il guardo pio.
E quando vede, ahi cacciatore afflitto!
in cambio del’augel quelche ferio
e gemer sente il poverel trafitto,
che par gli voglia dir: «che t’ho fatt’io?»
stupisce e trema e da gran doglia oppresso
vorria passarsi il cor col dardo istesso.
60
Scende colà lo dio chiomato e biondo
dal suo carro lucente ed immortale
e gli dimostra con parlar facondo
come quelche l’afflige è picciol male.
Ma nessuna ragion che porti al mondo
a consolar lo sconsolato vale.
Del cadavere freddo il collo amato
abbraccia e bacia e vuol morirgli a lato.
61
Sfoga con l’innocente arco infelice
il suo rabbioso e desperato sdegno.
Spezza l’empie quadrella ed «omai (dice)
non suggerete voi sangue men degno.
Ma te del fiero colpo essecutrice
mano ingrata e crudel, perché sostegno?
perché, s’hai con lo stral commesso errore,
non l’emendi col ferro in questo core?
62
Poiché perfido io stesso e malaccorto
di propria man d’ogni tesor m’ho privo
e, perduta ogni gioia ogni conforto,
lieti oggetti e giocondi aborro e schivo,
fa, prego, o ciel, senza il mio ben ch’è morto,
ch’io fra tanto dolor non resti vivo;
fa ch’io non senta almeno e che non miri
senon feretri e lagrime e sospiri.»
63
Apena egli ha vigor d’esprimer questo,
che la pelle gl’indura e ‘l busto ingrossa.
Sorge piramidal tronco funesto,
rozzo legno si fan le polpe e l’ossa.
Verdeggia il crin frondoso e quanto al resto
tutta da lui l’antica forma è scossa.
Funeral pianta e tragica diviene
e, quant’uom desiava, arbore ottiene.
64
S’un amante divin più ch’una fera,
come ragion chiedea, curato avesse,
forse non avria questi in tal maniera
dato campo al destin che poi l’oppresse.
Or tu non far, ch’occasion leggiera
t’involi a lei che suo signor t’elesse,
perché lontan da chi n’ha zelo e cura
scompagnata beltà non va secura.
65
So che sovente per le selve errando,
dove strani animali hanno ricetto,
di girne ardito e ‘ntrepido cacciando
o con spiedo o con stral prendi diletto.
Deh! non voler, tanto piacer lasciando,
tra i perigli de’ boschi entrar soletto.
S’al viver tuo troncar non vuoi le fila,
sovengati talor del caso d’Ila.
66
Era scudier del generoso Alcide
Ila, il vago figliuol di Teodamante.
Più bei crin, più begli occhi il sol non vide,
più bel volto giamai, più bel sembiante.
Con la tenera man l’armi omicide
spesso stringea del bellicoso amante
e del’immensa e smisurata clava
fedelmente l’incarco in sé portava.
67
Quando al fier Gerion, quando ad Anteo
tolse il forte campion la vita e l’alma,
quando del’idra e del leon nemeo,
del cinghiale e del tauro ebbe la palma,
fu sempre a parte d’ogni suo trofeo,
né lasciar volse mai la cara salma,
seguendo pur con pronte voglie amiche
de l’invitto signor l’alte fatiche.
68
S’armaro intanto per portar del’oro
la ricca preda i naviganti audaci,
del primo sprezzator d’austro e di coro
quando a Colco passò fidi seguaci.
V’andar di Leda i figli, andò con loro
Teseo, andovvi il cantor de’ boschi traci
e, fra gli altri guerrier delo stuol greco,
il gran figlio d’Almena ed Ila seco.
69
Sorse di Misia da buon vento scorta
tra i verdi lidi la famosa nave,
dove ferma su l’ancora ritorta
depose de’ suoi duci il peso grave.
Procaccia qui la gioventute accorta
per l’amene campagne ombra soave;
chi le mense apparecchia insu le sponde,
chi fa letto o sedil d’erbe e di fronde.
70
Ila, dal caldo e dala sete adusto,
cerca ov’empir di gelid’onda un vaso,
onde d’urna dorata il tergo onusto
colà s’imbosca ove lo porta il caso.
Crescer l’ombre fa già del folto arbusto
il sol ch’omai declina inver l’occaso;
ed ei per tutto spia se d’acqua sente
alcuna scaturigine cadente.
71
Ed ecco giunge ove di museo e felce
tutta vestita e d’edera selvaggia
pendente costa di scabrosa selce
gran parte adombra del’aprica spiaggia.
Quinci l’orno e la quercia e l’alno e l’elce
scacciano il sol qualor più caldo irraggia,
spargendo intorno dala chioma oscura,
opacata di fronde, alta frescura.
72
Quasi cor dela selva un fonte ombroso
mormorando nel mezzo il prato aviva
ed offre al peregrin fresco riposo
chiuso dal verde ala stagione estiva.
Dal sen profondo del suo fondo erboso
spira spirto vital d’aura lasciva
e porge al’erbe, agli arboscelli, ai fiori
per cento vene i nutritivi umori.
73
Sotto questa fontana a chiome sciolte
su’l bel fitto meriggio aveano usanza
le napee del bel loco in cerchio accolte
vaghe carole essercitare in danza.
Com’Ila in lor le luci ebbe rivolte,
d’infiammarle tra l’acque ebbe possanza,
onde nel vivo e lucido cristallo
rotto nel mezzo abbandonaro il ballo.
74
Come stella nel mar divelta cade
dal’azzurro seren del cielo estivo
o qual strisciando per oblique strade
fende il notturno vel raggio festivo,
così la rara e singolar beltade
rapita ingiù dentro quel gorgo vivo,
precipitando tra le chiare linfe
trovossi in braccio ale gelate ninfe.
75
Dele vezzose dee l’umida schiera
consolandolo aprova, in sen l’asconde;
Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera
gli asciugan gli occhi con le trecce bionde.
Ei la perduta libertà primiera
piagne e col pianto amaro accresce l’onde.
Ahi che disse ahi che fè, per doglia insano,
de’ mostri intanto il domator tebano?
76
Lungo il pontico mar con piè veloce
cerca e ricerca ogni riposto calle.
Tien la gran mazza nela man feroce,
la libica faretra ha dale spalle.
«Ila, Ila» tre volte ad alta voce,
«Ila» chiamò per la solinga valle;
né fuor ch’un mormorio debile e basso
gli fu risposto dal profondo sasso.
77
Poscia che ‘ndarno il suo ritorno attese,
gemiti desperati al ciel disciolse,
di rabbiosi sospiri il bosco accese,
dele stelle, d’amor, di sé si dolse.
Tifi, poiché le vele al’aura tese,
gl’incliti eroi su l’alta poppa accolse.
Ercol restò con dolorosi stridi
tapino amante ad assordare i lidi.
78
Fra tante istorie ch’io ti narro e tante
un punto principal non vo’ tacere.
Non esser in amor foglia incostante
ch’al primo soffio è facile a cadere.
Non esser alga in mar lieve e tremante
che pieghi or quinci or quindi il tuo volere.
Stabile ai venti, al’onde, in te raccogli
la fermezza de’ tronchi e degli scogli.
79
Vago è del bello e di leggier s’accende
di duo begli occhi un giovinetto core.
Agitato vacilla, or lascia, or prende
quasi camaleonte ogni colore.
Il pianeta volubile che splende
tra le fredd’ombre del notturno orrore
tante forme non cangia incontro al sole
quant’egli in sé stampar sempre ne suole.
80
So che ‘l ben si diffonde e si diletta
communicarsi altrui per sua natura.
Ma chi giunge a goder beltà perfetta
non dev’esca cercar di nova arsura.
Alma gentile in nobil laccio stretta
di pubblico giardin frutto non cura,
perché vulgare e prodiga bellezza
posseduta da molti è vil ricchezza.
81
Cosa non è che tanto un core irriti
quando Amor da ragion vinto si sdegna,
quanto il vedersi i suoi piacer rapiti
da mano ingrata e per cagion men degna.
Tu gli altrui dolci e lusinghieri inviti
fuggir, s’hai senno, a più poter t’ingegna,
perché di te non faccia Citerea
quelche d’Atide fece un’altra dea.
82
Cibele, degli dei madre feconda,
fu d’Ati un tempo innamorata assai
e degna n’era ben l’aria gioconda
del viso ch’avea bel come tu l’hai.
Avea bocca purpurea e chioma bionda
e sotto oscure ciglia ardenti rai,
né dele prime lane ancor vestita
la guancia vermiglietta e colorita.
83
Poscia che degno il fè ch’egli salisse
dela scala d’amor sul grado estremo,
«Tu vedi ben (più volte ella gli disse)
sicom’io sol per te languisco e gemo.
Non far torto alo stral che mi trafisse,
sol perché troppo t’amo, io troppo temo.
Ala giurata fè non far inganno,
se non vuol che ‘l favor ti torni in danno.»
84
«No no (dicea ‘l garzon) beltà non veggio
che mi possa adescar ne’ lacci suoi.
Dal dì ch’aveste in questo core il seggio
per altr’occhi languir non seppi poi.
Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio
altro giamai che vostro, altro che voi.
Arderò, v’amerò, così prometto,
finch’avrò sangue in vena, anima in petto.»
85
Non molto andò che per riposte vie,
vago di refrigerio e di quiete,
mentre nela più alta ora del die
cercava umor per ammorzar la sete,
stelle il guidaro insidiose e rie
in certe solitudini secrete,
dove ombraggio cadea gelido e fosco
dal folto crin d’un taciturno bosco.
86
Tra discoscese e solitarie piagge
volge gran rupe al sol le spalle alpine;
ombran la fronte sua piante selvagge,
quasi del’aspra testa ispido crine;
per l’occhio d’un canal, distilla e tragge
lagrime innargentate e cristalline;
apre un antro le fauci a piè del fonte
quasi gran gola e fa la bocca al monte.
87
Quivi a seder Sangarida ritrova,
un’amadriade assai vezzosa e bella.
L’aviso dela dea poco gli giova,
la contempla furtivo e non favella.
Scender si sente al cor dolcezza nova
e gli lampeggia il cor com’una stella,
or avampa or agghiaccia e trema come
de’ vicini arboscei treman le chiome.
88
Al’ombra del suo bel tronco natio,
che tempesta di fior le piove in grembo,
steso su’l verde margine del rio
la vaga ninfa ha dela gonna il lembo
ed, ogni altro pensier posto in oblio,
coglie dal prato quel fiorito nembo,
dal prato, a cui più che la man non prende
con larghissima usura il guardo rende.
89
Mentre al’errante crin tenero freno
di fior bianchi innanella e di vermigli,
si specchia e con l’umor chiaro e sereno
par che tacitamente si consigli.
Ma co’ fior del bel viso e del bel seno
perdon le rose assai, perdono i gigli
e i fiati dela bocca aventurosa
vincon l’odor del giglio e dela rosa.
90
Ciò fatto, nele pure onde tranquille
poich’ha tre volte e quattro il volto immerso,
per le labra innaffiar di fresche stille
fa del concavo pugno un nappo terso.
Ahi! che sugge ella umori, Ati faville,
quantunque abbiano in ciò fonte diverso:
dala mano e dagli occhi a poco a poco,
mentrech’ella bev’acqua, ei beve foco.
91
Fuor del boschetto alfine il passo ei spinse
e dal centro del cor trasse un sospiro,
un sospir che lo spirto in aura strinse
e fu muto orator del suo martiro.
L’una allor si riscosse e l’altro tinse
la pura neve del color di Tiro.
Volea parlar ma, quasi ghiaccio al sole,
venia meno la voce ale parole.
92
Ala leggiadra vergine dapresso
si fè pur sospirando e pur gemendo
con sì caldo desio nel volto espresso
che ne’ sospiri suoi chiedea tacendo,
ma così reverente e sì dimesso
che ne’ gemiti suoi tacea chiedendo
e spargea mille, d’aurei strali armati,
fuor de’ begli occhi spiritelli alati.
93
Tosto ch’a quella luce il volto volse,
arse di pari ardor la giovinetta.
Depose i fiori ed ei quel fior si colse
ch’ai seguaci d’Amor tanto diletta.
Quando in letto odorifero gli accolse
la fresca, molle e rugiadosa erbetta,
ne sussurrar, ne bisbigliar le fronde
e dolce mormorio ne fu tra l’onde.
94
Ma la gelosa dea, che ‘l fallo ascolta
di quel suo disleal che l’ha tradita,
tosto ale Furie infuriata e stolta
ricorre e ‘ncontr’al giovane l’irrita.
Già di squallide serpi il crine involta
vibra le faci sue, d’Averno uscita,
e con foco e con tosco ecco ch’Aletto
gli coce il core e gli flagella il petto.
95
Ferve d’insana ed arrabbiata voglia
di tartaree fiammelle Atide acceso,
spuma, freme, il piè scalza, il manto spoglia,
sì lo strugge il velen che ‘l cor gli ha preso;
la feconda radice ond’uom germoglia
e l’un e l’altro suo pendente peso,
rei del suo mal, da gran furore indutto,
miser, di propria man si tronca intutto.
96
Testimonio pietoso al caso tristo
fu di Sinade allora il vicin colle
che d’ognintorno rosseggiar fu visto
del sangue del garzon rabbioso e folle;
del sangue bel che con la rupe misto
tutto il sasso lasciò macchiato e molle,
onde Frigia dipinti ancor ritiene
i marmi suoi di preziose vene.
97
Per trarsi poscia a precipizio, ascende
ripida cima d’aspro monte alpino;
ma mentre ingiù trabocca e in aria pende
co’ piedi in alto e con la fronte al chino,
la dea che l’ama ancor, pietosa il prende,
l’affige in terra e lo trasforma in pino.
Ed or da quel di pria cangiato tanto
in tenace licor distilla il pianto. –
98
Con queste fole e favolette avea
del sommo Giove il messaggier sagace
persuaso il garzon; né qui ponea
freno al garrir, novellator loquace.
Ma troncando il cianciar, stese la dea
la man di neve al foco suo vivace
e parve il cor con un sospiro aprisse,
mentre queste parole ella gli disse:
99
– Adon cor mio, mio core, omai serena
la mente ombrosa e lascia ogni altra cura.
O tre volte mio cor, deh, prego, affrena
quel desio di cacciar ch’a me ti fura.
Non far, se m’ami, ch’acquistata apena
perdano gli occhi miei tanta ventura;
non voler dato a me, da me disgiunto
e ricca farmi e povera in un punto.
100
Non sottopor de’ boschi ai duri oltraggi
le dilicate membra e giorno e notte;
lascia a più rozzi cori e più selvaggi
dele fere il commercio e dele grotte.
Che ti giova menar tra l’elci e i faggi
spezzati i sonni e le vigilie rotte
e in ozio travagliato e faticoso
inquieta quiete, aspro riposo?
101
Che ti val la faretra ognor di strali
e di mostri la selva impoverire?
Dele dive celesti ed immortali
bastiti co’ begli occhi il cor ferire,
senza voler de’ rigidi animali
con tuo danno e mio duol l’orme seguire.
Perché di questo sen denno le selve
e di me più felici esser le belve?
102
Soffrir dunque poss’io che dale braccia
rapita, oimé, mi sia tanta bellezza,
per darla a tal, che con l’artiglio straccia
e col dente ferisce e la disprezza?
O crude fere, o maledetta caccia,
o ricetti d’orrore e di fierezza,
indegne di mirar luci sì pure,
contumaci del sol, foreste oscure,
103
possiate sempre le rabbiose strida
e i furori sentir d’Euro baccante.
Fiero fulmine i rami a voi recida,
sfrondi il crin, sfiori i fior, spianti le piante.
Rigorosa secure in voi divida
dal’amato arboscel l’arbore amante,
sicome voi spietatamente il mio
dividete da me dolce desio.
104
Sovra tutto il timor m’agghiaccia e coce
dela triforme dea, ch’è donna anch’ella;
e seben tanto incrudelì feroce
nela misera sua già ninfa or stella,
lascio il suo loco al ver, corre pur voce
che non fu sempre al mio figliuol rubella,
e, coprendo il piacer con la vergogna,
sa goder e tacer, quando bisogna.
105
Ma siasi pur qual i mortali sciocchi
la fanno apunto, e santa e casta ed alma;
che fia, s’egli averrà, che ‘l sen le tocchi
quello stral che di me portò la palma?
Fiamma di questo cor, sol di quest’occhi,
vita dela mia vita, alma del’alma,
sappi ch’un raggio sol de’ tuoi sembianti
può romper marmi e calcinar diamanti. –
106
Risponde Adone: – O caramente cara,
certo a me quanto cara ingrata sei,
se creder puoi che possa, ancorché rara,
altra beltà di me portar trofei.
Il sol degli occhi tuoi sol mi rischiara,
occhi più cari a me che gli occhi miei.
Là si gira il mio fato e la mia sorte,
essi son la mia vita e la mia morte.
107
Benché tutto di luci il ciel sia pieno,
solo il sole è però che ‘l mondo alluma.
Non ha più face Amor per questo seno,
sarò qual sono al foco ed ala bruma,
di sì dolce fontana esce il veleno
che dolcissimamente mi consuma.
Giunga il mio corso a riva, o presto o tardo
vivrò qual vivo ed arderò com’ardo.
108
Ma se costume e naturale instinto,
che di fere affrontar mi dà baldanza,
dala beltà che m’ha legato e vinto
talor di desviarmi avrà possanza,
non tene caglia no, ch’a ciò son spinto
sol dal’antica e dilettosa usanza;
né sdegnar tene dei, ché chi ben ama
il piacer del su’amor seconda e brama.
109
Non sia prodigo amor, perché talora
suole il cibo aborrir sazio appetito.
Passa l’uso in disprezzo e spesso ancora
frequentato diletto è men gradito,
né sì aspettato e desiato fora
s’april d’ogni stagion fusse fiorito;
sempre quelch’è vietato e quelch’è raro
più n’invoglia il desire e più n’è caro.
110
Non ch’io d’amarti, o fastidito o stanco
possa aver mai di te l’anima sgombra;
anzi quando il tuo sol mi verrà manco,
sarò qual ciel cui fosca notte adombra,
senz’occhi in fronte e senza core al fianco,
senz’alma un corpo e senza corpo un’ombra.
Ma se questo è destin, porta il devere
che quelche vole il ciel vogli volere. –
111
Soggiunse allor Ciprigna: – Assai di questo
il saggio dio del Nilo oggi t’ha detto.
Ma per darti a veder più manifesto
che non fuor di ragione è il mio sospetto,
vo’ che tu miri il guiderdon funesto
che dà Diana a ciascun suo soggetto.
Molto move l’essempio e per la vista
maggior che per l’udir fede s’acquista. –
112
Qui tace e poi di quella torta scala
che di mezzo al cortil gli archi distende,
gli eburnei gradi, onde si monta e cala,
preme e col bell’Adone in alto ascende.
Qui per cento finestre immensa sala
di polito cristallo il giorno prende
e in un bel quadro di mosaico terso
la figura contien del’universo.
113
Per quattro porte a quattro venti esposte
s’entra e tutte son d’or schietto e forbito.
Ha quattro mura le cui ricche croste
del fondo interior celano il sito.
Nele facciate tra sestesse opposte
l’ordin degli elementi è compartito
ed ha ciascun nela sua propria sfera
ogni pesce, ogni augello ed ogni fera.
114
In ogni spazio v’ha quel dio ritratto
che di quell’elemento ha sommo impero,
e ciascuno elemento è sculto e fatto
d’una materia somigliante al vero.
Vermiglio il foco è d’un rubino intatto,
ceruleo l’aere è d’un zaffir sincero,
di smeraldo ridente e verdeggiante
fatta è la terra e l’acqua è di diamante.
115
Occupa il campo poi del pavimento
la region del tartaro profondo,
ch’a fogliami di gitto ha un partimento
fatto d’or fino e dilatato in tondo;
e quivi in atta tal che dà spavento,
vedesi il re del tenebroso mondo;
seco ha l’orride dee di Flegetonte,
cui fa pompa di serpi ombra ala fronte.
116
Nel’ampio tetto un ciel sereno è finto,
opra maggior non lavorò ciclopo.
Appo tante e tai gemme ond’è distinto,
povero è l’Indo e scorno ha l’Etiopo;
tutto di smalto, in mezzo è di giacinto,
dove in forma di sol raggia un piropo;
di crisoliti intorno e di balassi
splendon di stelle in vece alti compassi.
117
Veder si può d’ogni lumiera ardente
il fermo stato e ‘l peregrino errore.
V’ha quel co’ mostri suoi torto e serpente,
che tre cerchi contien, cerchio maggiore.
V’ha l’un e l’altro tropico lucente,
che del lume e del’ombra adeguan l’ore.
V’ha gli altri duo che girano congiunti
co’ duo fissi del’orbe estremi punti.
118
V’ha l’equator, la cui gran linea eguale
tra le quattro compagne in mezzo è posta,
di cui l’estreme due l’una al’australe
l’altra al confin di borea è troppo esposta.
Havvi degli alti dei la via reale
di spesse stelle e picciole composta,
lo cui candor che ‘l ciel per mezzo fende
da’ gemelli al centauro il tratto stende.
119
Nel centro dela sala un vasto atlante
tutto d’un pezzo di diaspro fino
sostien la volta e ferma ambe le piante
sovra un gran piedestallo adamantino
e sotto l’alta cupula pesante
stassi con tergo curvo e volto chino;
tutto quel ciel che si ripiega in arco
appoggia a questo il suo gravoso incarco.
120
La Notte intanto al rimbombar de’ baci
invida quasi, in ciel fece ritorno
e, portata da lievi Ore fugaci
e di tenebre armata, uccise il Giorno.
Il feretro del sol con mille faci
le stelle amiche accompagnaro intorno
e ‘l mondo pien di nebbie e d’ombre tinto
parea fatto sepolcro al lume estinto.
121
Erano i cari amanti entrati a pena
l’un l’altro a braccio in quella sala altera,
quand’ecco aprirsi una dorata scena,
ch’emula al giorno illuminò la sera.
Fora di luce e d’or men ricca e piena,
se s’aprisse, cred’io, la quarta sfera;
selve, statue, palagi agli occhi offerse
la cortina real quando s’aperse.
122
Spettacolo gentil Mercurio in questa
presentar vuole al fortunato Adone.
Mercurio è quei che i personaggi appresta
ed essercita e prova ogn’istrione
e ciascun d’essi in lieta parte o mesta
secondo l’attitudine dispone,
né seco già di recitar consente
turba vulgar di mercenaria gente.
123
L’Invenzion, la Favola, il Poema
e l’Ordine e ‘l Decoro e l’Armonia
dela tragedia sua stendono il tema,
la Facezia e l’Arguzia e l’Energia,
l’Eloquenza è l’artefice suprema,
sovrastante con lei la Poesia;
seco il Numero, il Metro e la Misura
si prendon dela Musica la cura.
124
Dansi ala coppia bella i seggi d’oro,
donde quanto si fa tutto si scerne;
ed ecco il primo uscir di tutti loro
il portator del’ambasciate eterne,
ch’a spiegar l’argomento in stil canoro
mostra venir dale magion superne
e ‘l suggetto proposto e persuaso
è d’Atteone il miserabil caso.
125
Ed Atteone al Prologo succede,
che vien con archi e dardi e cani e corni
e da molti scudier cinto si vede
di spiedo armati e nobilmente adorni;
e mentre ch’ei dele selvagge prede
parte d’essi a spiar manda i soggiorni,
e squadra i passi ed ordina la traccia,
con diverse ragion loda la caccia.
126
Ed ecco ad un squillar d’avorio torto
sbucar repente da cespugli e vepri
di mansuete fere Adone ha scorto
più d’uno stuol tra mirti e tra ginepri;
e dal palco saltar con gran diporto
damme e camozze e cavriuoli e lepri
e parte dela dea fuggirsi al lembo
e parte a lui ricoverarsi in grembo.
127
Ma poco stante si dilegua a volo
la caccia e nova effigie il palco prende,
perché librato in un volubil polo,
sestesso insu quel cardine sospende,
loqual in giro e ben confitto al suolo
volgesi agevolmente, or poggia or scende,
e ‘l mobil peso suo portando intorno,
viene alfine a serrar corno con corno.
128
Come congiunti in un sol globo il mondo
duo diversi emisperi insieme lega,
per l’orizzonte che dal sommo al fondo
la rota universal per mezzo sega,
così l’ordigno che si gira in tondo
vari teatri in un teatro spiega,
senon che dove quel n’abbraccia duo,
questo più ne contien nel cerchio suo,
129
sì ché, quantunque volte un novo gioco
agli occhi altrui rappresentar si vole,
fa mutar faccia in un instante al loco
l’orbicolare e spaziosa mole,
ch’entro concava vite a poco a poco
senza strepito alcun mover si suole,
e con tanto artificio or cala or sorge,
che l’occhio spettator non sen’accorge.
130
Reggon l’opra maggior vari sostegni,
e correnti e pendenti ed asse e travi
e di bronzo ben saldo armati legni,
dure catene e grossi ferri e gravi
e con argani mille e mille ingegni
del medesmo metallo, e chiodi e chiavi;
e questo ordine a quel sì ben risponde
che nel numero lor non si confonde.
131
Ed or che per cacciar dal verde prato
il tebano garzone il piè ritira,
tosto che su’l gran vertice forato
il ferrato baston mosso si gira,
cangia sito la scena e l’apparato
in altro aspetto trasformar si mira
ed, al cader dela primiera tela,
differenti apparenze altrui rivela.
132
Spelonche opache v’ha, foreste amene,
piagge fresche, ombre fosche e chiari fonti.
Vivi argenti colà sparge Ippocrene,
qui Parnaso bicorne erge due fronti.
Con le sue dotte e vergini sirene
discende Apollo da que’ verdi monti,
imitando quaggiù, vaghe e leggiere,
le danze che lassù fanno le sfere.
133
Ciascuno accorda al’organo che tocca
i passi e i salti inun, gli atti e le note
e con la man, col piede e con la bocca
l’aure a un punto e le corde e ‘l suol percote.
Finito il ballo, in un momento scocca
il magistero del’occulte rote
e, volgendosi il perno a cui s’appoggia,
riveste il palco di novella foggia.
134
Dopo il primo intermedio, un’altra volta
videsi il bosco e quivi Cinzia apparse,
che venne stanca ala verd’ombra e folta
dela valle Gargafia a rinfrescarse
e, d’ogni spoglia sua discinta e sciolta,
lavò le membra affaticate ed arse
e, tra le pure e cristalline linfe,
si stette a divisar con l’altre ninfe.
135
Gira la scena e in un balen girando
di centauri guerrier piena è la piazza;
chi d’acuto trafier la destra armando,
chi d’asta lieve e chi di grave mazza.
Salvo in braccio lo scudo, in armeggiando
non han che copra il resto elmo o corazza.
Grida la tromba in bellicosi carmi:
«ala guerra, ala guerra, al’armi, al’armi.»
136
Già par che con furor l’un l’altro assaglia,
già già par che di sangue il suol si sparga.
Armonica e per arte è la battaglia,
or s’intreccia, or fa testa ed or s’allarga
e, mentre contra quel questo si scaglia,
fan cozzar clava a clava e targa a targa
e, battendosi a tempo or tergo or petto,
fan di mezzo al’orror nascer diletto.
137
Mentre Adone al bel gioco è tutto intento,
Amor pietoso a rinfrescarlo viene
e gli reca, una d’oro una d’argento,
coppe d’ambrosia e nettare ripiene.
Ei quanto basta al debito alimento
n’assaggia sol per ristorar le vene,
ch’altr’esca, onde maggior gusto riceve,
pasce con gli occhi e per l’orecchie beve.
138
Nel’atto terzo insu ‘l girevol fuso
la machina versatile si volve,
e ritorna Atteon sparso e diffuso
il volto di sudor tutto e di polve,
onde di dar al veltro ed al seguso
alquanto di quiete alfin risolve;
coglie le reti e nel’ombrosa e fosca
selva per riposar solo s’imbosca.
139
Or tra i confin di questo e del’altr’atto
non men bel si frapon novo intervallo:
ondeggiar vedi un mar, non so se fatto
di zaffiro o d’argento o di cristallo
e le sponde vestir tutte in un tratto
d’alga e di limo e d’ostro e di corallo
e tremar l’onde con ceruleo moto
e delfini guizzar per entro a nuoto,
140
e quinci e quindi per l’instabil campo
spiegar turgide vele antenne alate,
urtar gli sproni e con rimbombo e vampo
venir in pugna due possenti armate.
Di Giove intanto il colorato lampo
listando il fosco ciel di linee aurate,
fa per l’aria vibrar con lunghe strisce
mille lingue, di fiamma oblique bisce.
141
Folgora il cielo e folgoran le spade,
gonfiansi l’onde tempestose e nere
ed acqua e sangue per l’ondose strade
piovon le nubi e piovono le schiere.
Chi fugge il ferro e poi nel foco cade,
chi fugge il foco e poi nel’acqua pere,
chi di sangue e di foco e d’acqua asperso
more ucciso, in un punto arso e sommerso.
142
Tale è la guerra e la procella e ‘l gelo,
ch’agguagliato è quelch’è da quelche pare;
ma in breve poi rasserenarsi il cielo
vedi e in un punto implacidirsi il mare,
ed Iri il suo dipinto umido velo
stender per l’aure rugiadose e chiare;
spariscon le galee, svanisce il flutto,
struggesi l’arco e si dilegua il tutto.
143
Ciò fatto, il bel teatro ancor si chiude,
poi si vede sgorgar vaga fontana,
dove tra molte sue seguaci ignude
stassi Atteone a vagheggiar Diana.
Ed ella con le man leggiadre e crude
gli toglie dopo il cor la forma umana;
con pelo irsuto e con ramose corna
il miser cacciator cervo ritorna.
144
Nel fin di questo in un azzurro puro
al’improviso il ciel si discolora,
e fregiando d’argento il campo oscuro,
con le stelle la luna ecco vien fora.
Poi, dando volta il neghittoso arturo,
col giorno a mano a man sorge l’aurora;
vero il sol crederesti e vera l’alba,
che le nebbie rischiara e l’ombre inalba.
145
S’alza il palco di sotto a un tempo istesso
e mezzo anfiteatro in giro spande.
Prospettiva superba appare in esso
con ricca mensa e sontuosa e grande,
e v’ha de’ sommi dei tutto il consesso
con tal pompa d’arnesi e di vivande,
tanto tesor, tanto splendor disserra,
che sembra apunto il ciel calato in terra.
146
Concerto allor di musici concenti
da basso incominciò, d’alto e da lato
e concordi s’udir vari istromenti,
qual da man, qual da gamba e qual da fiato,
ed acuti e veloci e gravi e lenti
alternar versi al pasteggiar beato,
e rispondersi insieme in molti cori
mute di ninfe e sinfonie d’amori.
147
La notte il sesto grado avea fornito
dela scala onde poggia al’orizzonte,
quando da cani e cacciator seguito
comparve il cervo attraversando il monte.
Ma più non pote Adone instupidito
sollevare gli occhi o sostener la fronte,
onde in grembo a colei che gli è vicina
sovravinto dal sonno il capo inchina.
148
In quella guisa che, dal primo sole
tocco talor, papavero vermiglio
piegar la testa sonnacchiosa suole
e tramortire infra la rosa e ‘l giglio,
abbassa in braccio a lei, che non si dole
di tal incarco, addormentato il ciglio;
né certo aver potea questa né quello
peso più dolce, né guancial più bello.
149
Questa fu la cagion che non poteo
dela tragica strage il fin sentire,
né con che strazio doloroso e reo
venne sbranato il giovane a morire,
né d’Autonoe i lamenti e d’Aristeo,
né del’antico Cadmo i pianti udire,
ché la pietosa dea che ‘n sen l’accolse
infino al novo dì destar nol volse.
150
Già richiamava i corridori alati
al giogo, al morso il portator del lume
e già desta dal suon de’ freni aurati
e serena e ridente oltre il costume,
la nutrice bellissima de’ prati
sorta era fuor dele purpuree piume
ad allattar de’ suoi celesti umori
l’erbe e le piante e nele piante i fiori,
151
quando svegliossi Adone e sì s’accorse
che già chiaro i balconi il sol feriva.
Si terse i lumi col bel dito e sorse
da Mercurio invitato e dala diva.
La bella Citerea la man gli porse
e, per la via che nela corte usciva,
menollo in un giardin, presso il cui verde
degli Elisi beati il pregio perde.
IL GIARDINO DEL PIACERE.

ALLEGORIA

Sotto la figura del giardino ci vien rappresentato il Piacere. Nelle cinque porte si sottointendono i cinque sentimenti del corpo. Nel cristallo e nel zaffiro della prima porta si significa la materia dell’occhio, ch’è l’organo della vista. Nel cedro della seconda il senso dell’odorato. Nella favoletta del pavone si dinota la maravigliosa fabrica del fermamento. Ama la colomba, percioché sicome in effetto questi due uccelli, secondo i naturali, si amano insieme, così tutte le luci superiori sono mosse e regolate dal divino amore. È trasformato da Giove, perché dal sommo artefice Iddio ebbe quello, come ogni altro cielo, la materia e la forma. Fingesi servo d’Apollo e da lui gli sono adornate le penne della varietà di tanti occhi, per essere il sole vivo fonte originale di tutta la luce, che poi si communica alle stelle. Ne’ diversi oggetti, passatempi e trattenimenti piacevoli si adombrano le voluttà sensuali.

ARGOMENTO

Al giardin del Piacer col giovinetto
sen va la dea del’amorosa luce.
Per le porte de’ sensi indi il conduce
di gioia in gioia al’ultimo diletto.

1
Armi il petto di gel chi vede Amore
saettar foco e ferir l’alme a morte,
e dela rocca fragile del core
difenda pur le malguardate porte;
né del crudele e perfido signore
v’introduca giamai le fiere scorte,
ch’insidiose a chi non ben le serra
sotto vista di pace apportan guerra.
2
Chi da quest’empio e dala carne infida
condur si lascia infra perigli errante,
è qual cieco che ‘l can prenda per guida,
segue del senso le fallaci piante;
s’avien poi ch’egli caggia o che l’uccida
chi per torto sentier lo scorse avante,
non si lagni d’altrui che di sestesso,
che ‘l fren d’ogni sua voglia in man gli ha messo.
3
È ver, che da sé sola a ciò non basta
nostra natura inferma e ‘ndebolita,
quand’anco il gran dottor, l’anima casta,
delo spirto di Dio tromba gradita,
per schermirsi da tal che ne contrasta,
ebbe mestier di sovrumana aita;
né degli assalti suoi può fedel alma
senza grazia divina acquistar palma.
4
Ma vuolsi ancor con studio e con fatica
schivar quel dolce invito, esca de’ sensi,
perché dela domestica nemica
sol con la fuga la vittoria ottiensi
e chi fuggir non sa questa impudica
a rischio va di precipizi immensi,
dove caduta poi l’anima sciocca
d’una in altra follia sempre trabocca.
5
Questa è la donna, ch’importuna e tenta
Adam per far che gusti esca interdetta;
la meretrice, che ‘n prigion tormenta
Giuseppe il giusto ed a peccar l’alletta;
questa è colei, che Sisara addormenta,
e per tradirlo sol seco il ricetta;
la disleal, che pria lusinga e prega
il malcauto Sansone e poi lo lega.
6
Questa è la Bersabea, per cui s’inchina
il buon re d’Israele ad opra indegna;
questa è di Salomon la concubina
che follemente idolatrar gl’insegna,
l’infame Circe, la proterva Alcina,
l’Armida, che sviar l’alme s’ingegna,
la Vener, che lontan dala ragione
al giardin del piacer conduce Adone.
7
Infiora il lembo di quel gran palagio
spazioso giardin, mirabil orto.
Miseria mai né mai v’entrò Disagio,
v’han Delizie ed Amori ozio e diporto.
Colà, senza temer fato malvagio,
Venere bella il bel fanciullo ha scorto,
cangiando il ciel con quel felice loco,
che sembra il cielo o cede al ciel di poco.
8
– Non pensar tu che senza alto disegno
(disse volto Mercurio al bell’Adone)
fondata abbia Ciprigna entro il suo regno
questa sì vaga e florida magione,
ch’intelletto divin, celeste ingegno
nulla a caso giamai forma o dispone;
misterioso il suo edificio tutto
a sembianza del’uomo è qui costrutto.
9
Del corpo uman la nobile struttura
in semedesma ha simmetria cotanta,
ch’è regola infallibile e misura
di quanto il ciel con l’ampio tetto ammanta.
Tal fra gli altri animali il fè Natura,
che solo siede e sol dritto si pianta
e, come l’alma eccede ogni altra forma,
così d’ogni altro corpo il corpo è norma.
10
Le meraviglie che comprende e serra
non son possenti ad agguagliar parole;
né nave in onda, né palagio in terra,
né teatro, né tempio è sotto il sole,
né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,
che non tragga il model da questa mole;
trovano in sì perfetta architettura
il compasso e lo squadro ogni figura.
11
Miracol grande, in cui con piena intera
Giove de’ doni suoi versò l’eccesso,
dela divinità sembianza vera,
imagin viva e simulacro espresso.
Quasi in angusta mappa immensa sfera,
fu l’universo epilogato in esso;
tien sublime la fronte, alte le ciglia,
sol per mirar quel ciel che l’assomiglia.
12
È distinto in tre parti il maggior mondo:
l’una è de’ sommi dei, che ‘n alto stassi;
dele sfere rotanti hanno il secondo
loco le belle e ben disposte classi;
ritien l’ultimo sito e più profondo
la region degli elementi bassi.
E quest’altro minor, ch’ha spirti e sensi,
ben di proporzion seco conviensi:
13
sostien la vece del sovran motore
nel capo eccelso la virtù che ‘ntende;
stassi a guisa di sol nel mezzo il core,
loqual pertutto il suo calor distende;
il ventre nela sede inferiore,
qual corpo sublunar, varia vicende.
Così in governo e nutrimento e vita,
questa casa animata è tripartita.
14
Son cinque corpi il cielo e gli elementi
e pur de’ sensi il numero è sì fatto:
l’orbe stellato di bei lumi ardenti
è dela vista un natural ritratto;
son poi tra lor conformi e rispondenti
l’udito al’aere ed ala terra il tatto,
né par che meno in simpatia risponda
l’odorato ala fiamma, il gusto al’onda.
15
Potea ben la divina onnipotenza,
con quell’istesso suo benigno zelo
con cui pose nel’uom tanta eccellenza,
donargli ancora incorrottibil velo
e di quel puro fior di quinta essenza,
onde non misto è fabricato il cielo,
come simile al ciel la forma veste
di materia comporlo anco celeste;
16
ma però ch’egli a specolare è nato
e convien ch’ogni specie in lui riluca
e ch’al chiaro intelletto, ond’è dotato,
i fantasmi sensibili conduca,
non devea d’altra tempra esser formato,
che del’elementar, benché caduca,
per far di quanto intende e quanto sente
prima il senso capace e poi la mente.
17
Di tutto il bel lavor che con tant’arte
orna del’uomo il magistero immenso,
sono i nervi istromenti, onde comparte
lo spirto ai membri il movimento e ‘l senso:
altri molli, altri duri, in ogni parte
ciascun è sempre al proprio ufficio intenso,
né può senz’essi alcuno atto esseguire
la facoltà del moto o del sentire.
18
Or tratti avante e ne vedrai gli effetti,
e dirai ch’a ragion Vener si mosse
a far che ‘l loco sacro a’ suoi diletti
del’essempio del tutto essempio fosse.–
Qui tacette Cillenio e con tai detti
dalo stupore il giovane riscosse,
che del’orto gioioso era in quel punto
già nel primo sogliare entrato e giunto.
19
Nel’orto, in cinque portici diviso,
dan cinque porte al peregrin l’entrata
e da un custode insu la soglia assiso
la porta d’ogni portico è guardata.
S’entra per ogni porta in paradiso
là dove un giardinetto si dilata,
talché di spazio egual tra sé vicini
contiene un sol giardin cinque giardini.
20
Cinque giardin la dilettosa reggia
nele sue cinque torri inclusi abbraccia,
siché da’ suoi balcon lunge vagheggia
differente un giardin per ogni faccia.
Confine un muro ogni giardino ombreggia,
che stende linea infuor di mille braccia.
Questo in quadro si chiude e in mezzo lassa
porte, onde l’un giardin nel’altro passa.
21
Ciascun canton de’ quattro innanzi sporge
una torre angolare insu la punta,
e la quinta tra lor nel mezzo sorge
sì ch’oltre il muro la cornice spunta;
e, come dissi, a dritto fil si scorge
torre da torre egualmente disgiunta;
e con giusta misura arte leggiadra,
i’ non so come, ogni giardino inquadra.
22
Dela porta del portico primiero,
ch’è di cristallo e di zaffir contesta,
vivace e nobil giovane è l’usciero,
di diverso color sparso la vesta.
Un avoltoio in pugno ed un cerviero
si tiene a piè da quella parte e questa,
un specchio ha innanzi e nelo scudo incisa
la generosa che nel sol s’affisa.
23
Ai duo felici amanti immantenente
fecesi incontro il giardinier cortese
e, con sembiante affabile e ridente,
Adon raccolse e per la mano il prese.
– Ben venga (disse) il vivo sole ardente,
ch’ala nostra reina il core accese.
Dritto fia ben che degli alberghi nostri
nulla si celi a lui, tutto si mostri. –
24
– Dimmi (al nunzio di Giove Adon converso)
dimmi (disse) ti prego, o cara scorta,
con l’animal di vaghe macchie asperso
che vuol dir questa guardia e questa porta?
quel famelico augel, quel vetro terso
e quel vario vestir, che cosa importa?
Suo stranio arnese e sua sembianza ignota
i’ saprei volentier ciò che dinota. –
25
Risponde l’altro: – Le più degne e prime
parti di tutta la sensibil massa,
l’occhio, sicome principe sublime,
in gloria eccede, in nobiltà trapassa,
ché, posto dela rocca insu le cime
ogni membro vulgar sotto si lassa
e, dove il tutto regge e ‘l tutto vede,
tra la plebe de’ sensi altero siede.
26
Siede eminente e d’ogni senso è duce
e certo il gran fattor tale il compose,
ch’è tra quelli il miglior, sì per la luce,
ch’è tra le qualità più preziose,
sì per la tanta e tal, ch’ognor produce,
varietà di colorate cose,
sì per lo modo ancor spedito e presto
del’operazion ch’intende a questo.
27
Perché senza intervallo o mutar loco
giunge in instante ogni lontano oggetto,
talché negli atti suoi si scosta poco
dala perfezzion del’intelletto;
onde se quel, vie più che vento o foco
rapido e vago, occhio del’alma è detto,
questo, ch’è di Natura opra sì bella,
intelletto del corpo anco s’appella.
28
Per l’occhio passa sol, per l’occhio scende
qualunque l’alma imagine riceve
e di quant’ella vede e quanto intende
quasi l’obligo tutto al’occhio deve.
L’occhio, com’ape suol, che coglie e prende
i più soavi fior leggiadra e lieve,
scegliendo il bel dela beltà che scorge,
al’interno censor l’arreca e porge.
29
Dale fonti del cerebro natie,
ond’hanno i nervi origine e radice,
un sol principio per diverse vie
di duo stretti sentier sue linee elice.
Quindi del tutto esploratori e spie
traggono gli occhi ogni virtù motrice;
e quindi avien, come per prova è noto,
che move ambo in un punto un steso moto.
30
Lubrico e di materia umida e molle
questo membro divin formò Natura,
perché ciascuna impression che tolle,
possa in sé ritener sincera e pura.
Perché volubil sia, donar gli volle
orbicolare e sferica figura,
oltre che ‘n forma tal può meglio assai
franger nel centro e rintuzzare i rai.
31
Gli spirti unisce ala pupilla e spira
dala gemina sfera il raggio vivo,
che ‘n piramide aguzza, ovunque il gira,
si stende fuor del circolo visivo.
La specie intanto in sé di quelche mira
ritrae, come suol ombra o specchio o rivo;
così nel’occhio, mentre il guardo vago
esce dala potenzia, entra l’imago.
32
O quanto studio o quanta industria mise
qui l’eterno maestro, o quanto accoglie
vene, arterie, membrane e ‘n quante guise
sottile aragne e dilicate spoglie!
Per quanti obliqui muscoli divise
passano e quinci e quindi e fila e foglie,
quante corde diverse e quanti e quali
versano l’occhio ed angoli e canali!
33
Di tuniche e d’umori in vari modi
havvi contesto un lucido volume
ed uva e corno e con più reti e nodi
vetro insieme congiunge, acqua ed albume;
che son tutti però servi e custodi
del cristallo, onde sol procede il lume;
ciascun questo difende e questo aiuta,
organo principal dela veduta.
34
L’immortal providenza, accioch’esposto
sia meno ai danni del’offese esterne,
gli ha dato, in un ricovero riposto
sotto l’arco del ciglio, ime caverne;
per siepi e propugnacoli v’ha posto
palpebre infaticabili ed eterne,
sol perché ‘l batter lor continuo e ratto
dagli umani accidenti il serbi intatto.
35
Ed a guisa di sole, accioch’aprisse,
emulo al’altro, al picciol mondo il giorno,
qual corona di raggi anco v’affisse
sottilissime sete intorno intorno.
Nel curvo globo l’iride descrisse,
ch’ha di smalti celesti un fregio adorno
e, temprati di limpidi zaffiri,
vi dipinse nel mezzo i sommi giri.
36
Questi del’alma son balconi e porte,
indici fidi, oracoli veraci,
dela dubbia ragion secure scorte
e del’oscura mente accese faci.
Son lingue del pensier pronte ed accorte
e del muto desir messi loquaci;
geroglifici e libri, ov’altri pote
de’ secreti del cor legger le note.
37
Vivi specchi sereni, onde traspare
quanto il cupo del petto in sé ristringe
e dove in guise manifeste e chiare
ogni suo affetto l’anima dipinge;
i ridenti piacer, le doglie amare
vi scopre, or d’ira or di pietà gli tinge
e, ciò ch’è più, visibilmente in essi
son del foco d’amor gl’incendi espressi.
38
E perché ‘l primo stral, ch’aventi l’arco
di quell’alato arcier, dagli occhi viene,
per questo il primo grado, il primo varco
del giardino d’Amor la vista ottiene.
Quinci potrai, già d’ogni dubbio scarco,
il mistero, cred’io, comprender bene
del ministro gentil che guarda il vallo,
degli augei, dela fera e del cristallo. –
39
Ciò detto, per incognito sentiero,
là dove altrui vestigio il suol non serba,
ma serba il prato entro ‘l suo grembo intero
intatto il fiore, inviolata l’erba,
colà dentro lo scorge, ov’al verziero
fa corona il gran muro alta e superba,
e di pietre sì lucide la tesse,
che tutto il bel giardin, si specchia in esse.
40
Per lungo tratto a guisa di corona
da ciascun fianco il bel giardin si spande,
dove in ogni stagion Flora e Pomona
guidano danze e trecciano ghirlande.
Il muro principal che l’imprigiona
tetto ricopre a meraviglia grande,
sostenuto da un ordine leggiadro
d’alte colonne e compartito in quadro.
41
Da quattro galerie per quattro grate,
che cancelli han d’or fin, s’esce negli orti,
dove prendono ognor schiere beate
di ninfe e di pastor vari diporti
e, passando in piaceri un’aurea etate,
fanno giochi tra lor di tante sorti
quante suol forse celebrarne apena
nele vigilie sue la bella Siena.
42
Forman parte di lor, sedendo sotto
gran tribuna di fronde, un cerchio lieto,
e l’un al’altro sussurrando un motto
dentro l’orecchie, taciturno e cheto,
de’ suoi chiusi pensier non interrotto
scopre a chi più gli piace ogni secreto.
Con questa invenzion chieste e concesse
si patteggian d’amor varie promesse.
43
Parte in gioco più strano e più diverso
dispensano del dì l’ore serene:
nel molle grembo il capo ingiù converso
vaga donzella d’un garzon si tiene;
ciascun altro la man, ch’egli a traverso
dopo ‘l tergo rivolge, a batter viene
né solleva ei giamai la testa china,
se chi battuto l’ha non indovina.
44
Odesi di lontan scoppio di riso,
quando per legge di colui che regna
di bella ninfa perditrice il viso,
che ‘n foco avampa, col carbon si segna.
Altri più dolci e con più saggio aviso
trar dal trionfo suo spoglie s’ingegna,
ché, con un bacio in bocca o su la gota,.
vuol che ‘l perduto pegno ella riscota.
45
Chi con le carte effigiate in mano
prova quanto fortuna in terra possa;
chi le corna agitate in picciol piano
fa ribalzar dele volubil ossa;
chi con maglio leggier manda lontano
l’eburnea palla ad otturar la fossa;
chi, poiché dal cannel le sorti ha tratte,
su tavolier le tavole ribatte.
46
Van le vergini belle a schiera sparte
scalze il piè, scinte il seno e sciolte il crine;
rozza incoltura in lor, beltà senz’arte
fa del’anime altrui maggior rapine.
Parte per l’erba va scherzando e parte
tra le linfe argentate e cristalline,
parte coglie viole ed amaranti
per farne dono ai fortunati amanti.
47
Quella danza tra’ fior, questa incorona
di rose il crine al favorito amico;
questi canta d’amor, quegli ragiona
con la sua donna in un boschetto aprico.
Alcun ven’ha che, scritto in Elicona,
legge amoroso alcun romanzo antico
e i versi espone in guisa tal, che quasi
sotto gli essempi altrui narra i suoi casi.
48
Altri nel cavriuol rapido e snello
al veloce levrier la lassa allenta;
altri, da’ geti sciolto e dal cappello,
contro la garza il girifalco aventa;
altri più lieve e più minuto augello
con più sottile insidia ingannar tenta,
tendendo, accioché preso e’ vi rimagna,
pania tenace o dilicata aragna.
49
Né vi manca però fra que’ diletti
chi nel margo palustre, ove si giace,
col cane assaglia o con lo stral saetti
anitra opima o foliga loquace;
né chi con nasse e vangaiuole alletti
la trutta pigra e ‘l carpion fugace,
né chi tragga dal’acque a cento a cento
orate d’oro e cefali d’argento.
50
Mentre sotto quel ciel che soli o piogge
non teme, arda quantunque o geli l’anno,
tra tali e tante feste in tante fogge
le brigate piacevoli si stanno,
Adone e Citerea per l’ampie logge
lastricate di gemme, intorno vanno,
mirando pur di que’ dipinti chiostri
l’artificio smarrito a’ giorni nostri.
51
Da tutti quattro i lati in ogni parte
il muro a varie imagini è dipinto.
Ciò che favoleggiar l’antiche carte
degli amori celesti, in esso è finto.
Gl’innamorati dei mirabil arte
v’ombreggiò sì, che ‘l ver dal’ombra è vinto
e, benché tutti mute abbian le lingue,
il silenzio e ‘l parlar vi si distingue.
52
Non son già corrottibili colori,
che le belle figure han colorite;
misture tali, incognite a’ pittori,
da macina mortal non fur mai trite:
son quinte essenze chimiche e licori
di gemme a lento foco intenerite,
minerali stillati, le cui tempre
mai non perdon vivezza e duran sempre.
53
Se sì perfetta grana, azzur sì fino
avesse alcuno artefice moderno,
ben v’ha tal che poria col legno e ‘l lino
far al secol migliore ingiuria e scherno.
Del secondo miracolo d’Arpino
quanto fora più chiaro il nome eterno?
dico di lui, che con la man far suole
quelche l’altro facea con le parole.
54
Il ligustico Apelle, il Paggi vanto
sommo e splendor dela città di Giano,
quanto di gloria accrescerebbe o quanto
ale fatiche dela nobil mano.
Il mio Castel, che del conquisto santo
fregia le carte al gran cantor toscano,
lasceria forse de’ suoi studi illustri
vie più salde memorie a mille lustri.
55
E tu Michel, di Caravaggio onore,
per cui del ver più bella è la menzogna,
mentre che creator più che pittore,
con l’angelica man gli fai vergogna;
e voi, Spada e Valesio, il cui valore
fa de’ suoi figli insuperbir Bologna;
e voi, per cui Milan pareggia Urbino,
Morazzone e Serrano e Procaccino;
56
e tu, che col pennel vinci gl’intagli,
e i duo vicini sì famosi e noti
di Verona e Cador, non pur agguagli,
Palma, ma lor di man la palma scuoti;
e tu, Baglion, che con la luce abbagli
del’ombre tue, ch’han sensi e spirti e moti,
con assai più lodate opre e pitture
avreste, ond’arricchir l’età future.
57
E voi, Bronzino e Pasignan, per cui
il prodigio tebano Arno rivede,
poiché gemino lume e quasi dui
novi soli d’onor v’ammira e crede.
Caraccio a Febo caro e tu con lui
Reni, onde ‘l maggior Reno al’altro cede,
alcun non temeria, che fusser poi
cancellati dagli anni i lavor suoi.
58
A contemplar la loggia e la parete
il portier del giardino Adone invita,
di mute poesie, d’istorie liete
imaginata tutta e colorita,
e del fanciul dal’arco e dala rete
i dolci effetti ad un ad un gli addita,
divisandogli a bocca or quelli, or questi
furtivi amori degli eroi celesti.
59
– Vedi Giove (dicea) là ‘ve s’aduna
schiera di verginelle ir con l’armento.
Vedi che scherza e la superba luna
crolla del capo e sfida a giostra il vento.
Tutto candido il pel, la fronte ha bruna,
dove in mezzo biancheggia un sol d’argento.
Già muggir sembra e sembra al suo muggito
muggir la valle intorno intorno e ‘l lito.
60
Ala ninfa gentil, che varie appresta
trecce di fiori ale sue trecce d’oro,
s’avicina pian piano e dela vesta
umil le bacia il vago lembo il toro.
Ella il vezzeggia e ‘ntesse al’aspra testa
di catenate rose alto lavoro;
ed egli inginocchion le terga abbassa
e dala bella man palpar si lassa.
61
Sovra gli monta la donzella ardita,
quel prende allor per entro l’acque il corso
e sì sen porta lei, che sbigottita
volgesi a tergo e ‘nvan chiede soccorso.
Cogliesi tutta e tutta in sé romita
l’una man stende al corno e l’altra al dorso.
Su ‘l mar piovono i fior nel grembo accolti,
scherzano i biondi crini al’aura sciolti.
62
Solca la giovinetta il salso regno,
sparsa il volto di neve, il cor di gelo,
quasi stanco nocchiero in fragil legno;
il tauro è nave e gli fa vela il velo.
Van guizzando i delfini e lieto segno
fanno di festa al gran rettor del cielo;
ridendo, Amor superbamente il mira
quasi per scherno e per le corna il tira.
63
Le sconsolate e vedove compagne
in atto di pietà stanno insu ‘l lido
additando la vergine che piagne,
credula, ahi troppo, al predatore infido.
Par che di lor per poggi e per campagne
«Europa ove ne vai?», risoni il grido;
par che l’arena intorno e l’aura e l’onda
«Europa ove ne vai?» mesta risponda.
64
Eccol vestito di canute piume
a bella donna intorno altrove il miri,
qual di Caistro o di Meandro al fiume,
rotar volando in spaziosi giri
e gorgogliar sovra ‘l mortal costume
canori pianti e musici sospiri,
temer del proprio folgore il baleno
e comporre il suo nido entro il bel seno.
65
Ecco d’Anfitrion prender la forma
e la casta moglier schernir si vede;
ecco Satiro poi pasce la torma
con corna in testa e con caprigno piede;
ecco due volte in aquila trasforma
la spoglia, inteso a due leggiadre prede;
ecco converso in foco arde e sfavilla,
ecco in grandine d’or si strugge e stilla.
66
Vedi lo schernitor del’aureo strale,
lo dio, che dela luce è tesoriero,
a cui del’arti mediche non vale,
né del’erbe salubri aver l’impero,
siché profonda al cor piaga mortale
non porti alfin dalo sprezzato arciero.
Ecco gl’incende il cor d’ardente face
la bella di Peneo figlia fugace.
67
Ed ecco, mentre l’amorosa traccia
segue anelante e giungerla si sforza,
degli occhi amati e del’amata faccia
repentino rigor la luce ammorza;
fansi radici i piè, rami le braccia,
imprigiona i bei membri ispida scorza;
gode egli almen le sue dorate e bionde
chiome fregiar dele già chiome, or fronde.
68
Volgiti poscia al vecchiarel Saturno,
tutto voto di sangue e carco d’anni,
come invaghito d’un bel viso eburno
in forma di destrier la moglie inganni.
Mira quel dal cappello e dal coturno,
ch’ha nel coturno e nel cappello i vanni;
quegli è il corrier di Giove e ‘n terra scende,
ché dela ninfa Maura Amor l’accende.
69
Pon mente là, dove la notte ha stese
l’ombre tacite intorno e ‘l mondo imbruna,
come per disfogar sue voglie accese,
le due disciolte trecce accolte in una,
si reca in braccio placida e cortese
al vago suo l’innamorata Luna
e fra’ poggi di Latmo al suo pastore
addormenta le luci e sveglia il core.
70
Mira il selvaggio dio non lunge molto,
ch’uscito fuor d’una spelonca vecchia,
di verdi salci e fresche canne avolto
le corna, i crini e l’una e l’altra orecchia,
al ciel leva le luci e nel bel volto
dela candida dea s’affisa e specchia,
e par la preghi in sì pietosi modi,
che vi scorgi il pensier, la voce n’odi.
71
L’argentata del ciel luce sovrana
deposta alfin la lusingata diva,
ale promesse dela bianca lana
dal suo chiaro balcon scender non schiva;
vedila, or chi dirà che sia Diana?
col rozzo amante in solitaria riva
e ‘n vece di lassù guidar le stelle,
su ‘l frondoso Liceo tonder l’agnelle.
72
Poi vedi Endimion dal’altro lato
quindi avampar d’un amoroso sdegno,
e col capo e col dito il nume amato
di rampognar, di minacciar fa segno:
«Perfida (par le dica in vista irato)
perfida, orché non celi il lume indegno?
perfida, avara e disleale amante,
più volubil nel cor, che nel sembiante.»
73
Dela fiamma gentil, che nel mar nacque,
ecco poscia arde il mare, arde l’inferno;
arder quel dio si vede in mezzo l’acque,
che del’acque e del mar volge il governo;
arde per la beltà, che sì gli piacque,
il tiranno crudel del’odio eterno;
strugge ardore amoroso il cor severo
a quel signor, ch’ha degli ardori impero. –
74
Sì dice l’un, l’altro gli sguardi e l’orme
ale mura superbe intento gira
e mentre queste ed altre illustri forme,
di cui son tutte effigiate, ammira,
sembra, né sa s’ei vegghia o pur s’ei dorme,
statua animata, imagine che spira,
anzi più tosto un’insensata e finta
tra figure spiranti ombra dipinta.
75
Non v’è dipinta di Ciprigna e Marte
l’istoria oscena troppo ed impudica,
perché ‘l zoppo marito il fece ad arte,
di cui fur quelle volte opra e fatica
e celar volse le vergogne in parte
del fiero amante e dela bella amica,
per non rinovellar l’onta de’ due,
e nele gioie lor l’ingiurie sue.
76
Sotto quest’archi, in queste logge ombrose,
che volte han le facciate ala verdura,
onde il giardin le chiome sue frondose
può vagheggiar nele lucenti mura,
specolando l’imagini amorose
stassene Adon del’immortal pittura,
mentre colui del sagittario cieco
va passo passo ragionando seco.
77
Venere allor così gli dice: – O cara
delizia del mio cor, dolce diletto,
deh de’ begli occhi tuoi la luce chiara
tanto omai non occupi un finto oggetto,
che de’ suoi raggi usurpatrice avara
parte a me neghi del bramato aspetto;
lascia ch’io possa almeno il foco, ond’ardo,
sorbir con gli occhi e depredar col guardo.
78
Non dee la vista tua fermarsi in cose
che sien di te men peregrine e belle.
Vedi che fai dolenti e tenebrose
a disagio per te languir le stelle.
Non tener più le luci al sole ascose,
le luci emule al sol, del sol gemelle.
Se pitture vuoi pur, vero e non finto
mira testesso in questo sen dipinto. –
79
Qui tace; ed ecco per l’erbosa chiostra
da lor non lunge, emulator del prato,
fa di sestesso ambiziosa mostra
l’occhiuto augel di più color fregiato
e, del bel lembo che s’indora e inostra
di fiori incorrottibili gemmato,
dilettoso spettacolo a chi ‘l mira,
un più vago giardin dietro si tira.
80
Per ventura in quel punto apunto avenne,
ch’ale leggiadre sue spoglie diverse
la bella coppia si rivolse e tenne
per vaghezza le luci in lui converse.
Ond’egli allor dele sue ricche penne
il superbo gemmaio in giro aperse
ed allargò, quasi corona altera,
de’ suoi tant’occhi la stellata sfera.
81
– Di quest’augel pomposo e vaneggiante
(disse Venere allor) parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu pastor, che ‘n tal sembiante
cangiò la forma e così crede alcuno
che la giovenca del’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno
e che, quantunque a vigilar accorto,
fu da Mercurio addormentato e morto.
82
Contan che gli occhi, onde sen giva altero,
nele piume gli affisse ancor Giunone,
ed è voce vulgar che ‘l suo primiero
nome fuss’Argo, ilqual fu poi Pavone.
Or dela cosa io vo’ narrarti il vero
diverso assai da questa opinione;
gli umani ingegni, quando più non sanno,
favole tali ad inventar si danno.
83
Era questi un garzon superbo e vano,
tutto d’ambizion colmo la mente,
cameriero d’Apollo e cortigiano,
che l’amò molto e ‘l favorì sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo stral pungente,
facendo da’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.
84
Colomba detta fu questa donzella,
laqual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella,
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Seben altro di lui dice la fama,
Pavon chiamossi ed or Pavon si chiama.
85
Oltre che di bei drappi e vestimenti
si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s’abbellia, s’arricchia con maggior cura:
pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dì fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno e con piumaggi in testa.
86
Con tuttociò, da lei sempre negletto,
senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un dal’altro petto
di qualità contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il giovinetto
ne’ pensieri, negli atti e nele spoglie;
l’altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli e gentili.
87
La servia, la seguia fuor di speranza
con sospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dì prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse;
tutto l’offrì ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.
88
«Poiché tanto (diss’ella) osi e presumi,
voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco, ond’avampi e ti consumi,
giovami di veder prova più certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur ch’ad amarti io mi converta;
se servigio vuoi far che mi contenti,
dele stelle del cielo aver convienti.
89
Grande impresa fia ben quelch’io ti cheggio,
non difficile a te, s’ardir n’avrai,
poiché presso a colui tieni il tuo seggio
che le raccende con gli aurati rai.
Qualora scintillar lassù le veggio
di tanta luce io mi compiaccio assai
e bramo alcuna in mano aver di loro
sol per saper se son di foco o d’oro».
90
O volesse fuggir con questa scusa
quell’assalto importun ch’egli le diede,
o forse per non esserne delusa
esperienza far dela sua fede,
o perché pur la femina è sempr’usa
ingorda a desiar ciò ch’ella vede
ed, indiscreta, altrui prega e comanda
e le cose impossibili dimanda,
91
basta ch’egli in virtù di tai parole
ogni suo sforzo a cotant’opra accinse;
aspettò finché ‘l ciel, sicome suole,
di purpureo color l’alba dipinse
ed egli uscito in compagnia del sole,
che la lampa minor sorgendo estinse,
ale luci notturne e mattutine
accostossi per far l’alte rapine.
92
«Su mio cor (dicea seco) andianne audaci
l’oro a rubar del bel tesor celeste,
ch’un raggio sol di due terrene faci
val più che lo splendor di tutte queste.
Di stender non temiam le man rapaci
nele gemme ch’al ciel fregian la veste,
pur che ‘n cambio del furto abbiam poi quelle
dele stelle e del sol più chiare stelle».
93
Orbe del lume e dela scorta prive
fuggian le stelle in varie schiere accolte,
e sicome talor per l’ombre estive
quando l’aria è serena avien più volte,
sbigottite, tremanti e fuggitive
per fretta nel fuggir ne cadean molte.
Pavone allora il suo mantel distese
ed un groppo nel lembo alfin ne prese.
94
Giove, che vide il forsennato e sciocco
giovane depredar l’auree fiammelle,
sdegnossi forte e da grand’ira tocco
gli trasformò repente abito e pelle;
l’orgoglioso cimier divenne un fiocco
e nela falda gli restar le stelle;
Febo, che pietà n’ebbe e l’amò tanto,
per sempre poi gliele stampò nel manto.
95
Del ciel l’ambiziosa imperadrice
tosto che vide il non più visto augello
che ‘l pregio quasi toglie ala fenice,
il volubil suo carro ornò di quello;
poi le penne gli svelse e fu inventrice
d’un istromento insieme utile e bello
ond’ale mense estive han le sue serve
cura d’intepidir l’aura che ferve.
96
Ed io, che soglio ognor qualunque imago
scacciar dagli orti miei difforme e trista,
d’averlo ammesso qui godo e m’appago,
ché grazia il loco e nobiltà n’acquista,
perché natura in terra augel più vago
non credo ch’offerir possa ala vista,
né so cosa trovar fra quanti oggetti
invaghiscano altrui, che più diletti.
97
Vedilo là, ch’a’ più bei fior fa scorno
e ben d’altra pittura i chiostri onora,
con quanta maestà rotando intorno
di mirabil ghirlanda il palco infiora.
Perché crediam che sì si mostri adorno,
senon per allettar chi l’innamora
e per aprire ala beltà, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille?
98
Or che far dee, dolcissimo ben mio,
gentil petto, alto core e nobil voglia?
Qual da sì dolce universal desio
anima fia, che si ritragga o scioglia?
Ma che mirar, ma che curar degg’io
del bel pavon la ben dipinta spoglia,
s’aprono agli occhi miei le tue bellezze
altri fregi, altre pompe, altre ricchezze? –
99
Così ragiona e seco il trae pian piano
dove al’altr’uscio il guardian l’aspetta,
che con bei fasci di fioretti in mano
e varie ampolle di profumi alletta.
Garzon verde vestito e non lontano,
esplorator dela fiorita erbetta,
scaltro seguso e d’odorato acuto
tutto, dovunque va, cerca col fiuto.
100
Inestinguibilmente a piè gli bolle
infuso un misto d’odorate cose.
Con sangue di colombe e con midolle
di passere stemprò liquide rose
e col puro storace e l’ambra molle
il muschio dentro e l’aloè vi pose.
V’ha di Cirene il belgioin natio,
il cifo egizzio e ‘l mastice di Chio.
101
Vista costui da lunge avea la bella
coppia, ch’agli orti suoi l’orme volgea,
onde subito a sé Zefiro appella
che ‘n curva valle e florida sedea:
– O genitor dela stagion novella
(dice) vago forier di Citerea,
che con volo lascivo e lieve fiato
passeggiando il mio cielo, infiori il prato,
102
non vedi tu la graziosa prole
del gran motor che su le stelle regna,
come col vivo suo terreno sole
le nostre case d’onorar si degna?
Su su, studio a raccorla usar si vole,
tu tanta dea d’accarezzar t’ingegna.
Con la virtù che da’ tuoi semi avranno,
figli la terra e pargoleggi l’anno.
103
Quanto essalan di grato Ibla e Pancaia,
quanto l’Idaspe di lontan ne spira,
quanto n’accoglie giunto ala vecchiaia
l’arabo augel nel’odorata pira,
tutto qui spargi, accioché degno appaia
di lei ciò ch’ella sente e ciò che mira,
fa ch’animate di fiorita messe
godan del tuo favor le selci istesse.
104
Tutto per questi piani e questi poggi
prodigo il tuo tesor diffondi e sciogli,
e qual rupe più sterile fa ch’oggi
a’ tuoi fecondi spiriti germogli;
onde, nonch’ella volentier v’alloggi,
ma d’ordirvi ghirlande anco s’invogli
e i nostri fior da que’ celesti diti
possano meritar d’esser carpiti. –
105
Scote a quel dir le piume a più colori
tutto di fresco nettare stillante
dela vezzosa e leggiadretta Clori,
sorto dal seggio suo, l’alato amante:
Clori ninfa de’ prati e dea de’ fiori,
de’ lidi canopei grata abitante;
spargendo fior dala purpurea stola
sempre il segue costei dovunque ei vola.
106
La gonna che la copre è tutta ordita
d’un drappo che si cangia ad ora ad ora;
del’augel di Ciprigna il collo imita
quando ai raggi del sol si trascolora;
di simil manto comparir vestita
suole agli occhi d’april la bella Flora;
tal fra l’umide nubi il curvo velo
spande ale prime piogge Iride in cielo.
107
Volano a prova e con disciolti lembi
scorron del ciel le spaziose strade;
nubi accoglie quel ciel, gravide i grembi
di fini unguenti e d’ottime rugiade,
onde l’umor soave in puri nembi
da que’ placidi soffi espresso cade;
cade su l’erba e fiocca in larga vena
d’aromatici odor pioggia serena.
108
Ciò fatto, ei precursore, ella seguace,
l’ali battendo rugiadose e molli,
fan maritate con l’umor ferace,
le glebe partorir novi rampolli.
S’allarga l’aria in un seren vivace
e fioreggiano intorno i campi e i colli.
Vedresti, ovunque vanno, in mille guise
Primavera spiegar le sue divise.
109
Tornano al copular di due stagioni
i secchi dumi con stupor vermigli;
sbucciano fuor de’ gravidi bottoni
dele madri spinose i lieti figli.
Ricca la terra di celesti doni
par ch’al’ottavo ciel si rassomigli;
par che per vincer l’Arte abbia Natura
applicato ogni studio ala pittura.
110
Qual di splendor sanguigno e qual d’oscuro
tingonsi i fiori in quelle piagge e ‘n queste,
qual di fin oro e qual di latte puro,
qual di dolce ferrugine si veste.
Adone intanto nel secondo muro
con l’altro di beltà mostro celeste
per angusto sportel passa introdotto
ch’è di cedro odorato ed incorrotto.
111
Mercurio incominciò: – Tra quante abbraccia
maggior delizie il cerchio dela luna,
cosa non ha di cui più si compiaccia
Venere o ‘l figlio suo, che di quest’una,
né trov’io che più vaglia o che più faccia
lusingamento o tenerezza alcuna,
che la soavità dei molli odori,
molto possenti ad allettar gli amori.
112
Ostie crudeli e sacrifici infausti,
miseri tori ed innocenti agnelle
offre la gente al ciel, tanto ch’essausti
restan gli armenti ognor di questi e quelle
e, sol per far salir d’empi olocausti
un fumo abominevole ale stelle,
aggiunto il foco ale svenate strozze,
arde agli eterni dei vittime sozze
113
e crede stolta ancor, che questi suoi
di sangue vil contaminati altari
aborriti lassù non sien da noi,
che siam pur sì pietosi, anzi sien cari;
com’uopo abbian di pecore e di buoi
cittadini del ciel beati e chiari
o le dolcezze lor sempre immortali
deggian cangiar con immondizie tali.
114
Doni i più preziosi, i più graditi
che possan farsi a quegli eccelsi numi,
di natural simplicità conditi
son frutti e fiori, aromati e profumi.
Ma sovra quanti mai più reveriti
rotano i raggi in ciel celesti lumi,
Adon, la bella dea, con cui tu vai,
di queste offerte si diletta assai,
115
e per questa cagion qui, dove torna
ella per uso ad albergar talora,
di tutto il bel che l’universo adorna,
scelse quanto diletta e quanto odora.
Or s’è ver, ch’a colei che qui soggiorna
ed a tutti gli dei che ‘l mondo adora,
soglion tanto piacer gli odori sparsi,
quanto denno dagli uomini pregiarsi?
116
Ben tirato un profil nel mezzo apunto
scolpì del volto uman la man divina,
che quindi con le ciglia ambe è congiunto
e col labro sovran quinci confina.
E perché di guardarlo abbia l’assunto,
d’osso concavo e curvo armò la spina,
che qual base il sostenta; e tutto il resto
di molli cartilagini è contesto.
117
E perché, se vien pur sinistro caso
una a turar dele finestre sue,
l’altra aperta rimanga ed abbia il naso
onde i fiati essalar, ne formò due;
e posta in mezzo al’un e l’altro vaso
terminatrice una colonna fue
tenera ma non fral, siché per questa
le sue piogge stillar possa la testa.
118
Ma benché oltre il decoro e l’ornamento
ed oltre ancor ch’al respirare è buono,
vaglia a purgar del capo ogni escremento,
pur l’odorato è principal suo dono.
E consiste nel moto il sentimento
di due mammelle che da’ lati sono,
e movon certi muscoli al’entrata,
de’ quali un si ristringe, un si dilata.
119
Quindi s’apre la porta e lo spiraglio
del senso interno al’ultime radici,
là dove a guisa di forato vaglio
una parte sovrasta ale narici.
L’altra è spugnosa e con sottile intaglio
è destinata a’ necessari uffici,
che qual pomice o fongo avendo i fori,
rompe l’aere alterato entro i suoi pori.
120
È la spugna del cranio umida e tale
che d’ogni arida cosa assorbe i fiati,
traendo a sé la qualità reale
degli oggetti soavi ed odorati.
Passa il caldo vapore e in alto sale
ai ventricoli suoi per duo meati,
che non si serran mai, talché con esso
l’aere insieme e lo spirto han sempre ingresso.
121
Ma tra risi e piacer frapor non deggio
di severa dottrina alti sermoni,
però ch’ala tua dea su i fianchi io veggio
di pungente desio fervidi sproni
e del mio dir questo fiorito seggio
soggiungerà la prova ale ragioni.
Senti auretta che spira. – In cotal guisa
l’arguto dio col bell’Adon divisa.
122
De’ fioriti viali in lunghi tratti
mirando van le prospettive ombrose,
ne’ cui margini a fil tirati e fatti
miniere di rubini apron le rose.
Stan disposti ne’ quadri i fiori intatti
con leggiadre pitture ed ingegnose,
e di forme diverse e color vari
con mille odori abbagliano le nari.
123
Trecce di canne e reti e gelosie
ale ben larghe alee tesson le coste
e dagli erbai dividono le vie
compassate a misura e ben composte,
le cui fabriche egregie e maestrie
la dea del loco addita al suo bell’oste,
movendo seco per quel suolo i passi,
fatto a musaico di lucenti sassi.
124
Amor con meraviglie inusitate
semplice qui conserva il suo diletto,
perché pon nele piante innamorate
ogni perfezzion senza difetto
e con foglie più spesse e più odorate,
quando la rosa espone il bel concetto,
o candida o purpurea o damaschina,
nascer fa solo il fior senza la spina.
125
Ciò ch’han di molle i morbidi Sabei,
gl’Indi fecondi o gli Arabi felici,
ciò che produr ne sanno i colli iblei,
le piagge ebalie o l’attiche pendici,
quanto mai ne nutriste orti panchei,
prati d’Imetto e voi campi corici,
con stella favorevole e benigna
tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.
126
Vi suda il gatto etiope e ben discosto
lascia di sua virtù traccia per l’aura,
né vi manca per tutto odor composto
di pasta ispana o di mistura maura.
Casia, amaraco, amomo, aneto e costo
e nardo e timo ogni egro cor restaura,
abrotano, serpillo ed elicriso
e citiso e sisimbro e fiordaliso.
127
Havvi il baccare rosso, in piaggia aprica
nato a spedir le membra in lieve assalto;
havvi la spina arabica e la spica,
che più groppi di verghe estolle in alto;
d’Etiopia il balan qui si nutrica,
colà di Siria il virtuoso asfalto;
spunta mordace il cinnamomo altrove
e la pontica noce a piè gli piove.
128
Tra i più degni germogli il panaceo
le sue foglie salubri implica e mesce
e ‘l terebinto col dittamo ideo,
da cui medico umor distilla ed esce;
e col libico giunco il nabateo
e d’India il biondo calamo vi cresce.
Chi può la serie annoverar di tante,
ignote al nostro ciel, barbare piante?
129
Fumante il sacro incenso erutta quivi
d’alito peregrin grati vapori;
scioglie il balsamo pigro in dolci rivi
i preziosi e nobili sudori;
stilla in tenere gomme e ‘n pianti vivi
i suoi viscosi e non caduchi umori
Mirra, del bell’Adon la madre istessa,
e ‘l bel pianto raddoppia, orch’ei s’appressa.
130
Non potè far, che del materno stelo
non compiangesse il figlio il caso acerbo.
– Siati sempre (gli disse) amico il cielo,
tronco, che ‘n mezzo al cor piantato io serbo.
Le tue chiome non sfrondi orrido gelo,
le tua braccia non spezzi austro superbo
e quando ogni altra pianta i fregi perde,
in te verdeggi il fior, fiorisca il verde. –
131
Sì parla, ed ella la cangiata spoglia
dal sommo crine ala radice estrema
per la memoria del’antica doglia
tutta crollando allor, palpita e trema.
Com’abbracciar co’ verdi rami il voglia,
sestessa inchina e par languisca e gema
e, sparsi de’ suoi flebili licori,
fa lagrimar gl’innamorati fiori.
132
Ne’ fior ne’ fiori istessi amor ha loco,
amano il bel ligustro e l’amaranto
e narciso e giacinto, aiace e croco
e con la bella clizia il vago acanto.
Arde la rosa di vermiglio foco,
l’odor sospiro e la rugiada è pianto.
Ride la calta e pallida ed essangue
tinta d’amor la violetta langue.
133
Ancor non eri, o bell’Adone, estinto,
ancor non eri in novo fior cangiato.
Chi diria che di sangue, oimé! dipinto
dei di testesso in breve ornare il prato?
Presago già, benché confuso e vinto,
d’un tanto onor che gli destina il fato,
ciascun compagno tuo t’onora e cede,
t’ingemman tutti il pavimento al piede.
134
Havvi il vago tulippo, in cui par voglia
quasi in gara con l’Arte entrar Natura;
qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia
ch’ai broccati di Persia il pregio fura;
qual tinto d’una porpora germoglia
che degli ostri d’Arabia il vanto oscura;
trapunto ad ago o pur con spola intesto
drappo non è che si pareggi a questo.
135
Ma più d’ogni altro ambizioso il giglio
qual re sublime in maestà sorgea
e, con scorno del bianco e del vermiglio,
in alto il gambo insuperbito ergea;
dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio
segnollo a dito e ‘l salutò la dea:
– Salve (gli disse) o sacra, o regia, o degna
del maggior gallo e fortunata insegna.
136
Ti vedrà con stupor l’età novella
chiara quanto temuta e gloriosa;
ma quante volte di dorata e bella
diverrai poi purpurea e sanguinosa?
Non sol negli orti miei convien ch’anch’ella
ti ceda omai la mia superba rosa,
ma, fregiato di stelle, anco il tuo stelo
merita ben che si traspianti in cielo. –
137
Non so se v’era ancor la granadiglia,
ch’a noi poscia mandò l’indica piaggia,
di natura Portento e meraviglia,
e ceda ogni altra pur stirpe selvaggia.
Al no più tosto il mio pensier s’appiglia,
né deve altro stimarne anima saggia,
ché star non può, né dee puro e sincero
tra l’ombre il sol, con le menzogne il vero.
138
Disse alcun, ch’a narrar le glorie e l’opre
del sempiterno lor sommo fattore
le stelle, onde la flotte il manto copre,
son caratteri d’oro e di splendore.
Or miracol maggior la terra scopre;
quasi bei fogli apre le foglie un fiore,
fiore, anzi libro, ove Gesù trafitto
con strane note il suo martirio ha scritto.
139
Benedicati il cielo e chi lo scrisse,
O sacro fior, che tanta gloria godi,
e i fiori, in cui de’ regi i nomi disse
leggersi antica musa, or più non lodi.
Chi vide mai, che ‘n prato alcun fiorisse
primavera di spine e lance e chiodi?
e che tra mostri al Redentor rubelli
pullulasser co’ fiori i suoi flagelli?
140
In India no, ma ne’ giardin celesti
portasti i primi semi a’ tuoi natali
tu, che del tuo gran Re tragici e mesti
spieghi in picciol teatro i funerali.
Nel’orto di Giudea, credo, nascesti
da que’ vermigli e tepidi canali
che gli olivi irrigaro, ov’egli essangue
angosciose sudò stille di sangue.
141
Ahi! qual pennello in te dolce e pietoso
trattò la man del gran pittore eterno?
e con qual minio vivo e sanguinoso
ogni suo strazio espresse ed ogni scherno?
di quai fregi mirabili pomposo
al sol più caldo, al più gelato verno
dentro le tue misteriose foglie
spieghi l’altrui salute e le sue doglie?
142
Qualor bagnato da’ notturni geli
con muta lingua e taciturna voce,
anzi con liete lagrime, riveli
de’ tuoi fieri trofei l’istoria atroce
e rappresenti ambizioso ai cieli
l’aspra memoria del’orribil croce,
per gran pietate il tuo funesto riso
dà materia di pianto al paradiso.
143
Vivi e cresci felice. Ove tu stai
Sirio non latri ed aquilon non strida,
né di profano agricoltor giamai
vil piè ti calchi o falce empia t’incida,
ma con chiar’onde e con sereni rai
ti nutrisca la terra, il ciel t’arrida,
Favonio ognor con la compagna Clori
dela bell’ombra tua gli odori adori.
144
Te sol l’aurora in oriente ammiri,
tue pompe invidi e tua beltà vagheggi;
in te si specchi, a te s’inchini e giri
stupido il sol da’ suoi stellanti seggi.
Ma né questi né quella al vanto aspiri
che di luce o color teco gareggi,
ché sol la vista tua può donar loro,
qual non ebber giamai, porpora ed oro.
145
Lagrimette e sospir calde e vivaci
d’aure in vece ti sieno e di rugiade;
angeli sien del ciel l’api predaci,
che rapiscan l’umor che da te cade
e, mille in te stampando ardenti baci
di devota dolcezza e di pietade,
dal fiel che ti dipinge amaro e grave,
traggano a’ nostri affanni il mel soave.
146
Tutto al venir d’Adon par che ridenti
rivesta il bel giardin novi colori;
umili in atto intorno e reverenti
piegan la cima i rami, ergonla i fiori;
vezzose l’aure e lusinghieri i venti
gli applaudon con sussurri adulatori;
tuttutti a salutarlo ivi son pronti
gli augei cantando e mormorando i fonti.
147
Con l’interne del cor viscere aperte
ogni germe villan fatto civile,
gli fa devoto affettuose offerte
di quanto ha di pregiato e di gentile;
dovunque il volto gira o il piè converte
presto si trova a corteggiarlo aprile;
aranci e cedri e mirti e gelsomini
spiran nobili odori e peregrini.
148
Qui di nobil pavon superba imago
il crespo bosso in ampio testo ordiva,
che nel giro del lembo altero e vago
ordin di fiori in vece d’occhi apriva.
Quivi il lentisco di terribil drago
l’effigie ritraea verace e viva
e l’aura, sibilando intorno al mirto,
formava il fischio e gl’infondea lo spirto.
149
Colà l’edra ramosa, intesta ad arte,
capace tazza al natural fingea,
dove il licor dele rugiade sparte
ufficio ancor di nettare facea;
con verdi vele altrove e verdi sarte
fabricava il limon nave o galea,
su la cui poppa i vaghi augei cantanti
l’essercizio adempian de’ naviganti.
150
La Gioia lieta e la Delizia ricca,
l’accarezza colei, costei l’accoglie.
La Diligenza i fior dal prato spicca,
l’Industria i più leggiadri in grembo toglie;
e la Fragranza i semplici lambicca,
e la Soavità sparge le foglie;
l’Idolatria tien l’incensiero in mano,
la Superbia n’essala un fumo vano.
151
La Morbidezza languida e lasciva,
la Politezza dilicata e monda,
la Nobiltà che d’ogni lezzo è schiva,
la Vanità che d’ogni odore abonda,
la Gentilezza affabile e festiva,
la Venustà piacevole e gioconda
e, con l’Ambizion gonfia di vento,
il Lusso molle e ‘l barbaro Ornamento.
152
Venner questi fantasmi ed, a man piene
su ‘l bel viso d’Adon spruzzando stille
d’odorifere linfe, entro le vene
gl’infuser sottilissime faville.
Poi con tenaci e tenere catene,
ch’ordite avean di mille fiori e mille,
trasser legati il giovane e la diva
là dove al’ozio in grembo Amor dormiva.
153
O fusse degli odor l’alta dolcezza,
laquale il trasse a quel beato loco,
o pur che vinto alfin dala stanchezza
schermo cercasse dal’estivo foco,
quivi colui che l’universo sprezza
e del’altrui languir si prende gioco,
con un fastel di fior sotto la fronte
erasi addormentato a piè d’un fonte.
154
La pesante faretra e l’arco grave
sostiene un mirto e ne fa scherzo al vento;
l’ali non move già, che ferme l’have
un sonno dolce, a lusingarlo intento;
ma ‘l sonno lieve e ‘l venticel soave
fan con moto talor lascivo e lento
vaneggiar, tremolar, qual’onda in fiume,
le bionde chiome e le purpuree piume.
155
Quando la madre il cattivel ritrova
ch’al sonno i lumi inchina e i vanni piega,
tosto pian pian, pria che si svegli o mova,
per l’ali il prende e con la benda il lega.
Amor si desta e di campar fa prova
e si scusa e lusinga e piagne e prega;
non l’ascolta Ciprigna e, seben scherza,
simulando rigor, stringe la sferza.
156
– Tu piagni (gli dicea) tu crudo e rio,
che di lagrime sol ti pasci e godi?
E pur dianzi dormivi e pur, cred’io,
sognavi ancor dormendo insidie e frodi.
Tu che turbi i riposi al dormir mio
e m’inganni e schernisci in tanti modi,
tu, che ‘l sonno interrompi ai mesti amanti,
dormivi forse al mormorar de’ pianti? –
157
Così dice e ‘l minaccia e da’ bei rai
folgora di dispetto un lampo vivo;
ma ‘l suo vezzoso Adon, che non sa mai
il bei volto veder senon giolivo,
corre a placarla e – Serenate omai
quel sembiante (le dice) irato e schivo.
Vorrò veder, s’ad impetrar son buono
dal vostro sdegno il suo perdono in dono. –
158
Come veduto il pasto, in un momento
mordace can la rabbia acquetar suole
o come innanzi al più sereno vento
si dileguan le nubi e riede il sole,
così del’ira ogni furore ha spento
Venere ale dolcissime parole.
– Piace (risponde) a me, poich’a te piace,
per maggior guerra mia, dargli la pace.
159
Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio,
quanto puoi nel’amor puoi nelo sdegno.
E che curar degg’io di cieco figlio?
Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.
Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;
tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;
Amor ha il foco e tu dai l’esca; Amore
m’uscì del seno e tu mi stai nel core.
160
Ma sappi, anima mia, che quale il vedi,
quel ch’or ti fa pietà, povero infante,
volge il mondo sossovra e sotto i piedi
ha con tutti i celesti il gran tonante.
Ben ten’accorgerai se tu gli credi;
ma non gli creda alcun accorto amante.
Scelerato, fellon, furia, non dio,
sì partorito mai non l’avess’io.
161
È cieco sì, non perché già gli strali
se ferir vuol, non veggia ove rivolga,
ch’ascoso il cor nel petto de’ mortali
trovar ben sa, senza che ‘l vel si sciolga.
Cieco ei s’infinge sol negli altrui mali,
né gli cal, ch’altri pianga o che si dolga;
e cieco è sol però ch’accieca altrui
per dar la morte a chi si fida in lui.
162
Fiero accidente e rapido volere,
desio che ‘nchina a partorir nel bello,
scende al cor per la vista e vuol godere,
cerca il diletto e sol s’acqueta in quello.
Ma poiché lusingato ha col piacere,
ai più fidi e devoti è più rubello.
Gli altri affetti del’alma, apena entrato
scaccia e s’usurpa quel che non gli è dato.
163
Sotto la sua vittoriosa insegna
piangon mill’alme afflitte i propri torte.
Mansueto e feroce, ama e disdegna,
prega e comanda, or pene or dà conforti.
Leggi rompe, armi vince e, mentre regna,
piega i saggi egualmente e sforza i forti.
Risse e paci compone, ordisce inganni,
sa far lieti i dolori, utili i danni.
164
Tenero come ortica e come cera
è duro, umil fanciullo e fier gigante.
Il disprezzo lo placa, e la preghiera
più terribile il rende e più arrogante.
Qual Proteo ha qualità varia e leggiera,
in tante forme si trasforma e tante.
Ha l’entrata ne’ cor pronta e spedita,
faticosa e difficile l’uscita.
165
Ha faci e reti e lacci ed arco e dardi,
quant’ha, tutto è veleno e tutto è foco.
Mostra viso benigno e dolci sguardi,
or salta, or vola e non ha stabil loco.
Forma falsi sospir, detti bugiardi,
spesso s’adira e volge in pianto il gioco.
Quelche giova non cura o quelche lice,
né teme genitor né genitrice.
166
La spada a Marte e la saetta a Giove
toglie di mano e sì l’aventa e vibra.
Repentino e furtivo assalti move,
né con scarse misure i colpi libra.
Fa piaghe inevitabili e là dove
passa, attosca gli spirti in ogni fibra.
Va per tutto e per tutto or cala, or poggia,
ma sol ne’ cori e non altrove alloggia.
167
Ciò che del mentitor l’arte richiede
ciò ch’ai furti del’alme oprar bisogna,
dalo dio del’astuzie e dele prede
nelo studio imparò dela menzogna.
Non conoscer giustizia e romper fede,
schernir pietate e non stimar vergogna,
tutto apprese da lui; né scaltro e destro
il discepol fu poi men del maestro.
168
Consiglier disleal, guida fallace,
chiunque il segue di tradir si vanta.
Astuto uccellator, mago sagace,
i sensi alletta e gl’intelletti incanta.
Indiscreto furor, tarlo mordace,
rode la mente e la ragion ne schianta.
Passion violenta, impeto cieco,
tosto si sazia e ‘l pentimento ha seco.
169
Ceda del mar Tirren la fera infida
e del fiume d’Egitto il perfid’angue,
ehe forma a danni altrui canto omicida
e piange l’uom, poiché gli ha tratto il sangue;
questi toglie la vita e par che rida,
ferisce a morte e per pietà ne langue;
in gioconda prigion, di vita incerto
tiene altrui preso e mostra l’uscio aperto.
170
Non ebbe il secol mai moderno o prisco
mostro di lui più sozzo o più difforme,
ma perch’altri non fugga il laccio e ‘l visco,
non si mostra giamai nele sue forme;
Medusa al’occhio, al guardo è basilisco,
nel morso ala tarantola è conforme;
ha rostro d’avoltoio orrido e schifo,
man di nibbio, unghia d’orso e piè di grifo.
171
Non giova a fargli schermo arte o consiglio,
poiché per vie non conosciute offende.
Fere, ma non fa piaga il crudo artiglio,
o se pur piaga fa, sangue non rende,
se rende sangue pur, non è vermiglio,
ma stillato per gli occhi in pianto scende.
E così lascia in disusata guisa
senza il corpo toccar, l’anima uccisa.
172
Chi non vide giamai serpe tra rose,
mele tra spine o sotto mel veleno;
chi vuol veder il ciel, di nebbie ombrose
cinto quand’è più chiaro e più sereno,
venga a mirar costui, che tiene ascose
le grazie in bocca e porta il ferro in seno:
lupo vorace in abito d’agnello,
fera volante e corridore augello.
173
Lince privo di lume, Argo bendato,
vecchio lattante e pargoletto antico,
ignorante erudito, ignudo armato,
mutolo parlator, ricco mendico,
dilettevole error, dolor bramato,
ferita cruda di pietoso amico,
pace guerriera e tempestosa calma,
la sente il core e non l’intende l’alma.
174
Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
desperato sperar, morir vitale,
temerario timor, riso dolente,
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno.
175
Era a gran pena dal mio ventre al sole
questo seme di vizi uscito fora,
né ‘l fianco a sostener la grave mole
dela faretra avea ben fermo ancora,
quando del fiero ingegno, acerba prole,
maturò le perfidie innanzi l’ora;
e seben l’ali ancor non gli eran nate,
con la malizia avantaggiò l’etate.
176
Iva ala scola, a quella scola in cui
virtù s’impara ed onestà s’insegna
e piangea nel’andar, come colui
che sì fatte dottrine aborre e sdegna;
e, com’è stil de’ coetanei sui,
perché ‘l digiuno a ristorar si vegna,
pien di poma portava un picciol cesto
che di fronde di palma era contesto.
177
Perché non si smarrisse o smarrit’anco
fusse ai tetti materni almen ridutto,
sospeso gli avev’io su ‘l tergo manco
di breve in forma un titolo costrutto;
eravi affiso un pergameno bianco
di minio e d’or delineato tutto
e scritto v’era di mia propria mano:
«Questi è di Vener figlio e di Vulcano.»
178
Poco tardò, che di trovar gli avenne
la Vigilanza, ch’attendea tra via;
con l’importunità l’Audacia venne,
poi la Consuetudine seguia.
Costoro in guisa tal ch’ebro divenne,
l’abbeverar del vin dela Follia;
ebro il tennero a bada, infinché tutti
del suo panier si divoraro i frutti.
179
Or, dov’altri donzelli in varie guise
de’ primieri elementi apprendean l’arte,
il malvagio scolar giunto s’assise
nela più degna ed onorata parte;
quindi poi sorto, a recitar si mise
la lezion su le vergate carte
e, quasi pur con indice o puntale,
la tabella scorrea con l’aureo strale;
180
ma peroché non ben del suo dettato
seppe le note espor, con scorni ed onte
ne fu battuto, ond’ei con l’arco aurato
al Senno precettor ruppe la fronte.
Così fuggissi ed al’albergo usato
non osando tornar, calò dal monte
e con la turba insana e fanciullesca
venne in desio d’essercitar la pesca,
181
e, mancandogli corda, agli aurei crini
svelle una ciocca e lungo fil ne stende
e, questo immerso entro i zaffir marini
in vece d’asta, ad una freccia appende.
Gittan lo stame ancor gli altri Amorini,
perde il tempo ciascuno e nulla prende;
solo il mio figlio a strana preda inteso
tragge carco il lacciuol di ricco peso.
182
Guizzava apunto in quella istessa riva,
dove i dolci de’ cor tiranni e ladri
intendeano a pescar, ninfa lasciva,
cui pari altra non ebbe occhi leggiadri;
mentre perle costei cogliendo giva
dal cavo sen dele cerulee madri,
vide folgoreggiar per entro l’onda
del pargoletto dio la treccia bionda.
183
Ala luce del’or, ch’alletta e ‘nganna,
s’accosta incauta e vi s’involve e gira;
tosto che sente Amor tremar la canna,
con l’aita degli altri a sé la tira;
presa è la ninfa e di dolor s’affanna,
giunge al’arena e si dibatte e spira;
apena al’aura è fuor del’acque uscita,
che ‘n acquistando il sol, perde la vita.
184
Tra questi indugi ecco la notte oscura,
ch’imbruna il cielo e discolora il giorno.
Allor ramingo e pien d’alta paura,
vassi lagnando e non sa far ritorno,
ma pur, riconosciuto ala scrittura,
è ricondotto al mio divin soggiorno.
Io per punirlo allor la verga prendo,
ed ei si scusa e supplica piangendo:
185
«Pietà (diceami) affrena l’ira alquanto,
pietà, madre, mercé, perdono, aiuto,
ch’anco staman, non senza affanno e pianto,
dal severo maestro io fui battuto.
E fors’egli miracolo cotanto,
che sia per poco un fanciullin perduto?
anco in più ferma età, né meraviglia,
perdé per sempre Cerere la figlia.
186
Se questa volta il rio flagel deponi,
vo’ che novo da me secreto impari;
insegnerotti, pur che mi perdoni,
a pescar cori, iquai ti son sì cari;
sappi, che non si fan tai pescagioni
senza l’esca del’or ne’ nostri mari;
pon l’oro in cima pur degli ami tuoi,
e se ne scampa alcun, battimi poi.
187
Nel mar d’Amor ciascun amante pesca
per trarre un cor fugace al suo desio.
Ma però che de’ cori è cibo ed esca
l’or, che del vulgo già s’è fatto dio,
chi vuol che ‘l duo lavor ben gli riesca,
usi quest’arte, che ti scopro or io:
qualor uom ch’ama a bella preda intende,
se l’esca non è d’or, l’amo non prende.»
188
Con queste ciance, del suo fallo stolto
campò la pena il lusinghier crudele.
Ma per altra follia non andò molto,
ch’a me tornò con gemiti e querele;
vassene in un querceto ombroso e folto
ne’ giardini di Gnido a coglier mele
e seco a depredar gli aurei fialoni
van gli alati fratelli in più squadroni;
189
e perché ‘l dolce de’ licor soavi
orso o mosca non è che cotant’ami,
cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,
spia de’ frassini annosi i verdi rami;
e nel pedal d’un elce, ecco duo favi
vede coverti di pungenti essami;
vulgo d’api ingegniere accolto in quella
sta sussurrando a fabricar la cella.
190
Chiama i compagni e lor la cova addita
che la ruvida scorza in sé ricetta;
corre dentro a ficcar la destra ardita,
ma la ritira poi con maggior fretta;
folle chi cani attizza o vespe irrita,
ché non si sdegnan mai senza vendetta;
pecchia d’acuta spina armata il morse,
ond’ei forte gridando a me ricorse
191
e, dela guancia impallidito l’ostro,
di timor, di dolor palpita e langue:
«Madre madre (mi dice) un picciol mostro,
e mi scopre la man tinta di sangue,
un che quasi non ha dente né rostro
e sembra d’or e punge a guisa d’angue,
minuto animaletto, alata serpe
hammi il dito trafitto in quella sterpe».
192
Io, che ‘l conosco e so di che fier aghi
s’armi sovente, ancorché vada ignudo,
mentre che i lumi rugiadosi e vaghi
gli asciugo e la ferita aspra gli chiudo,
«Che d’animal sì piccolo t’impiaghi
(rispondo) il pungiglion rigido e crudo,
da pianger figlio o da stupir non hai:
e tu, fanciullo ancor, che piaghe fai?»
193
L’Occasion, ch’è nel fuggir sì presta,
vide un giorno per l’aria ir frettolosa.
Suora minor dela Fortuna è questa
e tien le chiavi d’ogni ricca cosa;
l’ali ha su ‘l tergo e di vagar non resta,
sempre andando e tornando e mai non posa;
lungo, diffuso e folto il crine ha, salvo
verso la coppa ov’è schiomato e calvo.
194
Per poterla fermar, l’occhio e ‘l pensiero
molto attento ed accorto aver conviene,
ch’animal non fu mai tanto leggiero
e vuol gran senno a custodirla bene;
frutto di suo sudor non gode intero
chi la prende talor né la ritiene.
Egli appostolla e tante insidie tese,
che, mentr’ella volava, alfin la prese.
195
Ma poich’al laccio suo la giunse e colse
e la chioma fugace ebbe distretta,
di lentisco una gabbia intesser volse
per tenervela poi, chiusa e soggetta.
O poco cauto! Intanto ella si sciolse;
così perde piacer chi tempo aspetta:
mentr’era intento a que’ pensieri sciocchi,
gli uscì di mano e gli svanì dagli occhi.
196
Quante da indi in poi colpe diverse
da lui commesse, io qui trapasso e celo?
Taccio quando di neve il sen s’asperse
e si stracciò di su la fronte il velo;
lassa, allor per mio mal le luci aperse,
allora fu l’ardor suo misto di gelo;
l’iniqua Gelosia, che ‘l tolse in braccio,
gli sbendò gli occhi e l’attuffò nel ghiaccio.
197
Fuggì tremando assiderato e molle,
tutto stillante il sen pruine e brume,
al cieco albergo, ove lo Sdegno folle
tien di torbida fiamma acceso lume;
e però ch’appressar troppo si volle,
riscaldando le membra, arse le piume;
quindi tacito e mesto a casa venne
con la fascia squarciata e senza penne.
198
L’insolenza e l’ardir contar non voglio,
quando sotto le piante Onor si pose,
al cui saggio ammonir crebbe in orgoglio
con ingiurie villane ed oltraggiose.
E perché la Ragion, che ‘n alto soglio
siede reina a giudicar le cose,
citollo al tribunal del suo governo,
ricusando ubbidir, la prese a scherno,
199
anzi un regno per sé solo e diviso
a dispetto fondò dela Ragione;
volse anch’egli il suo inferno e ‘l paradiso
in disprezzo di Giove e di Plutone;
nel’un pose diletto e gioia e riso,
ma beate suol far poche persone;
l’altro tutto colmò di fiamme ardenti,
dove i dannati suoi stanno in tormenti.
200
Dele più chiare e più famose lodi
del mio folletto hai qualche parte intesa,
ma del gran fascio di cotante frodi
sappi, che quel ch’io narro, il men non pesa.
Di sue prodezze intempestive or odi
un’altra egregia e segnalata impresa:
la misera Speranza un giorno batte,
balia che lo nutrì del proprio latte.
201
Indi da me scacciato e ‘n faccia tinto
del color dela porpora e del foco
e dala Rabbia e dal Furor sospinto,
che l’accompagnan sempre in ciascun loco,
prese a giocar con l’Interesse e, vinto,
l’arco perdette e le quadrella in gioco;
costui, ch’ogni valor spesso gli toglie,
vinselo e trionfò dele sue spoglie.
202
Ma di nov’arco e di quadrella nove
poich’arciera Beltà l’ebbe fornito,
sen gio, ventura a ricercare, altrove,
insopportabilmente insuperbito;
e, mentre inteso a far l’usate prove,
scorrea l’onda e l’arena, il monte e ‘l lito,
tra i sepolcri di Menfi infausta sorte
guidollo a caso ad incontrar la Morte.
203
Quel teschio scarno e nudo di capelli,
quella rete di coste e di giunture,
dele concave occhiaie i voti anelli,
del naso monco le caverne oscure,
dele fauci sdentate i duo rastelli,
del ventre aperto l’orride fessure,
de’ secchi stinchi le spolpate fusa
Amor mirar non seppe a bocca chiusa;
204
non si seppe tener, che non ridesse
volto a schernirla, il garruletto audace,
onde pugna crudel tra lor successe,
vibrando ella la falce egli la face.
Ma si frapose e quel furor ripresse
componendogli insieme amica Pace
e, quella notte, in un medesmo tetto
abitanti concordi, ebber ricetto.
205
Levati la diman, l’armi scambiando,
l’un si prese del’altro arco e quadrella,
ond’adivenne poi, che saettando
fero effetti contrari e questi e quella.
L’uno uccidendo e l’altra innamorando
ancor serban quest’uso ed egli ed ella;
Morte induce ad amar l’alme canute,
Amor tragge a morir la gioventute.
206
Adon bella mia pena e caro affanno,
luce degli occhi miei, fiamma del core,
guardati pur da questo rio tiranno,
ch’alfin non sene trae, senon dolore. –
Così parla Ciprigna e ‘ntanto vanno
fuor del boschetto, ove trovaro Amore.
Amor si va le lagrime tergendo,
e con occhio volpin ride piangendo.
CANTO V
CANTO VI
CANTO VII
CANTO VIII
LE DELIZIE

ALLEGORIA

L’argento della terza porta ha proporzione con la materia dell’orecchio, sicome l’avorio e ‘l rubino della quarta si confanno con quella della bocca. Le due donne, che nel senso dell’udito ritrova Adone, son la Poesia e la Musica. I versi epicurei cantati dalla Lusinga alludono alle dolci persuasioni di queste due divine facoltà, qualora, divenute oscene meretrici, incitano altrui alla lascivia. Le ninfe, che nel senso del gusto dal mezzo in giù ritengono forma di viti ed abbracciano e vezzeggiano chi loro si accosta, son figura della ebrietà, laqual suol essere molto trabocchevole agl’incentivi della libidine. Il nascimento di Venere, prodotta dalle spume del mare, vuol dire che la materia della genitura, come dice il filosofo, è spumosa e l’umore del coito è salso. Il natal d’Amore, celebrato con festa ed applauso da tutti gli animali, dà a conoscere la forza universale di questo efficacissimo affetto, da cui riceve alterazione tutta quanta la natura. Pasquino, figlio di Momo e della Satira, che per farsi grato a Venere le manda a presentare la descrizione del suo adulterio, dimostra la pessima qualità degli uomini maledici, i quali eziandio quando vogliono lodare non sanno senon dir male. Vulcano, che fabrica la rete artificiosa, è il calor naturale, ch’ordisce a Venere ed a Marte, cioè al disiderio dell’umano congiungimento, un intricato ritegno di lascive e disoneste dilettazioni. Sono i loro abbracciamenti discoverti dal Sole, simulacro della prudenza, percioché questa virtù col suo lume dimostra la bruttura di quell’atto indegno e la fa conoscere e schernire da tutto il mondo.

ARGOMENTO

Accenti di dolcissima armonia
ascolta Adon tra suoni e balli e feste;
s’asside a mensa con la dea celeste
e le lodi d’amor canta Talia.

1
Musica e Poesia son due sorelle
ristoratrici del’afflitte genti,
de’ rei pensier le torbide procelle
con liete rime a serenar possenti.
Non ha di queste il mondo arti più belle
o più salubri al’affannate menti,
né cor la Scizia ha barbaro cotanto,
se non è tigre, a cui non piaccia il canto.
2
Suol talvolta però metro lascivo
l’alte bellezze lor render men vaghe,
e l’onesto piacer fassi nocivo
e divengon di dee tiranne e maghe.
Né fa rapido stral passando al vivo
tinto di tosco sì profonde piaghe,
come i morbidi versi entro ne’ petti
van per l’orecchie a penetrar gli affetti.
3
Elle, ingombrando il cor di cure insane
col dolce vin dela lussuria molle,
quasi del padre ebreo figlie profane,
l’infiamman sì che fervido ne bolle.
Instigate da lor le voglie umane
a libertà licenziosa e folle,
dietro ai vani appetiti oltre il prescritto
trascorron poi del lecito e del dritto.
4
Ma s’ala forza magica di queste
incantatrici e perfide sirene
ad aggiungere ancor per terza peste
il calor dela crapula si viene,
che non può? che non fa? quante funeste
ulularo per lei tragiche scene?
Toglie di seggio la ragion ben spesso,
l’anima invola al cor, l’uomo a sestesso.
5
Lupa vorace, ingordo mostro infame,
lo cui cupo desir sempre sfavilla,
che sol per satollar l’avide brame
brami collo di gru, ventre di Scilla,
sich’esca omai bastante a tanta fame
la terra o l’acqua non produce o stilla,
e dala gola tua divoratrice
apena scampa l’unica fenice.
6
Dolce velen, che d’umor dolce e puro
irrigando il palato innebri l’alma,
dal tuo lieto furor non fu securo
chi pria t’espresse con la rozza palma.
Del tuo sommo poter, fra quanti furo
oppressi mai di così grave salma,
Erode e Baldassare ed Oloferne
han lasciate tra noi memorie eterne.
7
Ma vie più ch’alcun altro Adone è quello
che ne fa chiara prova, espressa fede.
Eccolo là che verso il terzo ostello
con la madre d’Amor rivolge il piede.
E ‘l portinaio ad ospite sì bello
aperto il passo e libero concede
e, per via angusta e flessuosa e torta,
d’un in altro piacer fassi sua scorta.
8
Stava costui con pettine sonoro
sollecitando armonico stromento.
Un cinghiale in disparte, un cervo, un toro
teneano a quel sonar l’orecchio intento.
Ma, deposta la lira, al venir loro
fè su ‘l cardin croccar l’uscio d’argento.
D’argento è l’uscio e certe conche ha vote
che s’odon tintinnir, quando si scote.
9
– Dela bella armonia (di Mirra al figlio
disse il figlio di Maia) è questi il duce;
anch’ei dela tua dea servo e famiglio
al piacer del’udire altrui conduce.
Né fatto è senza provido consiglio
ch’alberghi con Amor chi amor produce,
poiché non è degli amorosi metri
cosa in amor che maggior grazia impetri.
10
Chi d’eburnea testudine eloquente
batter leggiadra man fila minute,
sposando al dolce suon soavemente
musica melodia di voci argute,
sente talor, né penetrar si sente
di que’ numeri al cor l’alta virtute,
spirto ha ben dissonante, anima sorda
che dal concento universal discorda.
11
Fè quel senso Natura, accioché sia
di tal dolcezza al ministerio presto;
e bench’entrar per la medesma via
soglia ciascun nel’uomo abito onesto,
poscia ch’ogni arte e disciplina mia
non ha varco nel’alma altro che questo,
una è sol la cagion, vario l’effetto,
l’uno ha riguardo al prò, l’altro al diletto.
12
Perché sempre la voce in alto monta,
però l’orecchia in alto anco fu messa
e d’ambo i lati, emula quasi, affronta
degli occhi il sito in una linea istessa.
Né men certo è del’occhio accorta e pronta,
né minor che nel’occhio ha studio in essa,
in cui tanti son posti e ben distinti
aquedotti e recessi e labirinti.
13
Picciole sì, se pareggiarsi a quelle
denno d’altro animal vile e vulgare,
ma più formarsi ed eccellenti e belle
già non potean né più perfette e rare.
Sempre aperta han l’entrata e son gemelle
per la necessità del loro affare;
proprio moto non hanno e fatte sono
d’un’asciutta sostanza acconcia al suono.
14
Il suono oggetto è del’udito e mosso
per lo mezzo del’aere al senso viene;
dal’esterno fragor rotto e percosso
l’aere del suon la qualità ritiene,
da cui l’aere vicin spinto e commosso
come in acqua talor mobile aviene,
porta ondeggiando d’una in altra sfera
al’uscio interior l’aura leggiera.
15
Scorre là dov’è poi tesa a quest’uso
di sonora membrana arida tela;
quivi si frange e purga e quivi chiuso,
agitando sestesso, entro si cela,
e tra quelle torture erra confuso
finch’al senso commun quindi trapela,
dela cui region passando al centro
il caratter del suon vi stampa dentro.
16
Concorrono a ciò far, d’osso minuto
ed incude e triangolo e martello,
e tutti son nel timpano battuto
articolati ed implicati a quello;
ed a quest’opra lor serve d’aiuto
non so s’io deggia dir corda o capello,
sottil così che si distingue apena
se sia filo o sia nervo, arteria o vena.
17
Vedi quanto impiegò l’amor superno
in un fragil composto ingegno ed arte,
sol per poter del suo diletto eterno
almen quaggiù communicargli parte.
Ha sotto umane forme alma d’inferno
chi sprezza ingrato il ben ch’ei gli comparte.–
E qui fine al suo dir facondo e saggio
pose degli alti numi il gran messaggio.
18
Aprir sentissi Adone il cor nel petto
e gli spirti brillar d’alta allegria,
quando di tanti augei, ch’avean ricetto
in quell’albergo, udì la sinfonia.
Qual vagabondo e libero a diletto
per le siepi e sugli arbori salia;
qual, perché troppo alzar non si potea,
intorno al’acque e sovra i fior pascea.
19
Uopo non ha ch’industre man qui tessa
di ben filato acciar gabbia o voliera,
accioché degli augei la turba in essa
senza poter fuggir stia prigioniera:
spaziosa uccellaia è l’aria istessa
che fa lor sempre autunno e primavera,
ed ala libertà d’ogni augellino
carcere volontario è il bel giardino,
20
né rete, né cancel rinchiude o serba
il pomposo fagian, l’umil pernice;
il verde parlator scioglie per l’erba
lingua del sermon nostro imitatrice;
v’ha di zaffiri e porpore superba
la sempiterna e singolar fenice;
v’ha quel che ‘n sé sospeso eccelse strade
tenta e d’aure si nutre e di rugiade.
21
L’aquila imperiale il sol vagheggia,
col rostro il petto il pelican si fere,
va il picchio a scosse e l’aghiron volteggia,
la gru le sue falangi ordina in schiere,
lo smeriglio e ‘l terzuol seguon l’acceggia,
l’oche in fila di sé fanno bandiere
e la gazza tra lor menando festa
erge la coda e l’upupa la cresta.
22
La colomba or nel nido a covo geme,
or bacia il caro maschio, or tutta sola
rade l’aria con l’ali, or per l’estreme
cime d’un arboscel vola e rivola.
Or col pavone innamorato insieme
ingemma al sol la variabil gola,
del cui ricco monil l’iri fiorita
la corona del vago in parte imita
23
e le sovien, mentre dispiega l’ale,
dela leggiadra sua prima sembianza
e tra que’ fior, da cui nacque il suo male,
ancor di diportarsi ha per usanza.
Ed or di chi cangiolla in forma tale
rinova più la misera membranza,
veggendo in compagnia del caro Adone
la bella dea, del suo dolor cagione;
24
la qual, rivolta allora agli arboscelli,
– Odi (gli dice) odi con quanti e quali
motti amorosi, o fior di tutti i belli,
spiegano i più sublimi il canto e l’ali.
Amor, ch’alato è pur come gli augelli,
fa che senta ogni augel gli aurati strali.
Il tutto vince alfin questo tiranno. –
E qui tacendo ad ascoltar si stanno.
25
Per far distinto al vago stuol che vola
con lingua umana articolar sermone,
maestro qui non si richiede o scola,
qual trovò poi la vanità d’Annone.
Ogni semplice accento era parola
che, parlando di Venere e d’Adone,
in spedita favella alto dicea:
– Ecco con l’idol suo la nostra dea. –
26
Chiusa tra’ rami d’una quercia antica,
di sua verde magion solinga cella,
la monichetta de’ pastori amica
seco invita a cantar la rondinella.
Orfano tronco in secca piaggia aprica
d’olmo tocco dal ciel la tortorella
non cerca no, ma sovra verde pianta
solitaria, non sola, e vive e canta.
27
Saltellando garrisce e poi s’asconde
il calderugio infra i più densi rami.
Seco alterna il canario e gli risponde
quasi d’amor lodando i lacci e gli ami.
Recita versi il solitario altronde
e par che ‘l cacciator perfido chiami.
Fan la calandra e ‘l verzelin tra loro
e ‘l capinero e ‘l pettirosso un coro.
28
La merla nera e ‘l calenzuol dorato
odonsi altrove lusingar l’udito.
La pispola il rigogolo ha sfidato,
con l’ortolan s’è il beccafico unito.
Contrapunteggian poi dal’altro lato
lo strillo e ‘l raperin che sale al dito.
Con questi la spernuzzola e ‘l frusone
e lo sgricciolo ancor vi si frapone.
29
Con l’assiuolo il lugherin si lagna,
col sagace fringuel lo storno ingordo.
L’allodetta la passera accompagna,
il fanello fugace il pigro tordo.
Straniero augel di selva o di montagna
non s’introduce in sì felice accordo
se, giudice la dea, non porta in prima
di mille vinti augei la spoglia opima.
30
Canta tra questi il musico pennuto,
l’augel che piuma innargentata veste,
quelche con canto mortalmente arguto
suol celebrar l’essequie sue funeste,
quelche con manto candido e canuto
nascose già l’adultero celeste,
quando da bella donna e semplicetta
fu la fiamma di Troia in sen concetta.
31
Del bianco collo il lungo tratto stende,
apre il rostro canoro e quindi tira
fiato che, mentre inver le fauci ascende,
per obliquo canal passa e s’aggira.
Serpe la voce tremolante e rende
mormorio che languisce e che sospira,
e i gemiti e i sospir profondi e gravi
son ricercate flebili e soavi.
32
Ma sovr’ogni augellin vago e gentile
che più spieghi leggiadro il canto e ‘l volo
versa il suo spirto tremulo e sottile
la sirena de’ boschi, il rossignuolo,
e tempra in guisa il peregrino stile
che par maestro del’alato stuolo.
In mille fogge il suo cantar distingue
e trasforma una lingua in mille lingue.
33
Udir musico mostro, o meraviglia,
che s’ode sì, ma si discerne apena,
come or tronca la voce, or la ripiglia,
or la ferma, or la torce, or scema, or piena,
or la mormora grave, or l’assottiglia
or fa di dolci groppi ampia catena,
e sempre, o se la sparge o se l’accoglie
con egual melodia la lega e scioglie.
34
O che vezzose, o che pietose rime
lascivetto cantor compone e detta.
Pria flebilmente il suo lamento esprime,
poi rompe in un sospir la canzonetta.
In tante mute or languido, or sublime
varia stil, pause affrena e fughe affretta,
ch’imita insieme e ‘nsieme in lui s’ammira
cetra flauto liuto organo e lira.
35
Fa dela gola lusinghiera e dolce
talor ben lunga articolata scala.
Quinci quell’armonia che l’aura molce,
ondeggiando per gradi, in alto essala,
e, poich’alquanto si sostiene e folce,
precipitosa a piombo alfin si cala.
Alzando a piena gorga indi lo scoppio,
forma di trilli un contrapunto doppio.
36
Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra
rapida rota o turbine veloce.
Sembra la lingua, che si volge e vibra,
spada di schermidor destro e feroce.
Se piega e ‘ncrespa o se sospende e libra
in riposati numeri la voce,
spirto il dirai del ciel che ‘n tanti modi
figurato e trapunto il canto snodi.
37
Chi crederà che forze accoglier possa
animetta sì picciola cotante?
e celar tra le vene e dentro l’ossa
tanta dolcezza un atomo sonante?
O ch’altro sia che da liev’aura mossa
una voce pennuta, un suon volante?
e vestito di penne un vivo fiato,
una piuma canora, un canto alato?
38
Mercurio allor che con orecchie fisse
vide Adone ascoltar canto sì bello:
– Deh che ti pare (a lui rivolto disse)
dela divinità di quell’augello?
Diresti mai che tanta lena unisse
in sì poca sostanza un spiritello?
un spiritel che d’armonia composto
vive in sì anguste viscere nascosto?
39
Mirabil arte in ogni sua bell’opra,
ciò negar non si può, mostra Natura;
ma qual pittor, che ‘ngegno e studio scopra
vie più che ‘n grande in picciola figura,
nele cose talor minime adopra
diligenza maggiore e maggior cura.
Quest’eccesso però sovra l’usanza
d’ogni altro suo miracolo s’avanza.
40
Di quel canto nel ver miracoloso
una istoria narrar bella ti voglio:
caso inun memorando e lagrimoso,
da far languir di tenerezza un scoglio.
Sfogava con le corde in suon pietoso
un solitario amante il suo cordoglio.
Tacean le selve e dal notturno velo
era occupato in ogni parte il cielo.
41
Mentr’addolcia d’amor l’amaro tosco
col suon che ‘l Sonno istesso intento tenne,
l’innamorato giovane, ch’al bosco
per involarsi ala città sen venne,
sentì dal nido suo frondoso e fosco
questo querulo augel batter le penne
e gemendo accostarsi ed invaghito
mormorar tra sestesso il suono udito.
42
L’infelice augellin, che sovra un faggio
erasi desto a richiamare il giorno
e dolcissimamente in suo linguaggio
supplicava l’aurora a far ritorno,
interromper del bosco ermo e selvaggio
i secreti silenzi udì dintorno
e ferir l’aure d’angosciosi accenti
del trafitto d’Amor gli alti lamenti.
43
Rapito allora e provocato insieme
dal suon, che par ch’a sé l’inviti e chiami,
dale cime del’arbore supreme
scende pian piano insu i più bassi rami;
e ripigliando le cadenze estreme
quasi ascoltarlo ed emularlo brami,
tanto s’appressa e vola e non s’arresta
ch’alfin viene a posargli insu la testa.
44
Quei che le fila armoniche percote
sente, né lascia l’opra, il lieve peso,
anzi il tenor dele dolenti note
più forte intanto ad iterare ha preso.
E ‘l miser rossignuol quanto più pote
segue suo stile ad imitarlo inteso.
Quei canta, e nel cantar geme e si lagna,
e questo il canto e ‘l gemito accompagna.
45
E quivi l’un su ‘l flebile stromento
a raddoppiare i dolorosi versi
e l’altro a replicar tutto il lamento
come pur del suo duol voglia dolersi,
tenean con l’alternar del bel concento
tutti i lumi celesti a sé conversi
ed allettavan pigre e taciturne
vie più dolce a dormir l’ore notturne.
46
Da principio colui sprezzò la pugna
e volse del’augel prendersi gioco.
Lievemente a grattar prese con l’ugna
le dolci linee e poi fermossi un poco.
Aspetta che ‘l passaggio al punto giugna
l’altro e rinforza poi lo spirto fioco
e, di natura infaticabil mostro,
ciò ch’ei fa con la man rifà col rostro.
47
Quasi sdegnando il sonatore arguto
del’emulazion gli alti contrasti
e che seco animal tanto minuto,
nonché concorra, al paragon sovrasti,
commincia a ricercar sovra il liuto
del più difficil tuon gli ultimi tasti;
e la linguetta garrula e faconda,
ostinata a cantar, sempre il seconda.
48
Arrossisce il maestro e scorno prende
che vinto abbia a restar da sì vil cosa.
Volge le chiavi, i nervi tira e scende
con passata maggior fino ala rosa.
Lo sfidator non cessa, anzi gli rende
ogni replica sua più vigorosa
e, secondo che l’altro o cala o cresce,
labirinti di voce implica e mesce.
49
Quei di stupore allor divenne un ghiaccio
e disse irato: «Io t’ho sofferto un pezzo.
O che tu non farai questa ch’io faccio
o ch’io vinto ti cedo e ‘l legno spezzo».
Recossi poscia il cavo arnese in braccio
e, come in esso a far gran prove avezzo,
con crome in fuga e sincope a traverso
pose ogni studio a variare il verso.
50
Senz’alcuno intervallo e piglia e lassa
la radice del manico e la cima,
e come il trae la fantasia s’abbassa,
poi risorge in un punto e si sublima.
Talor trillando al canto acuto passa
e col dito maggior tocca la prima,
talora ancor con gravità profonda
fin del’ottava insu ‘l bordon s’affonda.
51
Vola su per le corde or basso, or alto
più che l’istesso augel la man spedita.
Di su, di giù con repentino salto
van balenando le leggiere dita.
D’un fier conflitto e d’un confuso assalto
inimitabilmente i moti imita
ed agguaglia col suon de’ dolci carmi
i bellicosi strepiti del’armi.
52
Timpani e trombe e tutto ciò che, quando
serra in campo le schiere, osserva Marte,
i suoi turbini spessi accelerando,
nela dotta sonata esprime l’arte,
e tuttavia moltiplica sonando
le tempeste de’ groppi in ogni parte;
e mentr’ei l’armonia così confonde,
il suo competitor nulla risponde.
53
Poi tace e vuol veder se l’augelletto
col canto il suon per pareggiarlo adegua.
Raccoglie quello ogni sua forza al petto,
né vuole in guerra tal pace né tregua.
Ma come un debil corpo e pargoletto
esser può mai ch’un sì gran corso segua?
Maestria tale ed artificio tanto
semplice e natural non cape un canto.
54
Poiché molte e molt’ore ardita e franca
pugnò del pari la canora coppia,
ecco il povero augel ch’alfin si stanca
e langue e sviene e ‘nfievolisce e scoppia.
Così qual face che vacilla e manca,
e maggior nel mancar luce raddoppia,
dala lingua che mai ceder non volse
il dilicato spirito si sciolse.
55
Le stelle, poco dianzi innamorate
di quel soave e dilettevol canto,
fuggir piangendo e dale logge aurate
s’affacciò l’alba e venne il sole intanto.
Il musico gentil per gran pietate
l’estinto corpicel lavò col pianto
ed accusò con lagrime e querele
non men sestesso che ‘l destin crudele
56
ed ammirando il generoso ingegno,
fin negli aliti estremi invitto e forte,
nel cavo ventre del sonoro legno
il volse sepelir dopo la morte.
Né dar potea sepolcro unqua più degno
a sì nobil cadavere la sorte.
Poi con le penne del’augello istesso
vi scrisse di sua man tutto il successo.
57
Ma chi fu che l’instrusse? il mastro vero,
non so se ‘l sai, fu di quest’arte Amore.
Egli insegnò la musica primiero,
ei fu de’ dolci numeri l’autore
e del soave ordigno e lusinghiero
volse le corde nominar dal core.
O che strana armonia dolce ed amara
nela sua scola un cor ferito impara!
58
Dica costei che ‘l sa, costei che ‘l sente,
di questa invenzion l’origin vera;
fa che l’istesso Amor, ch’è qui presente,
ti narri onde l’apprese e ‘n qual maniera.
Contan ch’un dì nela fucina ardente,
che d’Etna alluma la spelonca nera,
dove alternano i fabri i colpi in terzo,
l’ingegnoso fanciullo entrò per scherzo
59
ed osservando de’ martelli i suoni
librati insu l’ancudini percosse,
le cui battute a tempo a tempo e i tuoni
facean parer ch’un bel concerto fosse,
le regole non note e le ragioni
dele misure a specolar si mosse,
e con stupor del padre e de’ ministri
gl’intervalli trovò de’ bei registri.
60
Dela prim’opra il semplice lavoro
fu rozza alquanto e maltemprata cetra
e da compor quell’organo sonoro
la materia gli diè l’aurea faretra.
Per fabricarne le chiavette d’oro
ruppe lo stral, che rompe anco la pietra.
L’arco proprio adoprò d’archetto in vece
e dela corda sua le corde fece.
61
Apollo, il dotto dio, meglio dispose
l’ordine poi de’ tasti e de’ concenti,
ed io, che vago son di nove cose,
novi studi mostrai quindi ale genti
e ‘n più forme leggiadre e dilettose
d’inventar m’ingegnai vari stromenti,
onde certa e perfetta alfin ne nacque
la bella facoltà che tanto piacque.
62
Piace a ciascun, ma più ch’agli altri piace
agl’inquieti e travagliati amanti,
né trova altro refugio ed altra pace
un tormentato cor che suoni e canti.
Egli è ben ver che ‘l suono è sì efficace
che provoca talor sospiri e pianti
e i duo contrari estremi in guisa ha misti
che rallegra gli allegri, attrista i tristi.–
63
Qui tacque il gran corrier, che porta alato
in man lo scettro e di due serpi attorto,
perché mentre ch’Adone innamorato
per l’ameno giardin mena a diporto,
venir non lunge per l’erboso prato
d’uomini e donne un bel drappello ha scorto,
e due ninfe di vista assai gioliva
come capi guidar la comitiva.
64
Mostra ignudo il bel seno una di queste
e tremanti di latte ha le mammelle,
verdeggiante ghirlanda, azzurra veste
ed ali, onde talor vola ale stelle;
trombe, cetre, sampogne un stuol celeste
di fanciulli le porta e di donzelle;
nela destra sostien scettro d’alloro,
stringe con l’altra man volume d’oro.
65
Di costei la compagna ha di fioretti
amorosi e leggiadri i crini aspersi,
varia la gonna, in cui di vari aspetti
e chiavi e note ha figurate e versi;
dietro le tranno ancor ninfe e valletti
misure e pesi ed organi diversi,
musici libri e con ballorie e canti
di vermiglio lieo vasi spumanti.
66
Soggiunse allor Mercurio: – Ecco di due
suore d’un parto inclita coppia e degna,
degna non dico del’orecchie tue,
ma del gran re che su le stelle regna.
La prima ha del divin nel’opre sue,
l’altra di secondarla anco s’ingegna
e con stupore e con diletto immenso
l’una attrae l’intelletto e l’altra il senso.
67
Quella ch’innanzi alquanto a noi s’appressa
e più nobil rassembra agli occhi miei,
seben ritrovatrice è per sestessa
e l’arte del crear trae dagli dei,
con la cara gemella è sì connessa
ch’i ritmi apprende a misurar da lei,
e da lei, che le cede e le vien dietro,
prende le fughe e le posate al metro.
68
Colei però che accompagnar la suole
ha del’aiuto suo bisogno anch’ella,
né sa spiegar se si rallegra o dole
senon le passion dela sorella;
da lei gli accenti impara e le parole,
da lei distinta a scioglier la favella;
senza lei fora un suon senza concetto,
priva di grazia e povera d’affetto.
69
Per queste lor reciproche vicende
sempre unite ambedue n’andranno al paro
e con quel lume, onde virtù risplende,
risplenderan nel secolo più chiaro.
I primi raggi lor la Grecia attende,
cui promette ogni grazia il cielo avaro,
la Grecia in cui per molti e molti lustri
le terranno in onor spiriti illustri.
70
Col tempo poi diverran gioco e preda
e dele genti barbare e degli anni;
colpa di Marte, a cui convien che ceda
ogni arte egregia, e colpa de’ tiranni.
Sola l’Italia alfin fia che possieda
qualche reliquia degli antichi danni,
ma la bella però luce primiera
si smarrirà dela scienza vera.
71
Bench’alloggino or qui le mie dilette,
non son già queste le lor stanze usate;
là nel mio ciel con altre giovinette
abitan come dee sempre beate.
Se mai lassù venir ti si permette,
ti mostrerò gli alberghi ove son nate.
Qui con Amore a trastullarsi intente
dal’eterna magion scendon sovente. –
72
Vennero al vago Adon strette per mano,
tutte festa il sembiante e foco il volto,
queste due belle e con parlar umano,
poiché ‘n schiera tra lor l’ebbero accolto,
n’andaro ove s’aprì nel verde piano
di lieta gente un largo cerchio e folto,
ch’invitandolo seco al bel soggiorno
gli fè corona, anzi teatro intorno.
73
Non so se vere o vane avean sembianze
tutti di damigelle e di garzoni.
Alternavan costor mute e mutanze,
raddoppiavan correnti e ripoloni,
lascivamente ale festive danze
dolci i canti accordando, ai canti i suoni.
Cetre e salteri e crotali e taballi
ivan partendo in più partite i balli.
74
Forati bossi e concavi oricalchi
e rauche pive e pifferi tremanti
mostrano altrui come il terren si calchi,
regolando con legge i passi erranti;
per l’ampie logge e su i fioriti palchi
miransi cori di felici amanti
tagliar canari, essercitar gagliarde,
menar pavane ed agitar nizzarde.
75
Precede lor la prima coppia, e questa
con piante maestrevoli e leggiere,
guidatrice del ballo e dela festa,
carolando sen va fra quelle schiere,
sì gaia in vista e sovra ‘l piè sì presta
che forse al suon dele rotanti sfere
soglion lassù men rapide e men belle
per le piazze del ciel danzar le stelle.
76
Dicean tutti cantando: – O dea beata,
o bella universal madre e nutrice,
con l’istessa Natura a un parto nata,
di quanto nasce original radice,
per cui genera al mondo e generata
ogni stirpe mortal vive felice:
felice teco in queste rive arrivi
quella beltà per cui felice vivi.
77
Al tuo cenno le Parche ubbidienti
tiran le fila in vari stami ordite.
Dal tuo consiglio, in tua virtù crescenti
Natura impara a seminar le vite.
Per legge tua di sfere e d’elementi
stansi le tempre in bel legame unite.
Se non spirasse il tuo spirto fecondo
i nodi suoi rallenterebbe il mondo.
78
Tu ciel, tu terra e tu conservi e folci
fiori, erbe, piante e nele piante il frutto.
Tu crei, tu reggi e tu ristori e molci
uomini e fere e l’universo tutto,
che senza i doni tuoi giocondi e dolci
solitario per sé fora e distrutto;
ma mentre stato varia e stile alterna
la tua mercede, il suo caduco eterna.
79
Lumiera bella, che con luce lieta
dele tenebre umane il fosco allumi,
da cui nasce gentil fiamma secreta,
fiamma onde i cori accendi e non consumi;
d’ogni mortal benefattor pianeta,
gloria immortal de’ più benigni numi,
ch’altro non vuoi ch’a prò di chi l’ottiene
godere il bello e possedere il bene.
80
Commessura d’amor, virtù ch’innesti
con saldi groppi di concordi amplessi
e le cose terrene e le celesti
e supponi al tuo fren gli abissi istessi;
per cui con fertil copula contesti
vicendevol desio stringe duo sessi,
siché, mentre l’un dona e l’altro prende,
il cambio del piacer si toglie e rende.–
81
Con quest’inno devoto e questo canto
venne la turba a venerar la dea,
ballando sempre, e fatto pausa alquanto
al concerto dolcissimo, tacea.
Con Mercurio ed Amore Adone intanto
e con Venere altrove il piè movea,
quand’ecco a sé con non minor diletto
novello il trasse e disusato oggetto.
82
Un fiore, un fiore apre la buccia e figlia,
ed è suo parto un biondo crin disciolto,
e dopo ‘l crin con due serene ciglia
ecco una fronte e con la fronte un volto.
Al principio però non ben somiglia
il mezzo e ‘l fin, ma differente è molto.
Vedesi ala beltà, che quindi spunta,
forma di stranio augello esser congiunta.
83
Tosto che ‘n luce a poco a poco uscio
quel fantastico mostro al’improviso,
non sorse in piè, ma del suo fior natio
restò tra l’erbe e tra le foglie assiso.
Occhio ha ridente, atto benigno e pio,
ha feminile e giovenile il viso.
Veston le spalle e ‘l sen penne stellate,
fregian le gambe e i piè scaglie dorate.
84
Serpentina la coda al ventre ha chiusa,
lunata e qual d’arpia l’unghia pungente.
Cela un amo tra’ fiori, onde delusa
tira l’incauta e semplicetta gente.
Tien di nettare e mel la lingua infusa,
che persuade altrui soavemente.
Così la bella fera i sensi alletta,
fera gentil, che la Lusinga è detta.
85
La Lusinga è costei. Lunge fuggite,
o di falso piacer folli seguaci!
Non ha sfinge o sirena o più mentite
parolette e sembianze o più sagaci!
Copron perfide insidie, aspre ferite,
abbracciamenti adulatori e baci.
Vipera e scorpion, con arti infide
baciando morde ed abbracciando uccide.
86
La chioma intanto, che ‘n bei nodi involta
stringon con ricche fasce auree catene,
dal carcer suo disprigionata e sciolta
su per le membra a sviluppar si viene;
laqual può, tanto è lunga e tanto è folta,
le laidezze del corpo adombrar bene,
siché sotto le crespe aurate e bionde
tutti i difetti inferiori asconde.
87
Del’altrui vista insidiosa e vaga
ella o che non s’avide o che s’infinse,
indi la voce incantatrice e maga
in note più ch’angeliche distinse;
note in cui per far dolce incendio e piaga
Amor le faci e le quadrella intinse.
Uscir dolce tremanti udiansi fuori
i misurati numeri canori.
88
Tal forse intenerir col dolce canto
suol la bella Adriana i duri affetti
e con la voce e con la vista intanto
gir per due strade a saettare i petti;
e ‘n tal guisa Florinda udisti, o Manto,
là ne’ teatri de’ tuoi regi tetti,
d’Arianna spiegar gli aspri martiri
e trar da mille cor mille sospiri.
89
Fermaro il corso i fiumi, il volo i venti
e gli augelletti al suo cantar le penne.
Fuggì l’arbor di Dafni i bei concenti,
che del canto d’Apollo a lei sovenne.
Apollo istesso i corridori ardenti,
vinto d’alta dolcezza, a fren ritenne.
E queste fur le lusinghiere e scorte
voci, ov’accolta in aura era la morte:
90
– Voi che scherzando gite, anime liete,
per la stagion ridente e giovenile,
cogliete con man provida, cogliete
fresca la rosa insu l’aprir d’aprile,
pria che quel foco che negli occhi avete
freddo ghiaccio divenga e cener vile,
pria che caggian le perle al dolce riso
e, com’è crespo il crin, sia crespo il viso.
91
Un lampo è la beltà, l’etate un’ombra,
né sa fermar l’irreparabil fuga.
Tosto le pompe di natura ingombra
invida piuma, ingiuriosa ruga.
Rapido il tempo si dilegua e sgombra,
cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga;
Amor non men di lui veloci ha i vanni:
fugge co’ fior del volto il fior degli anni.
92
De’ lieti dì la primavera è breve,
né si racquista mai gioia perduta.
Vien dopo ‘l verde con piè tardo e greve
la Penitenza squallida e canuta.
Dove spuntava il fior, fiocca la neve,
e colori e pensier trasforma e muta,
sì ch’uom freddo in amor quelle pruine
ch’ebbe dianzi nel core, ha poi nel crine.
93
Saggio colui ch’entro un bel seno accolto
gode il frutto del ben che gli è concesso.
Ed o! stolto quel cor, né men che stolto
crudo, né men ch’altrui crudo a sestesso,
cui quel piacer per propria colpa è tolto,
che vien sì raro e si desia sì spesso.
Anima in cui d’amor cura non regna
o che non vive o ch’è di vita indegna. –
94
Cigno che canti, rossignuol che plori,
musa o sirena che d’amor sospiri,
aura o ruscel che mormori tra’ fiori,
angel che mova il plettro o ciel che giri,
non di tanta dolcezza innebria i cori,
lega i sensi talor, pasce i desiri,
con quanta la mirabile armonia
per l’orecchie al garzone il cor feria.
95
Sparse vive faville in ogni vena
gli avea già quella insolita beltade,
quando un raggio di sol toccolla apena,
che la disfece in tenere rugiade.
O diletto mortal, gioia terrena,
come pullula tosto e tosto cade!
Vano piacer che gli animi trastulla,
nato di vanità, svanisce in nulla.
96
In questo mentre a più secrete soglie
già s’apre Adon con la sua bella il varco.
Già di candido avorio uscio l’accoglie,
ch’ha di schietto rubin cornice ed arco.
Tien di frutti diversi e fronde e foglie
il ministro che ‘l guarda un cesto carco.
Fan de’ sapori, ond’egli ha il grembo onusto,
una scimia ed un orso arbitro il gusto.
97
Questi, guidando Adon di loggia in loggia,
in una selva sua fa che riesca.
Piangon quivi le fronde e stillan pioggia
di celeste licor soave e fresca,
onde l’augel che tra’ bei rami alloggia
in un tronco medesmo ha nido ed esca,
ed ala cara sua prole felice
quella pianta ch’è culla anco è nutrice.
98
Con certa legge e sempr’ugual misura
qui tempra i giorni il gran rettor del lume.
Non v’alterna giamai tenor Natura,
né con sue veci il sol varia costume,
ma fa con soavissima mistura
gli ardori algenti e tepide le brume.
Sparsa il bel volto di sereno eterno
ride la state e si marita al verno.
99
In ogni tempo e non arato o culto
meraviglie il terren produce e serba,
e nel prato nutrisce e nel virgulto
la matura stagion mista al’acerba,
perché l’anno fanciullo e ‘nsieme adulto
dona il frutto ala pianta, il fiore al’erba,
talché congiunto il tenero al virile
lussuria ottobre e pargoleggia aprile.
100
Di fronde sempre tenere e novelle
l’orno, l’alno, la quercia il ciel ingombra:
piante sterili sì, ma grandi e belle,
di frutto invece han la bellezza e l’ombra.
L’allor non più fugace opache celle
tesse di rami e ‘n guisa il prato adombra
che, per dar agli amori albergo ed agio,
par voglia d’arboscel farsi palagio.
101
Vi fan vaghe spalliere ombrosi e folti
tra purpurei rosai verdi mirteti.
Quasi per mano stretti e ‘n danza accolti
ginebri e faggi e platani ed abeti
si condensan così ch’ordiscon molti
labirinti e ricovri ermi e secreti;
né Febo il crin, senon talor v’asconde,
quando l’aura per scherzo apre le fronde.
102
Trionfante la palma infra lo spesso
popolo dele piante il capo estolle.
Piramide de’ boschi, alto il cipresso
signoreggia la valle, agguaglia il colle.
Umidetto d’ambrosia il fico anch’esso
mostra il suo frutto rugiadoso e molle,
che piangendo si sta fra foglia e foglia,
chino la fronte e lacero la spoglia.
103
Dala madre ritorta e pampinosa
pende la dolce e colorita figlia,
parte fra’ tralci e fra le foglie ascosa,
parte dal sole il nutrimento piglia.
Altra di color d’oro, altra di rosa,
altra più bruna ed altra più vermiglia.
Qual acerba ha la scorza e qual matura,
qual comincia pian piano a farsi oscura.
104
Scopre il punico stelo il bel tesoro
degli aurei pomi di rossor dipinti;
apre un dolce sorriso i grani loro
ne’ cavi alberghi in ordine distinti,
onde fa scintillar dal guscio d’oro
molli rubini e teneri giacinti
e, quasi in picciol iride, commisti
sardonici, balassi ed ametisti.
105
Nutre il susin tra questi anco i suoi parti:
altri obliqui ne forma, altri ritondi,
quai di stille di porpora consparti,
quai d’eben negri e quai più ch’ambra biondi.
Men pigro il moro in sì beate parti
al verme serican serba le frondi.
Havvi il mandorlo aprico et havvi il pome
che trae di Persia il suo legnaggio e ‘l nome.
106
Al’opra natural cultrice mano
con innesti ingegnosi aggiunse pregio,
indolcì l’aspro, incivilì l’estrano,
ornò ‘l natio di peregrino fregio.
Congiunto al cornio suo minor germano
fiammeggia il soavissimo ciregio.
Nasce l’uva dal sorbo ed adottato
dal’arancio purpureo è il cedro aurato.
107
Anzi virtù d’amor vie più che d’arte,
la men pura sostanza indi rimossa,
perché perfetta il frutto abbia ogni parte,
fa che le polpe sue nascan senz’ossa,
e tanto in lor di suo vigor comparte
che ciascun d’essi oltremisura ingrossa.
Il pero, il prun prodigioso e ‘l pesco
vive in ogni stagion maturo e fresco.
108
Mostrando il cor fin nele foglie espresso
preme il tronco fedel l’edra brancuta.
Stringe il marito e gli s’appoggia appresso
la vite, onde la vita è sostenuta.
Vibra nel gelo amor, nel vento istesso
la face ardente e la saetta acuta.
L’acque accese d’amor bacian le sponde
e discorron d’amor l’aure e le fronde.
109
Tra que’ frondosi arbusti Adon sen varca
e co’ numi compagni oltre camina,
dove ogni pianta i verdi rami inarca,
quasi voglia abbracciar chi s’avicina,
e di frutti e di fior giamai non scarca
e del bel peso prodiga, s’inchina.
Piove nettar l’olivo e l’elce manna,
mele la quercia e zucchero la canna.
110
Qui son di Bacco le feconde vigne,
dove in pioggia stillante il vin si sugge.
Di candid’uve onusta e di sanguigne
quivi ogni vite si diffonde e strugge;
le cui radici intorno irriga e cigne
di puro mosto un fiumicel che fugge;
scorre il mosto dal’uve e dale foglie
e ‘n vermiglio ruscel tutto s’accoglie.
111
S’accoglie in rivi il dolce umore e ‘n fiume
apoco apoco accumulato cresce,
e nutre a sé tra le purpuree spume
di color, di sapor simile il pesce.
Folle chi questo o quel gustar presume,
che per gran gioia di sestesso n’esce:
ride, e ‘l suo riso è sì possente e forte
che la letizia alfin termina in morte.
112
Arbori estrane qui, se prestar fede
lice a tanto portento, esser si scrive.
Spunta con torto e noderoso piede
il tronco inferior sovra le rive,
ma dala forca insù quelche si vede
ha forma e qualità di donne vive:
son viticci le chiome e i diti estremi
figliano tralci e gettano racemi.
113
Dafni o Siringa tal fors’esser debbe
in riva di Ladone o di Peneo,
quando l’una a Tessaglia e l’altra accrebbe
nova verdura ai boschi di Liceo.
Forse in forma sì fatta a mirar ebbe
sue figlie il Po nel caso acerbo e reo,
quando a spegner le fiamme entro il suo fonte,
sinistrando il sentier, venne Fetonte.
114
Sotto le scorze ruvide ed alpestre
sentesi palpitar spirto selvaggio.
Soglion ridendo altrui porger le destre
e s’odon favellar greco linguaggio.
Ma che frutto si colga o fior silvestre
non senza alto dolor soffron l’oltraggio.
Bacian talor lusingatrici oscene,
ma chi gusta i lor baci ebro diviene.
115
Con pampinosi e teneri legami
stringono ador ador quel fauno e questo,
che, non potendo poi staccar da’ rami
la parte genital, fanno un innesto.
Fansi una specie istessa e di fogliami
veston le braccia e divien sterpo il resto,
verdeggia il crine e con le barbe in terra
indivisibilmente il piè s’afferra.
116
Quanti favoleggiò numi profani
l’etate antica han quivi i lor soggiorni.
Lari, Sileni e Semicapri e Pani,
la man di tirso, il crin di vite adorni,
Geni salaci e rustici Silvani,
Fauni saltanti e Satiri bicorni
e, di ferule verdi ombrosi i capi,
senza fren, senza vel Bacchi e Priapi
117
e Menadi e Bassaridi vi scerni
ebre pur sempre e sempre a bere acconce,
ch’intende or di latini, or di falerni
a votar tazze ed asciugar bigonce
ed, agitate da’ furori interni,
rotando i membri in sozze guise e sconce,
celebran l’orgie lor con queste o tali
fescennine canzoni e baccanali:
118
– Or d’ellera s’adornino e di pampino
i giovani e le vergini più tenere,
e gemina nel’anima si stampino
l’imagine di Libero e di Venere.
Tutti ardano, s’accendano ed avampino
qual Semele, ch’al folgore fu cenere,
e cantino a Cupidine ed a Bromio
con numeri poetici un encomio.
119
La cetera col crotalo e con l’organo
su i margini del pascolo odorifero,
il cembalo e la fistula si scorgano
col zuffolo, col timpano e col pifero,
e giubilo festevole a lei porgano,
ch’or Espero si nomina, or Lucifero,
ed empiano con musica che crepiti
quest’isola di fremiti e di strepiti.
120
I satiri con cantici e con frottole
tracannino di nettare un diluvio.
Trabocchino di lagrima le ciottole
che stillano Pausilipo e Vesuvio.
Sien cariche di fescine le grottole
e versino dolcissimo profluvio.
Tra frassini, tra platani e tra salici
esprimansi de’ grappoli ne’ calici.
121
Chi cupido è di suggere l’amabile
del balsamo aromatico e del pevere,
non mescoli il carbuncolo potabile
col Rodano, con l’Adige o col Tevere,
ch’è perfido, sacrilego e dannabile
e gocciola non merita di bevere
chi tempera, ch’intorbida, chi ‘ncorpora
co’ rivoli il crisolito e la porpora.
122
Ma guardinsi gli spiriti che fumano,
non facciano del cantaro alcun strazio,
e l’anfore non rompano che spumano,
già gravide di liquido topazio;
ché gli uomini ir in estasi costumano,
e s’altera ogni stomaco ch’è sazio,
e ‘l cerebro che fervido lussuria
più d’Ercole con impeto s’infuria –.
123
Mentr’elle ivan così con canti e balli
alternando euoè giolive e liete,
intente tuttavia negl’intervalli,
sgonfiando gli otri, ad innaffiar la sete,
passando Adon di quell’amene valli
nele più chiuse viscere secrete,
trovò morbida mensa ed apprestati
erano intorno al desco i seggi aurati.
124
– Qui, bellissimo Adon, depor conviensi
(ricominciò Cillenio) ogni altra cura.
Col ristoro del cibo uopo è che pensi
di risarcir, di rinforzar natura.
E poiché ciascun già degli altri sensi
in queste liete piagge ebbe pastura,
vuolsi il gusto appagar, però che tocca
del diletto la parte anco ala bocca.
125
La bocca è ver che del’uman sermone,
solo ufficio del’uomo, è nunzia prima.
Concetto alcun non sa spiegar ragione
che per lei non si scopra e non s’esprima;
interprete divin, per cui s’espone
quanto nel petto altrui vuol che s’imprima,
e la voce è di ciò mezzana ancella,
l’intelletto e ‘l pensier di chi favella.
126
Ma serve ancora ad operar che cresca
l’interno umor, né per ardor s’estingua;
a cui, quando talor cibo rinfresca,
fa credenziera e giudice la lingua;
né per la gola mai passa alcun’esca,
ch’ivi prima il sapor non si distingua.
Fatto il saggio ch’ell’ha d’ogni vivanda,
in deposito al ventre alfin la manda.
127
E perché l’uom, ch’ale fatiche è lento,
nel’operazion mai non si stanchi,
e, non pascendo il natural talento,
l’individuo mortal si strugga e manchi,
vuol chi tutto creò che l’alimento
non sia senza il piacer che lo rinfranchi,
onde questo con quel sempre congiunto
abbia a nutrirlo e dilettarlo a un punto.
128
Notasti mai da quante guardie e quali
sia la lingua difesa e custodita?
Perché da’ soffi gelidi brumali
del nevoso aquilon non sia ferita,
quasi di torri o pur d’antemurali
coronata è per tutto e ben munita;
e perch’altro furor non la combatta,
sotto concavo tetto il corpo appiatta.
129
Dale fauci al palato in alto ascende
quanto basta e convien polputa e grossa.
Larga ha la base, e quanto più si stende
s’aguzza in cima, ed è spugnosa e rossa.
Ha la radice, onde deriva e pende,
forte, perch’aggirar meglio si possa.
Volubilmente si ripiega e vibra,
muscolosa, nervosa e senza fibra.
130
Dico così che il facitor sovrano
cotale ad altro fin non la costrusse
senon perché del nutrimento umano,
che dal gusto provien, stromento fusse;
senza ilqual uso inutil fora e vano
quanto di dolce al mondo egli produsse.
E questa del tuo cor fiamma immortale
senza Cerere e Bacco è fredda e frale.–
131
Così parla il signor del’eloquenza,
indi per mano il vago Adon conduce
là dove pompa di real credenza
veste i selvaggi orror di ricca luce.
Con bell’arte disposto e diligenza
l’oro e l’elettro in ordine riluce.
Di materia miglior poi vi si squadra
d’altre vasella ancor serie leggiadra.
132
Ma duo fra gli altri di maggior misura
d’un intero smeraldo Adon ne vide,
gemma d’amor che cede e non s’indura
alo scarpello, e col bel verde ride.
Non so se di sì nobile scultura
oggi alcun’opra il gran Bologna incide
che i bei rilievi e i dilicati intagli,
qui da Dedalo fatti, in parte agguagli.
133
In un de’ vasi il simulacro altero
dela diva del loco è sculto e finto,
ma sì sembiante è il simulato al vero
che l’esser dal parer quasi n’è vinto.
Il sanguigno concetto e ‘l suo primiero
fortunato natal v’appar distinto.
Miracolo a veder come pria nacque,
genitrice d’Amor, figlia del’acque.
134
Saturno v’è, ch’al proprio padre tronca
l’oscene membra e dalle in preda a Dori;
Dori l’accoglie in cristallina conca,
fatta nutrice de’ nascenti ardori.
Zefiro v’è, che fuor di sua spelonca
batte l’ali dipinte a più colori,
e del parto gentil ministro fido
sospinge il flutto leggiermente al lido.
135
Vedresti per lo liquido elemento
nuotar la spuma gravida e feconda,
poscia in oro cangiarsi il molle argento
e farsi chioma innanellata e bionda.
La bionda chioma incatenando il vento
serpeggia e si rincrespa, emula al’onda.
Ecco spunta la fronte a poco a poco,
già l’acque a’ duo begli occhi ardon di foco.
136
O meraviglia, e trasformar si scorge
in bianche membra alfin la bianca spuma.
Novo sol dal’Egeo si leva e sorge,
che ‘l mar tranquilla e l’aria intorno alluma;
sol di beltà, ch’altrui conforto porge
e dolcemente l’anime consuma.
Così Venere bella al mondo nasce,
un bel nicchio ha per cuna, alghe per fasce.
137
Mentre col piè rosato e rugiadoso
il vertice del mar calca sublime
e con l’eburnea man del flutto ondoso
dal’auree trecce il salso umor s’esprime,
gli abitator del pelago spumoso
lascian le case lor palustri ed ime
e fan, seguendo il lor ceruleo duce,
festivi ossequi al’amorosa luce.
138
Palemon d’un delfino il curvo tergo
preme, vezzoso e pargoletto auriga,
e, balestrando un fuggitivo mergo,
fende i solchi del mar per torta riga.
Quanti tritoni han sotto l’onde albergo,
altri accoppiati in mansueta biga
tiran pian pian la conca, ov’ella nacque,
altri per altro affar travaglian l’acque.
139
Chi del’obliquo corno a gonfie gote
fa buccinar la rauca voce al cielo;
chi, per sottrarla al sol che la percote,
le stende intorno al crin serico velo;
chi, volteggiando con lascive rote,
le regge innanzi adamantino gelo
e, perché solo in sua beltà s’appaghi,
ne fa lucido specchio agli occhi vaghi.
140
Né di scherzar anch’elle infra costoro
del gran padre Nereo lascian le figlie,
ch’accolte in lieto e sollazzevol coro
cantano a suon di pettini e cocchiglie,
e porgendo le van succino ed oro,
candide perle e porpore vermiglie.
Sì fatto stuol per l’umida campagna
la riceve, la guida e l’accompagna.
141
Nel’altro vaso del suo figlio Amore
il nascimento effigiato splende.
Già la vedi languir, mentre che l’ore
vicine omai del dolce parto attende,
nela bella stagion, quand’entra in fiore
la terra e novell’abito riprende.
Par che l’alba oltre l’uso apra giocondo
il primo dì del più bel mese al mondo.
142
Sovra molli origlieri e verdi seggi
la bella dea per partorir si posa.
Par che rida la riva e che rosseggi
presso il museo fiorito indica rosa.
Par che l’onda di Cipro apena ondeggi;
danzano i pesci insu la sponda erbosa.
Con pacifiche arene ed acque chiare
par senza flutto e senza moto il mare.
143
Per non farsi importuni i Zefiretti
a quelle dolcemente amare doglie
stansi a dormir, quasi in purpurei letti,
de’ vicini roseti infra le foglie.
Colgon l’Aure lascive odori eletti
per irrigar le rugiadose spoglie,
spoglie bagnate di celeste sangue,
dove tanta beltà sospira e langue.
144
Pria che gli occhi apra al sol, le labbra al latte,
per le viscere anguste Amor saltante
precorre l’ora impetuoso e batte
il sen materno con feroci piante
e del ventre divin le porte intatte
s’apre e prorompe, intempestivo infante.
Senza mano ostetrice ecco vien fuori,
ed ha fasce le fronde e cuna i fiori.
145
Fuor del candido grembo apena esposto,
le guizza in braccio, indi la stringe e tocca.
Pigolando vagisce e corre tosto
su l’urna manca a conficcar la bocca.
Stillan le Grazie il latte, ed è composto
di mel, qual più soave Ibla mai fiocca.
Parte, alternando ancor balia e mammelle,
dale tigri è lattato e dal’agnelle.
146
Stame eterno al bambin le filatrici
d’ogni vita mortal tiran cantando.
Van mansuete insu que’ campi aprici
le fere più terribili baccando.
Tresca il leone e con ruggiti amici
il vezzoso torel lecca scherzando
e, con l’unghia sonora e col nitrito,
lieto applaude il destriero al suo vagito.
147
Bacia l’agnel con innocente morso
acceso il lupo d’amorosa fiamma.
La lepre il cane abbraccia e l’ispid’orso
la giovenca si tien sotto la mamma.
L’aspra pantera insu ‘l vergato dorso
gode portar la semplicetta damma.
E toccar il dragon, benché pungente,
del nemico elefante ardisce il dente.
148
Mirasi Citerea, che gli amorosi
scherzi ferini di mirar s’appaga,
e ride ch’animai tanto orgogliosi
sentan per un fanciullo incendio e piaga.
Par che sol del cinghial mirar non osi
gioco, festa o piacer, quasi presaga,
presaga che, per lui tronca una vita,
ogni delizia sua le fia rapita.
149
Tal de’ vasi è il lavoro; Amor s’appiglia
ala maggior dele gemmate coppe,
poscia di quello stuol, che rassomiglia
le semidee che si cangiaro in pioppe,
per farne scaturir pioggia vermiglia
ad una con lo stral svena le poppe
e fa che dal bel sen per cento spilli
odorato licor dentro vi stilli
150
e, tre volte ripiena, ad una ad una
tutte sorbille e propinò ridendo;
ne bebbe una a Mercurio, a Vener una,
una a colui che la distrugge ardendo.
Così a ciascun ne dedicò ciascuna:
la prima ala Salute offrì bevendo,
l’altro vaso di vin colmo e spumoso
diede al Piacere e l’ultimo al Riposo.
151
Cento ninfe leggiadre e cento Amori,
cento fauni nell’opra abili e destri,
quinci e quindi portando e frutti e fiori,
son dela bella imbandigion maestri.
Qui con purpurea man Zefiro e Clori
votan di gigli e rose ampi canestri,
là Pomona e Vertunno han colmi e pieni
de’ lor doni maturi i cesti e seni.
152
Natura dele cose è dispensiera,
l’Arte condisce quel ch’ella dispensa.
Versa Amaltea, che n’è la vivandiera,
del ricco corno suo la copia immensa.
Havvi le Grazie amorosette in schiera
e loro ufficio è rassettar la mensa;
e vigilante infra i ministri accorti
il robusto custode havvi degli orti.
153
Ogni sergente aprova ed ogni serva
le portate apparecchia e le vivande.
Altri di man d’Aracne e di Minerva
su i tronchi e per lo suol cortine spande.
Altri le tazze, accioché Bacco ferva,
corona d’odorifere ghirlande.
Chi stende insu i tapeti i bianchi drappi,
chi vi pon gli aurei piatti e gli aurei nappi.
154
Così per Ibla ala novella estate
squadra di diligenti api si vede,
che le lagrime dolci e dilicate
di Narciso e d’Aiace a sugger riede;
poi nele bianche celle edificate
vanno a ripor le rugiadose prede;
altra a comporre il favo ed altra schiera
studia dal mele a separar la cera.
155
È tutta in moto la famiglia: or vanno
quei che curano il pasto, or fan ritorno.
Alcuni Amori a ventilar vi stanno
con l’ali aperte e sferzan l’aure intorno.
Le quattro figlie del fruttifer’anno,
per far intutto il bel convito adorno,
recan d’ogni stagion tributi eletti,
e son diverse d’abiti e d’aspetti.
156
Ingombra una di lor di fosco velo
la negra fronte e la nevosa testa;
di condensato e cristallino gelo
stringe l’umido crin fascia contesta;
qual nubiloso e folgorante cielo
minaccia il ciglio torbida tempesta;
copre il rugoso sen neve canuta
calza il gelido piè grandine acuta.
157
Altra spirando ognor fecondo fiato
ride con giovenil faccia serena;
un fiorito legame ed odorato
la sparsa chioma e rugiadosa affrena;
la sua vesta è cangiante e variato
iri di color tanti ha il velo apena;
va di verde cappello il capo ombrosa,
nel cui vago frontal s’apre una rosa.
158
L’altra, che ‘ntorno al ministerio assiste,
par che di sete e di calore avampi;
ispida il biondo crin d’aride ariste,
tratta il dentato pettine de’ campi;
secche anelan le fauci, arsicce e triste
fervon le guance, e vibran gli occhi lampi;
umida di sudor, di polve immonda
odia sempre la spoglia ed ama l’onda.
159
Circonda il capo al’ultima sorella,
che quasi calvo è poco men che tutto,
un diadema d’intorta uva novella,
di cedri e pomi e pampini costrutto,
intessuta di foglie ha la gonnella,
di fronde il cinto ed ogni groppo è frutto;
stilla umori il crin raro e riga intanto
di piovosa grondaia il verde manto.
160
Insieme con la diva innamorata
Adone ala gran mensa il piè converse.
Amor, paggio e scudier, l’onda odorata
su le man bianche in fonte d’or gli asperse;
Amor scalco e coppier l’esca beata
in cava gemma e ‘l buon licor gli offerse;
Amor del pasto ordinator ben scaltro
pose a seder l’un sole a fronte al’altro.
161
Somigliavan duo soli ed ella ed egli,
cui non fusser però nubi interposte,
e gian ne’ volti lor, come in duo spegli,
lampeggiando a ferir le luci opposte.
Dava costei sovente e rendea quegli
di fiamma e di splendor colpi e risposte,
e con lucida ecclisse e senza oltraggio
s’incontrava e rompea raggio con raggio.
162
Como, dio del piacer, piacevol nume
ch’a sollazzi ed a feste è sempre inteso,
per mitigar di que’ begli occhi il lume
e del sole importuno il foco acceso,
con due smaltate e gioiellate piume
di bel pavon, che tra le mani ha preso,
l’aere agitando in lieve moto e lento
tra i più fervidi ardor fabrica il vento.
163
Mercurio è quei che mesce e che rifonde
nel’auree conche i preziosi vini;
Amor rinfresca con le limpid’onde
l’idrie lucenti e i vasi cristallini;
l’un e l’altro gli terge e poi gli asconde
nel più denso rigor de’ geli alpini,
le vicende scambiando or questo, or quello
nel servire or di coppa, or di coltello.
164
Traboccan qui di liquid’oro e gravi
di stillato ametisto urne spumanti.
Tengon gemme capaci i ventri cavi
di rugiada vital colmi e brillanti:
sangue giocondo e lagrime soavi
che non peste versar l’uve pregnanti,
onde di Cipro le feconde viti
soglion dolce aggravar gli olmi mariti.
165
La bella dea, di nettare vermiglio
rugiadoso cristallo in man si strinse.
Libollo, e con dolce atto e lieto ciglio
nel bel rubino i bei rubini intinse.
Poi di vergogna, il semplicetto giglio
violando di rosa, il volto tinse
e l’invitò, postogli il vaso innanzi
parte a gustar de’ generosi avanzi.
166
Il bel garzon, ch’ingordamente assiso
presso quell’esca, onde la vita ei prende,
tutto dal vago e dilicato viso,
l’altra spesso obliando, intento pende
e con guardo a nutrir cupido e fiso
men la bocca che gli occhi avido intende,
v’immerge il labro e vi sommerge il core,
e resta ebro di vin, ma più d’amore.
167
Mentre son del gran pasto insu ‘l più bello,
ecco Momo arrivar quivi si vede,
Momo critico nume, arco e flagello
che gli uomini e gli dei trafige e fiede.
Ciò ch’egli cerchi e qual pensier novello
tratto l’abbia dal ciel, Vener gli chiede,
e perché volentier scherza con esso,
sel fa seder, per ascoltarlo, appresso.
168
– Vo (rispose lo dio) tra queste piante
dela Satira mia tracciando l’orme,
dela Satira mia che poco avante
ha di me generato un parto informe,
parto nele fattezze e nel sembiante
sì mostruoso, orribile e difforme
che, se non fusse il suo sottile ingegno,
lo stimerei di mia progenie indegno.
169
Ma la vivacità mio figlio il mostra
e lo spirto gentil ch’io scorgo in lui
e quelch’è proprio dela stirpe nostra:
la libertà del sindicare altrui;
onde meco delpar contende e giostra,
che pur sempre del vero amico fui
e mentir mai non volli e mai non seppi
chiuder la lingua tra catene e ceppi.
170
La lingua sua vie più che spada taglia,
la penna sua vie più che fiamma coce.
Con acuta favella il ferro smaglia
e con ardente stil fulmina e noce,
né contro i morsi suoi morso è che vaglia,
né giova schermo incontro ala sua voce;
indomito animale, estranio mostro
ch’altro non ha che ‘l fiato e che l’inchiostro.
171
Non ha piè, non ha stinchi, ond’ei si regga,
ha l’orecchie recise e ‘l naso monco.
Io non so come scriva e vada e segga,
ch’è storpiato e smembrato e zoppo e cionco.
Ma benché così rotto egli si vegga
ché del corpo gli resta apena il tronco,
non pertanto l’audacia in lui si scema,
poiché sol dela lingua il mondo trema.
172
Tal qual è, senza piante e senza gambe,
ne’ secoli futuri e ne’ presenti,
dele man privo e dele braccia entrambe,
l’universo però fia che spaventi.
Quai piaghe ei faccia, il saprà ben Licambe
che, colto da’ suoi strali aspri e pungenti,
di desperato laccio avinto il collo,
darà di propria man l’ultimo crollo.
173
Gran cose ha di costui Febo indovino
e previste e predette agli altri numi.
Pronosticò che nome avrà Pasquino,
correttor dele genti e de’ costumi;
che per terror de’ principi il Destino
gli darà d’eloquenza e mari e fiumi,
e ch’imitarlo poi molti vorranno,
ma non senza periglio e senza danno.
174
Nemico è dela fama e dela corte,
lacera i nomi e d’adular non usa;
in ferir tutti è simile ala morte;
s’io lui riprendo, egli mestesso accusa
con dir che ‘l mio dir mal non è di sorte
che la malizia altrui resti confusa.
Che più? nonch’altri il gran monarca eterno
nota, punta, ripicca e prende a scherno.
175
I fanciulli rapiti e le donzelle
non sol di rinfacciargli ardisce ed osa,
ma pon nel’opre sue divine e belle
anco la bocca e biasma ogni sua cosa.
Trova degli elementi e dele stelle
imperfetta la mole e difettosa,
ogni parola impugna, emenda ogni atto
e si beffa talor di quanto ha fatto.
176
Dà menda al mar, ch’ha i venti e le tempeste,
ala terra, che trema e che vacilla,
al’aria, che di nuvoli si veste,
ed al foco, che fuma e che sfavilla;
appone ala gran machina celeste
che maligne influenze infonde e stilla,
ch’altra luce si move, altra sta fissa,
che la luna è macchiata e ‘l sol s’ecclissa.
177
E non pur di colui che ‘l tutto regge,
ma prende a mormorar dela Natura.
Dice ch’altrui vil femina dar legge
non dee, né dee del mondo aver la cura.
La detesta, la danna e la corregge,
e ‘l lavoro del’uom tassa e censura,
che non diè, che non fè, sciocca maestra,
al tergo un occhio, al petto una finestra.
178
Per questo suo parlar libero e schietto
Giove dal ciel l’ha discacciato a torto.
Gli fè com’al tuo sposo, e per dispetto,
se non fusse immortal, l’avrebbe morto.
Precipitato dal superno tetto,
restò rotto e sciancato e guasto e torto.
Ma perché pur co’ detti altrui fa guerra,
poco meglio che ‘n cielo è visto in terra.
179
Su le sponde del Tebro, ov’egli meno
credea che ‘l vizio e ‘l mal regnar devesse,
per dar legge al suo dir, ch’è senza freno,
tra bontate e virtute albergo elesse,
ma non cessò di vomitar veleno,
né però più ch’altrove ei tacque in esse;
seben malconcio e senza un membro intero
provò che l’odio alfin nasce dal vero.
180
Se tu vedessi, o dea, l’aspre ferite
ch’ha per tutte le membra intorno sparte,
diresti che con Ercole ebbe lite
o ch’a guerra in steccato entrò con Marte.
Ch’o sien vere l’accuse o sien mentite,
ogni grande aborrir suol la nostr’arte
e, perdendone alfin la sofferenza,
non voglion comportar tanta licenza.
181
Alcun ben vene fu che sene rise
e di suo motteggiar poco gli calse,
però ch’egli è faceto e ‘n varie guise
sa novelle compor veraci e false,
benché l’arguzie sue giamai divise
non sien dale punture amare e salse.
Lecca talor piacevolmente e scherza,
nondimen sempre morde e sempre sferza.
182
Ma costoro ch’io dico, iquali in pace
lo lascian pur gracchiar quant’egli vole,
sapendo per natura esser loquace
e che pronte ha l’ingiurie e le parole,
che per rispetto o per timor non tace
e ch’irritato più, più garrir suole,
son pochi e rari, ed han sinceri i petti,
né temon ch’altri scopra i lor difetti.
183
E certo io non so già, s’è lor concesso
gli encomi udir d’adulator ch’applaude,
perché non deggian poi nel modo istesso
il biasmo tollerar come la laude.
E s’ai malvagi è d’operar permesso
ogni male a lor grado ed ogni fraude,
perché non lice ancor con pari ardire
come ad essi di fare, altrui di dire?
184
Io per me, bella dea, perch’altri offeso
si tenga del mio dir, scoppiar non voglio;
ma né turbarsi già chi n’è ripreso,
né sentir ne devria sdegno o cordoglio,
perché qualor, pur come foco acceso
o rasoio crudel, la lingua scioglio,
con pietoso rigor di buon chirurgo
arder mostro e ferir, ma sano e purgo.
185
Or essendo il meschino in terra e ‘n cielo
per tal cagion perseguitato tanto,
io, che pur l’amo con paterno zelo,
supplico il nume tuo cortese e santo
ch’appo la fonte del gran re di Delo,
de’ cigni tuoi già consacrata al canto,
là del’acque immortali insu la riva
ti piaccia acconsentir ch’alberghi e viva.
186
Solo in quell’isoletta amena e lieta,
che d’ogni insidia è libera e secura,
potrà vita menar franca e quieta,
e scriver e cantar senza paura.
Ei, seben non è cigno, è tal poeta
che meritar ben può questa ventura
d’esser ascritto infra que’ scelti e pochi,
ma non sia chi l’attizzi o chi ‘l provochi.
187
S’egli avien che talor d’ira s’infiammi,
invettive e libelli usa per armi,
iambi talor saetta ed epigrammi,
talor satire vibra ed altri carmi.
Stupir sovente insieme e rider fammi
quando vien qualche verso a recitarmi
contr’un che celebrar volse il Colombo
e d’India, in vece d’or, riportò piombo.
188
Per impetrar da te questa dimanda
d’esser ammesso in quel felice coro,
una fatica sua bella ti manda,
da cui scorger potrai s’ha stil canoro
e s’egli degno è pur dela ghirlanda
ch’altrui circonda il crin di verde alloro.
In questo libro, che qui meco ho io,
punge, fuorché te sola, ogni altro dio.
189
Ogni altro dio dala sua penna è tocco,
fuorché sol tu, cui sacra il bel presente.
Narra gli onor del tuo marito sciocco
e qualche prova ancor di quel valente,
che, del’asta malgrado e delo stocco,
so che del cor t’è uscito e dela mente;
e senon ch’oggi ad altro intenta sei,
leggerne almeno un saggio a te vorrei. –
190
– Qual trastullo maggior (Ciprigna disse)
dar ne potresti infra quest’ozi nostri,
che farne udir di lor quanto ne scrisse
spirto sì arguto in suoi giocosi inchiostri?
Qual cosa, che più grata or ne venisse,
esser potea del’opera che mostri?
Ma per meglio ascoltar ciò che tu leggi,
ti vogliam dirimpetto ai nostri seggi. –
191
Allor tra varia turba ascoltatrice
assiso incontro ai duo beati amanti,
d’oro fregiato l’orlo e la cornice
si pose Momo un bel volume avanti.
Le vergogne del cielo, il titol dice;
e diviso è il poema in molti canti,
ma fra molti un ne sceglie, indi le rime,
in questa guisa incominciando, esprime:
192
– Più volte ai dolci lor furti amorosi
ritornati eran già Venere e Marte,
credendo a tutti gli occhi esser ascosi,
tanta avean nel celarsi industria ed arte;
ma il Sol, che i raggi acuti e luminosi
manda per tutto e passa in ogni parte,
nela camera entrò che ‘n sé chiudea
lo dio più forte e la più bella dea.
193
Veggendogli d’amor rapire il frutto
seno a seno congiunti e labro a labro,
tosto a Vulcano a riferire il tutto
n’andò nel’antro affumigato e scabro.
Batter sentissi al caso indegno e brutto,
vie più grave e più duro il torto fabro
di quelch’egli adoprava in Mongibello,
su l’incudin del core altro martello.
194
Non fu già tanto il Sol col divin raggio
mosso per zelo a palesar quell’onte,
quanto per vendicar con tale oltraggio
la saetta ch’uccise il suo Fetonte,
che, quando al troppo ardito e poco saggio
garzon, ch’ei tanto amò, ferì la fronte,
non men ch’al figlio il corpo, al genitore
trafisse di pietà l’anima e ‘l core.
195
Poiché distintamente il modo e ‘l loco
del’alta ingiuria sua da Febo intese,
nel petto ardente delo dio del foco
foco di sdegno assai maggior s’accese.
Temprar nel’ira sua si seppe poco
colui che tempra ogni più saldo arnese.
De’ fulmini il maestro al’improviso
fulminato restò da quell’aviso.
196
Vassen là dove de’ ciclopi ignudi
ala fucina il rozzo stuol travaglia.
Fa percosse sonar le curve incudi,
dà di piglio ala lima, ala tanaglia,
e ponsi a fabricar con lunghi studi
pieghevol rete di minuta maglia.
D’un infrangibil filo adamantino
la lavorò l’artefice divino.
197
Di quel lavor la maestria fabrile
se sia diamante o fil mal s’argomenta.
Non men che forte egli l’ordì sottile,
la fè sì molle e dilicata e lenta
che di filar giamai stame simile
l’emula di Minerva indarno tenta
e, quantunque con man si tratti e tocchi,
invisibil la trama è quasi agli occhi.
198
Con arte tale il magistero è fatto
ch’ancorch’entrino i duo tra que’ ritegni,
purché non faccian sforzo inquanto al tatto,
non si discopriran gli occulti ingegni.
Ma se verran con impeto a quell’atto
che suol far cigolar dintorno i legni,
tosto che ‘l letto s’agita e scompiglia
la rete scocca e al talamo s’appiglia.
199
Uscito poi dela spelonca nera
zoppicando sen corre a porla in opra.
Nela stanza l’acconcia in tal maniera
ch’impossibil sarà che si discopra.
Ne’ sostegni di sotto ala lettiera,
nele travi del palco anco disopra,
per le cortine in giro ei la sospende
e tra le piume la dispiega e stende.
200
Quand’egli ha ben le benconteste sete
disposte intorno in sì sagaci modi
che discerner alcun dele secrete
fila non può gl’insidiosi nodi,
lascia l’albergo e, dela tesa rete
dissimulando le nascoste frodi,
spia l’andar degli amanti e ‘l tempo aspetta
dela piacevol sua strana vendetta.
201
Usò per affidargli astuzia e senno,
senza punto mostrar l’ira che l’arse.
Fè correr voce ch’ei partia per Lenno,
e ‘l grido ad arte per lo ciel ne sparse.
Udita la novella, al primo cenno
nel loco usato vennero a trovarse,
e per farlo di dio divenir bue,
nel dolce arringo entrarono ambidue.
202
Sì tosto che la cuccia il peso grave
de’ duo nudi campioni a premer viene,
prima ch’ancor si sieno ala soave
pugna amorosa apparecchiati bene,
la machinata trappola la chiave
volge che porge il moto ale catene,
fa suo gioco l’ordigno e ‘n que’ diletti
rimangono i duo rei legati e stretti.
203
L’ordito intrico in guisa tal si strinse
e sì forte dintorno allor gl’involse
che per scoter colui non sene scinse,
per dibatter costei non sene sciolse.
Or, poich’entrambo aviticchiati avinse
e ‘n tal obbrobrio a suo voler gli colse,
del’aguato in cui stava uscito il zoppo,
prese la corda ov’atteneasi il groppo.
204
Dela perfida rete il capo afferra,
indi del chiuso albergo apre le porte,
tira le coltre, il padiglion disserra,
e convoca del ciel tutta la corte
e, col re de’ guerrieri entrata in guerra
scoprendo lor la disleal consorte
avinta di durissima catena,
fa dele proprie infamie oscena scena.
205
«Deh, venite a veder se più vedeste,
(altamente gridava) opre mai tali.
L’eroe divino, il capitan celeste,
ditemi, è quegli là, divi immortali?
l’imprese sue terribili son queste?
questi i trofei superbi e trionfali?
Ecco le palme gloriose e degne,
le spoglie illustri e l’onorate insegne.
206
Gran padre e tu che l’universo reggi,
vienne a mirar la tua pudica prole.
Così serba Imeneo le sacre leggi?
tali ignominie il ciel permetter suole?
E che fa dunque Astrea negli alti seggi,
se punir i colpevoli non vole?
Son cose tollerabili? son atti
degni di deità scherzi sì fatti?
207
Ama la figlia tua questo soldato
sano, gagliardo e di giocondo aspetto,
e perché va pomposo e ben ornato,
di giacersi con lui prende diletto.
Schiva il mio crin malculto e rabbuffato,
del mio piè diseguale odia il difetto,
l’arsiccio volto aborre e con disprezzo
mi schernisce talor, s’io l’accarezzo.
208
Se zoppo mi son io tal qual mi sono,
Giove e Giunon, mi generaste voi;
e generato forse agile e buono,
perché dal ciel precipitarmi poi?
Se pur volevi, o gran rettor del tuono,
sotto giogo perpetuo accoppiar noi,
non devevi così prima sconciarmi
o non devevi poi genero farmi.
209
La colpa non è mia dunque se guasti
del piede i nervi e le giunture ho rotte;
se rozzo e senza pompe e senza fasti
tinta ho la faccia di color di notte,
tu sei che colaggiù mi confinasti
abitator dele sicane grotte.
Ma s’ancor quivi io ti ministro e servo,
non meritai di trasformarmi in cervo.
210
Deve per questo la mia bella moglie,
bella ma poco onesta e poco fida,
qualora a trarsi le sfrenate voglie
cieco appetito la conduce e guida,
punto ch’io metta il piè fuor dele soglie
e da lei m’allontani e mi divida,
puttaneggiando dentro il proprio tetto,
disonorare il marital mio letto?
211
Deve per tuttociò negli altrui deschi
cibo cercar la meretrice infame,
dovunque il figlio a satollar l’adeschi
del’ingorda libidine le brame?
Io pur al par de’ più robusti e freschi
credo vivanda aver per la sua fame,
ché dove un membro è difettoso e manca,
altra parte supplisce intera e franca.
212
Ma non so se ‘n tal gioco averrà mai
ch’ella più mi tradisca e che m’offenda.
Così, perfida e rea, così farai
de’ tuoi dolci trastulli amara emenda,
finché la dote, ond’io stolto comprai
le mie proprie vergogne, a me si renda.
Poi per commun quiete il re superno
vo’ che faccia tra noi divorzio eterno.
213
Or mirate, vi prego,alme divine,
gli altrui congiunti ai vituperi miei,
s’io fui ben cauto e s’io fui buono alfine
uccellatore e pescator di dei.
Dite s’anch’io so far prede e rapine,
come l’empio figliuol sa di costei.
Veggiasi chi di noi mastro più scaltro
sia di reti e di lacci o l’uno o l’altro.
214
So che lieve è la pena e che ‘l mio torto
vie più palese in tal castigo appare;
ma le corna ch’ascose in grembo porto
vo’ pormi in fronte manifeste e chiare,
purch’io riceva almen questo conforto
di far la festa publica e vulgare.
Voglio la parte aver del piacer mio
e, poiché ride ognun, ridere anch’io».
215
Mentr’ei così dicea, tutti coloro
ch’ala favola bella eran presenti
il teatro del ciel facean sonoro
con lieti fischi e con faceti accenti,
e diceano, additandogli fra loro,
di sì novo spettacolo ridenti:
«Ve’ come il tardo alfin giunse il veloce,
ve’ come fu dal vil domo il feroce».
216
O quanti fur dei giovinetti, o quanti,
ch’inaviditi di sì dolce oggetto,
in rimirando i duo celesti amanti
che staccar non potean petto da petto,
vie più d’invidia assai tra’ circostanti
che di riso in quel punto ebber suggetto,
e per participar di que’ legami
curato non avrian d’esser infami.
217
Recato avriansi a gran ventura molti
spettatori del caso e testimoni
più volentieri allor, ch’esser disciolti,
come lo dio guerrier farsi prigioni.
Restar tra nodi sì soavi involti
voluto avrian, non ch’altri, i duo vecchioni,
Titon dico e Saturno, i freddi cori
accesi anch’essi d’amorosi ardori.
218
Pallade e Cinzia, verginelle schive,
tenner gran pezza in lor lo sguardo fiso,
poi da cose sì sozze e sì lascive
torser in là, tinte di scorno, il viso.
Giunon, diva maggior del’altre dive,
non senza un gentilissimo sorriso
coprissi il ciglio con la man polita,
ma giocava con l’occhio infra le dita.
219
Vergognosetta d’un ludibrio tanto
la dea d’amor, chi membri alabastrini
non avea da coprir velo né manto
tenea bassa la fronte e gli occhi chini.
Intorno al corpo immacolato intanto
sparsi i cancelli de’ legami fini,
craticolando le sembianze belle,
diviso aveano un sole in molte stelle.
220
Bravò lo dio del ferro e si contorse,
quando il forte lacciuol prima annodollo,
romper col suo valor credendo forse
e stracciar que’ viluppi ad un sol crollo,
ma poiché prigioniero esser s’accorse,
né poterne ritrar le braccia e ‘l collo,
anch’ei, benché di rabbia enfiato e pieno,
a pregar cominciò, come Sileno.
221
Vulcan tien tuttavia la rete chiusa,
né scioglie il nodo, né rallenta il laccio
ché l’infida moglier così delusa
vuol ch’ivi al drudo suo si resti in braccio.
Intercede ciascuno, ed ei ricusa
di liberargli dal noioso impaccio.
Pur del vecchio Nettun consente a’ preghi
che la coppia impudica alfin si sleghi.
222
Dassi alo dio che nele piante ha l’ale
cura d’aprir quell’ingegnosa gabbia,
ed ei non intraprende ufficio tale
per cortesia, né per pietà che n’abbia,
ma perché del’adultera immortale,
che di vergogna e di dispetto arrabbia,
sciogliendo il nodo che l’avolge e chiude,
spera palpar le belle membra ignude.
223
Oltre che d’acquistarsi ei fa disegno
l’arredo indissolubile e tenace,
dico la rete che con tanto ingegno
fu già d’Etna tessuta ala fornace,
solo per poter poi con quel ritegno
prender per l’aria Cloride fugace,
Cloride bella, che volando suole
precorrer l’alba alo spuntar del sole.
224
Scatenato il campion con la diletta,
l’una piangea de’ vergognosi inganni,
minacciò l’altro con crudel vendetta
di ristorar d’un tant’affronto i danni.
Sorsero alfin confusi e per la fretta
insieme si scambiar l’armi co’ panni:
questi il vago vesti, quelle l’amica,
Marte la gonna e Vener la lorica. –
225
Volea l’istoria del successo intero
Momo seguir, poiché fur colti in fallo,
e dir come di giovane guerriero
fu trasformato Alettrione in gallo,
che del duce di Tracia essendo usciero,
guernito d’armi e carco di metallo,
qual fida spia, qual sentinella accorta,
fu da lui posto a custodir la porta.
226
Ma perché ‘l sonno il vinse e non ben tenne
per guardarsi dal sol la mente desta,
tal qual trovossi apunto, augel divenne
con lo sprone al tallon, con l’elmo in testa.
I ricchi arnesi si mutaro in penne,
il superbo cimier cangiossi in cresta,
ed or, meglio vegghiando in altro manto
accusa il suo venir sempre col canto.
227
E questo ed altro ancor legger volea,
ma sdegnoso girò Venere il guardo
e per lanciarlo un nappo alzato avea
e ‘l colpia, s’a fuggire era più tardo.
– Sfacciato detrattor! (disse la dea)
così mi loda il tuo figliuol bugiardo?
Canti le proprie, e non l’altrui vergogne,
inventor di calunnie e di menzogne. –
228
Di ciò Mercurio, che con gli altri intorno
stavalo ad ascoltar, si rise molto,
e quando la mirò d’ira e di scorno,
più che foco soffiato, accesa in volto,
di quel selvaggio e rustico soggiorno
desviando l’amico entro il più folto,
il sottrasse al furor del’alta diva,
che ne fremea di rabbia e n’arrossiva.
229
Era quivi Talia fra l’altre ancelle,
per come Citerea nata da Giove,
che le Grazie e le Muse avea sorelle,
una dele tre dive e dele nove.
Più soave di lei tra queste o quelle
o la lingua o la mano altra non move;
Talia, ninfa de’ mirti e degli allori,
Talia, dotta a cantar teneri amori.
230
Costei d’avorio fin curvo stromento
recossi in braccio e, giunta innanzi a loro,
degli aurei tasti in suon dimesso e lento
tutto pria ricercò l’ordin sonoro,
indi con pieno, chiaro, alto concento
scoccò dolce canzon dal’arco d’oro,
e fur pungenti sì, ma non mortali
le note a chi l’udi, ferite e strali.
231
Saggia Talia, che ‘nsu ‘l fiorir degli anni
fosti de’ miei pensier la cura prima
e meco i molli e giovenili affanni,
non senza altrui piacer, cantasti in rima,
tu lo mio stile debile su i vanni
al ciel solleva, onde i tuoi detti esprima;
sveglia l’ingegno e con celeste aita
movi al canto le voci, al suon le dita.
232
– Amor è fiamma che dal primo e vero
foco deriva e ‘n gentil cor s’apprende
e, rischiarando il torbido pensiero,
altrui sovente il desir vago incende,
e scorge per drittissimo sentiero
l’anima al gran principio, ond’ella scende,
mostrandole quaggiù quella che pria
vide lassù bellezza e leggiadria.
233
Amor, desio di bel, virtù che spira
sol dolcezza, piacer, conforto e pace,
toglie al cieco Furor l’orgoglio e l’ira,
gli fa l’armi cader, gelar la face.
Il forte, il fier che ‘l quinto cerchio aggira
ale forze d’Amor vinto soggiace.
Unico autor d’ogni leggiadro effetto,
sommo ben, sommo bel, sommo diletto.
234
Ardon là nel beato alto soggiorno
ancor d’eterno amor l’eterne menti.
Son catene d’amor queste, che ‘ntorno
stringon sì forte il ciel, fasce lucenti.
E questi lumi che fan notte e giorno
son del lor fabro Amor faville ardenti.
Foco d’amor è quel ch’asciuga in cielo
ala gelida dea l’umido velo.
235
Ama la terra il cielo e ‘l bel sembiante
mostra ridente a lui che l’innamora,
e sol per farsi cara al caro amante
s adorna, il sen s’ingemma, il crin s’infiora;
i vapor dale viscere anelante,
quasi a lui sospirando, essala ognora.
I rauchi suoni, i crolli impetuosi
gemiti son d’amor, moti amorosi.
236
Né già l’amato cielo ama lei meno,
che con mill’occhi sempre la vagheggia;
a lei piagne piovoso, a lei sereno
ride, e sospira a lei quando lampeggia;
irrigator del suo fecondo seno,
in vicende d’amor seco gareggia
e fa ch’ella poi gravida germoglie
piante e fior, frutti e fronde, erbette e foglie.
237
Qual sì leggiero o sì veloce l’ale
spiega per l’ampio ciel vago augelletto,
cui del’alato arcier l’alato strale
e non giunga e non punga insieme il petto?
Qual pesce guizza in freddo stagno, o quale
cova de’ fiumi il cristallino letto,
cui non riscaldi amor, ch’entro per l’onde
vivi del suo bel foco i semi asconde?
238
Nel mar, nel mare istesso, ove da Teti
ebbe la bella madre umida cuna,
più che del pescator, d’amor le reti
han forza, e regna amor più che fortuna.
E perché da’ pittori e da’ poeti
ignudo è finto e senza spoglia alcuna,
senon perché sott’acqua a nuoto scende
e del suo foco i freddi numi accende?
239
Segue il suo maschio per le vie profonde
la smisurata e ruvida balena.
Va dietro ala sua femina per l’onde
ondeggiando il delfin con curva schiena.
Qui con lingua d’amor muta risponde
al’angue lusinghier l’aspra murena.
Là con nodi d’amor saldi e tenaci
porge una conca al’altra conca i baci.
240
Amano l’acque istesse: elle sen vanno
al fonte original, ch’a sé le ‘nvita,
e s’al bel corso, che lasciar non sanno,
è precisa la via, piana e spedita,
tal con forza amorosa impeto fanno
che s’apron rotti gli argini l’uscita.
In seno il mar l’accoglie e ‘n lor trasfonde
prodigamente il proprio nome e l’onde.
241
Ricetta il tortorel con la compagna,
bello essempio di fede, un ramo, un nido,
e se l’un poi vien men, l’altra si lagna
e fere il ciel di doloroso strido.
La colomba gentil non si scompagna
dal consorte giamai diletto e fido;
coppia in cui si mantien semplice e pura
l’innocenza d’amore e di natura.
242
Teme il cigno d’amor la face ardente
vie più che ‘l foco del’eterna sfera,
e più d’amor l’artiglio aspro e pungente,
che del’aquila rapida e guerrera.
L’aquila ancor, del fulmine possente
ministra e d’ogni augel reina altera,
noi teme meno, anzi d’altrui predace,
fatta preda d’amor, d’amor si sface.
243
Il fier leon con la leonza invitta
amor sol vince ed al suo giogo allaccia.
Più dal’aurato stral geme trafitta
l’orsa crudel che dalo spiedo in caccia.
Fa vezzi al tigre suo la tigre afflitta,
loqual co’ piè levati alto l’abbraccia.
Posa il destrier non trova e par che piene
sol del foco del core abbia le vene.
244
Spira accesa d’amor tosco amoroso
la vipera, peggior d’ogni altra biscia;
ella per allettar l’aspe orgoglioso
d’oro si veste e ‘ncontr’al sol si liscia;
corregli in grembo e lo scaldato sposo
seco insieme si stringe e seco striscia;
son baci i morsi, e sì gl’irrita amore
che di piacer l’un morde e l’altro more.
245
Dal suo monton non lunge, a piè d’un lauro,
mentr’ei pugna per lei, stassi l’agnella,
e per dargli al travaglio alcun restauro,
se riede vincitor, gli applaude anch’ella.
Arde il robusto e giovinetto tauro
per la giovenca sua vezzosa e bella,
e ne’ tronchi per lei l’armi ritorte
aguzza e sfida il fier rivale a morte.
246
Nonch’altro i tronchi istessi, i tronchi, i tralci
senton dolci d’amor nodi e ferite.
Chi può dir com’agli olmi e com’ai salci
l’edra sempre s’abbarbichi e la vite?
E chi non sa che, se con scuri o falci
da spietato boschier son disunite,
lagrimando d’amor così recise,
si lagnan dela man che l’ha divise?
247
Fronda in ramo non vive o ramo in pianta
cui non sia dato entro la ruvid’alma
sentir quella virtù feconda e santa
che con nodo reciproco le ‘ncalma.
Con sibili amorosi amor si vanta
far sospirare il frassino e la palma.
Baciansi i mirti, e con scambievol groppo
alno ad alno si sposa e pioppo a pioppo.
248
Ma qual sì dura o gelida si trova
cosa quaggiù che ferro agguagli o pietra?
la pietra e ‘l ferro ancor baciansi a prova,
né dal rozzo seguace ella s’arretra.
Da viva pietra, ov’altri il tratti e mova,
vive d’amor faville il ferro spetra,
e ‘l ferro istesso intenerito e molle
in fucina d’amor s’incende e bolle.
249
S’amor dunque sostegno è di natura,
s’amor è pace d’ogni nostra guerra,
s’ale forze d’amor forza non dura,
se le glorie d’amor meta non serra,
se la virtù del’amorosa arsura
in ciel regna, in abisso, in mare, in terra,
qual fia, che non adori, alma gentile
le catene d’amor, l’arco e ‘l focile? –
250
Mentre la Musa in stil leggiadro e grave
fea con maestra man guizzar le corde
e ne traea di melodia soave
al’armonico ciel tenor concorde,
su per gli eburnei bischeri la chiave
volgendo, per temprar nervo discorde,
un per caso ne ruppe e sì le spiacque
ch’appese il plettro a un ramoscello e tacque.
LA CORONA

ALLEGORIA

Nella descrizzione del tempio di Venere si ombreggiano diversi effetti d’amore. Nelle due porte principali, l’una d’oro fiorita, l’altra di ferro spinosa, si dimostra il suo incominciamento dilettevole col fine doloroso. Così nell’altre particolarità di esso tempio si discoprono parimente l’altre condizioni della sua natura. Nella elezzione d’Adone assunto al reame si allude all’antico costume de’ popoli persiani, iquali non solevano accettare re che di bella presenza non fusse, perché dai sembianti del corpo argomentavano le qualità dell’animo. Nella malizia di Barrino che rubando la corona ad Adone s’ingegna di preoccupargli il regno, si disegna il vero ritratto della fraude, la qual cerca di prevalere al merito, ma alla fine ne riesce con danno e con infamia. Nella insolenza di Luciferno, saettato ed ucciso da Cupidine per voler contravenire alla disposizione dell’oracolo, si manifesta quanto invano tenti l’umana audacia di resistere alla divina volontà, a cui opponendosi ne viene severamente punita. Nella difformità di Tricane Cinofalo, nano, zoppo e contrafatto, ilqual trasformato dagl’incanti di Falsirena, viene in apparenza di bello a concorrere con gli altri all’acquisto della corona, ma discoverto poi per opera di Venere, ne riceve vergogna e ludibrio, si figurano le brutture de’ vizi e de’ costumi bestiali, nascoste dalla ipocrisia sotto velo di bontà, le quali però non fanno che gli scelerati non vogliano talora ambire le dignità ed aspirare agli onori, ma conosciuti mercé del lume della verità per quelche sono, non solo le più volte ne rimangono esclusi, ma ne sono scherniti dal mondo.

ARGOMENTO

Di graziosi e nobili donzelli
concorre al paragon diverso stuolo,
ma, mercé dela diva, Adone è solo
essaltato alo scettro infra i più belli.

1
Bellezza è luce che dal sommo sole
discende a rischiarar carcer terreno
e’n vari raggi compartir si suole
e dove più lampeggia e dove meno.
Quant’hanno di leggiadro atti o parole
tutto è mercé del suo splendor sereno,
che conformi a quel bel ch’entro si copre
fa le sembianze esteriori e l’opre.
2
Gemma così che di natie fiammelle
sfavilla e di color vago s’inostra,
cela in sue tempre ancor lucide e belle
virtù corrispondente a quelche mostra.
Quantunque il sol, la luna e l’altre stelle
sien chiari oggetti dela vista nostra,
fanno agli occhi però visibil fede
d’altro lume maggior che non si vede.
3
La corporea beltà chiaro argomento
suol dar di non men bella alma gentile,
per cento indizi dinotando e cento
di nascondere in sé forma simile.
E quasi velo dilicato e lento
o qual cristallo limpido e sottile,
fa tralucer difuor gl’interni lumi
de’ signorili e candidi costumi.
4
E sicome le ricche e nobil arche
e le vasella d’alabastro e d’oro,
non di materia vil si tengon carche
ma di cose pregiate e di tesoro
e gemmati monili ed auree marche,
balsami ed ambre sol serbansi in loro,
così sotto bei membri e belle forme
chiuder non si suol mai spirto difforme.
5
E come i rozzi affumigati tetti
e le case selvagge ed impagliate
non son da regi per albergo eletti
avezzi ad abitar logge dorate,
ma son villani e rustici ricetti
di basse genti ignobilmente nate,
così nel nido d’una spoglia oscura
rade volte soggiorna anima pura.
6
Deh! qual si può fra gli ordini mortali
discordanza veder che men convegna,
che man regger talor verghe reali
d’aratro ancor nonché di scettro indegna?
Ed orribili arpie, sfingi infernali
coronar del diadema onde si regna
e sozze fere e contrafatti mostri
che si scopron poi tali a’ danni nostri?
7
Fu ben saggio consiglio e sano aviso
quando fu in Cipro il novo rege eletto
a non voler nel regio trono assiso
uom di laido sembiante e rozzo aspetto
ma chi per grazia e nobiltà di viso
a sé traesse il popolare affetto,
sicome già del’amorosa dea
l’oracolo immortal deciso avea.
8
L’editto intanto dela dea di Gnido
in ogni angolo estremo il mondo intese,
e poiché dela Fama il chiaro grido
divulgandol pertutto il fè palese,
mill’alme in questo e’n quel remoto lido
vano desio d’ambizione accese;
né dal contorno sol l’arabo e’l siro,
ma confin più riposti il suon n’udiro.
9
Le vicine contrade e le lontane
l’odon dal Tanai al Nil, dal Gange al Beti,
region, nazion non vi rimane
per quanto e scalda Apollo e bagna Teti.
Carchi di turbe già barbare e strane
batton le penne i volatori abeti.
Omai di Cipro è ricoverta e piena
di navi e padiglion l’onda e l’arena.
10
Può tutta in breve l’isola vedersi
ripopolata di straniere genti.
La mistura degli abiti diversi
e la confusion de’ vari accenti,
dai Mori i Traci e dagl’Iberi i Persi
mostran quanto i costumi han differenti.
Ingombran mille lingue e mille affetti
di voci l’aure e di pensieri i petti.
11
Mentre a questo concorso ondeggia il regno
e la corte ne va tutta sossopra,
chi nela propria tenda e chi su’l legno,
ciascun suo studio in abbellirsi adopra
e con vari argomenti usa l’ingegno
per far che l’arte ogni difetto copra
e la semplice forma di natura
con l’industria aiutar scaltro procura.
12
Come s’entrar talor cauto guerriero
deve a pugnar nela sbarrata piazza,
terge il fin elmo, impiuma il bel cimiero,
guarda se ben chiodata è la corazza,
prova lo scudo, visita il destriero,
l’astato ferro e la ferrata mazza,
la punta al brando aguzza, il taglio arrota
e le tempre del ferro osserva e nota,
13
così quivi d’Amor più d’un campione,
sfidato quasi a militar palestra,
pria che s’esponga al periglioso agone,
sestesso ai colpi essercitando addestra.
La Diligenza i gesti suoi compone,
la Baldanza il consiglia e l’ammaestra;
Beltà, ch’a tanta impresa il move e tira,
l’armi gli appresta ond’a vittoria aspira.
14
Chi nodi accresce al crin, colori al volto,
chi dà legge alo sguardo e moto al piede,
chi grazia aggiunge agli atti e’n sé raccolto
ogni lor parte essamina e rivede
e, del tutto librando il poco e’l molto,
ciò che manca corregge e ciò ch’eccede;
e quanto è d’uopo ad emendare il fallo
insegna altrui l’adulator cristallo.
15
O vanità mortal, gloria de’ folli,
che ti compiaci d’un sì fragil velo,
ond’è che tanto il cieco orgoglio estolli
neve al sol, piuma al vento e fiore al gelo?
Tu d’insana superbia ebri e satolli
scacciasti i più begli angeli dal cielo,
per te, nebbia del’alme oscura e ria,
la creatura il creatore oblia.
16
Poveri specchi, s’intelletto aveste,
voi che di tanto mal ministri siete,
chi pria vi fabricò maledireste
schivi omai di veder ciò che vedete.
Come il contagio, oimé, di quella peste
di cui talor l’impression prendete,
del vostro bel candor macchiato e tetro
non corrompe la luce e rompe il vetro?
17
Parlo a voi, di voi stessi innamorati
o novelli luciferi e narcisi,
tanto dal proprio amore effeminati
che non pur dele donne atti e sorrisi,
ma v’avete anco omai tutti usurpati
gli ornamenti degli abiti e de’ visi,
curando più che trattar spade o lance,
nutrir le chiome e coltivar le guance.
18
E parlo, o donne, a voi che tanta cura
ponete in stemprar gomme, in stillar acque
per cancellar la natural figura
ch’al’eterno pittor di formar piacque.
Vera beltà si lava in onda pura,
quella imagin ritien che seco nacque,
ogni liscio disprezza e’nculta e schietta
quanto s’adorna men, vie più diletta.
19
Ma ben di cotal opra assai sovente
come vostra è la fraude è vostro il danno,
poich’alfin quel velen forte e nocente,
rodendo la beltà, scopre l’inganno;
ond’alcun che per voi nel’alma sente
o forse sentiria pena ed affanno,
da tosco tal contaminate e guaste
non v’ha per belle e non vi tien per caste.
20
Pensate forse voi quest’arti industri
tener, deh! stolte, ad occhio accorto ascose?
Ben ciascun vede in quelle chiome illustri
qual sofistico il zolfo oro compose;
da qual giardino il volto ebbe i ligustri
e colse a prezzo le mentite rose;
e qual pennel d’adultero cinnabro
penò lung’ora a colorirvi il labro.
21
Tentan costor con artifici infinti
di tesser velo ale bellezze vere,
perché l’arbitrio altrui, così dipinti,
sperano a lor favor meglio ottenere.
Con queste cure ala gran prova accinti
van lusingando le speranze altere
e contan l’ore in aspettar di quella
sacra sollennità l’alba novella.
22
Ed ecco fuor dela stellata reggia
ne vien del sol l’ambasciadrice e figlia
e nel paterno specchio si vagheggia
tutta di minio oriental vermiglia.
Già dela Notte, mentre il dì lampeggia,
fugge la pigra e pallida famiglia;
dela Notte, che vinta dagli albori,
piagne e del pianto suo ridono i fiori.
23
Sorge nel mezzo ala real cittate
tempio cui non eresse Efeso eguale.
Ha di tersi diaspri edificate
le vaste soglie e le superbe scale.
Lastre di smalto e tegole dorate
vestono il tetto di ricchezza tale,
che vibra lampi e folgora splendori,
dela luce del sole imitatori.
24
V’ha due porte maestre; al’altrui piede
l’una l’entrata e l’altra apre l’uscita.
L’una di luci d’or, l’altra si vede
di ruginoso e vil ferro scolpita.
Quella la strada al peregrin concede
di rosa e rosmarin tutta fiorita.
Questa lappole e dumi intorno aduna
e di spine, d’ortiche il varco impruna.
25
Le vetriate di cristallo alpino
mostrano colorite ai rai celesti
d’indico azzurro e di vermiglio fino
de’ martiri d’amor le vite e i gesti.
Di cimitero in vece havvi un giardino,
non di cipressi tragici e funesti
ma di bei mirti in cui canta Talia,
né v’entra mai la flebile Elegia.
26
Le squille, il cui romor quivi rimbomba,
son cetre ed arpe e cennamelle e lire
con suon possente a trarre altrui di tomba
e sì dolce e piacevole ad udire,
ch’a qual guerrier più franco odiar la tromba
farebbe e depor l’armi e cader l’ire
e, lasciando di Marte i piacer scarsi,
del delubro d’Amor ministro farsi.
27
Il campanil, sublime e nobil opra,
forma un leggiadro ottangolo perfetto,
ed otto colonnette havvi di sopra
che di lazzulo son forbito e netto;
e fa ch’un gran turribulo ricopra
l’ultima cima ove finisce il tetto;
e gli otto spazi voti han d’alabastri
statue scolpite da famosi mastri.
28
I portici dintorno e l’atrio e’l coro
son colonnati al’uso di Corinto.
Dele colonne e d’ogni serie loro
l’ordine a fila a fila è ben distinto.
Di mischio il busto ed ha di bronzo e d’oro
ciascuna il piè calzato e’l capo cinto;
e le mura non men tutte composte
han di marmi finissimi le croste.
29
Pria che si giunga al principale altare,
di mirto un ramoscel con l’onda viva
d’un fonte pien di lagrimette amare
spruzza la fronte al passaggier ch’arriva.
Cento lumiere intorno ardenti e chiare
in aurei candelier sacre ala diva
e cento appese lampe in forma d’urne
fregian di luce e d’or l’ombre notturne.
30
Innanzi al’ara ove la bella imago
sta di Ciprigna, un tripode d’argento
le fiamme ond’arser già Troia e Cartago
nutrisce d’odorifero alimento;
e’n quell’ardor, che sempre vivo e vago
per volger di stagion non è mai spento
e di fumi soavi innebria il senso,
rosa è la mirra e gelsomin l’incenso.
31
Là dove illustre di materia e d’arte
gran lume il tabernacolo diffonde,
l’amorose reliquie in chiusa parte
santuario profano in seno asconde.
Di mute cere e di loquaci carte
ritratti vivi e lettere faconde,
nastri di seta e trecce di capelli
guanti odorati e preziosi anelli.
32
Ed havvi ongare stampe, indiche vene,
vezzi di perle e rose di diamanti,
auree cinte e maniglie, auree catene,
fidi refugi de’ devoti amanti.
Cose che soglion far nel’altrui pene
miracoli maggior che preghi e pianti
e più ch’antica o servitute o fede
impetrano in amor grazia e mercede.
33
Nel’eccelse pareti e’n queste e’n quelle
ricche cornici e di bei fregi ornate
mille votive imagini e tabelle
serban memoria del’altrui pietate;
cantan salmi d’amor donne e donzelle,
non già nascoste da gelose grate.
Guarda il Genio i lor chiostri e cura n’have
e Priapo ortolan ne tien la chiave.
34
Agli egri afflitti, ai poveri infelici
ch’accattan del gran tempio insu le porte,
donan le belle ninfe abitatrici
sguardi, risi, piacer di varia sorte.
Vestir ignudi, ristorar mendici,
affamati cibar vicini a morte,
albergar peregrini a tutte l’ore,
queste son le limosine d’amore.
35
A sì fatta magione il piè drizzaro,
giunto il dì stabilito, i giudicanti.
Memorabil giudicio e non men chiaro
di quel ch’Ida mirò molt’anni avanti;
senon ch’un pastorel non va di paro
con senatori e satrapi cotanti;
e fanno in parte differir l’essempio
tra duo sessi diversi il bosco e’l tempio.
36
Del gran palagio a lenti passi usciro
e con ordin distinto in fila doppia
la città circondando in largo giro
fer di sé lunga linea a coppia a coppia.
Crotali intanto e pifferi s’udiro,
già squilla il corno e già la tromba scoppia;
strider fan l’aure mattutine e fresche
barbare pive e buccine moresche.
37
Precedon nel’andar due volte sei
su ben bardati ed ottimi cavalli
leggiadri araldi ed altrettanti a piei,
con nacchere, busson, tibie e taballi.
Fregiati i pennoncelli han di trofei
gli strepitosi lor cavi metalli;
e, perché Citerea nacque da’ flutti,
è ceruleo il color che veston tutti.
38
Passan poi mille in bipartita lista
armati cavalieri insu gli arcioni,
tra’ quai la cima tutta è sparsa e mista
de’ primati del regno e de’ baroni.
Fan tra gli arnesi lor superba vista
stocchi aurati, aste aurate, aurati sproni,
ma dele sovravesti han la divisa
pur colorata ala primiera guisa.
39
Con l’istessa livrea succedon cento
valletti eletti e nobili donzelli.
Baccini in una man portan d’argento,
sanguinosi nel’altra hanno i coltelli.
Fuman tepidi i vasi ed havvi drento
diversi cori di svenati augelli,
sacrificio più bel che l’ecatombe,
passere e galli e tortore e colombe.
40
Due squadre indi accoppiate in ordin vanno
di cacciatrici e sagittarie arciere,
che sovra gonne di purpureo panno
veston di bianco lin cotte leggiere.
Han gli archi al tergo e le faretre ed hanno
di carboni dorati e paste ibere
nela candida man piena una coppa,
tutte snudate la sinistra poppa.
41
Poi da quattro leonze un carro tratto
mansuete e domestiche ne viene,
là dove un vaso assai capace e fatto
a guisa d’incensier le brage tiene.
Brage di sacro foco in cui disfatto
l’olocausto amoroso arder conviene.
E tanti son gli aromati ch’anela
che di nebbia d’odor l’aria si vela.
42
Dietro a questa quadriga, il fianco cinte
pur come l’altre di turcassi e frecce,
con braccia ignude e tuniche succinte
e con disciolte e’nghirlandate trecce,
l’una con l’altra a mano a mano avinte
verginelle selvagge e boscherecce
vengon danzando e’nsu le teste bionde
han panieri di frutti e fiori e fronde.
43
Movon dagli anni indebolito e lasso
con lunghissime stole a terra stese
l’antiche poi sacerdotesse il passo
e sostengono in man fiaccole accese;
e con un mormorio languido e basso,
tra lor note alternando apena intese,
in lode dela dea formano intanto
versi diversi e con diverso canto.
44
Dopo costoro, in abito vermiglio,
e son cento vecchioni, ecco il senato.
Perché dapoi che’l re senz’altro figlio
sodisfece a natura e cesse al fato,
tosto fu d’ordinar preso consiglio
in forma di republica lo stato.
Vengon togati di prolisse vesti
e’l giudicio supremo è dato a questi.
45
L’ultima cosa è la reale ombrella,
d’un riccio sorian tessuto a foglie.
Il venerando Astreo vien sotto quella,
d’aurea mitra pomposo e d’auree spoglie.
Così di Cipro il viceré s’appella,
in cui pari all’età senno s’accoglie.
Questi di doppio grado assai ben degno
regge il gran sacerdozio e insieme il regno.
46
La corona e lo scettro ha in man costui
ch’al re novello consegnar si deve;
ma però che la forza è scema in lui
e’l ricco peso oltremisura è greve,
di qua, di là da dui ministri e dui
ed appoggio ed aita egli riceve;
e d’altra gente a piè barbara e greca
gran turba popolar dietro si reca.
47
Di diamante angolar da dotta lima
fatto è lo scettro e più che’l regno vale.
Un pomo ha di rubino insu la cima
il manico è d’iaspe orientale.
Ma la corona che non trova stima
vedesi sfavillar di luce tale
ch’al mezzo di più chiaro e più sereno
la corona del sol fiammeggia meno.
48
In trenta merli di fin or massiccio
del bel diadema il cerchio è compartito;
per l’orlo esterior serpe un viticcio
di grosse perle e candide arricchito,
con cui commesso di lavor posticcio
fregio s’attorce d’altre gemme ordito;
e tra lor, quasi re, vie più che lampa
smisurato carbon nel mezzo avampa.
49
Avea l’oracol dela dea d’Adone
quando pronunziò l’alta risposta,
ordinato che’l dì dela tenzone
fuss’ella in mano ala sua statua posta,
siché’n prova devesse ala ragione
di ciascun gareggiante esser esposta,
perché di propria man la statua istessa
in testa al vincitor l’avrebbe messa.
50
Alpar d’Astreo, ma da man destra, in schiera,
come colei che fu del re germana,
viensene con piè grave e fronte altera
la superba del Nil donna sovrana.
Stassi in gran dubbio e pur nel regno spera,
ma contro il cielo ogni sua speme è vana.
Spera però, se novità succede,
di farsene giurar libera erede.
51
Del regio baldacchin da quattro canti
i quattro aurei baston portan per via
quattro i maggior prefetti e governanti
che’n quattro città prime han signoria.
Van Salamina e Famagosta avanti,
seguono Pafo appresso e Nicosia.
Dal numero commun sola Amatunta,
come capo e metropoli, è disgiunta.
52
Quinci e quindi fann’ala e d’ambo i fianchi
quasi custodi degli arnesi regi,
vanno non men de’ primi arditi e franchi
altri duo groppi di guerrieri egregi.
Bianchi usbergi, elmi bianchi e cimier bianchi,
staffe, barde, testiere e freni e fregi
ogni propria armatura, ogni ornamento
de’ lor destrieri han di brunito argento.
53
Con sì fatta ordinanza e’n questa guisa
poiché nel sacro albergo entrati furo,
tutta la bella serie in due divisa
s’aperse in mezzo e si ritrasse al muro.
E’l carro ove devea con l’ostia uccisa
arder lo’ncendio immacolato e puro,
col vaso che d’odori il tetto sparse,
innanzi al grand’altar venne a fermarse.
54
In capo al’ampie e spaziose navi
del nobil tempio ov’è tant’arte accolta,
sovra quattro pilieri immensi e gravi
la cappella maggior curva la volta;
e da quattro grand’archi e quattro travi
la sua mirabil cupula è suffolta,
aperta in cima, onde l’eccelsa mole
per un grand’occhio sol riceve il sole.
55
Sotto questa tribuna è l’altar grande
incortinato d’un trapunto estrano
e di crespo broccato intorno spande
a quattro volti un padiglion sovrano;
e vi si può salir da quattro bande
per dodici scalin d’avorio piano,
cinti di seggi e balaustri aurati
dov’han poscia a sedere i magistrati.
56
Quivi in trono eminente e di pomposo
barbaro drappo intapezzato ancora
siede d’oro forbito e prezioso
la statua dela dea ch’ivi s’adora;
ed ha quel pomo in man tanto famoso
ch’immortalmente i suoi trionfi onora;
tutta ignuda formolla il gran maestro,
senon quanto la cinge un vel cilestro.
57
Sì viva è quell’effigie e sì spirante
che quasi ador ador si move e parla,
né vi passa romeo né navigante
che non rimanga stupido a mirarla;
e tal mirolla che furtivo amante
entrò di notte a stringerla e baciarla
e del lascivo ardor sfogato in essa
lasciò la macchia insu’l bel fianco impressa.
58
Havvi sculto d’Amor non men vivace
il simulacro di sì fatta pietra,
che come suole acciar sasso rapace
ha virtù di tirar chi più s’arretra.
A piè gli ferve inestinguibil face,
dal’omero gli pende aurea faretra,
tien l’arco in una man, con l’altra il tira,
come ferir il cor voglia a chi mira.
59
Tosto che’l sacro carro ivi si pose,
schiera comparve d’auguri indovini
avezzi a presagir future cose,
cinti di bianche bende i bianchi crini.
Esplorando costor le fibre ascose
de’ palpitanti e tremuli intestini,
pronosticaro da quegli esti aperti
di vicina allegrezza indizi certi;
60
e’l fino specchio di diamante terso
che risplendea nel pettoral d’Astreo,
in cui sovente il popolo converso
ogni evento augurava o buono o reo
e qualor fosco o pur di sangue asperso
rendea’l color, secondo l’uso ebreo,
temea di morte o danno altro futuro,
videsi lampeggiar lucido e puro.
61
Or per l’eburnea scala immantenente
presso al’idolo Astreo poggiato solo,
piegò con umil atto e reverente
la fronte al petto e le ginocchia al suolo;
e mentre chino ancor del’altra gente
nel piano inferior fremea lo stuolo,
dela ricca tiara i sacri arredi
tolse ala chioma e sela pose a piedi.
62
Sovra l’ultimo grado inginocchiossi
e vi fè varie offerte a suon d’araldi,
de’ coralli purpurei i rami grossi
con copia di berilli e di smeraldi,
de’ papaveri molli i capi rossi,
cose che fan d’amor gli animi caldi,
pose su l’ara e poi tra mille odori
diede ale fiamme gli sbranati cori.
63
Offerto alfine e consumato il dono
cessò l’alto bisbiglio e’l popol tacque
e, fatto pausa in un momento al suono,
improviso silenzio entro vi nacque.
Allora i lumi sollevando al trono
gli affisò nela dea, parto del’acque,
e congiunte le palme il sacerdote
la prese a supplicar con queste note:
64
– Luce del terzo ciel, pietosa diva,
d’ogni esser, d’ogni ben fonte fecondo,
vivo e vital principio onde deriva
quant’ha di bel, quant’ha di dolce il mondo,
che dela tua virtù generativa
empi l’aria, la terra e’l mar profondo,
anime e corpi, misti ed elementi,
linea immortal de’ secoli correnti,
65
tu che le cose, o venerabil madre,
dela necessità tutte mantieni
e le celesti e le terrestri squadre
non pur lassù, quaggiù stringi ed affreni,
ma con leggi d’amor, care e leggiadre,
stromento di concordia, le’ncateni,
Afrodisia, Amatusia e Citerea,
reina de’ piacer, Filomidea,
66
deh! questi fiori e questi odori e questi
sacrifici devoti in grado or togli
e l’antica corona, accioché resti
oggi al più degno, in propria mano accogli.
Tu la dona a colui che promettesti,
tu de’ nostri pensieri il dubbio sciogli,
scoprine tu d’un numero infinito,
per nostro meglio, il più da te gradito.
67
Città senza signor, senza governo,
cade qual mole suol senza sostegno.
Piacciati dunque o con alcun superno
segno mostrarne a cui si deggia il regno
o col bel lume del tuo foco eterno
illustrar tanto il nostro oscuro ingegno,
ch’elegger sappia almen suggetto in cui
sia la tua gloria e la salute altrui. –
68
Tacque e’l diadema lucido e pesante
ala madre assegnò del cieco dio
e da mille stromenti in un instante
il bel concerto replicar s’udio.
Mentre fornian le cerimonie sante
e de’ riti sollenni il culto pio,
stando tutti a mirar la statua bella
publica meraviglia apparve in quella.
69
Viderle scritte a piè, da tutti intese
lettre che contenean questo concetto:
«Chi mi torrà di mano il ricco arnese
per decreto fatal fia rege eletto».
Nuovo stupore i riguardanti prese
quando quel breve fu veduto e letto.
Alza ognun gli occhi e i gridi ala corona,
trema il tempio al romor, l’aria risona.
70
L’uno a gara del’altro allor primiero
volea por mano ala sublime impresa,
onde tra quei che pretendean l’impero
a nascer cominciò lite e contesa.
Astreo ch’al ben commune avea’l pensiero,
veggendo in lor tanta discordia accesa,
si fece avante e con sì fatti accenti
i bisbigli acquetò di quelle genti:
71
– Molto del vostro ardir mi meraviglio,
o voi che’nvan v’affaticate tanto,
osando andar contro il divin consiglio
manifestato in questo giorno santo.
Render a Citerea grazie ed al figlio
devreste, alzando al cielo il core e’l canto,
che degnati si son visibilmente
un miracol mostrar tanto evidente.
72
E voi col ciel cozzate e presumete
di contraporvi ala reina nostra,
conturbando la publica quiete
quando sì chiaro il suo voler si mostra.
Ch’abbia nulla a valer qui non credete
o la possanza o la superbia vostra,
nobiltà, signoria, grandezza o stato,
senon vi chiama a questo scettro il fato.
73
Non è scrutinio questo, alti baroni,
in cui possa giovar fraude o prudenza,
che con pratiche varie e fazzioni
cerchi di superar la concorrenza
o tenti altrui di suburnar con doni
per ottener le voci a compiacenza,
perché i giudici degli dei sovrani
assai diversi son da’ nostri umani.
74
Colui che deve agli altri esser preferto
determinato è già lassù ne’ cieli
e’l modo del conoscerlo n’è aperto,
quantunque il nome ancor non si riveli.
Abbiano per destin costante e certo
questa sentenza in somma i suoi fedeli,
ch’altri non sarà re senon quel solo
che dala dea fu scelto e dal figliuolo.
75
E bench’ognun con impeto si mova
per venir quantoprima al gran paraggio,
non avrete però poi nela prova,
s’ella non vel concede, alcun vantaggio.
E se quelche cerchiam non si ritrova
o non l’ha ancor prodotto uman legnaggio,
vostro malgrado ancora uopo vi fia
fin a tanto aspettar che nato ei sia.
76
Sarà dunque il miglior che si sopisca
la controversia omai che vi trattiene
e che ciascuno al ciel pronto ubbidisca,
ché sa meglio di voi ciò che conviene. –
Qui fa punto al parlar, né v’ha chi ardisca
d’opporsi a quel ch’ei consigliò sì bene.
Allora seco insu l’aurato scanno
cento barbe canute a seder vanno.
77
La bassa plebe dale guardie esclusa
nela gran piazza le novelle attende;
e d’ogni moto altrui, com’è sempr’usa,
intenta aprova e curiosa pende;
e ne’ suoi voti garrula e confusa
con discorde parer tra sé contende,
che’n ogni affar sentenziando il vero
vuol quasi sempre il vulgo esser primiero.
78
Fu Cupidoro, principe d’Epiro,
il primo a comparir de’ pretendenti.
Erano gli occhi d’un gentil zaffiro
sovra cui si sporgean ciglia ridenti;
eran le labra del color di Tiro
sotto cui si chiudean perle lucenti;
avea sguardo benigno, andar superbo,
fanciul maturo e giovinetto acerbo.
79
Nela fronte purissima biancheggia
senza rossore alcun semplice latte,
ma nele guance ove’l candor rosseggia,
con la neve la grana inun combatte;
e la mistura è tal che si pareggia,
quasi d’avorio e porpora sien fatte;
ma con due d’or in or picciole fosse
suole un riso gentil farle più rosse.
80
Ondeggia il Tago insu la bionda testa,
il crin piove diffuso in ricca massa
e del bel tergo a quella parte e questa
in più ricci pendente andar si lassa.
Ceruleo è il manto e la leggiadra vesta
che dela coscia il termine non passa
e d’un lubrico raso i cui reflessi
somiglian nel color gli occhi suoi stessi.
81
Un cappel serican ch’erge la piega,
tinto di puro oltramarino il pelo,
gli ombra la fronte e per traverso spiega
piuma pur di color simile al cielo;
e’nsu la falda la conficca e lega
con grossa punta del più fino gelo
di quella gemma un lucido fermaglio,
laqual del sangue sol cede al’intaglio.
82
L’animato del piè molle alabastro,
ch’oscura il latte del sentier celeste,
stretto ala gamba con purpureo nastro
di cuoio azzurro un borsacchin gli veste,
in cui da saggia man di nobil mastro
fur di vario lavor gemme conteste,
e’n massicci rilievi effigiate,
di fibbie ad uso, imaginette aurate.
83
Tanti non ha l’ambizioso augello
nele penne rosate occhi dintorno
quando quasi un aprile o un ciel novello,
di cento fior, di cento stelle adorno,
del’ampia rota sua superbo e bello
apre il ricco teatro al novo giorno
e’l tesor vagheggiando ond’ella è piena
a semedesmo è spettatore e scena,
84
quanti pien di vaghezza e di baldanza
il garzonetto intorno a sé n’accolse,
loqual mentre al’altar, che la sembianza
tenea di Vener bella, il piè rivolse
di tutta quella nobile adunanza
usurpando le viste, i cor si tolse
e tutti abbarbagliò di meraviglia
co’ lampi dele gemme e dele ciglia.
85
Del’Invidia però l’occhio cerviero
che’n spiar l’altrui mende è lince ed argo,
di quello spazio investigando il vero
ch’al bel fonte del riso è sponda e margo,
pur venne ad osservar che quel sentiero
che divide le labra è troppo largo,
e che’n somma la bocca, ov’entro è messo
il tesoro d’amor, pecca in eccesso.
86
Uccubo a cui decrepita l’etate
quasi col mento avea congiunto il naso
e sì le fauci rotte e sfabricate
che con tre denti soli era rimaso
e le tempie e le ciglia avea pelate
e calvo il capo e crespo il volto e raso,
vacillante di polso e d’intelletto
trovò questa calunnia al giovinetto.
87
Egli per l’ampia scala il passo spinse
finché pur di Ciprigna a piè ne venne.
Tentò le preci, usò le forze e strinse
la bramata mercé, ma non l’ottenne,
perché quando a levarle egli s’accinse
la corona di man, stretta la tenne,
tanto che’n dietro alfin con occhi bassi
girò confuso e taciturno i passi.
88
Tal cervo a cui talor tronca o caduta
la selva sia dele ramose corna,
vergognosetto in solitaria e muta
valle s’appiatta e’n tana erma soggiorna.
Tal pavon che per caso abbia perduta
la gemmata corona onde s’adorna,
fuggendo il sole e disamando il lume
piagne la povertà dele sue piume.
89
Succede il campo a passeggiar Lucindo,
che di Bitinia i popoli governa.
Canti tanta beltà cigno di Pindo
o piova Apollo in me vena superna.
Non vide mai dal mauritano al’indo
più morbido candor la lampa eterna.
Ben opimo di polpe il corpo estolle,
cresciuto anzi stagion tenero e molle.
90
Spuntan nel piano ove’l bel volto ha meta,
d’una fronte serena i puri albori.
Seguono ingiuriosi al gran pianeta
di duo bei soli i mobili splendori,
nela cui luce amorosetta e lieta
nutre un verde smeraldo umidi ardori.
Rosse le chiome ha più che sangue o foco
e son le ciglia sue d’oro e di croco.
91
Quelche più si rileva in mezzo al viso,
si curva sì, ma nel curvarsi è parco
e de’ duo fini estremi ond’è diviso,
l’un si risolve in punta e l’altro in arco.
Serra e disserra il labro al dolce riso
di finissimo cocco un picciol varco,
là dove chiude Amor, rare a vederle,
tra due sponde di rose un mar di perle.
92
Bianco damasco di diamanti asperso,
lungo al tallone, ala cintura angusto,
ch’ha d’armellini candidi il riverso
e scorciato il collar gli copre il busto
e scopre ignuda del bel collo terso
la neve ond’anco il gel fora combusto;
del medesmo è il cosciale e’l guernimento,
un passaman di martellato argento.
93
Berretta ha di fin or cerchiata in testa
d’un terzopel che parimente è bianco
ed havvi sù d’un’aghiron la cresta
che le’mpenna la rosa al’orlo manco.
Collana, di rubin tutta contesta,
gli orna la gola e simil cinta il fianco.
Scarpe ha nel piè d’innargentate squame
cui fan boccole d’oro aureo serrame.
94
Rimirato, ammirato, e sen’accorge,
espon sestesso a publica censura,
né la stella d’Amor quando risorge
insu i principi dela notte oscura,
tanto di luce al’emisperio porge
quant’ei n’apporta intorno a quelle mura;
e nel primo apparir parve l’aurora
che co’ raggi del sol spuntasse allora.
95
Egli è ben vero, e solamente è questo
quanto appor d’imperfetto altri gli pote,
che fan con poche macchie ingiuria al resto
spruzzate di lentigini le gote.
Fu forse opra d’Amor, ch’accinto e presto
a temprar le saette insu la cote,
mentre l’oro affinava ale faville
gliene sparse insu’l volto alquante stille.
96
Mauriffo allor, sindicatore accorto,
ogni altra parte a specolare intento,
alo sguardo accostò debile e corto
d’un suo limpido occhial l’asta d’argento
e’n lui languir, quasi senz’alma, ha scorto
Beltà, perché di grazia ha mancamento.
– Che val guancia (dicea) vermiglia e bianca,
se venustà, se leggiadria le manca?
97
Quest’è quel non so che tanto attrattivo
ch’alletta gli occhi e che contenta il core,
raggio puro di Dio, spirito vivo,
sale ond’i cibi suoi condisce Amore.
In costui non lo scorgo e s’ei n’è privo
indarno aspira al trionfale onore.
Stiamo dunque a veder se la dea nostra
conforme al mio parer l’effetto mostra. –
98
In questo mezzo inver l’altar s’invia
e giunto il bel garzon viene ala prova;
ma’l pregio a riportar ch’egli desia
qualunque sforzo suo poco gli giova,
perché, come con chiodi affissa sia,
la guardata corona immobil trova;
onde colmo di duol, tinto di scorno,
fa come in alto ascese, ingiù ritorno.
99
Entra terzo in arringo il bel Clorillo,
Clorillo il bel, che’nsu’l mattin degli anni
d’entrambo i genitor orbo pupillo
soffri per morte intempestivi affanni.
Onde, poich’al dominio il ciel sortillo
che tenner di Cirene i gran tiranni,
stende lo scettro suo per quanto dura
il tratto dela libica pianura.
100
I cadaveri in mummie ivi risolve
la mobil sempre e tempestosa arena.
Flutti di sabbia e turbini di polve
con oscura procella africo mena;
e chi s’arrischia a tragittarla involve
tra’ globi ognor dela volubil piena:
stranio naufragio, onde sommerso uom pare
nocchiero in terra e peregrino in mare.
101
Ma che non pote avidità d’impero?
Ecco pur tenta in Cipro altre fortune.
Non è bianco il bel viso e non è nero,
nere le ciglia e le pupille ha brune.
Due stellette smorzate e due nel vero
volge la fronte innecclissate lune,
di cui però, con vostra pace o stelle,
non ha l’ottavo ciel luci più belle.
102
Brunetta anco la chioma il tergo inonda,
un teschio di leon gli fa celata.
Graziosa la bocca e rubiconda
né si restringe assai né si dilata.
Mostra affabile aspetto, aria gioconda,
la statura è mezzana e dilicata;
siché ciascun di quella gente e questa
stupido insieme e cupido ne resta.
103
Lucente arnese i vaghi membri ammanta
di sciamito argentino, il cui lavoro
abbordata la vesta ha tuttaquanta
di girasoli rilevati d’oro;
ed è sazia di gemme in coppia tanta
e sì chiaro splendore esce di loro,
che potrebbe abbagliar la vista altrui,
senon vi fusse quel degli occhi sui.
104
Più bello in terra o più gentil composto
a morte non potea nascer soggetto;
e certo alcun che’l rimirò di scosto,
giudicollo celeste al primo aspetto.
Ma quando poi s’avicinò, fu tosto
conosciuto mortale in un difetto;
un sol difetto in lui trovato brutto
fè tant’altre eccellenze oscure intutto.
105
– Io non mi voglio già (dicea Senorre,
un critico sottil, del vero amico,
cui con gemina riga al petto scorre
in duo fiumi d’argento il pelo antico),
già non mi voglio al’altre parti opporre
ma dela man, sol dela mano io dico,
ch’oltre, ch’ella non è latte né neve,
fuor del giusto decoro è grossa e breve.
106
Tra quante doti in sé Natura unisce
non possiede la man gli ultimi onori,
poiché non pur col proprio bel rapisce,
ma fa l’altre bellezze anco maggiori.
Questa, qual vaga artefice, abbellisce
il volto e’l sen di porpore e di fiori
e porgendo ostro al labro, oro al capello,
è sua mercé quant’ha beltà di bello.
107
Perdonimmi begli occhi e biondi crini,
scusino l’ardir mio labra odorate:
benché sien fresche rose e sien rubini,
benché sien fiamme ardenti e fila aurate,
dela mano ai candori alabastrini
io vo’ la palma dar d’ogni beltate.
Cedan gli ostri ale perle e ceda il loco
l’oro al’avorio ed ala neve il foco.
108
Ancorché belle e ciglia e chiome e bocca,
non son, com’è la man, pegni di fede.
Quelle si miran sol, questa si tocca
e può felicitar chi la possiede.
Da quelle amor le sue saette scocca,
questa sana le piaghe ond’egli fiede.
Quelle per arder l’alma accendon l’esca,
questa gl’incendi suoi tempra e rinfresca. –
109
Tacque con questo dir, né fur parole,
come il fatto mostrò, fallaci o false,
perché, sebene in cima al’alta mole
di scaglione in scaglion Clorillo salse,
a lei però che colassù si cole
la corona di man sveller non valse;
siché tornato onde partì pur dianzi,
un altro emulo suo si trasse innanzi.
110
Rodaspe, in Meroe nato, in quella vece
volse, quantunque invan, tentar la sorte.
Publicò sue fattezze e mostra fece
di pelle arsiccia e brevi chiome attorte.
Vincon col fosco loro ebeno e pece
nari aperte e schiacciate e labra sporte;
ed è de’ lumi suoi l’orbe visivo
nero più del’inchiostro onde il descrivo.
111
Ferve in guisa colà l’estiva arsura
che quasi incarbonir gli uomini pote;
onde porta ciascun di notte oscura
dal diurno splendor tinte le gote;
e’l sol vicino a terra oltremisura
gira sì basso le lucenti rote,
che poco men che con le mani istesse
si potrebbe toccar senon cocesse.
112
Scopre il candido dente adora adora
d’una schietta granata il labro tinto.
Forato è l’orlo e pendon dale fora
cerchietti d’or di bei zaffir distinto.
Così le parti ond’ode ed onde odora
reggon pendenti d’indico giacinto
e lunghe filze d’unioni elette,
ricchi tributi d’isole soggette.
113
Un frontal d’etiopico ametisto
l’adusta fronte illuminando inaura,
siché d’oro e di foco un lampo misto
quando intorno si volge, aventa al’aura
e di qualunque cor languido e tristo
la mestizia rallegra, il duol restaura;
gemma più ch’altra fulgida e serena
che quasi occhio di vergine balena.
114
D’un farsetto leggier, qual si costuma
tra’ satrapi indiani egli è vestito.
Di lana no, ma di minuta piuma
di strani augelli a lista a lista ordito,
tutto squamoso di dorata spuma
e di mille color tutto fiorito.
Lieve tocca cangiante in mezzo il cinge,
che con groppo leggiadro il lega e stringe.
115
Un de’ padri coscritti era Gelardo,
già duce in guerra, or consigliero in pace.
Par questi in vista uom sonnacchioso e tardo
e tra cupi pensier immerso tace,
ma, sotto pigra fronte e lento sguardo,
vigila ingegno arguto e cor vivace.
Spesso grave sembiante e basso ciglio
cela pronto discorso, alto consiglio.
116
Mostrò costui con ottima ragione
ch’Amor molto non ama oscura scorza,
peroché’n spento e gelido carbone
senz’alcun lume il foco suo s’ammorza.
Il piacer ch’ad amar n’è sferza e sprone
da color differenti acquista forza.
Natura sol per variar s’apprezza,
da tal varietà nasce bellezza.
117
Aggiungi poi che raccorciato insuso
quelche fa duo spiragli al’odorato,
troppo curvo e ritorto e troppo ottuso
spalanca troppo il gemino meato.
Così con due repulse alfine escluso
dala diva in un punto e dal senato,
tutto avampando di sdegnoso foco
partesi e cede a Ligurino il loco.
118
E Ligurino al paragon comparse,
lavor ben degno del’eterna mano.
Non so s’apar di quel possa trovarse
ben tagliato e disposto un corpo umano.
Venne però che’l cor d’invidia gli arse
l’altero stato del maggior germano.
Germano era minor del re Licaba
ch’avea sotto il suo scettro Arabia e Saba.
119
Sì vivo un dolce da’ bei lumi spira
che forza ha in sé di foco e di saetta
e con tanta virtù rapisce e tira
che ferendo ed ardendo anco diletta.
Sparsa di bella cenere si mira
scolorita la guancia e pallidetta,
pallida sì, ma quel pallore è tale
ch’è pallore amoroso e non mortale.
120
Langue nel labro dolcemente onesto
una fresca viola alquanto smorta.
Gravi ha gli atti e composti e nel modesto
sembiante signoril la grazia porta,
e, dove giri con furtivo gesto
l’occhio predace una rivolta accorta,
d’ogni rubello a forza ottien la palma:
senon gli doni il cor, ti ruba l’alma.
121
Né stringe in nastro il crin, né in benda appiatta,
ma pettinato insu le spalle il versa,
di quel biondor ch’ha la castagna tratta
del suo guscio spinoso o l’ambra tersa.
Con sottil arte e magisterio fatta,
l’addobba e’nfino al piè gli si attraversa
frappata una giornea, che copre e cela
sotto nero velluto argentea tela.
122
Sovra l’omero stretta e larga in punta
l’una manica e l’altra ingiù trabocca
e si dilata si che quando è giunta
su i confin dela man, la terra tocca.
Dala manica manca il braccio spunta
per lo taglio maggior che le fa bocca
e del ricco giubbon scopre la trama
ch’è di semplice argento in pura lama.
123
Non così bella alo sparir del giorno
dopo pioggia talor la dea di Delo
l’innargentato e luminoso corno
trasse giamai tra nube e nube in cielo,
come, tutto illustrando il tempio intorno,
del’aria aperse co’ begli occhi il velo
il real damigello, il cui bel viso
fea visibile in terra il paradiso.
124
Fè segno Citerea, sì tosto come
dela scalea fu su la cima sceso,
volergli circondar le belle chiome
del’onorato e desiato peso,
e funne insieme col famoso nome
gran rimbombo d’applauso intorno inteso;
ma poich’esser deluso alfin s’accorse,
senza replica indietro il piè ritorse.
125
La centuria degli arbitri che quivi
i concorrenti a giudicar s’aduna,
onde tal disfavore in lui derivi
le ragion ricercando ad una ad una,
altra imperfezzion trovar che’l privi
dela spoglia real, non sa fuorch’una:
un picciol neo che’nsu la destra gota
sparge tre nere fila in lui sol nota.
126
Somiglia in puro latte immonda mosca,
anzi vago arboscello in prato ameno;
e quantunque non sia chi non conosca
ch’egli non n’è per questo amabil meno,
poiché su’l bel candor quell’ombra fosca
è qual lucida stella in ciel sereno;
ch’ella è macchia però convien ch’accetti
ch’ancorché belle sien, son pur difetti.
127
Segue Timbrio di Smirna, infra i primieri
garzon lodato e d’ogni onor ben degno,
a molcir l’aure insu i teatri alteri
con la cetra bicorne unico ingegno.
Altri non sia di lui che meglio speri
i registri toccar del curvo legno;
tempra al musico suon versi canori
e sciogliendo gli accenti annoda i cori.
128
In virtù di sua voce ei si dà vanto,
celeste cigno, angelica sirena,
trar dale selci intenerite il pianto,
mitigar del’inferno ogni aspra pena.
La melodia di quel mirabil canto
le fere arresta, anzi le sfere affrena.
Pongon le dolci corde ai fiumi il morso,
danno le dolci note ai monti il corso.
129
Al’arguto stromento, al vago volto,
ala zazzera istessa ei sembra Apollo.
Né tutto errante il crin né tutto accolto,
quinci pende ala fronte e quindi al collo.
Quelche dopo l’orecchie iva disciolto,
sparse allor egli ad arte e dilatollo;
del’altro, il terso e sottilissim’auro
tenero implica un ramoscel di lauro.
130
E del color dele medesme foglie
s’affibbia intorno un’assettata cotta,
laqual nel mezzo in spesse crespe accoglie,
tutta in fodera d’or trinciata e rotta.
E tutti i trinci dele belle spoglie
congiunti son per man leggiadra e dotta
con branchigli di smalto ed auree stampe
che figuran di grifi artigli e zampe.
131
Il globo interior dela pupilla
ne’ suoi lumi vivaci è tutto negro,
ma nel più largo circolo sfavilla
dolce color d’un fior di lino allegro.
Esce de’ raggi lor luce tranquilla
da sanar ogni cor languido ed egro;
fuga ogni nebbia ed ogni lume adombra
e rende oscuro il sole e chiara l’ombra.
132
Dal curvo dele ciglia arco supremo
tra guancia e guancia un bel profil si stende,
a poco a poco assottigliato e scemo
da linea sì gentil che non offende;
alto alquanto al principio e’nver l’estremo
tanto s’aguzza più, quanto più scende;
dela cui base il termine più basso
in due conche divide egual compasso,
133
e la contesa dele due vicine,
emule di beltà, gote diparte,
limitando ala porpora il confine
che colorisce questa e quella parte.
Rose sì vive e fresche e purpurine
in quel viso amoroso Amor ha sparte,
che non so se la guancia ha più fiorita
la bella dea dale rosate dita.
134
Cotanto in lui di maestà riluce
mentre drizza le piante al bel trofeo,
che se da lor la nobiltà traluce
non mostra in alcun atto esser plebeo,
anzi ne’ gesti suoi l’antica luce
chiara scorger si può del sangue acheo,
ma sì fatti splendori in parte imbruna
oscuro stato e povera fortuna.
135
Oltre costui sen venne e si fè presso
ala tutrice de’ fedeli amanti,
non però punto meglio avenne ad esso
di quelch’agli altri er’avenuto avanti
e ben a comprovar questo successo
fu concorde il parer de’ circostanti,
che fra tante bellezze in lui notaro
l’ordin solo de’ denti oscuro e raro.
136
E Serion, tra que’ vecchioni assiso,
pallido, inculto e qual Catone austero,
dal piede al capo essaminandol fiso,
del mal, del bene esplorator severo,
il primo fu che s’accorgesse al riso
ch’ogni suo dente era ineguale e nero,
perché vide il garzon che quella parte
quando ridea talor copriva ad arte.
137
Se per opra di carmi e per sonoro
metro spiegato da felice stile
si potesse ottener corona d’oro,
già tuo fora l’onor, Timbrio gentile.
Soffrilo in pace e del’usato alloro
contentati intrecciar la chioma umile,
che chi l’anime altrui regge col plettro
non deve dominar con altro scettro.
138
Passa a provarsi il baldanzoso Evasto,
del Libano signore e del’Oronte,
e l’alterigia onde va gonfio e’l fasto
s’avanza al par del suo superbo monte.
Viene arrogante al giovenil contrasto
con le ciglie ballando e con la fronte;
di breve corpo e picciola statura:
ma l’audacia è maggior d’ogni misura.
139
Pretende questi che da’ sommi giri
per quanto scorre e quanto scorge intorno
dal’ariete a’ pesci altro non miri
somigliante beltà l’occhio del giorno.
E perché pien di tumidi desiri
per tante doti ond’è più ch’altri adorno
l’orgoglio agguaglia ala sembianza bella,
il Narciso di Siria ognun l’appella.
140
Di più color che l’iride non mostra,
gli occhi ha dipinti e tutto nero il ciglio.
La guancia, com’al sol pomo s’inostra,
dolcemente gl’incarna un bel vermiglio,
onde di leggiadria litiga e giostra
con la rosa purpurea il bianco giglio;
e sovra lor con lascivetta sferza
in cento brilli il biondo crin gli scherza.
141
Filato d’oro sì lucente e bello
del bel mento la cima un fiocco impela,
e del labro sovran, simile a quello,
un riccamo sì fin l’ostro gli vela
che par proprio di Colco il ricco vello,
né tale il Tago entro i suoi fondi il cela.
Per guardia forse di sue vive rose
queste produsse amor siepi spinose.
142
Intero un zibellin di color fosco
e cuffia in capo e morion gli scusa,
di cui più fin giamai Tartaro o Mosco
per le sue balze di tracciar non usa.
Di paradisi per pennacchio un bosco
gemma v’aflige in or legata e chiusa,
rara fra quante al sol la terra n’apra,
gemma che rassomiglia occhio di capra.
143
Veste due volte insanguinato e tinto
del licor dela murice africana,
e con aurei cordon da’ fianchi avinto,
un guarnel di sottile e molle lana;
bottonato nel petto, in mezzo cinto
d’una cintura a meraviglia estrana,
che di spoglia di vipera è costrutta
e di gran perle incoronata tutta.
144
Quattro vaghi scudier gli alzan di dietro
dela lunga faldiglia il lembo sciolto;
ed altri duo d’adamantino vetro
gli sostengono un specchio innanzi al volto.
Non guarda intorno e non si volge indietro,
dele proprie bellezze amante stolto,
perché fuorché’n sestesso, il giovinetto
sdegna occupar la vista in altro oggetto.
145
Ma Melidonio, che dagli anni il fianco
rotto, sedea tra la discreta schiera
e nel cui corpo estenuato e stanco
dela mente il vigor fiacco non era,
ma sotto pelle crespa e capel bianco
nutria di senno integrità sincera,
piantatosi allor dritto insu la vita
dela rugosa mano alzò due dita.
146
– Due son l’eccezzion (disse) ch’io veggio,
per cui non molto ha questi onde presuma:
la prima è quella che lodar non deggio,
quantunque intempestiva, ispida piuma,
perché là dove ha primavera il seggio
è quasi tra bei fiori orrida bruma,
per cui qualor s’accosta e si congiunge
bocca a bocca baciando, il bacio punge.
147
Gli manca poi quelche vie più s’apprezza:
l’unità che conviensi a leggiadria.
E chi non sa ch’altro non è bellezza
se non proporzione e simmetria?
Or in tanta superbia ed alterezza
dov’è questa visibile armonia?
Certo che mal rispondano mi sembra
a sì alti pensier sì corte membra.
148
Come da varie suol voci concordi
la musica al’udir farsi soave
quando avien che si tempri e che s’accordi
col duro il molle e con l’acuto il grave;
così, se membra un corpo ha in sé discordi
la composizion grazia non have;
dele parti col tutto armonizzate
risulta consonanza ala beltate. –
149
Così ragiona e su’l gran soglio intanto
salita è già quella beltà superba;
ma vede alfin che la vittoria e’l vanto
dela bella aventura altrui si serba,
onde il tergo volgendo al nume santo,
sì l’ira il vince e l’aspra doglia acerba
che squarcia i fregi d’or, lo specchio frange
e di rabbia e di duol sospira e piange.
150
Vien Luciferno il fier dopo costui,
così di Scizia un saracin si noma.
Il Saca e’l Battrian soggiace a lui,
il Margo ha vinto e la Sarmazia ha doma;
e la gloria rapir presume altrui
per irta barba e per irsuta chioma.
Mostra ruvide membra, ossa robuste,
lungo capo, ampie nari e tempie anguste.
151
L’occhio pien di terrore e di bravura
infra nero e verdiccio, altrui spaventa
e con torvo balen di luce oscura
la fierezza e’l furor vi rappresenta.
Portamento ha superbo e guatatura
sì feroce ed atroce e violenta,
che rassembra aquilon qualor più freme
e col torbido Egeo combatte insieme.
152
Su la giuba che tinta ha di morato,
rete si stende d’or sottile e ricca,
e con puntali pur d’oro smaltato
gli angoli dele maglie insieme appicca;
porta sotto l’ascella il manto alzato,
il manto che dal’omero si spicca
e’l lembo che dal braccio a terra cade,
con lunga striscia il pavimento rade.
153
Di lavoro azimin la scimitarra
larga, breve e ricurva appende al’anca;
dietro ha il carcasso e per traverso sbarra
l’arco serpente insu la spalla manca.
In forma di piramide bizzarra
un globo intorno al crin di tela bianca
erge, com’è de’ barbari costume,
d’aviluppate fasce alto volume.
154
Con la test’alta e con le nari rosse,
con furibonda e formidabil faccia
sbuffando un denso fumo egli si mosse
a guisa di leon quando minaccia.
Snudò le terga ben quadrate e grosse,
brandì le forti e nerborute braccia,
di forza, di vigor, d’asprezza piene,
scropolose di muscoli e di vene.
155
Stanno tutti a mirarlo attenti e cheti
da Scommo infuora un vecchiarel ritroso,
de’ satirici più che de’ faceti,
ma carco il pigro piè d’umor nodoso
che gli tien tra gli articoli secreti
dele giunture un freddo gelo ascoso,
onde del corpo stanco il grave incarco
sovra torto bastone appoggia in arco.
156
Questi il capo crollò, le ciglia torse,
segni fè di disprezzo, atti di scherno:
– Vattene (disse) pur là sotto l’orse
tra le fere a regnar, mostro d’averno.
Prove di gagliardia bisognan forse
del paese amoroso al bel governo?
No no, di comandar più degno sei
là sui gioghi arimaspi e su i rifei.
157
Chi non ravisa in quel color ferrigno
di questo cavalier tremendo e forte
e’n quel volto tra scialbo ed olivigno
dele Furie l’effigie e dela Morte?
Non vedete qual folgore sanguigno
dale luci saetta oblique e torte,
con cui di seminar prende ardimento
tra bellezze ed amori, odio e spavento?
158
Principe e re non dirò già di regno,
che spesso è dono di Fortuna insana,
ma di titolo d’uomo ancora indegno,
vivo spirto ferino in forma umana.
Vil pensier, rozzo cor, selvaggio ingegno,
intesa a basse cure alma villana
veggio nel tuo sembiante infellonito,
che ti mostra malnato e malnutrito.
159
E pur entrando al’onorata gara,
così ne vien sovr’ogni merto audace
come fusse lo dio che’l dì rischiara
o il bel fanciul dal’arco e dala face.
Villania per valor non fu mai cara,
più gentilezza che beltà ne piace.
Amor più fere allor ch’è men feroce
e bellezza innocente assai più noce. –
160
Alfin di questo dir gli occhi volgendo
al’orgoglioso barbaro insolente,
videlo dal’altar scender fremendo
delo strano rifiuto impaziente,
ed accusando con sembiante orrendo
la bella dea d’ingiusta e d’inclemente,
detestando del figlio e fiamme e dardi,
batteva i denti e stralunava i guardi.
161
Così toro non domo a cui le spalle
giogo non preme ancor duro e pesante,
poiché lasciò nela diletta valle
il rival vincitore e trionfante,
mugghiando va per solitario calle
rabbioso insieme e sconsolato amante
e, pien d’angoscia il cor grave ed acerba,
aborre il fonte e gli dispiace l’erba.
162
Languia del sol nel mar quasi sommerso
moribonda la luce e semiviva
e l’ombra, che coprir suol l’universo,
la gran faccia del ciel discoloriva.
Col pel fumante e di sudori asperso
chini d’Esperia inver l’estrema riva
per pascersi ne’ prati occidentali
gl’infiammati corsier piegavan l’ali.
163
Smarrita ale sue tende e poco lieta
la turba giovenil fece ritorno
e sciolta l’union dela dieta
sen giro i vecchi a procacciar soggiorno.
Ma finché fusse il principal pianeta
sorto dal’Indo a suscitare il giorno,
lasciaro per timor del’altrui frodi
la corona a guardar molti custodi.
164
Era del dì la luce ancora acerba
e’nsu le mosse il sol del gran viaggio,
né ben rasciutte avea nel’umid’erba
le notturne rugiade il primo raggio,
quando la gioventù vaga e superba
e seco il parlamento e’l baronaggio
con la medesma ancor pompa sollenne
nel loco usato ad assembrar si venne.
165
Da capo incominciò le prove istesse
la scelta de’ miglior quivi raccolta,
ma nessun si trovò che più facesse
di quelche gli altri fer la prima volta.
Restan con fronti stupide e dimesse,
e quasi loro ogni speranza è tolta,
i ministri del regno e i senatori,
confusi i petti e conturbati i cori.
166
Ma nel’occaso allor allora avea
chiuso il carro dorato Apollo stanco
e la vaga sorella in ciel rompea
le nere nubi col suo corno bianco,
onde, perché ciascun girne volea
nel proprio albergo a riposare il fianco,
il senato con gli altri uscia del tempio
quando v’entrò d’ogni beltà l’essempio.
167
Il bell’Adon che con l’occulta scorta
di Mercurio, d’Amore e dela madre,
tardi, benché per via facile e corta,
giunt’era ala città che fu del padre,
notturno entrò per la superba porta
poiché n’uscir le congregate squadre
ed a lume di lampade le cose
dela gran mole a contemplar si pose.
168
In un canton del tempio alfin distese
sovra il duro terren le membra lasse
e quasi prima in occidente scese
la notte che dal sonno ei si destasse.
Desto, ala luce dele faci accese
per mirar ben l’altare oltre si trasse
mentre i soldati, acconcio il capo al manto,
dopo lungo vegghiar dormiano alquanto.
169
Trova quivi Barrino, un greco astuto,
villan di stirpe, uom vile e fraudolento
ed al cui corpo picciolo e minuto
la malizia supplisce e’l tradimento,
di capo aguzzo e di capel ricciuto
e senza più che quattro peli al mento,
rosso, ma d’un rossor che pende al fosco
ed ha sguardo fellone ed occhio losco.
170
Veste di fronte intrepida e secura
pensier malvagio ed animo maligno,
né mai cangia color la faccia oscura
che picchiata è di giallo e di sanguigno.
Accoppia a pronto dir lingua spergiura,
porta in core il veleno, in bocca il ghigno.
Diria per poco argento e per poc’oro,
«Giove, non ti conosco e non t’adoro».
171
Costui, mentre che gira e che passeggia
intorno ai sacri e preziosi arredi
e cerca come, sich’altri non veggia,
alcuna cosa tacito depredi,
visto il garzon che come sol lampeggia,
prima il prende a squadrar da capo a piedi,
poi s’accosta, il saluta e l’accarezza
e comincia lodar tanta bellezza.
172
E scherza e dà scherzando a poco a poco
campo al’intenzion perfida e ladra
e l’induce a rapir, come per gioco,
l’aurea corona con la man leggiadra,
quasi sol per provar se dal suo loco
mover la pote e s’ella ben gli quadra.
Il fanciullo a pensar molto non stette;
leggiermente la piglia e sela mette.
173
Stupisce l’altro e quasi apena il crede
e pien d’invidia e di livor ne resta
e con finto sorriso a lui la chiede
poscia ch’alquanto ei l’ha tenuta in testa.
Semplicemente Adon gliela concede,
Barrin sela ripon sotto la vesta
e col fido favor del’ombra oscura,
fatto il bel furto, agli occhi suoi si fura.
174
All’albergo d’Astreo ratto sen corre,
ché vuol con la corona il regno ancora.
Sorto era Astreo, ch’ogni riposo aborre,
prima che fusse ancor sorta l’aurora.
Qui comincia la favola a comporre
e le menzogne sue sì ben colora,
che tutti quei ch’ad ascoltarlo stanno
prestano fede al non pensato inganno.
175
Dice che mentre al’ultimo scalino
là dove a terminar va la salita,
a piè del sacro trono in cui d’or fino
sta dela dea l’imagine scolpita,
al suo nume immortal supplice e chino,
chiedea di notte in qualch’affare aita,
si sentì, si trovò, né sapea come,
di quel cerchio real cinte le chiome.
176
Lieto il buon vecchio il ciel ringrazia e piove
per gran gioia dal cor lagrime pie.
Prende Barrin per mano e’l passo move
per le calcate e ricalcate vie
e senza ordine alcun vassene dove
far la prova deveasi il terzo die,
né ch’esca il sol dale contrade eoe
attender cura e’l segue ogni altro eroe.
177
Intanto ver gli antipodi discaccia
le pigre stelle il vincitor del’ombra
e’l negro vel, che la serena faccia
di Giunon bella orribilmente ingombra,
apre co’ raggi orientali e straccia
e le nemiche tenebre disgombra.
Già gli ardenti destrier che fan ritorno
chiamano co’ nitriti il novo giorno.
178
Or il nunzio del ciel, che ben veduta
la fraude avea del mentitor ladrone,
tosto d’effigie e d’abito si muta
e nel gran concistor conduce Adone.
Peregrina sembianza e sconosciuta
d’uom canuto e stranier finge e compone.
Quivi lo sguardo ai giudici converse
ed a questo parlar le labbra aperse:
179
– Dunque uom perfido e reo contro la legge
e fatale e divina è tanto audace
che di pugno a colei che Cipro regge
ruba i tesori con la man rapace?
e pur non si punisce, anzi s’elegge
qual regnator leggittimo e verace?
né v’ha pur un ch’ai popoli delusi
così perversa iniquitate accusi?
180
Stamane allor ch’ebro di sonno e cieco
giacea lo stuol che custodiva il tempio,
io io vid’io questo donzel ch’è meco
torre il diadema e consegnarlo al’empio.
Così la dea che’n testimonio arreco
pari ala fellonia mandi lo scempio,
com’ha il pregio involato e falsamente
l’altrui s’usurpa e’n ciò che narra ei mente.
181
Ragion dunque non fia né mi par giusto
contro l’ordin celeste e contro il vero
ch’ei di quell’oro indegnamente onusto
dele glorie non sue ne vada altero;
ed a chi meritò d’essere augusto,
giudicato dal ciel degno d’impero,
si neghi da’ più saggi e si defraude
l’onor dela mercede e dela laude.
182
Ma perché sceleragine cotanta
sia nota a tutti e’l dubbio apien si scioglia,
se pur vera è la prova onde si vanta,
riponga al loco suo la tolta spoglia,
indi di novo ancor dala man santa
come dianzi la tolse or la ritoglia;
e s’avverrà che quindi ei non la spicchi,
provinsi ancora i più famosi e ricchi.
183
Ma ricchezza e valore e quanto dona
talor con larga man prodiga sorte
poco può rilevar, credo, a persona
che stella incontri il cui tenor sia forte.
Or quando avegna pur che la corona
per cui tanto in contrasto è questa corte
non sia per altra man levata o mossa,
veggiasi se costui mover la possa. –
184
L’autorità dela favella grave
mosse ciascuno e del divin sembiante.
Ciascun mira Barrin che tace e pave
tutto confuso e pallido e tremante.
Sparso allor d’ognintorno odor soave
e volto il tergo, il messaggier volante
dileguossi e disparve in un momento
come spuma nel’onda o fumo al vento.
185
A prodigio sì strano ed improviso
Astreo gridò pien d’un festivo zelo:
– Lodato il ciel, quest’è del cielo aviso;
chi può stornar quelch’è prefisso in cielo? –
Preso è Barrino, e sbigottito in viso
e pieno il cor di timoroso gelo,
sospinto a forza al grand’altar s’appressa,
alfin, nulla operando, il ver confessa.
186
Già verso Adon con la minuta gente
del senato il favor concorre insieme,
ma la parte più ricca e più possente
lo sdegna è biasma e ne sussurra e freme.
Vuol Astreo ch’ognun torni immantenente
nela corona a far le prove estreme,
ma nonché trarla fuor, tentano invano
crollarla pur dala tenace mano.
187
Or di quanti quel dì volser provarse
giovani di beltà competitori
più non restava alcun, quando comparse
Adon di tutti ad oscurar gli onori.
Serenò l’aria in apparire e sparse
lume ch’al giorno ingeminò splendori
e nel passar con gloriose palme
mille spoglie portò di cori e d’alme.
188
Parve a vedere intempestiva rosa
in bel cespo talor tra pruni e stecchi
nata colà nela stagion nevosa
quando restano i prati ignudi e secchi.
Rivolti ala beltà meravigliosa
del novo aventurier stupiro i vecchi,
stimandol quasi, alpar degli altri belli,
peregrina fenice infra gli augelli.
189
Era tra que’ confin che fa l’etate
di fanciullezza in gioventù passaggio;
dale placide luci innamorate
uscia d’un bel seren tremulo raggio;
nele tenere guance e dilicate
fresca fioria la porpora di maggio;
tra le labbra in color di rosa viva
il sorriso degli angeli s’apriva.
190
Di fin vermiglio si colora e tinge
la vesta e di fin or fregiata splende;
barbara zona a mezzo il sen la stringe,
poco sotto il ginocchio il lembo scende;
di zendado un scaggial l’omero cinge
da cui sonoro avorio al fianco pende;
la faretra ha da tergo e’l piede eburno
aureo gli copre e serico coturno.
191
Non ha la testa ignuda altro ornamento,
né pari a sì bel crin pompa si trova,
se non di mirto un fil minuto e lento
che smeraldo con or confonde a prova.
Par ch’egli giri un cielo ad ogni accento
e par ch’un sole ad ogni sguardo muova,
par che produca ad ogni riso un fiore
e par che calchi ad ogni passo un core.
192
Più non dirò, né saprei meglio in carte
tanta beltà delinear giamai,
né di tal luce ombrar picciola parte,
cieco dalo splendor di tanti rai.
Onde poich’al desir mancando l’arte
dal suggetto lo stil vinto è d’assai,
industre imitator del gran Timante,
gli porrò del silenzio il velo avante.
193
Ben tra color ch’al gran giudicio uniti
volgon dubbiosi opinione incerta,
sotto veli poria falsi e mentiti
forse giacer la verità coverta,
se già senz’altre omai dispute o liti
non la mostrasse lucida ed aperta
nonch’ai saggi e prudenti, anco ai più sciocchi
il chiarissimo sol di que’ begli occhi.
194
Lo splendor di quegli occhi ogni occhio abbaglia,
la bella bocca ogni altra bocca serra,
onde conchiude ognun che non l’agguaglia
veracemente altra bellezza in terra.
– Cosa mortal ch’a tanto pregio saglia
chi cerca omai (dicean) vaneggia ed erra,
non sol per quanto fuor l’occhio ne vede
ma per quanto il pensier dentro ne crede. –
195
Una colomba allor, che fuggitiva,
del sacrato coltello avanzo solo
era quel proprio dì campata viva,
venne a fermargli insu la spalla il volo.
Onde il buon vecchio Astreo che ne gioiva
e de’ presaghi aruspici lo stuolo,
vaticinando aventuroso stato,
con lieto annunzio interpretaro il fato.
196
Qui sorse un grido universal che crebbe
di laude insieme e di letizia misto:
– A lui sol si conceda, a lui si debbe,
trofeo de’ suoi begli occhi, il degno acquisto. –
E con plauso qual altro ancor non ebbe,
siché da molti invidiar fu visto,
udissi un mormorio chiaro e distinto
che diceva acclamando: – Ha vinto, ha vinto! –
197
Mentre che già s’appresta al’alta impresa
ecco il popol di fuor grida e schiamazza,
ed ecco entrar molti scudieri in chiesa
ed ha ciascuno in man dorata mazza,
ond’ala multitudine sospesa
d’ognintorno allargar fanno la piazza
innanzi ad un, ch’a prima giunta sembra
aver belle fattezze e belle membra.
198
Falsirena costui chiamato avea
da remote contrade e regioni,
dov’ei la signoria tutta reggea
di Pigmei, di Catizi e d’Arcamoni.
Quindi il trasse a bell’arte e lo facea
tra le gare venir di que’ garzoni
perché’l regno ad Adon fusse intercetto
dal più brutt’uom del mondo e più imperfetto.
199
Per meraviglia inusitata e strana
di duo semi difformi informe ei nacque.
Fu d’un can generato e d’una nana
laqual a forza al’animal soggiacque.
Di Feronia ella fu maggior germana,
Feronia ch’al garzon tanto dispiacque
e tanta già nel mal noia gli accrebbe
mentre chiuso in prigion la maga l’ebbe.
200
Cinisca ell’avea nome, ala cui mano
lo scettro s’attenea de’ Cappadoci.
Venne a metterle campo il fier Turcano,
tiranno già de’ Tartari feroci
ed, avendola un tempo astretta invano
con lunghi assedi e con battaglie atroci,
alfin pensò l’inespugnabil terra
per froda conquistar, senon per guerra.
201
Trattò seco allianza e voler finse
di già nemico divenir marito,
persuase, promise e la sospinse
con lettre e messi a credere al partito
e con sacri protesti il patto strinse
e strinse il coniugal nodo mentito
per trovar via da disfogar lo sdegno
ed occupar con tal inganno il regno.
202
Fu dal falso imeneo placato Marte,
onde a dura tenzon pace successe.
La misera lo stato a parte a parte
e la persona al barbaro concesse.
Ma dapoi che’l fellon con sì nov’arte
la donna ottenne e la cittade oppresse,
schernì con ingratissima mercede
il fatto accordo e la giurata fede.
203
Nutriva ei con lo stuol di molti alani
un suo nero molosso, il più membruto,
il più sconcio, il più fier che tra Spartani
o tra gli Arcadi mai fusse veduto.
Era terror de’ più tremendi cani
ed avea come lupo il cuoio irsuto.
Grugnon fu detto, in orride tenzoni
avezzo a strangolar tigri e leoni.
204
Or per disprezzo a tal consorte in moglie
sottoporre il crudel fè la meschina
e comandò che dele proprie spoglie
ignuda tutta, incatenata e china
preda restasse ale sfrenate voglie
del’ingorda libidine canina
e, dele nozze patteggiate in vece,
dal’osceno mastin coprir la fece.
205
Così, poiché più volte ella sostenne
l’indegna villania del sozzo cane,
dal’iterata copula ne venne
ingravidata a concepir Tricane.
Trican dal Dente è questi, il qual ritenne
forme parte canine e parte umane.
Mezzo dal cinto insù d’uomo ha sembianza,
tutto simile al padre è quelch’avanza.
206
Dal Dente ei detto fu, peroch’aguzza
in fuor del grugno ed arrotata zanna
che di schiume sanguigne il mento spruzza,
a guisa di cinghial gli esce una spanna.
Con quest’arme talora in scaramuzza
più che col ferro altrui lacera e scanna.
Parla, ma voce forma orrida ed atra
che con strepito rauco ulula e latra.
207
Volto affatto non ha nero ed adusto,
né candido deltutto e colorito.
Crespo di chiome ed è di tempie angusto,
del color d’Etiopia imbastardito.
Ha vasto il capo e pargoletto il busto,
col difetto l’eccesso insieme unito;
fanno quinci Erittonio e quindi Atlante
un innesto di nano e di gigante.
208
Gonfio sen, braccia lunghe e cosce corte,
ispida barba e peli irti e pungenti,
luci vermiglie e lagrimose e torte,
sguardi d’infausto e fiero foco ardenti,
fronte rugosa, oscure guance e smorte
e sotto bianche labra ha biondi denti.
Armato poi le man d’acuto artiglio
ben mostra altrui che di tal bestia è figlio.
209
Aggiunse di natura al’altre cose
ancor nova sciagura il caso istesso.
Quando del ventre fuor la madre espose
l’orribil peso e si sconciò con esso,
dapoich’ebbe con strida aspre e rabbiose
dale viscere immonde il parto espresso,
accrebbero le serve e la nutrice
cumulo di miserie al’infelice.
210
La balia ch’allevollo e l’aiutante
di recarglielo in braccio ebber piacere.
Raccapricciossi nel vedersi avante
quelle sembianze abominande e fiere,
svenne d’angoscia e di terror tremante
le braccia aperse e se’l lasciò cadere,
ond’ei portò dala materna poppa
un piè travolto ed una gamba zoppa.
211
L’avea con acque magiche e con versi
volto la fata in un donzel sì vago,
ch’apena sotto il sol potea vedersi
la più leggiadra e signorile imago;
e seco in paggi altr’uomini conversi
parimenti in virtù del licor mago,
pur dela stirpe sua gente minuta,
orribile, difforme e disparuta.
212
Ch’arditamente ad Amatunta il piede
senza indugio volgesse ella gli disse,
perché di Cipro ad acquistar la sede
cosa non troveria che l’impedisse
e la palma, il trionfo e la mercede
verrebbe a riportar del’altrui risse,
ch’unita la beltà del mondo tutta
fora alato ala sua per parer brutta.
213
Or qua venia da lei sospinto e tratto
da’ suoi propri desir leggieri e sciocchi.
Tre volte intorno intorno il contrafatto
torse caninamente il ceffo e gli occhi.
Di reverenza o di saluto in atto
non chinò fronte e non piegò ginocchi,
ma per mezzo lo stuol quivi raccolto
portò superbo il portamento e’l volto.
214
Passa al’altare, orch’è coverto il cucco
sott’altre penne, orgogliosetto in vista.
Veste di pelle d’indico stembucco
colletto che di perle ha doppia lista,
di prezioso ed odorato succo
di muschio e d’ambracan temprata e mista.
Damaschina ha la storta al lato manco
e dorato il pugnal dal’altro fianco.
215
Vermiglio palandran vergato d’oro
gli cade al tergo e’l fregio è d’aurea trina
e d’un tabì di simile lavoro
fatta è la calza e frastagliata a spina.
Un cappelletto di sottil castoro
porta che pur la piuma ha purpurina;
e guernito le man d’arabi guanti
vien ninfeggiando, amoreggiando avanti.
216
Questa vana magia durò sol tanto
ch’ei più dapresso ala gran dea comparve;
ma giunto innanzi al simulacro santo,
si dileguar le mentitrici larve,
s’aprì la nube si disfè l’incanto
e la finta beltà ratto disparve,
ond’ancor negli astanti al’improviso
si trasformò la meraviglia in riso.
217
Qual uom che sotto maschera nascosto
inganna altrui con abito mendace,
altro che prima appar, poich’ha deposto
dela non sua sembianza il vel fallace,
tal quel brutto omicciuol rimase tosto
che nela sua tornò forma verace;
e Saliceo, che’n stima era tra’ vegli
del più grave censor, ne rise anch’egli.
218
Di quel collegio reverito e sagro
è questo Saliceo tra’ principali,
maninconico in vista, asciutto e magro,
ma sempre in bocca ha le facezie e i sali
e punge con parlar mordace ed agro,
ma sono i motti suoi melati strali,
onde trafige e gratamente uccide
e fa rider altrui, seben non ride.
219
Poiché l’arco costui, secondo l’uso,
dela lingua piccante ebbe arrotato,
torse ghignando e sorridendo il muso
e col gomito urtò chi gli era a lato.
– Or chi (dicea) non rimarrà confuso
in risguardar quest’atomo animato?
O quale sfinge indovinar sapria
che qualità di creatura ei sia?
220
Da qual nicchio sbucò di Flegetonte
un granchio tal, cui par non fu mai scorto?
con qual bertuccia si congiunse Bronte,
onde ne nacque un sì stupendo aborto?
Se l’arco avesse in man, la benda in fronte,
l’ali su’l tergo e’l piè non fusse torto,
e’ mi parebbe ale fattezze estrane
lo dio d’amor de’ topi e dele rane.
221
Ale parti del corpo io non m’oppongo
se nol guastasse alquanto il piedestallo;
e se fusse un sommesso almen più longo,
per Ganimede io l’avrei tolto in fallo.
Sotto quel suo cappel somiglia un fongo,
al vestire, ala piuma un pappagallo.
Sembra nel resto una grottesca a gitto
overo un geroglifico d’Egitto.
222
Veramente a ragion biasmar non posso
sì gentil personaggio e sì bel fante,
che se la base è picciola al colosso,
il torso è però grande e torreggiante;
e s’io ben miro, il naso ha così grosso
che ne staria fornito un elefante,
benché di schiatta elefantina un mostro
il dimostrino ancora il dente e’l rostro.
223
Donde derivi in lui tanta arroganza
veder non so davante a sì gran nume.
Per aver di Vulcan la somiglianza
forse con Citerea tanto presume.
Ma dove manca la civil creanza,
la natura supplisce al vil costume,
poiché mentre traballa or alto or basso,
suo malgrado s’inchina a ciascun passo.
224
Ma se col fasto eccede e con l’orgoglio
ogni proporzion di sua statura,
scusar lo deggio e perdonar gli voglio,
ch’aver vuolsi riguardo ala figura
in cui, qual pittor saggio in breve foglio,
le sue grandezze impicciolì Natura.
S’egli, ancorché si drizzi, è sì piccino,
or che farebbe inginocchiato e chino?
225
Abbiasi dunque mira ala corona,
pongasi doppia cura e doppia mente
perché mentre fra gli altri or si tenzona
non la rapisca il semideo valente;
ch’essendo per cagion dela persona
poco men ch’invisibile ala gente,
se vorrà torla contro i sacri patti,
uopo non fia che fugga o che s’appiatti. –
226
Per questo ragionar non si ritira,
anzi pur oltre il paladin procede,
che seben dela turba il riso mira,
dele vergogne sue nulla s’avede.
Ma quando altero al’aureo cerchio aspira
e di toccarlo e di levarlo ei crede,
trema in guisa l’altar ch’altrui spaventa
e la dea folgorando un calcio aventa.
227
Nel volto con tant’impeto battuto
fu dal piè dela statua il sozzo nano,
che sossovra in un globo andò caduto
di grado in grado a rotolar nel piano.
Quel piacevol prodigio allor veduto,
sentissi il riso raddoppiar lontano;
rimbombonne il teatro a voce piena
e chiuse in atto comico la scena.
228
Levossi il semican superbo e rio
e del publico oltraggio al ciel latrava;
dela rabbia paterna infuor gli uscio
di bocca il fiel col sangue e con la bava;
e bestemmiando del’alato dio
la madre in vista minacciosa e brava,
contro la maga iniqua e maledetta
giurò sovra il suo dente alta vendetta.
229
Or giunto al trono ove sedea Ciprigna
col viso alzato e col ginocchio chino
disse Adon supplicante: – O dea benigna
per cui scalda il mio petto ardor divino,
s’hai virtù di placar stella maligna,
se pende dal tuo cenno il mio destino,
piacciati, prego, a questo servo indegno
come donasti il cor, rendere il regno. –
230
Fu vista a quel parlar la dea cortese
quasi in sereno ciel lampo di stella,
disserrar un sorriso e’ntanto stese
l’aurea corona e l’adornò di quella.
Né cinta di bei raggi e fiamme accese
fu la fronte d’Apollo unqua sì bella
o dele fronde del più verde alloro,
com’apparve la sua fregiata d’oro.
231
Mentre che tutti di conforme voto
son del reame ad investirlo intenti,
con popolar tumultuario moto
ecco nel tempio entrar calca di genti.
Antica donna e di sembiante noto
presa menan colà molti sergenti;
e già grida ciascun, mentre s’appressa:
– Ecco Alinda, ecco Alinda, è certo dessa. –
232
Alinda era costei nutrice fida
di lei ch’Adone ingenerato avea
e del malvagio amor complice e guida
fu già nel’opra incestuosa e rea.
Ella fra tanti strazi e tante grida
mercé pregava e l’ascoltar chiedea;
ond’ale turbe Astreo silenzio indisse;
allor sciolse la lingua e così disse:
233
– Non bram’io no dal mio canuto crine
torcer la falce onde fia tronco inbreve.
Principi, o che lontane o che vicine
sien l’ore ultime mie, nulla m’è greve.
Venga omai pur, ch’è già maturo il fine
de’ pochi giorni che’l destin mi deve.
Non vo’, di morte degna e di catena,
scusar il fallo o ricusar la pena.
234
Io di vietato amor nefande prede
trassi Mirra a rapir dal padre istesso.
Al’inganno amoroso ardir mi diede
pietà del suo languir; l’error confesso.
Ma se quando dal male il ben procede
suol perdonarsi ogni più grave eccesso,
ben può, d’effetto buon ministra ria,
perdono meritar la colpa mia.
235
Lunge dal patrio suol, così la punse
vergognoso timor, fuggì tremante;
né me da lei lungo camin disgiunse,
sempre del vago piè seguace errante.
Misera, in tronco alfin cangiata aggiunse
verdura ai boschi e numero ale piante.
Ma dal gravido sen, com’al ciel piacque,
sovr’ogni altro leggiadro un figlio nacque.
236
Nacque colà tra quelle piagge apriche
dove l’unico augel s’annida e pasce
che’ncenerite le sue piume antiche
di sé padre ed erede e more e nasce.
Al bel parto apprestar le ninfe amiche
fiorita cuna ed odorate fasce,
ch’ove il latte mancò, nutrito intanto
fu dele stille del materno pianto.
237
Stupor dirò che l’altrui fede avanza:
sotto la poppa del sinistro lato
il bel corpo portò fuor d’ogni usanza
mirabilmente il fanciullin segnato.
D’una rosa vermiglia ala sembianza
purpurea macchia vi dipinse il fato,
quasi volesse pur la dea d’amore
del carattere suo stampargli il core.
238
Questi in Arabia vive, ove ancor io
ho menata fin qui vita selvaggia.
Ma come prima il vostro editto uscio,
abbandonai quella deserta spiaggia
e qua ne venni al mio terren natio
perché’n altrui l’elezzion non caggia.
Non dee giusta ragion di questa sede
torre il proprio retaggio al vero erede. –
239
Qui tacque e Luciferno il fiero scita,
cui lacerava il cor verme di rabbia,
de’ suoi scorni sdegnoso e che rapita
tanta gloria di mano un garzon gli abbia,
poiché d’Alinda ebbe l’istoria udita
si trasse avante con enfiate labbia
e, sbarrando le braccia, alzò feroce
in questo suon la temeraria voce:
240
– Qual leggerezza o qual furor v’aggira,
voi che di dotti v’usurpate il nome?
e qual, fuor di ragion, ragion v’inspira
suppor sì frale appoggio a sì gran some?
Dela follia ch’a vaneggiar vi tira
non v’accorgete omai canute chiome?
forse interesse in voi corrompe onore?
o vi move lascivia a tanto errore?
241
Cosa dunque vi par degna di voi
che sen porti costui sì fatta preda?
e che’l premio negato a tanti eroi
a fanciullo inesperto or si conceda?
Benché, s’io guardo ai portamenti suoi,
più tosto che fanciul, femina il creda.
Un ch’agli abiti, agli atti, ala favella
con vergogna d’ogni uomo uomo s’appella.
242
Meglio saprà con quel suo bruno ciglio,
col biondo crin, con la purpurea guancia
l’armi adoprar di Venere e del figlio
che regger scettro o sostener bilancia.
Vie più ne’ giochi delo dio vermiglio
tra tirsi ed edre ove si tresca e ciancia
con satiri a scherzar vani e leggieri
atto sarà ch’a maneggiare imperi.
243
Pettini e specchi imbelli e feminili
tratti, al subbio si volga, al’ago, al fuso;
tessa a suo senno pur, riccami e fili,
tal de’ suoi pari è l’essercizio e l’uso;
stiasi pur tra donzelle inermi e vili
e del letto e del foco in guardia chiuso,
guardi i tetti domestici e le mura,
ma lasci altrui del governar la cura.
244
Potrà forse in voi tanto un volto osceno,
tanto fia che v’accechi un desir folle,
ch’abbiate di voistessi a dar il freno
a rege inetto, effeminato e molle?
E voi, gente viril, dentro il cui seno
nobil zelo di gloria avampa e bolle,
vi lascerete tor senza contesa
quelche tanta costò fatica e spesa?
245
Che forze avrà questo campion? che lena
da regger peso tal che non trabocchi?
Tremerà, piangerà se fia ch’apena
un sol lampo d’acciar gli offenda gli occhi.
Torni la mente omai chiara e serena
siché stimol d’onor vi punga e tocchi,
facendo possessor di vostra terra
chi l’orni in pace e la difenda in guerra. –
246
Prima che Luciferno oltre seguisse,
strano prodigio e repentino avenne.
Quella statua d’Amor che già si disse
lo stral ch’avea su l’arco a scoccar venne.
Volando il crudo stral, l’asta gli affisse
nel costato miglior fino ale penne.
Cadde e giacque il meschin gelido e muto,
frecciato il cor di passatoio acuto.
247
Di stupor, di terror la gente resta,
a sì fiero spettacolo confusa.
Intanto a tutti Adon si manifesta
e de’ propri natali il vero accusa
e per prova maggior sotto la vesta
scopre l’impression celata e chiusa,
dove l’ultima costa appresso al fianco
forma l’arco minor del lato manco.
248
E però che’l re morto avea già fatto
palese a tutti il ricevuto scherno,
veggendogli il bel fior nel cor ritratto
e nel viso gentil l’aere paterno,
tutto il senato con sollenne patto
giurogli omaggio e poselo al governo.
Sciolta è la balia e, conosciuto il segno,
lo stringe, il bacia e l’accompagna al regno.
249
Fu da Dorisbe e dala madre Argene
con dimostranze affettuose accolto
e, seben tronca a’ lor desir la spene,
non so se’l cor si conformava al volto,
come del sangue al debito conviene,
nascondendo il livor, l’onorar molto.
Venne Sidonio e con aperte braccia
corse a scontrarlo ed a baciarlo in faccia.
250
Smarrito dal’insolito accidente,
di corte ogni baron gli s’avicina.
Folto il popol concorre, e reverente
a salutarlo re ciascun s’inchina.
D’oricalchi e di bossi ecco si sente
musica barbaresca e saracina;
straccian l’aria le trombe a mille a mille
ed assordano il ciel timpani e squille.
251
Falcato carro e nobilmente instrutto
perché dal tempio al regio albergo ei torni,
vien da sei coppie innanzi al re condutto
di ben guerniti e candidi alicorni.
Lavorato è d’avorio ed ha pertutto
d’azzurro e d’oro i suoi fogliaggi adorni
e’nsu quattr’archi eccelsi e trionfali
spiega l’insegne de’ trofei reali.
252
Del’istessa materia e del’istesso
lavor tra l’aurea poppa e’l bel timone,
in guisa pur di tribunale, è messo
seggio che braccia e branche ha di leone.
Qui con suoi primi ufficiali appresso
sotto un gran pallio d’or s’asside Adone.
Presso, ma non del pari, innanzi al piede
Astreo con quattro satrapi gli siede.
253
L’aurea corona tien su gli aurei crini,
ma però ch’a portar troppo gli pesa,
duo fanciulletti in forma d’amorini
d’or e d’ostro piumati, in man l’han presa
e da tergo eminenti a lui vicini
gliela tengono in fronte alto sospesa.
Così pian pian tra la real famiglia
dritto al mastro palagio il camin piglia.
254
Primi van gli scudier, costor seconda
di paggi e camerieri ordin d’onore.
Il carro poi la baronia circonda
dov’ha de’ maggior duci accolto il fiore.
Schiera dietro ne vien lieta e gioconda
di danzatrici vergini e canore.
Altri ne stanno insu balconi e logge
grandinando di fior purpuree piogge.
255
I ministri del re ch’a piè gli stanno,
di passo in passo infra le turbe liete
dala prodiga man spargendo vanno
in segno di letizia auree monete.
E tanta forza ha in sé l’oro tiranno,
tanto può di guadagno avida sete,
che la plebe a raccorlo intenta e fissa
cangia la festa in strepitosa rissa.
256
Con sì fatto apparato in gioia e’n riso
ala gran reggia arriva il re novello.
Poggia su l’alta sala e quivi assiso
straniero attende e messaggier drappello.
Cipro, bench’or dal’isola diviso
sia’l continente, era già unita a quello;
e nove regni avea seco ristretti
ch’ancor son per tributo a lei soggetti.
257
Nove son dunque ad onorarlo presti
di nove regni ambasciadori accolti,
per lunga barba e lungo manto onesti
e di crespi turbanti il capo avolti;
a baciargli la man ne vengon questi,
pongon le destre al petto, a terra i volti.
Ei gli raccoglie e innanzi a sé per dritto
seder gli fa sovra origlier d’Egitto.
258
L’ambasciata ad espor preser costoro
e i doni inun de’ tributari regi;
cose di cui nel sen non ha tesoro
l’antartico Nettun che più si pregi.
havvi gran padiglion di seta e d’oro
sparso di varie cacce e vari fregi;
d’istorie v’ha tapezzaria reale,
arazzi da guernir camere e sale.
259
Cinquanta ai cigni di candor simili
destrier, che d’oro han paramenti e selle,
vengon condotti a man vaghi e gentili
da vie più che carbon nere donzelle.
Robusti schiavi insu le terga umili
portan d’argento ancor gran conche e belle,
dov’è molt’oro accumulato e molto
in medaglie battuto e’n verghe accolto.
260
Poi da credenza un barbaro apparecchio
di bei vasi di smalto ecco ne viene
e v’ha tra lor del più purgato e vecchio
balsamo oriental molt’urne piene.
Non di cristallo no segue uno specchio
sì grande ch’a fatica altri il sostiene,
ma d’un intero e limpido zaffiro
e di turchina ha la cornice e’l giro.
261
Duo preziosi anelli: in un si chiude
la nobil pietra che resiste al foco,
onde chi l’ha, benché voraci e crude,
prende le fiamme e le faville a gioco.
L’altro gemma contien di tal virtude
ch’ha di tosco maligno a temer poco,
perché sentendo il rio velen che noce
ferve e s’infiamma sì che’l dito coce.
262
Un’oriuol di ricche gemme adorno
che quasi viva ed animata mole
col numero e col suon l’ore del giorno
segnar non pur mirabilmente suole,
ma con le rote sue si volge intorno
come volgonsi in ciel le stelle e’l sole.
Giran le sfere e di fin or costrutti
muovonsi del zodiaco i mostri tutti.
263
Temperato in Damasco, obliquo e corto
stocco vien poi ch’ha di rubino ardente
le guardie e’l pome e di diaspro torto
sotto manico d’oro else lucente;
gravi di perle, a cui l’occaso o l’orto
non vede eguali, ha cintola e pendente;
di diamante il puntale e smeraldina
d’un verd’osso di pesce è la vagina.
264
Questi i presenti fur ch’ala presenza
del bell’Adon fur presentati allora.
Data egli ai messi alfin grata licenza
si ritrasse in disparte a far dimora.
Ma la madre d’Amor che viver senza
l’anima sua non può contenta un’ora,
tosto de’ bianchi augelli insu le penne
tacita e sola a visitar lo venne.
265
Poiché più volte l’accoglienze nove
partì col vago suo la dea vezzosa,
perch’era astretta in breve a girne altrove
ed era del suo ben troppo gelosa,
seco pensò di ricondurlo dove
l’ebbe pur dianzi in chiusa parte ascosa,
onde lasciando Astreo regger sua vece
al’usato giardin tornar lo fece.
266
Fu Barrin condannato a giusta pena,
ma perché tanta e sì sollenne festa
di gaudi tutta e d’allegrezze piena
conturbar non devea cosa funesta,
bastò ch’avesse al piè ferrea catena
s’aver non valse aurea corona in testa;
bastò che’n cambio del supplicio estremo
trono un banco gli fusse e scettro un remo.
267
Già scintillando in compagnia d’Arturo,
Espero uscia dala magion dorata
e già l’argento suo candido e puro
fuor del’ombre traea la dea gelata;
steso in terra la Notte il velo oscuro,
aperse in ciel serenità stellata
e diviso un sol foco in più faville
spense una luce e ne raccese mille,
268
quando nel letto, ove i primieri ardori
sfogar già de’ desir caldi e vivaci,
colombeggiando i duo lascivi cori
si raccolser tra lor con baci e baci.
La bella dea de’ vezzi e degli amori
intesse al’amor suo nodi tenaci
e da’ begli occhi con sospiri ardenti
gli rasciuga le lagrime cadenti.
269
Pasce il digiun del’avido desire
sovra le piume immobilmente assisa
che’l piacer del mirarlo e quel martire
di dever fra poche ore irne divisa,
le va con tanto duol l’alma a ferire
e’l più vivo del cor le tocca in guisa
che fuor di sé dubbiosa e sbigottita
non sa prender partito ala partita.
LA FONTANA D’APOLLO

ALLEGORIA

Nella persona di Fileno, nome derivato dall’amore, il poeta descrive sestesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita. Fingesi pescatore per aver egli il primo, almeno in quantità, composte in volgar lingua poesie marittime. La fontana d’Apollo in Cipro altro non importa che la copia della vena poetica, laquale oggidì sovrabonda pertutto, massime in materie liriche ed amorose. L’armi intagliate in essa son simulacri di nove famiglie d’alcuni prencipi principali d’Italia, protettori delle muse italiane, cioè Savoia, Este, Gonzaga, Rovere, Farnese, Colonna, Orsino e precisamente Medici, sicome l’insegna de’ gigli scolpita a piè d’Apollo istesso rappresenta lo scudo della casa reale di Francia. La lite de’ cigni esprime il concorso d’alcuni buoni poeti toscani che gareggiano nella eccellenza, cioè il Petrarca, Dante, il Boccaccio, il Bembo, il Casa, il Sannazaro, il Tansillo, l’Ariosto, il Tasso ed il Guarini. Nel gufo e nella pica si adombrano qualche poeta goffo moderno e qualche poetessa ignorante.

ARGOMENTO

Vanno al fonte d’Apollo i fidi amanti,
mirano l’armi de’ più degni eroi;
quivi in forma di cigni ascoltan poi
de’ toscani poeti i versi e i canti.

1
Occhi, in cui nutre Amor fiamma gentile
ond’io quest’alma in vital rogo accesi,
volgete, prego, ala mia cetra umile,
mentre al canto l’accordo, i rai cortesi.
Voi mi deste l’ingegno e voi lo stile,
da voi le carte a ben vergare appresi,
e se v’ha stilla di purgato inchiostro,
prende sol qualità dal nero vostro.
2
Voi siete i sacri fonti, ove per bere
corro sovente e gli arsi spirti immergo.
Sotto i begli archi dele ciglia altere,
più ch’al’ombra de’ lauri, i fogli vergo;
ch’aver ben denno entro le vostre sfere,
poiché v’abita il sol, le Muse albergo,
e sento con favor pari ala pena,
donde nasce l’ardor, piover la vena.
3
Altri colà, dove Parnaso al cielo
erge in due corna le frondose cime,
per coronarsi del più verde stelo
sudi a poggiar per calle erto e sublime.
Io sol del vostro altero orgoglio anelo
su’l monte alpestro a sollevar le rime,
e vo’ che ‘l guiderdon de’ miei sudori
sia corona di mirti e non d’allori.
4
Amor solo è il mio Febo ed Amor solo
con l’arco istesso onde gli strali ei scocca,
perché la gloria si pareggi al duolo,
dela mia lira ancor le corde tocca.
Dal’ali del pensier che spiega il volo
là donde poi qual Icaro trabocca,
anzi pur dala sua, svelse la penna
con cui scrivo talor quant’ei m’accenna.
5
Se fossi un degli augei saggi e canori,
ch’oggi innanzi ala dea vengono in lite
e ‘n que’ vitali e virtuosi umori
osassi d’attuffar le labra ardite,
io spererei non pur de’ vostri onori
note formar men basse o più gradite,
ma con stil forse, a cui par non rimbomba,
cangiar Venere in Marte, il plettro in tromba;
6
e ‘l duce canterei famoso e chiaro
che, di giusto disdegno in guerra armato,
vendicò del Messia lo strazio amaro
nel sacrilego popolo ostinato;
e canterei col Sulmonese al paro
il mondo in nove forme trasformato;
ma poich’a rozzo stil non lice tanto,
seguo d’Adone e di Ciprigna il canto.
7
Ecco già dala porta aurea del mondo
dele fiamme minori il sommo duce,
coronato de’ raggi il capo biondo,
esce sui monti a publicar la luce.
Gli fa festa Natura e dal fecondo
grembo erbette la terra e fior produce.
L’Alba il corteggia e ‘n queste parti e ‘n quelle
gli fan per tutto il ciel piazza le stelle.
8
Poich’amboduo di quel piacer divino
han cibato il desio, ma non satollo,
sorgon col sole e prendono il camino
verso il fonte mirabile d’Apollo.
Giungon là, dove chiaro e cristallino
stagna un laghetto, insieme a bracciacollo,
cinto d’un prato, che di fior novelli
serba in ogni stagion mensa agli augelli.
9
Stranio carro era qui di gemme adorno
in sembianza di barca al lido avinto.
Quel dela bionda Aurora o quel del giorno
e di materia e di lavor n’è vinto.
Gran compassi ha di perle e i chiodi intorno
tutti son di diamante e di giacinto.
Il vaso tutto è d’una conca intera,
ch’apre il capace ventre in mezza sfera.
10
Altra di questa mai forse Nereo
non vide opra maggior di meraviglia
o nel ricco Oceano o nel’Egeo,
dala cerulea Teti ala vermiglia.
Nacque del fertilissimo Eritreo,
prodigio di natura, unica figlia.
L’Arte i fregi v’aggiunse e l’orlo e ‘l giro
le ‘ncoronò d’oriental zaffiro.
11
Su basi di smeraldo e di rubino
talamo ben guernito in mezzo stassi;
i seggi intorno ha di topazio fino,
d’ametisto indian le rote e gli assi;
duo mostri il tranno: han d’uomo e di delfino
questi le membra e d’ambo un misto fassi;
umana forma ha quella parte ch’esce
del’acque, il deretan termina in pesce.
12
Così talor vid’io pianta feconda
quinci e quindi spiegar varia la chioma,
s’avien ch’arte cultrice in lei confonda
l’uve natie con l’adottive poma;
ché, mescolando il pampino e la fronda,
curva le verdi braccia a doppia soma,
onde congiunte inun vagheggia Autunno
le ricchezze di Sacco e di Vertunno.
13
Una, i’ non saprei dir se ninfa o diva,
dal tronco, ov’è legato, il carro slega,
e dritto, ov’è la coppia, inver la riva
le redine rivolge e ‘l corso piega.
Poi con favella affabile e festiva
la ricca poppa ad aggravar lor prega.
Idrilia ha nome e già la bella salma
introdotta nel legno, il legno spalma.
14
Per la tranquilla e placida peschiera
ne vanno insieme a tardo solco e lento,
dove guizzano i pesci a schiera a schiera
quasi in ciel cristallin stelle d’argento.
Adon l’amenità dela costiera
e dela conca i fregi ammira intento,
e la bella nocchiera invitatrice,
mentre siede al timon, così gli dice:
15
– La machina, signor, dov’entro or sei,
fu del fabro di Lenno alto sudore.
Con questa in grazia venne e di costei,
ch’è la madre d’Amor, comprò l’amore.
Per trarla ai poco amabili imenei
questa in dono l’offerse inun col core.
Nettuno aggiunse ai preziosi doni,
vago poi di piacerle, i duo tritoni.
16
Né sol, come tu vedi, in acqua è nave,
ma carro, ov’ella il voglia, in aria e ‘n terra.
Spinta talor da dolce aura soave
per le piagge del mar trascorre ed erra.
Talor, lasciando l’elemento grave,
quand’ella il volo al terzo ciel disserra,
v’accoppia e scioglie ai zefiri benigni
le dipinte colombe o i bianchi cigni. –
17
Così ragiona e ‘ntanto attorce e stende
contesti di fin or serici stami,
ond’ai figli del’acque ordisce e tende
minuti e sottilissimi legami.
Ma mentre appresta il calamo ed intende,
pescatrice leggiadra, a trattar gli ami,
Amor con altro laccio e con altr’esca
di Ciprigna e d’Adon l’anime pesca.
18
In un scoglio approdò la navicella
che quasi isola siede al lago in grembo.
Questo non osò mai ferir procella,
teme ogni austro appressarlo ed ogni nembo,
né sentì mai latrar fervida stella,
né d’algente pruina asperse il lembo
ma sprezza, avampi Sirio o tremi Cauro,
l’inclemenza del Cancro e del Centauro.
19
Sporge la curva riva infuor due braccia
e forma un semicircolo capace,
dove quando il ciel arde e quando agghiaccia
sempre ha lo stagno inalterabil pace.
Placido quivi e con serena faccia
la dea bella imitando il vento tace,
e vi fan l’acque aprova e gli arboscelli
ai pesci padiglion, specchio agli augelli.
20
Fiori e conche un sol margine confonde,
erba e limo congiunge un sol confine;
spiegano l’alghe e spiegano le fronde
in un sito commune il verde crine.
Tra smeraldi e zaffir l’ombre con l’onde
scherzano gareggiando assai vicine;
ed han commercio insu le ripe estreme
le verdi dee con le cerulee insieme.
21
O quante volte, allor che rosso e biondo
ride in braccio ala vite il lieto dio,
dal’arenoso suo gelido fondo
la vezzosa nereida al lido uscìo,
e sotto il velo, onde ricopre il mondo
la madre del silenzio e del’oblio,
con pampini asciugando i membri molli
rapì l’uve mature ai dolci colli.
22
Quante cadder tra perle e tra coralli
i pomi che pendean poco lontani
e la vendemmia accolsero i cristalli,
già di vivo rubin gravida i grani.
Spesso, strisciando per gli ondosi calli,
sdrucciolaste nel’acque, o dei silvani;
spesso voi, fauni, entro le chiare linfe
correste ad abbracciar l’umide ninfe.
23
Loco soviemmi aver veduto ancora,
senon quanto è su ‘l fiume, apunto tale
là dove trae la bella Polidora
dala Dora e dal Po nome immortale,
del’augusto signor ch’Augusta onora
delizia serenissima e reale;
e vi vidi sovente in ricche scene
celebrar liete danze e liete cene.
24
Su per la riva i lucidi secreti
del bel lago spiando, ignudi cori
van di fanciulli lascivetti e lieti,
anzi di lieti e lascivetti Amori.
Chi fuor del’onde trae con lacci e reti
chi con tremula canna il pesce fuori,
altri con lunghe fila e ferri adunchi
altri con gabbie di contesti giunchi.
25
Qui venne a scaricar l’onda tranquilla
del suo bel peso la barchetta estrana;
qui scesero a veder quella che stilla
dotto licor sì celebre fontana;
Vulcan, divino artefice, scolpilla
e vinse in essa ogni scultura umana.
Così grato esser volse al biondo dio
quando i celesti adulteri scoprio.
26
Febo poi tanto di sua grazia infuse
in quel marmoreo e limpido lavacro
che la virtù poetica vi chiuse
del suo furor meraviglioso e sacro;
e ‘n compagnia dele canore Muse,
di cui tutte v’è sculto il simulacro,
sovente visitandolo, con esso
suol le rive cangiar del bel Permesso.
27
L’onda intanto gorgoglia ed ecco allora
sirenetta leggiadra in alto s’erge
e, veduta colei cui Cipro adora,
un’altra volta poi si risommerge;
la man carca di perle indi vien fora
e ‘l bel lido vicin tutto n’asperge,
perle rapite al’ostriche native
vie maggior dele noci e del’olive.
28
Disse la dea: – Se pur di perle mai
fia ch’avaro talento il cor ti tocchi,
a tua voglia sbramar qui ben potrai
l’appetito vulgar degli altri sciocchi.
Per me non ne chegg’io; n’han pur assai
la tua bocca ridente e i miei trist’occhi.
E se nulla curiam fregi men belli,
restinsi cibo a’ miei lascivi augelli.
29
Sappi che di ricchissime rugiade
l’India, l’Arabia, Eritra e Taprobana
tanta copia non hanno o Paro o Gade,
o d’austro il mare o il mar di tramontana,
quanta in queste felici alme contrade
ne versa ognor del ciel grazia sovrana;
poscia in minuti globi il sol le ‘ndura
e son de’ miei colombi esca e pastura.
30
Le perle, perché son d’egual bianchezza,
ama la schiera immacolata e bianca.
Così quello splendor, quella finezza,
ch’ai lor primi natali in parte manca,
con doppia luce e con maggior bellezza
nel lor ventre s’adempie e si rinfranca,
e le rimandan fuor con gli escrementi
più perfette, più pure e più lucenti.
31
Il coro poi, ch’è d’adornarmi avezzo,
dele mie vaghe e leggiadrette ancelle,
per fabricar pendente o compor vezzo,
sceglie tra lor le più polite e belle;
ed io più ch’altra una tal pompa apprezzo
perché la stirpe lor vien dale stelle
e del cielo e del mare hanno il colore
là dove nacque e dove regna Amore.
32
Sì per lo generoso alto concetto,
la cui primiera origine è celeste,
sì per la gran virtù del bell’oggetto,
possente a confortar l’anime meste,
sì perché lo splendor reca diletto,
sogliomi compiacer forte di queste.
Queste diero la cuna al nascer mio,
queste per barca e carro ancor vols’io.
33
Quando l’Aurora il suo purpureo velo
lava con l’onda chi fioretti aviva,
di mattutino umor piove dal cielo
picciola stilla in temperata riva
e condensata in rugiadoso gelo,
l’accoglie in cavo sen conca lasciva,
del cui seme gentil vien poi produtto,
pari ala madre sua, candido frutto.
34
Quel soave licor, ch’avida beve,
è seme, onde tal prole al mondo nasce,
ed è latte in un punto, onde riceve
virtù, che ‘l parto suo nutrica e pasce.
La propria spoglia dilicata e lieve
l’avolge quasi in argentate fasce,
e con la purità de’ suoi splendori
vince del’alba i luminosi albori.
35
Pregiasi molto in lor l’esser sincere
e d’un candor di nulla macchia offeso,
né la grossezza men, pur che leggiere
non abbian pari ala misura il peso.
Quella forma è miglior che con le sfere
più si conforma, ond’ogni lume han preso;
e quelle son tra lor le più lodate
che soglion per natura esser forate.
36
Ma però ch’ogni bella e ricca cosa
con gran difficoltà sempre s’acquista,
questa sì cara preda e preziosa
con la fatica e col periglio è mista.
Stassene parte entro l’albergo ascosa
la perla, e parte esposta al’altrui vista;
su l’orlo del covil che la ricetta
ala rapina il pescatore alletta.
37
L’ingordo pescator, ch’aperte scorge
le fauci allor dela cerulea bocca,
stende la destra,ahi temerario! e sporge
troppo a sì nobil furto incauta e sciocca,
però che come prima ella s’accorge
che man rapace il suo tesor le tocca,
comprimendo gelosa il proprio guscio,
dela casa d’argento appanna l’uscio.
38
Con tanta forza l’affilato dente
stringe in un punto la mordace conca,
che tanaglia o coltel forte e tagliente
men gagliardo e men ratto afferra o tronca.
Restan l’audaci dita immantenente
recise del meschin nela spelonca,
ben giusta pena alo sfrenato ardire
del troppo avaro e cupido desire.
39
Costei però, che n’arricchì l’arene,
tutte sa di tal pesca e l’arti e i modi,
e del pesce brancuto apprese ha bene
le scaltre insidie e l’ingegnose frodi,
quando il sasso tra’ nicchi a metter viene,
che son del’altrui viscere custodi,
onde passa securo entro la scorza
la sua nemica a divorar per forza.
40
Quindi suole avenir che la cocchiglia,
nel cui grembo si cria la margarita,
quando vede la man che già la piglia,
spesso il castor perseguitato imita,
e dela bianca sua lucida figlia,
che generata ha sì, non partorita,
fa prodiga a colei di cui ragiono
di spontaneo voler libero dono.
41
E se saver vuoi pur chi costei sia
ch’è destinta ad abitar quest’acque,
figlia fu d’Acheloo che ‘n compagnia
di due gemelle sue d’un parto nacque;
ma da fortuna ingiuriosa e ria
la coppia a lei congiunta oppressa giacque,
e ch’ella sol giungesse a queste sponde
fu grazia mia che signoreggio l’onde.
42
Gli altri duo del Tirren mostri guizzanti
eran di qualità simili a questo,
attrattivi negli atti e ne’ sembianti,
donne il petto e la faccia e coda il resto,
soavissimo rischio a’ naviganti,
doloroso piacer, scherzo funesto,
il cui cantar ne’ salsi ondosi regni
era morte a’ nocchier, naufragio a’ legni.
43
Ma poich’ogni arte lor vinse e deluse
di là passando il peregrin sagace,
quando con cera impenetrabil chiuse
le caute orecchie al’armonia tenace,
d’ira arrabbite e di dolor confuse
le disperse del mar l’onda rapace,
e, salvo questa che campò per sorte,
per disperazion si dier la morte.
44
Dele tre mezzo pesci e mezzo dive
quella che ‘n questo mar gittata venne
qui, come vedi, immortalmente vive:
ciò per pietà dal mio gran nume ottenne.
L’altre per vari lidi e varie rive
corser, né so ben dir ciò che n’avenne.
So ben ch’una di lor dal’onde spinta
presso Cuma e Pozzuol rimase estinta
45
e, trasportata a quella nobil sede,
miglior che ‘n vita in morta ebbe ventura,
perché de’ Calci il popolo le diede
il paradiso mio per sepoltura.
Dico il lieto paese, ove si vede
sì di sestessa innamorar Natura,
a cui cinto di colli il mar fa piazza,
ch’a Nettuno è teatro, a Bacco è tazza.
46
Dal’ossa dela vergine canora,
che ‘n quel terren celeste ebbe l’avello,
spirto di melodia pullula ancora,
quasi d’antico onor germe novello.
Più d’una lira vi si sente ognora,
e più d’un bianco mio musico augello;
e che sia vero, un de’ suoi figli ascolta,
a che dolce canzon la lingua ha sciolta. –
47
Volgesi a quella parte ond’esce il canto
Adone, e vede un pescator su ‘l lito:
di semplice duaggio ha gonna e manto,
ed ha di polpo un capperon sdruscito;
ampio cappel che si ripiega alquanto
gli adombra il crin, di sottil paglia ordito;
tiene a piè la cistella, in man la canna
con cui del’acque il popol muto inganna.
48
– Lilla (dicea) che sì fastosa e lieta
ognor ne vai del mio tormento acerbo,
deh! vienne al’ombra orché ‘l maggior pianeta
scalda il Leon feroce e ‘l Can superbo;
qua vienne, ove leggiadra e mansueta
un’anguilla domestica ti serbo
che di limo si nutre entro un forame
di questo scoglio e non ha spine o squame.
49
Più bel non vide o più vezzoso pesce
del Mincio mai la celebrata pesca.
Spesso qualora il mar si gonfia e cresce
salta dal fondo insu la riva fresca,
va per l’erba serpendo e tant’oltr’esce
che vien fin nel mio grembo a prender l’esca;
di fin or al’orecchie ha duo pendenti
e mi vomita in man perle lucenti.
50
Ha lunga coda e larga testa e grossa,
bocca aperta e viscosa ed ampie terga;
la schiena è di color tra bruna e rossa,
d’auree macchie smaltata a verga a verga;
si dibatte per l’acqua e per la fossa,
né pur in pace un sol momento alberga;
lubrica scorre, entra pertutto e guizza,
e se la tocca alcun tosto si drizza.
51
Tua sarà se l’accetti e se ti piace
deporre alquanto il dispietato orgoglio;
del tuo vivaio entro l’umor vivace
io di mia mano imprigionar la voglio.
O di quest’animal vie più fugace,
più dura al mio pregar di questo scoglio,
vienne a temprar deh! vienne un doppio ardore
e se ‘l pesce non vuoi prenditi il core.–
52
Chiede a Venere Adon chi sia colui
che sì ben col cantar l’aure lusinga.
– È de’ nostri (risponde) Amor di lui
non avrà mai chi più fort’arda o stringa.
Fileno ha nome, e dal’insidie altrui
è qui giunto a menar vita solinga.
Naque colà nela felice terra
che la morta sirena in grembo serra.
53
Ma se ti cal più oltre intender forse
di sue fortune, andianne ov’egli stassi. –
Così sen giro ed ei, quando s’accorse
ver lui drizzar la bella coppia i passi,
di cotanta beltà stupido sorse
per reverirla da que’ rozzi sassi;
ma con man gli accennò l’amica dea
che di là non partisse ove sedea.
54
– Per romper (dice) o per turbar non vegno
i tuoi dolci riposi o i bei lavori.
Sai ben che quando del mio patrio regno
prendesti in prima a celebrar gli onori,
io diedi forza al tuo affannato ingegno,
svegliandolo a cantar teneri amori,
onde il nome immortale ancor pertutto
serban di Lilla tua l’arena e ‘l flutto.
55
Del foco tuo con mormorio sonoro
farà ‘l mar dov’io nacqui eterna fede;
e come Apollo ti donò l’alloro
così l’alga Nettuno or ti concede.
Lodanti i muti pesci e tu di loro
fai dilettose e volontarie prede;
anzi con soavissime rapine
prendi l’anime umane e le divine.
56
Fortunato cantor, la nobil arte
quanto più gradirei del tuo concento,
se i diletti e i dolor spiegassi in carte
che per costui, non più sentiti, io sento;
per costui, ch’è di me la miglior parte,
amaro mio piacer, dolce tormento,
mezzo del’alma mia, vita mia vera,
anzi di questa vita anima intera.
57
Deh! tene prego, così ‘l ciel secondo
sempre e benigno a’ tuoi desir si mostri,
fa nel’età futura udire al mondo
la bella istoria degl’incendi nostri.
So che, se quest’ardor lieto e giocondo
sarà materia a’ tuoi vitali inchiostri,
passerà l’onda oscura e chiara fia,
non senza gloria tua, la fiamma mia.
58
Farò, se ciò farai, per te colei
languir per cui languisci, amante amata;
e quando il nodo onde legato sei
verrà poscia a troncar Parca spietata,
nel felice drappel de’ cigni miei
ti porrò, candid’ombra, alma beata,
dove l’Eternità che sempre vive
nel libro suo l’altrui memorie scrive.–
59
Risponde: – O degna dea dela beltate,
imperadrice d’ogni nobil petto,
canterò, scriverò, se voi mi date
vena corrispondente al bel suggetto.
Da voi viemmi lo stile e voi levate
sovra sestesso il debile intelletto,
poiché la cetra mia rauca e discorde
s’ha de’ lacci d’Amor fatte le corde.
60
Questo cor che si strugge a poco a poco
languendo di dolcissima ferita,
la mercé vostra, in ogni tempo e loco
sarà fonte d’amor più che di vita,
somministrando al suo celeste foco,
nele pene beato, esca infinita;
con tal piacer per la beltà ch’adoro
sperando vivo e sospirando moro.
61
Nacque nel nascer mio, né fia ch’estinto
manchi per volger d’anni ardor sì caro.
Quelle catene ond’io son preso e cinto
insieme con le fasce mi legaro.
Que’ lini istessi, in ch’io fui prima avinto,
la piaga del mio petto anco fasciaro;
lavato apena dal materno bagno,
fui lavato dal pianto onde mi lagno.
62
Amor fu mio maestro, appresi amando
a scriver poscia ed a cantar d’amore.
Di duo furori acceso arsi penando,
l’un mi scaldò la mente e l’altro il core,
l’uno insegnommi a lagrimar cantando,
l’altro a far le mie lagrime canore.
Amor fè con la doglia amaro il pianto,
Febo con l’armonia soave il canto.
63
Negar non voglio né negar poss’io
ch’ai dolci studi, agli onorati affanni
che rapiscono i nomi al cieco oblio
e fanno al tempo ingordo eterni inganni,
fatale elezzion l’animo mio
non inclinasse assai fin da’ prim’anni.
In qualunque martir grave e molesto
refugio unqua non ebbi altro che questo.
64
Ma da questa di vezzi arte nutrice
ecco le spoglie alfin ch’altri riporta,
ecco qual frutto vien di tal radice,
un guarnel di zigrin, l’amo e la sporta.
Trofei del nostro secolo infelice,
in cui di gloria ogni favilla è morta.
L’età del ferro è scorsa e sol di questa
la vilissima rugine ne resta.
65
Tempo fu ch’ai cultor de’ sacri rami
favorevoli fur molto i pianeti.
Or sol regnano in terra avare fami
e copia v’ha di principi indiscreti,
de’ quai s’alcuno è pur che ‘l canto n’ami,
ama le poesie, non i poeti;
né fia poca mercé quand’egli applaude
premiando talor laude con laude.
66
Di me non parlo e, se pur canto o scrivo,
d’Amor, non di Fortuna io mi lamento,
che non intutto di ricchezze è privo
chi trae la vita povero e contento.
In tale stato volentier mi vivo,
bastami sol che d’oro ho lo stromento.
Lo stromento ch’io suono, a quell’alloro
vedilo là sospeso, è di fin oro.
67
Ha di gigli dorati intorno i fregi
ed ha gemmato il manico e le chiavi,
dono ben degno del gran re de’ regi,
rege, amor de’ soggetti, onor degli avi.
Sì non indegni di cantar suoi pregi
fussero i versi miei poco soavi,
com’egli è tale infra gli eroi maggiori
qual è il suo giglio infra i più bassi fiori.
68
Ma questo è il men, senon che ‘l vulgo, a cui
fosco vel d’ignoranza i lumi appanna,
prendendo a scherno i bei sudori altrui,
nel conoscere il meglio erra e s’inganna,
e seben io tra que’ miglior non fui,
sovente chi più val biasma e condanna.
Miser, di colpì tali ognor fu segno
il mio battuto e travagliato ingegno!
69
Più d’una volta il genitor severo,
in cui d’oro bollian desiri ardenti,
stringendo il morso del paterno impero,
«studio inutil (mi disse) a che pur tenti?»
ed a forza piegò l’alto pensiero
a vender fole ai garruli clienti,
dettando a questi supplicanti e quelli
nel rauco foro i queruli libelli.
70
Ma perché pote in noi natura assai,
la lusinga del genio in me prevalse,
e, la toga deposta, altrui lasciai
parolette smaltir mendaci e false.
Né dubbi testi interpretar curai,
né discordi accordar chiose mi calse,
quella stimando sol perfetta legge
che de’ sensi sfrenati il fren corregge.
71
Legge omai più non v’ha, laqual per dritto
punisca il fallo o ricompensi il merto.
Sembra quanto è fin qui deciso e scritto
d’opinion confuse abisso incerto.
Dale calunnie il litigante afflitto
somiglia in vasto mar legno inesperto.
Reggono il tutto con affetto ingordo
passion cieca ed interesse sordo.
72
La rota eletta a terminar le liti
qual nova d’Ission rota si volve
e con giri perpetui ed infiniti
trattien l’altrui ragion né la risolve.
Pur que’ lunghi intervalli alfin spediti,
spesso il buon si condanna e ‘l reo s’assolve.
Del’oro, al cui guadagno è il mondo inteso,
la bilancia d’Astrea trabocca al peso.
73
Tennemi pur assai la patria bella
dentro i confin dele native soglie,
dico Napoli mia, che la sorella
dela sirena tua sepolta accoglie.
Ma perché l’uom nel’età sua novella
è pronto a variar pensieri e voglie,
vago desio mi spinse e mi dispose
a cercar nove terre e nove cose.
74
Mossemi ancor con falsi allettamenti
la persuasion dela speranza,
ed al sacro splendor degli ostri ardenti
mi trasse pien di giovenil baldanza,
sich’al’altrice dele chiare genti
chiesi mercé di riposata stanza,
credendo Amor vi soggiornasse come
par che prometta il suo fallace nome.
75
Parte colà de’ più liet’anni io spesi
e de’ colli famosi al’ombra vissi
e sotto stelle nobili e cortesi,
or l’altrui lodi or le mie pene scrissi;
stelle i cui raggi d’alta gloria accesi
vinceano i maggior lumi in cielo affissi,
ma l’influenze lor pertutto sparse
ad ogni altro benigne, a me fur scarse.
76
Vidi la corte e nela corte io vidi
promesse lunghe e guiderdoni avari,
favori ingiusti e patrocini infidi,
speranze dolci e pentimenti amari,
sorrisi traditor, vezzi omicidi
ed acquisti dubbiosi e danni chiari
e voti vani ed idoli bugiardi,
onde il male è securo e ‘l ben vien tardi.
77
Ma come può vero diletto? o come
vera quiete altrui donar la corte?
Le diè la cortesia del proprio nome
solo il principio, il fine ha dala morte.
Io volsi dunque, pria che cangiar chiome,
terra e cielo cangiar, per cangiar sorte.
Ma lung’ora però del loco, in cui
ricovrar mi devessi, in dubbio fui.
78
Sperai di tanti danni alcun ristoro
trovar là dove ogni valor soggiorna,
nela città che ‘l nome ebbe dal toro
sicome il fiume suo n’ebbe le corna.
Venni ala Dora che di fertil oro,
come il titol risona, i campi adorna.
Ma ‘n prigion dolorosa ove mi scorse,
lasso, che ‘n vece d’or ferro mi porse.
79
Di quel signor, che generoso e giusto
regna colà del’Alpi ale radici,
non mi dogl’io; così pur sempre augusto
goda, al valor devuti, anni felici.
Sol del destino accuso il torto ingiusto,
e ‘l finto amor de’ disleali amici,
per la cui sceleragine si vede
là dove nasce il Po morir la fede.
80
Venne sospinta da livor maligno
ancor quivi l’Invidia a saettarmi,
che sua ragion con scelerato ordigno
difender volse e disputar con l’armi
e rispondendo col fucil sanguigno
e col tuon dele palle al suon de’ carmi,
mosse l’ingiurie a vendicar non gravi
dele penne innocenti i ferri cavi.
81
M’assalse insidiosa e, com’avante
lingua vibrò di fiele e di veleno,
così poi vomitò foco sonante
per la bocca d’un fulmine terreno.
Con la canna forata e folgorante
tentò ferirmi e lacerarmi il seno,
come la fama mi trafisse e come
mi lacerò con le parole il nome.
82
Non meritava un lieve scherzo e vano
d’arguti risi e di faceti versi,
ch’altri devesse armar l’iniqua mano
di sì perfidi artigli e sì perversi
e scoccar contro me colpo villano,
ch’inerme il fianco ala percossa offersi.
Che non fa, che non osa ira e furore
d’animo desperato e traditore?
83
Pensò forse il fellon, quando m’offese,
per atto tal di migliorar ventura
e con la voce del ferrato arnese
d’acquistar grido appo l’età futura.
Sperò col lampo che la polve accese
di rischiarar la sua memoria oscura
e, fatto dala rabbia audace e forte,
si volse immortalar con la mia morte.
84
Girò l’infausta chiave e le sue strane
volgendo intorno e spaventose rote
abbassar fe’ la testa al fiero cane,
che ‘n bocca tien la formidabil cote,
siché toccò le machine inumane
ond’avampa il balen ch’altrui percote,
e con fragore orribile e rimbombo
aventò contro me globi di piombo.
85
Ma fusse pur del ciel grazia seconda
ch’innocenza e bontà sovente aita,
o pur virtù di quella sacra fronda
che da folgore mai non è ferita,
fra gli ozi di quest’antro e di quest’onda
fui riservato a più tranquilla vita.
Forse com’amator di sua bell’arte,
campommi Apollo da Vulcano e Marte.
86
Quindi l’Alpi varcando, il bel paese
giunsi a veder dela contrada franca,
dove i gran gigli d’oro ombra cortese
prestaro un tempo ala mia vita stanca.
La virtù vidi e la beltà francese;
v’abonda onor né cortesia vi manca.
Terren sì d’ogni ben ricco e fecondo
ch’i’ non so dir se sia provincia o mondo.
87
Ma però che ‘l furor suole in gran parte
di que’ petti guerrieri esser tiranno,
e le penne pacifiche e le carte
con aste e spade conversar non sanno,
e tra gli scoppi e i timpani di Marte
i concenti d’Amor voce noti hanno,
questo scoglio romito e questo lido
feci de’ miei pensier refugio e nido.
88
Qui mi vivo a mestesso e ‘n quest’arena
che cosa sia felicità comprendo,
e qui purgando la mia rozza vena,
da’ tuoi candidi cigni il canto apprendo,
con cui sfogar del cor la dolce pena
la pescatrice mia m’ode ridendo.
Vena povera certo ed infeconda,
ma schietta e natural com’è quest’onda.
89
Così vinto il rigor del fier destino,
con cui vera virtù sempre combatte,
di Pausilipo e Nisida e Pioppino
risarcisco le perdite ch’ho fatte.
Il puro stagno e ‘l bel fonte vicino,
le lor rive fiorite e l’onde intatte
son mia corte e mia reggia; altro non bramo
che l’erba e l’acqua e la cannuccia e l’amo.
90
Uom ch’anelante a vani acquisti aspira
e ‘n cose frali ogni suo studio ha messo,
fa qual turbo o paleo che mentre gira,
la sepoltura fabrica a sestesso
e, dopo molte rote, alfin si mira
aver al moto il precipizio appresso.
Che val tanto sudar, gente inquieta,
s’angusta fossa ale fatiche è meta?
91
Il meglio è dunque in questa vita breve
procacciar contro morte alcun riparo,
e poiché ‘l corpo incenerir pur deve,
rendere almeno il nome eterno e chiaro.
Chi da fortuna rea torto riceve
specchisi in me ch’a disprezzarla imparo.
Sol beato è chi gode in ore liete
tra modesti piacer bella quiete. –
92
– Virtù non men ch’amor di sé s’appaga
(dice la dea, ch’intenta il parlar ode)
sicome amor sol con amor si paga,
così virtù sol di virtù si gode.
Altro premio, altro prezzo ed altra paga
non richiede né vuol ch’onore e lode.
Ella è merce e mercé sola a sestessa. –
93
Così dicendo al bel fonte s’appressa.
Nel’isoletta un picciol pian ritondo
da siepe è cinto di fin oro eletto,
che col metallo prezioso e biondo
difende il praticel che vi fa letto.
E di germi odoriferi fecondo,
d’aromatiche piante havvi un boschetto
che fan con l’ombre lor frondose e spesse
il loco insuperbir di ricca messe.
94
Un Parnasetto d’immortal verdura
nel centro del pratel fa piazza ombrosa,
in mezzo al cui quadrangolo a misura
la pianta dela fabrica si posa.
Fermansi a contemplar l’alta struttura
la vaga e ‘l vago insu la sponda erbosa,
e van mirando i peregrini intagli
cui nulla è sotto il sole opra ch’agguagli.
95
Di terreno scultor scarpelli industri
formar non saprien mai sì bella fonte;
e ben fece molt’anni e molti lustri
ai tre giganti etnei sudar la fronte.
Nove di marmo fin figure illustri
cerchiano un sasso e ‘l sasso assembra un monte.
E quel monte ha due cime e ‘nsu le cime
alato corridor la zampa imprime.
96
Deh ! perdoniti il ciel sì grave fallo
per cui men caro il buon licor si tiene,
zoppo fabricator del bel cavallo
che ne venne ad aprir novo Ippocrene.
Bastar ben ti devea che ‘l suo cristallo
scaturisse Elicona in larghe vene,
senza far di quell’acque elette e rare
l’uso a pochi concesso, omai vulgare.
97
Quanti da indi in qua del nome indegni
poeti il chiaro studio han fatto vile?
Quanti con labra immonde audaci ingegni
vanno a contaminar l’onda gentile?
Non si turbi il bel coro e non si sdegni
se venale e plebeo divien lo stile,
poiché del mondo ogni contrada quasi
di Caballini abonda e di Parnasi.
98
È sì ben finto il zappador destriero,
ch’alo spuntar del giorno in oriente
i corsieri del sol credendol vero
ringhiando gli annitrirono sovente.
Piove dal sasso in un diluvio intero
la piena in pila concava e lucente;
e la pila ch’accoglie in sé la pioggia
dele Muse su gli omeri s’appoggia.
99
Ha lo stromento suo ciascuna Musa,
ed a ciascun stromento in ogni parte
l’onda canora in cavo piombo chiusa
per molte canne l’anima comparte.
Strangolata gorgoglia, indi diffusa
volge machine e rote ordite ad arte
e, con tenor di melodia mentita,
dela man, dela bocca il suono imita.
100
Sta sotto l’ombra dela cava pietra,
che sottogiace al volator Pegaso,
il bel signor dela cornuta cetra,
il gran rettor di Pindo e di Parnaso.
In testa il lauro, al fianco ha la faretra
e versa l’acqua in più capace vaso.
L’acqua, che d’alto vien lucida e tersa,
per l’armonico plettro ingiù riversa.
101
Intorno al labro spazioso e grande
dela conca che copre il re di Delo,
s’intesse il fonte da tutte le bande
di traslucido argento un sottil velo,
e ‘n tal guisa il suo giro allarga e spande
che vien quasi a formar coppa di gelo,
in guisa tal ch’a chi per ber s’appressa
tazza insieme e bevanda è l’acqua istessa.
102
Par che quel chiaro velo innargentato,
che di liquidi stami ordì Natura,
abbia l’Arte tessuto e lavorato
per guardar dala polve onda sì pura;
o sia per asciugar forse filato
l’acqua, che ‘n sostener quella scultura
le dee del tempo e del’oblio nemiche
stillan, quasi sudor dele fatiche.
103
Volgon le Muse l’una al’altra opposte
le spalle al fonte ed alo stagno il viso,
e ‘n diverse attitudini composte
fanno corona al’armentier d’Anfriso.
In piè levate e ‘n vago ordin disposte
grondan perle dal crin, brine dal viso,
e scalze e mezzo ignude accolte in cerchio
dela gran conca reggono il coverchio.
104
Dala conca più alta ala più bassa,
che ‘n baccino maggior l’acque ricetta,
dele bell’onde il precipizio passa,
laqual pur le riceve e le rigetta.
Nel cerchio inferior cader le lassa,
dove l’acqua divisa a bere alletta.
In quattro fonti piccioli è divisa,
ed ogni fonte ha la sua statua incisa.
105
Quattro le statue son; la Gloria in una,
la Fama in altra parte incise stanno;
la Virtù quindi e quinci la Fortuna
vaghi al vago lavor termini fanno;
e ‘n cima a tre scaglion posta ciascuna,
ch’agiato al’altrui sete adito danno,
l’acqua in vaso minor versa e ripone
per urna o per tromba o per cannone.
106
Chi può dir poi sicome scherza e ‘n quante
guise si varia la volubil vena?
Or per torto sentier serpendo errante
tesse di bei meandri ampia catena,
or con dirotta aspergine saltante
bagna lambendo il ciel l’aura serena;
e poiché quanto può s’inalza e poggia,
sparge l’accolto nembo in lieta pioggia.
107
Piovuta si ringorga e si nasconde
l’acqua, e ‘n cupo canal suppressa alquanto,
singhiozza sì che ‘l mormorio del’onde
sembra di rossignuol gemito e pianto.
Poi per secrete vie sboccando altronde,
esce con forza tal, con furor tanto,
che si disfiocca in argentata spuma
e somiglia a veder candida piuma.
108
Meraviglia talor, mentre s’estolle,
arco stampa nel ciel simili ad iri.
Trasformasi l’umor liquido e molle:
volto in raggi, in comete, in stelle il miri.
Miri qui sgorgar globi, eruttar bolle,
là girelle rotar con cento giri,
spuntar rampolli e pullular zampilli
e guizzi e spruzzi e pispinelli e spilli.
109
Nelo spazio, che l’orlo a cerchiar viene
tra cornice e cornice al maggior vase,
havvi un fregio di scudi, ilqual contiene
l’insegne in sé dele più chiare case
e di cigni scherzanti e di sirene
varie trecce ogni scudo ha nella base,
che distendendo van su i bianchi marmi
l’ali, e le code e fan cartiglio al’armi.
110
Posto è in tal guisa intorno ala bell’opra
l’ordin de l’armi più famose al mondo,
che dele Muse, che stan lor disopra,
reggon l’incarco, compartite in tondo.
Come l’una sostenga e l’altra copra,
son tra lor con bel cambio appoggio e pondo.
Ogni statua uno scudo ha sotto il piede
e in ogni scudo un simbolo si vede.
111
Per distinguer l’imprese il fabro egregio
del’ornamento nobile e sublime,
mischi di più color ma d’egual pregio
scelse e polì con ingegnose lime.
Talché d’ogni divisa il vario fregio
le differenze in color vario esprime
e con pietre diverse inun commesse
e scultura e pittura accoppia in esse.
112
– Vedi marmi colà vivi e spiranti
(disse al suo bell’Adon Venere allora)
son famiglie d’eroi, de’ cui sembianti
Virtù si pregia e Poesia s’onora.
Hanno molto a girar gli anni rotanti
pria ch’abbian vita e non son nati ancora.
Mosso Vulcan da spirito presago,
innanzi tempo n’adombrò l’imago.
113
Tu dei saver che sotto ‘l ciel, secondo
il giro di quel fuso adamantino
che la Necessità rivolge a tondo,
mossa però dal gran Motor divino,
la serie dele cose al basso mondo
muta immutabil sempre alto destino,
e fra queste vicende anco le lingue
l’una nasce di lor, l’altra s’estingue.
114
La dotta cetra argiva udrassi pria
su ‘l Cefiso spiegar melati accenti,
e trarre ala dolcissima armonia
del mare oriental sospesi i venti.
Privilegio fatal di questa fia
di sacre cose innebriar le menti,
sollevando ai secreti alti misteri
de’ numi eterni i nobili pensieri.
115
Moverà non men dolce il Tebro poi
su le corde latine il plettro d’oro,
onde da’ cigni miei ne’ poggi suoi
fia ripiantato il trionfale alloro.
Grave e ben atto a celebrar eroi
sarà del Lazio il pettine canoro,
ed a sonar con bellicosi carmi
di guerrieri e di luci imprese ed armi.
116
Succederà la tosca lira a queste,
di queste assai più dilicata e pura,
che di tutti gli onor s’adorna e veste
onde l’altre arricchiro Arte e Natura.
Intenerito dal cantar celeste
l’Arno al corso porrà freno e misura
e, da’ versi allettato e trattenuto,
porterà tardo al mare il suo tributo.
117
Questa, con vaghi metri e dolci note
e con numeri molli accolti in rima,
fia che per propria e singolar sua dote
meglio ch’altra non fa gli amori esprima.
Or ale tosche Muse, ancorché ignote,
fu il nobil fonte dedicato in prima;
né certo edificar si devean cose
nel paese d’Amor fuorch’amorose.
118
Ma perch’è ver che dele Muse afflitte
sono Invidia e Fortuna emule antiche,
uopo d’alte difese e d’armi invitte
avran contro sì perfide nemiche.
Le case dunque che qui son descritte
sosterran l’onorate altrui fatiche,
e questi fien tra’ principi più degni
che daran fida aita ai sacri ingegni
119
Beato mondo allor, mondo beato,
cui tanta amico ciel gloria destina,
beatissima Italia a cui fia dato
per costor risarcir l’alta ruina
e tornar trionfante al primo stato
dele provincie universal reina. –
Sì dice e dela schiera ivi scolpita
le generose imagini gli addita.
120
– Ferma (dicea) la vista in quella parte
dove il bianco corsier su ‘l rosso splende.
Questo, seben feroce il fiero Marte
ama, e foco guerrier nel petto accende,
talor d’Apollo a vie più placid’arte
inerme ancora e mansueto intende,
ond’aprendo la vena a novi fonti
fia che novo Pegaso il ciel sormonti.
121
Sappi che fra que’ mostri onde s’adorna
del sommo ciel la lucida testura,
oltre il Pegaso altro destrier soggiorna
adombrato però di luce oscura.
Pur di segno minor, maggior ritorna
sol per esser di questo ombra e figura;
e le sue fosche e tenebrose stelle
tempo verrà che saran chiare e belle.
122
Né speri alcun giamai con sprone o verga
domarlo a forza o maneggiarlo in corso,
con dura sella premergli le terga
o con tenace fren stringergli il morso.
Spirito in lui sì generoso alberga
ch’intolerante ha di vil soma il dorso.
Chi crede averlo o soggiogato o vinto
con fatal precipizio a terra è spinto.
123
Pur deposto talor l’impeto audace
ch’avrà di sangue ostil versati rivi,
chiuderà Giano ed aprirà la Pace
ed ai cipressi innesterà gli olivi.
Germoglieran dal cenere che giace
de’ cadaveri morti i lauri vivi
e diverran sol per lodarlo allora
l’Alpi Parnaso e Caballin la Dora.
124
Dal chiaro armento di Sassonia uscito
carco n’andrà di scettri e di diademi;
né pur la bella Italia al fier nitrito,
ma fia che l’Asia sbigottisca e tremi.
Poi di spoglie e trofei tutto arricchito
verrà dela mia Cipro ai lidi estremi.
Ma che? fiero destin, perfido trace... –
E qui scioglie un sospiro e pensa e tace.
125
– Tu vedi (segue poi) l’aquila bianca
che divide del’aria i campi immensi
e le nubi trascende e lieve e franca
su i propri vanni in maestà sostiensi.
Quella in opre d’onor giamai non stanca
l’insegna fia de’ gloriosi Estensi,
il cui volo magnanimo e reale
per vie dritte e sublimi aprirà l’ale.
126
Non tanto le verrà la bella insegna
per la divina origine d’Ettorre,
quanto perché con lei fia che convegna
l’inclita augella che viltate aborre.
Quella però ch’ogni bassezza sdegna
assai presso ale sfere il ciel trascorre;
questa dal vulgo allontanando i passi
non fia ch’a vil pensier l’animo abbassi.
127
Quella, la spoglia del’antiche piume
dentro puro ruscel ringiovenita,
di rinovar sestessa ha per costume
a molti e molti secoli di vita;
questa purgata entro ‘l Castalio fiume,
quasi fenice del bel rogo uscita,
verrà lire del tempo a curar poco,
fatta immortal dal’acque e non dal foco.
128
E come quella ognor con guardo fiso
avezzar ala luce i figli suole,
in quel modo ch’a’ rai del tuo bel viso
anch’io sempre mi volgo, o mio bel sole,
così da questa con accorto aviso
imparerà la generosa prole,
di Febo amica ed a’ suoi raggi intesa,
di celeste splendor mostrarsi accesa.
129
Ben s’agguaglian tra lor, senon che quella
i cigni d’oltraggiar prende diletto,
ma da questa ch’io dico aquila bella
avran gli augei canori esca e ricetto.
E s’altr’aquila in ciel conversa in stella
d’una cetera sola adorna il petto,
questa n’avrà fra l’altre in terra due
possenti ad eternar le glorie sue.
130
Vedi quell’altre poi quattro seguenti,
emule dela prima, aquile nere,
per accennar ch’a tutti quattro i venti
hanno il volo a spiegar del’ali altere.
A semplici colombe ed innocenti
non saran queste ingiuriose e fiere,
ma spirti avran di guerreggiar sol vaghi
con nibbi ed avoltoi, vipere e draghi.
131
Rapì cangiato in queste forme istesse
il mio gran genitor vago garzone,
benché, cred’io, se te veduto avesse,
preposto avrebbe a Ganimede Adone.
Ma se costume è naturale in esse
satollar di rapine il curvo unghione,
queste, pronte a donar, non a rapire,
sol di prede di cori avran desire.
132
Predice a queste l’indovina Manto
il favor tutto del’aonie dive;
per queste il Mincio con eterno vanto
popolate di cigni avrà le rive,
mormorando concorde al nobil canto
de’ suoi Gonzaghi le memorie vive,
che vivran sempre in più d’un stil facondo
e non morran finché non more il mondo.
133
Sotto l’ali di queste il maggior cigno
che darà vita al mio Troian pietoso,
da mollir, da spezzar duro macigno
formerà canto in ogni età famoso.
E già da queste ancor destro e benigno
giunto in Italia a procacciar riposo,
ebbe lo stesso Enea presagio e segno
di felice vittoria e lieto regno.
134
Mira quel tronco, a cui di fronde aurate
fanno pomposo il crin germi felici.
È la quercia d’Urbin, che ‘n altra etate
tali e tante aprirà rami e radici,
che, poich’avrà di spoglie assai pregiate
arricchiti di Roma i colli aprici,
in riva porterà del bel Metauro
con suoi frutti lucenti un secol d’auro.
135
Questa più ch’altra pianta irrigar l’onde
denno del fecondissimo Elicona.
Di questa Apollo ale sue chiome bionde
di lauro in vece intesserà corona.
Al mormorio dele soavi fronde
il suono invidiar potrà Dodona.
Avranno al’ombra sua tranquillo e fido
i miei candidi augei ricovro e nido.
136
La bella scorza, che seccar non pote
ardor d’estate né rigor di verno,
porterà al ciel con mille incise note
de’ suoi chiari cultori il nome eterno.
Il ceppo altier, che fulmine non scote,
prendendo d’aquilon l’ingiurie a scherno,
sempre maggiore acquisterà fermezza,
come fa nel mio cor la tua bellezza.
137
Or colà volgi gli occhi ai sei giacinti,
nel cui lieto ceruleo apunto miri
quell’azzurro sereno onde son tinti
dele tue luci i lucidi zaffiri.
Sì chiaro è quel color che gli ha dipinti,
che s’egli avien che ‘n essi il guardo giri,
non sa il pensier, che dubbio alterna ed erra,
dir se sien gigli in cielo o stelle in terra.
138
Gigli celesti e fortunati, o quale
seme d’alte speranze in voi s’accoglie.
Qual d’odori di gloria aura immortale
trarrà la Fama dale vostre foglie.
E quant’api da voi porteran l’ale
ricche di ricche e preziose spoglie,
onde illustre lavor fia poi costrutto
139
ch’empierà di dolcezza il mondo tutto.
Voi piantati e nutriti in que’ begli orti
dove non son da bruma i fiori offesi,
darete per sottrarle agli altrui torti
ale sante sorelle ombre cortesi.
Per voi non men magnanimi che forti
cresceran tanto in pregio i gran Farnesi
ch’a qual fiume più celebre e più chiaro
la palma usurperan la Parma e ‘l Taro.
140
Quella colonna, il cui candor lucente
del tuo seno assomiglia il bel candore,
sostegno fia dela virtù cadente,
stabil come la fede è nel mio core.
E se tra le colonne in occidente
la gran lampa del sol tramonta e more,
da questa, invitta e salda ad ogni crollo,
rinascerà con la sua luce Apollo.
141
Quante volte quand’io, folle ch’io m’era,
di Gradivo l’amor gradir solia,
«questa, diceami, la mia reggia altera,
questa de’ miei trionfi il trono fia.
Cesari e Mecenati in lunga schiera
per lei rinoverà la città mia,
né figli mai tra’ suoi famosi e chiari
la gran lupa latina avrà più cari».
142
L’altro scudo vicin, che per traverso
di tre strisce vermiglie il bianco inostra,
e di rose purpuree il campo terso,
simile al volto tuo, fregiato mostra,
di stirpe fia, splendor del’universo,
pompa del Tebro e meraviglia nostra,
a cui, come a miglior fra le migliori,
ben converrassi il fior degli altri fiori.
143
Fior che del sangue mio superbo vai,
fior, pupilla d’Amor, tesor di maggio,
tu de’ prati di Pindo onor sarai,
né dei d’ombra o di sol temere oltraggio.
Quella ch’onora il ciel romano e mai
non tuffa in torbid’onda il chiaro raggio,
de’ fregi tuoi, non più di stelle inteste
porterà le ghirlande, orsa celeste.
144
Ecco del gran tonante, ecco poi nero
un altro egregio imperiale augello.
Del Doria, a cui di Dori il salso impero
destinato è dal ciel, lo scudo è quello.
Fido ministro del gran Giove ibero
arderà, ferirà lo stuol rubello,
sicome tu con tuoi pungenti sguardi
i ritrosi d’Amor ferisci ed ardi.
145
Non ha questo a vibrar del cielo in terra
il tripartito folgore vermiglio,
ma del’altro infernal, che ‘n nova guerra
fia temprato di bronzo, armar l’artiglio.
Quanto il lembo del mar circonda e serra
tremerà tutto e correrà periglio.
Solo il verde arboscel, nonché ferito,
fia difeso da questo e custodito.
146
Dela progenie, ch’io ti conto e mostro,
aquila peregrina alzerà ‘l volo
che ‘mporporata del più lucid’ostro
le brune penne, andrà da polo a polo.
Progenie degna di famoso inchiostro,
del mondo onor, non di Liguria solo,
degna più ch’altra assai del favor mio,
che darà legge al mar dove nacqu’io.
147
Ma deh! pon mente ale purpuree palle,
di que’ Medici illustri arme sovrana,
per cui, se ‘l chiaro antiveder non falle,
le piaghe antiche ha da saldar Toscana.
Da fortuna battute, al ciel faralle
balzar virtù sovr’ogni gloria umana.
Con esse al giogo del’instabil sorte
vinceranno i lor duci invidia e morte.
148
Palle d’alto valor fulminatrici
onde tempesta uscir deve sì fatta,
che de’ rubelli esserciti nemici
fia ch’ogni forza, ogni riparo abbatta,
per cui non sol de’ barbari infelici
la superbia cadrà rotta e disfatta,
ma delo scoppio il gran rimbombo solo
tutto de’ vizi atterrirà lo stuolo.
149
Sono i bei globi simili ai celesti
e simulacri dele sfere eterne
e ben pari e conforme in quelle e ‘n questi,
tranne sol uno, il numero si scerne,
a dinotar ch’agli onorati gesti
tutte quante n’ha il ciel rote superne
volgeranno propizie amico lume,
solo escluso Saturno, infausto nume.
150
Fiorir l’arti più belle e rischiararsi
allor d’Arno vedrem le torbid’acque,
e risorger la luce e rinfrancarsi
del’italico onor ch’estinta giacque,
e molti ingegni a nobil volo alzarsi
su l’ali di colui che da me nacque,
e con chiari concenti addolcir l’aura
dietro ai cantor di Beatrice e Laura. –
151
E qui rapita ai secoli lontani
la bella Citerea la mente aperse,
onde l’istoria de’ successi umani
quasi in teatro al suo pensier s’offerse
e ne’ più cupi e più profondi arcani
del’età da venir tutta s’immerse.
– O qual (dicea) vegg’io, correndo i lustri,
nascer di ceppo tal germogli illustri.
152
Io veggio quinci dopo molto e molto
volger di ciel, girar di mesi e d’anni,
del secol tristo in tenebre sepolto
spuntare un sole a ristorare i danni,
sol ch’avrà sol di donna il sesso e ‘l volto,
ma ‘l cor sempre viril tra i regi affanni.
Ogni nobil virtù sol da costei
verrà che nasca o sorgerà per lei.
153
Non fia mai che di questa un più bel manto
alma copra più saggia o più pudica.
Ma dele lodi sue basti sol tanto,
uopo non è ch’io più di ciò ti dica,
che qual proprio ella siasi e come e quanto
vinca di pregio ogni memoria antica,
in parte ov’io condur ti voglio in breve,
esserne l’occhio tuo giudice deve.
154
Così gli dice ed ala bella il bello
le parole interrompe in tal maniera:
– Deh! dimmi, o fida mia, che scudo è quello
loqual posto non è con gli altri in schiera
ma nela base sta che fa scabello
al gran motor dela più chiara sfera?
In quell’azzur ch’al ciel par si somigli
che voglion dir que’ tre dorati gigli? –
155
– Dela casa di Francia è la divisa
e tal loco a ragion Vulcan le diede,
però ch’apunto a quella istessa guisa
fia di Febo (risponde) albergo e sede.
E sicome dal numero divisa
starsi sola in disparte ivi si vede,
così d’ogni valor ricca e possente
sen’andrà singolar dal’altra gente.
156
Ragion è ben che del’Italia aggiunga
questa sola straniera onore ai fregi,
ch’altra giamai, cui virtù scaldi e punga,
non fra ch’i cigni suoi cotanto appregi.
Troppo fora a contar la serie lunga
che n’uscirà de’ gloriosi regi,
e senz’annoverar sì folto stuolo
basta per tutti ad illustrarla un solo.
157
Come tutte nel cor raccolte sono
del’altre membra le virtuti insieme,
così tutta il signor di cui ragiono
raccorrà in sé de’ suoi l’unica speme.
Né men materia a qual più chiaro suono
darà da celebrar sue glorie estreme,
che premio a’ bei sudor, che i sacri monti
stillar vedran dale più dotte fonti.
158
Con man tenera ancor, legata e stretta
terrà Fortuna mobile e vagante,
siché resa a Virtù serva e soggetta
faralla a suo favor tornar costante.
E ‘l veglio alato, che con tanta fretta
fugge e fuggendo rompe anco il diamante,
perché gli onori suoi non sene porti,
con groppi stringerà tenaci e forti.
159
Oltre il buon zelo e la giustizia, a cui
dritto è che Gallia ogni speranza appoggi,
fia che tra’ gigli d’or sol per costui
dele Muse toscane il coro alloggi.
Il Tago e ‘l Gange irrigheran per lui
in vece del Castalio i sacri poggi,
onde per fecondar l’arido alloro
l’acque, ch’or son d’argento, allor fien d’oro.
160
Nasci nasci o Luigi, amica stella
quant’onor, quanto pregio a te promette.
Vibri pur quanto sa cruda e rubella
l’altrui perfidia in te lance e saette.
Taccio l’altre tue glorie, e passo a quella,
che le Muse da te non fian neglette.
De’ dolci studi e dela sacra schiera
te rettore e tutore il mondo spera.
161
Cresci cresci o Luigi, inclita prole
d’alme eccelse e reali e giuste e pie.
Il tuo gran nome ove l’altrui non suole
si spargerà per disusate vie;
e dove sorge e dove cade il sole,
e dove nasce e dove more il die
la Fama il porterà leggiera e scarca
e romperà le forbici ala Parca.
162
Tra molte e molte cetre, onde rimbomba
de’ tuoi vanti immortali il chiaro grido,
dal Sebeto traslata odo una tromba
dela tua Senna al fortunato lido.
Questa trar ti potrà d’oscura tomba
e darti infra le stelle eterno nido,
ch’empiendo il ciel d’infaticabil suono
sarà lira al concento e squilla al tuono.
163
E seben chi la suona e chi la tocca
sosterrà di fortuna oltraggi e scherni,
quando l’invidia altrui maligna e sciocca
fra che ‘n lui sparga i suoi veleni interni,
mentr’avrà spirto in petto e fiato in bocca
non però cesserà che non t’eterni,
di te narrando meraviglie tante
che ne suoni Parnaso e tremi Atlante.–
164
Allor Venere tace e dove folta
stendon la verde chioma allori e faggi
mille intorno al bel fonte e mille ascolta
poeti alati e musici selvaggi,
che con rime amorose a volta a volta
e con infaticabili passaggi
intrecciando sen van per la verdura
di lasciva armonia dolce mistura.
165
Il vago stuol de’ litiganti augelli
per riportar de’ primi onori il fasto
innanzi a Citerea tra gli arboscelli
cominciò gareggiando alto contrasto
e concenti formò sì novi e belli
ch’a pareggiargli io col mio stil non basto.
Giurò Venere istessa in ciel avezza
che le sfere non han tanta dolcezza.
166
O perch’assai piacesse a questa diva
il canto che ‘nsu ‘l fine è più sollenne,
o perché monda e di sozzure schiva
amasse il bel candor di quelle penne,
gregge di bianchi cigni ella nutriva
nel’isoletta ove quel giorno venne,
ch’ambiziosi allor dele sue lodi
a cantar si sfidaro in mille modi.
167
Infiniti da strani ermi confini
guerrier facondi e musici campioni
e domestici aprova e peregrini
vi concorsero insieme a far tenzoni.
Tra’ frondosi s’udir mirti vicini
vibrar accenti e saettar canzoni,
e dela pugna lor che fu concento,
fu steccato la selva e tromba il vento.
168
Vari di voce e nelo stil diversi,
tutti però delpar leggiadri e vaghi
e tutti ala gentil coppia conversi,
cantan com’Amor arda e come impiaghi.
Cantan molti il futuro e forman versi
del’opre altrui fatidici e presaghi,
che quel ch’ivi si bee furor divino
sveglia ne’ petti lor spirto indovino.
169
– Stiamo ad udir (la dea di Pafo disse)
degli alati cantor le dolci gare.
Tener l’orecchie attentamente affisse
si denno a quell’insolito cantare,
perché sì belle ed onorate risse
saranno in altra età famose e chiare.
Gli augelli autor di sì soavi canti
son di sacri poeti ombre volanti.
170
L’anime di costor, poiché disciolte
son da’ legami del corporeo velo,
passano in cigni, e che ‘n tal forma involte
vivan poi sempre ha stabilito il cielo.
E tra questi mirteti in pace accolte
le fa beate il gran rettor di Delo,
là dove ognor, sicome fer già quando
tenner corpo mortal, vivon cantando.
171
Molte ven’ha ch’ancor rinchiuse e strette
non son tra’ sensi,e queste pur son tali
a cantar qui per mia delizia elette
finché ‘n carcer terreno implichin l’ali. –
Adone il canto ad ascoltar si stette
di que’ felici spiriti immortali,
che già venian con voci in vece d’armi
nel verde agone al paragon de’ carmi.
172
Fu benigno favor, grazia cortese
di lei ch’è de’ suoi lumi unico sole,
e miracol del ciel ch’Adone intese
di quel linguaggio i sensi e le parole
e ben distinto ogni concetto apprese
espresso fuor dele canore gole.
Nela scola d’Amor che non s’apprende,
se ‘l parlar degli augelli anco s’intende?
173
Era tra questi augei l’ombra d’Orfeo,
che fè dei versi suoi seguace il bosco,
Pindaro v’era ed eravi Museo,
e Teocrito v’era e v’era Mosco.
Eravi Anacreonte, eravi Alceo
e Safo, alto splendor del secol fosco,
che non portò di quanti io qui ne scrivo
luce minore al’idioma argivo.
174
V’era lo stuol di que’ Latini primi
che ‘n amoroso stil meglio cantaro:
Gallo, Orazio, Catullo, alme sublimi,
Tibullo, Accio, Properzio e Tucca e Varo
ed Ovidio di cui non è chi stimi
ch’altro cigno d’Amor volasse al paro.
V’era la schiera poi de’ più moderni
del’italica lingua onori eterni.
175
E seben gli altri che le bianche piume
per le piagge spiegar di Roma e d’Argo
fur lor maestri, ond’ebber spirto e lume,
mercé ch’a quelli il ciel ne fu più largo,
questi, però che di Parnaso il nume
gli ha destinati a posseder quel margo,
cantano soli ala gran dea presenti,
tacciono gli altri ad ascoltare intenti.
176
Aristofane, tu ch’ornasti tanto
là ne’ greci teatri il socco d’oro,
tu, che d’interpretar ti desti vanto
il ragionar del popolo canoro,
e ‘n scena il novo inesplicabil canto
spiegar sapesti e le favelle loro,
tanta or dal biondo dio mercé m’impetra,
che distinguerlo insegni ala mia cetra.
177
Un vene fu, che sovra un verde lauro
fece col suo cantar l’aura immortale,
ed illustrò dal Battriano al Mauro
quel foco che d’Apollo il fè rivale,
dicendo pur ch’ale quadrella d’auro
cede la forza del fulmineo strale,
poiché nel’arbor sacra al ciel diletta,
dove Giove non pote, Amor saetta.
178
Altro, il cui volo pareggiar non lice,
ben su l’ali liggier, tre mondi canta,
e la beltà beata e Beatrice
che da terra il rapisce essalta e vanta.
Un suo vicin con stil non men felice
seco s’accorda in una istessa pianta,
perché Certaldo ammiri e ‘l mondo scerna
la sua fiamma e la fama a un punto eterna.
179
Havvi poi d’Adria ancor canoro mostro,
purpureo cigno e nobile e gentile,
che la lingua ha di latte e ‘l manto d’ostro,
rossa la piuma e candido lo stile.
Apre non lunge augel d’Etruria il rostro,
salvo il capo ch’è verde, a lui simile,
appellando il suo amor su ‘l verde stelo
scoglio in mar, selce in terra, angelo in cielo.
180
Accompagna costor soavemente
il sonator dela sincera avena,
che le Muse calar fece sovente
di Mergellina ala nativa arena.
Le cui dolci seguir note si sente
anco un altro figliuol dela sirena
che con qual arte i rami a spogliar vegna
lo sfrondator dela vendemmia insegna.
181
Donne insieme ed eroi, guerre ed amori
quel che nacque insu ‘l Po’ cantar s’udia,
immortalando di Ruggier gli onori
con pura vena e semplice armonia;
e di dolcezza innebriava i cori,
i circostanti tronchi inteneria.
Arder facea d’amor le pietre e l’onde,
sospirar l’aure e lagrimar le fronde.
182
Testor di rime eccelse e numerose
di Partenope un figlio a lui successe,
e prese a celebrar l’armi pietose,
liberatrici dele mura oppresse
e i suoi pensier sì vivamente espose,
i versi suoi sì nobilmente espresse,
che fe’ del nome di Goffredo e Guelfo
sonar Cipro non sol, ma Delo e Delfo.
183
Né tu con voce men gradita e cara
favoleggiando il canto tuo sciogliesti,
dico a te, che di gloria oggi sì chiara
il tuo fido pastore adorni e vesti.
Seguir voleano, e dela nobil gara
dubbia ancor la vittoria era tra questi,
quand’ecco fuor d’un cavernoso tufo
sbucar difforme e rabbuffato un gufo.
184
– O quanto o quanto meglio, infame augello,
ritorneresti al infelici grotte,
nunzio d’infausti auguri, al sol rubello,
e del’ombre compagno e dela notte.
Non disturbar l’angelico drappello,
vanne tra cave piante e mura rotte
a celar quella tua fronte cornuta,
quegli occhi biechi e quella barba irsuta.
185
Da qual profonda e tenebrosa buca,
nottula temeraria, al giorno uscisti?
Torna là dove sol mai non riluca
tra foschi orrori e lagrimosi e tristi.
Tu trionfi cantar d’invitto duca?
tu di mondi novelli eccelsi acquisti?
tu, del’Invidia rea figlio maligno,
di pipistrel vuoi trasformarti in cigno? –
186
Così parla al’augel malvagio e brutto
la dea, sdegnando un stil sì rauco udire,
e i chiari onor del domator del flutto,
dov’ella ebbe il natal, tanto avilire.
Spiace de’ cigni al concistoro tutto
la villana sciocchezza e ‘l folle ardire,
che l’alte lodi ad abbassar si metta
del colombo a lei sacro una civetta.
187
Mentre a garrir s’appresta, acconcio in atto
che dela nobil turba il gioco accresce,
e scote l’ali e in un medesmo tratto
gli urli tra’ canti ambizioso ei mesce,
loquacissima pica il contrafatto
uccellato uccellone a sfidar esce,
e con strilli importuni in rozzi carmi
dassi anch’ella a gracchiar d’amori e d’armi.
188
Ma che? non prima a balbettar si mise
quel suo, canto non già, strepito e strido,
ch’alto levossi in mille e mille guise
infra i volanti ascoltatori un grido,
ed empiè sì, che Citerea ne rise,
quasi di festa popolare il lido.
Tacque alfine e fuggi non senza rischio,
del vulgo degli augei favola e fischio.
189
– Non è gran fatto che l’audacia stolta
di questa gazza che sì mal borbotta,
l’adunanza gentil ch’è qui raccolta
(disse Venere bella) abbia interrotta.
Già volse in altra forma un’altra volta
con la schiera pugnar famosa e dotta,
ma con l’altre Pieridi confuse,
vergogna accrebbe a sé, gloria ale Muse. –
190
Amor che vede di quel canto lieto
la madre intesa ala piacevol guerra,
volando intanto ove ‘l vicin mirteto
insidiosa chiave asconde e serra,
volge anelletto picciolo e secreto
e con gagliardo piè batte la terra;
ed ecco d’acqua un repentino velo
che fa pelago al suolo e nube al cielo.
191
Apena il piede il pavimento tocca
e l’ordigno volubile si move,
che ‘l fonte traditor subito scocca
saette d’acqua inaspettate e nove,
e prorompe in più scherzi e mentre fiocca
tempesta par, quand’è sereno e piove.
Spicciano l’onde ed aventate in alto
movono a chi nol sa furtivo assalto.
192
Come qualora a Roma il sesto giorno
del suo sommo pastor riporta l’anno,
le fusette volanti a mille intorno
col fermamento a gareggiar sen vanno,
ma ne riedon poi vinte, e nel ritorno
lucido precipizio a terra fanno,
e fanno le cadenti auree fiammelle
un diluvio di folgori e di stelle;
193
così ‘l bel fonte in più fonti si sparse,
senon quanto diverso è l’elemento.
Questo gioco bagnò, quel talor arse,
e l’una pioggia è d’or, l’altra d’argento.
Alcun non sa di lor come guardarse
da quel furor ch’assale a tradimento.
Altrui persegue e quanto più lo schiva,
dov’uom crede salvarsi ivi l’arriva.
194
Ahi crudo Amor, versar fontane e fiumi
arte non è che tu pur ora impari,
avezzo già per soliti costumi
le tue fiamme a spruzzar d’umori amari.
E non ti basta ognor da’ nostri lumi
lagrimosi stillar ruscelli e mari,
ma spesso vuoi che gl’infelici amanti
spargano il sangue ove son scarsi i pianti.
195
Fugge la dea di mille rivi e mille
bagnata il sen col suo bei foco in braccio.
– E queste (dice a lui) gelide stille,
che m’han tutta di fuor sparsa di ghiaccio,
tosto rasciugherò con le faville
di que’ sospiri ond’io per te mi sfaccio. –
Va poi seco in disparte e così, lassa,
in penoso piacer l’ore trapassa.
196
Già tramontar volea la maggior stella
e del giorno avanzava ancora poco,
quando col bell’Adon Venere bella
partì da quel delizioso loco.
– Doman, dolce mio ben (gli soggiuns’ella)
ai primi lampi del diurno foco
ne verrai meco a visitare insieme
de’ regni miei le meraviglie estreme.
197
E ‘l mio carro immortal vo’ che ti porti
su i sereni del ciel campi lucenti,
a più vaghi giardini, a più begli orti,
dove in vece di fiori ha stelle ardenti.
Magion d’incorrottibili diporti,
patria beata dele liete genti,
non deve a te mia gloria essere ascosa
che degna è ben del ciel celeste cosa.
198
Quivi data per me ti fia licenza
di contemplar con mortal’occhi impuri
quante d’alta beltà somma eccellenza
donne avran mai ne’ secoli futuri.
Benché m’ingombri il cor qualche temenza
e vo’ che la tua fè men’assecuri,
non alcuna di lor, mentre la miri,
a me ti tolga ed al suo amor ti tiri. –
199
Seben la dea d’amor così dicea,
non n’era la cagion solo il diletto,
ma perché desviarlo indi volea,
non senza aver di Marte alto sospetto,
sapendo ben, che la sua stella rea
il risguardava con maligno aspetto,
e temea non le fusse al’improviso
dentro le braccia un dì colto ed ucciso.
200
Sorgea la notte intanto e l’ombre nere
portava intorno e i pigri sogni in seno.
Del’immortali sue lucenti fere
tutto il campo celeste era già pieno
e di quelle stellanti e vaghe schiere
per le piagge del ciel puro e sereno
la cacciatrice dea che fugge il giorno
l’orme seguia con argentato corno.
LE MERAVIGLIE

ALLEGORIA

Che Adone sotto la condotta di Mercurio e di Venere saglia in cielo, ci disegna che con la favorevole costellazione di questi due pianeti può l’intelletto umano sollevarsi alle più alte specolazioni eziandio delle cose celesti. La grotta della Natura, posta nel cielo della luna, con tutte l’altre circostanze, allude all’antica opinione che stimava in quel cerchio ritrovarsi l’idee di tutte le cose; ed essendo ella così prossima al mondo elementare, madre della umidità e concorrente insieme col sole alla generazione, meritamente le si attribuisce la giuridizione sopra le cose naturali. L’isola de’ sogni, che nel medesimo luogo si finge, esprime il dominio e la forza che ha quel pianeta sopra l’ombre notturne e sopra il cerebro umano. La casa dell’Arte, situata nella sfera di Mercurio, lo studio delle varie scienze, la biblioteca de’ libri segnalati, l’officina de’ primi inventori delle cose, il mappamondo, dove si scorgono tutti gli accidenti dell’universo ed in particolare le moderne guerre della Francia e della Italia, sono per darci ad intendere la qualità di quella stella, potentissima, quando è ben disposta, ad inclinare gli uomini alla virtù e ad operare effetti mirabili in coloro che sotto le nascono.

ARGOMENTO

Di sfera in sfera colassù salita
Venere con Adone in ciel sen viene,
a cui Mercurio poi quanto contiene
il maggior mondo in picciol mondo addita.

1
Musa, tu che dal ciel per torti calli
infaticabilmente il corso roti
e, mentre de’ volubili cristalli
qual veloce e qual pigro accordi i moti,
con armonico piede in lieti balli
del’Olimpo stellante il suol percoti,
onde di quel concento il suon si forma
ch’è del nostro cantar misura e norma,
2
tu, divina virtù, mente immortale,
scorgi l’audace ingegno, Urania saggia,
ch’oltre i propri confin si leva e sale
a spaziar per la celeste piaggia.
Aura di tuo favor mi regga l’ale
per sì alto sentier, sich’io non caggia;
movi la penna mia, tu che ‘l ciel movi
e detta a novo stil concetti novi.
3
Tifi primier per l’acque alzò l’antenne,
con la cetra sotterra Orfeo discese,
spiegò per l’aure Dedalo le penne,
Prometeo al cerchio ardente il volo stese.
Ben conforme al’ardir la pena venne
per così stolte e temerarie imprese;
ma più troppo ha di rischio e di spavento
la strada inaccessibile ch’io tento.
4
Tento insolite vie dal nostro senso
e dal nostro intelletto assai lontane,
onde, qualor di sollevarvi io penso
o di questo o di quel le voglie insane,
quasi debil potenzia a lume immenso
ch’abbaccinata in cecità rimane,
l’uno abbagliato e l’altro infermo e zoppo
si stanca al sommo e si confonde al troppo.
5
E se pur che nol vinca e nol soverchi
l’infinito splendor talvolta aviene
e che ‘l pensier vi poggi e che ricerchi
del non trito camin le vie serene,
imaginando que’ superni cerchi
non sa senon trovar forme terrene.
So ben che senza te toccar si vieta
a sì tardo cursor sì eccelsa meta.
6
Tu, che di Beatrice il dotto amante
già rapisti lassù di scanno in scanno
e ‘l felice scrittor, che d’Agramante
immortalò l’alta ruina e ‘l danno,
guidasti sì che sul destrier volante
seppe condurvi il paladin brittanno,
passar per grazia or anco a me concedi
del tuo gran tempio ale secrete sedi.
7
Già per gli ampi del ciel spazi sereni
dinanzi al sol lucifero fuggiva
e quei scotendo i suoi gemmati freni
l’uscio purpureo al novo giorno apriva;
fendean le nebbie a guisa di baleni
anelando i destrier di fiamma viva
e vedeansi pian pian nel venir loro
ceder l’ombre notturne ai frati d’oro.
8
Dale stalle di Cipro, ove si pasce
gran famiglia d’augei semplici e molli,
sei ne scelse in tre coppie e in auree fasce
al timon del bel carro Amor legolli.
Torcer lor vedi incontr’al dì che nasce
le vezzose cervici e i vaghi colli
e le smaltate e colorite gole
tutte abbellirsi e variarsi al sole.
9
Vengon gemendo e con giocondi passi
movon citati al bel viaggio il piede,
al bel viaggio ov’apprestando vassi
Venere con colui che ‘l cor le diede;
al governo del fren Mercurio stassi
e del corso sublime arbitro siede;
sovra la principal poppa lunata
posa la bella coppia innamorata.
10
Sciolser d’un lancio le colombe a volo,
legate al giogo d’or, l’ali d’argento;
s’apriro i cieli e serenossi il polo,
sparver le nubi ed acquetossi il vento;
di canori augelletti un lunga stuolo
le secondò con musico concento
e sparser mille passere lascive
di garriti d’amor voci festive.
11
Quelle innocenti e candide angelette
da’ cui rostri s’apprende amore e pace
non temon già, d’Amor ministre elette,
lo smerlo ingordo o ‘l peregrin rapace;
con lor l’aquila scherza, altre saette
nel cor che nel’artiglio aver le piace;
i più fieri dintorno augei grifagni
son di nemici lor fatti compagni.
12
Precorre e segue il carro ampia falange,
parte il circonda, di valletti arcieri;
ed altri a consolar l’Alba che piange
col venir dela dea, volan leggieri;
altri al sol, che rotando esce di Gange,
perché sgombri la via van messaggieri;
ciascuno il primo ale fugaci stelle
procura annunziar l’alte novelle.
13
– O tu che ‘n novo e disusato modo
saggia scorta mi guidi a quel gran regno
(disse a Mercurio Adone) ove non odo
ch’altri di pervenir fusse mai degno,
pria ch’io giunga lassù, solvimi un nodo
che forte implica il mio dubbioso ingegno:
è fors’egli corporeo ancora il cielo,
poiché può ricettar corporeo velo?
14
Se corpo ha il ciel, dunque materia tiene;
s’egli è material, dunque è composto;
se composto me ‘l dai, ne segue bene
ch’è de’ contrari ale discordie esposto;
se soggiace a’ contrari, ancor conviene
ch’ala corrozzion sia sottoposto;
e pur, del ciel parlando, udito ho sempre
ch’egli abbia incorrottibili le tempre. –
15
Tace e ‘n tal suono ai detti apre la via
il dotto timonier del carro aurato:
– Negar non vo’ che corpo il ciel non sia
di palpabil materia edificato,
ché far col moto suo quell’armonia
non potrebbe ch’ei fa mentr’è girato;
è tutto corporal ciò che si move
e ciò ch’ha il quale e ‘l quanto, il donde e ‘l dove.
16
Ma sappi che non sempre è da natura
la materia a tal fin temprata e mista
perch’abbia a generar cotal mistura
quelche perde mutando in quelch’acquista,
ma perché quantità prenda e figura
e del corpo ala forma ella sussista
né di material quanto è prodotto
dee necessariamente esser corrotto.
17
Materia dar questa materia suole
al discorso mortal, che sovent’erra:
chi fabricata la celeste mole
di foco e fumo tien, chi d’acqua e terra;
s’arrivassero al ver sì fatte fole,
sarebbe quivi una perpetua guerra.
Così, di quelche l’uom non sa vedere,
favoleggiando va mille chimere.
18
La materia del ciel, seben sublima
sovra l’altre il suo grado in eminenza,
non però dala vostra altra si stima:
nulla tra gl’individui ha differenza.
Ogni materia parte è dela prima,
sol la forma si varia e non l’essenza;
varietà tra le sue parti appare
secondo ch’elle son più dense o rare.
19
Bastiti di saver che peregrina
impressione in sé mai non riceve
la perfetta natura adamantina
di quel corpo lassù lubrico e lieve;
paragonarsi, ancorché pura e fina,
qualità d’elemento a lei non deve:
un fiore scelto, una sostanza quinta,
da cui di pregio ogni materia è vinta.
20
La sua figura è circolare e tonda,
periferia continua e senza punto;
termin non ha, ma spazio egual circonda,
il principio col fin sempre ha congiunto;
linea ch’apien d’ogni eccellenza abonda,
ala divinità simile apunto,
e la divina eternitate imita,
perpetua, indissolubile, infinita.
21
Or, a questa del ciel materia eterna
l’anima che l’informa è sempre unita;
questa è quella virtù santa e superna,
spirto che le dà moto e le dà vita;
senza lei, che la volge e la governa
fora sua nobiltà troppo avilita;
miglior foran del ciel le pietre istesse
se la forma motrice ei non avesse.
22
Questa, con lena ognor possente e franca
dela machina sua reggendo il pondo,
le rote mai di moderar non manca
di quel grand’oriuol che gira a tondo;
per questa, in guisa tal che non si stanca,
l’organo immenso ond’ha misura il mondo,
con sonora vertigine si volve
né si discorda mai né si dissolve. –
23
Così dicea di Giove il messaggiero,
né lasciava d’andar perch’ei parlasse.
De’ campi intanto, ov’ha Giunone impero
lasciate avea le region più basse
e già verso il più attivo e più leggiero
elemento drizzava il lucid’asse,
la cui sfera immortal mai sempre accesa
passò senza periglio e senz’offesa.
24
Varcato il puro ed innocente foco
ch’ala gelida dea la faccia asciuga,
l’etra sormonta ed a più nobil loco
già presso al primo ciel prende la fuga
e ‘l suo lume incontrando a poco a poco
che par specchio ben terso e senza ruga,
in queste note il favellar distingue
il maestro del’arti e dele lingue:
25
– Adon, so che saver di questo giro
brami i secreti, ove siam quasi ascesi,
con tanta attenzion mirar ti miro
nel volto dela dea madre de’ mesi;
ché, seben tu mi taci il tuo desiro
e la dimanda tua non mi palesi,
ti veggio in fronte ogni pensier dipinto
più che se per parlar fusse distinto.
26
Questo, a cui siam vicini, è dela luna
l’orbe che ‘mbianca il ciel con suoi splendori,
candida guida dela notte bruna,
occhio de’ ciechi e tenebrosi orrori;
genera le rugiade, i nembi aduna
ed è ministra de’ fecondi umori;
dagli altrui raggi illuminata splende,
dal sol toglie la luce, al sol la rende.
27
Di questo corpo la grandezza vera
minor sempre è del sol, né mai l’adombra,
ché dela terra a misurarla intera
la trentesima parte apena ingombra;
ma se s’accosta ala terrena sfera,
egual gli sembra e gli può far qualch’ombra;
sol per un sol momento allor si vede
vincer il sol, d’ogni altro tempo cede.
28
Ha varie forme e molti aspetti e molti,
or è tonda, or bicorne, or piena, or scema
e sempre tien nel sol gli occhi rivolti
che la percote dala parte estrema,
onde sempre almen può l’un de’ duo volti
partecipar di sua beltà suprema;
fa ciascun mese il suo periodo intero
e, circondando il ciel, cangia emispero.
29
Perché s’appressa a voi più che gli altri orbi,
suol sovra i vostri corpi aver gran forza;
donna è de’ sensi e dea di mali e morbi,
ella sol gli produce, ella gli ammorza.
Quanto, o padre Ocean, nel grembo assorbi,
quanto in te vive sotto dura scorza
e ‘l moto istesso tuo, cangiando usanza,
altera al moto suo stato e sembianza.
30
Il frutto e ‘l fior, la pianta e la radice,
il mare, il fonte, il fiume e l’onda e ‘l pesce
prendon da questa ogni virtù motrice
e ‘l moto ancor quand’ella manca o cresce;
del cerebro ella è sol governatrice,
di quanto il ventre chiude e quanto n’esce
e tutto ciò che ‘n sé parte ritiene
d’umida qualità, con lei conviene.
31
Cosa, non dico sol Saturno o Giove
nel mondo inferior propizia o fella,
ma qual’altra o che posa o che si move,
stabil non versa o vagabonda stella,
che non passi per lei; quante il ciel piove
influenze laggiù, scendon per quella,
per quella chiara lampada d’argento
ch’è del’ombre notturne alto ornamento.
32
Onde s’avien che giri il bel sembiante
collocato e disposto in buono aspetto,
ancorché variabile e vagante,
partorisce talor felice effetto.
Ma fortuna non mai fuorché incostante
speri chiunque a lei nasce soggetto,
che con perpetuo error fia che lo spinga
fuor di patria a menar vita raminga. –
33
Con più diffuso ancor lungo sermone
il fisico divin volea seguire,
quando a mezzo il discorso il bel garzone
la favella gli tronca e prende a dire:
– D’una cosa a spiar l’alta cagione
caldo mi move e fervido desire,
cosa, che daché pria l’occhio la scorse
sempre ha la mente mia tenuta in forse.
34
D’alcune ombrose macchie impressa io veggio
dela triforme dea la guancia pura;
dimmi il perché; tra mille dubbi ondeggio,
né so trovarne opinion secura.
Qual immondo contagio, i’ ti richeggio,
di brutte stampe il vago volto oscura? –
Così ragiona; e l’altro un’altra volta
la parola ripiglia e dice: – Ascolta,
35
poiché cotanto addentro intender vuoi,
al bel quesito sodisfar prometto;
ma di ciò la ragion ti dirà poi
l’occhio vie meglio assai che l’intelletto.
Non mancan già filosofi tra voi
che notato hanno in lei questo difetto;
studia ciascun d’investigarlo aprova,
ma chi s’apponga al ver raro si trova.
36
Afferma alcun che d’altra cosa densa
sia tra febo e febea corpo framesso,
laqual delo splendor ch’ei le dispensa
in parte ad occupar venga il reflesso.
Ilche se fusse pur, com’altri pensa,
non sempre il volto suo fora l’istesso,
né sempre la vedria chi ‘n lei s’affisa
in un loco macchiata e d’una guisa.
37
Havvi chi crede che, per esser tanto
Cinzia vicina agli elementi vostri,
dela natura elementare alquanto
convien pur che partecipe si mostri.
Così la gloria immacolata e ‘l vanto
cerca contaminar de’ regni nostri,
come cosa del ciel sincera e schietta
possa di vil mistura essere infetta.
38
Altri vi fu ch’esser quel globo disse
quasi opaco cristal che ‘l piombo ha dietro
e che col suo reverbero venisse
l’ombra dele montagne a farlo tetro.
Ma qual sì terso mai fu che ferisse
per cotanta distanza acciaio o vetro?
e qual vista cerviera in specchio giunge
l’imagini a mirar così da lunge?
39
Egli è dunque da dir che più secreta
colà s’asconda ed esplorata invano
altra cagion, che penetrar si vieta
al’ardimento del’ingegno umano.
Or io ti fo saver che quel pianeta
non è, com’altri vuol, polito e piano,
ma ne’ recessi suoi profondi e cupi
ha, non men che la terra, e valli e rupi.
40
La superficie sua mal conosciuta
dico ch’è pur come la terra istessa,
aspra, ineguale e tumida e scrignuta,
concava in parte, in parte ancor convessa.
Quivi veder potrai, ma la veduta
nol può raffigurar se non s’appressa,
altri mari, altri fiumi ed altri fonti
città, regni, province e piani e monti.
41
E questo è quel che fa laggiù parere
nel bel viso di Trivia i segni foschi,
bench’altre macchie, ch’or non puoi vedere,
vo’ ch’entro ancor vi scorga e vi conoschi,
che son più spesse e più minute e nere
e son pur scogli e colli e campi e boschi;
son nel più puro dele bianche gote,
ma da terra affisarle occhio non pote.
42
Tempo verrà che senza impedimento
queste sue note ancor fien note e chiare,
mercé d’un ammirabile stromento
per cui ciò ch’è lontan vicino appare
e, con un occhio chiuso e l’altro intento
specolando ciascun l’orbe lunare,
scorciar potrà lunghissimi intervalli
per un picciol cannone e duo cristalli.
43
Del telescopio, a questa etate ignoto,
per te fia, Galileo, l’opra composta,
l’opra ch’al senso altrui, benché remoto,
fatto molto maggior l’oggetto accosta.
Tu, solo osservator d’ogni suo moto
e di qualunque ha in lei parte nascosta,
potrai, senza che vel nulla ne’ chiuda,
novello Endimion, mirarla ignuda.
44
E col medesmo occhial, non solo in lei
vedrai dapresso ogni atomo distinto,
ma Giove ancor, sotto gli auspici miei,
scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
onde lassù del’Arno i semidei
il nome lasceran sculto e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allor fra giusto
e dal Medici tuo sia vinto Augusto.
45
Aprendo il sen del’ocean profondo,
ma non senza periglio e senza guerra,
il ligure argonauta al basso mondo
scoprirà novo cielo e nova terra.
Tu del ciel, non del mar Tifi secondo,
quanto gira spiando e quanto serra
senza alcun rischio, ad ogni gente ascose
scoprirai nove luci e nove cose.
46
Ben dei tu molto al ciel, che ti discopra
l’invenzion del’organo celeste,
ma vie più ‘l cielo ala tua nobil opra,
che le bellezze sue fa manifeste.
Degna è l’imagin tua che sia là sopra
tra i lumi accolta, onde si fregia e veste
e dele tue lunette il vetro frale
tra gli eterni zaffir resti immortale.
47
Non prima no che dele stelle istesse
estingua il cielo i luminosi rai
esser dee lo splendor, ch’al crin ti tesse
onorata corona, estinto mai.
Chiara la gloria tua vivrà con esse
e tu per fama in lor chiaro vivrai
e con lingue di luce ardenti e belle
favelleran di te sempre le stelle. –
48
Non avea ben quel ragionar fornito
il secretario de’ celesti numi,
quando il carro immortal vide salito
sovra il lume minor de’ duo gran lumi.
Trovossi Adone in altro mondo uscito,
in altri prati, in altri boschi e fiumi.
Quindi arrivò per non segnato calle
presso un speco riposto in chiusa valle.
49
Circonda la spelonca erma e remota
verdeggiante le squame angue custode,
angue ch’attorce in flessuosa rota
sue parti estreme e semedesmo rode.
Donna canuta il crin, crespa la gota,
del cui sembiante il ciel s’allegra e gode,
del’antro venerabile e divino
siede su’l limitare adamantino.
50
Pendonle ognor da queste membra e quelle
mille pargoleggiando alme volanti
e tutta piena intorno è di mammelle
ond’allattando va turba d’infanti.
Misurator de’ cieli e dele stelle
e cancellier de’ suoi decreti santi,
le leggi, al cui sol cenno il tutto vive,
ne’ gran fasti del fato un veglio scrive.
51
Calvo è il veglio e rugoso e spande al petto
dela barba prolissa il bianco pelo;
severo in vista e di robusto aspetto
e grande sì che quasi adombra il cielo;
è tutto ignudo e senza vesta, eccetto
quanto il ricopre un variabil velo;
agil sembra nel corso, ha i piè calzati
ed, a guisa d’augel, gli omeri alati.
52
Tien divisa in duo vetri insu la schiena
lucida ampolla, onde traspar di fore
sempre agitata e prigioniera arena,
nunzia verace dele rapid’ore;
a filo a filo per angusta vena
trapassa e riede al suo continuo errore
e, mentre ognor si volge e sorge e cade,
segna gli spazi del’umana etade.
53
Di servi e serve ad ubbidirgli avezza
moltitudine intorno ha reverente,
di quella maestà che ‘l tutto sprezza
provida essecutrice e diligente.
Mostrava Adon desio d’aver contezza
qual si fusse quel loco e quella gente,
onde così di que’ secreti immensi
il suo conducitor gli aperse i sensi:
54
– Sacra a colei che gli ordini fatali
ministra al mondo è questa grotta annosa,
non solo impenetrabile a’ mortali,
agli occhi umani ed ale menti ascosa,
sich’alzarvi giamai la vista o l’ali
intelletto non può, sguardo non osa,
ma gl’interni recessi anco di lei
quasi apena spiar sanno gli dei.
55
Natura, universal madre feconda,
è la donna ch’assisa ivi si mostra.
In quella cava ha sua magion profonda,
occulto albergo e solitaria chiostra.
Giust’è ch’ognun di voi le corrisponda,
vuolsi onorar qual genitrice vostra;
e ben le devi tu, come creato
più bel d’ogni altro, Adone, esser più grato.
56
Quell’uomo antico, ch’ale spalle ha i vanni
è quei ch’ogni mortal cosa consuma,
domator di monarchi e di tiranni,
con cui non è chi contrastar presuma;
parlo del Tempo, dispensier degli anni,
che scorre il ciel con sì spedita piuma
e sì presto sen fugge e sì leggero
ch’è tardo a seguitarlo anco il pensiero.
57
Con l’ali, che sì grandi ha su le terga
vola tanto che ‘l sol l’adegua apena;
sola però l’Eternità, ch’alberga
sovra le stelle, il giunge e l’incatena;
la penna ancor, che dotte carte verga
passa il suo volo e ‘l suo furore affrena;
così, chi ‘l crederebbe? un fragil foglio
può di chi tutto può vincer l’orgoglio.
58
Di duro acciaio ha temperati i denti,
infrangibili, eterni, adamantini;
dele torri superbe ed eminenti
rode e rompe con questi i sassi alpini;
de’ gran teatri i porfidi lucenti,
degli eccelsi colossi i marmi fini;
divorator del tutto, alfin risolve
le più salde materie in trita polve.
59
Di sua forma non so se t’accorgesti
che non è mai l’istessa ala veduta:
faccia ed età di tre maniere ha questi,
l’acerba, la virile e la canuta.
Tu vedi ben come sembiante e gesti
varia sovente e d’or in or si muta;
l’effigie che pur or n’offerse innanzi
altra ne sembra e non è più qual dianzi.
60
Vedigli assiso a piedi un potentato,
da cui tutte le cose han vita e morte,
con un gran libro, le cui carte è dato
volger com’ella vuol, solo ala Sorte:
a questo nume, che s’appella Fato,
detta quant’ei determina in sua corte;
quegli lo scrive ed ordina al governo
Primavera ed Autunno, Estate e Verno.
61
Comandan questi al secolo e palese
gli fan ciò che far dee di punto in punto.
Il Secol, poi ch’ha le sue voglie intese,
al Lustro impon che l’esseguisca apunto;
il Lustro al’Anno e l’Anno al Mese, il Mese
al Giorno, il Giorno al’Ora e l’Ora al Punto;
così dispon gli affari e con tal legge
signoreggia i mortali e ‘l mondo regge.
62
Vedi que’ duo, l’un giovinetto adorno,
candido e biondo e con serene ciglia;
l’altra femina e bruna, e vanno intorno
e si tengono in mezzo una lor figlia;
son color, se nol sai, la Notte e ‘l Giorno
e l’Aurora è tra lor bianca e vermiglia;
or mira quelle tre, che tutto han pieno
di gomitoli d’accia il lembo e ‘l seno;
63
quelle le Parche son, per cui laggiuso
è filata la vita a tutti voi;
nel suo volto guardar sempre han per uso,
tutte dependon sol da’ cenni suoi;
quella tien la conocchia e questa il fuso,
l’altra torce lo stame e ‘l tronca poi.
Vedi la Verità, figlia del vecchio,
ch’innanzi agli occhi gli sostien lo specchio.
64
Quanto in terra si fa, là dentro ei mira
e del’altrui follie nota gli essempi;
vede l’umana ambizion ch’aspira
in mille modi a fargli oltraggi e scempi;
crede fiaccargli alcun la forza e l’ira
ergendo statue e fabricando tempi;
altri contro gli drizza archi e trofei,
piramidi, obelischi e mausolei.
65
Ride egli allora e sì se ‘l prende a gioco
scorgendo quanto l’uom s’inganna ed erra
e, poiché ‘n piedi ha pur tenute un poco
quelle machine altere, alfin l’atterra;
dalle in preda del’acqua over del foco,
or le dona ala peste, or ala guerra;
le sparge in fumo in quella guisa o in questa
siché vestigio alcun non vene resta.
66
E di ciò la ministra è sol quell’una
ch’è cieca e d’un delfin sul dorso siede,
calva da tergo e ‘l crine in fronte aduna,
alata e tien sovr’una palla il piede;
guarda se la conosci: è la Fortuna,
ch’al paterno terren passar ti diede.
Mira quanti tesor dissipa al vento:
mitre, scettri, corone, oro ed argento.
67
Quattro donne reali a piè le miri
e son le monarchie del’universo:
d’or coronata è quella degli Assiri,
d’argento l’altra ch’ha l’impero perso;
la Grecia appresso con men ricchi giri
porta cerchiato il crin di rame terso;
l’ultima, che di ferro orna la chioma
è la guerriera e bellicosa Roma.
68
Ma ciò che val, se ‘l tutto è un sogno breve?
Stolto colui che ‘n vanità si fida.
Dritto è ben che d’un ben che perir deve
l’un filosofo pianga e l’altro rida;
sola Virtù, del Tempo avaro e lieve
può l’ingorda sprezzar rabbia omicida;
tutto il resto il crudel, mentre che fugge,
e rapace e vorace invola e strugge.
69
Guarda su l’uscio pur dela caverna
e vedrai due gran donne assise quivi
e quinci e quindi dala foce interna
di qualità contraria uscir duo rivi;
siede l’una da destra e luce eterna
le fregia il volto di bei raggi vivi,
ridente in vista e d’un aspetto santo,
in man lo scettro ed ha stellato il manto:
70
è la Felicità, de’ cui vestigi
cerca ciascun, né sa trovar la traccia,
ma, da larve deluso e da prestigi,
di quella invece la Miseria abbraccia;
stanno molte donzelle a’ suoi servigi
d’occhio giocondo e di piacevol faccia:
Vita, Abondanza e ben contente e liete
Festa, Gioia, Allegria, Pace e Quiete.
71
Lungo il suo piè con limpid’onda e viva
mormorando sen va soavemente
il destro fiumicel, da cui deriva
di letizia immortal vena corrente;
ella un lambicco in man sovra la riva
colmo del’acque tien di quel torrente
e, come vedi ben, fuor dela boccia
in terra le distilla a goccia a goccia.
72
A poco a poco ingiù versa il diletto
perch’altri non può farne intero acquisto;
scarso è l’uman conforto ed imperfetto
e qualche parte in sé sempre ha di tristo;
quel ben che qui nel cielo è puro e schietto
piove laggiù contaminato e misto,
peroché pria che caggia, ei si confonde
con quell’altro ruscel ch’amare ha l’onde.
73
L’altro ruscel, che men purgato e chiaro
passa da manca, è tutto di veleno,
vie più che fiel, vie più ch’assenzio amaro
e sol pianti e sciagure accoglie in seno.
Vedi colei che ‘l vaso, onde volaro
le compagne d’Astrea, tutto n’ha pieno
e con prodiga man sovra i mortali
sparge quanti mai fur malori e mali.
74
Pandora è quella; il bossolo di Giove
folle audacia ad aprir le persuase;
fuggì lo stuol dele Virtuti altrove,
le Disgrazie restaro in fondo al vase;
sol la Speranza in cima al’orlo, dove
sempre accompagna i miseri, rimase:
ed è quella colà, vestita a verde,
che ‘n ciel non entra e nel’entrar si perde.
75
Or vedi come fuor del’ampia bocca
del’urna rea ch’ogni difetto asconde,
in larga vena scaturisce e fiocca
il sozzo umor di quelle perfid’onde.
Del’altro fiume, onde piacer trabocca,
questo in copia maggior l’acque diffonde,
perché ‘n quel nido di tormenti e guai
sempre l’amaro è più che ‘l dolce assai.
76
Vedi Morte, Penuria e Guerra e Peste,
Vecchiezza e Povertà con bassa fronte,
Pena, Angoscia, Fatica, afflitte e meste
figlie appo lei d’Averno e d’Acheronte.
V’è l’empia Ingratitudine tra queste,
prima d’ogni altro mal radice e fonte;
e tutte uscite son del vaso immondo
per infestar, per infettar il mondo.
77
Non ti meravigliar ch’affanni e doglie
in questo primo ciel faccian dimora,
perché la diva onde ‘l suo moto ei toglie
è d’ogni morbo e d’ogni mal signora;
in lei dominio e potestà s’accoglie
e sovra i corpi e sovra l’alme ancora;
ma se d’ogni bruttura iniqua e fella
vuoi la schiuma veder, volgiti a quella. –
78
Sì disse e gli mostrò mostro difforme
con orecchie di Mida e man di Cacco;
ai duo volti parea Giano biforme,
ala cresta Priapo, al ventre Bacco;
la gola al lupo avea forma conforme,
artigli avea d’arpia, zanne di Ciacco;
era iena ala voce e volpe ai tratti,
scorpione ala coda e simia agli atti.
79
Chiese ala guida Adon di che natura
fusse bestia sì strana e di che sorte
ed intese da lui ch’era figura
vera ed idea dela moderna corte:
portento orrendo del’età futura,
flagel del mondo assai peggior che morte,
del’Erinni infernali aborto espresso,
vomito del’inferno, inferno istesso.
80
– Ma di questa (dicea) meglio è tacerne
poich’ogni pronto stil vi fora zoppo.
Ben mille lingue e mille penne eterne
in mia vece di lei parleran troppo.
Mira in quel tribunal, dove si scerne
di gente intorno adulatrice un groppo,
donna con torve luci e lunghe orecchie
che da’ fianchi si tien due brutte vecchie.
81
L’Autorità tirannica dipigne
quella superba e barbara sembianza
e l’assistenti sue sciocche e maligne
son la Sospezzione e l’Ignoranza.
Labra ha verdi e spumanti e man sanguigne,
mostra rigor, furor, fasto, arroganza;
porge la destra ad una donna ignuda
di cui non è la più perversa e cruda.
82
Questa tutta di sdegno accesa e tinta
e di dispetto e di fastidio è piena
e, da turba crudel tirata e spinta,
giovinetta gentil dietro si mena,
che l’una e l’altra mano al tergo avinta
porta di dura e rigida catena,
smarrita il viso e pallidetta alquanto
ed ha bianca la gonna e bianco il manto.
83
La Calunnia è colei, ch’al trono augusto
per man la tragge e par d’astio si roda;
bella la faccia ha sì, ma dietro al busto
le s’attorce di serpe orrida coda.
L’altra, condotta nel giudicio ingiusto,
a cui le braccia indegno ferro annoda,
è l’incorrotta e candida Innocenza,
sovrafatta talor dal’Insolenza.
84
Il Livor l’è dincontra, ilqual approva
la falsa accusa e la risguarda in torto;
aconito infernal nel petto cova
e di squallido bosso ha il viso smorto,
simile ad uom ch’afflitto ancor si trova
da lungo morbo, onde guarì di corto.
Coppia d’ancelle ala Calunnia applaude,
testimoni malvagi, Insidia e Fraude.
85
Segue costoro addolorata e piange
di tal perfidia il torto e la menzogna
la Penitenza, che s’afflige ed ange
presso la Verità, che la rampogna
e si squarcia la vesta e ‘l crin si frange
e di duol si despera e di vergogna
e col flagel d’una spinosa verga
si batte il corpo e macera le terga.
86
– Oimé, non stiam più qui, lasciam per Dio
di questi mostri abominandi il nido! –
Tacquesi e lungo un tortuoso rio
quindi sviollo il saggio duce e fido.
D’una oscura isoletta Adon scoprio
non molto lunge, ancor incerto, il lido;
l’aria avea d’ognintorno opaca e bruna
qual fosca notte in nubilosa luna.
87
Giace in mezzo d’un fiume, ilqual sì roco
dilaga l’acque sue placide e chete
e va sì lento e mormora sì poco
che provoca in altrui sonno e quiete.
– Ecco (Mercurio allor soggiunse) il loco
dove discorre il sonnacchioso Lete,
da cui la verga mia forte e possente
prende virtù d’addormentar la gente.
88
L’isola d’ogni parte abbraccia e chiude,
come scorger ben puoi, l’onda letale;
sembra oziosa e livida palude
onde caligin densa in alto sale;
vedi quante in quell’acque anime ignude
vanno a lavarsi ed a tuffarvi l’ale
pria che le copra il corrottibil velo
per obliar ciò ch’han veduto in cielo.
89
Vedine molte ch’a bagnar le piume
vengon pur nele pigre onde infelici
e perdon pur dentro il medesmo fiume
la conoscenza de’ cortesi amici.
Son gl’ingrati color, ch’han per costume
dimenticar favori e benefici
e scriver nele foglie e dar ai venti
gli oblighi, le promesse e i giuramenti.
90
Altre ne vedi ancor quassù dal mondo
salir ador ador macchiate e brutte,
lequai non pur di quel licore immondo
corrono a ber, ma vi s’immergon tutte;
genti son quelle che da basso fondo
son per fortuna ad alto grado addutte,
dove ciascun divien sì smemorato
che più non gli sovien del primo stato.
91
O de’ terreni onor perfida usanza
con cui l’oblio di subito si beve,
onde con repentina empia mutanza
viensi l’uomo a scordar di quanto deve,
e non solo d’altrui la rimembranza
in lui s’offusca e si smarrisce in breve,
ma sì deltutto ogni memoria ha spenta
che di sestesso pur non si rammenta.
92
Il paese de’ sogni è questo a cui
pervenuti noi siamo a mano a mano.
Vedi ch’apunto ne’ sembianti sui
simile al sogno ha non so che del vano,
ch’apparisce e sparisce agli occhi altrui
e visibile apena è di lontano.
Qui, da Giove scacciato, il Sonno nero,
contumace del ciel, fondò l’impero.
93
Ma per poter varcar l’onda soave
sarà buon ch’alcun legno or si prepari. –
Ed ecco allora in pargoletta nave
strania ciurma apparir di marinari;
Itatone e Tarassio il remo grave
e Plutocle e Morfeo movean del pari;
era il vecchio Fantasio il galeotto,
al mestier del timone esperto e dotto.
94
Presero un porto, ove d’elettro puro
al’augel vigilante un tempio è sacro;
quindi scolpito sta l’Erebo oscuro,
quinci d’Ecate bella il simulacro.
Insu l’entrar, pria che si passi il muro,
v’ha di duo fonti un gemino lavacro
che fan cadendo un mormorio secreto:
Pannicchia è detto l’un, l’altro Negreto.
95
Fa cerchio ala città selva frondosa
che dà grato ristoro al corpo lasso.
La mandragora stupida e gravosa
e ‘l papavere v’ha col capo basso.
L’orso tra questi languido riposa
e riposanvi al’ombra il ghiro e ‘l tasso,
né d’abitar que’ rami osano augelli
fuorché nottule e gufi e pipistrelli.
96
D’un’iri a più color case e contrade
stansi tra lumi tenebrosi occulte;
quattro porte maestre ha la cittade,
due di terra e di ferro incise e sculte,
lequai rispondon per diritte strade
dela Pigrizia ale campagne inculte
e per queste sovente, o falsi o veri,
escono i sogni spaventosi e fieri.
97
Del’altre due, ciascuna il fiume guarda,
l’una è d’avorio e si disserra allora
ch’è nel suo centro la stagion più tarda;
l’altra di corno e s’apre insu l’aurora;
per quella a schernir l’uom turba bugiarda
d’ingannatrici imagini vien fora;
da questa soglion trar l’anime vaghe
visioni del ver spesso presaghe.
98
La bella coppia entrò per l’uscio eburno
e fur quell’ombre da’ suoi raggi rotte;
il suo palagio ombroso e taciturno
nela piazza maggior tenea la Notte;
dal’altra parte, di vapor notturno
velato e chiuso tra profonde grotte,
l’albergo ancor del Sonno si vedea,
che sovra un letto d’ebeno giacea.
99
O di quante fantastiche bugie
mostruose apparenze intorno vanno!
sogni schivi del sol, nemici al die,
fabri d’illusion, padri d’inganno;
minotauri, centauri, idre ed arpie
e gerioni e briarei vi stanno;
chi sirena chi sfinge al corpo sembra,
chi di ciclopo e chi di fauno ha membra.
100
Chi par bertuccia ed è qual bue cornuto,
chi tutto è capo e ‘l capo poi senz’occhi;
altri han, com’hanno i mergi, il becco acuto,
altri la barba aguisa degli alocchi;
altri con faccia umana è sì orecchiuto
che convien ch’ogni orecchio il terren tocchi;
altri ha piè d’oca e di falcone artiglio,
l’occhio nel ventre e nel bellico il ciglio.
101
Vedresti effigie angelica e sembiante,
poi si termina il piede in piedestallo;
visi di can con trombe d’elefante,
colli di gru con teste di cavallo,
busti di nano e braccia di gigante,
ali di parpaglion, creste di gallo,
con code di pavon grifi e pegasi,
fusi per gambe e pifferi per nasi.
102
Alcun di lor, quasi spalmato legno,
vola a vela per l’aure e scorre a nuoto,
ma di due rote ha sotto un altro ingegno
onde corre qual carro e varia moto;
con un mantice alcun di vento pregno
gonfia e sgonfia soffiando il corpo voto
e tanti fiati accumula nell’epa
che come rospo alfin ne scoppia e crepa.
103
E questi ed altri ancor più contrafatti
ven’ha, piccioli e grandi, interi e mozzi,
quasi vive grottesche o spirti astratti,
scherzi del caso e del pensiero abbozzi.
Parte ale spoglie, ale fattezze, agli atti
son lieti e vaghi e parte immondi e sozzi;
molti al gesto, al vestir vili e plebei,
molti di regi in abito e di dei.
104
Tra gli altri Adon vi riconobbe quello
che ‘n Cipro già quand’ei tra’ fior dormiva
rappresentogli il simulacro bello
dela sua bella ed amorosa diva.
E già quel pigro e lusinghier drappello
dietro ala Notte, che volando usciva,
gli s’accostava in mille forme intorno
per gravargli le ciglia e torgli il giorno,
105
ma ‘l suo dottor sì sen’accorse e presto
gli fè le luci alzar stupide e basse;
Vener sorrise, ed ei, poscia che desto
l’ebbe, non volse più ch’ivi indugiasse,
ma, mostrandogli a dito or quello or questo,
al’altra riva un’altra volta il trasse.
Dimandavalo Adon di molte cose
ed a molte dimande egli rispose.
106
E giunta a mezzo di suo corso omai
l’umida notte al’ocean scendea
e con tremanti e pallidetti rai
più d’un lume dal ciel seco cadea;
cinto di folte stelle e più che mai
chiaro il pianeta innargentato ardea,
vagheggiando con occhio intento e vago
in fresca valle addormentato il vago.
107
Deh! perdonimi il ver s’altrui par forse
ch’io qui del ciel la dignitate offenda,
poiché là dove tempo unqua non corse
l’ore non spiegan mai notturna benda;
facciol, perché così quelche non scorse
il senso mai, l’intendimento intenda,
non sapendo trovar fuor di natura
agli spazi celesti altra misura.
108
In questo mezzo il condottier superno
le sei vaghe corsiere al carro aggiunse;
fece entrarvi gli amanti ed, al governo
assiso poi, ver l’altro ciel le punse
ed al bel tetto del suo albergo eterno
in poche ore rotando appresso giunse.
Intanto, parlator facondo e saggio,
la noia alleggeria del gran viaggio.
109
– Eccoci (gli diceva) eccoci a vista
dela mia stella, che più su si gira,
candida no, ma variata e mista
d’un tal livor ch’al piombo alquanto tira,
picciola sì che quasi apena è vista
e talor sembra estinta a chi la mira
e nele notti più serene e chiare
del’anno, sol per pochi mesi appare.
110
Questo l’avien non sol perché minore
del’altre erranti e dele fisse è molto,
ma però che da luce assai maggiore
l’è spesso il lume innecclissato e tolto.
Sotto i raggi del sole il suo splendore
nasconde sì, che vi riman sepolto
e tra que’ lampi onde si copre e vela
quasi in lucida nebbia altrui si cela.
111
Ma dal’esser al sol tanto vicina
maggior forza e vigor prende sovente,
com’ancor questa, del tuo cor reina,
per l’istessa cagione è più possente.
Seco e col sole in compagnia camina,
seco la rota sua compie egualmente
benché tra noi sia gran disagguaglianza,
ch’assai di lume e di beltà m’avanza.
112
La qualità di sua natura è bene
mutabile, volubile, inquieta;
si varia ognor né mai fermezza tiene,
or infausta, or seconda, or trista, or lieta.
Ma questa tanta instabiltà le viene
dala congiunzion d’altro pianeta,
perch’io son tal che negli effetti miei
buon co’ buoni mi mostro e reo co’ rei.
113
Nascon per la virtù di questa luce
luminosi intelletti, ingegni acuti;
senno altrui dona ed uomini produce
cauti agli affari e nel’industrie astuti.
Vago desio di nove cose induce
e d’incognite al mondo arti e virtuti.
Per lei sol chiaro e celebre divenne
dele lingue lo studio e dele penne.
114
E quando questa tua dolce lumiera
v’applica il raggio suo lieto e benigno,
quel fortunato al cui natale impera
riesce in terra il più famoso cigno. –
Così lo dio dela seconda sfera
parla al vago figliuol del re ciprigno
e tuttavia, mentre così gli conta
le proprie doti, il patrio ciel sormonta.
115
Avean l’aureo timon per la via torta
drizzato già le mattutine ancelle;
già sui confin dela dorata porta
giunto era il sole e fea sparir le stelle,
la cui leggiadra messaggiera e scorta
sgombrando intanto queste nubi e quelle,
per le piagge spargea chiare ed ombrose
dela terra e del ciel rugiade e rose,
116
quando vi giunse e con la coppia scese
sovra le soglie del lucente chiostro.
Come fu dentro Adon, vide un paese
con più bel giorno e più bel ciel che ‘l nostro;
poi dietro ale sue scorte il camin prese
per un ampio sentier che gli fu mostro
e in un gran pian si ritrovaro adagio
nel cui mezzo sorgea nobil palagio,
117
palagio ch’al modello, ala figura
quasi d’anfiteatro avea sembianza;
ogni edificio, ogni artificio oscura,
ogni lavoro, ogni ricchezza avanza.
– Vista nel primo giro hai di Natura
(disse Cillenio) la secreta stanza;
or ecco, o bell’Adon, sei giunto in parte
dove l’albergo ancor vedrai del’Arte.
118
Del’Arte, emula sua, la casa è questa,
eccola là, se di vederla brami;
di gemme in fil tirate è la sua vesta
trapunta di ricchissimi riccami.
Mira di che bei fregi orna la testa,
come l’intreccia de’ più verdi rame;
di stromenti e di machine ancor vedi
qual e quanto si tien cumulo a’ piedi.
119
Mira penne e pennelli e mira quanti
v’ha scarpelli e martelli, asce ed incudi,
bolini e lime e circini e quadranti,
subbi e spole, aghi e fusi e spade e scudi. –
Così diceagli, e procedendo avanti,
la gran maestra tralasciò suoi studi
e reverente e con cortese inchino
umiliossi al messaggier divino.
120
Dal divin messaggiero Adon condutto,
la porta entrò dela celeste mole.
Di diamante ogni muro avea costrutto
che, lampeggiando, abbarbagliava il sole;
e l’immenso cortile era pertutto
intorniato di diverse scole
e molte donne in catedra sedenti
vedeansi quivi ammaestrar le genti.
121
– Queste, d’etate e di bellezza eguali
(Mercurio ripigliò) vergini elette
sono ancelle del’Arte e liberali,
peroché l’uom fan libero, son dette,
fonti inessausti, oracoli immortali
del saper vero; e non son più che sette;
fidate guide, illustratrici sante
del senso cieco e del’ingegno errante.
122
Colei ch’è prima e tiene in man le chiavi
dela sublime e spaziosa porta,
di tutte l’altre facoltà più gravi
agli anni rozzi è fondamento e scorta.
Quella che con ragion belle e soavi
loda, biasma, difende, accusa, essorta,
è la diletta mia, che dala bocca,
mentreché versa il mel, l’aculeo scocca.
123
V’è l’altra poi con la faretra alato,
sottil arciera a saettar intenta,
che ben acuti ognor dal’arco aurato
di strali in vece i sillogismi aventa.
Passa ogni petto d’aspri dubbi armato,
nega, prova, conferma ed argomenta,
scioglie, dichiara e dale cose vere
distingue il falso, alfin conchiude e fere.
124
Vedi quell’altre ancor quattro donzelle
di sembiante e di volto alquanto oscure;
tutte d’un parto sol nacquer gemelle
e trattan pesi e numeri e misure:
l’una contemplatrice è dele stelle
e suol vaticinar cose future;
vedi ch’ha in man la sfera e de’ pianeti
si diletta d’espor gli alti secreti.
125
L’altra, che con la pertica disegna
e triangoli e tondi e cubi e quadri,
con linee e punti il ver mostrando, insegna
righe e piombi adoprar, compassi e squadre,
La terza di sua man figura e segna
tariffe egregie e calcoli leggiadri;
sottrae la somma, la radice trova,
moltiplica il partito e fa la prova.
126
Instruisce a compor l’ultima suora
e fughe e pause e sincope e battute
e temprar note al’armonia sonora
or lente e gravi, or rapide ed acute.
Altre vederne non men sagge ancora
oltre queste potrai fin qui vedute,
benché le sette ch’io t’ho conte e mostre
sien le prime a purgar le menti vostre.
127
Ecco altre due sorelle e del Disegno
e dela Simmetria pregiate figlie.
L’una con bei colori in tela o in legno
sa di nulla formar gran meraviglie;
l’altra, che nel’industria e nel’ingegno
non ha, trattane lei, chi la somiglie,
sa dar col ferro al sasso anima vera,
al metallo, alo stucco ed ala cera.
128
Eccoti ancor, col mappamondo avante
e con la carta un’altra giovinetta
che, scoprendo i paesi e quali e quante
regioni ha la terra, altrui diletta.
Sentenze poi religiose e sante
damigella celeste altrove detta;
di Dio discorre e del’eterna vita
ai discepoli suoi la strada addita.
129
Mira colà quella matrona augusta
che per toga e per laurea è veneranda:
è la Legge civil, che santa e giusta
sol cose oneste e lecite comanda.
Quella che porge al’altrui febre adusta
amara e salutifera bevanda
è d’ogni morbo uman medicatrice,
cui sua virtù non chiude erba o radice.
130
Guarda or colei che spiriti divini
spira, seben fattezze alquanto ha brutte
e par ch’ognun l’onori, ognun l’inchini
qual madre universal del’altre tutte:
quella è Sofia che, rabbuffata i crini,
magra e con guance pallide e distrutte,
con scalzi piedi e con squarciati panni
pur di dotti scolari empie gli scanni.
131
Azzion, passione, atto e potenza,
qualità, quantità mostra in ogni ente,
genere e specie, proprio e differenza,
relazion, sostanza ed accidente;
con qual legge Natura e providenza
cria le cose e corrompe alternamente;
la materia, la forma, il tempo, il moto
dichiara e ‘l sito e l’infinito e ‘l voto.
132
Tien due donne da’ fianchi. Una che siede
sovra quel sasso ben quadrato e sodo,
è la Dottrina, ch’a chiunque il chiede
d’ogni difficoltà discioglie il nodo.
L’altra che con la libra in man si vede
pesar le cose ed ha il martello e ‘l chiodo,
è la Ragion, che con accorto ingegno
a nessun crede e vuol da tutti il pegno.
133
Ma quell’altra colà ch’ha sì leggiere
le penne, è dea del mondo, anzi tiranna;
di fallace cristallo ha due visiere
che l’occhio illude e ‘l buon giudicio appanna
e la fa guatar torto e travedere
sich’altrui spesso e semedesma inganna:
d’un tal cangiacolor la spoglia ha mista
che l’apparenze ognor muta ala vista,
134
né di tanti color gemmanti e belle
suol l’augel di Giunon rotar le piume,
né di tanti arricchir l’ali novelle
quel del sole in Arabia ha per costume,
né di tanti fiorir veggionsi quelle
del’alato figliuol del tuo bel nume,
di quante ell’ha le sue varie e diverse,
verdi, bianche, vermiglie e rance e perse:
135
Opinion s’appella e molte ha seco,
ministre infami e meretrici infide,
larve ch’uscite del tartareo speco
vengon del’alme incaute a farsi guide;
ed è lor capo un giovinetto cieco
ch’Errore ha nome e lusingando ride;
d’un licore incantato innebria i sensi
e, lui seguendo, a precipizio viensi.
136
Mira intorno astrolabi ed almanacchi,
trappole, lime sorde e grimaldelli,
gabbie, bolge, giornee, bossoli e sacchi,
labirinti, archipendoli e livelli,
dadi, carte, pallon, tavole e scacchi
e sonagli e carrucole e succhielli,
naspi, arcolai, verticchi ed oriuoli,
lambicchi, bocce, mantici e crocciuoli,
137
mira pieni di vento otri e vessiche
e di gonfio sapon turgide palle,
torri di fumo, pampini d’ortiche,
fiori di zucche e piume verdi e gialle,
aragni, scarabei, grilli, formiche,
vespe, zanzare, lucciole e farfalle,
topi, gatti, bigatti e cento tali
stravaganze d’ordigni e d’animali;
138
tutte queste che vedi e d’altri estrani
fantasmi ancor prodigiose schiere,
sono i capricci degl’ingegni umani,
fantasie, frenesie pazze e chimere.
V’ha molini e palei mobili e vani,
girelle, argani e rote in più maniere;
altri forma han di pesci, altri d’uccelli,
vari sicome son vari i cervelli.
139
Or mira al’ombra dela sacra pianta,
fregiata il crin del’onorate foglie,
la Poesia, che mentre scrive e canta
il fior d’ogni scienza insieme accoglie.
La Favola è con lei, ch’orna ed ammanta
le vaghe membra di pompose spoglie;
l’accompagna l’Istoria, ignuda donna,
senza vel, senza fregio e senza gonna.
140
Vedi la Gloria che qual sol risplende,
vedi l’Applauso poi, vedi la Lode,
vedi l’Onor ch’a coronarla intende
di luce eterna, onde trionfa e gode.
Ma vedi ancor coppia di furie orrende
che di rabbia per lei tutta si rode:
la persegue l’Invidia empia e crudele,
ch’ha le vipere in mano, in bocca il fiele;
141
la maligna Censura ognor l’è dietro
e quant’ella compone emenda e tassa;
col vaglio ogni suo accento, ogni suo metro
crivella e poi per la trafila il passa;
posticci ha gli occhi in fronte e son di vetro,
or segli affige, or gli ripone e lassa;
nota con questi gli altrui lievi errori,
né scorge intanto i suoi molto maggiori. –
142
Ciò detto di diaspri e d’alabastri
gli mostra un arsenal capace e grande
che sovr’alte colonne e gran pilastri
le sue volte lucenti appoggia e spande.
Turba v’ha dentro di diversi mastri,
ingegner d’opre illustri e memorande.
– Qui di lavori ancor non mai più visti
soggiornan (dice) i più famosi artisti.
143
Di quanto mai fu ritrovato in terra
o si ritroverà degno di stima,
o sia cosa da pace o sia da guerra,
qui ne fu l’essemplar gran tempo prima;
qui pria per lunghi secoli si serra,
ignoto ad ogni gente, ad ogni clima,
poi si publica al mondo e si produce
al’umana notizia ed ala luce.
144
Vedi Prometeo, figlio di Iapeto,
che di spirto celeste il fango informa;
e vedi Cadmo, autor del’alfabeto,
da cui prendon le lingue ordine e norma;
vedi il Siracusan che ‘l gran secreto
trova, ond’un picciol cielo ha moto e forma,
e ‘l Tarentin che la colomba imita
e ‘l grand’Alberto ch’al metal dà vita.
145
Ecco Tubal, primo inventor de’ suoni,
il tebano Anfione e ‘l trace Orfeo;
ecco, con altre corde ed altri tuoni
Lino, Iopa, Tamira e Timoteo;
ecco con nove armoniche ragioni
il mirabil Terpandro e ‘l buon Tirteo,
fabri di nove lire e nove cetre,
animatori d’arbori e di pietre.
146
Mira Tesibio e mira Anassimene
su la mostra segnar l’ore correnti;
mira Pirode poi, che dale vene
trae dela selce le scintille ardenti.
Anacarsi è colui, mira che tiene
in mano il folle e dà misura ai venti;
mira alquanto più in là metter in uso
Esculapio lo specchio e Clostro il fuso.
147
E Gige v’ha che la pittura inventa
ed havvi col pennello Apollodoro
e Corebo è con lor, che rappresenta
dela plastica industre il bel lavoro
e Dedal, ch’agguagliar non si contenta
con sue penne nel volo e borea e coro,
ma machinando va d’asse e di legni,
ingegnoso architetto, alti disegni.
148
Epimenide, Eurialo, Iperbio e Dosso
templi e palagi ancor fondano a prova
e Trasone erge il muro e cava il fosso
Danao che ‘l primo pozzo in terra trova;
navi superbe edifica Minosso,
Tifi il timon con cui l’affreni e mova;
Bellorofonte è tra costor ch’io narro
ed Erittonio co’ cavalli e ‘l carro.
149
Guarda Aristeo con quanta util fatica
del mel, del latte ala cultura intende;
Trittolemo a’ mortai mostra la spica,
Bige l’aratro che la terra fende;
Preto alo scudo, Midia ala lorica
travaglia, Etolo il dardo a lanciar prende;
Scite pon l’arco in opra e la saetta,
l’asta Tirren, Pantasilea l’accetta.
150
Havvi poi mille fabricati e fatti
da Cretensi, da Siri e da Fenici,
mossi da rote impetuose e tratti
altri arnesi guerrieri, altri artifici;
vedi arpagoni e scorpioni e gatti,
machine di cittadi espugnatrici
e da cozzar con torri e con pareti
catapulte, baliste ed arieti.
151
Bertoldo vedi là, nato insu ‘l Reno
che, per strage del mondo e per ruina,
l’irreparabil fulmine terreno
fonde, temprato al’infernal fucina.
Quegli è Giovanni, o fortunato apieno!
che le stampe introduce in Argentina:
e ben gli dee Magonzia eterna gloria,
com’eterna egli fa l’altrui memoria. –
152
Così parlando, per eccelse scale
sovr’aureo palco si trovar saliti
e quindi entraro in galeria reale
che volumi accogliea quasi infiniti;
eran con bella serie in cento sale
riposti in ricchi armari e compartiti,
legati in gemme, ed ogni classe loro
distinguea la cornice in linee d’oro.
153
Ceda Atene famosa, a cui già Serse
rapì gli archivi d’ogni antico scritto,
che poi dal buon Seleuco al’armi perse
ritolti, in Grecia fer novo tragitto;
né da’ suoi Tolomei, d’opre diverse
cumulato museo, celebri Egitto,
né di tai libri in quest’etate e tanti
Urbin si pregi o il Vatican si vanti.
154
Molti n’eran vergati in molle cera,
molti in sottili e candide membrane;
parte in fronde di palma e parte n’era
di piombo in lame ben polite e piane.
In caldeo ven’avea scritta una schiera,
altri in lettre fenicie e soriane,
altri in egizzi simboli e figure,
altri in note furtive e cifre oscure.
155
– Quest’è l’erario in cui si fa conserva
(seguì Mercurio) de’ più scelti inchiostri,
di quanti mai scrittor Febo e Minerva
sapran meglio imitar tra’ saggi vostri,
i nomi, a cui non noce età proterva,
vedi a caratter d’or scritti ne’ rostri:
qui stan le lor fatiche e qui son state
pria che composte sieno e che sien nate.
156
Quanti d’illustri e celebrati autori
si smarriscon per caso empio e sinistro
degni di vita e nobili sudori
ed or Nettuno or n’è Vulcan ministro?
or qui di tutti quei ricchi tesori
che si perdon laggiù, si tien registro:
sacre memorie ed involate agli anni,
che traman morte agli onorati affanni.
157
La libreria del dotto stagirita
che ‘l fior contien d’ogni scrittura eletta,
di cui Teofrasto insu l’uscir di vita
lascerà successore, è qui perfetta.
D’Empedocle, Pittagora ed Archita
v’ha le dottrine e qualunqu’altra setta
di Talete, Democrito e Solone,
Parmenide, Anassagora e Zenone.
158
Petronio v’ha, di cui gran parte ascose
torbido Lete in nebbie oscure e cieche;
di Tacito vi son l’ultime prose,
tutte di Livio le bramate deche,
la Medea di Nasone ed altre cose
de’ Latini miglior non men che greche:
Cornelio Gallo con Lucrezio Caro,
Ennio ed Accio e Pacuvio e Tucca e Varo.
159
D’Andronico e di Nevio i drammi lieti,
di Cecilio e Licinio anco vi stanno
e di Publio Terenzio i più faceti
sali, ch’ale sals’acque in preda andranno;
e non pur d’altri istorici e poeti
le disperse reliquie albergo v’hanno,
ma gli oracoli ancor dele Sibille
campati dal furor dele faville. –
160
Tacque e, volgendo Adon l’occhio in disparte,
vide gran quantità di libri sciolti
ch’avean malconce e lacere le carte,
tutti sossovra in un gran mucchio accolti.
Giacean negletti al suol, la maggior parte
rosi dal tarlo e nela polve involti.
– Or perché (disse) esposti a tanto danno
dal bell’ordine questi esclusi stanno?
161
e perché senza onor, senza ornamento
di coverta o di nastro io qui gli trovo?
Un fra gli altri gittato al pavimento
ne veggio là, fra Drusiano e Bovo,
che, se creder si deve al’argomento,
porta un titolo illustre: Il mondo novo;
ma sì logoro par, s’io ben discerno,
che quasi il mondo vecchio è più moderno. –
162
– Di scusa certo e di pietà son degni
(sorridendo l’interprete rispose)
quei che, d’ogni valor poveri ingegni,
si sforzan d’emular l’opre famose,
ch’ingordigia d’onor non ha ritegni
nele cupide menti ambiziose
e, quand’alto volar ne veggion uno,
a quel segno arrivar vorria ciascuno.
163
Non mica a tutti è di toccar concesso
dela gloria immortal la cima alpina;
chi volar vuol senz’ali, accoppia spesso
al’audace salita alta ruina.
Ma, quantunque avenir soglia l’istesso
quasi in ogni bell’arte e disciplina,
non si vede però maggior tracollo
che di chi segue indegnamente Apollo.
164
Dietro ai chiari scrittor di Smirna e Manto,
per cui sempre vivranno i duci e l’armi,
tentando invan di pareggiargli al canto
più d’uno arroterà lo stile e i carmi.
O quanti poi, con quanto studio e quanto
del’italico stuol di veder parmi
tracciar con poca loda i duo migliori
che ‘nsu ‘l Po canteran guerre ed amori.
165
Che di poemi in quella lingua cresca
numerosa ferragine e di rime,
la facil troppo invenzion tedesca
n’è cagion, che per prezzo il tutto imprime.
Ma s’alcuna sarà che mal riesca,
l’opra che tu dicesti è tra le prime.
Così figliano i monti e ‘l topo nasce,
ma poi, nato ch’egli è, si more in fasce.
166
Poiché sì fatti parti un breve lume
visto apena han laggiù nel vostro mondo,
il vecchiarel dale veloci piume,
quelche vedesti già nel’altro tondo,
qui ridurle in un monte ha per costume
per sepelirle in tenebroso fondo;
alfin le porta ad attuffar nel rio
che copre il tutto di perpetuo oblio.
167
Ma più non dimoriam, ché poi ch’a questi
t’ho scorto eterni e luminosi mondi,
converrà ch’altro ancor ti manifesti
de’ secreti del fato alti e profondi,
e vie molto maggior che non vedesti
meraviglie vedrai, se mi secondi. –
Qui tacque e ‘n ricca loggia e spaziosa
il condusse a mirar mirabil cosa.
168
Vasto edificio d’ingegnosa sfera
reggea, quasi gran mappa, un piedestallo,
che s’appoggiava ad una base intera
tutta intagliata del miglior metallo.
Era d’ampiezza assai ben grande ed era
fabricata d’acciaio e di cristallo;
la cerchiavan pertutto in molti giri
fasce di lucidissimi zaffiri.
169
Forma avea d’un gran pomo e risplendea
più che lucente e ben polito specchio
e d’aurei seggi intorno intorno avea
per risguardarla un commodo apparecchio.
Quivi, mentre ch’intento Adon tenea
l’occhio ala palla, al suo parlar l’orecchio,
Mercurio seco e con la dea s’assise,
indi da capo a ragionar si mise.
170
– Questa (dicea) sovramortal fattura,
laqual confonde ogni creato ingegno,
opra mirabil è, ma di Natura
e di divin maestro alto disegno.
L’artefice di tanta architettura
che d’ogni altro artificio eccede il segno
fu questa mia, del gran fattor sovrano,
benché imperfetta, imitatrice mano.
171
Sudò molto la man, né l’intelletto
poco in sì nobil machina sofferse
e lungo tempo, inabile architetto,
sue fatiche e suoi studi invan disperse;
ma quei ch’è sol tra noi fabro perfetto
del bel lavor l’invenzion m’aperse
e ‘l secreto mi fè facile e lieve
di raccorre il gran mondo in spazio breve.
172
E che sia ver, rivolgi a questa mia
adamantina fabrica le ciglia;
dì se vedesti o s’esser può che sia
istromento maggior di meraviglia.
Composta è con tant’arte e maestria
ch’al globo universal si rassomiglia;
mirar nel cerchio puoi limpido e terso
quanto l’orbe contien del’universo.
173
Formar di cavo rame un cielo angusto
fia forse in alcun tempo altrui concesso,
dove or sereno or di vapori onusto
l’aere vedrassi e ‘l tuono e ‘l lampo espresso
e tener moto regolato e giusto
la bianca dea con l’altre stelle appresso
e con perpetuo error per l’alta mole
di fera in fera ir tra le sfere il sole;
174
ma dove un tal miracolo si lesse
o chi senno ebbe mai tanto profondo,
che compilar, compendiar sapesse
la gran rota del tutto in picciol tondo?
Al magistero mio sol si concesse
far un vero model del maggior mondo,
loqual del mondo insieme elementare,
nonché sol del celeste, è l’essemplare;
175
onde di quante cose o buone o ree
passate ha il mondo in qualsivoglia etade
e di quante passar poscia ne dee
per quante ha colaggiù terre e contrade,
qui son le prime e originarie idee
dove scorger si può ciò che v’accade.
Riluce tutto in questo vetro puro
col passato e ‘l presente, anco il futuro.
176
Vedi le zone fervide e l’algenti
e dove bolle e dove agghiaccia l’anno;
vedi con qual misura agli elementi
tutti i corpi celesti in giro vanno;
vedi il sentier, là dove i duo lucenti
passaggieri del ciel difetto fanno;
vedi come veloce il moto gira
del ciel, ch’ogni altro ciel dietro si tira.
177
Ecco i tropici poi, quindi discerni
volgersi il cancro e quinci il capricorno,
dove agguaglian delpari i corsi alterni
la notte al sonno, ala vigilia il giorno.
Ecco i coluri, uniti ai poli eterni,
che sempre il ciel van discorrendo intorno;
ecco con cinque linee i paralelli
e nel bel mezzo il principal tra quelli.
178
Eccoti là sotto il più basso cielo
il foco che sempr’arde e mai non erra;
mira del’acque il trasparente gelo,
che ‘l gran vaso del mar nel ventre serra;
mira del’aria molle il sottil velo,
mira scabrosa e ruvida la terra,
tutta librata nel suo proprio pondo,
quasi centro del ciel, base del mondo.
179
Rimira e vi vedrai distinti e chiari
boschi, colli, pianure e valli e monti;
vedrai scogli ed arene, isole e mari
e laghi e fiumi e ruscelletti e fonti,
province e regni e di costumi vari
genti diverse e d’abiti e di fronti;
vedrai con peli e squame e penne e rostri
e fere e pesci ed augelletti e mostri.
180
Vedi la parte ove l’Aurora al Tauro
il capo indora e l’oriente alluma;
vedi l’altra ove lava al vecchio mauro
il piè di sasso l’africana spuma;
vedi là dove sputa il fiero Cauro
su le balze rifee gelida bruma;
vedi ove il Negro con la negra gente
suda sotto l’ardor del’asse ardente.
181
Ecco le rupi onde trabocca il Nilo
che la patria e ‘l natal sì ben nasconde;
ecco l’Eufrate che per dritto filo
le due gran region parte con l’onde;
l’Indo è colà che per antico stilo
fa di tempeste d’or ricche le sponde;
quell’è il terren, là dove sferza e scopa
le sue fertili piagge il mar d’Europa.
182
Vuoi l’Arabie veder per te famose?
la petrea, la deserta e la felice?
eccoti il loco apunto, ove t’espose
la trasformata già tua genitrice.
Ve’ le rive di Cipro ambiziose
d’una tanta bellezza abitatrice;
conosci il prato ove perdesti il core?
è quello il tetto ove t’accolse Amore?
183
Grande è il teatro e ne’ suoi spazi immensi
chi langue in pena e chi gioisce in gioco,
ma per non ti stancar la mente e i sensi
in cose omai che ti rilevan poco,
tanto sol mostrerò quanto appartiensi
ala bell’esca del tuo dolce foco;
sai pur che protettrice è questa dea
dela stirpe di Dardano e d’Enea.
184
Le diede sovra Pallade e Giunone
Paride già dele bellezze il vanto,
benché tragico n’ebbe il guiderdone
e corser sangue il Simoenta e ‘l Santo.
Questa, ma non già sola, è la cagione
ch’ella il seme troiano ami cotanto. –
Mirolla in questo dir Mercurio e rise,
l’altra arrossì col rimembrar d’Anchise.
185
– Or mentre (seguì poi) del cavo fianco
uscito del destrier ch’insidie chiude
stuol di greci guerrieri, il frigio stanco
assai con armi impetuose e crude,
sotto la scorta del buon duce Franco
ricovra ala meotica palude
una gran parte di reliquie vive,
essuli, peregrine e fuggitive.
186
Taccio il corso fatal di queste genti
e de’ suoi vari casi il lungo giro,
per quanti fortunevoli accidenti
in Germania passar con Marcomiro;
come di Marcomiro i discendenti
nel gallico terren si stabiliro
dapoiché Feramondo al mondo venne,
che delo scettro il primo onor vi tenne.
187
Né fia d’uopo additarti ad uno ad uno
di quest’ampia miniera i gran monarchi
e le palme e le spoglie e di ciascuno
l’eccelse imprese e gli onorati incarchi;
la folta selva degli eroi ch’aduno
consenti pur che brevemente io varchi
e scelga sol del numero ch’io dico
col degno figlio il valoroso Enrico.
188
Volgi la vista ove ‘l mio dito accenna
e la Lega vedrai l’insegne sciorre
e, quasi armata ed animata Ardenna,
tre foreste di lance inun raccorre.
Ma d’altra parte il paladin di Senna
vedile pochi e scelti a fronte opporre;
vedi con quanto ardire oltre Garona
fa le truppe marciar contro Perona.
189
Montagna che del ciel tocchi i confini,
selva d’antiche e condensate piante,
fiume che d’alta rupe ingiù ruini,
tempesta in nembo rapido e sonante,
neve indurata in freddi gioghi alpini,
fiamma ch’euro ale stelle erga fumante,
mar, cielo, inferno al’animosa spada
forano agevol guado e piana strada.
190
Guerrier, destrieri atterra, armi, stendardi
spezza e, sprezzando gli urti, apre le strade;
nembi di sassi, grandini di dardi,
turbini d’aste, fulmini di spade
piovongli sovra ed ei de’ più gagliardi
sostien gl’incontri, agl’impeti non cade,
né stanco posa, né ferito langue,
fatto scoglio di ferro in mar di sangue.
191
Tutto del sangue ostil molle e vermiglio
abbatte, impiaga, uccide ovunque tocchi;
vedil vibrando aprova il ferro e ‘l ciglio
ferir col brando e spaventar con gli occhi.
S’altri talor nel’orrido scompiglio
si rivolge a mirar qual colpi ei scocchi,
dal guardo è pria che dala spada ucciso
e chi fugge la man non campa il viso.
192
Chi gli contenderà l’alto diadema
s’un oste tal d’ogni poter disarma?
né sol dapresso il Rodano ne trema,
ma fa da lunge impallidir la Parma?
Ecco del Tago la speranza estrema
il signor degli Allobrogi che s’arma;
ecco che ‘n prova al paragon concorre
con l’italico Achille il gallo Ettorre.
193
Odi, Parigi, i fieri tuoni e vedi
quanti l’irata man fulmini aventa.
Deh! che pensi? o che fai? perché non cedi?
Già co’ giganti suoi Flegra paventa.
Stendi stendi le palme e pietà chiedi
e l’auree chiavi al regio piè presenta;
stolta sei ben s’altro pensier ti move;
così si vince sol l’ira di Giove.
194
Vedilo entrar nele famose mura
ed occupar le maldifese porte.
Van con la Fuga cieca e malsecura
declinando il furor del braccio forte
l’ignobil Pianto e la plebea Paura:
chi non fugge da lui, segue la Morte;
battuto dal Timor cade il Consiglio
e l’Ordine confuso è dal Periglio.
195
Eccolo alfin ch’è con applauso eletto
de’ Galli alteri a governare il freno,
né studia quivi con tiranno affetto
beni usurpati accumularsi in seno:
con larga man, con gioviale aspetto
versa d’oro, ov’è d’uopo, il grembo pieno
e d’or in or regnando, altrui più scopre
generosi pensier, magnanim’opre.
196
Non v’ha più loco ambizione ingorda,
non più stolto furor, discordia fiera;
non v’ha prudenza cieca o pietà sorda,
pace e giustizia in quell’impero impera;
sa far, sì ben le repugnanze accorda,
autunno germogliar di primavera,
mentre fra gli aurei gigli a Senna in riva
pianta dopo la palma anco l’oliva.
197
Virtù, quanto è maggior, tanto è più spesso
del’invidia maligna esposta ai danni,
laqual suol quasi a lei far quello istesso
che ‘l tarlo ai legni e la tignuola ai panni;
qual ombra che va sempre al corpo appresso,
la perseguita ognor con vari affanni,
ma son gli oltraggi suoi, ch’offendon poco,
lime del ferro e mantici del foco.
198
Mira il fior de’ migliori, al cui gran lume
l’altrui sciocco livor divien farfalla;
mercé di quel valor che per costume
quanto s’affonda più, più sorge a galla,
malgrado di chi nocergli presume
ai pesi è palma, ale percosse è palla,
onde di novo onor doppiando luce
è fatto inclito re d’inclito duce.
199
Del guerrier forte, i cui gran pregi essalto
fia tale e tanta la sublime altezza,
che come Olimpo oltra le nubi in alto
non teme i venti e i fulmini disprezza;
così d’invidia o pur d’insidia assalto
danneggiar non potrà tanta grandezza,
anzi ogni offesa ed ogni ingiuria loro
sarà soffio ala fiamma e fiamma al’oro.
200
Senon ch’io veggio di furor d’inferno
d’una furia terrena il petto acceso
e, punto dale vipere d’averno,
un cor malvagio a perfid’opra inteso.
Non vedi là come colui ch’a scherno
prese esserciti armati, a terra ha steso,
mosso da folle e temeraria mano,
con un colpo crudel ferro villano?
201
Quando al’alte speranze in sen concette
tenendo il mondo già tutto converso,
cinto d’armi forbite e genti elette
spaventa il moro ed atterrisce il perso
e gli appresta Fortuna e gli promette
lo scettro universal del’universo,
pria ch’egli vada a trionfar d’altrui
vien Morte iniqua a trionfar di lui.
202
Vansi le Virtù tutte a sepelire
nel sepolcro che chiude il sol de’ Franchi,
salvo la Fama, che non vuol morire
perch’ale glorie sue vita non manchi
e, come al caso orribile a ridire
i suoi tant’occhi lagrimando ha stanchi,
così, per farlo ancor sempre immortale,
s’apparecchia a stancar le lingue e l’ale.
203
Ma che? se da colei che vince il tutto
è vinto alfin il sempr’invitto Enrico,
l’alto onor de’ Borbon quasi distrutto
in parte a ristorar vien Lodovico,
che, da sì degno stipite produtto,
aggiunge gloria al gran legnaggio antico
e, sotto l’ombra del materno stelo,
alza felice i verdi rami al cielo.
204
Or mi volgo colà dove Baiona
smalta di gigli i fortunati lidi;
veggio superbo il mar che s’incorona
di gemme e d’or qual mai più ricco il vidi;
già già l’arena sua tutta risona
di lieti bombi e di festivi gridi;
veggio per l’onde placide e tranquille
sfavillar lampi e lampeggiar faville.
205
Né l’indico oceano orientale
tante aduna nel sen barbare spoglie,
né lo stellato ciel cumulo tale
di bellezze e di lumi in fronte accoglie.
O spettacol gentil, pompa reale,
o bennato consorte, o degna moglie!
Qual concorso di regi e di reine
scende a felicitar l’acque marine.
206
Risguarda in mezzo al fiume ov’io ti mostro:
vedrai colonne eburnee, aurei sostegni
con un gran sovraciel di lucid’ostro
far ricca tenda a un’isola di legni
che, fianco a fianco aggiunti e rostro a rostro,
porgono il nobil cambio ai duo gran regni,
mentre prendono e dan Spagna e Parigi
Lisabetta a Filippo, Anna a Luigi.
207
Ma vedi opporsi agl’imenei felici
suddite al gallo e ribellanti schiere
e coprir di Guascogna i campi aprici
quasi dense boscaglie, armi guerriere.
Quinci e quindi, aversarie e protettrici,
spiegan Guisa e Condé bande e bandiere;
ma del figlio d’Enrico il novo Enrico
si mostra sì, non è però nemico.
208
L’uno è colui che sotto ha quel destriero
baio di pelo, italian di razza;
di tre vaghi alironi orna il cimiero
e di croci vermiglie elmo e corazza;
benché misto di bigio abbia il crin nero,
gli agi abbandona ed esce armato in piazza
e, carco inun d’esperienza e d’anni,
torna di Marte ai già dismessi affanni.
209
L’altro è quei più lontan, che la campagna
scorre, di ferro e d’or grave e lucente;
è sul verde degli anni e l’accompagna
fiera e di novità cupida gente;
ha nelo scudo i gigli e di Brettagna
cavalca ubero un corridor possente
e tien dal fianco attraversata al tergo
una banda d’azzurro insu l’usbergo.
210
Già già numero immenso ingombra il piano
di tende armate e di trabacche tese;
piagne disfatto il misero Aquitano
e le messi e le moli al bel paese;
già tinto il giglio d’or di sangue umano
ch’è pure, ahi ferità! sangue francese,
sembra quel fior che del suo re trafitto
nele foglie purpuree il nome ha scritto.
211
Gallia infelice, ahi qual s’appiglia, ahi quale
nele viscere tue morbo intestino!
Rode il tuo sen profondo interno male
di domestico tosco e cittadino;
pugnan discordi umori in corpo frale
sich’io preveggio il tuo morir vicino
ed al tuo scampo ogni opra, ogni arte è vana
se Medica pietà non ti risana.
212
Pon colà mente ala gran donna d’Arno
con qual valor la sua ragion difende,
né con petto tremante o viso scarno
fra tante cure sue posa mai prende.
Vorrebbe, e ‘l tenta ben, ma ‘l tenta indarno,
senza ferro estirpar le teste orrende,
le teste di quell’idra empia ed immonda,
di veleno infernal sempre feconda.
213
Che non fa per troncarle? ecco pospone
ale publiche cose il ben privato
ed al’impeto ostil la vita espone
per salvar del gran pegno il dubbio stato:
ad accordo venir pur si dispone
e sospende tra l’ira il braccio armato
pur che ‘l furor s’acqueti e cessi quella
d’orgoglio insano aquilonar procella.
214
Ma quando alfin la gran tempesta scorge
che l’aria offusca e ‘l mar conturba e mesce
e che l’onda terribile più sorge
e che ‘l vento implacabile più cresce,
al ben saldo timon la destra porge,
drizzasi al polo e di camin non esce,
or con forza reggendo or con ingegno
tra tanti flutti il travagliato legno.
215
Fisa dritto colà meco lo sguardo
dove l’ampia riviera il passo serra;
quivi campeggia il gran campion Guisardo
contro cui non si tien torre né terra,
e par che dica intrepido e gagliardo:
«Chi la pace ricusa, abbia la guerra»,
e, con prodezza ala baldanza eguale
del’aversario i miglior forti assale.
216
L’essercito real cauto provede
di genti e d’arme e non s’allenta o stanca
in esseguir quanto giovevol crede
o necessario ala corona franca.
O senza essempio incomparabil fede!
quando ai casi oportuni ogni altro manca,
sol questi alpar dele più forti mura
mostra petto costante, alma secura.
217
Fa gran levate di cavalli e fanti;
che può contro costor l’oste nemica?
gente miglior non vide il sol tra quanti
cinser spada giamai, vestir lorica;
non sanno, in guerra indomiti e costanti,
o temer rischio o ricusar fatica,
usi in ogni stagion con l’armi grevi
bere i sudori e calpestar le nevi.
218
O qual fervor di Marte, o qual già tocca
al re crescente il cor foco d’ardire;
brama di gir tra’ folgori che scocca
più d’un cavo metallo a sfogar l’ire;
ma dapoiché non può, là dove fiocca
la tempesta del sangue, in pugna uscire,
vassene, o caccia essercitando o giostra,
ch’una effigie di guerra almen gli mostra.
219
Così leon dala mammella irsuta
uso ancor a poppar cibi novelli,
tosto che l’unghia al piè sente cresciuta,
ala bocca le zanne, al collo i velli,
già la rupe natia sdegna e rifiuta
la tana angusta e le vivande imbelli,
già segue già tra le cornute squadre
per le getule selve il biondo padre.
220
Ma quella dea, ch’altro che dea non deve
dirsi colei ch’a divin opre aspira,
smorza intanto quel foco e non l’è greve
per la commun salute il placar l’ira;
i congiurati principi riceve
e l’accampato essercito ritira
ed al popol fellone e contumace
perdonando il fallir, dona la pace.
221
Ecco d’astio privato ancor bollire
de’ duci istessi gli animi inquieti
e ‘n stretta lega ammutinati ordire
di novelle congiure occulte reti;
ecco l’accorto re viene a scoprire
di quel trattato i taciti secreti
e da’ sospetti d’ogni oltraggio indegno
con la prigione altrui libera il regno.
222
Poiché ‘l pensier del machinato danno
vano riesce e d’ogni effetto voto,
del capo afflitto le reliquie vanno
qual polve sparsa alo spirar di noto.
Ma per nove cagion pur anco fanno
novo tra lor sedizioso moto
e, pur con nove forze e genti nove,
la regia armata a’ danni lor si move.
223
Fuor de’ materni imperi intanto uscito
passa il re novo a possedere il trono,
da cui, pria calcitrante e poi pentito,
chi pur dianzi l’offese ottien perdono.
Richiamata è virtù, Marte sbandito
per quell’alto donzel di cui ragiono,
l’alto donzel che sostener non pave
con sì tenera man scettro sì grave.
224
Il Tamigi, il Dannubbio, il Beti, il Reno
l’ama, il teme, l’ammira anco da lunge,
anzi fin nel’italico terreno
a dar le leggi col gran nome giunge.
E se pur di vederne espresso apieno
un degno essempio alcun desio ti punge,
risguarda in riva al Po come si face
arbitro dela guerra e dela pace.
225
Io dico ove tra ‘l Po, che non lontano
nasce, e la Dora e ‘l Tanaro risiede
il bel paese, al cui fecondo piano
la montagna del ferro il nome diede.
Vedrai Savoia con armata mano
che due cose in un punto a Mantoa chiede:
il pegno dela picciola nipote
e de’ confin la patteggiata dote.
226
Vedi di Cadmo il successor che viene
in campo a por le sue ragioni antiche
e, perché l’una nega e l’altra tiene,
case unite in amor tornan nemiche.
Forse nutrisci, o Mincio, entro le vene
il seme ancor dele guerriere spiche,
poiché veggio dal sen dela tua terra
pullular tuttavia germi di guerra?
227
Veder puoi di Torin l’invitto duce,
cui non ha Roma o Macedonia eguale,
che carriaggi e salmerie conduce
con varie sovra lor machine e scale.
Su lo spuntar dela diurna luce
a Trino arriva e la gran porta assale.
Vedi stuol piemontese e savoiardo
Quivi attaccar l’espugnator pettardo.
228
Ecco, rotto il rastel, passato il ponte,
non però senza sangue e senza morti,
le genti alloggia al’alta rocca a fronte,
prende i quartier più vantaggiosi e forti,
manda la valle ad appianar col monte
i picconieri e i manovali accorti,
mette i passi a spedir scoscesi e scabri
con vanghe e zappe e guastadori e fabri.
229
Fa con gabbie e trincee steccar dintorno
de’ miglior posti i più securi siti;
col sembiante real vergogna e scorno
accresce ai vili ed animo agli arditi;
par fiamma o lampo, or parte or fa ritorno
cercando ove conforti ed ove aiti,
mentre il cannon, che fulminando scoppia,
nel rivellin la batteria raddoppia.
230
Ed egli, inun co’ generosi figli,
studia come talor meglio si batta,
sempre occupando infra i maggior perigli
la prima entrata e l’ultima ritratta.
Convien che pur di ceder si consigli
la terra alfin, per non restar disfatta,
ed apre al vincitor, che l’assecura
dala preda, dal ferro e dal’arsura.
231
Moncalvo a un tempo espugna anco e conquista;
ma chi può qui vietar che non si rube?
va il tutto a sacco. O qual confusa e mista
scorgo di fumo e polve oscura nube.
E, se pari l’udir fusse ala vista,
risonar v’udirei timpani e tube.
Rendersi i difensor già veder parmi,
salve le vite con gli arnesi e l’armi.
232
Pur nel’alba medesma Alba è sorpresa
e pur dale rapine oppressa langue.
Il miser cittadin non ha difesa,
per doglia afflitto e per paura essangue;
va il soldato ove ‘l trae fra lire accesa
fame d’or, sete d’or più che di sangue;
suscita l’oro ch’è sotterra accolto
e sepelisce poi chi l’ha sepolto.
233
Di buon presidio il gran guerrier fornisce
le prese piazze; ed ecco il campo ha mosso,
nova milizia assolda e ‘ngagliardisce
di gente elvezia e valesana il grosso;
ecco, dela città che ‘mpaludisce
là tra ‘l Belbo e la Nizza, il muro ha scosso;
ecco a difesa del signor di Manto
il vicino spagnuol movesi intanto.
234
Per reverenza dele insegne ibere
toglie a Nizza l’assedio e si ritragge.
Quindi van di cavalli armate schiere
d’Incisa e d’Acqui a disertar le piagge.
Tragedia miserabile a vedere,
le culte vigne divenir selvagge
e dal furor del foco e dele spade
abbattuti i villaggi, arse le biade.
235
Trema Casale; a temprar armi intesi
sudano i fabri ale fucine ardenti;
l’acciar manca a tant’uopo, onde son presi
mille dagli ozi lor ferri innocenti;
rozzi non solo e villarecci arnesi,
ma cittadini artefici stromenti
forma cangiano ed uso, e far ne vedi
elmi e scudi, aste ed azze e spade e spiedi.
236
Il vomere già curvo, or fatto acuto
a Bellona è donato, a Cerer tolto;
su la sonante incudine battuto,
d’aratore in guerrier vedi rivolto;
l’antico agricoltor rastro forcuto,
nel fango e nela rugine sepolto,
vestendo di splendor la viltà prima
ringiovanisce al foco ed ala lima.
237
Intanto e quinci e quindi ecco spediti
vanno e vengono ognor corrieri e messi,
ché ‘l buon re ch’io dicea vuol che sopiti
sieno i contrasti e la gran pugna cessi;
ed accioché gli affar di tante liti
in non sospetta man restin rimessi,
ai deputati imperiali e regi
fa consegnar dela vittoria i pregi.
238
S’induce alfin, capitulati i patti,
l’eroe del’Alpi a disarmar la destra
e de’ diffinitor de’ gran contratti
tra le mani il deposito sequestra.
Ma qual rio sacrilegio è che non tratti
l’empia Discordia, d’ogni mal maestra?
ecco da capo al rinovar del’anno
nov’interessi a nove risse il tranno.
239
Tornano a scorrer l’armi, ov’ancor stassi
la prateria sì desolata e rasa,
che ne stillano pianto e sangue i sassi
poiché fabrica in piè non v’è rimasa,
né resta agli abitanti afflitti e lassi
villa, borgo, poder, castello o casa;
già s’appresta la guerra e già la tromba
altri chiama ala gloria, altri ala tomba.
240
Colui ch’è primo e la divisa ha nera
e su l’usbergo brun bianca la croce,
ben il conosco ala sembianza altera,
e Carlo, il cor magnanimo e feroce;
di corno in corno e d’una in altra schiera
il volo impenna al corridor veloce,
pertutto a tutti assiste e ‘l suo valore
intelletto è del campo, anima e core.
241
Spoglia di grosso e malcurato panno,
lacerata da lance e da quadrella,
l’armi gli copre e fregio altro non hanno,
né vuol tanto valor vesta più bella;
spada, splendido don del re brittanno,
cinge, né v’ha ricchezza eguale a quella;
ricca, ma più talor suo pregio accresce,
ch’i rubin tra i diamanti il sangue mesce.
242
Mira colà dove distende e sporge
Asti verso aquilon l’antiche mura:
poco lunge difuor vedrai che sorge
un picciol colle in mezzo ala pianura;
quindi, fuorché la testa, armato ei scorge
le classi tutte e ‘l suo poter misura;
quindi del campo in general rassegna
rivede ogni guerrier, nota ogn’insegna.
243
Quasi pastor che le lanose gregge
con la provida verga a pasco adduca,
con leggiadre ordinanze altrui dà legge
il coraggioso, il bellicoso duca;
per mostrar quivi a chi l’affrena e regge
come di ferro e di valor riluca,
spiega ogni stuol vessilli e gonfaloni,
gonfia stendardi e sventola pennoni.
244
Quanto d’Insubria il bel confin circonda
fin sotto le ligustiche pendici,
quanto di Sesia e Bormia irriga l’onda,
voto riman di turbe abitatrici.
Quei che nela vallea cupa e profonda
soggiornan del Monviso ale radici
vengonvi e di Provenza e di Narbona
quei che bevon Durenza, Isara e Sona.
245
Né pur d’Augusta solo e di Lucerna
le valli inculte e le montagne algenti
e dagli aspri cantoni Agauno e Berna
mandanvi copia di robuste genti,
ma giù dal’Alpi, ove maisempre verna,
v’inondan, quasi rapidi torrenti,
per le vie di Bernardo e di Gebenna
quei che lasciano ancor Ligeri e Senna.
246
Un che con armi d’or va seco alparo
è l’Aldighiera, il marescial temuto,
che sotto giogo di pesante acciaro
doma il corpo rugoso e l’crin canuto.
Ecco di Damian l’eccidio amaro,
da’ duo franchi guerrier preso e battuto;
ed ecco d’Alba la seconda scossa;
chi fia ch’impeto tanto affrenar possa?
247
Pon mente a quel cimier, che con tre cime
di bianca piuma si rincrespa al vento:
è di Vittorio, il principe sublime,
del Piemonte alta speme, alto ornamento.
Ben l’interno valor negli atti esprime,
ha di latte il destrier, l’armi d’argento
e, d’un aureo monil ch’al petto scende,
groppo misterioso al collo appende.
248
Vedi con quanto ardire e ‘n che fier atto
inaspettato a Messeran s’accampa
e, giunto a Cravacor quasi in un tratto,
di ruina mortal segni vi stampa.
Già questo e quel, poiché del giusto patto
non fur contenti, in vive fiamme avampa;
già d’amboduo con esterminio duro
spianato è il forte e smantellato il muro.
249
Vuoi veder un, che nato a grandi imprese,
d’emular il gran padre s’affatica?
Mira Tomaso, il giovane cortese,
che tinta di sanguigno ha la lorica
e ‘l cuoio del leon sovra l’arnese
porta, del’avo Alcide insegna antica;
di seta ha i velli e con sottil lavoro
mostra il ceffo d’argento e l’unghie d’oro.
250
Vedilo in dubbia e perigliosa mischia
passar tra mille picche e mille spade;
già dal volante fulmine che fischia
trafitto il corridor sotto gli cade;
ma ne’ casi maggior vie più s’arrischia
quel cor, che col valor vince l’etade
e, pien d’ardir più generoso ed alto,
preso novo destrier, torna al’assalto.
251
Miralo poi mentre il maggior fratello
con gran guasto di morti e di prigioni
rompe il soccorso e ‘l capitan di quello
uccide, che confuso è tra’ pedoni,
dela cavalleria giunto al drappello
torre i regi stendardi a duo campioni,
indi mandargli per eterno essempio
d’alta prodezza ad appiccar nel tempio.
252
Solo il gran Filiberto altrove intanto
dubbioso spettator stassi in disparte;
ma ‘l buon Maurizio con purpureo manto
regge il paterno scettro in altra parte
e l’alte leggi del governo santo
con giusta lance ai popoli comparte;
talor, pio cacciatore, ai fidi cani
del devoto Amedeo dispensa i pani.
253
O se mai prenderà, Tifi celeste,
il gran timon dela beata nave,
da guai scogli secura, a guai tempeste
sottratta, correrà calma soave.
Già la vegg’io per quelle rive e queste
portar, nov’Argo, di gran merci grave,
scorta da divin zefiro secondo,
il vello d’oro a vestir d’oro il mondo.
254
Ma vedi or come freme e come ferve
contro costoro il fior d’Italia tutta?
genti a l’ibero o tributarie o serve,
gioventù ben armata e meglio instrutta.
Ben a tante e sì fiere armi e caterve
s’oppon l’inclito estense e le ributta;
alfin pur al’essercito che passa
libero il camin cede e ‘l varco lassa.
255
Passan l’ardite schiere e di Milano
il prefetto maggior tra’ suoi l’accoglie;
eccolo là sovra un corrente ispano
che l’insegne reali al’aura scioglie;
il baston general di capitano
tien nela destra e veste oscure spoglie;
mira poi come inun feroci e vaghi
s’arman dal’altro lato i gran Gonzaghi.
256
Quel ch’ha d’un verdescuro a fiocco a fiocco
la sovravesta, è di Niverse il pregio.
Vedi un ch’ha d’or lo scudo e d’or lo stocco?
quegli è Vincenzo, il giovinetto egregio;
l’altro che splende di lucente cocco
e ‘n sembiante ne viene augusto e regio
riposato nel gesto e venerando,
quegli, s’io ben comprendo, è Ferdinando.
257
Lascia i bei studi e prende a guerra accinto
da’ tranquilli pensier cura diversa;
Manto che ‘l fior de’ lucid’ostri ha tinto,
fa ricca pompa al’armatura tersa;
groppo di gemme in cima il tiene avinto
sì ché l’omero e ‘l petto gli attraversa,
ma pur l’acciar con argentata luce
sotto la fina porpora traluce.
258
Vedi il Toledo che Vercelli affronta,
già l’ha di stretto assedio incoronata;
la città tutta ale difese pronta
sta su le mura e su le torri armata;
vedi lo scalator che su vi monta
e ‘l cittadino a custodir l’entrata;
ma, poich’assai resiste e si difende,
per difetto di polve alfin si rende.
259
In questo mezzo il capitano alpino
di far gualdane e correrie non resta;
Filizano ed Annone e ‘l Monferrino
con mille piaghe in mille guise infesta;
oltre il frutto perduto, il contadino
forza è che paghi or quella taglia or questa;
corre l’altrui licenza, ove l’alletta
desire o di guadagno o di vendetta. –
260
Così divisa e del’istorie ignote
svela il fosco tenor lo dio d’Egitto,
quando nel terso acciar, tra le cui rote
quanto creò Natura è circoscritto,
Adone, in parti alquanto indi remote
volgesi e vede un non minor conflitto
dove la gente in gran diluvio inonda
e, diffuso in torrenti, il sangue abonda;
261
onde, rivolto al messaggier volante,
dela bella facondia arguto padre,
disse: – O nunzio divin, tu che sai tante
meraviglie formar nove e leggiadre,
l’altra guerra che fan quindi distante
l’altre, ch’altrove io veggio, armate squadre,
fammi conto ond’avien, poich’ancor quivi
par si combatta e corra il sangue in rivi. –
262
– Io ti dirò (risponde): altra cagione
Austria in un tempo a guerreggiar sospinge
con la donna real del gran leone
che per Adria guardar la spada stringe;
né pur del sangue di più d’un squadrone
la terra sola si colora e tinge,
ma ‘l mare istesso in non men fiero assalto
rosseggia ancor di sanguinoso smalto.
263
Se gola hai di vederlo, or meco affisa
dritto le luci ov’io l’affiso e giro. –
Egli girolle, e ‘n disusata guisa
vide ondeggiar lo sferico zaffiro;
già d’Anfitrite a man a man ravisa
i vasti alberghi entro l’angusto giro
e di gran selve di spalmati legni
popolati rimira i salsi regni.
264
Dale rive adriatiche e dal porto
di Partenope bella alate travi
già del ferro mordace il dente torto
spiccano onuste di metalli cavi;
già quinci e quindi a par a par s’è scorto
un navilio compor di molte navi,
le cui veloci e volatrici antenne
per non segnate vie batton le penne.
265
Volan per l’alto e de’ cerulei chiostri
arano i molli solchi i curvi abeti;
rompon co’ remi e co’ taglienti rostri
dele prore ferrate il sen di Teti;
i fieri armenti de’ marini mostri
fuggono spaventati ai lor secreti;
sotto l’ombra del’arbori, ch’aduna
questa armata e quell’altra, il mar s’imbruna.
266
Apena omeri quasi ha il mar bastanti
il peso a sostener di tanti pini;
apena il, vento istesso a gonfiar tanti
può co’ fiati supplir, candidi lini;
fugaci Olimpi e vagabondi Atlanti,
Alpi correnti e mobili Appennini
paion, svelti da terra e sparsi a nuoto,
i gran vascelli ala grossezza, al moto.
267
Veder fra tanti affanni in tanta guerra
la vergin bella a Citerea dispiacque,
la vergin bella che s’annida e serra
tra’ lucenti cristalli ov’ella nacque,
ond’hanno insieme il mar lite e la terra,
l’una l’offre le rive e l’altro l’acque;
pugnan con belle ambiziose gare
per averla tra lor la terra e ‘l mare.
268
Ecco che gorghi già di foco e polve
vomita il bronzo concavo e forato,
scoccando sì che i legni apre e dissolve
con fiero bombo il fulmine piombato;
nebbia d’orror caliginoso involve
e mare e ciel da questo e da quel lato;
sembra ogni canna, tante fiamme spira,
la gola di Tifeo quando s’adira.
269
Già viensi ad afferrar poppa con poppa,
già spron con sprone impetuoso cozza,
già vota il fuso e ‘l fil che Cloto aggroppa
di mille vite a un punto Atropo mozza;
spada in spada, asta in asta urtando intoppa,
l’acqua già ne divien squallida e sozza
e, del sangue commun tinta, somiglia
del gran golfo eritreo l’onda vermiglia.
270
L’una classe nel’altra aventa e scaglia,
pregni d’occulto ardor, globi e volumi,
onde, mentre più stretta è la battaglia,
incendio repentin vien che s’allumi.
Scoppian le cave palle e fan che saglia
turbo ale stelle di faville e fumi;
tra ‘l bitume e la pece e ‘l nitro e ‘l zolfo
chi sbalza al ciel, chi sdrucciola nel golfo.
271
Scorre Vulcano e mormorando rugge
e tra’ ruggiti suoi vibra la lingua;
gabbie intorno e castella arde e distrugge,
né sa Nettuno omai come l’estingua;
l’esca del sangue, che divora e sugge,
alimento gli porge onde s’impingua;
vince, trionfa e, con la man rapace
depreda il tutto imperioso e sface.
272
In ben mille piramidi vedresti
sorger la fiamma dagli ondosi campi,
alzar le punte ed a que’ venti e questi
crollar le corna e scaturirne i lampi.
Tra sì fieri spettacoli e funesti
par che la fiamma ondeggi e l’onda avampi,
par che torni ala lite onde pria nacque,
fatto abisso di foco il ciel del’acque.
273
L’eccelse poppe e le merlate rocche
son cangiate in feretri e fatte tombe;
con rauche voci e con tremende bocche
romoreggian tamburi e stridon trombe;
lanciansi i dardi e votansi le cocche,
vibransi l’aste e rotansi le frombe;
chi muor trafitto e chi malvivo langue,
solcan laceri busti il proprio sangue.
274
Tremendi casi la spietata zuffa
mesce di ferro inun, d’acqua e di foco,
chi nel fondo del pelago s’attuffa,
chi nel sale spumante è fatto gioco,
chi galeggia risorto e ‘l flutto sbuffa,
chi tenta risalir, ma gli val poco,
chi ricade ferito ed a versare
vien di tepido sangue un mar nel mare.
275
Strepito di minacce e di querele,
di percosse e di scoppi i lidi assorda;
altri con man dele squarciate vele
s’attien sospeso in aria a qualche corda,
ma, giunto dal’arsura empia e crudele,
vassi a precipitar nel’onda ingorda,
onde con strana e miserabil sorte
prova quattro elementi in una morte.
276
Or quando più crudel bolle la guerra
e va baccando la Discordia stolta,
quando di qua, di là l’onda e la terra
tutta è nel sangue e nel’orrore involta,
ecco del fier bifronte il tempio serra
colui ch’anco il serrò la prima volta;
placa gli animi alteri e fa che cada
l’ira da’ cori e dala man la spada.
277
E per fermar con sempre stabil chiodo
la Pace, ch’è gran tempo ita in essiglio,
Cristina bella in sacrosanto nodo
stringe del re de’ monti al maggior figlio.
Vedrassi il groppo onde si gloria Rodo
insieme incatenar la palma e ‘l giglio;
e tu di gigli allor, non più di rose
tesserai, dea d’Amor, trecce amorose.
278
Già d’età, già di senno e già cresciuto
tanto è di forze il giovinetto augusto,
ch’ottien, delpari amabile e temuto,
vanto di buono e titolo di giusto.
Ma l’orgoglio de’ principi abbattuto
sorge ancor più superbo e più robusto
e ‘l bel regno da lor stracciato a brani
rassomiglia Atteon tra’ propri cani.
279
Movesi al’armi e ne va seco armato
Enrico, il primo fior del regio seme,
quei che pur dianzi andò, quasi sdegnato,
co’ men fedeli a collegarsi insieme;
sdegno fu, ma fu lieve; orch’alo stato
del gran cugino alto periglio ei teme,
gli sovien quand’è d’uopo in tanta impresa
di consiglio, d’aiuto e di difesa.
280
Va con poche armi ad assalir la fronte
de’ nemici dispersi e gli sorprende.
Non vedi Can, che volontarie e pronte
gli disserra le porte e gli si rende?
vedi di Sei nel sanguinoso ponte
quante squadre rubelle a terra stende?
poi, per domar la scelerata setta,
ver l’estrema Biarne il campo affretta.
281
Cede lo sforzo e l’impeto nemico,
ingombra Navarrin terrore e gelo;
già v’entra e nel’entrarvi il re ch’io dico
non men che di valor s’arma di zelo;
rende ai distrutti altari il culto antico,
a sestesso l’onor, la gloria al cielo;
ogni passo è vittoria, ovunque ei vada
e vince senza sangue e senza spada.
282
Qual’uom che pigro e sonnacchioso dorme,
giace col corpo insu le piume molli,
con l’alma del pensier seguendo l’orme,
varca fiumi e foreste e piani e colli,
tal, rivolgendo Adon gli occhi ale forme,
dela cui vista ancor non son satolli,
non sa se vede o pargli di vedere
tra lumi ed ombre imagini e chimere.
283
Mentrech’ei pur de’ simulacri accolti
nel mondo cristallin l’opre rimira,
del silenzio in tal guisa i nodi ha sciolti
l’alto inventor dela celeste lira:
– Sappi che dietro a molti corsi e molti
del gran pianeta che ‘l quart’orbe gira,
pria ch’abbia effetto il ver, staranno ascose
le qui tante da te vedute cose.
284
Ma que’ successi ch’ancor chiude il fato
t’ho voluto mostrar come presenti,
accioché miri alcun fatto onorato
dele più degne e gloriose genti.
Fin qui Giove permette; e non m’è dato
più in là scoprirti de’ futuri eventi;
or tempo è da fornir l’opra che resta;
vedi il sol che nel mar china la testa.
285
Vedi ch’armata d’argentati lampi
per le campagne del suo ciel serene
la stella inferior, ch’omai degli ampi
spazi del’orizonte il mezzo tiene,
mentre del’aria negli aperti campi
a combatter col dì la notte viene,
prende a schierar dele guerriere ardenti
i numerosi esserciti lucenti.
286
Lungo troppo il camino e breve è l’ora,
onde convien sollecitare il passo
per poter, raccorciata ogni dimora,
tornar per l’orme nostre al mondo basso,
peroché ‘l suo bel lume ha già l’aurora
due volte acceso ed altrettante casso
daché partimmo e qui, fuorch’a felice
gente immortale, il troppo star non lice. –
287
Così Mercurio; e l’altro allor dintorno
dove l’occhio il traea volgendo il piede,
le ricche logge del’albergo adorno
di parte in parte a contemplar si diede
e, daché prese a tramontare il giorno,
ch’ivi al’ombra però giamai non cede,
non seppe mai da tal vista levarse
finché l’altr’alba in oriente apparse.

CANTO IX
CANTO X
LE BELLEZZE

ALLEGORIA

Per la luce, che circonda l’ombre delle donne belle, s’intende la bellezza, laqual da’ platonici fu detta raggio di Dio. Nella Fama, che seguita la reina Maria de’ Medici e parla delle sue grandezze, si comprende che la loda va sempre dietro alla virtù, e che le azzioni generose ed illustri non restano giamai senza la meritata gloria. In Mercurio, ch’a’ prieghi d’Adone calcolandogli la figura della natività e pronosticandogli la morte, vien confutato da Venere, si dinota quanto sia grande l’umana curiosità di volere intendere le cose future e quanto poco si debba credere alla vanità dell’astrologia giudiciaria.

ARGOMENTO

Bellezze a contemplar d’alme divine
sen poggia al terzo ciel la coppia lieta,
e degli effetti di quel bel pianeta
scopre lo dio facondo alte dottrine.

1
O già del’Arno, or dela Senna onore,
Maria, piuch’altra invitta e generosa,
donna non già, ma nova dea d’amore,
che vinta col tuo giglio hai la sua rosa
e del gallico Marte il fiero core
domar sapesti e trionfarne sposa,
nate colà su le castalie sponde
prendi queste d’onor novelle fronde.
2
Queste poche d’onor fronde novelle,
questi fior di Parnaso e di Permesso
la tua chioma real degna di stelle
non sprezzi, ond’io corona oggi le tesso,
poich’anco il sole, o sol del’altre belle,
ch’è dela tua beltà ritratto espresso,
scorno non ha che fra la luce e l’oro
che gli fregiano il crin, serpa l’alloro.
3
Che tue lodi garrisca e di te canti
stridula voce, ignobil cetra e vile,
che i tuoi sì chiari e sì famosi vanti
adombri oscuro inchiostro, oscuro stile,
che i pregi tuoi sì spaziosi e tanti
raccolga angusto foglio, alma gentile,
sdegnar non dei, ch’è gloria e non oltraggio
illustrar l’ombre altrui col proprio raggio.
4
Sai che pur rauco a salutar l’Aurora
infra i cigni canori il corvo sorge;
in picciol onda, in picciol vetro ancora
chiusa del ciel l’immensità si scorge;
né suol celeste dea, quando talora
simulacro votivo altri le porge,
ricco di sua bellezza aver a sdegno
rozzo lin, rozzo piombo e rozzo legno.
5
Tu del’ingegno mio propizia stella
per quest’acqua, ch’io corro, esser ben dei,
poiché i divini amor canto di quella
dela cui stirpe originata sei,
e di volto e di cor benigna e bella
ben la somigli e ti pareggi a lei,
a cui, per farsi a te deltutto eguale,
quanto sol manca è l’onestà reale.
6
Troppo audace talor tento ben io
cantando alzarmi al tuo celeste foco,
ma le penne al’ardir, l’aure al desio
mancano, e caggio augel tarpato e roco.
Pur se del’opre tue nel cantar mio
il più si tace e quelch’io scrivo è poco,
gran fiamma secondar breve favilla
suole, e fiume talor succede a stilla.
7
Uscita col canestro era e con l’urna
la condottrice de’ novelli albori,
dal’aureo vaso e dala mano eburna
versando perle e seminando fiori.
Già la caliginosa aria notturna
spogliava l’ombre e rivestia i colori
e precorreano e prediceano il giorno
la stella innanzi e gli augelletti intorno,
8
quando l’augelle querule e lascive,
il carro dela dea levando in alto,
dal cerchio di quel nume, a cui s’ascrive
l’eloquenza e ‘l saver, spiccaro il salto;
e ‘n breve, acceso di fiammelle vive,
vive ma non cocenti, un puro smalto,
quasi di schietto azzurro oltramarino,
ala vista d’Adon si fè vicino.
9
– Vassi al Ciel di costei, che ‘l cor ti sface,
(disse Mercurio allor) dal ciel secondo.
Mira colà dela sua bella face
il dolce e signoril lume fecondo.
O letizia, o delizia, o vita, o pace
universal del’un e l’altro mondo,
come seren, qual non più mai si vide,
dela lampa felice il lampo ride!
10
Di questa stella, a cui siam presso omai,
la grandezza non è quant’altri crede,
ch’è del globo terren minore assai,
pur tanta in ogni modo esser si vede,
e tanti sparge e sì vivaci rai
che Giove istesso in qualche parte eccede;
ed a lei cede ogni altra luce intorno,
salvo le due che fan la notte e ‘l giorno,
11
né di tutto l’essercito stellante,
i cui splendor col suo bel volto imbruna,
fiamma sì luminosa arde, tra quante
ferme n’ha il cielo o peregrine, alcuna.
Quinci, quando talor spunta in levante,
piazza intorno si fa, come la luna;
e talvolta adivien che splender suole
in faccia al giorno al paragon del sole.
12
Qualor gli sguardi aventurosi gira
e spiega insu ‘l balcon le chiome bionde,
tai di grazia e d’amor faville spira,
tanti di cortesia raggi diffonde,
che può gli occhi invaghir di chi la mira
e la notte fugar, che si nasconde,
dando stupor dal suo lucente albergo
al mio gran zio, che la sostien su ‘l tergo.
13
Luce del mondo ed ultima e primiera,
ella il giorno dischiude, ed ella il serra;
sorge la prima a rischiarar la sera,
tosto che ‘l carro d’or gira sotterra;
poi, quando tutta la fugace schiera
dele stelle minor nel mar si serra,
riman nel’aria d’ogni luce priva,
sola in vece del sol, finch’egli arriva.
14
Sempre accompagna il sol, né mai da lui
per brevissimo spazio si disgiunge,
com’ancor fa la mia, sich’ambodui
non sappiam l’un dal’altro andarne lunge:
siam suoi seguaci, e seco ognun di nui
quasi in un tempo alfin del corso giunge,
terminando dipar con la sua scorta
del gran calle vital la linea torta.
15
Ben, come veder puoi, di sua sembianza
grande veracemente è la chiarezza,
ma sua virtute e sua fatal possanza
sappi ancor che risponde ala bellezza.
Di piacevol natura ogni altra avanza,
tutta benignità, tutta è dolcezza.
Tu per lei sola apien fatto contento
saprai per prova dir s’adulo o mento.
16
Egli è ben ver che, se Saturno o Marte
a lei s’accosta con obliquo aspetto,
le contamina il lume e le comparte
di sua rea qualità qualche difetto.
Ma quando avien che ‘n elevata parte
lunge da sguardo infausto abbia ricetto,
non si può dir con quanti effetti e quali
fortunati suol far gli altrui natali.
17
Gli agi del letto, e con diletto e riso
scherzi, giochi, trastulli, ozi promette;
bellezza dona e leggiadria di viso,
ma fa molli le genti e lascivette.
E, se quand’io le son incontro assiso,
meco amica e concorde i rai riflette,
produce in terra con auspici lieti
chiari oratori e celebri poeti.
18
Se Febo poscia a visitar si move
e ‘n sito principal la casa tiene,
o viensi a vagheggiar col padre Giove,
de’ suoi tesori prodiga diviene.
Il grembo apieno allarga e laggiù piove
ogni grazia, ogni onore ed ogni bene,
e col favor del’una e l’altra luce
a gran fortune i suoi soggetti adduce. –
19
Con questo dir per entro il lucid’arco
del cerchio adamantin drizza il sentiero,
ch’al conosciuto carro aprendo il varco,
la diva ammette al suo celeste impero;
loco che, di piacer, di gioia carco,
paradiso del ciel può dirsi invero,
e tanta luce e tanta gloria serra
ch’appo quel cielo ogni altro cielo è terra.
20
Aurette molli, Zefiri lascivi,
fonti d’argento e nettare sonanti,
di corrente zaffir placidi rivi,
rive smaltate a perle ed a diamanti,
rupi gemmate di smeraldi vivi,
selve d’incenso e balsamo stillanti,
prati sempre di porpora fioriti,
piagge deliziose, antri romiti,
21
vaghi perterra di grottesche erbose,
di pastini ben culti ampi giardini,
bei padiglioni di viole e rose,
di garofani bianchi e purpurini,
dolci concordie e musiche amorose
di sirene, di cigni e d’augellini,
boschi di folti allori e folti mirti,
tranquilli alberghi di felici spirti,
22
freschi ninfei di limpidi cristalli,
puri canali di dorate arene,
siepi di cedri, cespi di coralli,
scogli muscosi e collinette amene,
ombre secrete di solinghe valli
e di verdi teatri opache scene,
tortorelle e colombe innamorate
fanno gioir le region beate.
23
Havvi riposte e cristalline stanze
di scelti unguenti e d’odorati fumi,
che soglion ricettar belle adunanze
di ninfe no, ma di celesti numi;
altra liete canzoni e liete danze
accorda al’armonia de’ sacri fiumi,
altra nuota in un rio, ch’ha l’onde intatte
di manna e mele e di rugiada e latte.
24
Sicome suol triangolar cristallo,
ripercosso talor da raggio averso,
mostrar rosso ed azzurro e verde e giallo
quasi fiorito un bel giardin diverso,
onde chi mira i bei colori, ed hallo
del gran pianeta al lampeggiar converso,
veggendo iride fatto un puro gelo,
non sa se ‘l sol sia in terra o il vetro in cielo,
25
così volgendo ai dilettosi oggetti,
novi al suo senso, attonito le ciglia,
entrato il bell’Adon tra que’ ricetti,
non senza alto piacer si meraviglia.
Su ‘l collo ai volatori amorosetti
l’uccisor d’Argo abbandonò la briglia
e gli lasciò su per la riva fresca
pascer d’ambrosia incorrottibil esca.
26
Nel dritto mezzo vaneggiava un piano
cinto di colli e spazioso in giro,
che portava lo sguardo assai lontano,
tutto d’or mattonato e di zaffiro.
Era inun piazza e prato, e quivi in strano
lavor composti a risguardare usciro
vari orticelli di bei fior dipinti,
che di larghi sentieri eran distinti.
27
Dietro la pesta Adon, sotto la cura
dela sua bella ed amorosa duce,
si mise per la florida pianura,
la cui via dritta inver la costa adduce,
quando rasserenossi oltremisura
quell’emispero di beata luce,
ed ecco un lustro lampeggiar dintorno
che sole a sole aggiunse e giorno a giorno.
28
A guisa di carbon che si raviva
di borea ai soffi e doppio vampo acquista,
novo splendor sovra splendore arriva,
che riga l’aria di vermiglia lista.
Quasi ampia sfera il bel chiaror s’apriva,
nel cui centro il garzon ficcò la vista,
e vide entro quel circolo lucente
gran tratta spaziar di lieta gente.
29
Come augellini, che talor satolli
a stormo a stormo levansi dal fiume,
quasi congratulanti, ai vicin colli
scoton cantando le bagnate piume;
o come pecchie, che da’ campi molli
rapir le care prede han per costume,
tra’ purpurei fioretti e tra gli azzurri
alternando sen van dolci sussurri,
30
così menavan tra festivi canti
l’anime fortunate allegra vita,
lucide a meraviglia e folgoranti,
tutte in età di gioventù fiorita.
Vive persone no, paion sembianti
specchiati in bel cristal, che ‘l vero imita;
ciascuna lor imagine rassembra
vanità ch’abbia corpo ed abbia membra.
31
Tremolavan per entro i rai sereni
quelle fulgide fiamme a mille a mille
non altrimenti ch’atomi o baleni
soglian per le snebbiate aure tranquille,
o lucciolette, che ne’ prati ameni
con vicende di lampi e di scintille
vibrano, quasi fiaccole animate,
il focil dele piume innargentate.
32
– Deh per quel dolce ardor (disse il donzello
ala sua dea) che per te dolce m’arse,
dammi ch’io sappia che fulgore è quello
che repentino agli occhi nostri apparse?
e quelle luci, che ‘n più d’un drappello
vanno per mezzo i raggi erranti e sparse,
dimmi che son, poich’a beltà sì rara
la chiarezza del ciel più si rischiara? –
33
– La luce che tu miri è quella istessa
ch’arde ne’ tuoi begli occhi (ella rispose)
specchio di Dio che si vagheggia in essa,
fior dele più perfette e rare cose,
stampa immortal da quel suggello impressa,
dove il Fattor la sua sembianza pose,
proporzion d’ogni mortal fattura,
pregio del mondo e gloria di Natura.
34
Esca dolce del’occhio e dolce rete
del cor, che dolcemente il fa languire,
vero piacer del’alma, alma quiete
de’ sensi, ultimo fin d’ogni desire,
fonte che solo altrui può trar la sete
e sol render amabile il martire.
S’udito hai nominar giamai bellezza,
qui ne vedi l’essenza e la pienezza.
35
L’anima nata infra l’eterne forme
ed avezza a quel bel, ch’a sé la chiama,
dela beltà celeste, in terra l’orme
cerca e, ciò che l’alletta e segue e brama
e quando oggetto a’ suoi pensier conforme
trova, vi corre ingordamente e l’ama;
fior, fronde e gemme e stelle e sole ammira,
ma vie più ‘l sol che ‘n duo begli occhi gira.
36
Bellezza è sole e lampo e fiamma e strale,
fere ov’arriva e ciò che tocca accende;
sua forza è tanta e sua virtute è tale
ch’innebria sì, ma senza offesa offende.
Nulla senza beltà diletta o vale,
il tutto annoia, ove beltà non splende:
e gual cosa si può fra le create
più bella ritrovar dela beltate?
37
Perde appo questo, ancorché inun s’accoglia
quanto il mondo ha di buono, ogni altro bene.
Ogni altro ben ch’a desiare invoglia,
alfin sazia il desio, quando s’ottiene;
sol quel desio, che di beltà germoglia,
cresce in godendo, e vie maggior diviene;
sempre amor novo a novo bel succede,
tanto più cerca, quanto più possiede.
38
Giogo caro e leggier, leggiera salma,
prigionia grata e tirannia soave.
In qualunqu’altro affar perder la palma
altrui rincresce e l’esser vinto è grave;
a quest’impero sol qual più grand’alma
soggiace, e d’ubbidir sdegno non have.
Non è cor sì superbo o sì rubello
che non si pieghi e non s’inchini al bello.
39
Violenza gentil ch’opprime, affrena,
tira, sforza, rapisce e pur non noce;
tosco vital che nutre ed avelena,
e senza danno al cor passa veloce;
magia del ciel ch’incanta ed incatena
e non ha mano e non ha lingua o voce;
voce che muta persuade e prega,
man che senza legami annoda e lega.
40
Un sol guardo cortese, un atto pio
di bella donna mille strazi appaga,
fa subito ogni mal porre in oblio,
lodar l’incendio e benedir la piaga.
Cupido di penar rende il desio
e del proprio dolor l’anima vaga,
ed uom di vita e di conforto privo
è possente a tornar beato e vivo.
41
Questo è quel lume ch’innamora e piace,
e fa corona al’anime contente.
Né foco in fiamma, né favilla in face,
né stella in ciel, né sole in oriente
arde in sì puro incendio e sì vivace
ch’agguagli il dolce ardor che qui si sente;
sono astratte sostanze e lucid’ombre,
d’ogn’impaccio terren libere e sgombre.
42
Son dele donne più famose e belle
tutte raccolte qui l’alme beate,
peroché per fatal legge di stelle
quante giamai ne fieno o ne son state,
quelle che nacquer già mill’anni e quelle
che nasceran nela futura etate,
son, come qui le vedi, a schiera a schiera
tuttequante devute ala mia sfera.
43
E se vago sei pur di mirar come
liete sen van per questa piaggia aperta,
e vuoi ch’alcuna io ne disegni a nome,
meco non ti rincresca ascender l’erta.
Quivi, di quante scorgi aurate chiome,
contezza avrai più manifesta e certa,
che meglio apparirà, benché remota,
qualunque fia tra lor degna di nota. –
44
Ciò detto, ad un poggiuol poggiaro in cima
dele rupi più basse e più vicine.
– Ma qual (seguì Ciprigna) elegger prima
del bel numer degg’io, ch’è senza fine?
O quai più stimerò degne di stima,
le barbare, le greche o le latine,
fra tante le più belle e nobil donne
ch’abbia il ciel destinate a vestir gonne?
45
Tu vedi ben colei, che tanta luce
fra l’altre tutte di bellezza ha seco.
È la famosa suora di Polluce,
flebil materia al gran poeta cieco.
Vedi Briseida, che ‘l più forte duce
fè sdegnoso appartar dal campo greco.
Polisena la segue, e va contenta,
che l’ira ostil col proprio sangue ha spenta.
46
L’altra, ch’alquanto ha turbatetto il ciglio,
è la vezzosa vedova africana,
del mio ramingo ed agitato figlio
fiamma quasi maggior che la troiana;
tien nela destra il ferro ancor vermiglio,
né la piaga del petto intutto è sana,
e ‘n tanta gioia pur mostra la vista
d’ira, d’odio, d’amor, d’affanno mista.
47
Quella, ch’ha in man due serpi, e tanta dopo
lussuria trae di barbaresche spoglie,
e pende nel color del’Etiopo,
ma col suo bruno al’alba il pregio toglie,
e ‘l nero crine al’uso di Canopo
sotto un diadema a più colori accoglie,
del grand’Antonio amica, è Cleopatra,
che l’ha di sua beltà fatto idolatra.
48
Danae è colei, che semplicetta accolse
nel grembo virginal l’oro impudico.
Quella è l’incauta Semele, che volse
mirar in trono il non ben noto amico.
Ecco Europa colà, da cui già tolse
la più nobil provincia il nome antico;
eccoti Leda qui, che si compiacque
del bianco augello, ond’Elena poi nacque.
49
V’è Dianira, che si duol delusa
d’aver ucciso l’uccisor d’Anteo.
Havvi Arianna, che l’inganno accusa
del troppo ingrato e perfido Teseo.
Guarda Andromeda poi, che non ricusa
il fido suo liberator Perseo,
ed Ero guarda, che da lido a lido
trasse più volte il nuotator d’Abido.
50
Vedi una turba di progenie ebrea
tutta in un groppo, che laggiù camina?
in queste sol, che ‘l fior son di Giudea,
arde di santo amor fiamma divina.
V’ha Rebecca e Rachele e Bersabea,
havvi Susanna, Ester, Dalida e Dina,
e Giuditta è tra lor, la vedovella
feroce e formidabile, ma bella.
51
Mira il tragico ardor del pria crudele,
poi ripentito, anzi arrabbiato Erode,
Marianne gentil, che le querele
del fiero amante di quassù non ode.
L’altra, che d’aver tolto al suo fedele
il bel trionfo insuperbisce e gode,
io dico a Tito il buono, è Berenice,
che del gran vincitore è vincitrice.
52
Or t’addito di belle un altro coro,
non meno accese in amoroso rogo.
La gran donna del Lazio è madre loro,
cui por s’aspetta al’universo il giogo.
Livia d’Augusto è prima infra costoro,
Messalina di Claudio ha l’altro luogo,
senza mill’altre ancor, che ne tralascio
per restringer gran massa in picciol fascio.
53
Lasciar però non voglio una, che sotto
la manca poppa insanguinata e guasta
ha di punta mortale il fianco rotto:
Lucrezia, ancorché fama abbia di casta,
non so s’ha, come il corpo, il cor corrotto;
so ch’ala forza altrui poco contrasta,
e so che col pugnal non s’apre il petto,
che gustar pria non voglia il mio diletto.
54
No no, non già per ira il sen si fiede
ch’abbia, ti so ben dir, contro il tiranno,
per vendicar, sicome il vulgo crede,
con un colpo il suo torto e ‘l commun danno;
fallo sol per dolor, perché s’avede
pur troppo tardi del suo sciocco inganno,
che n’ha passata per follia d’onore
senza tanto piacer l’età migliore.
55
Volgiti a Fausta, che di foco infausto
per cagion del figliastro ha il cor tant’arso
che convien che, d’Amor fatto olocausto,
Crispo l’estingua col suo sangue sparso.
Il tempo a dirne tante è troppo essausto,
l’occhio a segnarle tutte è troppo scarso;
lascio l’antica schiera e passo a quella
che dee nobilitar l’età novella.
56
Tra’ più chiari splendor dele moderne
vedi là scintillar Giulia Gonzaga.
Del’immensa beltà che ‘n lei si scerne,
potrà far solo il grido incendio e piaga,
ed al fier Soliman le fibre interne
strugger del’alma innamorata e vaga,
onde per adempir gli alti desiri
verrà lo scita a ber l’onde di Liri.
57
Vedi duo rami del medesmo stelo,
una coppia real di Margherite,
sol per bear la terra elette in cielo,
e far di casto amor dolci ferite.
Quella ch’è prima, e di purpureo velo
le schiette membra e candide ha vestite,
indorerà con luce ardente e chiara
e del secolo il ferro e di Ferrara.
58
L’altra, che mano a man seco congiunge,
di Lorena felice i poggi onora.
Folgoreggia il bel volto ancor da lunge
e di lume divin tutto s’infiora;
Amor non cura, e pur saetta e punge,
ed altrui non volendo, uccide ancora.
Mira con che ridente aria soave
tempra il rigor del portamento grave.
59
Ecco d’ogni beltà, per cui beata
fia Novellara, un novo mostro e strano.
Per imagin formar sì ben formata
del gran pittor s’avantaggiò la mano.
D’Amor guerriera e di faville armata
fa piaghe ardenti, onde si fugge invano.
Ogni sua paroletta, ogni suo sguardo
fulmina una facella, aventa un dardo.
60
Isabella la bella è costei detta,
che dale prime due non si dilunga.
Disponi il core, o gran Vincenzo, aspetta
ch’un suo raggio per gli occhi al cor ti giunga!
Saprai di qual ardor, di qual saetta
dolcemente mortal riscaldi e punga.
Venga a mirar costei chi non intende
come si possa amar cosa ch’offende.
61
Che lume è quel, che trae di lampi un nembo?
che candid’ombra? e di che rai si veste?
porta nel volto Amor, le Grazie in grembo,
e nulla ha di terren, tutta è celeste;
sì sì, tien scritto nel’aurato lembo,
la Fenice del Po, Giulia da Este.
O del mondo cadente ultima speme,
prole gentil del’onorato seme !
62
O come la vegg’io folgor divino
tra mille balenar luci lombarde!
Finch’uom degno di lei trovi il destino,
scompagnata trarrà l’ore più tarde.
Quasi tra perle lucido rubino
da fin or circoscritto avampa ed arde,
quasi rosa tra’ fior, che ‘n fresca sponda
ferma il sol, molce l’aura e nutre l’onda.
63
Ecco del Tebro una pregiata figlia,
onde la gloria Aldobrandina irraggia,
idolo dela terra e meraviglia
di questa lieta e fortunata piaggia.
Volge l’arciere e sagittarie ciglia
bella, né men che bella onesta e saggia;
ride il bel volto e quasi un ciel s’ammira
che le stelle paterne intorno gira.
64
Altre due ne van seco in una schiera,
che le sembran compagne e son sorelle.
Colei, che più s’accosta ala primiera,
apre al verno maggior rose novelle.
L’altra, incontrando la più chiara sfera,
fa quel del sol ch’ei fa del’altre stelle.
Farà la prima il Taro adorno e lieto,
del’altre due s’arricchirà Sebeto.
64
Omai Savoia agli onor suoi m’appella,
e quattro dive a rimirar m’invita:
Caterina e Maria con Isabella,
e la maggior di tutte è Margherita.
Qual Paride, che scelga or la più bella?
qual lingua fia di giudicarle ardita?
Per queste, onde risona e Tile e Battro,
le Grazie, che son tre, diverran quattro.
66
L’Aurora ti parrà, se quella vedi,
quand’ella il pigro suo vecchio abbandona.
Se questa prendi a risguardar, la credi
la bella e bianca figlia di Latona.
Se del’altra di lor notizia chiedi
e miri lo splendor che l’incorona,
dirai ch’a mezzo giorno, a mezza state
ha minor lume il luminoso frate.
67
Ma la perla ch’io dico, a cui gran pregi
l’Indo stupisce e l’oriente ha scorno,
dagli antichi tesor di cento regi
uscita a rischiarar d’Europa il giorno,
quella che dee di preziosi fregi
far del gran figlio mio l’erario adorno,
è tal che mai non ne produsse alcuna
la conca, ove nascendo ebbi la cuna.
68
Amor dirà che ‘l paragone è vile,
a cui tanto di questa il candor piacque,
ch’al suo povero sen ne fè monile,
e nel foco affinolla, e non nel’acque.
Dirà, che questa sua perla gentile
tra l’onde no, ma tra le stelle nacque,
e che ‘l ciel, perché vince ogni altra stella,
vuolsi, in vece del sole, ornar di quella.
69
Il più lucido fil del vello aurato,
per porla in nobil filza, ha Cloto attorto,
e, per legarla, il più fin or pregiato
ha scelto Amor, ch’abbia l’occaso o l’orto.
Ma legge vuol d’irreparabil fato
che ‘n breve il suo signor rimanga morto;
né, potend’ella distemprarsi in pianto,
piangan sangue per lei Torino e Manto.
70
Quell’altra, che somiglia altera e sola
l’unica verginella peregrina
qualor le piume ha rinovate e vola
a visitar la region vicina,
Matilda è poi, d’Emanuel figliuola,
ne’ cui begli occhi Amor gli strali affina,
ed a cui diè di sua beltà superna
quanto può dar l’onnipotenza eterna.
71
Quegli occhi vaghi e di dolcezza ardenti,
per cui fia più del ciel bella la terra,
struggeran, nonché i cor, le nevi algenti
che del’Alpi canute il cerchio serra.
Moveran con tal armi e sì pungenti
contro l’alme ritrose assalto e guerra,
che torran lor nel’amorosa impresa
e l’ingegno e la fuga e la difesa.
72
Vedi un rivaggio che, del’erba fresca
ripiegando le cime, il prato bagna.
Quivi agli amori Amor istesso adesca
quant’avran mai di bello Italia e Spagna.
Quivi fiorisce ogni beltà donnesca,
ma forz’è, che di dirne io mi rimagna,
ch’al’occhio, che non ben tante n’accoglie,
la lontananza e lo splendor le toglie.
73
Pur non convien che con silenzio io passi,
quelle che son tra l’Alpi e i Pirenei.
E prima ala mia vista incontro fassi
alma, che co’ suoi lumi abbaglia i miei,
sola degna a cui ceda e ‘l pomo lassi
ch’ottenni dal pastor de’ boschi idei:
Margherita Valesia, il cui valore
è tesor di virtù, pompa d’onore.
74
Quest’altra perla, che qual sol fiammeggia,
ragion non è ch’io del mio dir defraude,
benché d’un tal suggetto io ben m’aveggia
con le parole estenuar la laude.
O con qual grazia e maestà passeggia,
come stupido il ciel tutto l’applaude!
tanti spirti reali intorno piove
che par la sfera mia sfera di Giove.
75
Ma par negli atti si contristi e dolga,
e va turbata e disdegnosa alquanto
che senza morte si rallenti e sciolga
quel nodo, onde là strinse imeneo santo,
e ch’altra a un punto le rapisca e tolga
di Gallia il regno e di beltate il vanto,
onde perder inun deggia per quella
e di reina il titolo e di bella.
76
Più oltre, o che divin volto vegg’io,
il cui grave rigor modera e molce
di benigna letizia un raggio pio
e d’onesto sorriso un lampo dolce.
Ell’è Ciarlotta, ardor del regno mio,
che gli onor di Condé sostiene e folce:
nume degno d’altari e che s’adori
con sacrifici d’anime e di cori.
77
Dal cielo, ond’esce il gran fanal di Delo,
ala riva ch’è meta a sua fatica,
e da’ pigri trioni, ove di gelo
la Tana il piede incristallito implica,
fin dove sotto il più cocente cielo
ferve di Libia la pianura aprica,
beltà non v’ha che più s’ammiri e pregi,
possente ad infiammar l’alme de’ regi.
78
Aguzza il guardo pur, se pur da tante
luci esser può che non languisca offeso,
e guarda ch’a quel sol ch’avrai davante
non resti o l’occhio cieco o il core acceso:
vedrai Maria Borbon, dal cui sembiante
il modello del bel Natura ha preso.
Beltà che far potrebbe in forme nove
spuntar le corna e nascer l’ali a Giove.
79
Questa degli avi suoi degna nipote,
farà di Mompensier più chiari i figli.
Hanno ancor molto a volger queste rote
pria che nasca laggiù chi la somigli:
bella onestà le ‘mporpora le gote,
ma confonde ale rose i patri gigli;
fa beato l’inferno il suo bel viso
e pon le pene eterne in paradiso.
80
Risguarda or quella in umiltà superba
sotto candido vel fronte serena,
quant’aspetto real ritiene e serba!
È la vaga Luigia di Lorena.
Del’angelica vista alquanto acerba
e del bel guardo la licenza affrena,
ma la forza del foco e delo strale
che passa i cori ad affrenar non vale.
81
Per questa il mio reame il suo legnaggio
non men d’onor che di beltà fiorisce;
vince parlando ogni rigor selvaggio,
le tigri umilia e gli aspidi addolcisce;
stempra gli smalti col benigno raggio,
scalda i ghiacci, apre i marmi, i cor rapisce:
Amor, questi miracoli son tuoi,
che ‘n virtù de’ begli occhi il tutto puoi.
82
Mira quell’altra, che con schivi gesti
dal commercio commun sen va lontana;
agli atti gravi, agli andamenti onesti
sfaretrata talor sembra Diana;
ma, per quanto comprendo ai rai celesti,
è la dea Caterina, alma sovrana,
che ‘n sé romita e dalo stuol divisa
fa di sé sol gioir Gioiosa e Guisa.
83
Anna obliar di Suesson non deggio,
ornamento e stupor dela mia corte.
Languir per lei d’amor mill’alme veggio,
e veggio al nascer suo nascer la morte.
O dele glorie mie colonna e seggio,
o maniere leggiadre, o luci accorte!
Dove di quelle luci il sol non giri,
altro ch’ombre non vede occhio che miri.
84
Fisa la vista, e tra’ più densi rai
Enrichetta Vandoma intento mira,
e duo d’amor luciferi vedrai,
che ‘n vece d’occhi la sua fronte gira;
duo giardini di fior non secchi mai
veston le guance, onde dolce aura spira;
ride la bocca, onde puoi ben vederle
in ostel di rubin chiostri di perle.
85
E che dirò di quella nobil ombra,
in cui tanto di lume Apollo infuse,
che di Safo e Corinna i raggi adombra,
e gloria accresce e numero ale Muse?
Anna Roana, che d’un lauro al’ombra
le suore seco a gareggiar ben use
sfida a cantar con que’ celesti accenti,
che del foco d’amor son sì cocenti.
86
Tacerò poi fra tante lampe eccelse
quella, onde Roccaforte arde e sfavilla?
Per crear questa luce, il ciel si svelse
del destro lume l’unica pupilla.
S’ancor verde ed acerba Amor la scelse
per arder l’alme, e sol d’ardor nutrilla,
deh! che fia poscia e qual trarranne arsura,
quando ale fiamme sue sarà matura?
87
Ma dove lascio un altro lume chiaro,
Maria, de’ Mombasoni egregia prole?
Grazia che stia di tanta grazia al paro
non mira in quanto mondo alluma il sole.
Le doti illustri delo spirto raro
raccontar non si lasciano a parole;
dir di lei non si può che non s’onori,
onorar non si può che non s’adori.
88
Incomposta bellezza e semplicetta
parte si scopre in lei, parte si chiude;
ignudo Amor nel vago viso alletta,
le Grazie nel bel sen scherzano ignude;
cortese orgoglio e maestà negletta,
maniere insieme e mansuete e crude,
gravità dolce e gentilezza onesta
bella la fan, ma ‘n sua beltà modesta.
89
A queste glorie aggiungi, a queste lodi,
i pregi del magnanimo marito,
io dico Carlo, che con saldi nodi
d’amor santo e pudico è seco unito,
e l’un fassi del’altro in dolci modi
di scambievole onor fregio gradito
con quel lume reciproco fra loro
ch’oro a gemma raddoppia e gemma ad oro.
90
O del Rodano altero inclito figlio,
per cui di gloria il Gallo impenna l’ali,
signor degno di scettro, il cui consiglio
volge la chiave de’ pensier reali,
il cui sommo valor farà dal giglio
sovente pullular palme immortali,
dritto fia ben che d’ogni gioia colmo
stringa sì bella vite un sì degn’ olmo. –
91
E qui Venere tace, indi gli addita
in disparte un drappel di donne elette,
e fra lor, come capo, è reverita
una, che trae per man tre pargolette.
Tien composta negli atti, a brun vestita
le bionde trecce in fosco vel ristrette,
e diadema reale ha su la chioma
di tre gigli fregiato e di sei poma.
92
Son le fanciulle ala beltà materna
e nel volto e nel gesto assai sembianti,
e ‘n fronte ala maggior par si discerna
cerchio di gemme illustri e scintillanti,
sì che d’Apollo la corona eterna
tempestata non è di raggi tanti,
onde nel tutto a lei si rassomiglia,
di sì gran genitrice emula figlia.
93
Tal dove l’ombre trionfali spande
la pianta amica a Giove e cara al sole,
sotto il suo tronco verdeggiante e grande
tenera sorge e giovinetta prole.
Tal rosa ancor non atta ale ghirlande,
non aperta e non chiusa in orto suole,
spiegando al’aura i suoi novelli onori,
dala madre imparar come s’infiori.
94
Parve fra le più degne e più leggiadre
questa ad Adon la più leggiadra e degna,
onde rivolto ala benigna madre
del picciol dio, che nel suo petto regna,
– Chi è colei, che fra sì belle squadre
(disse) d’ogni beltà porta l’insegna?
colei, che ‘n vista affabilmente altera
guida l’illustre ed onorata schiera?
95
Ben reina mi par dele reine,
cotanta in lei d’onor luce risplende.
Ed ha tre fanciullette a sé vicine,
in cui l’effigie sua ben si comprende,
e, coronata d’or l’oro del crine,
vassene avolta in tenebrose bende,
e sotto oscuro manto e bruno velo
può d’ogni lume impoverire il cielo. –
96
– Adone (ella risponde) i’ ben vorrei
spegner la sete al bel desir, che mostri,
ma scarsi sono a favellar di lei,
nonché gli accenti, i più facondi inchiostri;
non han luce più chiara i regni miei,
non vedran più bel sol mai gli occhi vostri;
con voce di diamante e stil di foco
cento lingue d’acciar ne dirian poco.
97
Altre volte soviemmi aver narrato
gual d’eccellenze in lei cumul si serra.
O quante palme, o quanti allori il fato
nela futura età le serba in terra!
Ma di quanti travagli il mondo armato,
per maggior gloria sua, le farà guerra!
Che non può l’alta grafia e ‘l buon consiglio
e del provido ingegno e del bel ciglio?
98
Ma di sue lodi, a cui di par non m’ergo,
dar ti potrà colei miglior novelle;
dico colei, che tu le vedi a tergo
tra ‘l fido stuol dele seguaci ancelle.
Fama s’appella e tien sublime albergo
là nel’ultimo ciel sovra le stelle,
dove sorge, fondata immobilmente
di diamante immortal, torre eminente.
99
Olimpo, a Giove ingiurioso monte,
Atlante, dele stelle alto sostegno,
Pelia, ch’altrui fu scala, Ossa, che ponte
per assalir questo superno regno,
l’Elmo, il Libano, il Tauro, o qual la fronte
erge a più eccelso inaccessibil segno,
fora a questa d’altezza ancor secondo,
che passa il ciel, che signoreggia il mondo.
100
Entrate innumerabili ha la rocca,
e ‘l tetto e ‘l muro in molte parti rotto,
di bronzo usci e balconi, e non gli tocca,
che gran romor non faccia, aura di motto;
tosto ch’esce il parlar fuor d’una bocca,
a lei per queste vie passa introdotto,
e forma quivi un indistinto suono,
come suol di lontan tempesta o tuono.
101
Quivi la pose il gran rettor de’ cieli,
quasi guardia fedel, cauta custode,
perché ciò che si fa scopra e riveli,
nunzia di quanto mira e di quant’ode.
Cosa occulta non è, ch’a lei si celi
e dà conforme al’opre o biasmo o lode.
Se si move aura in ramo, in ramo fronda,
esser non può che da costei s’asconda.
102
Del’umane memorie ombra seguace,
sempre avisa, riporta e parte e riede,
né riposa giamai, né giamai tace,
e più, quanto più cresce, acquista fede.
Garrulo nume e spirito loquace,
vita de’ nomi e di sestessa erede,
possente ad eternar gli eroi pregiati
e far presenti i secoli passati.
103
Generolla la terra, e co’ giganti
nacque in un parto orribili e feroci;
dea, che quant’occhi intorno ha vigilanti,
tanti ha vanni al volar presti e veloci,
e quante penne ha volatrici e quanti
lumi, tante anco ha lingue e tant’ha voci,
e tante bocche e tante orecchie, ond’ella
tutto spia, tutto sa, tutto favella.
104
Picciola sorge e debile da prima,
poi s’avanza volando e forza prende;
passa l’aria e la terra e su la cima
poggia de’ tetti e fra le nubi ascende;
e per vari idiomi in ogni clima
pari al guardo ed al volo il grido stende,
di ciò ch’altri mai fa, di ciò che dice
di buono o di reo publicatrice.
105
Questa, che deve a tutti quattro i venti
far poi la gloria sua chiara e sollenne,
sodisfaratti in più diffusi accenti. –
Così detto, chiamolla, ed ella venne.
Battea per le serene aure ridenti
con moto infaticabile le penne;
l’occhiuto augel rassomigliava al’ali,
che di varie fiorian gemme immortali.
106
Di tersa luce e folgorante acceso
brando, a’ cui lampi il sol perdea di molto,
stringea nel’una man, l’altra sospeso
reggea dal busto essangue un capo sciolto:
per la squallida chioma avinto e preso,
fosco nel ciglio e pallido nel volto,
spirava nebbia; e seppe Adon che questa
del’Oblio smemorato era la testa.
107
La sollecita dea, cui del desio
del bellissimo Adon nulla è nascosto,
e che, quando l’alato e cieco dio
il congiunse ala madre, il seppe tosto,
ben di lontan la sua dimanda udio
e quanto Citerea gli avea risposto,
ond’una allor dele sue cento lingue
sciogliendo, il ragionar così distingue:
108
– Volgi, o mortale, ove quel sol lampeggia
di bellezze e di grazie unico e solo,
gli occhi felici, e la beltà vagheggia
ch’alza i più pigri ingegni a nobil volo.
Dico quel sol per cui dolce fiammeggia
la terra, il cielo e l’un e l’altro polo;
quel vivo sole, ala cui chiara lampa
Senna senno non ha, se non avampa.
109
Questa è l’eccelsa e gloriosa donna,
ch’accoppia a regio scettro animo regio,
gran reina de’ Galli e dela gonna
e del sesso imperfetto eterno pregio,
del’inferma virtù stabil colonna,
del’età ruginosa unico pregio,
essempio di beltà, nido d’amore,
specchio di castità, fonte d’onore.
110
Dal gran centro del ciel lunga catena
di bel diamante innanellata pende;
con questa Amor, che l’universo affrena,
annoda altrui soavemente e prende;
per questa l’uom dala beltà terrena
d’un grado in altro ala celeste ascende,
e di questa quel bel, che ‘n lei s’ammira,
un arno è d’or, che qui l’anime tira.
111
Quest’amo ascose infra’ suoi strali Amore
in quel divino e maestoso aspetto,
in cui di due bellezze un doppio ardore
abbaglia ogni pensier, scalda ogni affetto.
L’una di nobil fiamma accende il core,
l’altra è degli occhi un reverito oggetto;
e quel gemino bel sì ben si mesce,
che qual foco per foco incendio cresce.
112
L’una il cupido senso alletta in guisa
con vivi lampi di serena luce,
ch’empie d’alto piacer chi ‘n lei s’affisa,
se ben casti desir sempre produce.
L’altra dal carcer suo l’alma divisa
di raggio in raggio al sommo sol conduce,
mostrandole laggiù sotto uman velo
quella beltà, che si contempla in cielo.
113
Ben tu per questa scala ancor le piume
del tuo basso intelletto alzar potrai,
e nelo specchio del creato lume
del’increato investigar i rai,
e del corporeo e natural costume
l’impura qualità vinta d’assai,
di quel bel ciglio ala beata sfera
tornar d’umil farfalla aquila altera.
114
Laggiù nel mondo a soggiornar ben tardi
verrà, ma carca di caduca salma.
E benché la gentil, per cui tu ardi,
possegga di beltà la prima palma,
sì nobili però non son que’ dardi,
con pace sua, che ti saettan l’alma.
L’una è lasciva dea, l’altra pudica,
l’una madre d’Amor, l’altra nemica.
115
E ti so dir ch’alfin, poich’avrà molto
vestite in terra le terrene spoglie,
quando il nodo vital le sarà sciolto
dala falce crudel, che ‘l tutto scioglie,
lo suo spirto real fia qui raccolto
in questo istesso ciel, dov’or s’accoglie,
e, com’è legge di destino eterno,
s’usurperà di Venere il governo.
116
A lei di questo giro il grave pondo
dal sovrano motor sarà commesso,
e d’influir laggiù nel vostro mondo
quanto influisce il suo bel nume istesso;
e ben contenta del’onor secondo
bramerà la tua dea di starle appresso,
né ben possente ad emularla apieno,
una dele sue Grazie essere almeno.
117
Potrebbon forse per cessar le gare
dele vicende lor partir le cure:
quella le notti addur serene e chiare,
questa portar le torbide ed oscure.
Crederò ben che per invidia amare
tai cose ed a soffrir le saran dure,
ma perché ‘l corso del’eterne rote
porta questo tenore, altro non pote.
118
Senno farà, se volentier le cede
e porta in pace il vergognoso oltraggio,
poiché pur di sua stirpe è degna erede
e di sua luce un segnalato raggio.
Sai ben di qual origine procede
del famoso Quirin l’alto legnaggio;
sai che d’ogni suo ramo è ceppo Enea,
che fu figliuol dela medesma dea.
119
Tu dei dunque saver ch’a nascer hanno
del buon sangue troian l’alme latine,
onde il Tebro ornerà dopo qualch’anno
prosapia di propagini divine.
Quindi gli Anici e i Pier Leon verranno,
poi d’Austria i regi, indi d’Etruria alfine
a dilatar nel secolo più fosco
il romano splendor, l’austriaco e ‘l tosco.
120
Veggio del’Austro l’onorata pianta
sì fatti partorir germi felici,
che nel’arbor del’or non fu mai tanta
ricca copia di rami e di radici.
Ma tra’ primi virgulti, onde si vanta,
quel ch’avrà più d’ogni altro i cieli amici
sarà Filippo, onor di sua famiglia,
dico colui che reggerà Castiglia.
121
Seguirà Carlo, al fortunato impero
promosso poi con titolo di Quinto,
che di trionfi laureati altero
e d’illustri trofei fregiato e cinto,
poiché, partito dal paterno Ibero,
avrà l’Africa corsa e ‘l mondo vinto,
romito abitator d’ermi ricetti,
deporrà ‘l fascio de’ terreni affetti.
122
Sottentrerà l’altro Filippo al peso,
quasi d’un novo Atlante un novo Alcide:
re tanto a pace ed a virtute inteso
giamai da polo a polo il sol non vide.
Questi, lo scettro in Lusitania steso,
cotanto il fato a’ bei pensieri arride,
in regione ancor non nota o vista
di là dal mondo un altro mondo acquista.
123
Caterina vien poi con Isabella,
qui le vedi ambedue starsene in gioia.
Questa va Belgia a far beata, e quella
di sue bellezze ad abbellir Savoia.
Ecco il terzo Filippo: o degna, o bella
progenie del guerrier ch’uscì di Troia!
Spagna, costui con l’armi e col consiglio
ti fia principe e padre e padre e figlio!
124
Non fia clima remoto, estrema zona,
dove lo scettro suo l’ombra non stenda,
ma l’ampia monarchia dela corona
è la luce minor che ‘n lui risplenda.
Quelche sovramortal gloria gli dona,
è quella coppia amabile e tremenda;
pietà che con giustizia insieme alberga:
o di tronco bennato inclita verga!
125
O come a propagar di stelo in stelo
viensi la sterpe del gran rege ispano!
ecco novo Filippo innanzi ‘l pelo
già di novo spavento empie Ottomano.
Destina a lui quell’angeletta il cielo,
che la donna real si tien per mano;
io dico dele tre la meno acerba,
quella ch’ha la corona, a lui si serba.
126
Ma del regio troncon che si dirama,
il secondo germoglio ecco discerno.
Fernando il buon, la cui temuta fama
fia del Turco crudel terrore eterno.
E, perché fuorché ‘l giusto, altro non brama,
sempre rivolto a’ rai del sol superno,
spiegherà nel vessillo altero e bello
del sommo Giove lo scudiero augello.
127
Lascio Massimo poi, trapasso Ernesto
e Ridolfo e Mattia, del gran cultore
di quel più ch’altro aventuroso innesto
successori al’impero ed al valore;
e taccio Alberto, ilqual non fia di questo,
quantunque ultimo d’anni, ultimo onore,
ch’al’indomito Ren quel giogo grave,
che sì duro gli fu, farà soave.
128
L’altra è Giovanna, e ben scorger la puoi
dolci balli menar per questi campi,
lieta, ch’al ciel per lei di tanti eroi
s’aggiunga un sol che più del sole avampi.
Stupisce l’Istro, e de’ cristalli suoi
stemprar sente lo smalto a sì bei lampi,
mentre, passando in braccio al gran Francesco,
con l’italico ciel cangia il tedesco.
129
E così fia ch’un stretto groppo incalme
d’Austria e d’Etruria ambe le piante insieme:
Etruria, a cui non già men nobil’alme
de’ gran Medici ancor promette il seme,
che, per tante ch’aduna e spoglie e palme,
fin di Bisanzio il fier soldan ne teme.
Ma quand’ogni altro pur venga mancando,
basta a supplir per tutti un sol Fernando.
130
Questi non pur con ben armati legni
tremar fa in guerra i più lontani mari,
di Corinto e di Ponto i lidi e i regni
purgando ognor di barbari corsari,
ma in pace ancor de’ più famosi ingegni,
e di cigni nutrisce incliti e chiari
schiere felici, onde per lui diviene
l’Arno Meandro e la Toscana Atene.
131
Cosmo di Cosmo anch’ei degno nipote
lascerà dopo lui memorie illustri,
e le genti rubelle e le devote
domerà, reggerà per molti lustri.
L’oro fia ‘l men dela sua ricca dote,
quando con degne nozze Europa illustri,
copulando l’Esperie, e novi onori
traendo d’Austro ala città de’ fiori.
132
Mira colei, ch’alluma e rasserena
tutto di questo ciel l’ampio orizzonte:
quella fia sua consorte, e Madalena,
leggilo, in lettre d’oro ha scritto in fronte;
del gran fiume german limpida vena
pur scaturita dal’austriaco fonte;
rosa giamai non vagheggiò l’Aurora
più modesta o più bella in grembo a Flora.
133
Lunga istoria sarebbe, o bell’Adone,
dela schiatta ch’io dico a contar gli avi.
Giulio, Clemente, Ippolito, Leone
e i lor sommi maneggi e i pesi gravi;
ostri, mitre, diademi, elmi, corone,
e stocchi e scettri e pastorali e chiavi,
e la linea non mai rotta dagli anni
de’ Lorenzi, de’ Pieri e de’ Giovanni.
134
Ma sovra questi e sovr’ogni altro frutto
che sì nobil giamai ceppo produca,
un rampollo gentil sarà produtto,
in cui tanto valor fia che riluca,
ch’alo splendor del suo legnaggio tutto
par che tenebre e lume a un punto adduca,
sicome sol ch’illumina le stelle,
ma, sorgendo tra lor, le fa men belle.
135
Ve’ quel cerchio lucente, ove raccolte
quasi in aureo epiciclo, altr’ombre stanno;
quivi in gran nebbia di splendore involte
le miglior di sua stirpe insieme vanno
e foltissimo stuol di molte e molte
stelle terrene e dee dietro si tranno;
ma di tutte è colei, che le conduce,
la lumiera maggior, l’unica luce.
136
Quella che seco parla e che s’asside
sovra la rugiadosa erba vicina,
e d’esser del bel numero sorride,
pur con regio diadema, è Caterina;
e rintuzzar saprà l’armi omicide,
ch’han col tempo a sbranar Gallia meschina,
e saprà del gran corpo in sé diviso
saldar le piaghe, onde fia quasi ucciso.
137
Congiungerassi in nobil giogo e degno
l’una al secondo e l’altra al quarto Enrico.
Non si turbi però, né prenda a sdegno
di restar vinta da costei, ch’io dico,
e di ceder a lei non pur del regno
lo scettro sol, ma d’ogni pregio antico;
non pur dela real gloria e grandezza,
ma la corona ancor dela bellezza.
138
Del’istessa brigata eccoten’ una,
che come singolar fra l’altre io sceglio,
che l’Arno e ‘l Mincio illustra e ‘n sé raguna
del fior d’ogni beltà la cima e ‘l meglio,
gemma d’Amore e, senza menda alcuna,
di grazia e di virtù limpido speglio:
Leonora, ch’onora ogni alto stile,
e desta amore in ogni cor gentile.
139
Un’altra Caterina ha in compagnia,
che, come il volto, ha l’abito vermiglio;
quella e questa delpar sposata fia
del sangue d’Ocno a genitore e figlio.
Ma vedi come ala gran suora e zia
reverenti ambedue volgono il ciglio,
dico a costei, che senza spada o lancia
ha sol con gli occhi a trionfar di Francia.
140
Dal mare il nome avrà, di cui fu prole
l’istessa dea, ch’ha del tuo core il freno;
e com’è di bellezza un chiaro sole,
così fia un mar di mille grazie pieno;
raccorrà in sé quanto raccoglier suole
di ricco il mare e di pregiato in seno;
anzi al mar darà perle il suo bel riso,
oro il bel crine e porpora il bel viso.
141
In questo sol dal mar fia differente:
ricetta ei scogli e mostri, ira e furore,
ma costei sosterrà scettro innocente,
pien di clemenza e privo di rigore;
in lei duo vivi soli hanno oriente,
nel mare il sol tramonta e ‘l giorno more;
agli assalti de’ venti il mare soggiace,
l’animo suo tranquillo ha sempre pace.
142
Non fia giamai fra le più degne e conte,
dovunque il volo mio stenda i suoi tratti,
altra che la pareggi o la sormonte
in leggiadre fattezze o in chiari fatti.
Prudenza in grembo e pudicizia in fronte,
senno ne’ detti e maestà negli atti
nova Aspasia la fan, nova Mammea,
anzi, degna del ciel, novella Astrea.
143
Fien magnanime imprese, opre virili
del suo nobil pensier le cure prime:
al’ago, al’aspo, a’ rozzi studi e vili
non piegherà giamai l’alma sublime;
ma dale basse valli erger gli umili,
i superbi abbassar dal’alte cime,
maneggiar scettri e dispensar tesori,
questi fien di sua man degni lavori.
144
Uopo che molle amomo unga il bel crine
o che barbaro nastro unqua lo stringa
non avrà già, che gli ori e l’ambre fine
fia che col suo biondor d’invidia tinga;
non dela guancia l’animate brine
artefice color fia che dipinga
altro che quel color di fiamme e rose
che Beltà sol con Onestà vi pose.
145
Non in terso cristallo avrà costume
de’ begli occhi arrotar lo stral pungente,
ma le fra solo il chiaro antico lume
del suo sangue real specchio lucente;
sangue real che, quasi altero fiume,
di grandezza immortal colmo e possente,
verrà dal fonte di sì ricche vene
le belle a fecondar galliche arene.
146
Tenteran Morte rea, Fortuna avara,
ambe d’Amor nemiche e di Natura,
di quest’inclito sol la luce chiara
con benda vedovil render oscura;
ma nel manto funesto assai più cara
fra de’ begli occhi suoi la dolce arsura
e, come fiamma di notturna sfera,
scoprirà doppio lume in spoglia nera.
147
Barbara man con sacrilegio infame,
ferro crudel con perfida ferita
del’Alcide di Gallia il regio stame
troncando, ahi stolta in ciò vie più ch’ardita!
oserà di spezzar l’aureo legame
dela più degna e gloriosa vita.
Così talvolta avien che chi di spada
cader non può, di tradimento cada.
148
Ma come a questa Venere novella,
quando il velo mortal squarcerà Morte,
per esser più del’altra onesta e bella,
il terzo cielo è destinato in sorte,
così costui, che la guerriera stella
vincerà di valor, Marte più forte,
del suo giorno vitale a sera giunto,
fia del quint’orbe al gran dominio assunto.
149
Ahi! qual allor, qual esser deve e quanto,
o Muse, il vostro affanno, il vostro lutto?
Dritto è che resti, abbandonando il canto,
da’ sospir vostri il sacro fonte asciutto;
dritto è che torni poi col largo pianto
de’ vostri lumi a ricolmarsi tutto:
degno n’è il caso; e se mortai non siete,
esser almen passibili devete.
150
Ma che fia di costei, veduto estinto
sotto un colpo fellon l’Ercol novello?
e di sangue real bagnato e tinto
chiudere il corpo augusto angusto avello?
languirà, piangerà, né però vinto
fia ‘l decoro dal duolo o il duol men bello;
men bello il duol non fra nel suo bel viso,
che ‘l festivo seren del dolce riso.
151
Né, seben sola e sconsolata resta
dopo l’orrendo e scelerato scempio,
vedova lagrimosa in bruna vesta
cede il fren del discorso al dolor empio;
anzi, qual buon nocchiero in ria tempesta,
di bontà sole e di giustizia essempio,
mar di prudenza e di fortezza scoglio,
degli scogli e del mar rompe l’orgoglio;
152
e, del vero sembiante essendo priva,
benché l’abbia nel cor, del gran marito,
procura pur, se non l’effigie viva,
d’averne almeno un idolo mentito.
Quindi venir dala toscana riva
per man d’altro Lisippo a sé scolpito
fa di pesante e concavo metallo
il colosso real su ‘l gran cavallo.
153
Fonder di bronzo omai più non bisogna
canne tonanti o fulmini guerrieri,
anzi convien che stempri il gran Bologna
quanti tormenti ha Marte orridi e fieri.
Tempo è ch’abbiano a far scorno e vergogna
le statue illustri e i simulacri alteri
ai crudi ordigni, agli organi da guerra,
poiché mercé d’Enrico è pace in terra.
154
Ed io, quando per lui bombarde ed armi
in aratri e ‘n trofei vedrò cangiate,
poiché fien tutti i bronzi e tutti i marmi
rosi dal dente del’ingorda etate,
per eternar con gloriosi carmi
del magnanimo re l’opre onorate,
non già d’altra materia o d’altre tempre
le trombe mie vo’ fabricar per sempre.
155
Ma strano caso avien, mentre per l’onde
l’edificio mirabile camina,
però che tra le cupe acque profonde
l’assorbe la voragine marina,
Ciprigna istessa, che nel mar s’asconde
e dal mar nacque ed è del mar reina,
credendol Marte, in quel passaggio il prende
per abbracciarlo, alfin delusa il rende.
156
Dal divino scultor veggio animato
l’alto destrier, che sembra un picciol monte;
veggiol, quasi da Pallade intagliato,
far con la vasta imago ombra al gran ponte,
e, mentre quivi in cotal atto armato
semedesmo a mirar china la fronte,
l’istesso eroe, del ciel fatto guerriero,
non sa dal finto suo scegliere il vero.
157
Ella, che del’artefice, ch’avanza
natura istessa, il gran prodigio ammira,
sente dal’insensibile sembianza
uscir vive faville, onde sospira,
e, temprando il martir con la membranza,
dala scultura, che si move e spira,
pende immobile e tace, e così intanto
inganna gli occhi e disacerba il pianto.
158
Ma come quella a cui non d’altro cale
che ‘n vera pace assecurar Parigi,
per riunirsi ala corona australe
stringe con esso lei la fiordiligi.
Figlia del gran monarca occidentale
l’alta sposa sarà del buon Luigi:
Anna, che ne’ verd’anni ed immaturi
fia ch’agli anni rapaci il nome furi.
159
S’io dicessi che ‘n bocca ha l’oriente,
ch’april di puri gigli il sen le ‘nfiora,
ch’ella porta negli occhi il sol nascente
e nele guance la vermiglia aurora,
poco direi, seben veracemente
quanto dir ne saprei, mentir non fora;
ma ‘l più s’asconde e ‘l men che ‘n lei s’apprezza
è la terrena esterior bellezza.
160
Vedila là, che per solinghe strade
spoglia il prato de’ fregi, ond’è vestito
e, per crescer bellezza ala beltade,
intrecciando ne va serto fiorito.
Dal’Ibero, ove ‘l sol tramonta e cade,
nascerà l’altro sol, ch’or io t’addito:
vedi, che del crin biondo il bel tesoro,
come il fiume paterno, ha l’onde d’oro.
161
O face di beltà gemina e doppia,
a cui tante il destin glorie predice,
là dove Amor con nobil laccio accoppia
d’Iberia e Gallia il sole e la fenice!
Leggiadra, augusta, aventurata coppia,
nasca da voi succession felice,
che con sempre fecondo ordin d’eroi
susciti in terra il prisco onor de’ tuoi!
162
Esca fien queste nozze, onde pugnaci
verrà poi Marte ad eccitar faville,
siché d’Amore e d’Imeneo le faci
fiamme saran di saccheggiate ville.
Dal letto al campo andrassi e ‘l suon de’ baci
turbato fia da mille trombe e mille.
Ragionarti di ciò parmi soverchio,
che già mostro ti fu nel’altro cerchio.
163
Altri accidenti ancor volger si denno
pria che, cresciuto il pargoletto giglio,
ella deponga, e deporrallo a un cenno,
lo scettro franco e ceda il trono al figlio
e, la costanza accompagnando al senno,
dimostri animo invitto e lieto ciglio;
costanza tal che si può far ritratto
d’ogni altra sua virtù sol da quest’atto.
164
Or di qual più bel lauro ornar le chiome?
di qual fregio miglior vergar le carte
speran gl’illustri spirti? o quale al nome
trar maggior luce altronde o gloria al’arte?
Ma che? forano lor troppo gran some
a segnarne pur l’ombra, a dirne parte,
ancorché dale dee del verde monte
tutto in lei si versasse il sacro fonte.
165
Sembra penna mortal, ch’osi talora
ritrar de’ suoi splendor gli abissi immensi;
pennel che bella imagine colora,
ma non le dà però spirti, né sensi.
Onde se non l’essalta e non l’onora
il mio roco parlar quanto conviensi,
scusimi il sol de’ begli occhi sereno,
che quanto splende più, si vede meno.
166
Sveller però per celebrarla io voglio
dale mie piume i più spediti vanni,
con cui più d’uno stile in più d’un foglio
farà scrivendo a Morte illustri inganni
e con quell’armi, ond’io trionfar soglio,
torrà l’ira al’oblio, la forza agli anni;
fra’ quali un ne verrà, ch’austro e boote
risonar ne farà con chiare note.
167
Dal mare ancor costui fia che s’appelli,
per in parte adeguar l’alto suggetto,
ma presso al mar d’onor sì grandi e belli
fra picciol fiume il suo rozzo intelletto.
Pur come, benché poveri, i ruscelli
corrono al mare ed han dal mar ricetto,
così sprezzato ancor non fia ‘l suo stile,
di mar sì vasto tributario umile.
168
O fortunato, o ben felice ingegno,
destinato a cantar divini amori,
sì dal ciel favorito e fatto degno
di tanti e tanto invidiati onori!
Tu sarai di quel nome alto sostegno,
che fia ricca mercede a’ tuoi sudori,
di cui fia che risoni e Sona e Senna,
ornamento immortal dela tua penna.
169
Io, quanto a me, non poserò volando,
benché sia ‘l mondo a tanta gloria angusto,
finché le lodi sue non spiego e spando
dal’Atlante nevoso al’Indo adusto.
E con bisbiglio armonico essaltando
in petto feminil pensiero augusto,
sebene il falso al ver mescer mi piace,
sarò, lodando lei, sempre verace.
170
E giuro ancor di quest’aurata tromba
il sonoro metallo enfiar sì forte
ch’a quell’alto romor che ne rimbomba
l’ali al Tempo cadran, l’armi ala Morte.
Né vietar potrà mai letargo o tomba,
perfida invidia, ingiuriosa sorte,
che dovunque virtù la scorge e chiama
non la segua per tutto anco la Fama. –
171
Così parlò, poi fuggitive e preste
le penne dispiegò l’alata dea,
e ‘l cavo bronzo accompagnando a queste
voci, gli atri del ciel fremer facea,
e da più d’un vicino antro celeste
più d’un eco immortal le rispondea.
Allor l’Eternità quant’ella disse
col suo scarpello in bel diamante scrisse.
172
La vista intanto inusitata e strana
di quelle vaghe e peregrine larve,
che, qual si fusse, o sussistente o vana,
basta che grata e dilettosa apparve,
divenuta o più chiara o più lontana,
non so dir come, in un momento sparve:
parve pesce fugace in cupo fiume;
non so se fusse o la distanza o il lume.
173
Come in superba e luminosa scena,
al dispiegar dela veloce tela,
ogni pompa e splendore, ond’ella è piena,
ai riguardanti subito si cela,
così repente, in men che non balena
ciascuna imago agli occhi lor si vela,
e nele più secrete e più profonde
viscere dela luce si nasconde.
174
Scendon la balza e dal poggetto ameno
tornano al piano, onde partiro avanti.
Ma di stupore innebriato e pieno
spesso sospende Adon tra via le piante
e perch’alto desio gli bolle in seno
di saver qual destin gli è sovrastante,
che gliel voglia scoprir Mercurio prega,
e ‘n sì fatto parlar la lingua slega:
175
– Orché di tante meraviglie ascose
l’ordin m’è noto ai secoli prescritto,
molto vago sarei con l’altre cose
d’udir quanto di me nel fato è scritto.
Tu, per cui ciò che san, san le famose
scole d’Arcadia e i gran musei d’Egitto,
deh! qual di mie fortune in ciel si cela
fausto o misero evento, a me rivela. –
176
Risponde il divin messo: – Uom per natura
ad oracol fatidico ricorre,
perché qualunque o buona o rea ventura
sia per lui fissa in ciel, gli deggia esporre.
Ma sovente adivien ch’egli procura
d’intender quel che poscia inteso aborre
e, s’infortunio alcun gli si predice,
vive vita dubbiosa ed infelice;
177
e v’ha talun che, da gran rabbia mosso,
senza guardar che ‘l mal vien di qua sopra,
qual can, che morde il sasso, ond’è percosso,
odia colui che la bell’arte adopra.
Tacer non vo’ pertanto, e far non posso
che ‘l gran rischio imminente io non ti scopra;
che seben contro il ciel forza non hanno,
pur giova a molti antivedere il danno.
178
Quando il pianeta, che de’ cerchi nostri
regge il minor, concorse al tuo natale,
ferì, varcando il gran sentier de’ mostri,
il più bravo e magnanimo animale,
e ‘l settimo occupò di tutti i chiostri,
angolo ch’è fra gli altri occidentale;
talché nel lume suo trovossi unito
ferino il segno e violento il sito.
179
Era Saturno insu quel segno anch’esso
e nel medesmo albergo avea ricetto
ed al’umida dea giunto dapresso
la risguardava di quartile aspetto;
e vibrando il suo raggio a un tempo istesso
d’impression contagiosa infetto,
opposto al chiaro dio che ‘l dì conduce,
il percotea con la maligna luce.
180
Intanto Marte era nel toro entrato,
casa dov’abitar suol Citerea,
e già dopo il ventesimo passato
tutto sdegnoso il quarto grado avea,
e mandava al leone il suo quadrato,
che quasi in grado eguale il ricevea.
Or questo influsso, come vuol Fortuna,
sen vien per dritto ad incontrar la luna.
181
Contro la luna il fier quadrato giunge,
laqual dinotatrice è dela morte
e per direzion le si congiunge
minacciando ti pur l’istessa sorte,
perché, com’ anaretico, l’aggiunge
virtù nel mal più vigorosa e forte;
e l’un e l’altro in loco tal s’annida
che ne divien nocente ed omicida.
182
Eccoti in somma, che ‘l più basso lume
a due stelle perverse applica a prova,
il malvagio vecchione e ‘l crudo nume,
a cui guerra sol piace e sangue giova.
Havvi due fere poi, ch’han per costume
di divorar chi sotto lor si trova,
ed havvi il sol, cui sguardo iniquo offende
e dal’altrui rigor rigore apprende.
183
Nel tempo dunque che t’accenno or io,
sappi la mente aver provida e saggia.
Guardati pur dal bellicoso dio
e fuggi ogni crudel bestia selvaggia.
Ma non so se la vita al fato rio
potrai tanto sottrar, ch’alfin non caggia
e, qual da falce suol tronco ligustro,
non pera al cominciar del quarto lustro. –
184
Così parlava, e più parlar volea
l’ambasciador del concistoro santo,
quando le sue ragion ruppe la dea,
che seco il bell’Adon trasse da canto.
– Lascia omai queste favole (dicea)
ed al garrulo dio non creder tanto,
però ch’egli è ben saggio, a dirne il vero,
ma vie più fraudolento e menzognero.
185
Pascolava lo dio del’aurea cetra
in Anfriso l’armento ed ei rubollo.
Tacciomi quando l’arco e la faretra,
ancor fanciullo, gli furò dal collo,
destro così che ne restò di pietra
e n’arrossì ma ne sorrise Apollo.
Tolse a Giove lo scettro, e non fu molto:
se non cocea, gli avrebbe il fulmin tolto.
186
Alo dio dela guerra invitto e franco
il pugnal portò via dala vagina.
Al mio marito la tanaglia ed anco
il martello involò nela fucina.
A me stessa, che più?, rapì dal fianco
il cinto e si vantò dela rapina.
Or teco a scherzi intento ed a follie,
prende a vaticinar sogni e bugie.
187
Con quel parlar che morte altrui minaccia,
la giovenil simplicità spaventa;
ala lingua mendace il fren dislaccia
e ‘l periglio vicin ti rappresenta
per veder scolorir la bella faccia
e provar se ‘l tuo cor sene sgomenta.
Ma che? quand’egli ancor non parli a gioco,
i pronostici suoi curar dei poco.
188
Di tai chimere io vo’ che tu ti rida;
ancorché d’empio ciel raggio ti tocchi,
qual sì cruda sarà stella omicida
che ‘l rigor non deponga a’ tuoi begli occhi?
Folle chi, troppo credulo, confida
nel vano profetar di questi sciocchi,
che presenti non san le lor sciagure
e dansi a specolar l’altrui future.
189
Spesso la notte infra i più ciechi ingegni,
più del’altrui che del suo mal presago,
i moti ad osservar de’ nostri regni
stassi astrologo egizzio, arabo mago,
e, figurando con più linee e segni
ogni casa celeste ed ogni imago,
l’immenso ciel di tanti cerchi onusto
vuol misurar con oricalco angusto.
190
Giudica i casi e, del’altrui natale
mercenario indovin, calcola il punto,
né s’accorge talor, miser, da quale
non previsto accidente è sovragiunto;
e mentre cerca pur d’ogni fatale
congiunzion, come si trova apunto,
l’influenze esplorar benigne o felle,
quasi notturno can, latra ale stelle.
191
Non nego che non sieno i sommi giri
nel mondo inferior molto possenti,
perché questi volubili zaffiri
son diafani tutti e trasparenti,
onde forz’è che colaggiù traspiri
il reflesso immortal de’ lumi ardenti,
e de’ lor raggi sovra i corpi bassi
esser non può che la virtù non passi.
192
Ma dico ben che ‘l ciel con le sue sfere
ubbidisce al gran re che ‘l tutto regge,
l’alta cui providenza, il cui sapere
ne dispone a suo senno e le corregge,
lasciando al’uomo il libero volere
essercitar con volontaria legge;
e raro avien che ‘n quella nebbia fosca
altri di tai secreti il ver conosca.
193
L’anima umana, in cui s’alligna e vive
dela scienza un natural desire,
stendendo oltre i confin, che le prescrive
divieto eterno, il curioso ardire,
cose imprender non dee di speme prive,
impossibili in terra a conseguire,
onde l’audacia sua pur troppo ardita
sia con l’essempio d’Icaro punita.
194
Ad oggetto sfrenato occhio non dura;
perdesi il senso in ogni estremo eccesso;
siché pronosticar cosa futura
ad ingegno mortal non è concesso.
Sol colui, che comanda ala natura,
sa prevenir del mondo ogni successo;
né può però l’istessa onnipotenza
al’altrui volontà far violenza.
195
Inclinar ben le voglie a male o bene
favor di stella o nemicizia pote,
ma necessaria forza in sé non tiene
dele vaganti alcuna o del’immote.
S’uom n’è mosso talor, ciò non aviene
per tirannia dele celesti rote,
ma perché movon la corporea massa,
da cui poscia il voler mover si lassa.
196
Da’ sensi, ala cui fabrica concorre
e ‘n cui, come già dissi, il ciel può molto,
suoi l’inclinazion nascer, che corre
dietro ai moti malvagi a freno sciolto;
ma la ragion, che ‘ntende e che discorre,
fa resistenza al’appetito stolto.
Vinto il fato è dal senno, e può l’uom forte
sforzar le stelle e dominar la sorte.
197
Quando pur questi fuochi alti e superni
s’usurpassero in voi tanta possanza,
qual intelletto i gran decreti eterni
avria giamai d’interpretar speranza?
Chi per entrar ne’ penetrali interni
di Dio, sarà giamai dotto a bastanza?
Chi sarà che di farsi ardir si pigli
arbitro o consiglier de’ suoi consigli?
198
Qual sì veloce fia pensiero audace?
Qual fia mai sì leggier pronto discorso
che ‘l tratto lieve e l’impeto fugace
possa seguir, senza divin soccorso,
di quella sfera rapida e rapace,
che seco trae d’ogni altra sfera il corso
e mille volte con diversi effetti
viene in un punto a variar gli aspetti?
199
Se dela vista è più spedito un dardo,
se l’occhio al lampo di prestezza cede,
e pur e l’uno e l’altro è lento e tardo
a ragguaglio di quel ch’assai gli eccede,
come può cosa umano ingegno o sguardo
adeguar, ch’adeguar non si concede?
e dal volo del’anima agitante
il gran corpo del ciel trarre un instante?
200
Quanti in guerra talor, quanti per peste
restano in un momento uccisi e morti?
Quanti son da Nettun fra le tempeste
in un legno, in un punto insieme absorti?
Dunque gli danna un sol destin celeste
tutti delpari ale medesme sorti?
Come credibil fia, ch’abbian commune
una direzion tante fortune?
201
S’è ver che quei ch’al’istess’ora è nato
influsso abbia dal’altro indifferente,
perché viene a sortir diverso stato
il re che col villan nasce egualmente?
Perché si varia in lor costume e fato,
se non si varia il tempo o l’ascendente?
Ond’avien, se conforme hanno il natale,
che la vita e la morte è diseguale?
202
Non può dunque astronomica scienza,
né specolazion di mente inferma
far securo presagio e dar sentenza
del’avenir determinata e ferma,
perché del suo saver la conoscenza
è general, che spesso il falso afferma;
né senza error qual più sottil pensiero
si vanti mai di perscrutarne il vero.
203
Fame o contagio, è ver, pioggia ed ecclisse
a chi ‘l futuro investigar s’ingegna
dale stelle talvolta erranti o fisse
esser può ben che di ritrarre avegna.
Pur talor riuscì, quando il predisse,
contrario effetto a quelche l’arte insegna,
onde si scorge espressamente aperta
la vanità dela dottrina incerta.
204
Se quando egli predice o nebbia o vento,
vedesi in ciel rasserenare il sole,
o quando un calor fiero e violento,
fredda l’aria divien più che non suole,
non è questo infallibile argomento
dela fallacia pur dele sue fole?
Ciò non l’accusa chiaro e manifesto
venditor di menzogne in tutto il resto?
205
Poiché il suo studio è mentitore e vano
in materie sì facili e sì trite,
qual può regola dar giudicio umano
nele cose più dubbie ed esquisite?
Di quel ch’ha innanzi agli occhi aperto e piano
le cagion non intende assai spedite:
dico d’un fior, d’un’erba o d’un virgulto;
ed osa poi di presagir l’occulto?
206
Quando l’infante è nel materno seno,
di qual sesso si sia non ben comprende
e vuol, nato ch’egli è, spirto terreno,
scoprir qual fin dal viver suo s’attende.
Cosa avenuta ei non capisce apieno
e quelch’avenir deve a spiar prende;
non conosce sestesso e quelche mira,
e del gran Giove ai chiusi arcani aspira?
207
Quinci veder ben puoi quant’ella sia
facoltà temeraria, arte fallace.
Ma siasi pure ogn’influenza ria
inevitabilmente anco efficace:
contro il vigor dela bellezza mia
qual forza avrà giamai sinistra face?
e qual dove son io, può farti oltraggio
di malefica luce infausto raggio?
208
L’orrida falce sua contro Ciprigna
il più pigro pianeta indarno rota.
Contro me s’arma invan stella sanguigna:
vibri, se sa, la spada o l’asta scota,
ch’a placar del suo cor l’ira maligna
basta ch’un guardo mio sol la percota.
Qual timore aver puoi d’influssi rei,
se porto il tuo destin negli occhi miei? –
209
Dopo questo parlar, perché s’accorse
ch’Adone ai detti suoi pago rimase,
ma che malvolentier le piante torse
per dipartir dale lucenti case
e di tante bellezze alcuna forse
poterlo a lei rapir si persuase,
gelosa pur ch’Amor non l’invaghisse
di quelche visto avea, così gli disse:
210
– Io veggio ben che rimaner vorresti
meco per sempre in così bei soggiorni
e l’albergo terren cangiar con questi
regni beati e d’ogni gloria adorni;
ma vuol legge fatal che più non resti
e convien ch’io laggiù teco ne torni;
né picciol privilegio è d’uom mortale
l’esser poggiato, ov’altri unqua non sale.
211
Potervi solo entrar con la mia scorta
per favor singolar ti si concede.
Destino il vieta e non v’ha strada o porta,
ond’uom vivo giamai vi ponga il piede.
Né ch’altri abiti qui Giove comporta,
sotto corporeo vel, che Ganimede.
Del camin nostro il terzo sol si serra
e già ne chiama a riveder la terra. –
212
Tacque, e già fatto un grado avea la notte
dela scala, onde poggia al’orizzonte.
Volavan fuor dele cimerie grotte
i pigri abitator di Flegetonte;
e, tra le nubi ripercosse e rotte
raccolta in orbe la cornuta fronte,
Alba parea la vergine di Delo,
sorta anzi tempo ad imbiancar il cielo.
213
La partita s’affretta e ‘l saggio auriga
già ripiglia la via ch’al venir tenne
e gli amorosi augei sferza ed instiga,
che fendon l’aria senza mover penne.
L’ombre segnando di dorata riga,
il bel carro calossi e ‘n terra venne
e posò lieve lieve alfin disceso
nel gran palagio il suo leggiadro peso.
214
Il sol, daché partir fino al ritorno,
tre volte il lume estinse e tre l’accese,
tanto che nel viaggio e nel soggiorno
di tre notti e tre dì spazio si spese.
Ma perché ‘n ciel mai non tramonta il giorno,
Adon non sen’accorse e nol comprese,
e tal esca gustò, tal licor bebbe,
che di cibi terreni uopo non ebbe.
LA FUGA

ALLEGORIA

Dalla Gelosia, che va col suo veleno ad infettare il cor di Marte nel colmo de’ maggior trionfi, si conosce che niun petto, per forte che sia ed in qualsivoglia stato, può resistere alla violenza di questa rabbia. Dal cagnolino che lusinga e guida Adone si discopre l’affetto verso le cose terrene, da cui si lascia l’uomo assai sovente trasportare alla traccia de’ beni temporali, ombreggiati nella cerva dalle corna d’oro. Il serpente guardiano del passo, cangiato dalla maga in sì fatta forma, dimostra il misero stato di chi cerca l’occasioni del peccare, per la qual cosa perdendo l’umana effigie, ch’è ritratto della divina somiglianza, vien condannato a vivere bestialmente nelle tenebre come cieco. Nel giardino della fata de’ tesori, tutto piantato d’oro e seminato di gemme, ci viene espressa la commodità delle ricchezze, che son di notabile importanza a conseguir le lascivie. Falsirena travagliata da due contrari pensieri, vuol dinotarci l’anima umana, agitata quindi dalla tentazione dell’oggetto piacevole e quinci dal rispetto dell’onesto. Le due donzelle che la consigliano, ci figurano la ragionevole e la concupiscibile, che ci persuadono quella il bene e questa il male.

ARGOMENTO

Dala tartarea sua caverna oscura
la Gelosia pestifera si parte
e, mentre col suo tosco infuria Marte,
Adon sen fugge e trova alta ventura.

1
O di buon genitor figlia crudele
che ‘l proprio padre ingratamente uccidi
e le dolcezze altrui spargi di fiele
e le gioie d’amor rivolgi in stridi,
infame Scilla ch’a spiegar le vele
sol per lor danno i naviganti affidi,
sfinge arrabbiata, abominanda Arpia,
per cui virtù si perde, onor s’oblia,
2
spaventevol Medusa, empia Medea,
che ‘l senso impetri e la ragione incanti,
Circe malvagia, iniqua maga e rea,
possente in belve a trasformar gli amanti,
qual più mai dal’abisso uscir potea
infelice cagion de’ nostri pianti?
Cruda ministra di cordogli e pene,
propizia al male ed aversaria al bene,
3
ombra ai dolci pensier sempre molesta,
cura ai lieti riposi aspra nemica,
del sereno del cor turbo e tempesta,
del giardino d’amor loglio ed ortica,
gel per cui secco in fiore il frutto resta,
falce che ‘nsu ‘l granir tronchi la spica,
rigido giogo ed importuno morso,
che ne sforzi a cadere a mezzo il corso,
4
acuto spron che stimulando affligi,
putrido verme che rodendo ammorbi,
sferza mortal che l’anime trafigi,
vorace mar che le speranze assorbi,
nebbia che, carca di vapori stigi,
rendi i più chiari ingegni oscuri ed orbi,
velo che dela mente offuschi i raggi,
sogno de’ desti e frenesia de’ saggi,
5
qual ria megera o scelerato mostro
ti manda a noi da’ regni oscuri e tristi?
Vattene vanne a quell’orribil chiostro
onde rigore a’ tuoi veleni acquisti.
Non più contaminar lo stato nostro,
torna, torna a Cocito onde partisti;
ch’aver dove ben s’ama in nobil petto
non può basso timor lungo ricetto.
6
Ma nel misero ancor mondo perduto
non so se sì gran peste entrar ardisca
e negli alberghi suoi l’istesso Pluto
non ti voglia cred’io, ma t’abborrisca,
perché teme al tuo ghiaccio il re temuto
non forse il regno eterno incenerisca
o la fiamma ch’ognor dolce il tormenta
per Proserpina sua non resti spenta.
7
Giace del freddo Tanai insu le sponde
là nela Scizia una foresta negra.
Non di fior, non di pomi e non di fronde
spoglia mai veste in alcun tempo allegra,
ma fulminate piante, alpi infeconde
peggior la fan ch’Acrocerauno o Flegra.
D’aure invece e d’augelli han le sue sterpi
pianti di gufi e sibili di serpi.
8
L’infausto noce e di nocente tosco
consperso il tasso e ‘l funeral cipresso
rendon quel sempre al sol nemico bosco
con le pallide chiome ispido e spesso.
Per entro il sen caliginoso e fosco
d’ogni intricato suo calle e recesso
marciscon l’ombre e l’aria è densa e nera
quasi meno che notte e più che sera.
9
Van per burroni cavernosi e cupi,
per balzi inaccessibili ed inculti,
per erme sempre e solitarie rupi
o popolate sol d’aspri virgulti,
draghi a tutt’ore immansueti e lupi
sotto tenebre eterne errando occulti.
Piangono i fonti e ‘n flebile concento
sospira e spira ancor spavento il vento.
10
Quivi col piede antico una grand’elce
al monte il manco lato apre e scoscende,
nel cui spiraglio di pungente selce
s’incurva un arco, che ruina e pende
là ‘ve turato d’edera e di felce
precipitoso baratro si fende,
del cui lavor, roso dagli anni e scabro,
il caso sol fu l’architetto e ‘l fabro.
11
Nele viscere cave ignoto speco
rifiuta il sole e fugge i suoi splendori.
Muti qui sempre e quasi in carcer cieco
tacciono i mesti e desolati orrori.
Raro fra lor s’ascolta accento d’eco,
troppo rigidi alberghi a’ suoi dolori.
Se la chiaman talor tigri o leoni,
son le risposte sue fulmini e tuoni.
12
Oltre, così nel sotterraneo sasso
con profonda voragine s’interna
che va l’estremo del confin più basso
a terminar nela palude inferna;
onde si crede che sia quindi il passo
del rege oscuro al’infima caverna
e che colei che l’abita sovente
conversi ancor con la sepolta gente.
13
I latrati di Cerbero custode
scaccian dala contrada armenti e greggi,
pianger del’alme ree la turba s’ode
di Radamanto ale severe leggi,
s’odon gli angui fischiar, batter le code
del’empie Erinni entro i tartarei seggi
e si sente bollir nel proprio fonte
il gorgoglio di Stige e d’Acheronte.
14
Tra queste solitudini s’imbosca
non so s’io deggia dir femina o fera.
Alcun non è che l’esser suo conosca
o ne sappia ritrar l’effigie vera;
e pur ciascun col suo veleno attosca,
si ritrova pertutto ed è chimera,
un fantasma sofistico ed astratto,
un animal difforme e contrafatto.
15
D’antica donna ha la sembianza e ‘l nome,
squallida, estenuata e macilenta.
Le mostruose e scompigliate chiome
tutte son serpi ond’ogni cor spaventa.
Dipse, anfisbene e dragoncelli o come
inasprano il dolor che la tormenta,
cencri, chelidri; ed ondeggiando al tergo
colman di doppio orror l’orrido albergo.
16
Fronte ha severa, né giamai rischiara
sotto il concavo ciglio il guardo torto,
guance spolpate e le rincrespa ed ara
di spessi solchi arido labro e smorto;
versa un assenzio dala bocca amara
ch’amareggia ogni gioia, ogni conforto;
dala fetida gola un fiato l’esce
che pestilenza al’aere oscuro accresce.
17
Come Giano ha duo volti ed apre e gira
cento lumi qual Argo e piangon tutti,
sguardi di basilisco e dove mira
fa gli umani piacer languir distrutti.
D’aspido ha la virtù, ch’apena spira
ch’appesta il core e cangia i risi in lutti.
Di cervo il capo e la natura e l’atto
che si rivolge indietro a tratto a tratto.
18
Tolse le parolette ala fè greca,
la lingua mentitrice ala bugia.
È il suo veder, come veder di cieca,
un vano imaginar di fantasia.
Tende l’orecchie a chi novelle arreca
ed ha piè di ladron, passi di spia.
D’alchimista il color pallido e mesto
e i dolori del parto in ogni gesto.
19
Più veloce che folgore o che strale,
dovunque il cieco arcier soggiorna o regna
col pensier vola; ha nel pensier mill’ale
e mille strane machine disegna.
Per trar dal’altrui bene il proprio male,
secrete cifre interpretar s’ingegna.
Corre dietro al periglio e sa che ‘n breve
quelche segue e che brama uccider deve.
20
L’occhio aguzza pertutto e move il piede
tacita al’ombra e sconosciuta al sole.
Si riduce a temer ciò che non vede
e studia procacciar ciò che non vole.
Non men che ‘l vero, il falso afferma e crede,
cercando quel che di trovar le dole;
e sta sempre sì dubbia e sospettosa
che la notte non dorme, il dì non posa.
21
Un rospo ha in bocca ed un pestifer angue
su la poppa sinistra il cor le sugge.
Giamai non ride, al’altrui rider langue
e ciò che non è doglia aborre e fugge.
Così sempre dolente e sempre essangue
per distrugger amor, sestessa strugge.
Tra foco e ghiaccio si consuma e pasce,
vivendo more e nel morir rinasce.
22
Piagne, freme, vaneggia e trema e pave,
l’universo conturba ed avelena,
e ‘n sé di buono in somma altro non have
ch’esser flagello a semedesma e pena.
Nel’antro istesso, entro l’istesse cave
vive altra gente ancor d’affanni piena,
squadra di morbi e legion di mali
suoi perpetui compagni e commensali.
23
Va il cieco Error per l’aria cieca a volo,
spiando il tutto vigila il Sospetto,
sta in disparte il Pensier tacito e solo
con gli occhi bassi e con la barba al petto,
l’unghie si rode e ‘l proprio cor per duolo
l’Invidia in divorar sfoga il dispetto
e di nascosto con occulte frodi
lo Scandalo fellon semina chiodi.
24
L’Odio con lingua amara e labro sozzo
di sputar fiele ador ador non cessa;
la Desperazion si stringe il gozzo
con una fune e si sospende ad essa;
la Follia trae de’ sassi e dentro un pozzo
ratto a precipitar corre sestessa;
bestemmia il Pentimento e per angoscia
si percote con man la destra coscia.
25
La Miseria sospira a tutte l’ore,
rotta la gonna e lacero il mantello;
tiene il Travaglio un avoltoio al core,
una lima inquieta ed un martello;
trangugia coloquintida il Dolore
e bee cicuta, aconito e napello;
il Pianto insu la man la guancia appoggia
e stilla i lumi in lagrimosa pioggia.
26
Questa del’empia vecchia è la famiglia,
di lei ben degna, a lei conforme anch’ella.
Dal’erebo la rea l’origin piglia,
del’eumenidi dee quarta sorella.
Del tiranno del’alme antica figlia,
nacque col mondo e Gelosia s’appella.
Non so come tal nome avesse in sorte,
devendosi chiamar piutosto Morte.
27
Levò costei dala magion profonda
al ciel la fronte livida e maligna.
Sbiecò le luci ove di tosco immonda
luce fiammeggia torbida e sanguigna
e la vita mirò lieta e gioconda
che ‘n braccio al caro Adon traea Ciprigna,
né cotanta in altrui quiete e pace
fu senza rabbia a tollerar capace.
28
Già si risolve, al bel seren celeste
passando, abbandonar l’eterna notte.
D’un cilicio di spine il corpo veste
e vola fuor dele solinghe grotte.
Di spine il manto ha le sue fila inteste,
ma le fibbie e i botton son bisce e botte;
di tai fregi laggiù per lor diletto
soglionla ornar Tesifone ed Aletto.
29
Tosto che fuor dela spelonca oscura
uscì quel sozzo vomito d’inferno,
sentiro i fiori intorno e la verdura
fiati di peste ed aliti d’averno.
Poria col ciglio instupidir natura,
inorridire il bel pianeta eterno,
intorbidar le stelle e gli elementi
senon gliel ricoprissero i serpenti.
30
I vaghi augelli in dolci versi e lieti
i lor semplici amori a sfogar usi,
fer pausa al canto e sbigottiti e cheti
volar tra’ rami più nascosti e chiusi.
I destrieri d’Apollo in grembo a Teti,
per tema ombrosi e di terror confusi,
tuffaro il capo e sen’andar fuggendo
la brutta vista del’oggetto orrendo.
31
Fu per sottrarsi e vacillando torse
gli omeri Atlante al suo celeste pondo
siché fu Giove di caderne in forse
e tutto minacciò ruina il mondo.
Proteo a celarsi con sua greggia corse
nel cupo sen del’ocean profondo,
né con l’umide figlie impaurite
uscir degli antri suoi volse Anfitrite.
32
Là sotto l’arto il mostro il passo move
ver l’albergo del’orse e de’ trioni,
dove gli algori e le pruine e dove
fan perpetua battaglia i nembi e i tuoni
e fiocca il ciel sempr’adirato e piove
alo spesso ruggir degli aquiloni,
né spoglia il verno mai né giamai rompe
le sue di smalto adamantine pompe.
33
Mentre la region malvagia e trista
che di piogge e di ghiacci è tutta greve
trascorre, ecco dal ciel discender mista
gran tempesta di grandine e di neve.
Strillano gli aspi e forza il tosco acquista
ed ella alto piacer di ciò riceve,
perché molto conforme è la freddura
ala sua fredda e gelida natura.
34
Tra due montagne discoscese ed erte,
dove il sol di passar non ha possanza,
cinta di selve sterili e deserte
trova di Marte la spietata stanza.
Dale fatiche in guerreggiar sofferte
quivi ha talor di ritirarsi usanza
e scinto il brando crudo e sanguinoso,
dopo molti sudor, prender riposo.
35
Di gran lastre di ferro ha tutti onusti
la fiera casa e pavimento e tetto.
L’alte colonne e gli archi suoi robusti
tutti di ferro son sodo e perfetto.
Ferro son de’ balconi i balausti,
ogni loggia, ogni palco è ferro schietto
e mostran pur di ferro usci e pareti
sculte l’imprese del gran re de’ Geti.
36
Stanno nel colmo dela volta appese
e ‘n guisa di trofei sotto le travi
vote spoglie di genti uccise e prese,
tavole rotte d’espugnate navi,
adusti merli di cittati accese,
porte abbattute e gran catene e chiavi,
tende, stendardi e mille insegne e mille
d’osti disfatte e di distrutte ville.
37
Havvi ancor vari arnesi e vari ordigni,
timpani audaci e bellicose trombe,
mazze, pali, troncon, stocchi sanguigni,
balestre, archi, zagaglie e dardi e frombe,
corde, rote, roncigli, azze e macigni
e granate volanti e palle e bombe,
scale, gatti, arieti e quanto in terra
guerriero adopra o può servire a guerra.
38
Non era l’empia dea giunta ala corte
quando udì di lontan batter la cassa.
L’aria s’offusca e cresce assai più forte
il temporal che gli arbori fracassa.
Ed ecco aprir le strepitose porte,
ecco lo dio che fulminando passa.
Tremando il monte e ‘l pian, l’onda e la riva,
dan segno altrui che ‘l gran campione arriva.
39
Come qualor de’ suoi ministri alati
i vagabondi esserciti insolenti
scatena fuor con procellosi fiati
il crudo re che tiranneggia i venti,
spoglia le selve, disonora i prati,
scaccia i pastor, disordina gli armenti
ed ingombrando il ciel di nembi foschi
saccheggia i monti e discapeglia i boschi,
40
così, mentre il crudel scorre l’arene,
geme il lido biston, Strimone stride
e fa per tutto intorno, ovunque viene,
mormorar le minacce e le disfide.
Trema la terra istessa che ‘l sostiene,
s’apron le nevi e l’onda si divide
e come passi o la saetta o il foco
ogn’intoppo gli cede e gli dà loco.
41
De’ popoli che domi avea con l’armi
la pompa trionfal traea quel giorno
e da’ vinti Geloni e da’ Biarmi
al suo tracio terren facea ritorno.
Le sue vittorie in gloriosi carmi
iva la Fama promulgando intorno
e piangendo seguian querule schiere
di genti incatenate e prigioniere.
42
Sovra un tronco di lancia il braccio appoggia,
fuma la chioma, il fianco anela e suda.
Bellona dietro gli sostiene a foggia
di fidato scudier la spada ignuda
che gocciolante di sanguigna pioggia
fulmina l’aria d’una luce cruda.
Il Terror, suo valletto, insu la testa
l’elmo gli assetta e del cimier la cresta.
43
Lampeggia sangue e d’un pallore oscuro
tinto lo scudo, smisurata mole,
vibra balen che torbido ed impuro
le stelle attrista e discolora il sole.
Guernito il busto ha pur di ferro duro
e preme il carro in cui combatter suole;
e duo corsieri e duo, legati al paro,
tirano il carro ch’è di terso acciaro.
44
Viensene accompagnato il fiero auriga
da trombe infauste e da funeste squille.
Macchia il suolo in passando e sparge e riga
tutto il sentier di sanguinose stille.
Rossa vie più che fiamma è la quadriga
e dale nari ognor spira faville
e pieno il carro tutto è di sculture
animate di nobili figure.
45
Opre ancor non seguite, istorie e cose
non avenute e di non nate genti
ch’or sono in quest’età le più famose,
eranvi incise allor come presenti.
E l’indovino artefice vi pose
note assai note e ben intesi accenti
che scritti conteneano i nomi eterni
de’ maggior duci antichi e de’ moderni.
46
Non so in qual sacro fonte immerse il labro
o in qual libro divin gli annali lesse,
siché ‘l fato precorse il dotto fabro
quando il futuro in vivo intaglio espresse.
Imprese varie nel metallo scabro
molt’anni pria che fussero successe
finte avea con tant’arte e magistero
che gli occhi dubitavano del vero.
47
Havvi Alessandro che d’allor la chioma
circonda intorno e Cesare e Pompeo
ed Annibal che l’Alpi espugna e doma
e Scipio che gli toglie ogni trofeo,
Muzio, Orazio, Marcello e qual mai Roma
celebra eroe più chiaro o semideo;
indi i più degni de’ più degni inchiostri
capitani e guerrier de’ tempi nostri.
48
Enrico il grande inprima èvvi scolpito
che da fanciul s’avezza a’ gravi incarchi
e ‘n ben cento giornate a pugna uscito
sempre palme n’ottiene e statue ed archi.
V’è Carlo Emanuel, non meno ardito,
che non è rege ed emula i monarchi,
solo in guerra possente a sostenere
pria le galliche forze e poi l’ibere.
49
V’è il Farnese Alessandro, ilqual di gigli
fregia l’insegna e pur i gigli assale
né tra’ suoi più pregiati antichi figli
può ‘l Tebro annoverarne un altro tale.
Far poi Durenza e Lisara vermigli
con fortuna al valor scorgesi eguale
Francesco Bona, il marescial di Francia
dela gloria francese e scudo e lancia.
50
Animoso garzon poscia si vede
ale tartare squadre il petto opporre
e le sbaraglia ed ha tai lettre al piede,
Gismondo invitto, il Transilvano Ettorre.
Segue un eroe che la cesarea sede
difende al Turco e l’Ungheria soccorre
e ‘l gran Giovanni Medici di sotto,
novo Achille d’Etruria, espone il motto.
51
Sculto v’è di Liguria anco un marchese
cui l’ambrosia e la spina il nome diero,
e ‘n ferir forte, in addolcir cortese,
ben l’opre al nome suo conforma invero.
Emulo al’alte ed onorate imprese
di Belgia a fronte ha un inclito guerriero.
Maurizio il breve dice, illustre in guerra
Ercol del Reno e Marte dela terra.
52
V’era dopo costoro un giovinetto
più d’ogni altro feroce e ‘n vista umano,
ma sbozzato dal mastro ed imperfetto
che data non gli avea l’ultima mano.
Parea davante a quel reale aspetto
tremar il mondo e rimbombar lontano;
e mille avea dintorno ombre e disegni
d’osti sconfitte e d’acquistati regni.
53
A piè gli stava il vigilante augello
ch’ha purpureo cimier, dorati sproni
e parea publicando un sol novello
i draghi spaventar nonché i leoni.
V’avea poscia il fatidico scarpello
accennate da lunge altre azzioni,
non ben distinte ancor né terminate,
secondoché crescendo iva l’etate.
54
Vedeasi ancor che lo scultor volea
il nome di costui far manifesto,
ma perch’acerbi in lui gli anni scorgea,
il principio n’espresse e tacque il resto.
Lodo sol senza più scritto v’avea
e stimò che bastar devesse questo,
che quando a dir di lui lingua si snodi
nominar non si può che non si lodi.
55
Innanzi al carro e d’ognintorno vanno
turbe perverse e di sembiante estrano.
L’altero Orgoglio, il traditore Inganno,
l’Omicidio crudel, lo Sdegno insano,
l’Insidia che ‘l coltello ha sotto il panno
e la Discordia con due spade in mano,
il Furor cieco, il Rischio desperato,
il Timor vile e l’Impeto sfrenato.
56
La Stizza v’ha che di dispetto arrabbia,
l’Ira vi sta che batte dente a dente,
la Vendetta si morde ambe le labbia
ed ha verde la guancia e l’occhio ardente,
la Crudeltà d’imporporar la sabbia
gode del sangue del’uccisa gente
e fra strazi e dolori e pianti e strida
rota la falce sua Morte omicida.
57
Tremò la furia a quella vista e n’ebbe
pentita del suo ardir tema ed orrore
e tant’oltre venuta esser le increbbe,
ché per natura ha paventoso il core,
e ‘n dietro ritornar quasi vorrebbe
che ‘n somma altro non è senon timore,
pur ripreso coraggio, audace e pronta
tra’ suoi trionfi il forte duce affronta.
58
Quella larva in mirando orrida e pazza
del carro ogni destrier s’arretra e sbuffa
e ‘l crin che quinci e quindi erra e svolazza
s’erge lor sovra il collo e si rabbuffa.
Ma nel’entrar dela tremenda piazza
il vincitor d’ogni dubbiosa zuffa
gli affrena e volge in lei qual face o dardo
pien di bravura e spaventoso il guardo:
59
– La tua diva, il tuo ben, quella che ‘ntatta
sol per te (gli diss’ella) arder s’infinge,
eccola là che ‘ndegna preda è fatta
d’un selvaggio garzon che ‘n sen la stringe;
d’un ch’apena sostien l’arco che tratta,
guarda a che bassi amori amor la spinge;
e quando in braccio a lui talor s’asside
de’ tuoi vani furor seco si ride. –
60
Tacque e crollò, poiché così gli disse,
l’empia ceraste onde fea selva al crine
ed al signor dele sanguigne risse
il fianco punse di secrete spine.
Poi nel core una vipera gli affisse
dele chiome mordaci e serpentine
e, ferito che l’ebbe in un momento,
si sciolse in ombra e si disperse in vento.
61
Come con sua virtù sottile e lenta
ch’ha vigor di velen, rigor di ghiaccio,
s’al’esca la torpedine s’aventa
toccando l’amo e penetrando il laccio,
scorre ratto ala canna ed addormenta
del pescatore assiderato il braccio
e, mentre per le vene al cor trapassa,
tutto immobile e freddo il corpo lassa,
62
così la furia col suo tosco orrendo
di gelido stupor Marte consperse,
loqual di fibra in fibra andò serpendo
e ‘n profondo martir l’alma sommerse,
sich’ogni senso, ogni color perdendo,
lasciò di man le redine caderse,
né dal’assalto di quel colpo crudo
valse punto a schermirlo usbergo o scudo.
63
Ma quel rabbioso e rigoroso gelo
già già fiamma diviene a poco a poco,
onde l’abitator del quinto cielo
sembra da venti essercitato foco.
Passato il cor di velenoso telo
vendicarsi desia, né trova loco.
Quell’astio omai superbo ed iracondo
non cape il petto e lui non cape il mondo.
64
D’un tenace sudore è tutto molle,
fosca nebbia infernal gli occhi gli abbaglia,
e soffia e smania e di dolor vien folle,
tal passion l’afflige e lo travaglia.
Fatto è il suo sen, che gela insieme e bolle,
campo mortal di più crudel battaglia
per le nari a un punto e per le labbia
gitta fumi d’orror, schiume di rabbia.
65
La noderosa e formidabil asta
ch’ha nela destra allor contorce e scote,
rovere immensa e sì pesante e vasta
che nessun altro dio mover la pote.
Poi dal seggio elevato a cui sovrasta
lunge la scaglia e i nuvoli percote.
Guizza per l’aure il grave tronco e fugge,
ne rimbomba la terra e ‘l ciel ne mugge.
66
L’Emo al bombo risponde e l’Ato insieme
con orribil romor tutto risona;
il Rodope vicin n’ulula e geme
e ‘l nevoso Pangeo ne trema e tuona;
si scote l’Ebro dale corna estreme
la canicie del gel che l’incorona
e con le brume, onde sovente agghiaccia,
lega al’Istro il timor l’umide braccia.
67
Rompe le nubi e i turbini disserra
l’antenna folgorante e sanguinosa,
mari e monti travalca ed ira e guerra
porta vibrata dala man crucciosa
e vola a Cipro e si conficca in terra
onde ne piagne l’isola amorosa
e con chioma sfrondata e volto essangue
la rosa e ‘l mirto impallidisce e langue.
68
Tolse il carro ferrato e ‘n vista oscura
a quella volta il nume altier si mosse.
Toccò i cavalli e dela sferza dura
sentir fè loro i fischi e le percosse.
Volge le luci sì che fa paura,
di foco e sangue orribilmente rosse.
Al lume infausto de’ maligni lampi
perdono il verde i boschi, il fiore i campi.
69
Con quel furor, con quel fragor ne venne
l’orribil dio degli elmi e dele spade
con cui dal ciel su le vermiglie penne
vigorando sestesso il folgor cade,
qualor dala prigion che chiuso il tenne
fugge e, serpendo per oblique strade,
con tre denti di foco in rauco suono
sbrana le nubi e fa scoppiarne il tuono.
70
Udì del mostro dispietato e fiero
Amor l’inique e temerarie voci
e vide nel terribile guerriero
minacciosi sembianti e sguardi atroci,
onde del militar carro leggiero
precorrer volse i corridor veloci
e spiegò tosto dal gelato polo
la bella madre ad avisarne il volo.
71
Tremando, ansando ed anelando arriva
e ben mostra il timor la faccia smorta
e con voce interrotta e semiviva
del duro caso la novella porta.
La stupefatta e sbigottita diva
o come allor si turba e si sconforta
ed or volta al’amico ed or al figlio
non sa ne’ dubbi suoi prender consiglio.
72
Non con tanto spavento in fragil pino
spinto da borea iniquo in mar turbato
il nocchier di Sicilia ode vicino
dela cagna del faro il fier latrato,
con quanto Citerea del suo divino
guerrier, di ferro e di disdegno armato,
teme la furia e la possanza immensa
e mille scuse e mill’astuzie pensa.
73
Pensa alfin ricorrendo ale menzogne
d’un’audacia sfacciata armar la fronte
e spera con lusinghe e con rampogne
tutte in lui riversar le colpe e l’onte.
Ma per meglio celar le sue vergogne
e le scuse aiutar che son già pronte,
dando pur loco a quel furore stolto,
non vuol che ‘l vago suo seco sia colto.
74
Chiama Adone in disparte e lagrimando
l’essorta a declinar l’ira di quella,
quella che posta ogni pietate in bando,
governa il quinto ciel barbara stella.
Il giovinetto attonito tremando
nele spalle si stringe e non favella
e per sottrarsi agl’impeti di Marte
al partir s’apparecchia e pur non parte.
75
Pallido più che marmo e freddo e muto
mentre ch’apre la bocca e parlar vole
in quella guisa che talor veduto
dala lupa nel bosco il pastor suole,
come spirito e senso abbia perduto,
gli muoion nela lingua le parole
ed è sì oppresso dal dolor che l’ange
ch’al pianger dela dea punto non piange.
76
– Or prendi (ella gli dice) eccoti questo
cerchietto d’or che tien due destre unite,
in segno che del’alme il caro innesto
scior non si può, sciolgansi pur le vite.
Ricco è il lavor; ma vie più vale il resto
per sue virtù mirabili inudite.
Ponlo al dito del cor, né mai lasciarlo,
che non possa per fraude altri involarlo.
77
Giova agl’incanti, incontr’a lui non hanno
malie possanza o magiche fatture.
Né poco util ti fia per qualch’inganno
nel corso dele tue varie aventure.
Mentre teco l’avrai, nulla potranno
nocerti i neri dei del’ombre oscure,
né la fede e l’amor che mi giurasti
cosa sarà ch’a violar mai basti.
78
Di più la gemma ch’è legata in esso
è d’un diamante prezioso e fino.
Quasi picciolo specchio ivi commesso
fu da Mercurio artefice divino.
Qualor colà fia che t’affisi espresso
il mio volto vedrai come vicino.
Saprai come mi porto e con cui sono,
dove sto, ciò che fo, ciò che ragiono.
79
Non è picciol conforto al mal che sente
dal’amata bellezza un cor lontano,
aver almen l’imagine presente
ch’Amor scolpita in esso ha di sua mano.
Qui vo’ pregarti a rimirar sovente
ché non vi mirerai, credimi, invano.
Qui meco ognor ne’ duri essili tuoi
e consigliare e consolar ti puoi.
80
Vanne, non aspettar che cagion sia
l’indugio tuo del mio perpetuo pianto.
Ritratti in salvo per occulta via
finché questo furor si sfoghi alquanto;
né dubitar che l’assistenza mia
non t’accompagni in ogni parte intanto.
Un nume tutelar d’ogni arte instrutto
invisibil custode avrai pertutto. –
81
Sospirando a minuto e ‘n su’l bel volto
filando a stilla a stilla argento puro,
la prega Adon, poiché ‘l bel dono ha tolto,
di vera fè nel’ultimo scongiuro.
Ella, che ‘n braccio ancor sel tiene accolto
risponde che di ciò viva securo;
ond’egli alfin con cinque baci e sei
prese congedo e si spedì da lei.
82
Vener di Giove il nunzio allor dimanda
tra mill’aspri pensier tutta sospesa
e del’anima sua gli raccomanda
e lo scampo e la cura e la difesa,
pregandol quanto può, mentre ch’el manda
spia fidata e secreta a questa impresa,
che ‘n ogni rischio il suo intelletto astuto
gli sia saldo riparo e fido aiuto.
83
Promette il saggio egizzio, indi si parte
ed a tant’opra apparecchiando vassi.
Ella ciò fatto, al furiar di Marte,
ch’a lei rivolge impetuoso i passi,
con gli occhi molli e con le trecce sparte
su la soglia del’uscio incontro fassi
e va dolente e lusinghiera avante
al suo feroce e furibondo amante.
84
Sicome il mar per zefiro che torna,
già da borea commosso, sì tranquilla
o come umilia l’orgogliose corna
fiamma se larga mano umor vi stilla,
così, a que’ vezzi ond’ella il viso adorna
ed a que’ pianti ov’entro amor sfavilla,
già Gradivo si placa e vinto a forza
l’ira depone e l’alterigia ammorza.
85
Ella asciugando con pietosi gesti
degli occhi molli il liquido cristallo:
– Che strani modi di venir son questi
carco (dicea) di sangue e di metallo?
Ben ti conosco: incredulo credesti
con qualche drudo mio trovarmi in fallo,
poiché con atti sì sdegnosi e schivi
inaspettato e repentino arrivi.
86
Sì sì gli è vero. Io mi tenea pur ora,
pur or partissi, un garzon vago in grembo.
Come già fece a Cefalo l’Aurora
l’ascosi dianzi in nubiloso nembo.
Che dico? io mento, anzi l’ho meco ancora,
tra le falde il ricopro e sotto il lembo.
Aprimi il petto e cerca il cor nel centro;
forse no credi? il troverai là dentro.
87
In che miseri ceppi oimé ristretta
m’ha quell’amor che teco mi congiunge,
ch’io deggia ad ogni dubbio esser soggetta
che ti move a volar così da lunge.
Né la mia lealtà candida e netta
di men gelosi stimuli ti punge
che s’una mi fuss’io, non dico dea,
meretrice vulgar, femina rea.
88
Alcun’altra ha da te gioia e diletto,
altra con scherzi e con sorrisi abbracci.
Quando a me vien, divien poi campo il letto,
m’atterrisci con gli occhi e mi minacci.
Né con più torvo o più severo aspetto
i più fieri nemici in guerra cacci
di quelche fai talor chi non t’offende,
la tua fedel ch’a compiacerti intende.
89
Con qual pegno or più deggio o con qual prova
dela mia fede assecurar costui,
quando l’essermi ancor nulla mi giova
tolta al mio sposo e soggiogata a lui?
Crudel, fia dunque ver che non ti mova
più l’amor mio che la perfidia altrui?
fia ver che ‘n te più possa un van sospetto
di quelche pur con man tocchi in effetto?
90
Io credo e giurerei che quanta bruma
la tua Tracia ricetta, il cor t’agghiaccia.
E pur tanto è l’amor che mi consuma;
malgrado mio t’accolgo in queste braccia.
Deh, s’egual nel tuo petto ardor s’alluma
e s’egual nodo l’anima t’allaccia,
come può farlo ognor tepido e lento
ogni foglia che ‘n aria agita il vento?
91
Pur il mio zoppo e povero marito
di contentarmi almen mostra desio
e rozzo qualqual siasi e malpolito
pende in ogni atto suo dal cenno mio;
e, quantunque da me poco gradito,
pur non ricuserà, se ‘l comand’io,
nele fornaci in Mongibello accese
a temedesmo edificar l’arnese.
92
E tu per cui schernita ir mi conviene
con infamia immortal fra gli altri dei,
sol intento a recarmi affanni e pene,
nulla curi giamai gli oltraggi miei,
anzi ver me, con l’odio entro le vene,
rigido sempre ed implacabil sei,
onde benché d’Amor sia genitrice,
tra le felicità vivo infelice. –
93
Con tai lamenti lo garrisce e sgrida
la baldanzosa adultera sagace,
onde il meschin, che crede a cieca guida,
tutto confuso la rimira e tace.
A pena d’acquetarla si confida
né gli par poco se n’ottien la pace
ed ha per grazia alfin, quantunque accorto,
chiamarsi ingrato e confessare il torto.
94
Così qualor più furioso il piede
move ringhiando e di superbia pieno
unicorno selvaggio, apena vede
vergine bella che le mostra il seno,
che de’ suoi spirti indomiti le cede
dimesso intutto e mansueto il freno,
lascia l’orgoglio ed a lambir si piega
la bella man che l’imprigiona e lega.
95
Intanto Adon, ch’errante e fuggitivo
sen va piangendo e tapinando intorno,
lunge dala sua vita apena vivo
non cessa di vagar tutto quel giorno
e di riposo e di conforto schivo,
di cibo non gli cal né di soggiorno.
In duo begli occhi è il nido suo, né cura
fuor la dolce membranza, altra pastura.
96
Teme sestesso e di sestesso l’ombra
al suo proprio timore anco è molesta.
Ad ogni sterpo che ‘l sentiero ingombra,
volgesi e ‘l moto immantenente arresta.
Quasi destrier che spaventato adombra
s’ode picciol romor per la foresta,
se tronco il calle gli attraversa o sasso,
Marte sel crede e risospende il passo.
97
Già del sol cominciavano i cavalli
verso ponente ad abbassar le fronti
e d’ognintorno ad occupar le valli
già già l’ombre maggior cadean da’ monti.
Tra quegli orrori al romper de’ cristalli
s’udia più alto il lagrimar de’ fonti
e succedean ne’ lor silenzi muti
i rauchi grilli agli augelletti arguti.
98
Querule ador ador voci interrotte
sparger con essi aprova Adon si sente
quai suol di primavera a mezzanotte
formar tra’ rami il rossignuol dolente.
L’abitatrice del’opache grotte
ch’invisibile altrui parla sovente
mentr’ei si lagna addolorato e geme
replica per pietà le note estreme.
99
Ma poiché per lo ciel la bruna benda
che vela il dì la notte umida stese
e tutta risonar la selva orrenda
d’urli ferini il giovinetto intese,
qual uom che strane visioni attenda,
tacque e doppio spavento il cor gli prese.
Non sa dove si vada o quelche faccia,
d’amor avampa e di timore agghiaccia.
100
Giunto ove tra duo colli è più riposta
la spessura del bosco e più profonda
e versa il monte dala rotta costa
gorgo di pura vena in limpid’onda,
lo sconsolato al fonticel s’accosta
e ‘l fianco adagia insu la fresca sponda.
Quivi abbattuto dala doglia acerba
si fa tetto del ciel, letto del’erba.
101
Così tra quelle macchie erme ed oscure,
di selvaggi abitanti orride case,
soletto se non sol dele sue cure,
de’ suoi tormenti in compagnia rimase.
Vinselo alfin pur la stanchezza e pure
ai languid’occhi il sonno persuase
e malgrado del duol, poich’egli giacque
addormentossi al mormorar del’acque.
102
Non prima si svegliò che mattutino
già fusse Apollo insu ‘l bel carro assiso
e dato avesse già del sol vicino
l’augel nunzio del dì l’ultimo aviso,
del sol, che ‘n oro omai volto il rubino,
avea mezzo dal’onde alzato il viso
e dala luce sua percosse e sgombre
facea svenir le stelle e svanir l’ombre.
103
Le palpebre disserra al novo lume
né sa dove drizzar l’orme raminghe.
Ode i vaghi augellin batter le piume
e col canto addolcir l’ombre solinghe.
Vede rincrespar l’onde al picciol fiume
l’aura ch’alletta altrui con sue lusinghe
e degli arbori i rami agita e piega
e le cime de’ fior lega e dislega.
104
Lasso, ma quelch’altrui diletta e giova,
accresce al mesto cor pianto novello
onde, poiché refugio altro non trova,
si mette a contemplar l’idol suo bello;
e mentre gli occhi d’ingannar fa prova
col virtuoso ed efficace anello,
per la selva non lunge ascolta intorno
stridula rimbombar voce di corno.
105
Vien dopo ‘l suon, che par che i veltri a caccia
chiamando irriti, una cervetta estrana,
che stanca e come pur gli abbia ala traccia
anelando ricovra ala fontana,
ma visto Adon gli salta entro le braccia,
né sapendo formar favella umana
con gli occhi almen, con gli atti e co’ muggiti
prega che la difenda e che l’aiti.
106
Non crederò tra le più vaghe fere
fera mai più gentil trovar si possa.
Brune le ciglia e le pupille ha nere,
bianca la spoglia e qualche macchia rossa.
Ma più ch’altro mirabili a vedere
son dela fronte in lei le lucid’ossa:
son tutti i rami dele corna grandi
del più fin or che l’oriente mandi.
107
Nel tempo istesso, bello oltra i più belli,
ecco apparire un cagnolin minuto;
sparge prolissi infino a terra i velli
sovr’armellino candido e canuto;
son di seta le fila e ‘n crespi anelli
vagamente si torce il pel ricciuto;
spezzato in cima il naso e gli occhi allegri
più che mai moro ha rilucenti e negri.
108
Radon l’orecchie il suol lunghe e cadenti
e sospesi vi tien duo fiocchi d’oro,
onde di qua di là brilli pendenti
gli fanno intorno un tremolio sonoro.
Cerchiagli il collo di rubini ardenti
monil ch’eccede ogni mortal lavoro,
dove sculto di smalti un breve porta:
«D’ogni lieta ventura io son la scorta.»
109
Ed ecco a un punto insu ‘l medesmo prato
cacciatrice leggiadra uscire infretta;
ha l’arco in spalla, ha la faretra a lato
e nele man la lassa e la saetta;
su le terga si sparge il crin dorato
e le pende dal collo la cornetta;
e vie più verde che d’autunno foglia,
sparsa di fiori d’or, veste la spoglia.
110
– To to, Perricco mio, to to – ben alto,
chiamando a nome il picciol can, dicea,
tuttavia rincorandolo al’assalto
contro la cerva che seguita avea.
Ella in grembo al garzon già preso il salto
con gemiti e sospir pietà chiedea;
ed ei, perché non fusse o morta o presa,
ogni sforzo adoprava in sua difesa.
111
– Tu non fai cortesia, qualunque sei,
(fortemente gridando ella veniva)
impedir caccia publica non dei,
né negar la sua preda a chi l’arriva.
Giusto non è che de’ travagli miei
altri il frutto si goda,io ne sia priva.
Di vedermi usurpar non ben sopporto
quelche tanto ho sudato a sì gran torto. –
112
Confuso a quelle voci Adon rimane
ché sa ben che la cerva è a lei devuta;
ma s’egli pur del pargoletto cane
non la sottragge al dente e non l’aiuta,
di commetter s’avisa opre inumane
poich’a salvarsi è nel suo sen venuta;
onde la ninfa altera e peregrina
con questi preghi a supplicar s’inchina:
113
– Ninfa, se ninfa pur sei dela selva,
ché più tosto del ciel diva ti credo,
di qualunqu’altra qui fera s’inselva
senz’altra lite ogni ragion ti cedo;
di questa sol sì mansueta belva
la vita in dono e inun perdon ti chiedo,
s’ala rabbia canina oso di torre
un vezzoso animal ch’a me ricorre.
114
Incrudelir ne’ semplici innocenti
non conviensi a beltà celeste e santa.
Vive pietà nele divine menti
né di gloria maggior Giove si vanta.
Ben, s’in me fien giamai forze possenti
a compensarti di mercé cotanta,
potrai del mio voler come ti piace
sempre dispor. – Così le parla e tace.
115
Quand’ella gli occhi in que’ begli occhi affisa
che fan la dea d’amor d’amor languire,
si sente il cor subitamente in guisa
tutto d’alta dolcezza intenerire,
ché stupida e da sé quasi divisa
più oltre di parlar non prende ardire;
ma poich’alfin dal suo stupor si scote,
accompagna un sorriso a queste note:
116
– Dela preda il trofeo, non so se ‘l sai,
è del buon cacciator la cura prima.
Vie più l’onor, vie più ‘l diletto assai
d’una rustica spoglia ei pregia e stima
che qualunqu’altro ben possa giamai
d’ogni eccelsa grandezza alzarlo in cima.
Dela caccia però ch’oggi qui vedi
l’importanza è maggior che tu non credi.
117
Questa il cui scampo curi umana fera
è tal ch’altra non n’ha valle o pendice.
Dela fata del’oro è messaggiera
siché ‘l suo possessor può far felice.
Da chi dietro le va, fugge leggiera,
d’ogni occulto tesoro esploratrice.
Muta le corna sue due volte il giorno
e cento libre d’or pesa ogni corno.
118
Morir non può perch’immortale è nata
ma ben ha chi la prende alta fortuna.
Non è pertanto, se non vuol la fata,
chi la sappia pigliar sotto la luna.
Onde di te cred’io più fortunata
creatura mortal non vive alcuna,
poiché non sol da te non si diparte,
ma di proprio voler viene a cercarte.
119
Se le fere innamori a tuo talento,
qual fia cosa giamai ch’altri ti neghi?
In grazia tua sua libertà consento,
cedo d’un tanto intercessore ai preghi.
Con un tuo sguardo sol, con un accento
ogni core imprigioni, ogni alma leghi;
onde vinta da te qual io mi sono,
tutta mestessa e quanto è in me ti dono.
120
Né dale stelle, il ver convien ch’io dica,
l’origin piglio, né dal ciel discendo.
Driade son io che, cittadina antica
di questo bosco, a seguir fere intendo.
Ma benché sia del’aspre cacce amica,
con gli uomini talor piacer mi prendo.
Silvania ho nome e ‘n ruvida corteccia
traggo inospita vita e boschereccia.
121
Non pensar tu che ne’ silvestri spirti
cortesia pur non regni e gentilezza.
Non siam noi senza core, anzi vo’ dirti
ch’anco fra i rozzi tronchi amor s’apprezza.
Aman le palme, aman gli allori e i mirti
e conoscono ancor ciò ch’è bellezza,
né vive in pianta né germoglia in piaggia
priva di questo senso, alma selvaggia.
122
Il contracambio poi che mi prometti
vo’ che senza indugiar mi sia concesso.
Ma, come in prova mostreran gli effetti,
fia l’util tuo, fia ‘l tuo guadagno istesso.
Vo’ che la mia reina entro i’ suoi tetti
ti piaccia visitar ch’è qui dapresso;
né pur la cerva ch’è sì bella in vista
ma ‘l cane ancor avrai che la conquista.
123
Non lunge alberga ancorch’altrui coverta
sia la strada e non trita ond’a lei vassi.
Ma se tu meco vien, son più che certa,
non perderai del tuo viaggio i passi.
Ti fia la porta del palagio aperta
dove la dea dele delizie stassi,
che d’Iasio è sorella e di Mammone,
di Proserpina figlia e di Plutone.
124
Quant’oro involge tra le pallid’onde
il Gange che levar vede il sol primo,
quanto di prezioso il Tago asconde
perentro il letto suo palustre ed imo,
a lei perviene. A lei le ninfe bionde
filan del’Ermo in stami il ricco limo.
A lei del bel Pattolo entro le vene
sudan mill’altre a crivellar l’arene.
125
Prodigo ognor suo dritto offre a costei,
il Sangario ove Mida ebbe a lavarsi.
Lidia, Frigia, Cilicia, Ircania a lei
cumulan solo i lor tesori sparsi.
I Pannoni, i Fenici e gli Eritrei
dele ricchezze lor non le son scarsi.
L’auree Molucche e Manzanara e Norte
ebbe dal ciel di dominare in sorte.
126
Il gran Nettuno e la cerulea moglie
tesorieri le sono e tributari
e quanto in grembo l’oceano accoglie
mandano a lei da’ più remoti mari;
e quante merci estrane e quante spoglie
furano ai gran naufragi i flutti avari
tutte son poi per vie chiuse e celate
dai folletti del’acque a lei recate.
127
Oltre l’avere ond’ella abonda tanto
ch’ogni voglia può far contenta e paga;
oltre il saver, per cui riporta il vanto
dela più dotta e più famosa maga,
vedrai beltà di cui non mira in quanto
circonda il sol la più leggiadra e vaga;
beltà che con colei contende e giostra
ch’adora per sua dea l’isola nostra.
128
Falsirena s’appella ed è ben tale
che non le manca ogni perfetta cosa,
se non che ‘l fasto in lei tanto prevale
che non la scaldò mai fiamma amorosa.
Non cura amante, ch’al suo merto eguale
degno non sia di sì pregiata sposa;
né trovando di sé suggetto degno
non vuole a basso amor piegar l’ingegno.
129
Vero è ch’ell’ha per l’arti sue previsto
ch’amar pur dee; non so se ‘n ciò s’inganni.
Amerà pur, ma non con altro acquisto
che di rabbiosi e desperati affanni.
Quindi per evitar fato sì tristo,
si dispose solinga a menar gli anni.
Quindi escluder da sé sempre le piacque
ogni commercio. – E qui Silvania tacque.
130
Dal desio di veder ciò che ‘l destino
porti di novo il giovane invaghito,
dela ninfa gentil, del cagnolino,
che gli mostran la via, segue l’invito.
Il cane adulator prende il camino
per l’ampia valle agevole e spedito
e, declinando il calle erto ed alpestro,
sceglie sempre in andando il piano e ‘l destro.
131
Del vago animaletto ammira e loda
Adon la strana e barbara ricchezza.
Quei gli saltella intorno e come goda
ambizioso pur di sua bellezza,
con la lingua festiva e con la coda
lusinghevole il lecca e l’accarezza.
Erge in alto le zampe e non mordaci
co’ lascivi latrati alterna i baci.
132
Per ombroso sentier ne vanno insieme
traversando la selva e la campagna
fin colà dove ale radici estreme
si termina il vallon d’una montagna;
né dal fanciul che pur alquanto teme,
si dilunga la guida o la compagna.
Quivi a piè d’un gran noce ella s’arresta
ch’è un’arbor sola e sembra una foresta.
133
Grande è la pianta ed oltre l’esser grande,
ciò che d’ogni stupor trascende i modi,
e che ne’ rami che dintorno spande,
son d’oro i frutti ben massicci e sodi.
Ma quattro vaghe arciere ha dale bande
che sempre notte e di ne son custodi
e, vestite ed armate al’uso istesso
dela scorta d’Adon, le stanno appresso.
134
Adon le dimandò chi fusser quelle
ch’erano del bei tronco in guardia messe;
s’eran dee di quel loco o pur donzelle
e chi lor poste in tal ufficio avesse.
Dimandò se di lei fusser sorelle,
poich’avean l’armi e le fattezze istesse.
Cennò l’altra ale ninfe, indi ale cose
dimandate da lui, così rispose:
135
– Egli si trova una natura a parte
ch’è tra ‘l semplice spirto e l’uom composto,
però ch’ir non si può da parte a parte
senza il debito lor mezzo interposto.
L’uno è sempre immortale in ogni parte,
l’altro il corpo ala morte ha sottoposto.
Il terzo che non è questo né quello,
fa in sé d’entrambo un imeneo novello.
136
Quasi mezzane dunque infra gli estremi
volse Giove crear queste fatture,
onde sicome degli dei supremi
gli uomini son quaggiù vive figure,
questi del divin stato in parte scemi
son degli uomini ancor vere pitture
e, come loro imagini e ritratti,
si somigliano ad essi in tutti gli atti.
137
Han corpo sì, ma più sottile e raro
che ‘l vostro, e nulla o poco ha del terreno.
Non è sì lieve nube in aer chiaro
ch’ei non sia denso e solido assai meno.
Col vento va di leggerezza al paro,
apparisce e sparisce in un baleno,
né visibil giamai si rende agli occhi,
senon quand’egli vuol, benché si tocchi.
138
Per esser dunque la materia in essi
grossa non già ma dilicata e pura,
non fan lor resistenza i corpi spessi,
ogni cosa lor cede ancorché dura.
Ponno senza lasciarvi i segni impressi
falsar le porte e penetrar le mura,
come folgore suol che, quando scende,
la vagina non tocca e ‘l ferro offende.
139
La mistura però di cui son fatti
d’ogni accidente e passion capace,
a differenza degli spirti astratti
al’alterazioni anco soggiace.
Ad infermarsi, anzi a morir son atti,
poich’ogni misto si corrompe e sface;
ma perché più perfetta è la sostanza,
molto di vita il viver vostro avanza.
140
Una sol qualità non si conforma
vosco né par ch’al’esser vostro arrivi,
ché l’uom di corpo ed anima s’informa,
ma questi intutto d’anima son privi;
onde seben per la più nobil forma
restan di voi più lungamente vivi,
essendo sol corporei e spiritali
nascono corrottibili e mortali.
141
Nascon diss’io, perché com’han communi
con l’uomo intutto e le parole e i gesti,
com’han nele freddure e ne’ digiuni,
quai tal corpo richiede, e cibi e vesti,
quantunque negli affar loro oportuni
sien più pronti e vivaci, agili e presti,
così non è di generar lor tolto
e del consorzio uman godono molto.
142
Hanno anco il sonno e la vigilia ed hanno
providi al’opre i naturali instinti
e, com’api o formiche, in ordin vanno
non senza industria ale fatiche accinti.
La notte e ‘l giorno e la stagion del’anno
e tutti i tempi han come voi distinti;
aman la luce e le lumiere belle
del sole e dela luna e dele stelle.
143
Partecipano assai degli elementi
e più di quello ov’hanno albergo e loco.
Com’amano il terren talpe e serpenti,
come pirauste e salamandre il foco,
come son l’aure molli e l’acque algenti
de’ pesci e degli augei trastullo e gioco,
così sono a costor care e gioconde
la terra e l’aria e le faville e l’onde.
144
Abita alcun di lor l’eterea sfera,
altri la region sottoceleste,
altri fonte, ruscel, lago o riviera,
altri rupi, vallee, boschi e foreste.
Tutte dela selvaggia ultima schiera
son le ninfe che vedi ed io con queste;
ed a ciascuna un’arbore è commessa
quasi del vivo legno anima istessa.
145
V’ha fauni e lari e satiri e sileni,
tutti han fronte cornuta e piè caprigno.
Siam noi pur come lor, numi terreni,
ma di sesso men rozzo e più benigno.
Ingombran l’altre ad altre piante i seni,
io qui con queste in questo tronco alligno
e per legge di fato e di natura
dele noci a me sacre ho sempre cura. –
146
Tacque e le ninfe del frondoso monte
verso Adone affrettando il piè veloce,
cortesemente gli chinar la fronte,
affabilmente il salutaro a voce.
Poi lo guidaro ufficiose e pronte
con mille ossequi al’ammirabil noce;
e, lasciato lo stral, deposto l’arco,
gli apriro il passo e gli spediro il varco.
147
Repente allor del’arbore ch’io dissi
crepò la scorza e ‘l voto ceppo aperse.
Tutta per mezzo, o meraviglia! aprissi
ed ala coppia il cavo ventre offerse.
Quindi per una via che ‘nver gli abissi
scender parca, Silvania il piè converse
e, passando ale viscere più basse
dela buccia capace, Adon vi trasse.
148
Entra ed ha seco il precursor foriero
quelche tanto gli mostra amore e fede,
io dico il cagnolin che già primiero
trovò posando in quella selva il piede.
Questo per disusato ermo sentiero
non l’abbandona mai, sempre il precede;
e chiuso il tronco, ei che ‘l camino intende,
per una scala a chiocciola discende.
149
Per mille obliqui e tortuosi giri
serpendo senza termine la scala
e senza che di ciel raggio si miri,
tra profonde ruine ingiù si cala.
Sente Adon quasi greve aura che spiri
adora adora alcun vapor ch’essala
e sussurrando scotersi sotterra
i venti che ‘l gran monte in grembo serra.
150
Un’ora e più per l’alta gola angusta
di quel gran labirinto andaro al basso,
finché trovar concavità vetusta
dove a scarpelli era tagliato il sasso.
A quella buca, omai dagli anni frusta,
sempre al buio e tenton drizzaro il passo,
e nele foci lor spicciar da’ monti
videro in vivi gorghi i fiumi e i fonti.
151
Vider pertutto in congelate gocce
pender masse di vetro e di cristallo
e fuso fuor dele forate rocce
in varie vene spargersi il metallo,
quanto ne purgan poi coppelle e bocce,
nero, livido, rosso e bianco e giallo,
e giallo e verde ancor, vermiglio e perso
in ciascun mineral color diverso.
152
Tra quelle spesse e condensate stille
e quelle zolle a più color dipinte,
vedeansi sparse mille pietre e mille
di varia luce colorate e tinte,
ch’a guisa pur di tremule scintille
o di fiaccole fioche e quasi estinte
intorno e per la volta e per le mura
faceano balenar la notte oscura.
153
Tosto ch’Adon dela calata alpestra
giunto al’ultimo grado il fondo tocca,
passa dietro a colei ch’è sua maestra
dela cieca caverna entro la bocca,
quando sente scrosciar dala man destra
gran fiume che con impeto trabocca;
ed ecco rimbombar l’atre spelonche
d’un orribil romor come di conche.
154
Di quelle gemme che per l’antro ombroso
lampeggiando facean l’aria men nera
ed affisse nel sasso aperto e roso
illustravan la grotta e la riviera,
il barlume indistinto e tenebroso
gli servì di lucerna e di lumiera
e vide a gola aperta un crocodilo
di cui forse maggior non nutre il Nilo.
155
Vennegli incontro e cominciò parole
minacciose a formar d’uman linguaggio.
– Taci bestia malvagia, odiosa al sole,
non impedir nostro fatal passaggio.
Così vuol chi quaggiù può quanto vole –
disse Silvania, e seguitò ‘l viaggio.
Fuggì la fera ubbidiente e tacque
e ritornossi ad appiattar nel’acque.
156
– Uom fu già questi, or è dragon (soggiunse)
apprendan da lui senno i più discreti.
Soverchia audacia follemente il punse
dela fata a spiar gli alti secreti.
Fusse caso o sciocchezza un giorno ei giunse
contro gl’inviolabili divieti
là dov’ella talor suol per diletto
cangiar la spoglia e variar l’aspetto.
157
Videla apunto allor che per vaghezza
di provar qual natura hanno i serpenti
forma di serpe al’immortal bellezza
dava con incantate acque possenti.
Ella è sì spesso a trasformarsi avezza,
che non vo’ che tu fugga o che paventi
s’avien mai che t’appaia in altre membra,
che non è però tal, sebene il sembra.
158
In mal punto costui videla apunto
quando prendea la serpentina imago,
né tutto il corpo avea bagnato ed unto
ch’era ancor mezzo donna e mezzo drago.
Sdegnosa come prima il vide giunto
il volto gli spruzzò del licor mago,
«stolto (dicendo) i premi tuoi sien questi,
vanne, e narra se puoi ciò che vedesti».
159
Poich’a tai detti lo scaglioso manto
gli coprì d’ognintorno il tergo e ‘l seno,
rimase, astretto da perpetuo incanto,
a guardar questo guado ond’io ti meno. –
Disse, e del’antro Adone uscito intanto
giunse in paese oltre gli ameni ameno
e trovò, più ridente e più giocondo,
novo ciel, nova terra e novo mondo.
160
Ghirlandato di pergole costrutte
di viti e d’uve un gran giardin s’inquadra.
Quattro vie dritte a dritto fil condutte
con trecciere di cedri in doppia squadra,
vanno un sferico spazio a ferir tutte
e di sestesse a far croce leggiadra.
Ai seggi che coronano il bel cerchio
fa vago padiglion verde coverchio.
161
In mezzo a questo spazio e sotto questa
cupula ombrosa che di fronde è densa,
dodici grifi d’or reggono in testa
di cristallo di rocca un’urna immensa,
che ‘n larga pioggia a guisa di tempesta
l’acque ala conca inferior dispensa.
D’alabastro è la conca e forma un stagno
che dela bella fata è fonte e bagno.
162
Quel fonte è il centro onde la linea piglia
ciascuna dele vie che dianzi ho detto,
talché la vista è bella a meraviglia
e scopre di lontan qualunque oggetto.
Circonda il bel giardin ben quattro miglia
e ‘n ciascun capo è un bel palagio eretto
e i palagi non son di rozzi sassi,
ma tutti di diaspri e di balassi.
163
Cristalline son l’acque, auree l’arene,
smalto le sponde, i lor canali argento
e dove l’onda a dilagar si viene
fan grosse perle ai margini ornamento;
gli orti, invece di fior, le siepi han piene
di cento gemme peregrine e cento
e sempre verdi al freddo e fresche al caldo
l’erbe e le fronde lor son di smeraldo.
164
La rosa le sue foglie ha tuttequante
fatte di puro oriental rubino,
il bianco giglio d’indico diamante,
di lucido cameo l’ha il gelsomino,
di zaffir la viola e fiammeggiante
il bel giacinto è di giacinto fino.
Di topazio il papavere si smalta
e di schietto crisolito la calta.
165
Non so poscia in qual guisa o per qual via
fassi il duro metallo abile al culto,
o di natura o d’arte industria sia,
o miracol del cielo al mondo occulto.
L’oro ne’ campi genera e si cria,
pullula in sterpo e germina in virgulto
e, fondando radici, alzando bronchi,
vegeta a poco a poco e cresce in tronchi.
166
In quel terren che forse è più ferace
e vie più ch’altro di miniere abonda,
dele stelle e del sol vie più efficace
passa la forza e la virtù feconda,
siché la gleba fertile e vivace
si nutrisce, s’abbarbica e s’infronda
e di tanto splendor veste il suo stelo
che può quasi abbagliar gli occhi del cielo.
167
Pompa non vista e non creduta altrove
veder sorger da terra i bei rampolli
e tra ricchi cespugli in verghe nove
folgorar gli arboscei teneri e molli.
Or mentre Adon sotterra i passi move,
Amor, i cui desir non son satolli,
bramoso apien di vendicar l’offesa
apparecchia nov’armi a nova impresa.
168
È ver ch’a Citerea recò l’aviso
del sospetto di Marte e delo sdegno,
accioch’Adon non ne restasse ucciso
ch’unica luce e gloria è del suo regno;
ma vuol perché da lei viva diviso
machinargli tra via qualche ritegno;
onde fin colaggiù dov’egli intende
starsi la fata a saettarla scende.
169
Stava a seder la fata inculta e scalza
quando Adon sovragiunse a piè del fonte,
ché per uso non pria dal letto s’alza
che sia ben alto il sol su l’orizzonte.
Con la fresc’onda che dal vaso sbalza
tergesi gli occhi e lavasi la fronte,
e ‘l fonte istesso ch’è fatale e sacro
le serve inun di specchio e di lavacro.
170
La gonna, ch’era ancor disciolta e scinta,
i bei membri copria senz’alcun manto.
Di broccato e di raso era distinta
d’alto a basso inquartata in ogni canto.
Quello di verde brun la trama ha tinta,
questo nel rancio porporeggia alquanto;
intorno al’orlo un triplicato fregio
aspro di gemme e d’or l’aggiunge pregio.
171
Trovò ch’allor apunto avea disfatta
la trecciatura del bel crine aurato
e con l’avorio dela mano intatta
pur d’avorio movea rastro dentato.
Piovon perle dal’oro e mentre il tratta
semina di ricchezze il verde prato;
mentre i biondi capei pettina e terge
tutto di gemme il suol vicino asperge.
172
Giuntole appresso Adone il piè ritenne
reverente a mirar tanta beltade,
e ne trasse un sospir, ché gli sovenne
d’esser lontan dale bellezze amate.
Falsirena gentil contro gli venne
con accoglienze sì gioconde e grate,
che parea dire al portamento, al viso:
– Così si fan gl’inchini in paradiso. –
173
Non fu fratanto Amor che stava al varco
a corre il tempo o trascurato o tardo,
ma pose allor su l’infallibil arco
de’ più pungenti e trafittivi un dardo.
L’averlo teso e poi scoccato e scarco
fu solo un punto al balenar d’un guardo,
onde la bella ammaliata maga
senza sentir il colpo ebbe la piaga.
174
Tosto ch’ella in Adon fermò le ciglia,
pria ferita che vista esser s’accorse.
Stupor, timor, vergogna e meraviglia
la tenner dubbia e dela vita in forse.
Pallida pria divenne, indi vermiglia
e per le vene un gran tremor le corse.
Sente quasi per mezzo il core aprirsi
né sa con l’arti sue punto schermirsi.
175
Falsirena, che miri? a che più stai
sospesa sì? Quest’è il sembiante istesso
lungo tempo temuto. Eccoti omai
del’ombra il ver. Che miri? egli è ben desso.
Questi son pur que’ luminosi rai
che già tanto fuggivi, or gli hai dapresso.
Perché non schivi il tuo dolor fatale?
dov’è il tuo senno? o tua virtù che vale?
176
Mira e non sa che mira e mira molto
ma poco pensa e sospirando anela.
Varia il colore, il favellar l’è tolto,
sta confusa e smarrita, avampa e gela.
Tien fiso il guardo in quel leggiadro volto,
non palesa i desiri e non gli cela.
Abbassa gli occhi per fuggir l’assalto,
poi le mani incrocicchia e gli erge in alto.
177
Fan l’occhio insieme e ‘l cor dura contesa,
quel si rivolge a vagheggiar la luce,
questo per non languire in fiamma accesa,
vorria fuggir l’ardor ch’ella produce.
L’un brama gioia e l’altro teme offesa
e, perché ‘l cor del’occhio è guida e duce,
di ritirarlo a più poter si sforza,
ma l’oggetto del bello il tragge a forza.
178
Saetta è la beltà che l’alma uccide
subitamente e passa al cor per gli occhi.
Fu la beltà ch’ella in mal punto vide
apunto come folgore che scocchi.
Fu l’occhio che seguì scorte mal fide
qual ghiaccio fin, s’avien che raggio il tocchi,
ch’arid’esca vicina accender suole
e ferir di scintille il viso al sole.
179
Da lei fu in un palagio Adon condutto,
loqual fra tutti i quattro era il più bello,
né gli mancava il compimento tutto
di quanto può mai dar squadro o modello;
ed oltre con tant’arte esser costrutto
quanto conviensi a ben formato ostello,
gli aggiungea tuttavia fregi maggiori
la lussuria degli ostri e degli odori.
180
E va pur seco e mai da lui non parte
il falso duce, il lusinghier latrante,
quelche da prima in solitaria parte
dietro ala cerva gli comparve avante;
ed or di stanza in stanza a parte a parte
d’Adon guidando le seguaci piante,
par voglia a lui di quell’albergo lieto
mostrar piano ed aperto ogni secreto.
181
Era d’arnesi di sottil lavoro
tutta guernita la magion reale
e di bei razzi avea di seta e d’oro
corredate le camere e le sale.
Veduto non fu mai maggior tesoro
ne’ tetti, nele mura e nele scale.
Usci e sbarre avea d’oro ed asse e travi
e chiodi e fibbie e chiavistelli e chiavi.
182
Nel salir dela sera, apparecchiata
fu la sollenne e sontuosa cena
che di tutto quel lusso ond’è lodata
la più morbida vita, apien fu piena.
Ma la pompa più bella e più pregiata
di quel pasto real fu Falsirena,
ch’ovunque o piatto tocchi o tazza libi,
addolcisce i licor, condisce i cibi.
183
Tal forse apparve la superba e molle
donna del faro al dittator romano,
quand’ella vincer co’ begli occhi volle
chi vinse il mondo con l’invitta mano;
tai di splendor magnifico satolle
mense apprestò per adescarlo invano
poiché degli anni il traditor del Nilo
ebbe al’oste latin reciso il filo.
184
Vaghi fanciulli a suon di cetre e lire
proclamaro il festin lieto e giocondo.
Altri vennero il desco ad imbandire,
di cui fasto maggior non vide il mondo.
Il loco ch’a quell’uso ebbe a servire
era un gran tabernacolo ritondo
e spazioso sì, ch’ancorché immense,
capir potea nel sen ben cento mense.
185
Forman cento colonne un’ampia loggia
locate in cerchio e son di bronzo a gitto,
sovra cui l’epistilio alto s’appoggia
che folce del cenacolo il soffitto.
Per mezzo in giro si dispiega a foggia
di curva tenda un padiglion d’Egitto.
Reggon cento arpioni intorno appese
auree lucerne in molli odori accese.
186
Ombran festoni di dorate fronde
lo spazio ch’è tra le colonne altere,
la cui materia un paramento asconde
di mirabili spoglie e di spalliere.
Havvi bianche, purpuree, azzurre e bionde
e d’altri più color pelli di fere.
Fere non note altrui, che quinci e quindi
mandan di rado o gli Etiopi o gl’Indi.
187
Presso que’ vaghi e variati velli,
sovr’alte basi a piè dele colonne
scolpite da’ più celebri scarpelli
v’ha cento statue d’uomini e di donne.
Son d’alabastro i simulacri belli,
lunghi manti hanno intorno e lunghe gonne.
Ciascuno in man con un parlar che tace
tiene o lamina o libro o verga o face.
188
Di quante fate ha il mondo havvi i sembianti,
i cui nomi nel marmo il fabro scrisse,
d’indovini, stregoni e negromanti,
maghe, lamie, sibille e pitonisse,
e l’opre lor co’ lor più chiari incanti
in altrettante poi tavole affisse
tra l’una e l’altra imagine distinte
eccellenti maestri avean dipinte.
189
Or dele laute e splendide vivande
chi descriver poria le meraviglie?
Di gemme e d’or con artificio grande
sculte son le vasella e le stoviglie,
coronate di trecce e di ghirlande
e perse e gialle e candide e vermiglie.
Gran tripodi e triclini adamantini
serbano in ricche coppe eletti vini.
190
Tapeti d’Alessandria al pavimento,
di Persia, di Damasco e di Soria
facean sì strano e ricco addobbamento
ch’apena il piè di calpestargli ardia.
Ma di quel vago e nobile ornamento
poco si discernea la maestria,
ché tutti eran di sopra i lor lavori
lastricati di rose e d’altri fiori.
191
Sicome sempre al gran pianeta errante
Clizia si volge e suoi bei raggi adora
e col guardo e col cor, sorga in levante
o tramonti al’occaso, il segue ognora
e, del suo corso esploratrice amante,
a quel foco immortal che l’innamora
e di cui piagne la veloce fuga
degli umid’occhi le rugiade asciuga,
192
così la donna a quelle luci care
fisava intenta onde pendea suo fato,
dolce principio a lunghe pene amare,
il famelico sguardo innamorato.
Dopo il nobil convito il fè lavare
in un bagno di balsamo odorato
e v’infuse di mirra urne lucenti
con altri fini e preziosi unguenti.
193
Porian tante delizie onde l’adesca
ogni altro, eccetto Adon, rendere allegro,
ma qual uomo in cui grave ognor più cresca
la febre ria che ‘l tiene afflitto ed egro,
non perché giaccia in molle piuma e fresca
sente al’interno ardor ristoro integro,
tal’ei, che d’amor langue, alcun diletto
non può quivi goder che sia perfetto.
194
Ei del lavacro uscito, in più secreta
stanza ricovra e si riposa in quella.
Trabacca v’ha cui fa di frigia seta
sovraletto moresco opaca ombrella.
Ma non riposa intanto e non s’acqueta
l’addolorata e misera donzella,
ch’un mordace pensier, tarlo d’amore,
l’è sprone al fianco e l’è saetta al core.
195
Arde ma non ardisce e teme e spera
tutta in ciò ferma e d’altro a lei cal poco
e, come dritto ala sua patria sfera
s’alza da terra il peregrino foco,
così l’ali amorose apre leggiera
verso i begli occhi ov’è suo proprio loco
l’anima innamorata e dolcemente
rimembrando e pensando erra sovente.
196
Tacea la notte e la sua vesta bruna
tutta di fiamme d’oro avea trapunta
e senza velo e senza benda alcuna
questa treccia a quell’altra inun congiunta,
sì chiara e bella in ciel sorgea la luna
che detto avresti «è certo il sol che spunta;
forse indietro rivolto a noi col giorno
fa per novo miracolo ritorno».
197
Lascia le piume impaziente e sorge,
poi del chiuso balcon gli usci spalanca,
e ‘l pianeta minor per tutto scorge
che le nubi innargenta e l’ombre imbianca.
In un verron che nel giardin si sporge
con la guancia s’appoggia insu la manca,
con l’altra asciuga de’ begli occhi l’onde
e soletta fra sé parla e risponde:
198
Ardo, lassa, o non ardo? Ahi qual io sento
stranio nel cor non conosciuto affetto?
È forse ardore? ardor non è, ché spento
l’avrei col pianto; è ben d’ardor sospetto.
Sospetto no, più tosto egli è tormento.
Come tormento fia, se dà diletto?
Diletto esser non può, poich’io mi doglio,
pur congiunto al piacer sento il cordoglio.
199
Or, se non è piacer, se non è affanno,
dunque è vano furor, dunque è follia.
Folle non è chi teme il proprio danno;
ma che pro se nol fugge, anzi il desia?
Forse amor? non amor. S’io non m’inganno,
odio però non è; che dunque fia?
Che fia, misera, quel che ‘l cor m’ingombra?
Certo è pensiero o di pensiero un’ombra.
200
Ma se questo è pensier, deh perché penso?
Crudo pensier, perché pensar mi fai?
Perché, s’al proprio mal penso e ripenso
torno sempre a pensar ciò ch’io pensai?
Perché, mentre in pensar l’ore dispenso
non penso almen di non pensar più mai?
Penso, ma che poss’io ? se penso, invero
la colpa non è mia, ma del pensiero.
201
Colpa mia fora ben s’amar pensassi,
amar però non penso, amar non bramo.
Ma non è pur come s’amar bramassi
s’amar non penso e penso a quelch’io amo?
Non amo io no. Ma che saria s’amassi?
Io dir nol so; so ben ch’io non disamo.
Non disamo e non amo. Ahi vaneggiante,
fuggo d’amar, non amo e sono amante.
202
Amo o non amo? Oimé ch’amor è foco
che ‘nfiamma e strugge ed io tremando agghiaccio.
Non amo io dunque. Oimé ch’a poco a poco
serpe la fiamma ond’io mi stempro e sfaccio.
Ahi ch’è foco, ahi ch’è ghiaccio, ahi che ‘n un loco
stan, perch’io geli ed arda, il foco e ‘l ghiaccio.
Gran prodigi d’amor, che può sovente
gelida far l’arsura, il gelo ardente.
203
Io gelo dunque, io ardo e non sol ardo,
son trafitta e legata e ‘nsieme accesa.
Sento la piaga e pur non veggio il dardo,
le catene non trovo e pur son presa.
Presa son d’un soave e dolce sguardo
che fa dolce il dolor, dolce l’offesa.
Se quelch’io sento è pur cura amorosa,
amor per quelch’io sento è gentil cosa.
204
È gentil cosa amor. Ma qual degg’io
in amando sperar frutto d’amore?
io frutto alcun non spero e non desio;
dunque ama invan, quando pur ami, il core.
Cor mio, deh, non amar. Quest’amor mio
se speme nol sostien, come non more?
Lassa, a qual cor parl’io, se ne son priva?
e se priva ne son, come son viva?
205
Io vivo e moro pur; misera sorte,
non aver core e senza cor languire,
lasciar la vita e non sentir la morte;
ahi! che questo è un morir senza morire.
O dal’anima il core è fatto forte
o anima è del cor fatto il martire
o quel che ‘l cor dal’anima divide
è stral che fere a morte e non uccide.
206
Ucciso no, ma di mortal ferita
impiagato il mio cor vive in altrui.
Quei ch’è solo il mio core e la mia vita
l’aviva sì ch’egli ha sol vita in lui.
Meraviglia ineffabile inudita,
io non ho core e lo mio cor n’ha dui
e, per quella beltà ch’amo ed adoro
sempre vivendo, immortalmente io moro.
207
Or amiamo e speriamo. Amor vien raro
senza speranza; io chiederò mercede.
Credi che deggia Amor d’amor avaro
a tant’amor mostrarsi, a tanta fede?
Io credo no, io credo sì: l’amaro
nel cor pugna col dolce. Il cor che crede?
Spera ben, teme mal. Misero core,
fra quanti rei pensier t’aggira amore. –
208
Mentr’ella in guisa tal s’affligge e piagne
e d’indugio soverchio accusa il giorno,
vaghe d’investigar perché si lagne
le son due donne al’improviso intorno.
Use son queste pur come compagne
seco in camera sempre a far soggiorno,
fidate ancelle e consigliere amiche,
care ministre e secretarie antiche.
209
Sofrosina è la prima. In grave aspetto
ritien costei maturità senile,
carca d’anni e di senno e chiude al petto
d’onorati pensier schiera gentile,
sprezzatrice del gioco e del diletto,
sdegnatrice d’ogni opra indegna e vile,
senza alcun fregio semplice e modesta,
bianca il crin, bianca il vel, bianca la vesta.
210
L’altra Idonia s’appella, agli atti, agli anni
tutta diversa, agli abiti, ai sembianti;
dele cure nemica e degli affanni,
sol degli amori amica e degli amanti.
Di più colori ha variati i panni,
lieta fronte, auree chiome, occhi festanti.
Porta ognor senza legge e senza freno
il riso in bocca e la lascivia in seno.
211
Al costoro apparir, trema e paventa,
come suole a gran soffio arida canna,
l’immortal damigella e coprir tenta
l’occulto incendio che ‘l suo petto affanna.
Dissimula il dolor che la tormenta,
tronca i sospiri e l’altrui vista inganna.
Ma chi celar può mai fiamma rinchiusa
se col proprio splendor sestessa accusa?
212
È nudo Amor né sa coprirsi e poco,
quand’abbia un’alma accesa, un cor ferito,
secreto colpo e sconosciuto foco
da qualunque cautela è custodito.
Il sospirar sovente, il parlar fioco,
il volto lagrimoso e scolorito
osserva attenta Idonia e del suo male
accorta alfin con questo dir l’assale:
213
– Madonna, ha voce in suo silenzio il core
e la lingua degli occhi invan s’affrena.
Già del’istoria del’interno ardore
fatta è la fronte tua publica scena,
là dove scopre e rappresenta amore
la tragedia crudel dela tua pena.
Di ciò ch’altrui tacendo il guardo dice,
che ti vale il negar? son spettatrice.
214
Deh quell’aspro dolor che t’addolora,
non voler che sepolto abondi e cresca.
Deh, nol tacer. Suole il tacer talora
esser de’ mali il nutrimento e l’esca.
Leggiermente si salda e si ristora
mentre la piaga è sanguinosa e fresca,
ma lunghissima chiede opra e fatica
doglia suppressa e cicatrice antica.
215
Se pur foco amoroso è quelch’acceso,
sicom’io stimo, entro le vene ascondi,
ché non riveli a me (partito peso
fassi men grave) i tuoi dolor profondi?
Pasci pur di speranza il core offeso,
ché ne’ campi d’amor lieti e fecondi
stan dolci frutti sott’amare foglie,
e di seme di duol gioia si coglie. –
216
A quel parlar la bella donna il volto
veste di fina porpora vivace
e con guardo dimesso e ‘n sé raccolto
inchina a terra i vaghi lumi e tace.
Ma pur alquanto assecurata e sciolto
dela nobil vergogna il fren tenace,
in queste note ala profonda pena
trangugiando un singulto, apre la vena:
217
– Fedel mia cara, e che noiose larve
e che duri pensier guerra mi fanno?
E qual è questo che quaggiù comparve
novamente di me fatto tiranno?
Veder nel suo bel viso Amor mi parve
che con leggiadro e dilettoso inganno,
saettandomi gli occhi, il cor m’uccise,
indi del’alma in signoria si mise.
218
L’alte bellezze e le sembianze oneste
che fan di sé meravigliar natura,
il dolce sguardo, il ragionar celeste
che con stranio piacer l’anime fura,
il riso a tranquillar l’aspre tempeste
possente e rischiarar la notte oscura,
l’andar, lo star piacquero, oimé, sì forte
agli occhi miei ch’io ne languisco a morte.
219
Senon ch’altre maggior pene future
mi minaccian dal ciel influssi rei
e da luci nemiche alte sciagure
veggio prefisse ai desideri miei,
a questo solo error, s’errore è pure
amar tanta beltà, sotto cadrei.
Ben conosco il mio fallo e men’aveggio,
ma qual egro assetato, amo il mio peggio. –
220
Soggiunge Idonia allor: – Perché cotanto
abbi teco a dolerti io non comprendo,
quando libera donna, apien di quanto
brami hai l’arbitrio; e che non puoi volendo?
se potendo gioir ti stilli in pianto,
pietà non ti si dee, statti piangendo.
L’influenze paventi infauste e felle?
e non sai che ‘l saver vince le stelle?
221
O temi forse tu che tanta asprezza
in un tenero cor soggiorni e regni
che di divina ed immortal bellezza
lusinghevole invito aborra e sdegni?
e non più tosto pien d’alta vaghezza
tanto tesor per acquistar s’ingegni?
o che di donna tal giovane errante
non si rechi a gran sorte essere amante?
222
Or non fora il miglior, mentre ch’oppresso
dal notturno letargo il mondo tace
e t’è di girne occulta agio concesso,
assalire il nemico e chieder pace?
Ecco la via colà, l’uscio è qui presso
ch’esce dritto ala stanza ov’egli giace.
Tronca gl’indugi e in uso omai migliore
sappi, se saggia sei, spender questore. –
223
Così favella e volentier l’orecchia
porge la fata a quel parlar soave;
ma mentre al’altra in fronte ella si specchia
sestessa affrena e sbigottisce e pave.
Dela severa ed onorata vecchia
teme lo sdegno e ‘n reverenza l’have.
Da lei si guarda e sue lascivie immonde
che communica a quella, a questa asconde.
224
Ai detti del’iniqua instigatrice
costei con torto sguardo e torvo ciglio
veggendo a sciolto fren quella infelice
correr per via sinistra alto periglio,
a sé la chiama e: – Figlia, odi (le dice)
odi, ti prego, il mio fedel consiglio.
Non gir dove costei t’alletta e sprona,
ch’è contrario a ragion quanto ragiona.
225
Mille onor chiari assai sovente annera
picciola macchia. Oimé, che fai? che pensi?
non sai ch’a un punto sol la gloria intera
in molt’anni acquistata a perder viensi?
Figlia è dela ragion la gioia vera
non del piacer allettator de’ sensi.
Con quella onore e pro maisempre vanno,
questo produce sol vergogna e danno.
226
Qual insania sospigne i tuoi desiri?
che vuoi tu far d’un vagabondo amico?
Un che non ha, se con dritt’occhio il miri,
tetto né suolo? un peregrin mendico?
ma qual certezza hai tu ch’ei non s’adiri?
che sai se quanto è bel tanto è pudico?
Che sai se, d’altro foco acceso prima,
il tuo amor nulla cura e nulla stima?
227
Dunque un vil fante, uno stranier donzello,
veduto apena, avratti in sua balia?
S’avien ch’ad altrui grato, a te rubello,
ti rifiuti e discacci, oimé che fia?
Dal fier Demogorgon con qual flagello
punita allor sarai di tua follia?
Qual castigo n’avrai grave e severo
dal tuo gran padre ch’ha sotterra impero? –
228
Qual peregrin che per oscura valle
move notturno e malsecuro il piede
e per la cupa nebbia il torto calle
del vicin precipizio orbo non vede,
s’improviso balen gli occhi o le spalle
squarciando l’ombre o luce altra gli fiede,
volge con passo ancor dubbio e tremante
fuggendo il rischio a buon camin le piante,
229
tal proprio, a quel parlar verace e saggio
dela cieca d’amor l’animo afflitto
che, smarrito d’onor l’alto viaggio,
l’orme seguia del vago cor trafitto,
quasi riscosso da celeste raggio
subito si rivolse al sentier dritto.
Già sestessa riprende e già s’appiglia
ala scorta leal che la consiglia.
230
Di tutto ciò l’adulatrice accorta,
di contrario licor tempra l’unguento
e con più dolce medicina apporta
refrigerio al’ardor, tregua al tormento.
Le sorride sott’occhio e la conforta
così parlando: – E che sciocchezze io sento?
Odi sano parer, consiglio degno
di saggia mente e di maturo ingegno.
231
Portar spavento a chi le chiede aita,
impor gran peso a chi le forze ha frali,
predicar fole e del’altrui ferita
venir con ciance ad inasprire i mali.
Sì sì, di chi goder cerca la vita
han per dio gran pensier l’ombre infernali;
gli abitator del tartaro profondo
curano assai ciò che si fa nel mondo.
232
Ma dele regioni orride e crude
non ama anch’egli il rigido tiranno?
Forse chi tant’ardor nel petto chiude
non scuserà l’altrui mortale affanno?
L’ampia legge d’amor nessuno esclude,
gl’istessi dei schermir non sene sanno.
Sotto questo destin l’alme son nate,
sono al fato soggette anco le fate.
233
Il basso stato poi del giovinetto
toglier non deve al’altre doti il vanto.
Non può dunque adempirne il suo difetto
chi di beni e ricchezze abonda tanto?
Pur come un vago e signorile aspetto
non curi amor, ma sol riguardi al manto
e, benché in vesta lacera si chiuda,
beltà non s’ami più, quant’è più nuda.
234
O come è lieve a chi dolor non sente
non sano poverel rendere accorto.
Costei che del’età lieta e ridente
passato ha il verde e di suo corso è in porto,
sazia omai del piacer, severamente
nega al’altrui digiun picciol conforto
e, ciò ch’aver non può, contende e vieta
a giovenil desio vecchia discreta.
235
Ma credi tu che questa tua pudica
che sì schiva d’amor si mostra in detti,
se richiamar nela sua scorza antica
gli anni freschi potesse e giovinetti,
o s’amante trovasse, a lui nemica
come in parole appar fusse in effetti?
o che ‘n su’l fior dela beltà perduta
tant’avesse onestà quant’ha canuta?
236
Bellezza, gioventù, grazia amorosa,
ma non goduta in donna avara e stolta
è qual luce di sol tra nubi ascosa,
è qual sotterra o in mar gemma sepolta,
è qual vermiglia ed odorata rosa,
che dal bel cespo in sua stagion non colta,
cadendo arida poi, vedesi alfine
di sue ricchezze impoverir le spine.
237
E sebene il tuo fior giamai non cade
né da bruma senil seccar si lassa
poiché ‘l tuo corpo in qualsivoglia etade
è come il ciel d’incorrottibil massa,
non deve in ozio star tanta beltade,
perché ‘ndietro non torna il ben che passa,
né perché la stagion sia sempre verde
si racquista più mai quelche si perde. –
238
Come fra duo talor fisici esperti
nel consiglio discordi, infermo stanco
a pensier vari e di salute incerti
dubbio si volge e d’or in or vien manco,
così costei, de’ duo rimedi offerti,
amaro e dolce, al tormentato fianco,
il miglior non distingue: afferma e nega,
or a questo, or a quel s’inchina e piega.
239
Tace né dà, fuorché sospiri e strida,
la combattuta donna, altra risposta.
Pur le terga volgendo ala più fida,
tacitamente a quel parer s’accosta
e fra suo cor dela fallace guida
l’empie lusinghe di seguir disposta,
al partito che piace alfin si volve
e quanto ha detto effettuar risolve.
240
Là dove giace Adon, perché la doglia
si sfoghi in parte e più non la consumi,
vassene ignuda e senza alcuna spoglia
tutta tutta spirante arabi fumi.
Vigilavano accesi entro la soglia
quattro in aurei doppieri ardenti lumi,
ma sparsi, de’ begli occhi i raggi intorno,
vinser le faci e mutar l’ombra in giorno.
241
Troppo dura battaglia, o bell’Adone,
al tuo stabil pensier, veggio, si move.
Amor ti sfida a sì dolce tenzone
con armi in man sì disusate e nove
che ben’altro di te maggior campione
vi perderia le gloriose prove.
Pertinace è la pugna, angusto il campo,
grave il periglio e non leggier lo scampo.
242
Move pian pian per lo pavese i passi
e piede innanzi piede oltre camina.
Timida e rispettosa alquanto stassi
dove si fende in due l’ampia cortina.
Indi arditetta alza le coltre e fassi
al suo stesso guancial molto vicina,
vicina sì che può da’ labri amati
coglier, se non i baci, almeno i fiati.
243
Chinasi per baciar, ma par che tremi,
che non si sdegni poi quando si desti.
Folle che pensi? misera che temi?
Se sapessi quai doglie il ciel t’appresti,
per mitigar tanti cordogli estremi
da’ bei rubini un bacio almen torresti.
Fallo non è poiché d’amor t’accendi,
furto non è se quanto dai ti prendi.
244
Ei, che leggier dormiva e ‘n parte tratto
s’avea del sonno il natural desio,
a quel moto si scosse e stupefatto
le luci in prima e poi le labra aprio.
– Chi se’ tu? – disse. Ed ella in languid’atto
e ‘n suon piano e sommesso: – Io mi son io.–
Stupisce Adon quando di lei s’accorge
e dale piume a reverirla sorge.
245
L’accesa donna dele braccia belle
ai bei membri gli fa groppi tenaci;
il bel garzon sene sottragge e svelle
e dà repulsa a quegli assalti audaci.
Le vive rose allor, le vive stelle
spargon preghi, sospir, lagrime e baci
da far, nonché gentil tenero core,
adamantino ghiaccio arder d’amore.
246
– Fia dunque ver ch’un raggio amato e caro
mi neghi almen (dicea) de’ lumi tuoi?
E sarai sì crudel, sarai sì avaro
a chi più t’ama assai che gli occhi suoi?
Sì poco curi il mio tormento amaro
che ‘n tale stato abbandonar mi vuoi?
Angue già non son io crudo e maligno,
né tu sei di diaspro o di macigno.
247
Ma se nato di quercia aspra e villana
fossi là tra Rifei, tra gli Arimaspi
e se bevuto del’estrema Tana
l’onde gelide avessi o i ghiacci caspi,
se te di sangue e di velen l’ircana
tigre e ‘n grembo nutrito avesser gli aspi,
ancor devresti al mio mortal cordoglio
temprar lo sdegno e moderar l’orgoglio.
248
Già non cheggio che m’ami, i’ cheggio solo
ti lasci; e non ch’a me ti pieghi,
ma ch’almen non disprezzi il mio gran duolo;
piacciati udir, non essaudire i preghi;
sol che ‘n pace m’ascolti io mi consolo;
non mi negar pietà s’amor mi neghi,
fonte d’ogni mia gioia, unico mio
dolce ben, dolce mal, dolce desio.
249
Intenerisci il tuo selvaggio ingegno,
prendi il crin che Fortuna or t’offre in dono,
ch’altro amor non conviensi ad uom sì degno
che di tal semidea qual io mi sono.
Possessor del mio cor, nonché del regno
farotti e ne terrai lo scettro e ‘l trono
e se l’oro è re grande oltre i più grandi,
a chi comanda al’or vo’ che comandi.
250
Che più dimori? a che pensoso stai?
perché ti mostri al proprio ben sì tardo?
Stendimi quella man, lascia ch’omai
baci sol que’ begli occhi ond’io tutt’ardo;
volgimi da’ que’ dolci amati rai
men crudo almen se non pietoso un guardo,
luce mia, fiamma mia cara e gradita,
bene, speranza, core, anima e vita. –
251
Poiché tra lo stupore e la pietate
Adon dubbio tra sé ristette alquanto
e prestò più benigne e men turbate
l’orecchie a quel pregar, le luci al pianto,
in sua voglia ostinossi al’ascoltate
note non men che soglia aspe al’incanto;
sopir però quelle faville accese
volse, se non pietoso, almen cortese.
252
Un non so che di molle il cor gli stringe,
ma la somma beltà ch’entro v’è chiusa
l’ingombra sì, ch’ogni altro amor ne spinge,
onde vezzi ed offerte odia e ricusa.
Fiamma di sdegno e di vergogna il tinge,
dala cui forza è l’altra fiamma esclusa;
onde con un parlar rigido e dolce
così dicendo or la corregge, or molce:
253
– Donna, assai ti degg’io; pria che si scioglia
questo dever, si disciorrà la vita;
finché chiusa fia l’alma in questa spoglia
Falsirena nel petto avrò scolpita.
Così signor fuss’io d’ogni mia voglia,
come pronto m’avresti a darti aita.
Ma che poss’io? forza d’onor mi move
e tenor di destin mi chiama altrove.
254
Teco meglio amerei, lecito fosse,
rimaner fra tant’agi a trastullarmi
che quanto mai dal’onde azzurre o rosse
oro l’instabil dea possa recarmi.
Fama a venir di tua virtù mi mosse
sol per vederti e poi lassù tornarmi;
ché se gli affari miei ti fusser noti,
compatiresti ai miei perpetui moti.
255
Sappi e credi ch’io t’amo e gli amor miei
non fia mai che dal cor tempo mi svella.
Ma devi amar, se vera amante sei,
ch’altri ami in te quel bel che ti fa bella.
Ah! ch’avessi già tu mai non credei
sì di sì vile amor l’anima ancella
ch’oscurar ne devessi il lume e ‘l pregio
del chiaro ingegno e del costume regio.
256
Dove rotto ogni morso, ogni catena
di ragion, d’onestà, per torti errori
corri precipitosa? Affrena affrena
cotesti tuoi licenziosi ardori.
L’alta follia ch’a vaneggiar ti mena
volgi a più puri e più lodati amori.
Dunque, terrena dea, donna divina
non saprà di sestessa esser reina?
257
Schiva ben nato cor nobile amante
d’illegittimo amor sozzo diletto.
L’appetito ferin nel senso errante
s’arresta e mortal esca ha per oggetto.
Quelle sol quelle son veraci e sante
fiamme che di virtù scaldano il petto,
qualor malgrado dela fragil salma
s’ama insieme e si gode alma con alma.
258
Consenti omai ch’io de’ tuoi regni il piede
tragga e prendi da me l’ultimo a dio.
Teco a me dimorar non si concede,
sostien, s’ami ch’io t’ami, il partir mio.
Portalo in pace e, come il tempo chiede,
vinci la passion, doma il desio.
Sappi esser saggia e con miglior consiglio
rasciuga il pianto e rasserena il ciglio. –
259
Muta, confusa, attonita mentr’egli
in tal guisa parlò, tacque e sofferse
Falsirena infelice e gli occhi begli
rugiadosi di perle al suol converse.
L’aria notturna e l’ombra de’ capegli
dela sua nudità parte coverse
e ‘l bel rossor dela vergogna ascose
che fiamme a fiamme aggiunse e rose a rose.
260
Nel cor di grave doglia oppresso e carco
palpitaro gli spiriti infelici.
Se non lasciò, che non potea, l’incarco,
l’alma, cessò da’ suoi vitali uffici.
Chiuso trovando allor l’usato varco
le calde dela vita aure nutrici,
in preda la meschina al duolo amaro
viva, ma semiviva abbandonaro.
261
E l’abbandona ancor in quel cordoglio
colui che può sol darle anima e vita.
Ma che sia crudeltà creder non voglio
se la lascia in tal caso e non l’aita,
quando avrebbe a pietà mosso uno scoglio
e qual selce più dura intenerita;
forse per non mirarla afflitta e trista
è costretto a fuggir dala sua vista.
262
Uscito Adon dele dorate soglie,
Idonia v’entra che ‘l successo attende
e quando immersa in sì profonde doglie
la trova, la cagion ben ne comprende.
Poiché la fata alfin la lingua sciolse,
apena creder vuol quelche n’intende,
né ciò reca a virtù, ch’è fuor d’usanza
in sì fragile età tanta costanza.
263
– Non tosto a’ primi colpi, a’ primi venti
(diceale) antica rovere s’atterra.
Altri non mancheran mezzi possenti
da far cader questa grande pianta a terra.
Lo stimulo del’or prima si tenti,
campion che vince ogni ostinata guerra.
Sai che questo è del’uomo il sangue e l’alma
e di petti più forti ebbe la palma.
264
Non con tanto vigor dal ciel trabocca
il fulmine né fa tanto fracasso,
quanto fa l’or, quando s’aventa e scocca,
né cosa v’ha che gli rinchiuda il passo:
abbatte ogni ripar, spiana ogni rocca,
rompe il legno, apre il ferro e spezza il sasso.
Se pur alfin non gioveran quest’armi,
giova la forza, il tutto ponno i carmi.
265
Da possanza infernal senno terreno
come guardar, come schermir si pote?
Toglie al’angue, al leon l’ira e ‘l veleno
il mormorio dele tremende note.
Può dela terra e può del ciel non meno
mover il centro ed arrestar le rote,
torcer le stelle e, sanguinosa e bruna,
far giù dal cerchio suo scender la luna. –
266
Partesi e nel giardino Adone arriva
che tra quelle verdure erme e riposte
al fresco del mattin si rivestiva
le spoglie che la notte avea deposte
e seco dela femina lasciva
discorrea le lusinghe e le proposte.
Uscir quindi vorria, romper quel nodo
ma non scorge il sentier, né trova il modo.
267
Con acerbe doglienze ed importune
Idonia allor il damigel ripiglia
dicendogli ch’ell’ama il ben commune
e che per util suo solo il consiglia,
che conoscer devria le sue fortune
e che forte di lui si meraviglia
che con cambio ingratissimo disprezza
tant’onor, tant’amor, tanta bellezza.
268
– Se non sei (gli dicea) privo di sensi,
contro guerriera tal come resisti?
Ma s’al’amor, s’ala beltà non pensi
di lei, da cui sì subito partisti,
come almen non rimiri i beni immensi
ch’acquistando costei per sempre acquisti?
T’insegnerà le qualitati ignote
dele pietre, del’erbe e dele note.
269
Ti scoprirà l’occulta arte verace
che può supplire ove mancò natura:
in qual modo, arrestando il piè fugace,
l’imperfetto metallo si matura
e come dando il vento ala fornace
con moderato mantice misura,
tempra in guisa il calor, ch’a poco a poco
l’efficacia del sol s’usurpa il foco.
270
Oltre questa virtù rara e secreta
ch’a tutti conseguir non si concede,
onde vita trarrai contenta e lieta
come colui che quanto vuol possiede,
dono poi ti farà d’una moneta
che sempre a chi la spende indietro riede;
se la spendessi mille volte il giorno,
mille volte in tua man farà ritorno.
271
Una sua borsa ancor vo ch’abbi appresso,
la cui virtù meravigliosa è molto:
dentro vi cresce ognor ciò che v’è messo
e rende al doppio più che non n’è tolto;
vedrai se l’apri tosto da sestesso
moltiplicarsi quel che v’è raccolto;
se poi vota la lasci e d’oro scarca
vene ritrovi almen sempre una marca.
272
La lucertola avrai dale due code,
perché giocando a guadagnar ti serva;
poi quel can fia tua guida e tuo custode,
quel cacciator dela mirabil cerva.
Godrai quelche nel mondo altri non gode,
saprai dovunque d’or si fa conserva.
Potrai, nonch’altro, con tal mezzo avere
le più belle fanciulle a tuo piacere. –
273
Così dicea l’incitatrice astuta,
ma ‘l garzone a quel dir non più si scalda
che soglia debil sol, quando più sputa
gelo il settentrion, nevosa falda,
falda in ruvido sen d’alpe canuta
per lunga età ben indurata e salda:
non si piega agli assalti e non si rende,
ma come il meglio può sene difende.
274
– Alma ingorda (risponde) il ciel non diemme,
sempre del troppo i miei desir fur schifi.
Se di quante ricchezze e quante gemme
guardan colà su gli Arimaspi i grifi,
se di quant’or dal’indiche maremme
per le liquide vie conduce Tifi
mi facesse signor prodigo cielo,
non torceria de’ miei pensieri un pelo.
275
Quest’or che fitte tanto ha le radici
ne’ petti umani e che tu tanto estolli,
è se non servitù d’alme infelici,
miseria illustre, idolatria di folli?
Quei che ricchi son più, son più mendici,
quanto divoran più son men satolli.
Con fatica s’acquista e con sudore,
rischio è il serbarlo, il perderlo dolore.
276
Giuro che di costei l’amor non sprezzo,
suoi tesori appo me son ombre e fumi.
Più sua beltà, più sua virtute apprezzo
che ciò che dar mi ponno o monti o fiumi,
né qualunque torrei cosa di prezzo
più ch’uno sguardo sol de’ suoi bei lumi.
Quant’or portan dal’India o navi o some
non pagherebbe un fil dele sue chiome.
277
Uopo non fora di sospiri e pianti
a disporre il mio cor, s’ei fusse mio.
Mancheran forse a sì gran donna amanti
d’altro pregio maggior che non son io?
quanti sovrani fien principi e quanti
che porranno ogni studio, ogni desio
per ottener quel ben che senza merto
vien sol per grazia a chi nol chiede offerto? –
278
Disse, e da lei fu replicato a questo
e per più vie con più ragion l’assalse,
ma poich’alfin col suo parlar molesto
quell’alpestra mollir selce non valse,
di Falsirena il cor doglioso e mesto
a pascer venne di speranze false,
cercando in parte alleggerir gli ardori
de’ malgraditi e sconsolati amori.
279
Ella che ben conobbe esser negletta
in quel grave martir vie più s’afflisse
e di sì acuta e sì crudel saetta
ira amorosa il petto le trafisse,
che far de’ torti suoi giusta vendetta
deliberossi infuriata e disse:
– Or con costui ch’è d’ogni grazia indegno,
ciò che non può l’amor, faccia lo sdegno. –
280
Posto fu quella notte in ben agiata
camera Adon, ché tal sembrava e ricca.
Porta non ha che serri altrui l’entrata,
ma quand’uom v’entra poi, d’alto si spicca
e ‘n guisa di graticola ferrata
con aguzzi spuntoni al suol si ficca
e forma atra prigione, ov’introduce
ben angusto sportel torbida luce.
281
Qui, come in gabbia augello, in rete pesce
preso rimane o pur qual damma in laccio.
Ma l’esser prigionier men gli rincresce
che ritrovarsi ad altra donna in braccio.
Sa che ‘n carcere entrando almen pur esce
libero fuor di quel noioso impaccio:
– Ombre cieche (dicea) tenebre orrende,
mal vostro grado un più bel sol mi splende.
282
Soffri in pace, o mio cor, nodi e legami,
soffri e vivi felice infra le pene.
Qual altra luce in quest’orror più brami
che la memoria del tuo sommo bene?
Purché la fè non rompa a chi tant’ami,
non si rompan più mai ceppi e catene.
Ma catene maggior temer non devi
quando quelle d’amor ti son sì lievi.
283
Se la gloria che ‘l fato or mi destina
non fusse da quel duol turbata in parte
d’aver la bella ed unica reina
di questo cor lasciata in preda a Marte,
ilche pur dela gemma adamantina
chiaro mi mostra l’infallibil’arte,
quanto più volentier gli aspri ritegni
sopporterei di questi ferri indegni?
284
O viva imago del mio nume amato,
che ‘n bel diamante effigiata spiri,
che fa teco il mio cor? quanto beato
vidi condotti a fin gli alti desiri,
in quella rete d’oro imprigionato,
dolcissima prigion de’ miei sospiri
quando superbo di sì nobil palma
nele tue braccia imprigionai quest’alma?
285
Ahi quando fuor dele tue belle braccia,
carcer felice, in libertà fu messa,
perché dal mortal groppo onde s’allaccia
non si discarcerò l’anima anch’essa?
Deh perch’io viva sì che non mi spiaccia
la vita omai senza la vita istessa,
dammi conforto tu, dammi possanza
tu del bell’idol mio vera sembianza.
286
– La custodia del carcere rimise
l’irata donna ad un suo schiavo armeno.
Degno supplicio al mal che poi commise
portò costui fin dal materno seno.
Giusto ferro gli svelse e gli recise
dala gemina sede il peso osceno
e gli tolse ala luce apena uscito
ufficio inun di padre e di marito.
287
Corse l’Arabie e per l’Assiria appresso
essercitossi in ministeri vili.
Solcan la guancia, ch’al mutar del sesso
sicom’uva appassì, rughe senili,
là dove il conio egizzio ha il marchio impresso
degl’infami caratteri servili.
E ben mostra la voce e la statura
l’effeminata sua steril natura.
288
Sicome uom più fellon, così più sozza
figura non uscì giamai del’alvo.
Mezza un’orecchia e l’altra intutto ha mozza,
l’occhio destro ha perduto, il manco è salvo.
Salvo un fiocco di crin che ‘n treccia accozza
su la cima del capo, il resto è calvo;
ma la calvicie è d’una tigna brutta
quasi a mosaico intarsiata tutta.
289
La superbia d’Idraspe e l’inclemenza,
tal nome avea l’eunuco aspro e severo,
non tralasciò tirannica insolenza
mentre in sua guardia Adon fu prigioniero.
Ma con egual costanza e sofferenza
soggiacque ei sempre al rigoroso impero,
quando per fargli ognor scherni più gravi
l’indiscreto portier movea le chiavi.
290
Atti usò sì ferini e sì selvaggi
col bel garzone il carcerier villano,
che se non era da’ celesti raggi
soccorso del suo sol, benché lontano,
ai duri strazi, ai dispettosi oltraggi
di quel giogo cadea troppo inumano,
sotto il cui fiero e barbaro governo
quasi il corso passò di tutto il verno.
291
Poco o nulla gli nocque il verno algente,
mercé del divin foco onde sempr’arse.
In mano il fido anel prendea sovente
né sapea da tal vista unqua levarse.
Sovra la bella effigie egro dolente,
o quante notte e dì lagrime sparse!
Cotal vita menò tanto ch’a fine
venne l’aspra stagion dele pruine.
292
Tornava Idonia con assedio duro
a combatterlo ognor senza riposo.
Ma del suo cor l’inespugnabil muro
trovò sempre più forte e più scabroso.
In somma d’un parer le donne furo
ch’altro amor lo facea così ritroso,
onde la fata di lasciar i pianti
e di tentar determinò gl’incanti.

CANTO XI
CANTO XII
LA PRIGIONE

ALLEGORIA

La prigionia d’Adone con tutti gli strazi che sopporta da Falsirena, ci fa scorgere gli effetti della superbia, quando per esser disprezzata entra in furore, e la vita tribulata del peccatore, quando addormentato nel vizio ed impigrito nella consuetudine, si lascia legare dalle catene delle pericolose tentazioni. Il cangiarsi in uccello è mistero della leggerezza giovanile, che, vaneggiando, non ha ne’ suoi amorosi pensieri giamai fermezza. La fontana, in virtù della cui acqua egli ritorna al suo primo essere, allude alla divina grazia, laqual col mezzo della penitenza restituisce all’uomo la sua vera imagine, già contrafatta per lo peccato. Vulcano è simbolo di Satana, zoppo per la privazione d’ogni bene, brutto per la perdita de’ doni della grazia, abitatore di caverne per la stanza delle tenebre infernali, destinato all’essercizio del fuoco per lo ministerio delle fiamme eterne. L’uno, dopo l’avere incatenato Adone, cerca d’ucciderlo; e l’altro, dopo l’aver sottoposto l’uomo alla sua tirannide procura intutto di dar morte all’anima. Senonché Mercurio, figura della celeste e vera sapienza, lo consiglia, l’aiuta e rende vane tutte quante le diaboliche insidie. La noce d’oro, ch’aperta somministra altrui lautissime mense, oltre l’esser simbolo della perfezzione e della bontà, vuol significare che l’oro si fa abondanza in qualsivoglia luogo, ancorché sterile, e che al ricco non manca da vivere morbidamente nelle penurie maggiori. L’Interesse con l’orecchie asinili, che non gode della dolcezza dell’armonia, anzi l’aborre, ci rappresenta l’avarizia e l’ignoranza, che non si curano di poesie né si compiacciono di musiche. La trasformazione della fata e sue donzelle in bisce adombra l’abominevole condizione delle bellezze terrene e delle delizie temporali, lequali paiono altrui in vista belle,ma son piene di difformità e di veleno.

ARGOMENTO

Tenta la maga invan l’arti profane,
poi schernir cerca Adon sott’altra forma;
l’addormenta, l’inganna e lo trasforma;
egli fugge, altri il segue, ella rimane.

1
Chi fu ch’ala tua lingua, o Zoroastro,
concesse in prima autorità cotanta?
Donde apprese il tuo ingegno ad esser mastro
del’arte detestabile ch’incanta,
l’arte che contro ogni possanza d’astro
vincer natura e dominar si vanta?
E come ponno iniqui carmi e rei
del’inferno e del ciel sforzar gli dei?
2
Da qual forza fatal che gli corregge
o da qual patto son legati e stretti?
È necessaria o volontaria legge
che sì gli rende altrui servi e soggetti,
quasi chi tutto può, chi tutto regge
tema d’un uom disubbidire ai detti?
È talento o timor quelche gli move
tant’opre a far prodigiose e nove?
3
Deh, quante volte dele lievi rote
che si volgon sì ratto intorno ai poli
veduto ha con stupor restarsi immote
Giove l’immense e smisurate moli?
Quante vid’egli ale malvage note
le lune in ciel moltiplicarsi e i soli,
scorrere i tuoni a suo dispetto e i lampi,
scotersi il mondo e titubarne i campi?
4
Turbasi al suon de’ mormorati accenti
l’ordine dele cose e si confonde.
Nettun, senza procelle e senza venti
gonfio, i lidi del ciel batte con l’onde;
poi quando più del mar fremon gli armenti
ritira il piè dale vicine sponde
e ricurvando insu l’umide fonti
tornan per l’erta i fiumi ai patri fonti.
5
Ogni fera più fera e più rabbiosa
la sua rabbia addolcisce e disacerba.
Non è leone altier, tigre orgogliosa
che non deponga allor l’ira superba.
Vomita il fiel la serpe velenosa
e i livid’orbi suoi stende per l’erba,
e smembrata la vipera e divisa
vive e rintegra ogni sua parte incisa.
6
Ma com’è poi che i versi abbian potere
di separare i più congiunti cori,
e ‘l commercio reciproco e ‘l piacere
santo impedir de’ maritali amori?
Come del’alme il libero volere
anco scaldar d’involontari ardori,
ed agitar con empie fiamme insane
di maligno furor le menti umane?
7
Falsirena aspettò che piene avesse
Cinzia del’orbe suo le parti sceme
ed oportuno alfin quel tempo elesse
che congiunte avea già le corna estreme.
E veggendo anco in ciel le stelle istesse
seconde al’arte sua volgersi insieme,
nel loco usato a celebrar sen venne
de’ sacrilegi suoi l’opra sollenne.
8
Sorge nel sen più folto e più confuso
d’un bosco antico un solitario altare,
d’alti cipressi incoronato e chiuso
là donde il sole orientale appare,
aperto a quella parte ov’ha per uso
depor la luce ed attuffarsi in mare.
Opaco orror l’ingombra e lo nasconde
sotto perpetue tenebre di fronde.
9
Quivi idoletti vari e simulacri
l’innamorata incantatrice accolse
e quivi a più color tre veli sacri
con caratteri e segni intorno avolse;
e poiché a’ membri suoi nove lavacri
d’un’acqua fè che da tre fonti tolse,
discinta e scalza del sinistro piede
il foco e l’ostia ad apprestar si diede.
10
Con la casta verbena e ‘l maschio incenso
le fiamme pria del’olocausto alluma
e di vapor caliginoso e denso
e l’ara e l’aria orribilmente affuma.
Poi di virtute occulta al nostro senso
dentro il magico incendio arde e consuma
mille con falce tronche erbe maligne,
erbe apena ancor note ale madrigne.
11
Delo stridulo alloro asperse in esso
le nere bacche innanzi dì recise,
dela fico selvaggia il latte espresso
e dela felce il seme ella vi mise
e la radice ch’ha commune il sesso
del’eringe spinosa anco v’intrise
e fra gli altri velen che dentro v’arse
la violenta ippomene vi sparse.
12
Arse l’erbe e le piante ad una ad una,
sette volte l’altar circonda intorno,
tre s’inginocchia ad adorar la luna,
tre la contrada ove tramonta il giorno.
D’una pecora poi lanosa e bruna
con la manca tenendo il manco corno,
con la destra il coltel, tra i fochi e i fumi
trecento invoca sconosciuti numi;
13
e mentreché di Stige e Flegetonte
l’occulte deità per nome appella,
versa di nero vino un largo fonte
infra le corna ala dannata agnella,
non pria però che dala fosca fronte
di lana un fiocco di sua man non svella
e che nol gitti entro le brage ardenti
quasi primi tributi e libamenti.
14
Poscia con ferro acuto apre e ferisce
la gola al’agna e la trafige e svena
e del sangue che fuor ne scaturisce
caldo e fumante un’ampia tazza ha piena.
Con l’estremo del labro indi lambisce
lievemente così che ‘l gusta apena.
Poi con olio e con mele in copia grande
ala madre commune in sen lo spande.
15
Una colomba ancor vaga e lasciva
uccise di candor simile al latte
e, poiché quante piume ella vestiva
tarpate l’ebbe a penna a penna e tratte,
donolle in cibo a quella fiamma viva
finché fur tutte in cenere disfatte;
ma prima le legò nel’ala manca
con rosso fil la calamita bianca.
16
Ciò fatto strinse in tre tenaci nodi
una ciocca di crin, ch’io non so come,
dormendo Adon, con sue sagaci frodi
gli tolse Idonia dale bionde chiome.
Sputò tre volte e ‘n tre diversi modi
disse, l’amante suo chiamando a nome:
– Resti legato né mai più si scioglia
il crudo sprezzator d’ogni mia doglia. –
17
A sembianza di lui di vergin cera
imagin poi misteriosa ammassa
e con un stecco di mortella nera
ben aguzzo e pungente il cor le passa.
E mentr’appo l’arsura atroce e fiera
a poco a poco distillar la lassa,
dice, volgendo il ramoscel del mirto:
Così foco d’amor strugga il suo spirto. –
18
D’ippopotamo un core alfine ha preso
nela riva del Nil nato e nutrito
che, dela nova luna ai raggi appeso,
era ala sua fredd’ombra inaridito;
e di faville oltracocenti acceso
e di spilli acutissimi ferito,
l’agita, il move, il trae come più vole
mormorando tra sé queste parole:
19
– Ecco il cor di colui ch’io cotant’amo,
ecco ch’io gli ho sett’aghi in mezzo affissi.
Ecco che ‘l tiro a me poi con quest’amo
già fabricato sotto sette ecclissi.
Ecco, sette carbon fatti del ramo
che già colse mia madre entro gli abissi,
desti dal sacro mantice v’aggiungo
e sette volte intorno intorno il pungo. –
20
Da’ sacrifici abominandi ed empi
cessò la fata e si partì ciò detto,
perché contro colui che duri scempi
ognor facea del suo piagato petto,
sperava pur dopo mill’altri essempi
di veder nova prova e novo effetto.
Ma di tante fatiche al vento spese
alcun frutto amoroso indarno attese.
21
E come per magie mai né per pianti
sperar potea rimedio a sì gran male,
se la dea degli amori e degli amanti,
ch’invocava propizia, avea rivale?
se colei ch’ha negli amorosi incanti
sovrano impero e potestà fatale,
avea malconcia dele piaghe istesse,
in quelch’ella chiedea, tanto interesse?
22
Poiché con lungo studio invan compose
suggelli e rombi e turbini e figure,
né seppe mai con queste ed altre cose
quelle voglie espugnar rigide e dure,
tornossi in voci amare e dolorose
con Idonia a lagnar di sue sventure:
– Lassa (diceale) in che mal punto il guardo
volsi da prima a que’ bei raggi ond’ardo.
23
Per mia fatal, cred’io, morte e ruina
vidi tanta beltà non più veduta.
Infin di quanto il ciel quaggiù destina
difficilmente il gran tenor si muta.
Chi può per molte scosse in balza alpina
ben robusta piegar quercia barbuta?
quercia ch’austro prendendo e borea a scherno,
tocca col capo il ciel, col piè l’inferno?
24
Amo statua di neve, anzi di pietra,
pertinace rigor, fermo desio.
Egli gela ale fiamme, ai pianti impetra,
né di voglia cangiar mi voglio anch’io.
Io non mi pento, ei non però si spetra,
guerreggia l’odio suo con l’amor mio.
L’uno in esser nemico e l’altra amante
non so chi di noi duo sia più costante.
25
Veggio moversi i monti anco a’ miei versi,
non ammollirsi un animato sasso.
Talor de’ fiumi indietro il piè conversi,
fermar non so d’un fuggitivo il passo.
I mostri umiliai fieri e perversi,
né d’un altier garzon l’animo abbasso.
Da me l’inferno istesso è vinto e domo,
né son possente a soggiogare un uomo.
26
Semino in onda e fabrico in arena,
persuado lo scoglio e prego il vento.
Al’aspe egizzio ed ala tigre armena
scopro la piaga mia, narro il tormento.
Idol crudel, di cui mi lice apena
sol la vista goder, di placar tento.
Se far potesse a questa alcun riparo
forse di questa ancor mi fora avaro.
27
Pregando, amando, lagrimando, ahi folle,
ottener l’impossibile credei.
Far una selce impenetrabil molle
più tosto che quel core io spererei.
Quanto più foco in me vede che bolle,
tanto schernisce più gli affanni miei.
E pur volta ad amar bellezze ingrate
di chi mi fa doler prendo pietate.
28
Né per tante repulse io lascio ancora
di correr dietro al’ostinate voglie.
Ogni altra donna alfin che s’innamora
sebene il morso al’onestà discioglie,
pur sfogando il martir che l’addolora
premio dela vergogna il piacer coglie.
Io senza alcun diletto averne tolto
sol dela propria infamia il frutto ho colto.
29
Vendo la libertà, compro il dolore,
serva son di colui che ‘n carcer chiudo
e pago a prezzo d’anima e di core
pianti e sospir che ‘l fanno ognor più crudo.
Da così caldo e così saldo amore
qual mai potrebbe adamantino scudo,
senon solo quel petto andar securo,
altrui tenero forse, a me sì duro?
30
O beata colei che ‘l cor gl’impiaga,
felici que’ begli occhi ond’arde tanto.
Quanto o quanto sarei d’intender vaga
chi sia costei ch’ha di tal grazia il vanto!
Ma di pietra per certo o d’erba maga
egli in sé cela alcun possente incanto
poiché giovan sì poco a far che m’ami
malie tenaci o magici legami. –
31
– Lungamente sospeso (Idonia dice)
tenuto ha questo dubbio il mio pensiero.
Ma tu che badi? ed a cui meglio lice
spiar d’un tal secreto il fatto intero?
Potrai ben tu de’ fati esploratrice
sforzar gli abissi a confessarti il vero,
tu che sì dotta sei nel’arti ascose
e sai cotanto del’oscure cose. –
32
Qui tace ed ella allor, che ben possiede
quante ha Tessaglia incognite dottrine,
non già di Delo i tripodi richiede,
non di Delfo ricorre ale cortine,
non di Dodona ai sacri boschi il piede
volge per supplicar querce indovine,
non a qualunque oracolo facondo
abbia più chiaro e più famoso il mondo,
33
non il moto e ‘l color cura degli esti
nel’ostie investigar de’ sacrifici,
né degli augei le cal giocondi o mesti
secondo il volo interpretar gli auspici,
né destri o manchi i fulmini celesti
osserva o sieno infausti o sien felici,
né specolando va le stelle e i cieli,
ma più tacite cose e più crudeli.
34
Nott’era allor che dal diurno moto
ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo,
l’onde giacean, tacean zefiro e noto
e cedeva il quadrante al’oriuolo,
sopia l’uom la fatica, il pesce il nuoto,
la fera il corso e l’augelletto il volo,
aspettando il tornar del novo lume
otra l’alghe o tra’ rami o su le piume,
35
quand’ella prese a proferir possenti
con lungo mormorio carmi e parole;
e bisbigliando i suoi profani accenti
atti a fermar nel maggior corso il sole,
il corpo s’impinguò di quegli unguenti
onde volar qual pipistrello suole
e per la cui virtù spesso s’è fatta
cagna, lupa, leonza, istrice e gatta.
36
Sovra un monton vie più che corvo nero
che la lana e la barba ha folta e lunga,
monta, ed acconcio ad uso di destriero,
vuol che ‘n brev’ora a Babilonia giunga.
Quel, più ch’alato folgore leggiero
per l’aria va senza che sprone il punga;
ella ale corna attiensi e non le lassa,
cavalca i nembi e i turbini trapassa.
37
Nata tra quel soldano era pur dianzi
e ‘l re d’Assiria aspra discordia e dura,
e venuti a giornata il giorno innanzi,
colma di morti avean la gran pianura.
Giacean de’ busti i non curati avanzi
sparsi sossovra in orrida mistura
e gonfio con le corna insanguinate
a lavarsi nel mar correa l’Eufrate.
38
Le campagne dintorno e le foreste
son di tronchi insepolti ingombre e piene.
Veggionsi tutte in quelle parti e ‘n queste
porporeggiar le spaziose arene,
fatte d’esca crudel mense funeste
a lupi ingordi ed altre fere oscene
ch’a monte a monte accumulate in terra
le reliquie a rapir van dela guerra.
39
Ma dala maga che dal ciel discende
son le delizie lor turbate e rotte,
onde lasciate le vivande orrende
fuggon digiune e timide ale grotte.
Ella di fosche nubi e fosche bende
che raddoppiano tenebre ala notte
avolta il capo, inviluppata i crini,
di quel tragico pian scorre i confini.
40
Per que’ campi di sangue umidi e tinti
vassene col favor del’ombra cheta
e la confusion di tanti estinti
volge e rivolge tacita e secreta;
e mentre de’ cadaveri indistinti,
a cui l’onor del tumulo si vieta,
calcando va le sanguinose membra,
oscura cosa e formidabil sembra.
41
Non so se ‘n vista sì tremenda e rea
là nela notte più profonda e muta
per la spiaggia di Colco uscir Medea
l’erbe sacre a raccor fu mai veduta,
quand’ella già rinovellar volea
del padre di Giason l’età canuta.
Atropo forse sola a lei s’agguaglia
qualor d’alcun mortal lo stame taglia.
42
Scelse un meschin di quella mischia sozza
che passato di fresco era di vita.
Intero il volto, intera avea la strozza
ma d’un troncon nel petto ampia ferita.
Se sia guasto il polmon, se rotta o mozza
sia l’aspra arteria ond’ha la voce uscita
prendendo a perscrutar, trova la maga
ch’ha le viscere intatte e senza piaga.
43
Pende il fato da lei di molti uccisi
che del’alta sentenza in dubbio stanno
e qual di tanti dal mortal divisi
voglia ala luce rivocar non sanno.
Se vuol tutti annodar gli stami incisi
convien che ceda l’infernal tiranno
e, le leggi del’erebo distrutte,
renda ale spoglie lor l’anime tutte.
44
Or del misero corpo a cui prescritta
l’ultima linea ancor non era in sorte,
lubrico intorno al collo un laccio gitta
e con groppi tenaci il lega forte.
Indi accioché più lacera e trafitta
resti la carne ancor dopo la morte
fin dov’entra nel monte un cupo speco
su per sassi e per spine il tira seco.
45
Fendesi il monte in precipizio e sotto
apre la cava rupe antro profondo
ch’arriva a Dite e discosceso e rotto
vede i confin del’un e l’altro mondo.
Quivi il mesto cadavere è condotto,
loco sacro per uso al culto immondo,
nel cui grembo giamai non s’introduce
senon fatta per arte ombra di luce.
46
Nel sen che quasi ancor tepido langue
fa nove piaghe allor la man perversa,
per cui lavando il già corrotto sangue
il vivo e ‘l caldo in vece sua vi versa.
Gli sparge ancora in ogni vena essangue
di varie cose poi tempra diversa.
Ciò che di mostruoso unqua o di tristo
partorisce Natura, entro v’ha misto.
47
Dela luna la spuma ella vi mesce,
la bava quando in rabbia entra il mastino,
e ‘l fiel vi mette del minuto pesce
che ‘l volo arresta del fugace pino.
Ponvi l’onda del mar quando più cresce
e di Cariddi il vomito canino
e del’unico augello orientale
il redivivo cenere immortale.
48
L’incorrottibil cedro e l’amaranto,
l’immortal mirra e ‘l balsamo v’interna,
la feconda virtù del grano infranto
e dela fera fertile di Lerna.
Del fegato di Tizio ancor alquanto,
che semedesmo rinascendo eterna,
e del seme del bombice v’ha messo,
verme possente a suscitar se stesso.
49
Il cerebro del’aspido vi stilla
e la midolla del non nato infante
e del nido aquilino, onde rapilla,
vi pon la pietra gravida e sonante.
Havvi l’occhio del lince e la pupilla
del basilisco e del dragon volante,
del’iena la spina e la membrana
dela cerasta orribile africana.
50
Le polpe del biscion che nel mar Rosso
guarda la preziosa margherita
infra l’altre sostanze, e ‘nsieme l’osso
del libico chelidro anco vi trita;
la pelle v’è ch’ha la cornice addosso
dopo ben nove secoli di vita;
né vi mancan le viscere col sangue
del cervo alpin che divorato ha l’angue.
51
Ferri di ceppi e pezzi di capestri,
fili arrotati di rasoi taglienti,
punte d’aguzzi chiodi e sangui e mestri
di donne uccise e di svenate genti,
de’ fulmini la polve e degli alpestri
ghiacci il rigore e gli aliti de’ venti
e i sudori del sol, quand’arde luglio,
vi distempra confusi in un miscuglio.
52
V’aggiunse d’Etna l’orride faville,
di Flegra i zolfi e di Cerauno i fumi,
del gran Cocito le cocenti stille,
del pigro asfalto i fervidi bitumi
e di mill’altri ingredienti e mille
abominande fecce, empi sozzumi,
infamie e pesti, onde la maga abonda,
incorporò nela mistura immonda.
53
Poiché tai cose tutte insieme accolte
nele fibre e nel core infuse gli ebbe
e dal suo sputo infette altr’erbe molte
virtuose e mirabili v’accrebbe,
sovra il corpo incurvossi e sette volte
inspirò ‘l fiato a chi risorger debbe.
Al miracolo estremo alfin s’accinse
e ‘l proprio spirto ad animarlo astrinse.
54
Vestesi pria di tenebrose spoglie,
poi prende nela man verga nefanda
ed ale chiome che ‘n su ‘l tergo accoglie,
fa d’intrecciate vipere ghirlanda.
Vie più ch’altra efficace indi discioglie
la fiera voce ch’a Pluton comanda
e move ai detti suoi sommessa e piana
lingua ch’assai discorde è dal’umana.
55
De’ cani imita i queruli latrati
ed esprime de’ lupi i rauchi suoni,
forma i gemiti orrendi e gli ululati
dele strigi notturne e de’ buboni,
i fischi de’ serpenti infuriati,
gli spaventosi strepiti de’ tuoni,
del’acque il pianto, il fremer dele fronde,
tante voci una voce in sé confonde.
56
L’aer puro e seren s’ingombra e tigne
a quel parlar di repentina ecclisse;
veggionsi lagrimar stille sanguigne
l’alte luci del ciel, mobili e fisse;
bendò fascia di nubi atre e maligne,
come la terra pur la ricoprisse
e le vietasse la fraterna vista,
dela candida dea la faccia trista.
57
Dopo i preludi d’un sussurro interno
seco pian pian sommormorato alquanto,
cominciando a picchiar l’uscio d’averno
in più chiaro tenor distinse il canto:
– Tartareo Giove, che del foco eterno
reggi l’impero e del’eterno pianto,
al cui scettro soggiace, al cui diadema
tutto il vulgo del’ombre e serve e trema;
58
Persefone triforme, Ecate ombrosa,
donna del’orco pallido e profondo,
al più crudo fratel congiunta in sposa
de’ tre monarchi ond’è diviso il mondo,
Notte gelida, pigra e tenebrosa,
figlia del Cao confuso ed infecondo,
umida madre del tranquillo dio,
del’Orror, del Silenzio e del’Oblio;
59
dive fatali e rigorosi numi
che sedete a filar l’umane vite
e novo stame a chi già chiusi ha i lumi
per dinovo spezzarlo ancora ordite;
Cocito e tutti voi perduti fiumi,
voi ch’irrigate la città di Dite;
dolenti case, antri nemici al sole,
aprite il passo al’alte mie parole.
60
O regi e voi dele malnate genti
conoscitori ed arbitri severi,
ch’a giusti e del fallir degni tormenti
condannate gli spirti iniqui e neri;
e voi, ministre ai miseri nocenti
di supplici e di strazi acerbi e fieri,
vergini orrende che gli stigi lidi
fate sonar di desperati stridi;
61
e tu, vecchio nocchier, ch’altrui fai scorta
a quelle region malvage e crude
solcando l’onda ognor livida e smorta
dela bollente e fetida palude;
e tu, vorace can, che ‘nsu la porta
dela gran reggia, ov’ogni mal si chiude,
perché chi v’entra più non n’esca mai,
con tre bocche e sei luci in guardia stai,
62
se voi sovente ne’ miei sacri versi
con labra pur contaminate invoco,
se mai di sangue uman grate v’offersi
vittime impure in essecrabil foco,
se le minugia de’ bambin dispersi
e dal materno sen tratti di poco
posi gli aborti insu la mensa ria
assistete propizi al’opra mia.
63
Già ritor non pretendo ai regni vostri
le possedute e ben devute prede,
né spirto avezzo a conversar tra’ mostri
per lungo tempo oggi per me si chiede;
quelche dimando de’ temuti chiostri
pose pur dianzi in su le soglie il piede
e di questa vital luce serena
ha quasi i raggi abbandonati apena.
64
Non nego a morte sua ragion né deggio
del giusto dritto defraudar natura.
Sol dele stelle e non del sol vi cheggio
si conceda a costui picciola usura.
Godan quegli occhi che velati or veggio
di caligine cieca e d’ombra oscura,
poiché per sempre pur chiuder gli deve,
di poca luce un’intervallo breve.
65
Odi, spirito ignudo, anima errante,
odi e ritorna al tuo compagno antico.
Solo qual sia l’amor, qual sia l’amante
rivela a me del mio crudel nemico.
Riedi subito al loco ov’eri innante
dato ch’avrai risposta a quant’io dico.
Ritorna, alma raminga e fuggitiva,
rivesti il manto e ‘l tuo consorte aviva. –
66
Ciò detto non lontan mira ed ascolta
del trafitto guerrier l’ombra che geme
perché del carcer primo onde fu tolta
tra’ nodi rientrar paventa e teme
e nel petto squarciato un’altra volta
riabitar dopo l’essequie estreme.
– Chi fin laggiù (prorompe) in riva a Lete
mi turba ancor la misera quiete?
67
Lasso, e chi dela spoglia ond’io son scarco
l’odiato peso a sostener m’affretta?
Dunque contro il destin severo e parco
il fil tronco a saldar Cloto è costretta?
Deh! ch’io ritorni per l’ombroso varco
ala requie interrotta or si permetta.
Miser, qual fato sì mi sforza e lega
che di poter morire anco mi nega? –
68
Ch’ei sia sì poco ad ubbidir veloce
la donna spirital disdegno prende,
onde con sferza rigida e feroce
di viva serpe il morto corpo offende.
Poi, con più alta e più terribil voce
solleva il grido che sotterra scende
e penetrando i più profondi orrori
minaccia al’alma rea pene maggiori.
69
– Su su, che tardi ad informar quest’ossa?
Qual più forte scongiuro ancora attendi?
Credi che nel’abisso e nela fossa
non ti sappia arrivar, se mel contendi?
o ch’esprimer que’ nomi or or non possa
inuditi, ineffabili, tremendi
che venir ti faranno a me davante
ciò ch’io t’impongo ad esseguir tremante?
70
Megera e voi dela spietata suora
suore ben degne e degne dee del male,
m’udite? a cui parl’io? tanta dimora
dunque vi lice? e sì di me vi cale?
e non venite? e non traete ancora
fuor del penoso baratro infernale
da serpenti agitata e da facelle
l’alma infelice a riveder le stelle?
71
Io vi farò dele magion notturne
a forza uscir di scosse e di flagelli.
Vi seguirò per ceneri e per urne,
vi scaccerò da’ roghi e dagli avelli.
Sarete voi sì sorde e taciturne
quand’io co’ propri titoli v’appelli?
o con note più fiere ed essecrande
invocar deggio pur quel nome grande? –
72
A tai detti, oh prodigo! ecco repente
il sangue intepidir gelido e duro
e le vene irrigar d’umor corrente
che già pur dianzi irrigidite furo.
Ripien di spirto e d’alito vivente
movesi già l’immobil corpo oscuro;
già già palpita il petto ed ogni fibra
ne’ freddi polsi si dibatte e vibra.
73
I nervi stende a poco a poco e sorge
e comincia ad aprir l’egre palpebre.
Torna il calor, ma somministra e porge
ale guance un color ch’è pur funebre.
Pallidezza sì fatta in lui si scorge
che somiglia squallor di lunga febre;
e con la morte ancor confusa e mista
giostra la vita che pian pian racquista.
74
– Di’ di’ (dic’ella allor) per cui si strugge
colui per cui mi struggo? alzati e dillo.
Qual il cor fiamma gli consuma e sugge?
qual laccio il prese? e quale stral ferillo?
Dimmi ond’avien che più m’aborre e fugge
quant’io più ‘l seguo e più per lui sfavillo?
Se fia mai che si muti e quando e come
narra e dammi del tutto il loco e ‘l nome.
75
S’averrà che tu chiaro il ver mi scopra,
non come fan gli oracoli dubbiosi,
degna mercé riceverai del’opra
in virtù de’ miei versi imperiosi.
Farò che più non tornerai di sopra
né più verrà chi rompa i tuoi riposi;
da chiunque incantar ti vorrà mai
franco per tutti i secoli sarai. –
76
Così gli dice e carme aggiunge a questo
per cui quant’ella vuol saver gli ha dato.
Quei sparge alfine un flebil suono e mesto
articolando in tal favella il fiato:
– Non io non già nel mondo empio e funesto,
donde giunto pur or son richiamato,
dele parche mirai gli alti secreti
né vi lessi del fato i gran decreti.
77
Pur quanto sostener pote il brev’uso
d’una fugace e momentanea vita,
dirò ciò che d’udirne oggi laggiuso
mi fu permesso innanzi ala partita.
Oggi ho di quel ch’a tua notizia è chiuso
dal’empia Gelosia l’istoria udita;
dal’empia Gelosia, Furia perversa,
che con l’altre talor Furie conversa.
78
Disse che ‘l bel garzon ch’a te sì piacque
e che del’amor tuo cura non piglia,
dal re di Cipro è generato e nacque
per fraude già del’impudica figlia.
Ama la bella dea nata del’acque,
ella solo il protege, ella il consiglia;
e seben or sen’allontana e parte,
ama pur tanto lui che n’odia Marte.
79
Marte di sdegno acceso e di urore
morte già gli minaccia acerba e rea;
onde s’è l’amor tuo sterile amore,
infausto anco è l’amor di Citerea.
Volger ricusa ale tue fiamme il core
perché fissa vi tien l’amata dea.
Poi cotal gemma lo difende e guarda
ch’esser non può che d’altro foco egli arda.
80
E poiché tu con fiero abuso e rio
del’arti tue mi togli ai regni bassi
e per un curioso e van desio
fai che Stige di novo a forza io passi,
né men crudel ch’al’alma al corpo mio,
ucciso ancor, d’uccidermi non lassi,
ascolta pur, ch’io voglio ora scoprirti
quelche non intendea prima di dirti.
81
Permette il giusto ciel per questo scempio
e per l’audacia sol del tuo peccato
ch’osò con strano e non udito essempio
sforzar natura e violare il fato,
che non s’adempia mai del tuo cor empio
il malvagio appetito e scelerato,
né te l’amato bene amerà mai
né tu del bene amato unqua godrai. –
82
Più non diss’egli e ciò la maga udito
di geloso dispetto ebra s’accese
e ‘l busto in negra pira incenerito
al fin più di morir non gli contese.
Ritornò pur quel misero ferito,
poich’a terra ricadde e si distese
mandando l’ombra ale tartaree porte,
dopo due vite ala seconda morte.
83
Ma già s’apre il giardin del’orizzonte,
già Clori il ciel di fresche rose infiora,
già l’oriente il piano intorno e ‘l monte
d’ostro e di luce imporpora ed indora;
e già con l’alba a piè, col giorno in fronte
sovra un nembo di folgori l’Aurora
per l’aperte del ciel fiorite vie
fa le stelle fuggir dinanzi al die.
84
Più veloce di stral ch’esca di nervo
torna ov’Idonia il suo ritorno attende.
– Questo barbaro (dice) empio e protervo
non è qual sembra, anzi d’amor s’accende.
Misera, e pur, benché d’amor sia servo,
di chi langue d’amor pietà non prende. –
Distintamente il tutto indi le spiega
e di consiglio in tanto affar la prega.
85
– Non per questo dei tu (l’altra risponde)
abbandonar l’incominciata impresa.
Alma che bella fiamma in sé nasconde
e di quel bel l’impressione ha presa,
finché foco novel non venga altronde
d’una sola beltà si mostra accesa.
Mentr’ha l’occhio e ‘l pensiero in quel che brama,
altro non conoscendo, altro non ama.
86
Qualunque amante Amor infiamma e punge,
ama l’oggetto bel che gli è presente,
ma la memoria sol ne tien da lunge
né la ritien però già lungamente.
Tosto ch’altra sembianza a mirar giunge
gli esce la prima imagine di mente.
Sempre il desir, di nove cose amico,
fa che ‘l novello amor scacci l’antico.
87
S’una volta averrà che tu pervegna
pur di quel core ad occupar la reggia,
ch’oggi la madre di colui che regna
nel terzo ciel s’usurpa e tiranneggia,
essendo tu, senon di lei più degna,
di bellezza almen tal che la pareggia,
credimi, il primo ardor posto in oblio
l’inessorabil tuo diverrà pio.
88
La gemma poi che fa gl’incanti vani
e ‘n cui tanta virtù stassi raccolta,
modo ben troverem che dale mani
o per froda o per forza a lui sia tolta.
Contro l’arte che sforza i petti umani
far allor non potrà difesa molta;
e tu di Citerea preso l’aspetto,
malgrado alfin di lei, n’avrai diletto. –
89
Falsirena a quel dir si riconforta
e novo ardire entro ‘l suo cor si cria
peroché ‘l favellar che speme apporta
di cosa conseguir che si desia,
risuscitando la baldanza morta
fa creder volentier quel ch’uom vorria.
Quindi a colei che di ciò far promette
lascia cura del tutto e si rimette.
90
Miseramente in questo mezzo Adone
in dura servitù languia cattivo
passando la più rigida stagione
squallido, afflitto e quasi men che vivo.
Oltre il disagio e ‘l mal dela prigione
e l’esser del suo ben vedovo e privo,
forte accresceagli al cor pena e cordoglio
del crudo Idraspe il temerario orgoglio.
91
Chi può dir quanti affronti e quanti torti,
ingiurie, villanie, dispetti e sdegni
dal discortese uscier sempre sopporti,
obbrobri intollerabili ed indegni?
Ma tormento peggior di mille morti
trapassa in lui d’ogni tormento i segni;
altro novo martir che troppo il punge
di tanti mali al cumulo s’aggiunge.
92
Feronia è più d’un dì che l’ha in governo;
una nana è costei difforme e vecchia
laqual sera e mattin con onta e scherno
la vivanda gli reca e gli apparecchia.
Furia, credo, peggior non ha l’inferno;
può se stessa abborrir se mai si specchia.
Sembra, sì laida e sozza è nel’aspetto,
figlia dela Disgrazia e del Difetto.
93
Più groppi ha che le viti o che le canne
ed ha corpo stravolto e faccia smorta,
sbarrato il naso e lungo oltre due spanne,
ricurvo il mento, ampia la bocca e torta.
Come cinghiale infuor sporge le zanne
e su l’omero destro un scrigno porta.
Nele doppie pupille il guardo iniquo
fa gli occhi stralunar con giro obliquo.
94
Dopo molte ignominie e molti scorni
che gli fè questo mostro, e beffe e giochi,
mentre con atti sconciamente adorni
d’alimenti il nutria debili e pochi,
motteggiandol pur un fra gli altri giorni
con parlar balbo e con accenti rochi,
sciolse la lingua, e poiché l’ebbe sciolta
intoppò, scilinguò più d’una volta:
95
– O feminella vil, ch’ad uom sì inetto
altro nome (dicea) conviensi male,
né vo’, rimproverando il suo difetto,
far a Natura un vituperio tale,
or se non sai d’amor prender diletto,
il tuo sesso virile a che ti vale?
O qual beltà ti scalderà giamai
s’ad arder dela mia senso non hai?
96
Meraviglia non è se Falsirena
sprezzasti, ancorché vanto abbia di bella,
quando di vagheggiar ti degni apena
più vaga tanto e signoril donzella;
né per averne l’agio a prandio, a cena
solo con sola in sì remota cella,
sciocco che sei, richiedermi d’amore
t’è mai bastato in tante volte il core.
97
Senon che certo assecurata io fui
ch’uom non se’ tu sicome gli altri sono,
anzi un freddo spadon qual’è costui
che qui ti guarda a tal mestier mal buono,
te sol torrei come sol degno a cui
facessi di mestessa intero dono
dandoti inun co’ miei sublimi amori,
suo malgrado, a goder cibi migliori.
98
Poiché son dunque i tuoi pensier sì sciocchi
e ciechi alo splendor de’ raggi miei,
convien che tu mi mostri e ch’io ti tocchi
or or se maschio o pur femina sei.
E quando avenga che le mani e gli occhi
ti trovin poi qual mai non crederei,
troncar ti vo’ quell’organo infecondo
che tu possiedi inutilmente al mondo.
99
Ma perché dubbio alcuno in te non resti
e le bellezze mie non prenda a riso
mira ciò che tu perdi e ciò ch’avresti,
ecco t’apro il tesor del paradiso.
Guarda se bella pur sotto le vesti
altrettanto son io quanto nel viso. –
Così dicendo s’accorciò la gonna
e sì gli fè veder ch’ell’era donna.
100
Poi le luci girò bieche e traverse
sì che mirando lui mirava altrove
e quella bocca ad un sorriso aperse
che sepoltura par se s’apre o move,
e innanzi a lui sì oscene e sì diverse
di sua disonestà prese a far prove
che di fastidio ogni altro cor men franco
fora assai meno a sofferir già stanco.
101
Un tratto pur l’impazienza il vinse,
che sdegno degno e generoso il mosse:
mentre la bruttarella a lui si spinse
sfacciata per baciar più che mai fosse,
Adone il pugno iratamente strinse
e la sinistra tempia le percosse.
Nel malpolito crin poscia la prese
ed a forza di calci al suol la stese.
102
La fiera gobba intorno a lui s’attorse
aviticchiata in mostruosa lutta
e con l’ugne il graffiò, co’ denti il morse,
quanto arrabbiata più, tanto più brutta.
Ai romori, ale strida Idraspe corse
che risonar facean la casa tutta
e sgridando il garri che la scrignuta,
deputata a servirlo, avea battuta.
103
E con la sferza in mano anco il minaccia
ch’egli il correggerà se non s’emenda.
Idonia allor vi sovraggiunge e scaccia
la coppia abominabile ed orrenda.
Poi con più grata e più piacevol faccia
vuol che ‘l fatto da capo a dir le prenda.
– La colpa (disse) è del tuo cor protervo
che potendo esser re, vuol esser servo.
104
Tu vedi, o folle, pur che ti ritrovi
nele forze di lei che sì disami.
Perché non pronto ad accettar ti movi
l’offerto ben, sel proprio mal non brami?
Nulla quel tuo rigor fia che ti giovi
che tu costanza e continenza chiami.
S’uscir vuoi di molestie e di tormenti
altr’armi usar che crudeltà convienti.
105
Pensa dunque al tuo meglio ed a testesso
non negar tanta gloria in tanto male;
che quando pur da te ne sia promesso
sotto sincera fè d’esser leale,
non sol quindi d’uscir ti fia concesso,
ma sarai quasi ai divi in terra eguale.
A bellezza, a ricchezza amor congiunto
ti farà beatissimo in un punto.
106
Ma s’avien ch’atra nebbia al’alma ingrata
gli occhi dela ragione abbia sì chiusi
che la bontà dela benigna fata
riconoscer non sappia, anzi l’abusi,
cotesta oltr’ogni credere ostinata
pertinacia crudel sola s’accusi
di quanto mal per tal cagion t’avegna,
ch’amor divien furor quando si sdegna.
107
Quanto gradita è più, vie più s’avanza
in nobil alma umanità cortese.
Ingiuriata poi muta l’usanza,
pari è l’odio al’amor che pria l’accese.
Non ha nel’ire sue freno a bastanza
siché non corra a vendicar l’offese.
Ma ciò più molto avien qualor si sprezza
di magnanima donna alta bellezza.
108
Guardati, quando averla ora non vogli
supplichevole amante e lusinghiera,
d’averla poi con pene e con cordogli
tiranna formidabile e severa.
Conchiudo infin che se non sleghi e sciogli
chi del suo prigioniero è prigioniera,
senza trovar pietà fra tanti affanni
in villana prigion perderai gli anni. –
109
Adon che senza scampo e senza aita
le cose in stato pessimo vedea,
pensò che s’egli cara avea la vita,
cara se non per sé per la sua dea,
mostrar gli convenia fronte mentita
e di cangiar pensier finger devea
e, l’opre al tempo accomodando in parte,
far virtù del bisogno ed usar l’arte.
110
Comincia a serenar l’aria del volto
e più grato a mostrarsi e men rubello,
e sperando in tal guisa esser poi sciolto
qualch’indizio gli dà d’amor novello.
La prega intanto almen che gli sia tolto
dela nana importuna il gran flagello,
poiché gli è sovr’ogni altra aspra sciagura
sì malvagia ministra a soffrir dura.
111
Lieta Idonia promette e perché ‘l crede
da lunga fame indebolito e smorto,
ristorarlo s’ingegna e gli concede
di soavi conserve alcun conforto.
Ma nel’anel che Citerea gli diede
volgendo ador ador lo sguardo accorto,
pensa come gliel rubi e gli presenta
alloppiato vasel che l’addormenta.
112
Doppio forte e gravoso è quel licore
composto e di mandragora e di loto.
Grato ala vista appare ed al sapore,
ma secreto nasconde un fumo ignoto
di sì strana virtù, di tal vigore,
ch’opprime gli occhi e toglie il senso e ‘l moto,
atto a stordir non pur le menti umane,
ma d’Esperia e di Stige il drago e ‘l cane.
113
Senza pensar più oltre, Adone il beve
né tarda molto ad operar l’effetto,
ch’un sì tenace sonno il prese in breve
che fu qual ebro a vacillar costretto
e, vinto dal’oblio profondo e greve,
girsen su l’orlo a riversar del letto.
Idonia che del tutto era presaga,
lasciollo alquanto ed appellò la maga.
114
La maga insu l’entrar, poiché gli fece
del dito trar l’adamantino anello,
un altro suo vene suppose in vece,
somigliante così che parea quello.
Poi fè legar con diece groppi e diece
di rigid’oro il misero donzello,
ch’al raddoppiar dele catene grosse,
perché nulla sentia, nulla si mosse.
115
Salvo un sol chiavistel d’acciaio duro,
la cui chiavetta altrui fidar non osa,
tutta vuol che sia d’or semplice e puro
quella ricca catena e preziosa,
sì perché più che del metallo oscuro
del più lucido e fino è copiosa,
sì perché ‘n laccio d’oro essendo stretta
vuol con un laccio d’or farne vendetta.
116
Dopo lungo dormir quand’ei si desta
e si ritrova in auree funi avinto
dalo stupore, onde confuso resta,
lo stupor del letargo intutto è vinto.
La cara gemma a contemplar s’appresta
non sapendo però ch’è l’anel finto;
e perché non vi scorge il volto amato
teme non contro lui sia forse irato.
117
– Amor insidioso, i tuoi piaceri
com’han l’ali (dicea) veloci e lievi!
come schernisci altrui? non sia chi speri
gioie da te senon fugaci e brevi.
Perché levar tant’alto i miei pensieri
se poi precipitarmene volevi?
Mi sommergi nel porto apena giunto
e mi fai ricco e povero in un punto.
118
Fortuna ingiuriosa, i’ non credea
perder in erba la sudata messe,
né ch’una stolta e temeraria dea
nel’impero d’amor ragione avesse.
Così dunque sen van, perfida e rea,
con le speranze mie le tue promesse?
dunque dal tuo furor perverso e duro
tra le miserie ancor non son securo?
119
Non prestai fede ala tua madre, Amore,
quand’era, ch’or non son, contento e lieto.
Dicea ch’eri un mal dolce, un dolce errore,
sagittario crudel, rege indiscreto,
labirinto di fraude e di dolore,
libera servitù, porto inquieto,
in cui fè né pietà mai non si trova.
Lasso, or tardi il conosco e ‘l so per prova.
120
Ma tua tutta è l’ingiuria e tuo l’oltraggio
del grave mal ch’ingiustamente io porto;
né devresti soffrir, signor malsaggio,
da sì bassa nemica un sì gran torto.
Ecco mi toglie il desiabil raggio
ch’era al mio lungo duol breve conforto
e tien pur sotto giogo aspro e servile
chiuso un tuo prigioniero in carcer vile.
121
Ed a te non bastò, cruda Fortuna,
farmi nascer d’incesto in lido estrano,
d’ogni paterno ben fin dala cuna
spogliarmi e ‘l regno mio tormi di mano
e, ciò ch’è più, lasciarmi in notte bruna
dal sol, che splende altrui, tanto lontano,
ch’aggiunger nodi a nodi anco volesti:
e pur scettri ed onor mi promettesti.
122
Contro le tue spietate e rigid’armi
qual privilegio avran diademi e troni,
se con chi langue e muor non le risparmi?
se né pur anco ai miseri perdoni?
se son trafitto, a che più saettarmi?
quest’è l’eccelso stato ove mi poni?
Precipizi maggior dunque hai prefissi
a chi caduto è già sotto gli abissi?
123
Ahi, chi del fior del mio sperar mi priva?
chi nega agli occhi miei l’amata aurora?
Giungerò mai di tanti strazi a riva?
godrò mai lieta o consolata un’ora?
Com’esser può che senza vita io viva?
sarà pur ver che non morendo io mora?
Deh, che farò? com’avrò pace alcuna?
Con voi parlo, Amor empio, empia Fortuna.
124
Fortuna empia, empio Amor, quai pene o danni
non sostien chi per voi piagne e sospira?
L’un è fanciul fallace e pien d’inganni,
femina l’altra ebra d’orgoglio e d’ira.
Questa sovra la rota e quei su i vanni,
quei sempre vola e questa sempre gira.
Cieco l’un, cieca l’altra, ed ambidui
aquila e lince a saettare altrui. –
125
Con queste note or di sua sorte dura,
or del crudel Amor seco discorre;
Venere incolpa che di lui non cura,
di Mercurio si duol che no ‘l soccorre;
quand’ecco entrato in quella stanza oscura
Mercurio istesso ala sua vista occorre,
ch’a dispetto di toppe e di serragli
viene a porgergli aita in que’ travagli.
126
Mercurio a cui già dala dea commesso
fu il patrocinio di chi ‘l cor le tolse,
gli assistea sempre e ‘l visitava spesso,
seben lasciar veder mai non si volse.
Veggendol dal digiun talvolta oppresso,
cibi divini e dilicati accolse
ed al mesto garzon poi la colomba
gli recava nel becco entro la tomba.
127
Or colta ha l’erba rara e vigorosa,
non so ben dire in quale estrania terra,
contro la cui virtù meravigliosa
con mille chiavi indarno uscio si serra,
e se le piante alcun destrier vi posa
ne svelle i chiodi e lo discalza e sferra.
Con questa, senza strepito o fracasso,
invisibile altrui s’aperse il passo.
128
Carna, dea dele porte e dele chiavi,
di quella entrata agevolò le frodi
e di volger per entro i ferri cavi
l’adunco grimaldel mostrogli i modi.
Le fibbie doppie, i catenacci gravi,
le grosse sbarre, i ben confitti chiodi
e le guardie saltar d’intorno al buco
fè così pian che non l’udì l’eunuco.
129
Uditi ch’ebbe il messaggier del cielo
del tribulato giovane i lamenti,
a lui scoprissi e con un molle velo
gli venne ad asciugar gli occhi piangenti.
Poi tutto pien d’affettuoso zelo
dolce il riprende e con sommessi accenti,
che dela dea tra’ suoi maggior perigli
così mal custoditi abbia i consigli
130
e, ch’avisato in prima ed avertito,
stato sia sì malcauto e sì leggiero
che lasciato levar s’abbia di dito
quel don maggior di qualsivoglia impero
e dato agio a colei che l’ha rapito
di porvi un falso anel simile al vero.
Poi dela gemma adultera e mendace
gli fa chiaro veder l’arte fallace.
131
L’altro inganno dipiù gli spiana e snoda
del contrafatto e magico sembiante
e dice che non miri e che non oda
l’istessa dea se gli verrà davante,
ch’altro non fia ch’insidia, altro che froda
che s’apparecchia ala sua fè costante;
che sotto finta imagine e furtiva
sarà la donna e sembrerà la diva.
132
L’instruisce del tutto e gli ricorda
ch’ella d’ogni malia porta le palme,
che può con versi orrendi a morte ingorda
far vomitar le trangugiate salme,
tor malgrado di Dite avara e sorda
al’urne i corpi ed agli abissi l’alme,
può sommerger il sol nel mar profondo,
sotterra il cielo e nel’inferno il mondo.
133
Dicegli che bisogno ha che si guardi
dale lusinghe sue qualor ragiona,
ch’ogni fata ha per esche accenti e sguardi
onde gli animi alletta e gl’imprigiona;
ma dopo i vezzi perfidi e bugiardi
sazia alfin gli schernisce e gli abbandona.
Molti uccider ne suol, talun n’incanta,
volto in fera, in augello, in sasso o in pianta.
134
Soggiunge ancor che non dia punto fede
ale solite sue leggiadre forme,
poiché tutt’arte in lei quanto si vede
e l’essere al parer non è conforme;
e seben d’anni e di laidezza eccede
qualunque fusse mai vecchia difforme,
supplisce sì con l’artificio ch’ella
ne viene a comparir giovane e bella,
135
e che ciò fa perché vezzosa in vista
d’alcun semplice amante il cor soggioghi,
con cui, ché raro avien ch’altri resista,
sua sfrenata libidine disfoghi.
Ma se ‘l perduto anel giamai racquista,
uscito fuor di que’ profondi luoghi,
e con esso averrà ch’egli la tocchi,
tosto del ver s’accorgeranno gli occhi.
136
Finalmente lo slega e dela foglia
dono gli fa che più del ferro è forte
e l’ammaestra ancor come si scioglia
quando allentar vorrà l’aspre ritorte.
Seben fuggir non può fuor dela soglia,
mentre il fiero guardian guarda le porte,
basterà ben che quando altri nol miri,
disgravato del peso, almen respiri.
137
Stupisce Adon di quanto egli racconta.
L’altro di sen si trae, prima che parta,
possente a ristorar la doglia e l’onta,
lettra di linee d’or vergata e sparta.
La rosa che ‘l suggello ha nel’impronta
mostra onde vegna e di chi sia la carta.
Dice la riga in su ‘l principio scritta:
«Al suo bel feritor la dea trafitta».
138
La sciolse e parve inun gli si sciogliesse
l’alma dal core e che ‘n aprir s’aprisse.
Poi quante note su v’erano impresse
tanti baci amorosi entro v’affisse,
perché considerò, quando la lesse,
qual amor la dettò, qual man la scrisse.
Fu del gran pianto che ‘n sul foglio sparse
sola mercé se co’ sospir non l’arse.
139
– Veggio (il foglio dicea) veggio i tormenti
che di soffrir per mia cagion ti sforzi.
So le perfidie ordite e i tradimenti
per far ch’un sì bel foco in te s’ammorzi.
Per tanto la tua fè non si sgomenti,
ma combattuta più, più si rinforzi;
né rompa del tuo cor l’auree catene
la ferrata prigion che ti ritiene.
140
Cruda prigion, ma vie più cruda molto
quella che qui mi tien legata e stretta,
ch’oltre che de’ begli occhi il sol m’ha tolto,
a chi mel toglie ancor mi fa soggetta.
Bramo il piè come il core averne sciolto,
ma la spada può più che la saetta,
e seben la sua forza ogni altra avanza,
amor contro furor non ha possanza.
141
Che mel senz’aghi e rosa senza spine
coglier mai non si possa, è legge eterna.
Stan le doglie ai piacer sempre vicine,
così piace a colui che ne governa.
Ma speriam pur che liberati alfine
io d’un inferno e tu d’una caverni,
tornando in breve al’allegrezza antica
scherniremo l’amante e la nemica.
142
So che m’ami e se m’ami ami testesso
perché più che ‘n testesso in me tu sei.
Se t’ho nel core immortalmente impresso,
s’ardon tutti per te gli affetti miei,
io nol vo’ dir. Se tu non fossi in esso,
anzi se me non fossi, io tel direi.
Chiedilo a te, peroché ‘n te, cor mio,
più che ‘n mestessa, anzi pur te son’io.
143
Cor del’anima mia, vivi e sopporta
e viva teco il tuo ben nato ardore;
e con un sol pensier ti riconforta
ch’altri giamai di me non fia signore;
e se forza a far altro or mi trasporta
scusabil è, non volontario errore.
Più non ti dico; a quanto a dir mi resta
supplirà teco il recator di questa. –
144
Letti i bei versi, acconciò i ferri e sparve
Mercurio, e quindi era sparito apena
che la rival di Venere v’apparve
ma tal che non parea più Falsirena.
Quasi deluso da sì belle larve
a prima vista Adon non ben s’affrena;
e benché sappia esser beltà fallace,
l’inganno è però tal ch’agli occhi piace,
145
e senonché del ver tosto s’accorse,
tal fu del fido messo il cauto aviso,
sendo senza l’anel, fuor d’ogni forse,
creduto avrebbe al simulato viso,
perché di Citerea tutti in lei scorse
portamenti e fattezze e sguardo e riso.
Ella in entrando il salutò per nome,
ma volendo parlar non seppe come.
146
Già lontana la fiamma avea nutrita
che nel cor le lasciò la bella stampa;
orch’ella ha da vicin l’esca gradita,
subitamente in novo incendio avampa.
Fatta da quest’ardore alquanto ardita,
al’usata battaglia allor s’accampa.
Volse baciarlo e si restò per poco,
pur moderò sestessa in sì gran foco.
147
Per occultar, per colorir la trama
biasma di Falsirena il perfid’atto
e cruda, ingiusta e disleal la chiama
ch’a sì gran torto un tanto mal gli ha fatto.
Promette e giura poi per quanto l’ama
di far ancor che di prigion sia tratto.
Purch’ella del suo amor resti secura,
lasci poi di francarlo a lei la cura.
148
Gli s’asside da lato e gli distende
mentre ragiona insu la spalla il braccio
e tuttavia con la man bella il prende
per annodarlo in amoroso laccio.
Benché legato ei sia, pur si difende
e ‘l collo almen desvia da quell’impaccio,
la testa abbassa e dale labra audaci
torce la bocca e le nasconde i baci.
149
Fittosi in grembo il volto, a lei l’invola,
anzi per non mirarla i lumi serra.
Ma poiché pur assai d’una man sola
durata è già la faticosa guerra,
la manca ella gli pon sotto la gola
e con la destra il biondo crin gli afferra,
con una mano il crin gli tira e stringe
con l’altra il mento gli solleva e spinge.
150
O sì o no ch’a forza ella il baciasse,
veduto riuscir vano il disegno,
stanca, dal’opra sua pur si ritrasse
ed onta ad onta accrebbe e sdegno a sdegno.
Le luci alzando allor torbide e basse,
dela favella Adon ruppe il ritegno
e disse: – Or quando mai, dea degli amori,
fu ch’Amor ad amar sforzasse i cori?
151
Non è questo, non è vero godere,
né modo d’appagar nobil desire.
E qual gioia esser può contro il volere
di chi non vuole alcun piacer rapire?
Ma che? delizie ed agi ama il piacere;
tra miserie e dolor chi può gioire?
Non si denno dubbiose e malsecure
le dolcezze mischiar con le sciagure.
152
Vuoi che tra ceppi e ferri io t’accarezzi?
loco questo ti sembra atto ai diletti?
Serba, ti prego, a miglior tempo i vezzi
più ch’oportuni or importuni affetti.
Attendi pur che s’apra o che si spezzi
la prigione onde trarmi oggi prometti;
né creder ch’ai trastulli io possa pria
teco tornar che libero ne sia.
153
Bastiti ch’io di te non ardo meno;
abita il corpo qui d’anima privo;
l’anima alberga teco e nel tuo seno
vive vita miglior ch’io qui non vivo.
Né del carcere antico il duro freno
d’altra beltà mi lascia esser cattivo;
né quantunque dannata a sì rea sorte,
la mia vita per te teme la morte.
154
L’oro crespo e sottil, l’oro lucente
di quella bionda treccia ond’io fui preso
quanto, o quanto, è più forte e più possente
di questo ricco mio tenace peso.
Questa catena è tal che solamente
ritiene il corpo e non n’è il core offeso.
Quella che mi legò la prima volta
mi stringe il core e non sarà mai sciolta. –
155
Così dicea dissimulando e certo
ogni altro, a cui del’orator d’Egitto
stato non fusse un tanto inganno aperto
o che non fusse in lealtate invitto,
dal dolce oggetto ala sua vista offerto
fuggir non potea già d’esser trafitto.
Volgendo alfin l’ingannatrice il tergo
desperata partì da quell’albergo,
156
e con Idonia far l’ultime prove
del beveraggio magico risolve.
Qual guastada abbia a torre e come e dove
le ‘nsegna e qual licor misto a qual polve.
Quella il silopo a preparar si move
che gli umani desir cangia e travolve;
e nel secreto studio ove la fata
chiude gli arcani suoi, s’apre l’entrata.
157
Prende l’ampolla abominanda e ria
e quel forte velen tempra e compone
che, se fusse qual crede e qual desia,
nonché le voglie infervorar d’Adone,
far vaneggiar Senocrate poria
e d’illecite fiamme arder Catone.
Ma non tutto quel male e quello scempio
permette il ciel che si promette l’empio.
158
La rea ministra ch’al garzon la mensa
dopo la nana ha d’apprestare in uso,
mesce il vin con quel sugo e gli dispensa
nel’aurea coppa il maleficio infuso.
Ma, non pari l’effetto aquel che pensa,
il disegno fellon lascia deluso;
apena ei l’acqua perfida ha bevuta
che subito di fuor tutto si muta.
159
Tutte le membra sue (mirabil mostro)
impiccioliro e si velar di penne
e di verde e d’azzurro e d’oro e d’ostro
piumato il corpo in aria si sostenne.
S’ascose il labro, anzi aguzzossi in rostro,
la bocca, il mento, il naso osso divenne;
divenne carne l’incarnata vesta
e si fece il cappel purpurea cresta.
160
Nele dita che fatte ha più sottili
spuntan curve e dorate unghie novelle,
fregian ristretto il collo aurei monili,
si raccoglie ogni braccio entro la pelle,
si ritiran le man bianche e gentili
e s’allargano in ali ambe l’ascelle.
Due gemme ha in fronte, ond’esce un dolce lume,
siché più vago augel non batte piume.
161
Venere bella, ahi qual perfidia, ahi quale
forte ventura il tuo bel sol t’ha tolto?
La beltà, del tuo foco esca immortale,
ecco prende altra spoglia ed altro volto.
Strano malor del calice infernale
in cui tosco maligno era raccolto!
L’incantata bevanda ebbe tal forza
che fu possente a trasformar la scorza.
162
Fusse del nume che ‘l difende e guarda
providenza divina o fusse caso,
quando il vetro pigliò la maliarda,
scambiò per fretta e per errore il vaso.
Quelche fa che d’amore ogni cor arda,
simile intutto a questo, era rimaso
ed, ingannata dal’istessa forma,
in sua vece adoprò quelche trasforma.
163
Tosto che s’è del fallo Idonia accorta
mezzo riman tra stupida e dolente.
Per trascuragin sua vede che porta
l’amoroso rimedio altro accidente.
– Oimé misera (grida) oimé, son morta! –
e piagne invano, invan s’adira e pente;
il crin si svelle, il petto si percote,
stracciasi i panni e graffiasi le gote.
164
Già fuor dela prigion libero vola
d’abito novo il novo augel vestito.
Lamentarsi vorria, ma la parola
non forma, come suol, senso spedito
e gorgheggiando dal’angusta gola
dela favella invece esce il garrito;
né del’umana sua prima sembianza,
tranne sol l’intelletto, altro gli avanza.
165
L’intelletto e ‘l discorso ha solo intero,
onde qual’è, qual fu, conosce apieno.
Rimembra il dolce suo stato primiero
e disegna al suo ben tornar in seno.
Poi sentendosi andar così leggiero
per l’immenso del ciel campo sereno,
mentre al’albergo usato il camin piglia,
di tanta agilità si meraviglia.
166
Lascia di quella ricca aurea contrada
il sotterraneo infausto empio soggiorno,
passa le grotta e per la nota strada
fa nel superior mondo ritorno.
Ferma il sole i destrieri ovunque ei vada,
fermansi i venti a vagheggiarlo intorno,
e secondando il va da tutti i lati
musico stuol di cortigiani alati.
167
Del superbo diadema e del bel manto
le pompe aprova ammirano e i colori,
e con ossequi di festivo canto
gli fan per tutto il ciel publici onori.
Non ha mai la fenice applauso tanto
dal’umil plebe degli augei minori
qualor cangiando il suo sepolcro in culla
ritorna, di decrepita, fanciulla.
168
Ma chi può dir quante fortune e quanti
gravi passò tra via rischi e perigli?
Quai rapaci incontrò mostri volanti
che volser nel suo sen tinger gli artigli?
Aquile e nibi a cui scampar davanti
poco giovato avrian forze o consigli
se ‘l celeste tutor che n’avea cura
non gli avesse la via fatta secura.
169
Non però d’augel fiero unghia né rostro
gli nocque tanto in quella sorte aversa,
quanto il mostro peggior d’ogni altro mostro,
dico la Gelosia cruda e perversa.
Uscita questa del suo cieco chiostro
con l’amaro velen che sparge e versa
lo dio del ferro armar gli parve poco
se non facea gelar lo dio del foco.
170
Venne a Vulcano e le fu facil cosa
far nel suo core impression tenace,
che per prova ei sapea l’infida sposa
d’ogni fraude in tai casi esser capace.
Rode men la sua lima e più riposa
attizzata da lui la sua fornace,
che non fa di quel tarlo il morso fiero,
che non fa la sua mente e ‘l suo pensiero.
171
Mentre di rabbia freme e di dispetto,
dal dolor, dal furor trafitto e vinto,
a raddoppiargli ancor stimuli al petto
vi sovragiunge il biondo arcier di Cinto.
Questi dela cagion di quel sospetto
gli dà più certo aviso e più distinto,
onde il misero zoppo aggiunger sente
sovra il ghiaccio del’alma incendio ardente.
172
Somiglia il monte istesso ov’ei dimora,
che tutto è carco di nevosa bruma,
ma dal’interne viscere di fora
le faville essalando avampa e fuma.
Né così ‘l proprio mantice talora
le fiamme incita e i pigri ardori alluma,
come quell’instigar gli soffia e spira
negli spirti inquieti impeto d’ira.
173
Dalo sdegno che l’agita e l’irrita
sospinto fuor del nero albergo orrendo,
con la scorta di Febo e con l’aita
tra sé machine nove ei va volgendo.
Quindi fu poscia di sua mano ordita
la catena ch’Adon strinse dormendo.
L’aurea catena che ‘n prigion legollo
fu lavor di Vulcan, pensier d’Apollo.
174
E non solo il lavor dela catena
l’un di lor consigliò, l’altro esseguio,
ma l’istessa prigion di Falsirena
fu fabricata dal medesmo dio.
Come ciò fusse o se notizia piena
n’ebbe la fata allor, non so dir io.
Prese d’un vil magnan vesta e figura
e di tesser que’ ferri ebbe la cura.
175
Tuttavia d’or in or quanto succede
gli va scoprendo il condottier del giorno
che del vaticinar l’arte possiede
e d’ogni lume è di scienza adorno
e, sicome colui che ‘l tutto vede
scorrendo i poli e circondando intorno
dela terra e del ciel la cima e ‘l fondo,
può ben saver ciò che si fa nel mondo.
176
– Tu sai ben (gli dicea) quanto mi calse
del tuo mai sempre, anzi pur nostro onore
e che ‘n me questo debito prevalse
al’odio istesso dela dea d’amore,
laqual per tua cagion, benché con false
dimostranze il velen copra del core,
per la memoria dell’ingiuria antica
mi fu da indi in poi sempre nemica.
177
Orché pur d’Imeneo le sacre piume
questa indegna del ciel furia d’inferno
con novo scorno di macchiar presume,
vuolsi ancora punir con novo scherno;
e posciaché ‘l suo indomito costume
a corregger non val freno o governo,
dela stirpe commun pensar bisogna
a cancellar la publica vergogna.
178
Se l’obbrobrio e l’infamia in ciò non vale,
vagliane omai la crudeltate e ‘l sangue.
Io ti darò quest’arco e questo strale
che ‘n Tessaglia ferì l’orribil angue.
Poi quel rozzo berton, quel vil mortale
per cui sospira innamorata e langue,
io vo ch’apposti sì con la mia guida
ch’oggi di propria man tu gliel’uccida. –
179
Con questi detti a vendicar quel torto
il torto dio perfidamente induce.
Poi là donde passar deve di corto
il trasformato giovane il conduce
e di tutto il successo il rende accorto
il portator dela diurna luce.
Gli disegna l’augel, gl’insegna l’arte
del trattar l’arco e gliel consegna e parte.
180
Ma qual fatto è sì occulto il qual non sia
al tuo divin saver palese e noto,
virtù del tutto esploratrice e spia,
intelligenza del secondo moto?
Non consente Mercurio opra sì ria,
ma vuol che quel pensier riesca a voto
e, dal rischio mortal campando Adone,
l’arte schernir del’assassin fellone.
181
Là ‘ve soggiorna il pargoletto alato
l’alato messaggier volando corse
e per somma ventura addormentato
solo in disparte entro ‘l giardin lo scorse.
Discese a terra e gli si mise a lato
leggier così ch’Amor non sen’accorse.
Quivi pian pian mentr’ei posava stanco
un’aurea freccia gl’involò dal fianco.
182
È di tal qualità la freccia d’oro
che dolcezza con seco e gloria porta,
reca salute altrui, porge ristoro,
il cor rallegra e l’anima conforta
ed ha virtù di risvegliare in loro
la fiamma ancor quand’è sopita o morta;
e se ‘l foco non è morto o sopito,
riscalda almen l’amore intepidito.
183
Senz’altro indugio ei sene va con essa,
dove il fabro crudel guarda la posta
e con la sua sottil destrezza istessa
gli scambia l’altra ch’ha nel suol deposta;
né veduto è da lui quando s’appressa,
ch’altrove intanto ogni sua cura ha posta,
mentre la caccia insieme e la vendetta
insidioso uccellatore aspetta.
184
Venia l’augel con ali basse il suolo
quasi radendo e l’adocchiò Vulcano,
che per troncargli inun la vita e ‘l volo
l’arco incurvò con la spietata mano,
e ‘n quel petto scoccò, ch’avezzo solo
era ai colpi d’amor, colpo inumano.
Ma la saetta d’or dala ferita
sangue non trasse e non fu pur sentita.
185
L’insensibile strale aventuroso
colselo sì, ma fè l’usato effetto,
che per novo miracolo amoroso
invece di dolor gli diè diletto
e quell’amor, che forse era dubbioso,
per sempre poi gli stabilì nel petto.
Così chi tende altrui froda ed inganno
è ministro talor del proprio danno.
186
Fuggito Adon lo scelerato oltraggio
del feritore infuriato e pazzo,
stanco, ma quasi a fin di suo viaggio
giunt’era a vista del divin palazzo,
quando trovò sotto un ombroso faggio
due ninfe dela dea starsi a sollazzo
ed avean quivi ai semplici usignuoli,
che tra’ rami venian, tesi i lacciuoli.
187
Tra quelle fila sottilmente inteste
passò, ma nel passar diè nela rete
e le donzelle a corrervi fur preste,
forte di preda tal contente e liete.
Belle serve d’Amor, se voi sapeste
qual sia l’augel ch’imprigionato avete,
perch’a fuggir da voi mai più non abbia,
come stretto il chiudereste in gabbia!
188
Corron liete ala preda e tosto ch’hanno
tra’ nodi indegni il semplicetto involto,
perché ben di Ciprigna il piacer sanno
stimano che gradire il devrà molto.
Quindi al’ostel del Tatto elle sen vanno
e ‘l lascian per quegli orti andar disciolto,
secure ben che da giardin sì bello,
benché libero sia, non parte augello.
189
Giunto al nido primier de’ suoi diletti
su ‘l ramoscel d’un platano si pose,
e vide, ahi dura vista!, in que’ boschetti
sovra un tapeto di purpuree rose
Venere e Marte che traean soletti
in trastulli d’amor l’ore oziose,
alternando tra lor vezzi furtivi,
baci, motti, sorrisi, atti lascivi.
190
Pendean d’un verde mirto il brando crudo,
la lorica, l’elmetto e l’altro arnese.
Onde mentr’ei facea senz’armi ignudo
ala bella nemica amiche offese,
era il limpido acciar del terso scudo
specchio lucente ale sue dolci imprese
e con l’oggetto de’ piacer presenti
raddoppiava al’ardor faville ardenti.
191
Volava intorno a quel felice loco
Zefiro, il bel cultor del vicin prato,
e de’ sospiri lor temprando il foco
con la frescura del suo lieve fiato
e con vago ondeggiar, quasi per gioco
sventolando il cimier del’elmo aurato,
facea concorde ale frondose piante
l’armatura sonar vota e tremante.
192
Sopiti omai dela tenzon lasciva
gli scherzi, le lusinghe e le carezze,
giunti eran già trastulleggiando a riva
del’amorose lor prime dolcezze.
Già dormendo pian pian dolce languiva
la reina immortal dele bellezze;
né men che ‘l forte dio la bella dea
tutte le spoglie sue deposte avea.
193
Pargoleggianti esserciti d’Amori
fan mille scherni al bellicoso dio;
e qual guizza tra’ rami e qual tra’ fiori,
qual fende l’aria e qual diguazza il rio;
e perché carchi d’ire e di furori
non cede intutto ancor gli occhi al’oblio,
tal v’ha di lor che ‘n lui tacito aventa
un sonnachioso stral che l’addormenta.
194
Lasciasi tutto allor cader riverso
il feroce motor del cerchio quinto
e nel fondo di Lete apieno immerso
sembra, vie più ch’addormentato, estinto.
Di sangue molle e di sudore asperso,
dal moto stanco e dal letargo vinto,
rallentati, non sciolti, i nodi cari,
soffia il sonno dal petto e dale nari.
195
O che riso, o che giubilo, o che festa
la schiera allor de’ pargoletti assale!
Scherzando van di quella parte in questa
a cento a cento e dibattendo l’ale.
Un fugge, un torna, un salta ed un s’arresta,
chi su le piume e chi sotto il guanciale.
Le cortine apre l’un, l’altro s’asconde
tra le coltre odorate e tra le fronde.
196
Tal, poiché lasso e disarmato il vide
dopo mille posar mostri abbattuti,
osò già d’assalire il grande Alcide
turba importuna di pigmei minuti.
Così su ‘l lido ove Cariddi stride,
soglion con tirsi e canne i fauni astuti
del ciclopo pastor, mentre ch’ei dorme,
misurar l’ossa immense e ‘l ciglio informe.
197
Altri il divin guerrier con sferza molle
fiede di rose e lievemente offende.
Altri ala dea più baldanzoso e folle
fura gli arnesi ed a trattargli intende.
Altri la cuffia, altri il grembial le tolle,
chi degli unguenti i bossoli le prende.
Chi lo specchio ha per mano e chi ‘l coturno,
chi si pettina il crin col rastro eburno.
198
Un ven’ha poscia, il qual mentr’ella assonna,
del suo cinto divino il fianco cinge
e veste i membri dela ricca gonna
e con l’auree maniglie il braccio stringe
ed ogni gesto e qualità di donna
rappresenta, compone, imita e finge,
movendo su per quegli erbosi prati
gravi al tenero piede i socchi aurati.
199
L’andatura donnesca e ‘l portamento
ne’ passi suoi di contrafar presume,
e ‘ntanto con un morbido stromento
di canute contesto e molli piume,
ond’allettare ed agitare il vento
Citerea ne’ gran soli ha per costume,
un altro dela plebe fanciullesca,
l’aria scotendo, il volto gli rinfresca.
200
Un altro, al’armi ben forbite e belle
dato di piglio del’eroe celeste,
con vie più audace man gl’invola e svelle
dal lucid’elmo le superbe creste;
e ‘l viso ventilandogli con quelle
ne sgombra l’aure fervide e moleste,
poi dala fronte gli rasciuga e terge
le calde stille onde ‘l sudor l’asperge.
201
Alcun altri divisi a groppo a groppo
in varie legioni, in varie squadre,
con l’armi dure e rigorose troppo
muovon guerre tra lor vaghe e leggiadre.
Chi cavalca la lancia e di galoppo
la sprona incontro ala vezzosa madre,
chi con un capro fa giostre e tornei,
chi dela sua vittoria erge i trofei.
202
Parte piantan gli approcci e vanno a porre
l’assedio a un tronco e fan monton del’asta,
batton la breccia e son castello e torre
la gran goletta e la corazza vasta.
Chi combatte, chi corre e chi soccorre,
altri fugge, altri fuga, altri contrasta,
altri per l’ampie e spaziose strade
con amari vagiti inciampa e cade.
203
Questi d’insegna invece il vel disciolto
volteggia al’aura e quei l’afferra e straccia.
Colui la testa impaurito e ‘l volto
nela celata per celarsi caccia
e dentro vi riman tutto sepolto
col busto, con la gola e con la faccia.
Costui, volgendo al’aversario il tergo,
corre a salvarsi entro ‘l capace usbergo.
204
Ma ecco intanto il principe maggiore
del’alato squadron che lor comanda.
Comanda, dico, agli altri Amori Amore,
agli altri Amori iquai gli fan ghirlanda,
ch’ad onta sia del militare onore
tosto legata ala purpurea banda
la brava spada e ‘n guisa tal s’adatti
ch’a guisa di timon si tiri e tratti.
205
Senza dimora il grave ferro afferra
sudando a prova il pueril drappello.
Ciascuno in ciò s’essercita e da terra
sollevarlo si sforza or questo or quello.
Ma perché ‘l peso è tal ch’apena in guerra
colui che ‘l tratta sol può sostenello,
travaglian molto ed han tra lor divise
le vicende e le cure in mille guise.
206
Chi curvo ed anelante andar si mira
sotto il gravoso e faticoso incarco.
Chi la gran mole assetta e chi la gira
dov’è più piano e più spedito il varco.
Chi con la man la spinge e chi la tira
o con la benda o col cordon del’arco.
L’orgoglioso fanciul guida la torma,
tanto che con quell’asse un carro forma.
207
Pon quasi trionfal carro lucente
del sovrano campion lo scudo in opra
e per seggio sublime ed eminente
alto v’acconcia il morion di sopra.
Quivi s’asside Amor, quivi sedente
trionfa del gran dio che l’armi adopra.
Traendo intanto il van di loco in loco
invece di destrier lo Scherzo e ‘l Gioco.
208
Acclama, applaude con le voci e i gesti
l’insana turba degli arcier seguaci;
dicean per onta e per dispregio: – È questi
l’invitto duce, il domator de’ Traci?
lo stupor de’ mortali e de’ celesti?
il terror de’ tremendi e degli audaci?
Chi vuol saver, chi vuol veder s’è quegli
deh! vengalo a mirar pria che si svegli.
209
Ecco i fasti e i trionfi illustri ed alti,
ecco gli allori, ecco le palme e i fregi.
Più non si vanti omai, più non s’essalti
per tanti suoi sì gloriosi pregi.
Quant’ebbe unqua vittorie in mille assalti
soggiaccion tutte ai nostri fatti egregi.
Scrivasi questa impresa in bianchi marmi:
Vincan, vincan gli amori e cedan l’armi! –
210
A quel gridar dal sonno che l’aggrava
Marte si scote e Citerea si desta
e poiché gli occhi si forbisce e lava
le sparse spoglie a rivestir s’appresta.
Adon, che lo spettacolo mirava,
non seppe contener la lingua mesta;
né potendo sfogar la doglia in pianto,
fu costretto addolcirla almen col canto.
211
– Amor (cantò) nel più felice stato
m’alzò che mai godesse alma terrena
e ‘n sì nobile ardor mi fè beato,
ché la gloria del mal temprò la pena.
Or col ricordo del piacer passato
dogliosi oggetti a risguardar mi mena
là dove in quel bel sen che fu mio seggio
altrui gradito e me tradito io veggio.
212
La dea che dal mar nacque e da cui nacque
il crudo arcier che m’arde e mi saetta,
si compiacque di me, né le dispiacque
a mortale amator farsi soggetta.
O più del mar volubil, che tra l’acque
pur fermi scogli e stabili ricetta;
ma ‘n te nata dal mare, ohimé, s’asconde
un cor più variabile del’onde.
213
Io, per serbar l’antico foco intatto,
soffersi in ria prigion miserie tante,
né perché lieve augello ancor sia fatto,
fatto ancor lieve augel, son men costante.
E tu sì tosto il giuramento e ‘l patto
ingrata! hai rotto e disleale amante?
Ahi stolto è ben chi trovar più mai crede,
poiché ‘n ciel non si trova, in terra fede. –
214
Qui tacque e quel cantar, benché da Marte
fusse o non ben udito o mal inteso,
l’indusse pure a sospettare in parte
del suo rivale e ne restò sospeso;
e temendo d’Amor l’inganno e l’arte
e bramando d’averlo o morto o preso,
a Mercurio il mostrò, che quivi giunto
con Amor ragionando era in quel punto.
215
Il peregrino augel subito allora
fugge dal vicin ramo e si dilegua
e ‘l messaggio divin non fa dimora
pur come sol per ritenerlo il segua.
Ma poiché son di quel boschetto fora
del fugace il seguace il volo adegua
e là dove più folta è la corona
de’ mirti ombrosi il ferma e gli ragiona:
216
– O meschinel che per quest’aere aperto
su le penne non tue ramingo vai,
di tanto mal senza ragion sofferto
fuorché testesso ad incolpar non hai,
ch’essendo pur del’altrui fraude certo,
dar volesti materia ai propri guai.
Non però desperar, poich’a ciascuno
fu l’aiuto del ciel sempre oportuno.
217
Già dela stella a te cruda e nemica
cessan gl’influssi omai maligni e tristi.
Ma pria che ‘nun con la figura antica
la tua perduta ancor gemma racquisti,
durar ti converrà doppia fatica,
tornando al loco onde primier partisti
e lavarti ben ben nela fontana
possente a riformar la forma umana.
218
Del’acqua ove la fata entra a bagnarsi
quando depon la serpentina spoglia,
poich’avrai sette volte i membri sparsi
fia che la larva magica si scioglia.
Tornato al’esser tuo, vanne ove starsi
in guardia troverai di ricca soglia
mostro il più stravagante, il più diverso
che si scorgesse mai nel’universo.
219
Ha fattezze di sfinge e tien confuse
quattr’orecchi, quattr’occhi, altrettant’ali.
Due luci ha sempre aperte, altre due chiuse
e le piume e l’orecchie ancor son tali.
Lunghe l’orecchie a’ bei discorsi ottuse
non cedono d’Arcadia agli animali.
La sua faccia si muta e si trasforma,
quasi camaleonte, in ogni forma.
220
Vario sempre il color lascia e ripiglia
né mai certa sembianza in sé ritenne.
Come veggiam la cresta e la bargiglia
del gallo altier che d’India in prima venne,
bianca a un punto apparir, verde e vermiglia
qualor gonfio d’orgoglio apre le penne,
così sua qualità cangia sovente
secondo quelche mira e quelche sente.
221
La vesta ha parte d’or, parte di squarci
divisata a quartieri e fatta a spicchi,
quindi di cenci logorati e marci,
quinci di drappi preziosi e ricchi.
Non aspetti chi va per contrastarci
che nele vene il dente ei gli conficchi,
però che morso ha di mignatta e d’angue
che non straccia la carne e sugge il sangue.
222
Tagliente, aguzza ed uncinata ha l’ugna
e diritto il piè manco e zoppo il destro.
Ma nel corso però non è chi ‘l giugna
ed è d’ogni arte perfida maestro.
Son l’armi sue con cui combatte e pugna
in mano un raffio, a cintola un capestro.
Tira con l’un le genti e le soggioga,
con l’altro poi le strangola e l’affoga.
223
Non si cura d’amor questi ch’io dico,
altro che l’util proprio ama di rado;
e ne’ guadagni suoi sempre mendico
sta sempre intento a custodir quel guado.
Sol per disegno applaude anco al nemico,
né conosce amistà né parentado.
L’amicizia, le leggi e le promesse
tutte son rotte alfin dal’Interesse.
224
Interesse s’appella il mostro avaro
dele ricchezze e del tesor custode,
del tesoro ove chiuso è l’anel raro,
non risguarda virtù, ragion non ode.
Tien ei le chiavi del’albergo caro
né vale ad ingannarlo astuzia o frode.
E perché vegghia ognor con occhi attenti
vuolsi modo trovar che l’addormenti.
225
Per indurlo a dormir del’armonia
l’arte, ond’Argo delusi, in uso porre
vanità fora inutile e follia,
ch’ogni cosa gentile odia ed aborre,
e di qual pregio il suono e ‘l canto sia
non conosce, non cura e non discorre,
come colui che stupido ed inetto
d’asino ha inun l’udito e l’intelletto.
226
A far però ch’ebro del tutto e cieco
di sonno profondissimo trabocchi
basterà che ‘l baston ch’io porto meco
un tratto sol ben leggiermente il tocchi.
Farò né più né men nel cavo speco
al serpente incantato appannar gli occhi,
accioché fuor di que’ dubbiosi passi
senza intoppo securo andar ti lassi;
227
e mia cura sarà far poi dormire
le guardiane ancor degli aurei frutti,
perché non ti difendano al’uscire
la porta che vietar sogliono a tutti.
Giunto al’empia magion, mille apparire
aspetti vi vedrai squallidi e brutti.
Vedrai la donna rea con altra faccia
a che sciagura misera soggiaccia.
228
Entra allor nel’erario e quindi presto
prendi il gioiel che dela dea fu dono,
ma null’altro toccar di tutto il resto
bench’apparenza in vista abbia di buono.
Quante cose v’ha dentro, io ti protesto,
contagiose e sfortunate sono
e ciascuna con seco avien che porte
augurio tristo di ruina o morte.
229
Uscito alfin dela gran pianta, averti,
poich’una noce d’or colta n’avrai,
fa ch’appo te ne’ tuoi viaggi incerti
la rechi ognor senza lasciarla mai.
Perché valloni sterili e deserti
passar convienti inabitati assai,
là dove, stanco da sì lunghi errori,
penuria avrai di cibi e di licori.
230
Il guscio aprendo allor del’aurea noce,
vedrai novo miracolo inudito.
Vedrai repente comparir veloce
sovra mensa real lauto convito.
Da ministri incorporei e senza voce,
senza saver da cui, sarai servito.
Né mancherà dintorno in copia grande
apparato di vini e di vivande. –
231
Con questi ultimi detti il corrier divo
de’ numi eterni il suo parlar conchiuse
e là tornato ove lasciò Gradivo,
la bugia colorì d’argute scuse.
Ma poi con Citerea cheto e furtivo
lungamente in disparte ei si diffuse
e le narrò dopo la ria prigione
il caso miserabile d’Adone.
232
Instrutto Adon dal consiglier divino
per le due volte già varcate vie
non tardò punto a prendere il camino
verso le case scelerate e rie.
Era quand’egli entrò nel bel giardino
tra ‘l fin l’alba e ‘l cominciar del die.
Già s’apriva del ciel l’occhio diurno
ed era apunto il dì sacro a Saturno.
233
Ode intanto sonar tutto il palagio
di lamenti che van fino ale stelle,
quasi infelice ed orrido presagio
di dolorose e tragiche novelle.
Ed ecco vede poi lo stuol malvagio
sbigottir, scolorir dele donzelle
e quasi di cadavere ogni guancia
di vermiglia tornar livida e rancia.
234
Vedele orribilmente ad una ad una
vestir di sozza squama il corpo vago
e d’alcun verme putrido ciascuna
prender difforme e spaventosa imago.
Vede tra lor con non miglior fortuna
la fata istessa trasformarsi in drago
e ‘n fogge formidabili e lugubri
tutte alfin divenir bisce e colubri.
235
Mira Adone e stupisce e su per l’erba
l’immondo seno a strascinar le lassa
e poich’umiliar quella superba
in tal guisa ha veduta, al fonte passa;
e perché l’alto aviso in mente serba
per purgarsi nel’acque i vanni abbassa.
Sette volte s’attuffa e si rimonda
e ciò ch’egli ha d’augel lascia nel’onda.
236
Ritolto dunque apien l’essere antiquo
volge al tesor di Falsirena il passo
e ritrova su l’uscio il mostro iniquo
dormir sì fortemente a capo basso
che par mirato col suo sguardo obliquo
l’abbia Medusa e convertito in sasso,
onde pria che si rompa il sonno grave,
non senza alcun timor, gli toe la chiave.
237
Quand’egli ha ben quelle sembianze scorte,
quando il crudo rampin gli mira a piedi
e quando il tocca non ha il cor sì forte
che non gli tremi dal’interne sedi.
Pur, la chiave sciogliendo, apre le porte
dela conserva de’ più ricchi arredi.
Era grande la stanza oltre misura
e di gemme avea ‘l suolo e d’or le mura.
238
Di lampe in vece e di doppieri accesi
sfavillanti piropi ardono intorno,
ch’a mezza notte a l’auree travi appesi
fanno l’ufficio del rettor del giorno.
Dodici segni ed altrettanti mesi
rendono il loco illustremente adorno,
statue scolpite di finissim’oro
che per ordine stan ne’ nicchi loro.
239
Havvi ancora i pianeti e gli elementi,
tre provincie del mondo e quattro etati,
rilievi pur d’artefici eccellenti,
del metallo medesimo intagliati.
Parte poi di bisanti e di talenti,
di medaglie e di stampe havvi dai lati,
parte di zolle cariche e di masse
ampi forzieri e ben capaci casse.
240
Tra forziero e forzier v’ha tavolini
d’estranie pietre e gabbinetti molti
che di vezzi di perle e di rubini
tengon gran mucchi e cumuli raccolti.
Altri lapilli generosi e fini
in più groppi vi son legati e sciolti.
Scettri e corone v’ha, branchigli e rose
e catene e cinture ed altre cose.
241
Vi conobbe tra mille il bel diamante
Adon che già la maga empia gli tolse.
O dio con quanti baci, o dio con quante
affettuose lagrime il raccolse!
Ma quando poi col fido specchio avante
gli occhi al’amata imagine rivolse,
traboccò di letizia in tanto eccesso
che nel’imaginar resta inespresso.
242
Sorge in mezzo ala sala aureo colosso
maggior degli altri assai, tutto d’un pezzo,
d’un pezzo sol, ma sì massiccio e grosso
che non è fabro a fabricarne avezzo.
Di Fortuna ha l’effigie e tiene addosso
tante gemme e nel sen che non han prezzo.
Tal’è la rota ancor, tal’è la palla,
tale il delfin che la sostiene in spalla.
243
A piè di questa un letturin d’argento
riccamente legato un libro regge
e vergata ogni linea ed ogni accento
in idioma arabico si legge.
Delo stranio volume al’ornamento
ornamento non è che si paregge.
La covertura in ogni parte è tutta
di fin topazio e lucido costrutta.
244
Son le fibbie ala spoglia ancor simili,
di zaffiri composte e di giacinti.
Son d’or battuto in lamine sottili
i fogli in bei caratteri distinti.
Ha di fregi ogni foglio e di profili
d’azzurro e minio i margini dipinti
e figurata di grottesche antiche
le maiuscole tutte e le rubriche.
245
Quanti ha tesori il mondo a parte a parte,
ciò che la terra ha in sen di prezioso,
opra sia di natura o lavor d’arte,
in miniere diffuso o in arche ascoso,
tutto scritto e notato in quelle carte
mostra l’indice pieno e copioso.
I propri siti insegna e i lor custodi
e per trovargli i contrasegni e i modi.
246
Gira Adon gli occhi e ‘n questa parte e ‘n quella,
scorge diverse e ‘nsu diverse basi
ricche reliquie e ‘n rotolo o in tabella
dele memorie lor descritti i casi.
V’ha dela pioggia in cui per Danae bella
scese Giove dal ciel colmi gran vasi.
E verghe v’ha di traboccante pondo
che dal tatto di Mida ebbero il biondo.
247
V’ha laurea pelle che d’aver si vanta
rapita a Colco il nobile Argonauta.
E v’ha le poma del’esperia pianta
ond’Alcide portò preda sì lauta.
Le palle v’ha che vinsero Atalanta
pur troppo il corso ad arrestarvi incauta.
Ed havvi il ramo che sterpar dal piano
fè la vecchia di Cuma al pio Troiano.
248
Vide fra l’altre pompe in un pilastro
pendere un fascio di selvaggi arnesi.
V’ha la faretra con sottile incastro
di perle riccamata e di turchesi.
V’ha gli strali per man d’egregio mastro
di fin or lavorati insieme appesi.
N’avria, credo, non ch’altri invidia Apollo,
né so se tale Amor la porta al collo.
249
L’arco non men dela faretra adorno
d’oro e seta ha la corda attorta insieme,
di nervo il busto e di forbito corno
di questo capo e quel le punte estreme.
Brama Adon quelle spoglie aver intorno,
ma di Mercurio il duro annunzio teme.
Vede che dela scritta esplicatrice
«armi di Meleagro» il breve dice.
250
Di tutto ciò ch’ivi raccolto ei vede
nessuna punto avidità l’invoglia,
sì che di tante e sì pregiate prede
pur una, ancorché minima ne toglia.
Questa sola desia, perché la crede
per lui ben propria e necessaria spoglia;
ed essendo senz’arco e senza strali
aver non spera altronde armi mai tali.
251
Adon che fai? deh qual follia ti tira
armi a toccar d’infernal tosco infette?
Ahi trascurato, ahi forsennato, mira
chi quell’arco adoprò, quelle saette.
V’è di Diana ancor nascosta l’ira,
son fatalmente infauste e maledette.
Da che la fera sua fu da lor morta
infelici l’ha fatte a chi le porta.
252
Egli ch’a ciò non pensa o ciò non cura,
la faretra dispicca e prende l’arco
e di questa e di quel tiensi a ventura
render l’omero cinto e ‘l fianco carco.
Poi per la via più breve e più secura
del tronco d’or si riconduce al varco,
né trova a corre il frutto impaccio o noia
col favor di Mercurio e dela gioia.
253
Tutto quel giorno che fra gli altri sette
è di riposo ed ultimo si conta,
convertita in dragon, la maga stette
poco possente a vendicar quell’onta.
Nacquer le fate a tal destin soggette
che, da che sorge il sol finché tramonta
e dal porre al levar, la brutta scorza
ogni settimo dì prendono a forza.
254
Or qual doglia la punse e la trafisse
poiché spuntar del’altra luce i raggi?
Quanto allor si turbò? quanto s’afflisse
quando s’accorse de’ suoi novi oltraggi?
– Ma vanne ingrato pur, vattene (disse)
che la vendetta mia teco ne traggi. –
Tacque ed a sé chiamò con fiera voce
dele sue guardie un caporal feroce.
255
Orgoglio ha nome, altri l’appella Orgonte,
dela Superbia e del Furore è figlio.
In bocca sempre ha le minacce e l’onte,
traverso il guardo e nubiloso il ciglio.
Due gran corna di toro ha su la fronte,
d’orso la branca e di leon l’artiglio.
Ha zanne di mastino, occhi di drago:
figurar non si può più sozza imago.
256
Grossa e rauca la voce e la statura,
emula dele torri, ha di gigante
e del membruto corpo ala misura
lo smisurato spirto è ben sembiante.
Pietà, ragion, religion non cura,
perverso, inessorabile, arrogante,
bruno il viso, irto il crine, il pelo irsuto,
temerario così come temuto.
257
Poich’a costui narrate ha Falsirena
l’ingiurie sue con pianti e con querele,
udita ei la cagion di tanta pena
sorride d’un sorriso aspro e crudele
e nela faccia e nela bocca piena
d’amaro assenzio gli verdeggia il fiele;
e ‘l parlar ch’egli face ala donzella
è muggito e ruggito e non favella.
258
– Mandami tra le sfingi e tra i pitoni,
v’andrò (dicea) senza mestier d’aiuto.
Mandami tra i centauri e i lestrigoni,
dov’ogni altro valor resti perduto.
Pommi pur tra i Procusti e i Gerioni,
tutto ardisco per te, nulla rifiuto.
Darti in pezzi smembrato un vil fanciullo
fora di questa man scherzo e trastullo.
259
Impommi cose pur ch’altri non possa,
dimmi ch’io domi il domator d’Anteo,
dì che d’un calcio sol, d’una percossa
Polifemo t’abbatta e Briareo.
Vuoi ch’io ponga sossovra Olimpo ed Ossa?
strozzi Efialte e strangoli Tifeo?
Vuoi che sbrani ad un cenno e che divori
del giardino di Colco i draghi e i tori?
260
Ch’io scacci di laggiù l’empie sorelle?
ch’io snidi di lassù la luna e ‘l sole?
I denti svellerò dale mascelle
al rabbioso mastin dale tre gole.
Catenato trarrò giù dale stelle
lo dio ch’essere invitto in guerra suole.
Facil mi fia, se punto ira mi move,
tor l’inferno a Plutone, il cielo a Giove.
261
Porterò sovra il tergo e su la fronte
soma maggior d’Atlante e maggior pondo.
Del Nil sol con un sorso il vasto fonte
asciugherò, quand’ha più cupo il fondo;
se venisse a cader novo Fetonte,
se minacciasse pur ruina il mondo,
meglio di chi l’ha fatto e stabilito
a forza il sosterrei con un sol dito.
262
I poli sgangherar del’asse eterno,
purché ‘n grado ti sia, mi parrà poco.
Il gran globo terren vo con un perno
a guisa di paleo librar per gioco.
Il fulmine passar del re superno
al corso e di vigor vincere il foco
e stracciar a due man l’istesso cielo
né più né men come se fusse un velo. –
263
Le bravure del’un l’altra ascoltando
si divora di stizza e di tormento.
– Tempo (dice) non è d’andar gittando
l’ore, o mio fido, e le parole al vento.
Malagevoli imprese io non dimando,
noto m’è troppo il tuo sommo ardimento.
So le tue forze, il tuo valor ben veggio,
ma molto men di quanto hai detto io cheggio.
264
Prendimi sol quel fuggitivo ingrato.
perfido, disleale e traditore.
Prendilo e trallo vivo a me legato,
ch’io sfoghi a senno mio l’ira e ‘l dolore.
Vivo dammi il crudel che m’ha rubato...–
disse «il tesor» ma volse dire «il core».
– Oltre via, farò pur (soggiunse Orgoglio)
quelche vuoi, quelche deggio e quelche soglio. –
265
Non molto sta dopo tai detti a bada
e s’accinge a partir l’anima altera.
Prende un scelto drappel di sua masnada,
gente simile a lui malvagia e fera.
Seguendo il van per non battuta strada
il Disprezzo e ‘l Dispetto in una schiera.
Lo Scherno è seco e seco ha per viaggio
l’Insolenza, il Terror, l’Onta e l’Oltraggio.
266
Trascorre i campi e si raggira ed erra,
spiando del garzon la traccia invano.
Porta ovunque egli va tempesta e guerra,
fa tremar d’ognintorno il monte e ‘l piano.
L’elci robuste e i grossi faggi atterra
e pela i boschi con la sconcia mano.
Col soffio sol par ch’ammorzar presuma
la gran lampa del ciel che ‘l mondo alluma.
GLI ERRORI

ALLEGORIA

Il travestirsi d’Adone in arnesi da donna vuole avertirci l’abito molle della gioventù effeminata. L’esser preso da’ ladroni, il fuggire, il poi di nuovo incappare, il dar nelle mani del selvaggio ed alla fine l’esser fatto un’altra volta prigioniero, può dimostrarci le difficoltà ed i pericoli che si attraversano al godimento della umana contentezza. La morte di Malagorre ucciso da Orgonte ci avisa il giudicio della divina giustizia, che molte volte a punire i malvagi suol servirsi del mezzo degl’istessi malvagi. La caduta d’Orgonte ci dinota il fine dove va a parar la superbia, la qual quanto più arrogantemente presume d’opprimere altrui, tanto più profondamente viene a precipitare. Il caso di Filauro e di Filora, che infin dal nascimento sono accompagnati dalle sciagure, ci disegna la vita travagliata di quegl’infelici orfani, che nascono alle tribulazioni ed alle miserie. L’avvenimento di Sidonio e di Dorisbe, le cui tragiche fortune vanno a terminarsi in allegrezze, ci rappresenta il ritratto d’un vero e leale amore, che, quando non ha per semplice fine la libidine, ma è guidato dalla prudenza e regolato dalla temperanza e dalla modestia, spesso sortisce buon successo. La severità d’Argene, laqual pure al compassionevole oggetto de’ loro amorosi accidenti alla fine si placa e muove a pietà, ci significa il rigore del divino sdegno, il qual non può fare di non intenetirsi quando vede patire per bontà l’innocenza o dolersi d’aver peccato per debolezza la fragilità.

ARGOMENTO

Ascolta di Sidonio i tristi amori
più volte preso e liberato Adone;
condotto a Pafo e dal gentil barone
difeso poi, ritorna ai primi errori.

1
Deh come fatta è vile a’ giorni nostri
la milizia ch’un tempo era sì degna.
Non manca già chi ben cavalchi e giostri
né chi con leggiadria l’asta sostegna.
Non vi manca guerrier ch’armato mostri
sovravesta superba e ricca insegna,
non già per acquistar nel mondo fama
ma sol per farsi noto a colei ch’ama.
2
Vie più si studia in cittadina piazza
tra lieti palchi e ben ornate schiere
a far dove si scherza e si sollazza
fregi e divise al popolo vedere,
che sotto grave e ruvida corazza
in campo ad assalir squadre guerriere
e dimostrarsi in alcun gran conflitto
più con ardir che con vaghezza invitto.
3
Son forbiti gli usberghi e risplendenti,
tersi gli scudi e gli elmi luminosi.
Perché non sono ancor chiari e lucenti
coloro che ne van così pomposi?
Poveri di riccami e d’ornamenti,
anzi rotti, smagliati e sanguinosi
da gran colpi di stocchi e di quadrella,
quanto o quanto farian vista più bella!
4
Quanto fora il miglior spada o bipenne
trattar ne’ duri assalti, o cavalieri,
che per gioco spezzar fragili antenne
stancando al corso i barbari e gli iberi?
Che val gli augelli impoverir di penne
per dispiegar al vento alti cimieri,
s’onor mercando infra ‘l nemico stuolo
non impennate a’ vostri nomi il volo?
5
Vuolsi più tosto con qualch’atto egregio
onorar l’armi ed illustrar gli arnesi,
ch’aver con procacciar da quelle il pregio
da rugin di viltà gli animi offesi.
Far devrebbe non men corona e fregio
a color ch’han di gloria i cori accesi
con non men bella ed onorata salma
che l’acciaio e che ‘l ferro, alloro e palma.
6
Oggi pochi ha tra noi veri soldati
che per vero valor vestan lorica.
Calzan più per fuggir sproni dorati
che per seguir talor l’oste nemica.
E con abuso tal son tralignati
dala virtù, dala prodezza antica
che, sol rubando e violando, al fine
son le guerre per lor fatte rapine.
7
Tai forse esser devran gli empi villani
che far al nostro Adon vogliono oltraggio.
Non già tal è il campion che dale mani
lo scampa poi del predator selvaggio.
Iva per monti Adone, iva per piani
continovando il misero viaggio,
poiché fuor de’ ritegni onde fu chiuso
dela fata ogni inganno ebbe deluso.
8
Ma perché dala fame è spinto a forza
e dala sete a desiar ristoro,
tosto del’aurea noce apre la scorza
e credenza gli appar d’alto lavoro
e la sete e la fame inun gli ammorza
vasellamento di cristallo e d’oro,
pien di quanto la terra e ‘l mar dispensa,
e non v’ha servi ed è servito a mensa.
9
Non molto dopo, giunto ala marina,
vide che pur allor per rinfrescarsi
sceso nel’acqua chiara e cristallina
stormo di villanelle era a lavarsi.
Ciascuna avea di lor nela vicina
sponda lasciati i vestimenti sparsi;
e tutte a scherzi ed a trastulli intente,
ai panni ed al garzon non ponean mente.
10
Ei, sospettando pur che Falsirena
dietro gli manderà gente ala pesta,
pensa che se tra lor Fortuna il mena
potrà meglio celarsi in altra vesta.
Prende un abito allor da quell’arena
e perché ‘l crin gli è già cresciuto in testa
sovra il farsetto postasi la gonna,
in ogni parte sua rassembra donna.
11
Ala spoglia, ala chioma, al’atto, al viso,
al’andar, al parlar fallace e finto
chiunque il vede ha di vedere aviso
vaga ninfa di Menalo o di Cinto.
Nela selva ricovra e quivi assiso
in un pratel di mille fior dipinto
prende la gemma che nel ricco incastro
fu già legata da sì dotto mastro.
12
Mira nel sacro anel la cara imago
di lei ch’ancor per lui tragge sospiri
e dietro al’occhio ingordo il pensier vago
fermando in esso, inganna i suoi desiri.
Resta in parte però contento e pago
degli amorosi suoi lunghi martiri,
veggendo almen che pur da lei si parte
per girne altrove il furioso Marte.
13
Non gli lascia serrar gli occhi dolenti
il folto stuol dele noiose cure;
e volgendo tra sé gli aspri accidenti
dele passate sue disaventure,
la desperazion dele presenti
e l’aspettazion dele future,
per trovar al suo mal qualche consiglio
scaccia ogni requie dalo stanco ciglio.
14
Pur da’ travagli del’afflitta mente
e del corpo affannato e faticoso
vinto, a forza convien che finalmente
ubbidisca a natura il cor doglioso.
Così malvolentier cede e consente
ala necessità d’alcun riposo,
né più difender gli occhi egri si ponno
dal dolce assalto d’un piacevol sonno.
15
Mentre giace dormendo, ecco il circonda
turba di masnadieri e di ladroni,
gente scherana, errante e vagabonda,
son forse trenta e son tutti pedoni.
Alcuni di lontan rotan la fionda,
molti soglion dapresso usar spuntoni.
Troppo si tien chi di metallo armato
porta in braccio il brocchier, lo stocco a lato.
16
Del’armi e del’armar son vari i modi,
han camicie di maglia ed han corazze,
adunchi raffi e pali acuti e sodi
adusti in cima e cappelline ed azze.
Tempestate di punte, irte di chiodi,
adopran parte e mazzafrusti e mazze,
ghiaverine e lanciotti e curve e larghe
le storte a’ fianchi, a’ gomiti le targhe.
17
Viene a tutti davante il capitano,
capo conforme a compagnia sì fatta.
Malagorre s’appella; è rodiano
di nazione e di non bassa schiatta.
Più d’una volta in guerra armò la mano
ch’a nobil’opre, a grand’imprese er’atta;
ma di vendette cupido e di prede
al’indegno mestier poscia si diede.
18
Nera e folta la barba, il viso ha bruno,
occhio schizzato e piccolino e rosso,
monca la manca e senza dito alcuno,
fregiato il naso ove s’incurva l’osso.
Asciugator di tazze e del digiuno
mortal nemico, uom sì pesante e grosso
ch’apena il cape il ruginoso usbergo,
né può portarlo alcun destrier su ‘l tergo.
19
La destra tien di lungo spiedo armata,
di cuoio cotto al’altro una rotella.
Una testa di lupo ha per celata,
celata insieme e spaventosa e bella,
che la bocca sbarrando ampia e dentata,
le fauci formidabili smascella.
L’ispide orecchie, ch’irte in alto stanno,
in loco di cimier cresta le fanno.
20
Appressati costoro al giovinetto
che dagli occhi dal sonno ancor sopiti
spirava un dolce e languido diletto,
stupefatti restaro e sbigottiti,
quasi ala vista di quel primo aspetto
da repentino folgore feriti.
Del’armi intanto al suon che tocche e mosse
facean strepito insieme, ei si riscosse.
21
Non s’atterrì, ché vago era di morte,
in mirar gente sì feroce e cruda.
– Venite (disse) e con l’estrema sorte
la mia favola lunga omai si chiuda. –
Il bargel dela squadra, acceso forte
di beltà tanta, alzò la destra ignuda
e confortollo e fè che si drizzasse,
poi pian pian prigionier dietro sel trasse.
22
Di strada usciro e quindi or alto, or basso
tra l’erte più difficili d’un monte
giunser, torcendo il calle, a piè d’un sasso
che d’alte querce ombrosa avea la fronte.
Torre in cima sorgea, cui dava il passo
sovra doppie catene angusto ponte.
Quest’era de’ ladron la cova e ‘l nido,
questo il refugio lor secreto e fido.
23
D’altri ladri abitanti in questa torre
numerosa famiglia anco s’accoglie
che cura han del’albergo e di riporre
dal capitan le riportate spoglie.
Ognun l’onora, incontro ognun gli corre,
sicome a proprio re, fuor dele soglie;
ed essaltando il duce e la donzella,
lodan di forte l’un, l’altra di bella.
24
Entrato Malagor disse: – Compagni,
dach’io Rodo cangiai con questo bosco,
uom che non m’ami o che di me si lagni
tra voi fin qui non veggio e non conosco.
Sapete ch’ogni parte ho de’ guadagni
sempr’egualmente accommunata vosco.
Dividendo prigion, vesti o danari,
sempre trattati v’ho meco delpari.
25
Che quando elessi una tal vita e quando
io declinai de’ miei l’alte vestigia,
non tanto a gir fuor dela patria in bando
del’or mi mosse l’avida ingordigia,
quanto con atto illustre e memorando
de’ nemici mandati al’onda stigia
da fronte a fronte e sol per valor d’armi,
generoso desio di vendicarmi.
26
Or, senon son di mercé tanta indegno,
vi cheggio in cortesia sola costei.
Ben per la potestà di cui già degno
mi giudicaste, torlami potrei;
ma tolga il ciel ch’io nulla aver con sdegno
voglia giamai de’ familiari miei.
Da voi terrolla e sotto i vostri auspici,
quando vi piaccia, io vene prego, amici. –
27
Tutti d’un voto acconsentiro a lui
e gradir molto il ragionar cortese.
Ei, rivolto a colei ch’era colui,
parlolle affabilmente e la richiese
a dargli parte de’ successi sui,
delo stato, del nome e del paese.
Adon, che vuol celarsi al’empie genti,
copre con pianti veri i falsi accenti.
28
Dissegli che ‘l suo nome era Licasta,
natia del vago e peregrino Alfeo
che frequentava con la dea più casta
del Partenio le selve e del Liceo;
e che, l’onda solcando orrida e vasta
per girne a Delo del profondo Egeo,
l’avea di quella spiaggia insu la costa
tempestosa procella a forza esposta.
29
Fu messo in compagnia libero e sciolto
d’una fanciulla Adone e d’un donzello
che nel bosco vicin, non era molto,
fur presi e tratti a quel medesmo ostello.
Non sì tosto il donzel mirò quel volto
unico e senza pari in esser bello,
ch’avido d’involarne i rai leggiadri,
prese con gli occhi ad imitare i ladri.
Ladri son gli occhi ed a rubare arditi,
30
van per le strade publiche d’amore
e tutti i furti ala beltà rapiti
per nascondergli ben, portano al core.
Il cor, poiché gli ha presi e custoditi
fa che d’essi il desio scelga il migliore;
ma quantunque al desio la scelta tocchi,
contento e il cor se si contentan gli occhi.
31
Il fanciul che non sa ciò che nasconde
di vero e di viril gonna bugiarda,
or i bei lumi, or l’auree chiome bionde
fiso contempla e cupido risguarda.
Ma quanto mira più, più si confonde
e più convien che sen’accenda ed arda.
Così sviata dietro al cor che fugge
l’alma si perde ed egli invan si strugge.
32
Mentre cerca or con gesti, or con parole
scoprirgli di qual piaga ha il core offeso,
Adon ben sen’accorge e ben si dole
di sua follia che ‘l sesso in cambio ha preso.
Pur sen’infinge e de’ begli occhi il sole
gli volge per temprar quel foco acceso,
ch’a sconsolato cor che vive in guai
anco i finti favor son cari assai.
33
Ma così scarso è il refrigerio e breve
che tante fiamme a mitigar non vale,
anzi quel van piacer che ne riceve
è mantice al’ardor, cote alo strale.
Or, mentr’ei langue e si disfà qual neve
a sole estivo o pur a vento australe,
chi sia colei, qual egli siasi e donde
Adon dimanda e ‘l giovane risponde.
34
– È proverbio vulgar ch’aver consorti
nele miserie, ai miseri pur giova.
Ma veri non sent’io questi conforti,
ché ‘l mio mal per l’altrui pace non trova.
Anzi veggendo ch’agli antichi torti
Fortuna aggiunge ognor materia nova,
mentre me piango e inun di te m’incresce,
nel tuo dolore il mio dolor s’accresce.
35
E se non temess’io che nel tuo petto
la doglia e la pietà degli altrui danni
farebbon forse ancor l’istesso effetto,
parte ti conterei de’ nostri affanni.
Noioso è troppo e tragico il suggetto,
e d’assai gl’infortuni eccedon gli anni;
ma pur tacere almen non si conviene
chi siamo e gual cagion qui ne ritiene.
36
Abbiamo ala squadriglia infame e ria
la verità sott’altro velo involta
che, benché falsa e mentitrice sia,
lecita è la menzogna anco talvolta,
quando giova a chi mente il dir bugia
e non noce il mentire a chi l’ascolta.
Poria, s’ella del ver fusse avertita,
per occultar il mal, torne la vita.
37
Oranta che d’Armenia ebbe il governo,
suora fu di Morasto il re d’Egitto
che ‘n compagnia morì di Galiferno,
già di lei sposo, in un mortal conflitto.
Nel marital eccidio e nel fraterno
le fu da tanta doglia il cor trafitto
che gravida disperse ed abortivi
partorì duo gemelli intempestivi.
38
Intempestivo il parto ed improviso
per affanno l’assalse innanzi l’ora,
perché subito giunto il duro aviso,
i duo teneri infanti espose fora.
E per l’amor del gran marito ucciso
chiamò Filauro l’un, l’altra Filora,
figli di madre afflitta e padre essangue,
prodotti nel dolor, nati tra ‘l sangue.
39
Questi fummo noi duo che, come roti
l’instabil dea del mondo agitatrice,
provato abbiam dal dì che tra’ suoi moti
aprimmo gli occhi al sol, coppia infelice.
Argene poi, di cui noi siam nipoti,
in vece n’allevò di genitrice,
però che quella insu l’angosce estreme
l’anima avea col parto espressa insieme.
40
Non è gran tempo che per bando espresso
Cipro intorno mandò publici gridi,
ch’a torre il regno al più bell’uom promesso
venga chiunque in sua beltà confidi.
La nostra zia, ch’ha pretendenza in esso,
fè da Menfi tragitto a questi lidi,
e stimandoci ancor tra ‘l popol greco
degni di comparir, ne menò seco.
41
L’altr’ier, però che qui nostro costume
era sovente essercitar le cacce,
per un cervo seguir, ch’entrò nel fiume
spaventato da gridi e da minacce,
perdemmo insieme col diurno lume
dela fera e de’ nostri inun le tracce.
Così smarriti, in altri lacci tesi
fummo di cacciator cacciati e presi. –
42
Tacque e volendo dir ch’altra prigione
tenea le voglie sue strette e legate,
sospirò sì che ne sorrise Adone
e parte di quel male ebbe pietate
ché, già dotto in amor, di ciò cagione
ben conobbe esser sol la sua beltate:
beltà, principio e fin d’un gran tormento,
vista, amata e perduta in un momento.
43
Già dal’ombrose sue riposte cave
dela Notte compagno, aprendo l’ali,
con lento e grato furto il Sonno grave
togliea la luce ai pigri occhi mortali
e con dolce tirannide e soave,
sparse le tempie altrui d’acque letali,
i tranquilli riposi e lusinghieri
s’insignorian de’ sensi e de’ pensieri,
44
quando le lor parole al mezzo rotte
repente fur da subito tumulto:
fracassi d’arme e strepiti di botte
ferivan l’aere d’un romore occulto.
Confusa dal timore e dala notte
va la casa sossovra al novo insulto;
ed ecco allor di quel drappel protervo
viene anelante ala lor volta un servo.
45
Furcillo è questi, un giovane epirota,
ben degno imitator del buon maestro,
che già sei volte almeno è dala rota
per gran sorte scampato e dal capestro.
Segnato tien con indelebil nota
dela bolla real l’omero destro.
Barro di carte e ficcator di dadi,
tutti d’ogni bell’arte ha scorsi i gradi.
46
Di Filora la bella e più de’ suoi
ricchi ornamenti avea l’alma invaghita.
Venia per violarla e torle poi
con le misere spoglie anco la vita.
– Va il mondo a sangue (ei disse) e qui sol voi
seggendo, al mal commun non date aita.
Parlo a te bel garzon, che pur mi sembri
di forte core e di robusti membri.
47
Gente comparsa al’improviso, espugna
con terribile assedio il nostro muro.
Non lunge, udite, si combatte e pugna
e si fa la battaglia a cielo oscuro.
Tuttavia cresce la dubbiosa pugna
né per voi questo loco è ben securo.
Già fuor con gli altri tutti è Malagorre
dela vita a difesa e dela torre. –
48
Seben solea Furcillo esser mendace
ciò che narrava allor tutt’era vero.
N’era Orgonte l’autor, d’Adon seguace
ch’avea di lui tracciato ogni sentiero.
Ch’ei fusse in preda alo squadron rapace
non so come sapesse il caso intero.
Di quanto ei fatto avea né più né meno
daché partissi, era informato apieno.
49
Di là passando, ove il medesmo die
vestiti avea ‘l fanciul drappi donneschi,
intese il tutto e da sagaci spie
gli giungean d’ora in ora avisi freschi.
Qual cacciator che per diverse vie
cerca com’augel vago al ramo inveschi,
tenendo sempre insoliti camini,
pervenne ala magion degli assassini.
50
Non era il ponticel levato in alto,
onde con sua brigata entrar vi volle,
ma da’ ladroni opposti al fiero assalto
fu per forza respinto a mezzo il colle.
Incominciò di sanguinoso smalto
l’erba a farsi vermiglia e ‘l terren molle;
e i foschi orrori al’orrido scompiglio,
come il servo dicea, crescean periglio.
51
– Or più tempo non è da far dimora
(soggiunse il ladro) ognun pensi a sestesso.
Esseguir mi convien l’ordine or ora
che di salvar costei mi fu commesso. –
Così disse e per man prese Filora
che fu costretta a forza irne con esso.
Pianse e gridò, ma pose freno alquanto
lo spavento del ferro al grido, al pianto.
52
Filauro in cui per l’acerbetta etade
eran gli spirti ancor debili e infermi,
oltreché fra tant’aste e tante spade
le forze avea d’ogni difesa inermi,
contro quel fier nemico di pietade
fu mal possente a far ripari o schermi,
né seppe altro il meschin che con querele
seguir la vergin mesta e l’uom crudele.
53
Tal rondine talor che veggia l’angue
guastarle il nido e divorar la prole
e le viscere care e ‘l caro sangue
crudelmente lambir, s’afflige e dole,
tra paura e dolor paventa e langue,
teme accostarsi e dipartir non vole,
e con pietoso gemito dolente
l’orecchie assedia a chi pietà non sente.
54
Veduto Adon fra tanti casi aversi
in quel punto Fortuna essergli destra
sì, ch’essendo i ladron tutti dispersi,
rimanea solo in quella casa alpestra,
pigro non fu del tempo a prevalersi
e salse ove s’apriva alta finestra.
Quindi affacciossi a risguardar nel monte
e vide in vive fiamme ardere il ponte.
55
Avean gli assalitori in quella parte,
dove il legno s’incurva insu la fossa,
che molt’acque oziose intorno sparte
raccoglie e forma una palude grossa,
acceso il foco, onde Vulcano e Marte
la fer tosto apparir fervida e rossa.
Ardea la torre e delo stuol rapace
le rapine rapia fiamma predace.
56
Sorge in groppi di fumo il foco al cielo
confuso e scorre in queste parti e ‘n quelle,
poi rompendo del’aria il fosco velo
s’allarga e snoda in lucide fiammelle.
Ricovra Cinzia al cerchio suo di gelo,
agli epicicli lor fuggon le stelle,
che quella teme inaridir gli umori,
queste disfarsi a sì vicini ardori.
57
Per mille bocche e con ben mille e mille
lingue stridendo e mormorando svampa.
Con acque ardenti ed umide faville
bolle lo stagno e ‘l margin tutto avampa.
Quivi si pugna e di sanguigne stille
spruzzata ador ador cresce la vampa,
che spranghe ed asse ed ogni altr’esca secca
divora e i sassi morde e l’onde lecca.
58
Chi dal’orlo del ponte ingiù trabocca,
chi dala ripa e nel fossato affonda;
altri dal ferro che ‘l persegue e tocca,
fugge e nel foco inciampa o muor nel’onda.
Di su la vetta del’eccelsa rocca,
da cui discopre Adon tutta la sponda,
chiaro il tutto gli mostra al’aria bruna
lo splendor del’incendio e dela luna.
59
La chioma che, cresciuta, il feminile
uso imitando, infin al sen gli scende,
disciolta allor, con rozzo ferro e vile
tronca quell’or che sovra l’or risplende;
poi degli stami del bel crin sottile
treccia forte e tenente attorce e stende
quasi lubrica fune in linea lunga,
tanto che dal balcone a terra giunga.
60
Ma Malagor che ‘n que’ mortali ardori
la nova fiamma sua serba ancor viva,
né tra l’armi e le furie oblia gli amori,
ripensando ala vergine cattiva,
per salvarla ove salva i suoi tesori
lascia la zuffa ed al’albergo arriva
apunto allor che per l’aurata scala
vede che sdrucciolando ingiù si cala.
61
Adon che ‘n preda del’iniquo duce
si trova pur, del fier destin si lagna.
Per mano il prende e sotto dubbia luce
ala valle vicina ei l’accompagna.
In una occulta grotta indi il conduce
che le viscere fora ala montagna,
dentro i cui penetrali ermi e riposti
i bottini più ricchi ei tien nascosti.
62
Opra non di Natura è questa grotta,
qual del’altre esser suol la maggior parte,
ma la man de’ ladroni esperta e dotta
pur come natural cavolla ad arte.
È stretta, obliqua e diroccata e rotta
e nel mezzo in due parti si diparte.
Scende la prima entrata oscura e bassa
fin dove al’antro interior si passa.
63
Tra gli spazi del primo e del secondo
un sasso s’interpon quasi parete,
acconcio in guisa ch’è leggiero il pondo
purché note altrui sien le vie secrete;
ma delo speco par l’ultimo fondo
a chi trova il confin di quelle mete,
e quest’uscio di sterpi è così folto
che tra le spine ognor giace sepolto.
64
Nela soglia e nel’arco è di tal sorte
quel riparo commesso e fitto in terra
che non sembra la tana aver due porte
e s’apre agevolmente e si riserra.
Da indi in là per strade anguste e torte
quasi meandro si ravolge ed erra,
e poiché molti giri intrica e mesce
nela costa del poggio alfin riesce.
65
Riesce insu la balza alpestre ed erta
d’alni infecondi fertile e di faggi,
colà dove la pietra alquanto aperta,
ma riturata d’arbori selvaggi,
riceve pur dal ciel di luce incerta
per un breve spiraglio ombrosi raggi
e dal’un fesso al’altro il suo gran seno
tiene un miglio di tratto o poco meno.
66
Fu dentro questa inospita caverna
non so se pur depositata io dica
nela maggior profonditate interna
o sepolta da lui l’amata amica.
Quivi baci e parole insieme alterna
e molto a consolarla ei s’affatica;
e poich’ha lo sportel chiuso co’ marmi
lascia i trastulli e fa ritorno al’armi.
67
Filauro intanto ilqual nel’istess’ora
la sorella e la donna ha inun perdute,
del nome di Licasta e di Filora
fa l’ombre risonar tacite e mute.
Del’una la beltà sospira e plora,
del’altra l’onestate e la salute;
e fa dentro il suo cor fiero duello
l’amor del sangue con l’amor del bello.
68
Impronta di suggel tenera cera
sì salda in sé non serba e non ritiene
come un cor giovenil dela primiera
beltà l’effigie ov’a scontrar si viene.
Costui del primo amor la viva e vera
sembianza impressa ha nel pensier sì bene
che non val del bel foco, ond’egli avampa,
altro accidente a cancellar la stampa.
69
Mentre che per la selva erra e s’imbosca
desperato e dolente in questa guisa,
incontro a sé venir per l’ombra fosca
vede persona che non ben ravisa;
e possibil non è ch’ei la conosca
seben intento assai l’occhio v’affisa,
che lontano è l’oggetto e l’aria oscura,
ma per femina pur la raffigura.
70
L’attese e poiché donna esser s’accorse,
con cor tremante avicinossi a quella.
Se sia l’una o sia l’altra è ancora in forse
alfin conosce pur ch’è la sorella.
Con qual affetto ad abbracciarla corse,
con quai segni d’amor l’accolse anch’ella,
con quai baci iterati e con quai sensi
chi può dirlo e pensarlo il dica e ‘l pensi.
71
La giovane al fratel conta piangendo,
poich’ha l’anima alquanto in sé raccolta,
come fu tratta entro il burrone orrendo
d’una foresta desviata e folta,
là dove seco il mascalzon volendo
trarsi la voglia scelerata e stolta,
gli fu per non pensata alta ventura
interrotto il piacer dala paura.
72
Perché di genti e d’armi intanto udissi
repentino romor giù per la valle,
onde villanamente egli fuggissi
ed a loro ed a lei volse le spalle;
e ch’ella, poi che il traditor partissi,
per lo più destro e men segnato calle,
timida di duo rischi, infretta diede
la chioma al vento ed ala fuga il piede.
73
L’egro garzon ch’occultamente avea
d’amorosa ferita il sen piagato
e già l’orme del cor seguir volea
che dietro a chi ferillo era volato,
disse: – Di questa gente infame e rea
arde la casa e ‘l bosco è tutto armato;
né ben securi siam di novo inciampo
se non si studia a procacciar lo scampo.
74
Buon sarà dunque alcun riposto loco
cercar tra queste piante e questi sassi,
dov’io, finch’a spiar vada del foco
e del ferro i successi, almen ti lassi.
Tu là m’attenderai, ch’a te fra poco
ritornerò con ben veloci passi. –
Mentre parla così, vede non lunge
la spelonca de’ ladri, onde soggiunge:
75
– Questa mi par per breve spazio stanza
commoda ed oportuna al tuo soggiorno.
Cara suora, se m’ami, abbi costanza
infino al venir mio ch’io parto e torno. –
Così le dice ed ella, ogni baldanza
perdendo e scolorando il viso adorno,
stupida resta e conturbata tanto
che risponder non sa senon col pianto.
76
Pur rivolgendo in lui gli umidi rai,
lo stringe con dolcissime ragioni.
– Frate (dicea la misera) tu vai
e tra fere mi lasci e tra ladroni
e mi predice il cor che più giamai
non t’ho da riveder se m’abbandoni.
Se non senti pietà del mio dolore
murato hai ben di rigid’alpe il core. –
77
Con lo sprone e col fren fan lite in lui
natura, amor, desire e tenerezza.
Ma convien che costei ceda a colui
che di ragione ogni ritegno spezza;
né cura aver dela sorella altrui
può, chi la propria madre anco disprezza.
Sì dopo molte alfin lagrime sparte
al ciel la raccomanda e si diparte.
78
Come, s’allor che più spedito corre
per l’olimpica polve o per l’elea,
tra via carro si schioda e viensi a sciorre
una dele due rote onde correa,
arresta il moto e vedesi scomporre
la gemina union che ‘l sostenea,
gemono gli assi e sotto il duro intoppo
va serpendo il timon spezzato e zoppo,
79
così rimase allor senza l’aita
del buon german che sene gia ramingo,
pallida, lagrimosa e sbigottita
la verginella in quell’orror solingo.
La scaramuzza intanto era inasprita
e Malagor tornato al fiero arringo
tra’ suoi si mise e diede in apparire
vergogna ai vili, agli animosi ardire.
80
Nel cominciar dela battaglia, un pezzo
vantaggio ebbero ai bravi i farinelli,
de’ quai ciascuno era gran tempo avezzo
in quel sito ove gli altri eran novelli;
e le vite vendendo a caro prezzo
si difendean da questi assalti e quelli.
Saltando or macchie, or fossi, or pruni, or selci,
scudo si fean de’ frassini e del’elci.
81
Il signor dela ciurma alza la spada
e comincia a ferir colpi sì duri
che la rupe ne trema e la contrada
e temon d’appressarlo i più securi.
Fere Armonte il primier, che non vi bada,
qual uom ch’altrove intenda o poco il curi.
Ma mentre al suon del ferro il volto ei volse,
tra la fronte e le ciglia il colpo il colse.
82
La fibbia gli tagliò che dele ciglia
con gli squamosi muscoli confina,
onde ferì la fronte, o meraviglia!
e la luce ammorzò ch’era vicina.
Tronca del destro gomito a Scarmiglia
la chiave e ‘l braccio ingiù mozzo ruina.
E dala spalla in un medesmo instante
ala forca del petto apre Mimante.
83
L’elmo e ‘l capo a Tricosso inun divide
e di vita e d’orgoglio inun l’ha privo.
E per la schiena Dragonetto uccide
mentre corre anelante e fuggitivo.
Il ferro poi che lampeggiando stride
là dov’è l’uom più palpitante e vivo
cacciando a Bricco entro la poppa manca,
le latebre del’anima spalanca.
84
Nela noce del collo ha d’un riverso
colto Squarcon con furia e forza tale,
che quinci il busto al suol cade converso,
quindi il teschio per l’aria in alto sale.
Di fendente a Creuso è per traverso
presa del cinto la misura eguale,
siché ben mostra altrui qual’ira n’abbia
tra le viscere aperte il fiel ch’arrabbia.
85
Trovavasi di qua poco lontano
Armillo il cacciatore, Armillo il bello,
ciprioto non già ma soriano,
Ganimede secondo, Adon novello.
Mentr’ei con l’arco e le saette in mano
questo guerrier va provocando e quello,
al’armi, agli atti, al viso ed ale membra,
tranne la benda e l’ali, Amor rassembra.
86
Avealo il gran tiranno di Soria
mandato in don pur dianzi al re d’Ormusse
perché l’alta beltà che ‘n lui fioria
del serraglio real delizia fusse,
ma rotti e morti i condottier tra via,
lo stormo predator seco il condusse.
Tratto ei poi dal’amor del vil guadagno
s’era lor di prigion fatto compagno.
87
Vaghezza pueril, sicome è l’uso
de’ fanciulli inesperti, in pugna il mena.
Non avea questi il quarto spazio chiuso
dela stagion più fresca e più serena,
peroch’avea del debil filo al fuso
Cloto sedici giri attorti apena;
né gli segnava ancor poco né molto
vestigio pur di nova piuma il volto.
88
Semplicetto credea là tra le schiere,
dove l’ira e ‘l furor fere e minaccia
quel trastullo trovarsi e quel piacere
che per le selve avea trovato in caccia;
e che ‘l seguir dele fugaci fere,
co’ cani a lato e ‘l dardo in man la traccia
non fusse ardir men coraggioso e forte
che ‘l girne in campo ad affrontar la morte.
89
Il fianco e ‘l tergo ha senz’altr’armi armati
d’una pelle di lince oscura e bianca.
Gli è cuffia il teschio e pendon d’ambo i lati
con l’unghie intere e l’una e l’altra branca.
Duo di fiero cinghial denti lunati,
un dala destra parte un dala manca,
gli escono innanzi e con due fibbie stretto
gli fan vago fermaglio in mezzo al petto.
90
A que’ sembianti angelici diventa
qual più rigido cor molle e cortese.
Trattiene i colpi e con man lieve e lenta
schermo si fa dal’innocenti offese.
Mal garzon più s’inaspra e più s’aventa
tra le più dubbie e men secure imprese;
e chi gli cede irrita e di chi ‘l mira
contro sestesso e sua beltà s’adira.
91
Melanto nato al freddo Tronto in riva
là tra l’Alpe picena e la peligna,
suo curator, suo difensor veniva
e seco inun facea l’erba sanguigna.
Per la calca maggior questi il seguiva
e, fermando talor l’asta ferrigna,
volgeasi a rimirar quai più mortali
del’occhio o dela man fusser gli strali.
92
Or davante, or da tergo ed or da’ fianchi
gli lasciava i guerrier feriti e vinti,
perché gli avanzi suoi storditi e stanchi
fusser da lui con minor rischio estinti.
In cotal guisa ove i più fieri e franchi
segnalarsi vedea di sangue tinti,
le fatiche scemando al bel fanciullo
di spianargli la strada avea trastullo.
93
Così strozziero al’aghiron talora,
spuntando il lungo rostro e i curvi artigli,
al falcon giovinetto e non ancora
uso ale cacce agevola i perigli.
Così leon, traendo al bosco fora
del’aspra cova i non chiomati figli,
caprio o torel cui di branar disdegna
lor mezzo ucciso a divorare insegna.
94
Va tra’ nemici Armillo e l’arco tende
ch’è di fin’or pomposamente adorno
e ‘l cordone ha di seta e tutto splende
di sottil minio e di lucente corno.
Con la manca nel mezzo il nervo prende
ed al dritto del’occhio il gira intorno,
con l’altra il laccio tira e fuor del legno
fa guizzar l’asta ed accertar nel segno.
95
Or chi può dir quanti da te fur morti,
baldanzoso donzel, prodi guerrieri?
Ferracozzo fu il primo, un de’ più forti
partigiani d’Orgonte e de’ più fieri;
e ben volgea, se non volgea sì corti
i suoi stami la parca, alti pensieri,
ma gli passò crudel saetta ed empia
tutto il cervel dal’una al’altra tempia.
96
Poi vide Orcan, che la sua fame ingorda
pascea di strage e facea prove eccelse
e d’ostil sangue distillante e lorda
la scimitarra avea fin sovra l’else;
tosto per porlo insu la tesa corda
e commetterlo al’aure un strale ei scelse
e torcendo il gagliardo arco leggiero
fè d’una luna scema un cerchio intero.
97
Volea gli accenti allor trar dela gola
l’altro e scior contro lui la lingua irata,
quando in aprir la bocca, ecco che vola
a chiuderla al meschin la morte alata,
e la vita in un punto e la parola
per mezzo il gorgozzuol gli fu troncata.
La voce intanto infra le fauci mozza
gorgogliava bestemmie entro la strozza.
98
Volto a Bravier, con quanta forza ei pote
lo stral pungente insu la noce incocca,
poi la fune a sé trae fin su le gote,
scaglia la canna e sovra ‘l braccio il tocca.
Nel pesce apunto il calamo il percote,
col pasmo a terra il poverel trabocca.
Egli nol cura e palpitante il lassa,
indi sovra Cerauno ardito passa.
99
Aveva allor allor spogliato e scarco
d’alma e d’armi in un punto e Vespa e Grillo,
quando segnollo e, come fera al varco,
l’attese e giunse il faretrato Armillo.
Con l’arco in pugno e con lo stral su l’arco
di traverso nel fianco egli ferillo;
quei cadde ingiù rivolto e la saetta
scrivea note di sangue insu l’erbetta.
100
Sovragiunge a Guizzirro un altro strale
ed apre, aprendo al caldo umor l’uscita,
nela guardia del cor, viva e vitale
officina del sangue, ampia ferita.
Passa la manca costa oltra quell’ale
che ministran col moto aura ala vita
e nel centro del petto a fermar viensi
dove il trono han gli spirti, il fonte i sensi.
101
Furiasso il gran guercio infra lo stuolo
più d’un bandito a piè si tenea morto.
E non avea costui ch’un occhio solo
e questo ancora il volgea torvo e torto.
Piega l’arme bicorne e manda a volo
anco una freccia il sagittario accorto,
freccia ch’eguale al fulmine congiunte
in sé torte ed aguzze avea tre punte.
102
Dal tridente mortal che per la cava
conca del’occhio oltre la coppa il fiede,
colui del lume onde la fronte ornava,
orbo rimane intutto e più non vede.
Pur mentre il sangue il volto e ‘l sen gli lava,
drizza ver là dond’uscio ‘l colpo il piede
e corre e grida e porta in man due spade
ma in un’asta caduta inciampa e cade.
103
Saetta il fier garzon dopo costoro
Lupardo il nero e Serpentano il brutto
e Tigrane il crudele aggiunge loro
ch’avea de’ buon gran numero distrutto.
Piovono a mille le quadrella d’oro,
scompigliato ne sona il bosco tutto;
né qui s’affrena ancor l’animo audace
né riposa la man né l’arco tace.
104
Già la faretra omai di dardi ha vota
e ‘l braccio quasi indebolito e lasso,
quand’ecco il fiero Orgonte, eccol che rota
la spada a cerchio e s’apre intorno il passo.
Fermo l’aspetta e con lo sguardo il nota,
poi trae l’ultimo stral fuor del turcasso
ed accelera il piede ov’empia sorte
il fa quasi volar contro la morte.
105
Presto, ovunqu’egli vada, al suo soccorso
Melanto il segue pur né l’abbandona
e, come il vede in sì gran rischio, il corso
colà subito volge e gli ragiona:
– Raccogli omai, fanciul malcauto, il morso
al’ardir che tropp’oltre oggi ti sprona.
Orme fin qui del tuo valor lasciasti
fra’ nemici assai chiare, or tanto basti. –
106
E quegli a lui: – Deh! quest’altier che tanto
spaventa altrui consenti almen ch’assaglia.
Non mi disdir ch’io ‘l provi e provi quanto,
poiché in vista è sì fiero, in fatti ei vaglia;
di ciò ti prego sol, caro Melanto,
non cheggio dopo questa altra battaglia.
Se vincerò, tu, mio fedel custode,
n’avrai l’armi e le spoglie ed io la lode. –
107
Ciò detto il lascia e per l’orribil mischia
dove Orgonte combatte infretta giunge
ed aventa lo stral che stride e fischia
ma ‘l bersaglio, ove va, punto non punge.
Contro il meschin ch’oltre l’età s’arrischia,
la vista gira e guatalo da lunge,
indi s’accosta e con sorriso acerbo
così ‘l motteggia il barbaro superbo:
108
– Deh! fino a quando esser potrà che tardi
al’incontrar ciò che ‘l tuo cor desia
sich’uom la morte, che d’aver tant’ardi,
fanciulletto importuno, alfin ti dia?
Or io non vo che più gli altrui riguardi
facciano insolentir tanta follia.
So che per te miglior fora la sferza,
ma la mia spada ancor talvolta scherza. –
109
Tacque e con lui si strinse e quei smarrito
quando mirò la spaventosa fronte
volse fuggir, ma nel sanguigno sito
smucciò col piede e sdrucciolò dal monte.
Sovra gli va di rabbia infellonito
e già di sangue innebriato Orgonte.
Melanto il vede ed al garzon caduto
corre per dar nel gran periglio aiuto.
110
Ma perché quel crudel mostro inumano
già l’ha giunto in un salto e già gli ha presa
la chioma d’or con la sinistra mano
e l’altra per ferirlo alzata e stesa,
ed ei non può, per esserne lontano
a tempo ritrovarsi ala difesa,
gitta la spada e dà di piglio al’arco
e già l’ha teso in un momento e carco.
111
O la fretta soverchia, o il caso rio
dala mira lo stral travolse e torse
siché del fido amico il colpo pio
del fier nemico il colpo empio precorse,
del nemico, che pur s’intenerio
ed era di ferirlo ancora in forse
e forse, più dapresso avendo scorto
quel bel viso gentil, non l’avria morto.
112
Passa il cuoio macchiato a nero e bianco
spinto dal braccio dell’arcier gagliardo
e fiede al caro Armillo il miglior fianco
il disleale e dispietato dardo.
Quei la man bella insu ‘l costato manco
si pone e dice all’uccisor col guardo:
– Io moro, ahi crudo! ma la tua saetta
porta insieme l’offesa e la vendetta. –
113
Come fonte talor limpido e puro
dove il piè sozzo il zappator si lavi
o come bel giardin cui l’aspro e duro
rastro del’arator fieda ed aggravi,
così del volto pallido ed oscuro,
così de’ torbidetti occhi soavi
e secchi e spenti da’ mortali oltraggi
languiro i fiori e s’offuscaro i raggi.
114
Sospende il ferro e volgesi a Melanto
pien di disdegno Orgonte e di fierezza
e vede che ‘l gran duol gli ha tolto il pianto
alo sparir di quell’alta bellezza
e dela piaga involontaria intanto
l’arco ingrato ministro a terra spezza,
la destra errante, al suo diletto infida,
si morde e brama pur ch’altri l’uccida.
115
In un punto al meschino ardono il petto
due fiamme, anzi due furie, amore ed ira.
Quello il move a pietà del giovinetto,
questa in sestesso a vendicarlo il tira.
Ma mentre la sua mente un doppio affetto
or quinci or quindi irrisoluta aggira,
dal busto il capo Orgonte ecco gli scioglie
e dal dubbio e dal mondo insieme il toglie.
116
Chi descriver poria l’insana rabbia
di quel prodigio orribil di Natura
tra quanti mai la terra armati n’abbia
mostruoso di forze e di statura?
Fumo le nari fuor, schiuma le labbia
gittan che ‘l ciel seren turba ed oscura
e quell’alito ardente ed arrabbiato
è foco, è fiamma, è folgore, non fiato.
117
Quasi vento il crudel va furiando
e piovendo di sangue aspre tempeste.
Fioccano i colpi ovunqu’ei vien passando,
grandinan d’ognintorno e braccia e teste.
Tuona col grido e fulmina col brando,
sono i fulmini suoi piaghe funeste
e freme e stride e soffia e sbuffa e spira
procelle di furor, turbini d’ira.
118
Cinta d’un mar vermiglio in alto sorge
del corpo giganteo l’isola viva.
Volpino il mira e perché ben s’accorge
di ciò che fia se quella man l’arriva,
cacciasi in fuga; ei che fuggir lo scorge
ratto il prende a seguir lungo la riva
e minacciando il va con questi detti:
Mal se mi fuggi e peggio se m’aspetti. –
119
Tra le piante più folte e colà dove
lo stuol de’ fidi amici era più spesso
per campar dala morte il passo move,
ma la spada crudel gli è molto appresso;
quand’ecco il ferro che calava altrove
l’incauto Truffarel prende in sestesso,
Truffarel, ch’illustrò col nascimento
per infamia immortal Crati e Basento.
120
Questi in pace vie più che per battaglie
con man sottil e di rapina ingorde
sa meglio ch’adoprar spade e zagaglie,
trattar chiavi e trivelle e scale e corde;
porta ognor seco, ovunque va, tanaglie,
grimaldelli, acque forti e lime sorde;
e di rubar con sua destrezza tanta
le stelle al ciel, la luce al sol si vanta.
121
Iva pur troppo in sua malizia sciocco
spogliando i morti ond’era pieno il fosso
e per torre a Giaffer la banda e ‘l fiocco,
ch’eran di seta e d’or, s’era già mosso,
quando dal fiero inaspettato stocco
irreparabilmente ei fu percosso.
– Ladron, (gli disse Orgonte) io non t’incolpo:
vantati pur che mi rubasti il colpo. –
122
Torna a seguir Volpino e non si stanca
tanto che ‘l giunge e per le reni il passa;
fende a Ronciglio la mascella manca,
l’ascella destra a Rampicon fracassa;
a Cavicchio, a Fregusso il seno e l’anca,
l’un quasi estinto e l’altro estinto lassa.
Folchetto atterra poi, che cade e langue
mordendo il suolo e vomitando il sangue.
123
Duo germani eran qui, Trinco e Trifemo,
dala Natura l’un l’altro dal Caso,
privo già quei del posolino estremo,
questi del destro sole orbo rimaso.
Tronca egli il naso a quelche l’occhio ha scemo,
e scema l’occhio a quelch’ha tronco il naso.
Così sa, così suol con egual sorte
ogni disagguaglianza agguagliar Morte.
124
Rotte, malconce, dissipate e sparse
di Malagorre omai le genti sono,
onde pian pian cominciano a ritrarse
e poi prendon la fuga in abbandono.
– Volgete il viso! – ei che di sdegno n’arse,
gridò con fiero e minaccevol suono;
né pertanto a fuggir son già men tardi
però che ‘l tergo è il viso de’ codardi.
125
Quando il feroce alfin mira que’ pochi
dele reliquie sue sgombrar le piagge
e ‘ncenerite da’ nemici fuochi
le sì superbe già case selvagge
e che gli aiuti suoi son scarsi e fiochi
e che l’impeto altrui seco nel tragge,
va bestemmiando in suon rabbioso e rio
il cielo e ‘l sole e la Natura e Dio.
126
Fugge il ladron, ma la terribil faccia
volge e sì del suo piè la fuga è lenta
che fa spesso fuggir chi ‘l segue e caccia
e per forza mortal non si sgomenta;
ancor cedendo il fier pugna e minaccia
e spaventato in vista altrui spaventa
e fugace e seguito e combattuto
è tal che ‘l suo timore anco è temuto.
127
Gli entra un pensier pur tuttavia fuggendo
barbaro nela mente e desperato.
Di perder certo né soffrir potendo
ch’altri abbia a posseder l’acquisto amato,
punto da gelosia, torna correndo
ala grotta ove dianzi ei l’ha lasciato
e viene insu la bocca allora allora
ad incontrar la misera Filora.
128
Filora insu l’entrar del cavo speco
guidollo a ritrovar crudo destino
e dal’ombre abbagliato e fatto cieco
dal furor dela rabbia e più del vino,
del vin, che tolto a un navigante greco
bebbe quel dì soverchio il malandrino,
prestando fede al femminil arnese,
in cambio di Licasta egli la prese.
129
Senz’altro dire allor la spada strinse
e nel bel seno il perfido l’ascose
e ‘l vivo latte arrubinando tinse
di calde porporette e rugiadose.
Degli occhi il lume in un balen s’estinse
e dele guance impallidir le rose.
Ella giacque gemendo e senza moto
lasciò l’anima ignuda il corpo voto.
130
Ciò fatto qual pietoso angue d’Egitto
ch’uccide altrui poi si lamenta e dole,
tra sestesso piangendo e forte afflitto
del suo ecclissato e tramontato sole,
in un vicin sepolcro il vel trafitto,
già de’ regi di Cipro antica mole,
prestamente trasporta e quivi il serra,
poi con rabbia maggior ritorna in guerra.
131
Torna di pieno corso ove distrutta
vede sua gente e ratto oltre si spinge.
Trova Orgonte che ‘n vista orrida e brutta
di quel sangue villan la terra tinge,
e dal pome ala punta ha rossa tutta
quella ch’al fianco s’attraversa e cinge,
laqual tra i foschi orror rassembra quella
che vibra in ciel la procellosa stella.
132
Trovata avea pur dianzi al muro appesa
de’ capelli d’Adon l’aurea catena
e ‘n pegno di vendetta al’alta offesa
per un messo mandata a Falsirena.
Or seguitando l’ostinata impresa
vien per la via ch’ala spelonca il mena
né lascia in pago de’ suoi molti estinti
d’insuperbir, d’incrudelir ne’ vinti.
133
Ed ecco in Malagor quivi s’abbatte
che ‘l piè rivolge dal’infausta buca
e ben di quelle squadre omai disfatte
chiaramente comprende essere il duca.
Quei gli s’aventa allor di fianco e ‘l batte
d’un gagliardo mandritto insu la nuca,
ma la tempra del’elmo adamantina,
manda in pezzi la spada ancorché fina.
134
Spezzato, il ferro al suol cade, e reciso,
e sol l’impugnatura in man gli resta.
Ride il gigante, ma somiglia il riso
di cometa crudel luce funesta:
un Mongibello ha di faville in viso;
alza la sua, poi nel ferir l’arresta
e dice: – Or or di noi vedrem la prova
chi con polso migliore il braccio mova.
135
Ma pria che ‘n polve ben minuta e trita
io mandi l’ossa e dia la polve al vento,
se mi dirai dov’è colei fuggita
ch’io son più giorni a seguitare intento,
esser potrà ch’a toglierti di vita
alquanto il furor mio caggia più lento. –
Malagorre a quel dir contro la guancia
del brando rotto il manico gli lancia.
136
Ed oltracciò fra l’indice e ‘l mezzano
per beffa il primo dito in mezzo accolto,
stendendo verso lui la destra mano,
gli dice: – Or togli! – e sputagli insu ‘l volto.
Per torre indi un forcon si cala al piano
e perché teme intanto esserne colto,
solleva il moncherin dela sinistra
dele difese sue debil ministra,
137
che ‘ncontro a quel furor tremendo e crudo
schermo non è ch’a ricoprire il vaglia,
né gli varria s’avesse anco per scudo
di triplicato bronzo ampia muraglia.
Già piombando d’Orgonte il ferro ignudo
tutto per mezzo l’osso il braccio taglia;
rotto l’arnese poi che lo ripara
sovra l’omero scende e ‘n due lo spara.
138
Non bel concerto di dentato ingegno
misurator del tempo unqua si vide
mentre il girar con infallibil segno
e del’ore e del sol mostra e divide,
se talvolta gli stami ond’han sostegno
i suoi pesi piombati altri recide,
del volubile ordigno a un punto immote
fermar sì ratto le correnti rote,
139
come, poich’al fellon tronco e repente
dal ferro il filo a cui la vita attiensi,
perdon la forza i nervi immantenente,
mancano al core i moti, al corpo i sensi,
lasciano estinta ogni virtù vivente
del’estremo dolor gli eccessi immensi,
caggion le membra e l’alma si dissolve
e i languid’occhi ombra mortale involve.
140
Morto il ladron, la cavernosa pietra
ricerca Orgonte e nulla entro vi scerne.
Non però dal’inchiesta il passo arretra
e innanzi va per qualch’indizio averne.
Passa il primo sogliar, ma non penetra
nela seconda dele due caverne
ch’oltre il gran muro che ‘l cammin gli chiude
un’altro inganno il suo pensier delude.
141
Il buon motor dela seconda stella
che sa ben dove il giovane si cela,
per sottrarlo al gran rischio, Aracne appella,
ch’ordisce in un momento estrania tela
e con meravigliosa arte novella
s attraversa per mezzo e ‘l varco vela,
e ‘l vel sì dense ha le sue fila industri
che par tessuto già di molti lustri.
142
Orgonte che ‘l lavor ritrova intero
né sa l’aguato del’occulta via
né creder può ch’alcun per quel sentiero
senza stracciar le reti entrato sia,
del’antro fuor fuliginoso e nero
ritorna indietro e pur ricerca e spia.
Lo circonda, lo squadra e lo misura
fin dove a sboccar va l’altra fessura.
143
Una misera vecchia appo il forame
ch’esce a quest’altra banda in terra siede,
dove d’api selvagge un folto essame
ronzando intorno ir e tornar si vede.
A costei, che ‘l ritratto è dela fame,
del fugace garzon novelle chiede;
a costei, ch’è sì scarna e contrafatta
che di radici d’arbori par fatta.
144
Trema e con un parlar confuso e roco
non rende per timor chiara risposta,
senon ch’al fiero Orgonte addita il loco
dov’è sbucata la sassosa costa,
la cui bocca di fuor si scorge poco,
tutta fra bronchi e lappole nascosta.
Quegli allor la rincalza e minacciando
dritto le pone insu la vista il brando.
145
Ella il cui spirto languido e meschino
debilmente reggea le membra lasse,
apena il ferro folgorar vicino
vide, che senza pur ch’ei la toccasse,
dal’insolito lampo e repentino
mortalmente atterrita, un grido trasse
e fuor del petto essangue e spaventato
di subito essalò l’ultimo fiato.
146
Per farne scherno allora, un con la ronca
d’umano sangue ancor macchiata e sporca
d’una rovere annosa il ramo tronca
sich’a guisa d’uncin s’incurvi e torca
e ben acconcia a lato ala spelonca
col suo groppo corrente e fune e forca
v’appende e pender lascia, orrido pondo,
dela povera vecchia il corpo immondo.
147
Tien certo che là dentro Adon s’appiatti
Orgonte e pensa pur come lo scopra,
vassene al buco ove gran tempo fatti
han l’api industri i casamenti sopra.
Fa che ciascun de’ suoi la zappa tratti
e chi la pala e chi la marra adopra,
stromenti che quel dì, dopo i lavori,
quivi lasciati avean gli agricoltori.
148
Le pecchie allor ch’a lavorare il favo
stavano travagliando entro i covili,
quando picchiar sentiro il sasso cavo
da vomeri, da vanghe e da badili,
s’aventaro alo stuol perverso e pravo
con spine acute e stimuli sottili
e con tal furia e tanta stizza usciro
che n’uccisero molti e ne feriro.
149
Ma quantunque salvatiche e superbe
trafigessero lor le mani e ‘l volto,
il mal però dele punture acerbe
appo il danno maggior non parve molto.
Sparsesi il mel che di pestifer’erbe
e di fior velenosi era raccolto
e quei che da’ ladron non fur distrutti,
gustando quel licor, moriron tutti.
150
Orgonte sol, vie più che mai feroce,
passa ove l’erba il gran pertugio occupa
e fa d’orrenda e formidabil voce
la voragin sonar profonda e cupa.
Ma giunto al guado occulto entro la foce
del ruinoso baratro dirupa
e con scoppio terribile e rimbombo
vien d’alto ingiù precipitando a piombo.
151
Non la bombarda, eccesso de’ tormenti,
non il monton cozzante e furibondo,
non il furor de’ più crucciosi venti,
non il fragor del’ocean profondo,
non il fulmin terror degli elementi,
non il tremoto scotitor del mondo,
non d’Etna o d’Ischia il fremito e ‘l fracasso,
si pareggia al romor che fè quel sasso.
152
Cadde, e con tal subbisso in giù portollo
il grave peso dele membra vaste,
che fiaccandosi in pezzi il capo e ‘l collo,
l’ossa tutte lasciò lacere e guaste.
Ditelo voi, se vi crollaste al crollo,
selve, e voi, fere, se ‘l covil lasciaste,
se lasciaste per tema augelli il nido
al suon dela caduta, al tuon del grido.
153
Parve tuono il suo grido e parve telo
e con strepito tal l’aure percosse
che sparso il cor di timoroso gelo
dal suo gran seggio il gran motor si mosse,
temendo pur non dala terra il cielo
fuor d’ogni usanza fulminato fosse.
Tremaro i poli al’impeto soverchio
né stette saldo il sempr’immobil cerchio.
154
Ed ecco alfine il fin, prendete essempio
temerari superbi! a cui soggiace
l’alterigia mortal, che giusto scempio
dal ciel aspetta, e l’insolenza audace.
Cadde e caduto ancor mostrò quest’empio
segni d’ira arrogante e pertinace:
con atti di furor, non di cordoglio,
minacciando spirò l’ultimo orgoglio.
155
Adon fra questo mezzo era assai prima
campato fuor del periglioso varco
perché, veggendo scintillar dal’ima
parte le stelle ove s’apria quell’arco,
asceso dela volta insu la cima,
il passo si spedì leggiero e scarco
e, malgrado de’ rubi e del’ortiche,
al termine arrivò dele fatiche.
156
Uscito fuor di tenebre e di grotte,
mosse ai passi dubbiosi i piè tremanti,
né molto andò per quelle balze rotte
che sentì gente caminarsi avanti
e vide, perché chiara era la notte,
per la strada medesma andar tre fanti
e ‘l primo innanzi ai duo, sicome duce,
portava in cavo ferro ascosa luce.
157
Furcillo era costui, che posto cura
quando da Malagor sepolta fue,
venia Filora a trar del’urna oscura
per cupidigia dele spoglie sue.
Or tosto ch’ad aprir la sepoltura
fu giunto il ladroncel con gli altri due,
la lapida levar che la copria
e ‘l cadavere suo ne portar via.
158
Per mirar meglio Adon ciò che n’avegna,
ritratto in parte a’ suoi nemici ignota,
nel’arca istessa ascondersi disegna
che restò mezzo aperta e tutta vota.
Ma mentre che nel marmo entrar s’ingegna
fa che caggia il coverchio e ‘l suol percota;
a quel romor color ch’innanzi vanno,
lascian la preda ed a fuggir si danno.
159
– Tempo è via da scampar, gente vien dietro,
marcia Scatizzo, sbrigati Brigante! –
Con questo dire il misero feretro
gittando a terra, accelerar le piante.
Vassene scorto allor per l’aer tetro
dala candida face e lampeggiante
e trova Adon la sventurata donna
sanguinosa, trafitta e senza gonna.
160
Un de’ ladron, da troppo ingorda voglia
spinto, quando posò le belle some,
fuorché l’ultimo lino ogni altra spoglia
tolta in fretta l’avea, non so dir come.
Ben ei conosce, e n’ha pietate e doglia,
ale fattezze, al viso ed ale chiome
Filora esser colei, né sa in che guisa
chi sia quel crudel che l’abbia uccisa.
161
Dal freddo cerchio dela dea di Cinto
una corda di luce in terra scende
e dritto là dov’è il bel corpo estinto
quasi linea d’argento il tratto stende;
onde, d’atro livore il ciglio tinto,
veder ben può, sì chiaro il lume splende,
e nel volto già candido e vermiglio
solo fiorir senza la rosa il giglio.
162
Vorria pietoso Adon del duro caso
risepelir quelle bellezze spente,
ma da portarle entro ‘l marmoreo vaso
forze non ha, né ‘l tempo anco il consente.
Non vuol però ch’ignudo ivi rimaso
il corpo dela giovane innocente,
poiché cibo ale fere in terra il lassa,
sia scherno ancora al peregrin che passa;
163
e perch’omai che raccorciato ha il crine,
vano stima il celarsi in altra veste,
depon le spoglie lunghe e peregrine
e la vergin real copre di queste.
Dopo l’ufficio pio, partendo alfine
e stillando dal cor lagrime meste,
poich’onorarla allor non può di fossa,
prega requie alo spirto e pace al’ossa.
164
Partito apena Adon, Ciaffo v’arriva,
un de’ più bravi e più temuti cani
che mai d’Irlanda insu l’algente riva
prodotto fusse o pur tra i monti Ircani.
Lo scelse Malagor, che lo nutriva
tra ben cento molossi e cento alani
e ne’ suoi ladronecci empi e malvagi
ale morti avezzollo ed ale stragi.
165
L’avea già contro al’aversaria schiera
con intrepido ardir quel dì seguito
e riportò dala battaglia fiera
di due punte di spiedo il sen ferito.
Nel sangue umano era incarnato ed era
rabbiosissimamente inferocito
ed or venia con queruli ululati
cercando il suo signor per tutti i lati.
166
Tosto, che stesa al pian, col volto in suso,
vide giacer la misera donzella,
sbarrando i ringhi e distendendo il muso,
inchinossi a lambir la faccia bella;
e come a tai vivande assai ben uso
il capo tutto divorò di quella
e poiché l’ebbe a pien mangiato e guasto
la bocca sollevò dal fiero pasto.
167
Mentre nel bianco vel forbisce e netta
l’orrenda lingua e la spietata zanna,
ecco su la sbranata giovinetta
giunge Filauro e per error s’inganna.
L’orme seguendo dela sua diletta
trova il crudo mastin che la tracanna.
Così pensò schernito dala vesta
e dal tronco che scema avea la testa.
168
Imaginò senz’alcun dubbio al mondo
Licasta esser colei ch’era Filora,
onde rivolto al’animale immondo
trangugiator dela beltà ch’adora
e rapito dal’impeto iracondo,
un stiletto ch’avea traendo fora,
strozzollo e con mortal colpo improviso
il fè cader sovra l’uccisa, ucciso.
169
Stringendo tuttavia l’acuto stile
il bel busto stracciato ei tolse in braccio:
– Deh! s’ancor per quest’aere, ombra gentile,
voli sciolta (dicea) dal caro laccio,
gradisci il sacrificio, ancorché vile,
ch’oggi col core e con la man ti faccio;
ecco ad offrir due vittime ti vegno,
l’una offerta è d’amor, l’altra di sdegno.
170
L’una è del sozzo can, che ‘l fior m’invola
di beltà tanta in sua stagion più fresca,
il sangue sparso e la scannata gola,
divoratrice di sì nobil esca.
L’altra è l’anima mia ch’a te sen vola:
deh! di teco raccorla or non t’incresca;
accetta il don di questa fragil salma,
mira i pianti, odi i preghi e prendi l’alma. –
171
Disse, e con questo dir nel proprio fianco
sospinse il ferro al suo signor malfido
e ‘l varco aprendo al’egro spirto e stanco
gli ruppe il nodo e lo scacciò dal nido.
Cadde su la ferita e freddo e bianco
languì, dal cor traendo un debil grido,
gual suole in piaggia aprica o in valle ombrosa
languir pampino in vite o foglia in rosa.
172
Tal fu di questi duo l’acerba sorte,
nati insieme ed estinti in sì verd’anni.
Infelici gemelli a cui dier morte
duo trascurati e dispietati inganni;
ambo delpar da destin crudo e forte
per colpa uccisi di fallaci panni.
Ingannò quella altrui, sestesso questi,
e l’una e l’altro alfin tradir le vesti.
173
Adone, il primo autor di tanti mali,
lunge intanto di qua sen va securo.
Stese in alto la notte ha le grand’ali
e fregia il ciel d’un bel sereno oscuro,
quand’ei, già stanco alfin, le membra frali
si risolve a gittar su ‘l terren duro
e presso l’orlo d’un erboso fonte
vassene afflitto ad appoggiar la fronte.
174
Apena in grembo al suol verde e fiorito
alquanto ha per posar china la testa,
ch’ode fra pianta e pianta alto nitrito
e voce mormorar flebile e mesta.
Ecco estranio guerriero a brun guernito
da manca attraversar l’ampia foresta
e ‘l può chiaro veder, ché chiaro intorno
Cinzia già trae fuor dele nubi il corno.
175
Destro vie più di qual più destro augello
preme un destrier l’incognito campione,
moro di stirpe e di color morello,
fiamma al moto somiglia, al pel carbone,
Io non credo che foschi a par di quello
nela quadriga sua gli abbia Plutone.
Sol picciol fregio il bruno capo inalba:
ha nel manto la notte, in fronte l’alba.
176
Ben s’agguaglia al cavallo il cavaliero
che gli preme la sella e regge il freno.
Veste sovr’armi nere, abito nero
che di stelle dorate è sparso e pieno.
Sembra lo scudo fin d’acciaio intero
pur brunito e stellato un ciel sereno.
Là dove un breve appar scritto di fore:
«Assai più che gli arnesi ho nero il core».
177
Su l’elmo, somigliante al’altre spoglie,
di dilicata e nobile scultura
sorge d’un’olmo vedovo di foglie,
schiantato i rami, la divisa oscura,
che, mentre amica vite in braccio accoglie
con vicende d’appoggio e di verdura,
fulmine irato il bel nodo recide
e i suoi dolci imenei rompe e divide.
178
Va per l’ombroso e solitario bosco,
loco al’oscura mente assai conforme,
tutto dentro e di fuor dolente e fosco
de’ suoi vaghi pensier seguendo l’orme.
Posto ha l’ira il cinghial, l’aspido il tosco,
il pastor col mastino o tace o dorme;
sol l’afflitto guerrier sveglia ogni belva
per l’ombre dela notte e dela selva.
179
Scioglie in languidi accenti il freno accolto
ai desperati suoi gravi dolori,
ed al’agil corsier non men l’ha sciolto
che vagando sen va per mille errori.
Sotto il seren, per entro il cupo e ‘l folto,
e de’ notturni e de’ selvaggi orrori,
il corsier via sel porta ed ei che ‘l regge
da chi legge ha da lui prende la legge.
180
Stanco alfin presso il fonte, ove la frasca
è più densa e frondosa, il passo affrena.
Dismonta a terra e pria che ‘l dì rinasca
vuol dar ristoro al’affannata lena.
Lascia ch’a suo diletto a piè gli pasca
libero il corridor senza catena,
ché la nova stagion, quantunque acerba,
gli fa stalla la selva e biada l’erba.
181
– Tiranno empio e crudel, come n’alletti
(cominciò poi) con dolci inganni e frodi?
Pace, piacer, felicità prometti
e dai guerre e miserie e lacci e nodi.
Tieni i tuoi servi in forte giogo stretti
e vuoi che prigionier sieno in più modi;
ed ai corpi ed al’anime non doni
altro alfin che legami e che prigioni.
182
Dura prigion che mi contendi e serri
quel sol, che l’altro sol vince d’assai,
ahi quanto è vano il tuo rigor, quant’erri
s’offuscar pensi i suoi lucenti rai.
Fosti oscura spelonca; orche i tuoi ferri
luce sì bella indora, un ciel sarai;
e fora un ciel, se ‘n quell’orrore eterno
penetrasse un suo lampo, anco l’inferno.
183
Voi che chiudete in cavernoso tetto
il mio dolce tesoro, o chiavi avare,
aprite, prego, e poi m’aprite il petto,
quell’uscio sordo ale mie voci amare:
ond’egli riveder l’amato oggetto
torni del sole, io dele luci care,
luci che più di voi fide e soavi
son del mio core e carceriere e chiavi.
184
Ferri spietati che que’ lumi belli
sotto tenebre indegne avete ascosi
per cancellar con rigidi cancelli
di celeste beltà raggi amorosi,
s’ai fedeli d’amor siete rubelli,
se sdegnate ascoltar preghi amorosi,
crudel quella fucina e quel terreno
che vi temprò, che vi raccolse in seno.
185
Che non cedete omai libero il loco
di chi vi prega al fervido desio?
O come a tanto e sì cocente foco
ancora intenerir non vi vegg’io?
Concedetemi almen che pur un poco
possa l’esca appressar del’ardor mio.
Poi di voi faccia, io son contento, Amore
e catena al mio piede e spada al core. –
186
Qui tacque e risalir volse in arcione
l’aventurier dal’armatura bruna,
perché vide non lunge il vago Adone
al balenar dela sorgente luna;
e stretto il ferro avea contro il garzone
la cui vista gli fu troppo importuna
e si sdegnò che lamentar l’udisse:
senon ch’egli il prevenne e così disse:
187
– Uopo qui non vi fia di brando o d’asta
signor, giostra non vo, guerra non cheggio;
cheggio pace e pietà che ben mi basta
se con Fortuna e con Amor guerreggio.
Chi con Fortuna e con Amor contrasta,
che può da Marte mai temer di peggio?
Lasso, che con altr’armi e d’altra sorte
per man d’altra guerrera ebbi la morte.
188
Egli m’ha ben di sì pietosa cura
vostro dolce languire il core impresso,
ch’io saprei volentier di questa dura
amorosa tragedia ogni successo.
Qual talento, qual forza o qual ventura
vi desvia dale genti e da voi stesso?
Ch’io, che non son da simil laccio sciolto,
gli affanni altrui non senz’affanno ascolto.
189
E tanto più del’ascoltate pene
forte a pietà m’intenerisco e movo
che ‘l nostro stato si confà sì bene
ch’udendo i vostri, i dolor miei rinovo.
Di ceppi e ferri e carceri e catene
(s’io ben comprendo) a ragionar vi trovo.
Ed anch’io tra prigioni e sepolture
di loco in loco ognor cangio sciagure.
190
Questo amarvi non solo e reverirvi
mi fa, quantunque incognito e straniero,
ma la persona istessa anco offerirvi
quando pur non abbiate altro scudiero.
Saprò con pronto affetto almen servirvi,
tenervi l’armi anch’io, darvi il destriero.
Chi porta ognor tante saette al fianco
una lancia portar potrà ben anco. –
191
A questo favellar cortese e pio,
a quella egregia e signoril presenza,
il guerrier placò l’ira e ne stupio
mirando di beltà tanta eccellenza;
né men ch’egli di lui, venne in desio
d’averne a pien contezza e conoscenza
e gli occhi intento ne’ begli occhi affisse
pensando pur chi fusse, onde venisse.
192
L’armi depose e gli rispose: – Amico,
poiché tanto ti preme il mio lamento,
non vo tacerlo, ancorché quant’io dico
tempri no, ma rinfreschi il mal ch’io sento,
con la membranza del diletto antico,
dissi diletto e devea dir tormento
ché non ha doglia il misero maggiore
che ricordar la gioia entro il dolore.
193
Gir così solo e sconsolato errando
dura del ciel necessità mi face;
degli altri lunge e da mestesso in bando
non vo però senza conforto e pace.
Son discepol d’Amore, e contemplando
filosofar co’ miei pensier mi piace
ch’a chiunque d’amor s’afflige e lagna
l’istessa solitudine è compagna.
194
Ma se l’istoria amara e lagrimosa
pur d’intender ti cal, conta ti fia
e stupir ti farà quanto vuol cosa
ch’altrui pietate e meraviglia dia.
Finché ‘l dì sia vicin, meco riposa,
poi sorgeremo e parlerem per via,
ché, bench’uopo al mio affar non sia d’aiuto,
né compagnia né cortesia rifiuto. –
195
Ciò detto, in riva al fonte ambo posaro,
l’un si fè seggio un tronco e l’altro un sasso
e quei verso il donzel che gli era al paro
levato alquanto il viso umido e basso,
dopo la tratta d’un sospiro amaro
che ‘l profondo dolor ruppe in – ahi lasso! –,
finalmente allargò per lungo corso
in questa guisa ala favella il morso:
196
– Sul mar d’Assiria infra duo porti siede
Sidon, la terra ov’io mi nacqui in prima.
Il mio gran genitor tutto possiede
tra Cilicia e Panfilia il fertil clima.
Sidonio, de’ Fenici unico erede
son io, che salsi ala gran rota in cima;
ma caddi in breve e i fior del mio gioire,
misero, si seccaro insu l’aprire.
197
Giunt’era il festo di quando tra noi
l’idol crudel si riverisce e cole,
quando non pur con gli abitanti suoi
onorar sì gran festa Egitto suole,
ma Siria e Saba e dagli estremi Eoi
vien l’indo e ‘l perso ala città del sole;
città vera del sol, tra le cui mura
abitava quel sol che ‘l sole oscura.
198
A celebrar quel memorabil giorno
peregrin sconosciuto anch’io ne venni;
nel ricco tempio e di bei fregi adorno,
fra le turbe confuso, il piè ritenni.
Ed ecco, fuor del suo real soggiorno
Argene uscir con pompe alte e sollenni,
movendo a visitar, com’è costume,
da gran popol seguita, il fiero nume.
199
Era Argene di Cinira sorella
che fu già di quest’isola signore.
Costei, poiché del bando udì novella
che chiamava alo scettro il successore,
precorse ogni altro e qua sen venne anch’ella
ambiziosa del reale onore;
ma, pria ch’uscisse il generale editto,
nel tempo ch’io ti dico, era in Egitto.
200
Fu maritata al principe Morasto,
udito ricordar l’avrai talvolta.
Ma la cara union del letto casto
fu poi per morte in breve spazio sciolta.
Pianse il nodo gentil reciso e guasto
vedova acerba in brune spoglie avolta,
né di lui le restò fuorché sol una
pargoletta real, progenie alcuna.
201
Leggiadra è la fanciulla a meraviglia
e vie più ch’altri imaginar non pote,
siché l’esser erede unica e figlia
d’un sì gran rege è la minor sua dote:
vergin di bianco sen, di brune ciglia,
di bionde chiome e di purpuree gote;
mira la fronte, ivi tien corte Onore,
volgiti agli occhi, ivi trionfa Amore.
202
La novella infelice a lei pervenne,
ch’ucciso in campo il re fu di mia mano.
Lungo a dir fora in qual battaglia avenne
l’orribil caso onde mi dolsi invano:
no ‘l conobb’io, ché sott’altr’armi venne
e guerrier lo stimai privato e strano.
Ma sempre in guerra e tra l’armate schiere
lice, comunque sia, ferir chi fere.
203
Prese da indi in poi sempre che l’anno
rinova il dì dela memoria mesta
in testimonio d’un sì grave danno,
quasi insegna terribile e funesta,
a dispiegar publicamente un panno
ch’è del re morto la sanguigna vesta,
per irritar ancor la giovinetta
204
con quel drappo vermiglio ala vendetta.
Deve il gran tempio forse esserti noto,
ala Vendetta edificato e sacro,
dove suol venerar con cor devoto
dela dea sanguinosa il simulacro.
Su i negri altari ha quel dì stesso in voto,
sparger di sangue uman largo lavacro;
e i vassalli miei cari, i servi miei
son l’ostie che sacrifica costei.
205
Così fin da quel dì giurato avea
che del re sposo suo la morte intese;
così promise al’implacabil dea
per l’oltraggio emendar di chi l’offese;
né questa legge rigorosa e rea
fra giamai cancellata in quel paese,
finché di farlo alfin le sia concesso
col sangue ancor del’omicida istesso.
206
L’altera donna, accioch’ognun si mova
tratto dal’esca de’ soavi inviti,
la figlia ch’è sì bella e che si trova
su la verdura ancor de’ dì fioriti,
benché cento di lei bramino aprova
potentissimi regi esser mariti,
promise in guiderdon solo a chi questa
mi troncherà dal busto odiata testa.
207
Venne al delubro dispietato e crudo
la cruda Argene e scese entro la soglia.
Sostenea nela destra un ferro ignudo,
nera e spruzzata a rosso avea la spoglia.
Seco era quella per cui tremo e sudo,
Dorisbe, la cagion d’ogni mia doglia,
che seguia pur del barbaro olocausto
l’apparecchio inumano e ‘l culto infausto.
208
Deh! perché la cagion de’ primi pianti
rammento? e sveglio pur gl’incendi miei?
Poco destra fortuna ai riti santi
in forte punto, oimé, trasse costei.
Vinti da’ frati allor, dolce spiranti
furo i fumi odoriferi sabei
e presso ai lampi dele vive stelle
tramortiro le lampe e le facelle.
209
Al folgorar del rapido splendore
arsi e rimasi abbarbagliato e cieco.
Pur cieco io vidi in quel bel viso Amore
ed avea l’arco e le quadrella seco.
«Fuggi, gridar volea, fuggi, o mio core»,
ma m’avidi che ‘l cor non era meco,
ch’era volato, ahi pensier vani e sciocchi!
a farsi prigionier dentro i begli occhi.
210
Or qual securo asilo o qual magione
fia che vaglia a sottrarne ai lacci tui,
se fin ne’ sacri alberghi, Amor fellone,
persegui i cori ed incateni altrui?
Quindi da’ tuoi ministri a ria prigione,
sacrilego crudel, condotto io fui,
né dal tuo nodo ingiurioso ed empio
valse allor punto ad affidarmi il tempio.
211
Erano già le cerimonie in punto,
il coltello e l’incendio in ordin messo
e l’ministerio abominabil giunto
al’altar funeral molto dapresso;
lavorato l’altare era e trapunto
d’un drappo bruno a tronchi di cipresso;
grand’urna alabastrina eravi suso
che tenea di Morasto il cener chiuso.
212
In cima al’ara con sembianze orrende,
tutto armato d’acciar, d’acciar scolpito
dela Vendetta il simulacro splende,
stringe un pugnale e sì si morde il dito.
Vermiglia fiamma il lucid’elmo accende,
fiero leon le giace a piè ferito,
ch’ala ferita ov’è confitto il dardo
fiso rivolge e minaccioso il guardo.
213
La reverente e supplice reina
colà dove la statua in alto appare
le luci alzata e le ginocchia china
umilmente spargea lagrime amare;
io, fatto intanto ala beltà divina
del bell’idolo amato il core altare,
fuor del foco traea de’ miei desiri,
quasi incensi fumanti, alti sospiri.
214
Mentre che tutto al sacro ufficio inteso
fiero tributo ala severa diva
il sacerdote entro il gran rogo acceso
la sviscerata vittima offeriva,
io, di ben mille strali il petto offeso,
sbranato il core ed arso in fiamma viva,
idolatra fedele, ala mia dea
sacrificio del’anima facea.
215
Poiché l’impure fiamme il sangue estinse
che dale vene un sventurato aperse,
coltolo in vasel d’or, la man v’intinse
Argene e ‘l marital cener n’asperse.
Poi, chiamandolo a nome, il brando strinse
e l’estremo del ferro entro v’immerse.
Confermò ‘l voto e pianse; alfin di lei
cessaro i pianti e cominciaro i miei.
216
D’Eliopoli a Menfi, ov’è la sede
principal dela reggia e ‘l maggior trono,
riede la corte e la reina riede:
io l’accompagno e mai non l’abbandono.
Seguo colei che, come il core, il piede
tragge a sua voglia, onde più mio non sono.
Patria non curo e, fatto egizzio anch’io,
per la fenice mia Fenicia oblio.
217
La fama intanto a dissipar si viene
che crear qui si deve il re novello,
onde d’Egitto alfin si parte Argene
e con seco ne trae l’idol mio bello
e passa a Cipro e ‘n Pafo si trattiene;
quivi dimora entro il real castello;
ed a gran volo di spalmato legno
tosto a Cipro ed a Pafo anch’io ne vegno.
218
D’un guardo almen, d’un detto (altro non cheggio)
cheggio appagar l’innamorate voglie.
Volgo mille pensier; ma che far deggio
se parlarle e mirarla il ciel mi toglie?
Modo trovar non so, mezzo non veggio
da dar picciol conforto a tante doglie
o come a conseguirne il fin bramato
recar mi possa agevolezza il fato.
219
Lasso, ad amar la mia nemica istessa
quella ch’a morte m’odia, io son costretto,
quella che ‘n virtù dee di sua promessa
il mio capo pagar col proprio letto.
Grande è il periglio; ahi! che farò? Con essa
di scoprirmi non oso e ‘ndarno aspetto.
Se conosciuto son, non spero aita
e la speranza inun perdo e la vita.
220
Del ben vietato il disiderio cresce
tra i difficili intoppi assai più grave
ch’Argene, in cui dipar s’accoppia e mesce
accortezza e rigore, in cura l’have.
Chiusa la tien, siché giamai non esce,
sotto secreta e ben fidata chiave,
né, se non seco sol, mai le concede
libero trar del regio albergo il piede.
221
Come la spica incoronar l’ariste,
come soglion la rosa armar le spine,
così a Dorisbe intorno in guardia assiste
schiere di donne illustri e peregrine
ch’involata la tengono ale viste,
nonché de’ vagheggianti ale rapine.
Pensa s’altro io potea che con lamenti
fastidir l’aure e con sospir cocenti.
222
Amor, ma che non tenta? o che non osa?
Amor, che tutto regge e tutto move,
m’inspirò nel pensier froda ingegnosa,
arti insegnommi inusitate e nove;
Amor, ch’ad onta della dea gelosa
cangiar seppe in più forme il sommo Giove,
Amor stato, sembianza, abito e nome
a mutar mi costrinse e dirò come.
223
Giardin che di frondose ombre verdeggia,
le falde infiora al gran palagio augusto,
là, dove unico varco al’alta reggia
apre in solingo calle un uscio angusto.
Ma cautamente il guarda e signoreggia
il fido Erbosco, un vecchiarel robusto,
del bel verziero, ov’altri entra di raro,
sollecito cultor, custode avaro.
224
Scender assai sovente ivi a diporto
le donzelle di corte hanno per uso,
però che intorno intorno il nobil orto
d’insuperabil muro è tutto chiuso.
Qui da stella benigna a caso scorto,
qui di stupor, qui di piacer confuso
passando un dì, mentre il villan n’uscia,
io vidi spaziar l’anima mia.
225
Soviemmi tosto un amoroso inganno,
sembiante e qualità trasformo e fingo:
di rotta spoglia e di mendico panno,
fatto vil contadin, mi vesto e cingo;
scingo la spada e, sicom’essi fanno,
grossa e ruvida pala in man mi stringo;
ai rozzi arnesi, al rozzo andar che vede
povero zappador ciascun mi crede.
226
Sotto un cappel di paglia il capo appiatto
ch’ha di vago fagian penna dipinta;
d’aspre lane ho la gonna, aspro sovatto
ricucito in più parti è la mia cinta;
malpolita la fibbia innanzi adatto
che con curvo puntal la tiene avinta;
calzo sordide cuoia e sotto il braccio
con vil corda a traverso un zanio allaccio.
227
Porto di marche d’oro il zanio pieno
con cui velar l’ardita astuzia intendo;
di gemmate vasella ancor non meno
e di vezzi di perle un groppo prendo;
soletto poi con queste cose in seno
l’aprir del’uscio insu la soglia attendo;
ed ecco in breve uscir quindi vegg’io
il giardinier del paradiso mio.
228
Fommigli incontro e dico: «Ascolta quanto
a commun pro per ragionar ti vegno
ed a queste parole, ond’io mi vanto
gran ventura ottener, volgi l’ingegno.
Miser, tu sudi a procacciarti intanto
ala vita cadente alcun sostegno,
e ‘l ben non sai, né curi, onde trar puoi
fortunata quiete agli anni tuoi.
229
Tu dei saver che colaggiù sotterra
nel’orticel ch’a coltivar t’è dato
prezioso tesor s’asconde e serra,
ma da forza invisibile guardato.
Temendo il fin d’una dubbiosa guerra,
dove poi giacque ala campagna armato,
le sue più scelte e più pregiate cose
un’antico re vostro ivi ripose.
230
Rivelato han gli spirti a un indovino
che di rilievo d’or v’ha dentro chiuse,
inghirlandate di smeraldo fino
intorno al saggio dio tutte le Muse,
col cavallo che trae dal caballino
acque d’argento in bel ruscel diffuse,
ed elle di mirabili ornamenti
han gli abiti fregiati e gli stromenti.
231
E che Demogorgon v’è con le fate
sovra un dragon che non ha prezzo al mondo
pur di massiccio intaglio effigiate
di quel metal ch’è più pesante e biondo,
di gran serti di perle i colli ornate,
da diligente man ridotte in tondo;
e tutte compassati han di gioielli
branchigli al seno ed ale dita anelli.
232
Tengo di tutto ciò minuto conto
peroché ‘l negromante esperto e saggio
ch’a Cipro a questo fin venia di Ponto
a caso riparò nel mio villaggio;
e pago d’un voler cortese e pronto,
mentre infermo giacea dal gran viaggio,
lasciollo in scritto e, miser peregrino,
pose meta ala vita ed al camino.
233
Io poi le note incantatrici e l’arti
del gran secreto ho dal suo libro apprese
e qua ne vengo da remote parti
per porlo in opra e farlo a te palese.
Se di stato sì basso ami levarti,
s’hai punto ad arricchir le voglie intese,
meco, credimi pur, farti prometto
felice possessor di quanto ho detto.
234
Prendi nel crin l’Occasion. Ben sai
la fortuna servil quanto è molesta.
Lieto e fuor di disagio almen vivrai
l’ultima età che da varcar ti resta.
Nel giardino real dove tu stai,
altro non voglio, l’adito mi presta
e nol voglio però senon sol quanto
d’uopo mi fia per esseguir l’incanto».
235
Sì dissi e dissi il ver, ché ‘l mio tesoro
vero e la vera mia somma ricchezza
era sol di colei ch’io sola adoro
l’infinita ineffabile bellezza.
I zaffiri, i rubin, le perle e l’oro
conquistar del bel volto avea vaghezza
e vie più ch’altro di quel cor costante
spetrar l’impenetrabile diamante.
236
Con crespa fronte e curve ciglia immote
stupido, al mio parlar diede l’orecchio,
gli atti osservando e le fattezze ignote
il semplice e d’aver cupido vecchio.
«Quando veraci sien queste tue note
(rispose) a compiacerti io m’apparecchio;
né vo’ ch’indugi ad esservi introdotto
se non sol quanto a Grifa io ne fo motto».
237
Era costei la sua consorte antica,
rigida, inessorabile e ritrosa,
di gentilezza e di pietà nemica,
perfida quanto cauta e dispettosa.
Questa fu la gragnuola insu la spica,
questa la spina fu sotto la rosa,
la Medea, la Medusa e la Megera
che nel’alba al mio dì portò la sera.
238
Parla al’iniqua moglie e seco piglia
partito d’abbracciar sì ricca sorte.
La vecchia a ciò lo stimula e consiglia,
l’ingordigia del’or l’alletta forte
e, di Fortuna avara ignuda figlia
Povertà, fa ch’alfin m’apra le porte.
Così di por le piante entro le mura
del loco aventuroso ebbi ventura.
239
Cloridoro pastor chiamar mi volli,
e d’Erbosco figliuol fingermi elessi
che da’ campi d’Arabia aprici e molli,
dove pasciuti i regi armenti avessi,
ale case paterne, ai patrii colli
dopo molti e molt’anni il piè volgessi.
Ne fan festa i duo vecchi e lieto il ciglio
mostrano altrui del ritornato figlio.
240
Ma qual ne’ petti lor poscia s’aduna
vero piacer quand’amboduo presenti
dentr’ampio cerchio insu la notte bruna
comincio a sussurrar magici accenti.
Alzo gli occhi ale stelle ed ala luna,
poi mi raggiro a tutti quattro i venti
e vibrando con man verga di legno
caratteri e figure in terra io segno.
241
Segni efficaci no; Colco o Tessaglia
nel’infernal magia non mi fè dotto.
Fui sol da Amor, cui nessun mago agguaglia,
vani scongiuri a mormorar condotto.
Gran coppa d’oro, il cui splendore abbaglia,
da me dianzi celata era là sotto.
Questa donata ai vecchi aurea mercede
fu degl’incanti miei la prima fede.
242
«Questa (diss’io) se ‘l ciel mi mostra il vero
del’occulto tesoro è poca parte,
peroch’a poco a poco e non intero
quinci a trarlo in più volte insegna l’arte.
Conviemmi a far perfetto il magistero
intanto osservar punti e volger carte.
Di più lune è mestier pria che si scopra».
E ciò dicea sol per dar tempo al’opra.
243
Non molto va ch’al dilettoso parco
Dorisbe bella a passeggiar ritorna
e rende d’aurei pomi il grembo carco
e d’intrecciati fior le trecce adorna.
Io giuro per lo stral, giuro per l’arco
di que’ begli occhi dov’Amor soggiorna,
ch’io vidi ad infiorar l’orme amorose
non so per qual virtù nascer le rose.
244
Ala beltà ch’è senza pari al mondo,
il finto genitor mi rappresenta.
La man le bacio e in un sospir profondo
vien l’alma fuor, ma poi d’uscir paventa.
Molto mi chiede e molto le rispondo,
salvo sol la cagion che mi tormenta,
ch’oltre il gran rischio ilqual mel vieta e nega
colui che lega il cor, la lingua lega.
245
Spesso le luci in lei con dolce affetto
furtivamente innamorate giro
e tal, quantunque breve, è quel diletto
che mi fa non curar lungo martiro;
anzi il bramato e sospirato oggetto
più desio di mirar quanto più miro;
né giamai torno a rimirarla ch’ella
non paia agli occhi miei sempre più bella.
246
Non già serici arazzi ornan le mura
del bel giardin né d’or cortine altere,
ma tapezzate d’immortal verdura
veston d’aranci e cedri alte spalliere,
le cui cime intrecciando era mia cura
bizzarie fabricar di più maniere
e di fronde e di foglie e frutti e fiori
componea di mia man cento lavori.
247
Talor lungo l’alee degli orti aprici
rete tessea di mirto o di ginestra
e l’Industria, ch’è scorta agl’infelici,
in tal necessità m’era maestra.
Ma che valeami in sì fatti artifici
per minor doglia essercitar la destra,
s’ovunque d’ognintorno io mi volgessi
m’apparian di dolor sembianti espressi?
248
S’al’erbe, ai fior volgea quest’occhi lassi,
il numero vedea de’ miei dolori.
Se la vista girava ai tronchi, ai sassi,
scorgea del duro cor gli aspri rigori.
Se per l’ombrose vie drizzava i passi,
riconoscea del’alma i ciechi errori.
Se mormorar sentia tra’ rami i venti,
mi sovenia de’ miei sospiri ardenti.
249
Se per bagnar i fior ne’ caldi estivi
solea, con studio ala cultura intento,
tirar divise in canaletti e rivi
dal bel fonte vicin righe d’argento,
i torrenti profondi, i fiumi vivi
che scaturian dal mar del mio tormento
le torbid’onde de’ perpetui pianti
che pioveano dal cor m’erano avanti.
250
S’ad inocchiar quell’arboscel con questo
movea l’accorta e diligente mano
per copular sotto ingegnoso innesto
a virgulto gentil germe villano,
mi parlava il pensier languido e mesto
e mi dicea: «Lo tuo sperar fia vano,
che non fa frutto amor se non s’incalma
sen con sen, cor con core, alma con alma».
251
Se poi con zappa in man curva e pesante
dala terra talor tenace e molle,
assai miglior ch’agricoltore amante,
sudava a volger glebe, a franger zolle,
la Diffidenza in orrido sembiante
veniami incontro e mi gridava: «Ahi folle,
e qual messe corrai di tua fatica
se dinanzi ala man fugge la spica?»
252
Vie più che prima insu l’erboso smalto
Dorisbe a trastullarsi il dì scendea.
Io fender l’aria con spedito salto
or imitando i satiri solea,
or ben vibrato e ben lanciato in alto
con man leggiera il grave pal movea,
or su i sonori calami forati
per allettarla articolava i fiati.
253
Conobbi intanto a mille segni e mille,
ed espresso il notai più d’una volta,
che s’io l’ardor versava in calde stille
ed avea l’alma in duro laccio avolta,
non era anco il suo cor senza faville
né punto ella però sen gia disciolta;
e vidi ch’egual cambio alfin ne rende
amor che ‘n gentil cor ratto s’apprende.
254
Nela stagion che ‘n ciel s’accende d’ira
il fier leone e scalda il piano e ‘l monte,
quando per dritto fil le linee tira
Febo dala metà del’orizzonte,
sitibonda per bere il passo gira
al margin fresco del tranquillo fonte.
Ed ecco l’ortolan le reca innanzi
l’aureo vasel ch’io gli donai pur dianzi.
255
Il vaso è d’oro e in una ombrosa fratta
d’un bel ruscel su le fiorite sponde
Diana v’ha col suo pastor ritratta
e son rubini i fior, diamanti l’onde.
Di smalti e perle la faretra è fatta,
son di smeraldo fin l’erbe e le fronde.
Duo veltri che dal’orlo il capo tranno,
manico estrano ala bell’urna fanno.
256
Prendo il nappo leggiadro e prima inchino
l’alta mia dea, poi reverente assorgo.
Corro e del fonte terso e cristallino
l’attuffo una e due volte al chiaro gorgo,
indi di molle argento empio l’or fino
e palpitante ala man bella il porgo.
Le porgo il vaso e le presento il core,
acqua le dono e ne ritraggo ardore.
257
Sento in quelche la coppa in man riceve
premermi il dito, il dito anch’io le premo,
ma quasi nel toccar la viva neve
spando a terra l’umor, così ne tremo.
Da’ dolci lumi in me, mentr’ella beve,
raggi saetta di conforto estremo.
Levando alfin le rugiadose labbia
dimanda Erbosco onde ‘l bel vaso egli abbia.
258
Rispondo: «Io fui che ‘n dono ottenni il vase
dal gran signor del’odorata messe,
quando Fauno al cantar vinto rimase,
giudice il re, che vincitor m’elesse,
e ‘l crin di lauro entro le regie case
cinsemi ancor con le sue mani istesse.
E questo il canto fu, s’io ben rammento
ogni numero apunto ed ogni accento:
259
Non son non son pastor, perché mi veggia
sotto manto villan ninfa gentile
premer il latte e pascolar la greggia,
tonder la lana ed abitar l’ovile.
Lasciai per umil mandra eccelsa reggia,
copre pensieri illustri abito vile.
Amor m’ha chiuso in questa rozza spoglia,
ma se cangio vestir non cangio voglia».
260
Con queste note al’unica bellezza
di rossor virginal la guancia sparsi.
Turbar la vidi e vidila gran pezza
tutta sovrapensier sospesa starsi.
Dal mirarmi più spesso, allor certezza
presi e da quel sì subito cambiarsi,
che di quelch’era a dubitar s’indusse
e di quelche bramava anco che fusse.
261
Che quei che fece il genitor morire
quei mi fuss’io, sospezion non ebbe.
Persuadersi un così stolto ardire
potuto in modo alcun mai non avrebbe;
né tal secreto io poi le volsi aprire,
ch’uomo in donna fidar tanto non debbe.
Credeami ben sott’abito vulgare
cavalier di gran guisa e d’alto affare.
262
Erbosco a ciò non ponea mente a cui
or pendente, or monil recando a tempo,
la malizia senil tentava in lui
ciecar con l’oro ed aspettava il tempo.
In me diletto ed utile in altrui
l’amorosa magia nutriro un tempo.
Alfin di quell’amore, ond’era incerto,
argomento maggior mi venne aperto.
263
Mentre, quando più l’aria è d’ombre mista,
sotto color d’incanti a pianger riedo
ed al chiaro oriente alzo la vista
del’amato balcone e qui mi siedo;
odo di voce dolorosa e trista
flebil lamento e poi Dorisbe vedo;
Dorisbe mia, che del ginocchio al nodo
tien le mani intrecciate io veggio ed odo.
264
Uscita sola ala fresc’aura estiva,
abbandonate le compagne e ‘l letto,
stavasi assisa in una pietra viva
al rezzo del domestico boschetto
e dimostrava ben, mentre languiva,
dal sasso istesso indifferente aspetto.
Sotto il velo del’ombre allor nascosto
presso mi faccio e per udir m’accosto.
265
«Datemi tanta pace infra l’oscure
ombre (dicea) di questo fido orrore,
famelici pensier, mordaci cure,
che mi rodete e mi pungete il core,
ch’io possa almen le fiamme acerbe e dure
sfogar col ciel del mio malnato ardore
e dal petto essalar qualche sospiro,
tacito accusator del mio martiro.
266
Che mi val dominar popoli e regni
se di crudo signor serva languisco
e posseduta da desiri indegni
tra le regie ricchezze impoverisco?
Poiché ‘l tuo giogo, Amor, soffrir m’insegni,
ecco al’empia tirannide ubbidisco
e, soggiacendo al duol che mi tormenta,
vivo reina sì, ma non contenta.
267
O ombre, o sogni, o fumi, o d’arid’erba
vie più vili e più frali, onori e fasti,
o di mortale ambizion superba
abissi senza fin voraci e vasti,
s’alcun rispetto Amor vosco non serba
a che più nel mio cor fate contrasti?
Povera signoria, mendiche pompe,
se ‘l corso al bel desio per voi si rompe.
268
Dorisbe, e che ragioni? Insana voglia
come offusca ala mente il lume intutto?
Qual diletto aver può vergin che coglia
d’illeggittimo amor furtivo frutto?
Sai le leggi d’Egitto. Ah! non discioglia
l’anima il freno a desir folle e brutto,
onde tu deggia poi tardi pentita
perder a un punto ed onestate e vita.
269
E vorrai dunque tu che fosti in sorte
a degno eroe per degna sposa eletta,
gir poverella e misera consorte
a pastor rozzo in rozza cappannetta.
Dal palagio al tugurio? ed usa in corte
ad esser donna, a farti altrui soggetta,
celebrando colà tra gli orni e i faggi
nozze palustri ed imenei selvaggi?»
270
Qui dal pianto il parlar l’è tronco a forza
e le parole e i gemiti confonde.
«Ma chi sa, (dice poi) se ‘n tale scorza
alcun famoso principe s’asconde?
Fors’ama e teme e di celar si sforza
le piaghe ch’ha nel cor cupe e profonde.
Così certo pens’io, che chi tropp’ama
creder suol volentier ciò che più brama.
271
Non uom di selva o cittadin di villa
mostranlo altrui le sue maniere e l’opre;
mercenario sudor la fronte stilla,
ma fra stenti e disagi altro si copre.
Qual sol fra lente nubi arde e sfavilla
o per vetro sottil gemma si copre,
tal dela nobil aria in lui la luce
per entro panni laceri traluce.
272
Non villano l’andar, non è villano
il parlar pien di grazia e cortesia;
né quella bianca e dilicata mano
tal, se tal egli fusse, esser devria;
né quel cantar misterioso e strano
senso contien che signoril non sia;
né guadagnato in rustiche contese
quel suo bel vaso è pastorale arnese.
273
Ma che cur’io che quelch’altri non crede
involto stia tra boscherecci panni,
se pur malgrado lor l’anima vede
aperto il core e ‘l core è senza inganni?
Sconosciuto è il fedel, nota la fede,
mente condizion, non mente affanni.
Gli affanni interni in que’ begli occhi io veggo
e i secreti pensier scritti vi leggo.
274
Ciò nella bella fronte impresso e sculto
visibilmente, Amor, tu mi riveli.
Può ben stato real, talora occulto,
celarsi in altri manti, in altri veli,
ma sotto larva di vestire inculto
esser non può giamai ch’Amor si celi,
ché, chiuso in casa il foco, in grembo l’angue
si manifesta alfin con pianto e sangue».
275
E così detto al suol l’umide ciglia
china alquanto e s’arresta e pensa e tace,
poi le leva e l’asciuga, indi ripiglia:
«Che far poss’io s’Amor mi sforza e sface?
È pastor. Siasi pur. Qual meraviglia
se pastore o bifolco anco mi piace?
Amaro ancora in rustica fortuna
Venere Anchise, Endimion la Luna.
276
Come valor non sia né vero pregio
se di porpora e d’oro altri nol segna,
o come altrui non sia tesoro e fregio
virtù per cui si signoreggia e regna.
Spesso alberga umil servo animo regio,
chiude principe eccelso anima indegna.
Perché piacer non dee nobil sembianza
s’oltre l’ufficio il merito s’avanza?
277
Guidar gli armenti a più vil gente or lassi,
che quantunque l’adombri ignobil veste,
maestà mostran gli atti, i guardi, i passi,
degna più di città che di foreste.
La verga imperial meglio confassi
che la selvaggia a quella man celeste.
Corona a quel bel crin, ch’amo ed adoro,
come l’ha di beltà, conviensi d’oro.
278
Pastor gentil, non dee chi frena e regge
personaggio real qual’io mi sono,
trattar gli aratri e governar le gregge,
ma stringer scettro e comandare in trono.
Se puoi tu solo a’ miei pensier dar legge,
il regno accetta e la reina in dono;
e s’aversa Fortuna a ciò contrasta
quel che possiedi in questo cor ti basta.
279
Sì sì, poco mi cal, che può ne segua,
ne verrò teco in solitaria balza.
Ogni disagguaglianza Amor adegua,
ei del natal l’indignitate inalza.
Se si nega al mio mal tanto di tregua
ch’io ti possa seguir discinta e scalza,
lassa, chi fia che tempri il dolor mio?»
Ed io, ch’era vicin, le rispos’«io».
280
Io, ch’agitato da pensier diversi,
udito il tutto avea fra stelo e stelo
pien d’un timido ardir mi discoversi
tremando al foco ed avampando al gelo.
Quivi il cor l’apers’io, ma non l’apersi
di mia fortuna in ogni parte il velo.
Le dissi ben che nobile e reale
era lo stato mio, ma non già quale.
281
Chiamo voi testimoni amici orrori,
fuste voi secretarie amiche piante,
s’altro involai da’ miei modesti amori
che quanto lice a non lascivo amante.
Potea rapire i frutti e colsi i fiori,
ardea di voglia e mi mostrai costante;
e s’ai vaghi desiri il morso sciolsi
del bel volto i confin passar non volsi.
282
Avev’io già per uno e duo scudieri
con note ardenti e di man propria espresse
esposti al re mio padre i casi interi,
presago, oimé, di quel ch’indi successe,
perché di lei con lettre e messaggieri
la pace marital m’intercedesse;
ma col mio ben, cred’io, con la mia speme
per più mai non tornar, partiro insieme.
283
Io per farle talor più chiara mostra
del’esser mio, di lucid’armi adorno,
uscire in piazza e comparire in giostra
con pompose livree soleva il giorno.
La notte poi dentro la regia chiostra
ale paci d’amor facea ritorno;
né che fuss’io, sì sempre io mi celai,
altri, trattane lei, seppe giamai.
284
D’Argene ancor, che seco era sovente,
la conoscenza in questo mezzo io presi
ed un dì che tra’ fior vipera ardente
venia con fauci aperte e lumi accesi
per trafiggerle il piè col crudo dente,
col nodoso bastone io la difesi.
La serpe uccisi e l’obligo che m’ebbe
molto di lei l’affezion m’accrebbe.
285
Spesso da indi in poi tacito e cheto
venia le notti a consumar con ella,
né parte ebbe giamai di tal secreto,
fuorché la fida Arsenia, altra donzella;
così l’ore passai felice e lieto
sotto destro favor d’amica stella,
finché venne a mischiar la vecchia astuta
tra le dolcezze mie, fiele e cicuta.
286
O degli orti d’Amor cani custodi,
vigilanti nel mal, garrule vecchie,
tra’ più leggiadri fior tenaci nodi,
nel più soave mel pungenti pecchie!
Non ha tante la volpe insidie e frodi,
tante luci il Sospetto e tante orecchie,
quante per danno altrui sempre n’ordite,
deh vi fulmini il ciel!, quante n’aprite.
287
Dele mense amorose arpie nocenti,
al riposo mortal larve moleste.
La vita è un prato e voi siete i serpenti,
voi sol d’ogni piacer siete la peste.
Senza turbini il cielo e senza venti,
senza procelle il mar, senza tempeste,
quanto più lieto fora e più giocondo
e senza morte e senza vecchie il mondo?
288
Furie crude e proterve, onde gli amanti
van dele gioie lor vedovi ed orbi;
fantasmi vivi e notomie spiranti,
sepolcri aperti, ombre di morte e morbi.
Perché d’abisso infra gli eterni pianti
terra omai non le chiudi e non l’assorbi?
L’Invidia, credo, sol del’altrui bene
le nutrisce, le move e le sostiene.
289
Grifa, del buon villan l’empia mogliera,
venne fra i nostri amori ad interporsi.
Questa malvagia intolerabil fera
di me s’accese ed io ben men’accorsi,
peroch’a tutte l’ore intorno m’era
or con scherzi noiosi, or con discorsi.
Ridea talora e mi mostrava il riso
voto di denti e pien di crespe il viso.
290
Crespa è la guancia e dal visaggio asciutto
si staccan quasi l’aride mascelle;
grinze ha le membra e nel suo corpo tutto
informata dal’ossa appar la pelle.
Stan nel centro del capo orrido e brutto
fitte degli occhi le profonde celle;
occhi che biechi e lividi e sanguigni
aventano in altrui sguardi maligni.
291
Le giunture ha snodate e mal congiunte,
adunco il naso che ‘n su ‘l labro scende;
sporgon le secche coste in fuor le punte,
sgonfio su le ginocchia il ventre pende;
ciascuna delle poppe arsiccie e smunte
fin al bellico il bottoncin distende;
nela gola il gavocciolo e nel mento
porta la barba di filato argento.
292
Ha chiome irsute, ispido ciglio e folto,
bavose labra, obliqua bocca e grossa,
squallida fronte e disparuto volto
e ‘n somma altro non è ch’anima ed ossa.
Sembra orrendo cadavere insepolto
che fuggito pur or sia dala fossa;
sembra mummia animata, e ‘n tutto sgombra
d’umana effigie, una palpabil ombra.
293
Pensa tu s’io devea per così fatte
fattezze e per sì laido e sozzo mostro
lasciar colei ch’oscura il minio e ‘l latte
e vince al paragon l’avorio e l’ostro.
Ella con vezzi ognor più mi combatte,
io con repulse mi difendo e giostro.
Cangia l’amore alfin, poiché si mira,
nonché sprezzata abominata, in ira.
294
Fusse qualch’atto il dì non ben nascosto
che le svegliò la mente e la riscosse
o pur sotterra il cumulo riposto
di cotant’or ch’a sospettar la mosse
o del’animo perfido più tosto
la natural malignità si fosse,
per ispiar ciò ch’io facessi, avenne
ch’una notte pian pian dietro mi tenne.
295
Tennemi dietro e non so in qual maniera
nel folto del giardin l’insidia tese.
L’ombre splendean, perché la diva arciera
era nel colmo del suo mezzo mese
e ‘l ricco tempio del’ottava sfera
tutte avea già l’auree sue lampe accese.
Qual meraviglia allor se non potei
occultar dal’aguato i falli miei?
296
La vecchia ala reina il fatto accusa,
io repente al mio ben son colto in braccio,
e di vergogna e di timor confusa,
fatta il volto di foco e ‘l cor di ghiaccio,
condur Dorisbe mia legata e chiusa
veggio in altra prigion con altro laccio.
Ma grazie al ciel, che ne’ miei furti audaci
visto non fui rapire altro che baci.
297
«Uccidetemi (dissi) e qual mi fora
più bel morir s’avien che ‘n un mi tocchi,
quando sia pur che per costei mi mora,
lo stral di morte e ‘l raggio de’ begli occhi?
Ma non è alcun de’ rei sergenti allora
che ‘n me spada pur vibri o dardo scocchi.
Crudel pietà, ch’uccidermi non volse
e pur la vita e l’anima mi tolse!
298
Non tanto il proprio mal m’afflige e noce,
seben d’ogni mio ben privo rimango,
quanto il mal di Dorisbe il cor mi coce,
ch’io per me senza lei son fumo e fango.
Te, Dorisbe mia cara, ahi con qual voce
chiamo e sospiro? e con qual occhi piango?
Son queste, oimé, le pompe? oimé, son queste
dele tue nozze le sperate feste?
299
Così dunque cangiar sinistra sorte
può maniglie in manette? anella in nodi?
gli aurei monili in ruvide ritorte?
i fidi servi in rigidi custodi?
Invece d’imeneo ti fia la morte?
ti fiano i pianti epitalami e lodi?
ti fian, rivolta ogni allegrezza in duolo,
camera la prigion, talamo il suolo?»
300
Havvi un’irrevocabile statuto
che tra gli ordini antichi osserva Egitto
e ch’a’ preghi d’Argene ha poi voluto
Cipro che qui per legge anco sia scritto.
Trovarsi in fallo un cavalier caduto
con vergin donna è capital delitto;
e ‘l foco tra lor duo purga l’errore
di chi fu primo a discoprir l’amore.
301
Dico che chi de’ duo fu prima ardito
di chieder refrigerio al chiuso foco,
convien che sia col foco anco punito,
che ‘n ciò favore o nobiltà val poco.
E s’avien che l’autor del primo invito
preso ad un tempo in un medesmo loco
sia dubbio e che dal’un l’altro discordi,
Marte tra lor le differenze accordi.
302
Se fia che ‘n pugna al’un l’altro prevaglia,
è sottratto ale fiamme il vincitore.
Se nel tempo prefisso ala battaglia
manca a questo ed a quella il difensore,
il supplicio del’un l’altro ragguaglia,
l’un come l’altro incenerito more.
Se l’una parte l’ha, l’altra n’è priva,
convien pur che l’un pera e l’altro viva.
303
Or chi di noi baldanza ebbe primiero
d’aprir le labra agl’interdetti accenti,
dal deputato giudice severo
con minacce richiesti e con spaventi,
possibil non fu mai ritrarne il vero
per terror di martiri e di tormenti,
ch’appropriando a sé la colpa altrui
dicea ciascuno aprova, «io sono, io fui».
304
O nobil gara, or chi mai vide o scrisse
per sì degna cagion, sì degna lite?
chi d’amor, non d’onor, fu mai ch’udisse
più belle o più magnanime mentite?
Dolci contese e generose risse,
ch’aman le morti e sprezzano le vite,
ne’ cui contrasti divenir s’è visto
vantaggio il danno e perdita l’acquisto.
305
Stupisce il magistrato a tal tenzone,
la crucciosa reina ambo rampogna,
ma vie più lei, che ‘ntrepida pospone
ala salute mia la sua vergogna.
Ben comprende ch’amor n’è sol cagione
e che commune è il fallo e la menzogna.
La patria chiede e le fortune mie
ed io compongo allor nove bugie.
306
Veggendo pur la pertinacia Argene
dela coppia in amor costante e fida,
ch’ad usurparsi le non proprie pene
gareggia e ch’ella invan minaccia e grida,
al’usato costume allor s’attiene
che ‘l ferro alfin la question decida,
ch’un campion quinci e quindi in campo vegna
e d’otto giorni il termine n’assegna.
307
Nel basso fondo d’una torre oscura
sepolto io fui, dal castellan guardata.
Ma di guardar la giovane dier cura
ala vecchia rabbiosa e scelerata.
Imaginar ben puoi se la sciagura
condotta ha in buone man la sventurata,
se seco dee con ogni strazio indegno
quell’empia ad onta mia sfogar lo sdegno.
308
Già sette volte chiaro e sette oscuro
s’è fatto da quel dì l’orto e l’occaso.
Diman si compie il tempo ed io procuro
terminar con la morte il fiero caso.
S’io campion m’abbia o no, né so né curo,
ch’io son senza morir morto rimaso.
Convien che sol di lei cura mi prenda,
che non ha chi l’aiti o la difenda.
309
«Or non è il meglio (a me medesmo io dissi)
se tanto il ciel di suo favor ti dona,
che tu campando fuor di questi abissi
cerchi di sprigionar chi t’imprigiona?
Se per la vita tua di vita uscissi,
non fora il tuo morir palma e corona?
Vattene omai, s’andar ti fia permesso,
a combatter per lei contro testesso.
310
Se guerrier non appar dala tua parte,
la tua donna s’assolve e tu morrai.
S’alcun forse ne vien per liberarte,
tu di Dorisbe il protettor sarai.
S’egli t’uccide entro l’agon di Marte,
chi morì più di te felice mai?
S’egli ucciso è da te, felice ancora,
fia che chi visse ardendo, ardendo mora».
311
L’inumano torrier, che pur sovente
compianse al pianger mio, tentai con preghi.
E qual core è di sasso o di serpente,
cui supplice amator non mova o pieghi?
L’oro però fu più ch’amor possente,
l’oro a cui giamai nulla è che si neghi.
Tratto l’avanzo fuor del mio tesoro
dai ferri alfin mi liberai con l’oro.
312
Con l’oro ebbi il destriero e, d’armi cinto,
attendo che sia in ciel l’alba risorta,
ch’io non vo già, se per amor fui vinto,
esser vinto in amore; Amor m’è scorta.
O ch’io sia inuna o in altra guisa estinto
che che n’avegna pur poco m’importa,
perché soffrir non può morte più ria,
che non morir chi di morir desia.
313
Non stiam dunque d’andar, ch’agghiaccio ed ardo
tanto ch’al’alta impresa io m’avicini.
Troppo noce l’indugio e s’io ben guardo
par già la notte al’occidente inchini.
Ecco il pianeta inferiore e tardo
che tien degli emisperi ambo i confini.
Vedrai se movi a seguitarmi il piede
prova d’ardire e paragon di fede. –
314
Così parlava il cavalier dal nero
e poich’ebbe ala lingua il fren raccolto,
dissegli Adon: – Pietosa istoria invero,
signor narrate, e con pietà v’ascolto.
Però fate buon cor, ché, com’io spero,
la gran rota a girar non andrà molto.
Figlie son del dolor le gioie estreme
e del frutto del riso il pianto è seme.
315
Grande l’ardir, ma degno è di clemenza
e s’è fallo amoroso, il fallo è lieve,
perché l’istesso error fassi innocenza
qualor la volontà forza riceve.
Argene, se ‘n sé punto ha di prudenza,
sì leggiadra union scioglier non deve.
Vuolsi in prima pregar; poi quella strada
ch’è chiusa ala ragion, s’apra la spada.
316
Lasciate pur ch’io sol senza conforto
mi dolga ognor di mia crudele stella. –
Così diss’egli e fu il suo dire absorto
dal dolce pianto e ruppe la favella.
Ma già Sidonio intanto e in piè risorto
dal prato erboso e risalito in sella.
Adone il segue e col parlar diffalca
la noia del camin mentre cavalca.
317
D’amor i torti e del suo proprio male
parte gli prende a raccontar tra via
e come di fortissimo rivale
fugge l’ira, il furor, la gelosia.
Tace i nomi però, né scopre quale
o la sua donna o il suo nemico sia
e dubitando pur d’alcun’oltraggio
palesar non ardisce il suo legnaggio.
318
Già da’ termini eoi spunta l’aurora,
già la caligin manca e ‘l lume cresce.
Non è più notte e non è giorno ancora,
col chiaro il buio si confonde e mesce.
Non tutto è sorto il sol del’onde fora
ma si solleva a poco a poco ed esce
ché, sebene il suo raggio il ciel disgombra,
vi resta pur qualche reliquia d’ombra,
319
quando passando per l’orribil tana
che fu già de’ ladroni alloggiamento,
veggiono ad una quercia non lontana
un cadaver ch’appeso agita il vento.
Guarda Sidonio la figura estrana
ch’ha di femina il viso e ‘l vestimento
e perch’è l’aria ancor tra chiara e fosca
dubbio è tra ‘l sì e ‘l no se la conosca.
320
Più gli par quanto più le s’avicina
Grifa, la falsa vecchia; e certo è dessa,
che del’ingiuria fatta ala reina
e del’ira ch’avea contro sestessa,
che nata fusse sì mortal ruina
per la gran tradigion da lei commessa,
desperata d’amor, nonché pentita,
di Pafo occultamente era partita.
321
E giunta presso ala solinga cava
ch’Adon già travestito in grembo accolse,
mentre la turba ria la minacciava
che colà per cercarlo il piè rivolse,
dal’antica prigion che la serrava,
sorpresa dal timor, l’anima sciolse
ed a quel tronco poi fu per diletto
impiccata da lor, come s’è detto.
322
Apena agli occhi suoi Sidonio crede
e s’accosta ben ben sotto la pianta,
alfin ringrazia il ciel che gli concede
d’un tanto danno una vendetta tanta
e, consolato assai di quel che vede,
prorompe: – O cara, o benedetta, o santa,
quell’arbor, quella mano e quella corda
che dal mondo smorbò peste sì lorda.
323
Rimanti ad infettar questi deserti,
gioco ai venti, esca ai corvi, empia e nefanda,
benché se conoscessero i tuoi merti
aborririan sì fetida vivanda.
La terra non potea più sostenerti,
però nel’aria ad alloggiar ti manda.
Or più non curo i propri mali e godo
ch’i nostri nodi almen vendichi un nodo. –
324
Tace e poc’oltre van per quel camino
ch’altro orrendo spettacolo gli arresta.
Ecco un corpo trafitto a cui vicino
eccone un’altro ancor ch’è senza testa;
e da lor non lontano ecco un mastino
sviscerato giacer nela foresta.
Adon s’accosta e ben conosce apieno
quelch’è più guasto e si conosce meno.
325
Ch’è Filora il sa ben; ma chi reciso
dopo la sua partita il capo l’abbia
pensar non sa, benché dal cane ucciso
che di vermiglio ancor tinte ha le labbia
trar può chiaro argomento e certo aviso
che cibo ei fu dela canina rabbia.
Volgesi al’altro, affisa il guardo in esso
e per Filauro il riconosce espresso.
326
Compatisce e stupisce e già per questo
come la cosa stia non ben intende
né che quell’accidente empio e funesto
seguito sia per sua cagion comprende.
Udito il caso doloroso e mesto
per chiarirsi del ver, Sidonio scende.
Quando chi sien coloro Adon gli conta
ferma il cavallo e dal’arcion dismonta.
327
Le lor persone e conosciute e viste
nela corte di Menfi avea più volte
onde, quando di polve e sangue miste
le vide e lacerate ed insepolte,
forte gli spiacque e dale luci triste
ne versò per pietà lagrime molte
e disse: – Ah! ben contro ragion si toglie
l’onor devuto a queste belle spoglie.
328
Spoglie belle e reali, ahi quanto a torto
giacete esposte ale ferine brame.
Ma s’ale vostre vite, ancorché corto,
un sol fuso commun filò lo stame
e questo e quello ha generato e morto
un ventre illustre ed una mano infame,
dritto è che l’ossa anco un sepolcro asconda
e l’un e l’altro cenere confonda. –
329
Così dicendo, acconcio il peso e messo
sovr’una bara d’intrecciati steli,
nela tomba ch’eretta era là presso
depositaro i duo squarciati veli;
ciò fatto, il cavalier col sangue istesso
ch’uscì dele lor piaghe aspre e crudeli
nel sasso del’avel scrisse di fora:
«Reliquie di Filauro e di Filora».
330
Adon, nel sepelir la coppia estinta
sì del mal d’amboduo s’afflisse e dolse
che conservar, benché di sangue tinta,
de’ fregi lor qualche memoria volse;
onde di smalto a lui tolse una cinta,
a lei d’or riccamato un velo ei tolse.
Poco accorto pensier, sciocco consiglio,
che gli fu poi cagion d’alto periglio.
331
L’opra apena fornita, odon le fronde
scrosciar dapresso e scotersi le piante,
ed ecco uscir dale vicine sponde
uom che quasi statura ha di gigante.
Io non so come in sì bel loco e donde
venne sì sconcio e barbaro abitante.
Ama le cacce e per caverne e selve,
belva molto peggior, segue le belve.
332
Lunga la capegliaia e lunga e nera
la barba e ‘l vello ha l’animal feroce.
Mente umana non ha né forma vera
ed esprimer non sa distinta voce.
Al’altre fere insidiosa fera,
per nutrirsi di lor, danneggia e noce.
Gli uomini ingoia e quand’ei può pigliarne
ingordo è più dela più nobil carne.
333
Vivea solingo in sotterraneo albergo,
ispido il corpo e setoloso tutto.
Veniva armato d’un estraneo usbergo
che di pelle di tigre era costrutto.
Uscian le braccia dai confin del tergo
per due bocche di drago orrido e brutto;
e pur di serpe entro una scorza cava
molte quadrella al’omero portava.
324
Tenea ferrato in man un baston crudo,
duro, pesante e noderoso e grosso.
D’una conca di pesce avea lo scudo
ben forte e saldo e ‘n testa un zuccon d’osso.
Tuttoquanto del resto andava ignudo
e senza piastre e senza maglie addosso,
né vestiva altre spoglie al caldo, al gelo,
senon quanto il copriva il folto pelo.
335
Scherma non ha, non ha ragion di Marte,
ma di forza e destrezza ogni altro avanza
e dove manca esperienza ed arte
l’agilità supplisce e la possanza.
Venne costui gridando a quella parte
dov’avea di venir sovente usanza
e, mezzo ancor tra strangolato e vivo,
un suo daino lanciò nel primo arrivo.
336
Un daino a prima giunta il fier selvaggio
ch’avea pur dianzi in quelle macchie preso
scagliò contro Sidonio, ilqual fu saggio
di quel colpo a schivar l’impeto e ‘l peso,
che trasse il tronco d’un robusto faggio
quasi fulmin celeste a terra steso.
Il mostro allor, più rapido che vento,
gli aventò tre saette in un momento.
337
Due ne volano a voto e la corazza
dal terzo strale il cavalier difende.
I dardi lascia ed a due man la mazza,
senza indugio, il peloso intanto prende.
Occorre l’altro a quella furia pazza
e ‘l brando oppon contro il baston che scende
e per mezzo gliel taglia; in questo mentre
tira di punta e lo ferisce al ventre.
338
La rozza bestia, che non mai creduto
in lui trovar tanta difesa avria,
visto che contro il ferro il cuoio irsuto
non giova, Adone afferra e ‘l porta via.
Si dibatte il fanciullo e chiede aiuto,
ma invan, che già colui l’ha in sua balia,
ond’a sdegno e pietà mosso il guerriero
prestamente rimonta insu ‘l destriero.
339
Per dar al mesto giovane soccorso
nela foresta a tutta briglia il caccia,
ma di stender apien spedito il corso
la spessura degli arbori l’impaccia.
L’insolente fellon senza discorso,
ch’Adone impaurito ha tra le braccia,
quando giunto si vede, a terra il getta,
poi si rimbosca ed a fuggir s’affretta.
340
Volgesi alfine e d’un grand’olmo antico
per spiccarne un troncon le cime abbassa,
ma tronche intanto il feritor nemico
su ‘l ramo istesso ambe le man gli lassa.
Raddoppia il colpo e in men ch’io nol ridico
un’occhio imbrocca e ‘l cerebro gli passa,
ond’a cader sen va con fier muggito
il difforme salvatico ferito.
341
Per una ripa che dal’orlo al fondo
trecento braccia ha dirupato il sasso,
Sidonio allor lo smisurato pondo
spinge col piede e lo trabocca al basso.
Cerca Adon poscia indarno e perché ‘l mondo
già si rischiara, alfin ritira il passo
e quindi esce al’aperto in largo piano
che da Pafo non è molto lontano.
342
Il buon destrier per le spedite strade
sollecitò con importuni sproni,
ma pur quand’egli entrò nela cittade
eran del’alto dì pieni i balconi.
Scorre di qua, di là, borghi e contrade
e giunge ala gran piazza insu gli arcioni,
dove un teatro spazioso e novo
coronato è di sbarre in forma d’ovo.
343
Vede gran rogo acceso in un de’ lati
ed a soffiarlo il fier ministro intento:
per entro i cavi mantici agitati
l’aure comporre e concepirvi il vento,
poi partorire incitatori i fiati
dal gonfio sen del gravido stromento,
lo cui spirto vivace a poco a poco
dà licenza ale fiamme, anima al foco.
344
Dala più agiata e più sublime vista
del bel palagio che lo spazio serra,
Argene, in atto assai turbata e trista,
china, guardando il campo, i lumi a terra;
e gran truppa di donne è seco mista
che stan tremanti ad aspettar la guerra,
la guerra in cui de’ duo prigioni in breve
l’alto giudicio diffinir si deve.
345
Pende da tetti intorno e da cornici,
come a mirar si suol giostra o torneo,
di curiose turbe spettatrici
innumerabil numero plebeo.
Apresi il passo il duca de’ Fenici
non conosciuto, inun campione e reo,
e trova a passeggiar per lo steccato
tutto soletto un cavaliero armato.
346
Picca un corsier, tra le pruine e ‘l gelo
nato del Reno insu la fredda riva,
tutto tutto ermellino e bianco il pelo
sovra l’istessa sua neve nativa.
Gli fa sugli occhi il crin candido velo,
candida ancor la coda al piè gli arriva;
ma con spoglia nevosa e patria algente
sfavilla in lui però spirito ardente.
347
Bianco il destrier, bianco l’usbergo e bianco
di bianchi fregi ha il guernimento adorno
e di penne di cigno il cimier anco
canuto ondeggia e si rincrespa intorno.
Lo scudo che sostien col braccio manco
al’argento purissimo fa scorno,
e porta nela lancia onde combatte
un pennoncel pur del color del latte.
348
Oltre la piuma, in cima ala celata,
amoroso mistero è sculto e finto:
havvi vaga colomba innargentata
che piagne il caro maschio in rete avinto
e batte l’ali e mesta e scompagnata
mostra nel’atto il gemito distinto.
Un motto in lettre d’or l’è scritto al piede:
«Pari al candor del’armi è la mia fede».
349
La nobil portatura e la sembianza
del’ignoto guerrier ciascun commenda.
Ma Sidonio in quel mezzo oltre s’avanza
per saver chi sia questi e cui difenda
e si caccia tra ‘l vulgo, ov’ha speranza
che meglio di tal fatto il ver s’intenda,
ed ode dognintorno ove si giri
fremer singulti e mormorar sospiri:
350
– Deh! con l’eterna man, Giove, saetta
dale porte del ciel celeste lampo
ch’apporti al’innocente giovinetta,
che tal creder si dee, difesa e scampo.
Fia dunque a perder sua ragion costretta
per non aver chi la sostenga in campo?
Fia che tanta beltà su ‘l fior degli anni
ad infame patibulo si danni?
351
S’indegno di perdon, di mille pene
degno, un vile stranier campion ritrova
ed uom che ‘n sangue o in amistà gli attiene
per lui s’espone a perigliosa prova,
innocenza real, deh ! come aviene
ch’oggi a pietate alcun de’ suoi non mova?
come consente Amor di restar vinto?
e che sia ‘l suo per altro incendio estinto? –
352
Questi in languido suon sommessi accenti
con guance smorte e luci lagrimose
bisbigliando pertutto ivan le genti
di spettacol sì tragico pietose.
Comprende ei dal tenor di que’ lamenti
e da molt’altre investigate cose,
che per lui quel guerrier la pugna piglia,
onde sdegno n’ha insieme e meraviglia.
353
Imaginar non sa chi sia costui,
sì d’amor seco o d’obligo congiunto,
che ‘n periglio mortal d’entrar per lui
espresso ha preso e volontario assunto.
Sia pur chi vuol, né di tutela altrui
né di sua propria vita ei cura punto,
e già s’accosta al’aversario estrano
con l’elmo in testa e con la lancia in mano.
354
– Tu, che de’ casi altrui briga ti prendi,
dimmi (gli disse) o cavalier chi sei?
Dì per qual cortesia sciocca difendi,
comprator di litigi, i falli e i rei?
Meco, forse nol sai, meco contendi
onde celarmi il nome tuo non dei;
e se ‘l tuo nome pur vorrai celarmi,
scoprimi qual cagion ti move al’armi.
355
Veder non so perché sì dubbia impresa
temerario intraprendi ed armi tratti
senza frutto sperar di tua contesa
o saper la ragion per cui combatti.
A Sidonio non cal di tua difesa,
né rifiuta la pena a’ suoi misfatti.
Follia fa l’uom, qualor querela cerca
da cui premio non miete, onor non merca.
356
E che tu sia mallevador de’ torti
oltre che per più capi è manifesto,
a farne intutto i circostanti accorti
per mia stima bastar devria sol questo,
ch’a discolpar un reo di mille morti
non chiamato ne vieni e non richiesto.
Ciò che ti val, se di sua bocca istessa
d’aver peccato il peccator confessa? –
357
Così parlava il brun, né senza orgoglio
dal bianco cavalier gli fu risposto:
– Publicar chi mi sia di rado io soglio,
ché studio a mio poter girne nascosto.
Teco in belle ragion garrir non voglio,
vienne con l’armi a disputar più tosto,
che con lingua di ferro io ti rispondo
miglior guerrier che dicitor facondo.
358
Ma chi se’ tu che dela ria donzella
onestar vuoi la causa e più l’accusi?
Dichiara pur di propria bocca anch’ella
l’amoroso delitto e tu lo scusi;
e come al’alta legge avendo quella
già trasgredita, or d’ubbidir ricusi,
a sostener per lei quelche sostieni,
non chiamato o richiesto ancor ne vieni.
359
Me difensor di torti a torto chiami,
perché vergin bennata e nata ai regni,
no che viver non dee di fregi infami
macchiata il nome e di sua stirpe indegni.
Offendi più quelche difender brami,
discopri più quelche coprir t’ingegni,
ché, chi scusar l’error vuol con menzogna,
veste sestesso del’altrui vergogna.
360
Or’veder se schermir testesso sai
più ch’altrui spaventar molto mi tarda
e mi tarda provar s’abbi, com’hai
oltraggioso parlar, destra gagliarda.
Se per Dorisbe tu battaglia fai,
per Sidonio son io, da me ti guarda;
e sappi che mi fra cara e gradita
vie più la morte tua che la mia vita. –
361
Volgon ciò detto i freni e nele mani
per arrestarle stringonsi le lance,
e diviso dagli arbitri sovrani
il sole ad amboduo con giusta lance,
poich’un tratto di stral son già lontani,
ai veloci destrier pungon le pance
e con le briglie abbandonate al morso
vengono ad incontrarsi a mezzo il corso.
362
Il bianco o per la fretta o per la stizza
errò l’incontro e corse l’asta in fallo.
L’altro nela visiera il colpo drizza
dove breve fessura apre il metallo
e con duro tracollo insu la lizza
fuor per la groppa il trae giù da cavallo,
e cade sì che più non è risorto
né ben si sa s’è tramortito o morto.
363
Sidonio che malconcio in terra il mira
né risentirsi pur dela caduta,
per veder se ‘l conosce e s’ancor spira,
smonta di sella e gli alza la barbuta,
e ritrova esser donna, e sen’adira,
colei che di sua man giace abbattuta.
Per accertarsi più, l’elmo le slaccia
e di Dorisbe sua scopre la faccia.
364
Vede ch’ella è Dorisbe ed: – Ahi! crudele,
crudele o me, me più d’ogni altro infido!
Or guarda opra (gridò) d’alma fedele,
vengo a salvarti e di mia man t’uccido! –
Volea più lunghe far le sue querele,
ma gli fu da dolor sospeso il grido
né ben sapea, tanto stupor l’oppresse,
s’egli il falso sognasse o il ver vedesse.
365
Scaglia il tronco infelice incontro al suolo
e ‘ncontro al suol lo scudo e l’elmo gitta.
Poi dolcemente amareggiando il duolo,
bacia colei che crede aver trafitta.
V’accorre allor con numeroso stuolo
di quel popol dolente Argene afflitta
ed assalita è ben da nove angosce
quando i duo prigionier mira e conosce.
366
Ferme e di foco e sangue accese ed ebre
nela figlia le luci un pezzo tenne;
e quando, tinta di color funebre
la vide, infino agli occhi il pianto venne;
ma lo sdegno real su le palpebre
le già cadenti lagrime sostenne,
stimando di vulgar tropp’umil gente
bassezza il lagrimar publicamente.
367
Stupisce inun, sospira e freme e langue,
ch’ancor non sa di ciò l’istoria vera.
Negar non può pertanto al proprio sangue
la devuta pietà, benché severa.
Intanto al gran romor la bella essangue,
la vergin per amor fatta guerrera,
già si riscote e cangia in rose i gigli
rendendo al volto i suoi color vermigli.
368
Quando Dorisbe il desiato amante,
che credea prigionier, presso si scorge
e ch’egli è quei che qual nemico innante
sfidò con l’armi, attonita risorge.
La madre, ancorché mostri altro sembiante,
ben magnanimo l’atto esser s’accorge.
Intender nondimen vuol di lor bocca
come fuggiti sien fuor dela rocca.
369
Narra Dorisbe pria che quando accorta
si fu Grifa deltutto esser partita,
l’abbandonata e malguardata porta
tosto da sé l’agevolò l’uscita,
e d’un servo fedel sotto la scorta
che le prestò secretamente aita,
avea per esseguir l’alto pensiero
accattate quell’armi e quel destriero.
370
Soggiunge indi Sidonio: – Amor mi porse,
Amor figlio d’un fabro, arte ed ingegno,
ond’apersi i serrami; ei mi soccorse
nel’operazion del bel disegno.
Non crediate però ch’io brami forse
di fuggir morte, anzi a morir ne vegno;
ma pria ch’io mora almen, la ragion mia,
poi di me si disponga, udita sia.
371
Piacciavi tanto sol, donna reale
del’alterato cor sospender l’ire,
che con clemenza ala giustizia eguale
si pieghi ad ascoltar quant’io vo dire:
fate i giudici vostri al tribunale
vosco, vi prego, e i principi venire,
ch’io vo di tutti lor l’alta presenza
a proferir di me giusta sentenza. –
372
Membrando Argene che costui da morte
campolla già quando la serpe uccise,
non seppe in suoi rigori esser sì forte
che ciò negasse e per udir s’assise.
Ei, raccolta che fu tutta la corte,
a piè del trono inginocchion si mise;
tratta la spada poi dela vagina
a lei la porse e cominciò: – Reina,
373
sovenir ben vi dee del sacro patto
giurato ala gran dea vendicatrice,
che colui degno sol fia d’esser fatto
dela mia donna possessor felice,
ch’al regio sangue avrà pria sodisfatto
col capo del figliuol del re fenice,
quel nemico mortal, che già diè morte
al vostro glorioso alto consorte
374
Or a voi si conviene il giuramento
meco adempir, com’io v’adempio il dono.
Ecco che di Sidonio io vi presento
il capo e ‘l ferro inun; Sidonio io sono.
Son d’ubbidir, son di morir contento,
quando indegno appo voi sia di perdono,
che s’egli avien che di tal mano io mora,
la gloria del morir il mal ristora.
375
Son vinto e prigionier, non mi difendo,
la spada in man, la testa in grembo avete.
Fate ciò che v’è bello; e pur volendo
pascer del sangue mio la vostra sete,
per lasciarla troncar, l’armi vi rendo,
sfogar l’odio omai tutto in me potete,
se merita però tanta vendetta
error che per errore altri commetta. –
376
Nel sen di lei con umil gesto e pio
inchinò la cervice intanto e tacque.
A quel parlar nel cor di chi l’udio
con gran pietà gran meraviglia nacque.
Occhio non fu sì barbaro ch’un rio
non versasse d’amare e tepid’acque.
Ma di Sidonio Argene udito il nome
dale piante tremò fino ale chiome.
377
Turbossi tutta e variando il volto
pallido pria, poi più che fiamma rosso,
data in preda al furor rapido e stolto,
forte sel’ebbe ad ambe man percosso.
Pur raccogliendo al’ira il fren disciolto
da qualche tenerezza il cor commosso,
sedò quel moto e dilagati in fiumi
al cielo alzò con queste voci i lumi.
378
– O stelle, o dei, deh! qual vi move a queste
cose qui consentir furore o sdegno?
Di marito e di re lasciar voleste
vedova la consorte, orfano il regno.
Morir di ferro a torto anco il faceste
né di lui mi rimase altro ch’un pegno,
pupilla miserabile, costei,
che pupilla era pur degli occhi miei.
379
E questa ancor mia cara unica prole
veggio delusa con perverso inganno
e per forte destin che così vole
a brutta morte io stessa or la condanno.
E quel che vie più ch’altro assai mi dole,
prender vuol per signore e per tiranno,
dimenticata del’oltraggio antico,
perfido amante, il suo maggior nemico.
380
Dunque con chi del padre aprì le vene
vivrà Dorisbe gloriosa e lieta?
or che farà la sfortunata Argene?
dee crudel dimostrarsi o mansueta?
Benignità real l’un non sostene,
obligo marital l’altro mi vieta.
Misera, a qual partito omai m’appiglio,
s’ov’abonda ragion, manca consiglio?
381
S’avien che ‘l dritto e ‘l debito mi mova
quel sangue a vendicar che sangue grida,
un che già preso in mio poter si trova,
senz’alcuna pietà convien ch’uccida;
un che di mia virtù viene a far prova
ed umilmente in mia bontà confida;
un che pentito e supplice mi chiede
d’involontario error grazia e mercede.
382
S’essaudisco il pregar di chi mi prega
e ‘l gran castigo a perdonar m’abbasso,
al cener degno il suo dever si nega
e l’alta ingiuria invendicata io lasso.
Oimé, chi mi ritiene? e chi mi lega
siché intradue rimango immobil sasso?
Punir devrei l’offesa onde mi doglio,
ma divenir carnefice non voglio.
383
Deh! come tanto cor Sidonio avesti
de’ tuoi nemici a crederti in balia?
Come celarti poi sì ben sapesti
che t’ebbi in man né ti conobbi pria?
Ed or che ti conosco, a che volesti
pormi in necessità d’esserti pia?
Perché mi sforzi a far, lassa, al re morto
ed ala mia grandezza un sì gran torto?
384
O mie schernite e disprezzate leggi,
ale leggi d’Amor ciò si condoni.
Amor, a te che l’universo reggi,
non a pietà cotal pietà si doni.
Scusi l’alma gentil dagli alti seggi
l’atto e questo perdono a se perdoni,
ché meglio è di mestessa aver vittoria
che di vinto nemico acquistar gloria.–
385
Non era giunta al fin di questo detto,
non avea freno ancor posto ala voce,
quando Dorisbe, il cui confuso petto
era steccato di conflitto atroce,
dov’Amore ed Onore, Odio e Dispetto
facean guerra tra lor cruda e feroce,
aventossi ala spada e gliela tolse,
indi in questo parlar la lingua sciolse:
386
– Poco a lui, meno a me si dee pietate,
anzi a lui si perdoni, a me non mai.
Io sol le leggi ho rotte e violate,
morir sola degg’io che sola errai.
E vo’ morir per trar fra le malnate
la più malnata e misera di guai;
e questo è il premio alfin che malaccorta
dal’amor del nemico ella riporta.
387
Ebbi di sciocco amore i desir vaghi,
la sciocchezza purgar deggio col ferro.
Al’amante l’amor giust’è ch’io paghi
se ‘n credendolo amante ancor non erro.
Quando averrà ch’io questo petto impiaghi,
vedrà quanto nel cor nascondo e serro
e ch’ancor vive entro ‘l più nobil loco
il mal acceso e malnutrito foco.
388
Non vacilla la destra, il cor non teme,
farà due gran vendette una ferita.
Vendicherò con un sol colpo insieme
il padre ucciso e l’onestà tradita.
Voglio uccider mestessa e con la speme
d’ogni conforto abbandonar la vita,
per uccider l’amor ch’ingiustamente
porto al crudo uccisor dela mia gente.
389
Ferro fedel, già del’amato fianco
famoso onore ed onorato pondo,
per man del tuo signore invitto e franco
del mio sangue reale ancora immondo,
fra quante imprese di pugnar non stanco
fec’egli mai più gloriose al mondo,
questa fra la più degna e nobil palma
dal’indegna prigion scioglier quest’alma.
390
In questo cor malvagio apri la strada
origine e cagion de’ falli miei,
accioché come sempre, o cara spada,
compagna a buoni e fida amica sei,
così ti dica ognun qual’or t’accada
punir il male, aspra aversaria ai rei.
Ben di giusta t’usurpi il nome invano
s’impunita ti tocca iniqua mano.
391
Ricevi, ombra paterna, anima chiara,
la morte mia dela tua vita invece
e ben quell’ira omai di sangue avara
col proprio sangue tuo placar ti lece,
ch’offerta ti sarà forse più cara
di quante mai questa crudel ne fece.
Darò con far tre alme a un punto liete
a me fama, a lei gioia, a te quiete. –
392
Cosi dice e tremante il braccio stende,
slunga la spada e volge al cor la punta;
ma Sidonio la man forte le prende
ed a tempo la madre anco v’è giunta
a cui largo dagli occhi il pianto scende
già d’amor tutta e di pietà compunta
e ‘l morir disturbando al’infelice
la riconforta umanamente e dice:
393
– Pon giù figlia la spada insieme e l’ira,
il pentimento ogni gran biasmo scolpa.
Mori Morasto e se dal ciel ne mira
forse non tanto i nostri errori incolpa,
perché se dritto al vero occhio si gira
non fu l’altrui fallir senza sua colpa,
consolandosi almen che non successe
fallo mai tal che tanta emenda avesse.
394
Poich’al passato mal non è riparo
ed io deposti ho già gli antichi sdegni,
vivi contenta, affrena il pianto amaro
e del prim’odio ogni favilla spegni.
Abbi di te pietate e del tuo caro
ch’oggi mostri ha d’amor sì chiari segni,
degno teco d’unirsi ad egual giogo
e degno d’altro laccio e d’altro rogo. –
395
Dopo questo parlar dolce l’abbraccia,
dolcemente la stringe al sen materno
e baciandole or gli occhi ed or la faccia,
scopre gli effetti del’affetto interno.
Poi con Dorisbe sua Sidonio allaccia
in nodo indissolubile ed eterno,
dandogli a pien quanto più dar gli pote,
la persona in consorte e ‘l regno in dote.
396
Del re suo padre sovragiunti a questi
rischi dal giorno innanzi erano i messi,
ma taciturni e sbigottiti e mesti
stavano a così miseri successi.
Tosto che i casi lor fur manifesti,
il proprio affar manifestaro anch’essi,
e con parlar facondo ed efficace
n’impetrar meglio e parentela e pace.
397
Ma qual mai si trovò gioia compita
cui non fusse il dolor sempre consorte?
O quando il dolce del’umana vita
lasciò giamai d’avelenar la morte?
Ecco mentre la festa è stabilita,
novo scompiglio intorbida la corte,
perch’ad Argene inaspettati avisi
recati son de’ duo nipoti uccisi.
398
Di Filauro e Filora i servi erranti,
poiché più giorni senz’alcuno effetto
cercaro i lor signor con doglie e pianti,
tornando riscontrarono un valletto,
ilqual traeano ala reina avanti
tra cento nodi incatenato e stretto,
ch’a più d’un segno e d’un indizio aperto
ch’ei fusse l’uccisor tenner per certo.
399
Quando fu quivi il giovane condotto
fin’ale stelle si levar le strida,
ch’al cinto, al velo insanguinato e rotto
tosto il conobbe ognun per omicida;
né tempo avea ‘l meschin pur da far motto
né da dir sua ragion fra tante grida.
Sidonio il vide e vide esser colui
ch’accontato quel di s’era con lui.
400
Quest’era Adon che poich’a terra spinto
fu dall’uom inuman, diede in costoro.
Contando a tutti il caso allor distinto
il prence e com’al bosco insieme foro,
innocente il dichiara ancorche ‘l cinto
il contrario dimostri e ‘l drappo d’oro;
dà relazion lunga e diffusa
di quanto già cantò la nostra musa.
401
In questo tempo il giusto ciel ch’offeso
non nega ai falli mai devuta pena,
co’ duo complici suoi legato e preso
quivi Furcillo il ladro a tempo mena.
Allor meglio è da tutti il fatto inteso,
che n’han dal bell’Adon notizia piena,
ed a forza di strazi e di tormenti
già confessano il vero i delinquenti.
402
Quanto ala donna pria, narra Furcillo,
ch’egli da Malagor vide svenarla,
perché con gli altri di lontan seguillo
e poi la disterrò per disporgliarla,
ma ‘l garzon come cadde e chi ferillo
nulla dice saperne e più non parla.
Sì aspra è la tortura e sì gli dole
che la vita vi lascia e le parole.
403
Posciach’alfine il giudice s’avede
ch’egli il degno castigo ha prevenuto
e che ‘n van più l’afflige, invano il fiede,
che lo spirito e ‘l senso ha già perduto,
dagli altri duo la verità richiede
che tornano a ridir quelch’ha saputo.
Ma rei d’altri delitti e malefici
son pur dannati agli ultimi supplici.
404
Mentre costoro la funesta tromba
ala croce accompagna ed ala fune,
vassi con pompa ala selvaggia tomba,
albergo a duo cadaveri commune.
Di voci il bosco e fremiti rimbomba,
piagne ciascun l’indegne lor fortune;
e con essequie illustri ed onorate
trasferiscon que’ corpi ala cittate.
405
Libero apena Adon, per mano il piglia
Mercurio e seco il trae fuor dele mura,
e ‘n parlar che ‘l consola e che ‘l consiglia
gli dà di presto ben speme secura.
Ragionando così non va due miglia
che giunge ove più densa è la verdura.
Qui gli mostra il camin che vuol ch’ei segua
e ciò detto sparisce e si dilegua.
406
Molto innanzi ei non va che ‘l piede infermo
s’indebolisce a poco a poco e stanca
e per quel bosco abbandonato ed ermo
al vigor giovenil la forza manca.
Apre il guscio dorato, ilqual gli è schermo
contro la fame e sua virtù rinfranca.
La stanchezza e ‘l digiuno inun restaura,
poi s’addormenta al sussurar del’aura.
407
E già del centro dela rota appare
ben lunge il sol che ‘l nostro mondo lassa
e le sue rote folgoranti e chiare
già verso Calpe avicinato abbassa.
Quindi l’argento suo tremulo il mare
trasforma in lucid’or mentre ch’ei passa;
e quinci fuor dele cimerie grotte
dal’ocean precipita la notte.
CANTO XIII
CANTO XIV
CANTO XV
CANTO XVI
IL RITORNO

ALLEGORIA

Adone che, dopo i disturbi di molte persecuzioni, si riconduce finalmente a Venere, ci dichiara che l’uomo abituato nel peccato, ancorché talvolta per alcun tempo impedito da qualche travaglio si distorni dal male, facilmente per ogni picciola tentazione ritorna all’antica consuetudine. Il giuoco degli scacchi ci fa conoscere i passatempi e le dilettazioni con cui lo va trattenendo la voluttà per desviarlo dal bene, lequali nondimeno non sono altro che combattimenti e battaglie. La trasformazione di Galania in tartaruga ci rappresenta la natura di questo animale, ch’è molto venereo.

ARGOMENTO

Scopre al suo vago con astuto ingegno
Cipria i passati casi; il mena al loco
de’ primi amori, indi a Galania in gioco
muta la forma, a lui promette il regno.

1
In quest’Egeo, dov’ha Fortuna il regno,
di procelle guerriere instabil campo,
benché non scopra il combattuto legno
di pacifica stella amico lampo,
non diffidi giamai costante ingegno
d’agitato nocchier di trovar scampo,
ma speri pur da destra luce scorto
di prender terra e ricovrarsi in porto.
2
La calma ala tempesta alfin succede,
cedono alfin le nevi ale viole,
segue la notte il chiaro giorno e riede
dopo le nubi e le tempeste il sole.
Spesso del pianto è la letizia erede,
così stato quaggiù mutar si suole;
con tai leggi natura altrui governa
e le vicende sue nel mondo alterna.
3
Dopo molto girar, mobil compasso
chiude al punto le linee e le congiunge.
Da lungo corso affaticato e lasso
il destriero anelando al pallio giunge.
Arriva al fonte con veloce passo
cerva, cui stral acuto il fianco punge.
E vien tra noi dal’africano lido
rondine vaga a ricomporre il nido.
4
Dal duro essilio suo contenta e lieta
torna al’orbe natio la fiamma lieve.
Torna da’ giri suoi l’onda inquieta
nel gran ventre del mar che la riceve.
Ritorna al centro ove ‘l suo moto ha meta
a gran fretta correndo il sasso greve.
Ed ala patria ove ‘l suo cor soggiorna,
d’errar già stanco, il peregrin ritorna.
5
Alcun non sia però ch’unqua si vanti
d’aver tanta a sentir gioia nel core,
che passi quella de’ fedeli amanti
quando talor gli ricongiunge amore,
e nebbie e pioggie di sospiri e pianti
sgombrando col seren del suo splendore,
di lontana beltà guida e conduce
anima cieca a riveder la luce.
6
Con quell’affetto e ‘n quella stessa guisa
che dietro al maggior cerchio il ciel si gira,
o che di serpe suol parte recisa
unirsi al capo che la move e tira,
con quel desio sen corre alma divisa
al dolce oggetto ond’ella vive e spira,
che calamita a polo ha per costume,
augello ad esca o farfalletta a lume.
7
Tempo fia dunque in braccio al caro bene,
o bell’Adon, da ricondurti omai,
che l’un e l’altro fra tormenti e pene
ha sospirato, ha lagrimato assai.
Prepara i vezzi, ecco ch’a te se ‘n viene,
rasciuga, o dea d’amor, gli umidi rai.
Chi dirà che fruttar possano i semi
degli estremi dolor diletti estremi?
8
Del palagio del ciel ricco e lucente
chiuse l’auree finestre eran già tutte,
salvo quella ch’aperta in oriente
rimane infin che sien l’ombre distrutte;
dove le bionde chiome al dì nascente,
ancor non ben dela rugiada asciutte,
Vener bella s’acconcia e restar suole
indietro alquanto a gareggiar col sole,
9
quando dala dolcissima canzone
svegliato alfin del rossignuol selvaggio,
che lieto al rimbambir dela stagione
salutava d’Apollo il primo raggio,
le pompe a vagheggiar si pose Adone
del dì novello e del novello maggio,
or quinci or quindi a contemplar rapito
il terreno stellato e ‘l ciel fiorito.
10
Erano già per man di primavera
d’odorate ricchezze i campi adorni,
allor che ‘n tauro la maggior lumiera
men brevi adduce e più sereni i giorni;
Progne, e tu del bel tempo messaggiera
le dolci case a far tra noi ritorni,
e ‘l cristallino piè ch’a’ fiumi avea
Borea legato, Zefiro sciogliea.
11
Fuggon per l’erba liberi i ruscelli
poiche ‘l sol torna a delivrare il gelo.
Van tra i folti querceti i vaghi augelli
disputando d’amor di stelo in stelo.
Treman l’ombre leggiere ai venticelli
ch’empion d’odori il disvelato cielo
e scotendo e ‘ncrespando i rami e l’onde
si trastullan con l’acque e con le fronde.
12
Di naturali arazzi intapezzato
riveste ogni giardin spoglie superbe,
né d’un sol verde si colora il prato
ma diverso così come son l’erbe.
A bei fiorami il verde riccamato
lava e polisce le sue gemme acerbe,
ch’ala brina ed al sol formano apunto
quasi di Lidia un serico trapunto.
13
Apre le sbarre e ‘l caro armento mena
il bifolco a tosar l’erba novella.
Scinta e scalza cantando a suon d’avena
sta con l’oche a filar la villanella.
Scherzando col torel per l’ombra amena
va la giovenca e col monton l’agnella.
Su per lo pian che Flora ingemma e smalta
con la damma fugace il danio salta.
14
Langue anch’egli d’amor l’angue feroce
e, deposta tra’ fior la scorza antica,
dov’amor più che ‘l sol lo scalda e coce
ondeggia e guizza per la piaggia aprica.
I fischi e i fiati onde spaventa e noce
cangia in sospir per la squamosa amica,
l’acuta lingua e la mordace bocca
in saetta d’amor che baci scocca.
15
Ma vie più ch’altri Adon, possente e fiero,
sente l’ardor ch’a vaneggiar l’induce;
e mentr’è il cielo ancor candido e nero
tra i confini del’ombra e dela luce,
tenendo al’idol suo fiso il pensiero
volge l’occhio a colui che ‘l dì conduce
e, quasi in specchio, con lo sguardo vago
raffigura nel sol l’amata imago.
16
Quindi dal duolo ador ador spezzati
incomincia a sgroppar flebili accenti,
né de’ caldi sospiri innamorati
gli escon del cor con minor forza i venti
che del mantice uscir sogliano i fiati
a dar vigore ale fornaci ardenti,
anzi par che sfogando i suoi gran mali
l’anima istessa co’ sospiri essali.
17
– Ahi! che mi val (dicea) che ‘l mondo infiori
la bella primogenita del’anno?
o che spuntin dal cielo i lieti albori,
se per me non rinasce altro ch’affanno?
ridano i prati e cantino i pastori,
me di lagrime pasce un fier tiranno,
e fan verno perpetuo i miei tormenti
d’amare pioggie e d’angosciosi venti.
18
Il sol che porta a’ miei trist’occhi il giorno
non è già questo che levarsi or veggio,
seben nel volto suo di luce adorno
d’altra luce maggior l’ombra vagheggio.
Parta, o partito poi faccia ritorno,
ben altro lume ale mie notti io cheggio.
Chi crederia che più lucente e bella
m’è del’alba e del sol sol una stella?
19
Sorgi stella d’amor, fiamma mia cara,
dolce vaghezza mia, dolce sospiro.
L’ombre del’orizzonte omai rischiara,
ma più quelle ov’io cieco ognor m’aggiro.
Sarai sì di pietate in terra avara
come larga di luce in ciel ti miro?
Miri tu la mia pena e ‘l mio dolore?
da me, come l’occhio, hai lunge il core?
20
Deh! perché le bell’ore indarno spendi
per governar d’un’aureo carro il freno?
Che ti giova il piacer che ‘n ciel ti prendi
d’errar per lo notturno aere sereno?
Lascia le vane tue fatiche e scendi
omai tra queste braccia, in questo seno.
Vedrai ch’al tuo venir quest’antri foschi
fieno orienti e paradisi i boschi.
21
Boschi, d’amor ricoveri frondosi,
de’ miei pensieri secretari fidi,
taciturni silenzi, orrori ombrosi
e di fere e d’augei caverne e nidi,
con voi mi doglio e tra voi, prego, ascosi
restin questi sospiri e questi gridi;
né fia ch’alcun di lor quel ciel percota,
che lieto del mio mal, credo, si rota.
22
Fontane vive, che di tepid’onde
largo tributo da quest’occhi avete
e voi, ch’altere insu le verdi sponde
mercé de’ pianti miei, piante crescete,
seben l’acque asciugar, seccar le fronde
a tante, ch’ho nel cor, fiamme solete,
voi sol de’ miei dolor, mentre mi doglio,
ascoltatrici e spettatrici io voglio.
23
E tu ch’afflitto degli afflitti amico,
solitario augellin, sì dolce piagni,
o che la doglia del tuo strazio antico
languir ti faccia o che d’amor ti lagni,
ferma pietoso il volo a quant’io dico
né sdegnar che nel duolo io t’accompagni,
che se ‘l mio stato al tuo conforme è tanto
ragion è ben che sia commune il pianto. –
24
Più oltre ancor de’ suoi lamenti il corso
l’innamorato giovane seguia
ch’un marmo, un ghiaccio, un cor di tigre e d’orso
intenerito, incenerito avria.
Ma pose il duolo ala sua lingua il morso
ché, sgorgando dal cor per altra via,
mentre ala lingua il pose, agli occhi il tolse
e ‘n desperate lagrime lo sciolse.
25
Or, perché ‘l sol già poggia e i poggi inaura,
lascia i riposi del’erboso letto
e prende a passeggiar per la fresc’aura
del rezzo mattutin tutto soletto.
Di nova speme, allor che lo restaura,
un certo non so che sentesi al petto,
quasi un balen di tenerezza dolce
gli scende al cor che lo rinfranca e molce.
26
Là dove il vago passo o fermi o mova
ogni erba ride, ogni arboscel s’indora;
ringermoglia la terra e si rinova
e quanto può le care piante onora;
spunta di rose amorosette a prova
schiera lasciva e le bell’orme infiora
e ‘l piè fregiato di celeste lume
corre a baciargli e ne trae fiamme il fiume.
27
Se vibrando il seren de’ duo zaffiri
ch’innamorano il ciel, volge la fronte,
prendendo qualità da’ dolci giri,
lascia il bosco l’orror, la nebbia il monte.
Par che Favonio n’arda e ne sospiri,
par che ne pianga di dolcezza il fonte
e per dolcezza in copiosi rivi
stillan le querce mel, nettar gli olivi.
28
Ovunque o in valle ombrosa o in balza aprica
sedendo affreni i faticosi errori,
piega i rami ogni pianta e l’ombra amica
gli offre e di pomi il sen gli empie e di fiori,
per render forse a quel che la nutrica
terreno sole i tributari onori,
poich’ogni tronco prende ed ogni stelo
vigor dagli occhi suoi più che dal cielo.
29
In una croce che ‘l sentier divide
e fa di molte vie quasi una stella,
per mezzo il bosco alfin pervenne e vide
quivi al’ombra posarsi una donzella.
Stanca tra fiori e languida s’asside,
brunetta sì, ma sovr’ogni altra bella;
ed al’abito estrano ed ale membra
del’egizzie vaganti una rassembra.
30
Senz’alcun taglio un pavonazzo in pelo,
che di verde e d’azzur le trame ha miste,
la veste, come veste iride in cielo,
d’un cangiante ingannevole ale viste.
Disovra un manto, anzi più tosto un velo,
ha di satì vergato a varie liste,
ch’ad un botton di variato oppalla
le s’attien per traverso insu la spalla.
31
La portatura dele chiome belle
s’increspa acconcia in barbareschi modi.
Quinci e quindi è distinta in due rotelle,
ond’escon molte sferze in mezzi nodi.
Sembran tele d’aragne e in mezzo a quelle
son d’acuto rubin fissi duo chiodi,
poi dele ciocche in cima al capo aggiunte
su le rote a passar tornan le punte.
32
Fanno ombroso diadema ai crini aurati
che ‘n largo cerchio intorno si sospende,
pur di bei veli, a più color listati,
con spessi avolgimenti attorte bende.
Si divide la treccia e per duo lati
quasi in due lunghe corna al tergo scende.
E fregiata la cuffia è d’un lavoro
a rosette d’argento e stelle d’oro.
33
Giacea su ‘l piumacciuol d’un violeto
lungo un ruscel freschetto e cristallino,
corcato quasi in morbido tapeto
un pargoletto e tenero bambino,
nela cui fronte sì giocondo e lieto
vedeasi scintillar lume divino,
che, benché il sonno gli occupasse il ciglio,
parea di madre tal ben degno figlio.
34
Era costei d’Amor la bella dea
che del suo caro Adon tracciava l’orme
e ‘l bel fanciul che di dormir fingea
era quei ch’a suoi danni unqua non dorme.
Sconosciuta scherzar seco volea
sotto straniere e peregrine forme,
perché fusse il piacer dopo il dolore
quanto improviso più, tanto maggiore.
35
In arrivando Adon, dal capo al piede
la discorre con gli occhi a parte a parte
e l’aria signoril che ‘n essa vede
loda e de’ ricchi arnesi ammira l’arte.
Poi la saluta e la cagion le chiede
che l’ha condotta in sì remota parte.
Ed ella seco a riposar l’invita
là dove ingiunca il suol l’erba fiorita.
36
– Son di Menfi nativa (indi risponde)
barbara donna e per costume errante.
Filomanta m’appello e dale sponde
partii del Nil con quest’amato infante
perch’ir mi convenia, varcando l’onde,
alcun’erbe a raccor di sacre piante
e credea per lo torbido Ellesponto
passar a Colco e poi da Colco a Ponto.
37
Ma de’ suoi flutti il tempestoso orgoglio
tragittommi pur dianzi a questo lido
e poiché ‘l ciel m’ha qui guidata, io voglio
solver un voto ala gran dea di Gnido.
Piacemi intanto nel suo sacro scoglio,
poiché trovato v’ho scampo sì fido,
tra queste verdi ombrette affrenar lasso
peregrinante e vagabonda il passo. –
38
– O (disse Adon) quant’ebbi sempre o quanto
voglie di ragionar bramose e vaghe
con alcuna di voi, ch’avete tanto
celebre nome di famose maghe.
Odo che porta Egitto il primo vanto
dele più dotte femine presaghe,
che d’ogni caso altrui chiaro ed intero
san su la mano indovinare il vero.
39
Deh! se ne’ patri tetti a prender posa
le tue piante raminghe il ciel raccoglia,
pregoti, aventuriera aventurosa,
che le venture mie spiegar mi voglia.
Né mi tacer qualunque infausta cosa,
benché sia per recarmi affanno e doglia.
Son sì avezzo a languir, che poco deggio
o nulla più temer quasi di peggio.
40
Fu chi mi disse astrologando ch’io
ho le fila vitali inferme e corte
e trovò ch’è prefisso al viver mio
su ‘l fior degli anni un duro fine in sorte
e che per violenza un mostro rio,
una fera crudel mi darà morte.
Vedrò s’a que’ pronostici malvagi
si conformano ancora i tuoi presagi.–
41
– Dela chiromanzia l’alta scienza
(la bellissima zingara rispose)
tien con l’astrologia gran conferenza,
sì perfetta armonia l’arti compose
per la scambievol lega e rispondenza
ch’han le terrene e le celesti cose,
e per la simpatia bella che passa
tra la sovrana machina e la bassa.
42
Ma perché i suoi principi ha più vicini,
del’altra i suoi giudici anco ha più certi,
procedendo da’ prossimi confini
del corpo istesso umano i segni aperti,
onde d’investigar gli altrui destini
prendon notizia i chiromanti esperti.
L’esperienza poi con lunga cura
del’osservazion l’arte assecura.
43
Sette monti ha la man, ciascun de’ quali
d’un pianeta del ciel l’imago esprime.
Ha quattro linee illustri e principali
corrispondenti a quattro membra prime.
In due la qualità de’ genitali
e del fonte del sangue a pien s’imprime.
Dimostran l’altre due come costrutte
sien del capo e del cor le parti tutte.
44
Quindi altri poi considerar ben pote
d’ogni complessione e d’ogni ingegno
le tempre interne e le nature ignote,
infortuni e fortune a più d’un segno.
Né creda alcun che così fatte note
sien poste a caso in animal sì degno,
perché natura e ‘l gran motor sovrano
nulla giamai nel mondo oprano invano.
45
Or al’opra son presta, e grata e lieve
mi fia per compiacerti ogni gran salma.
Porgi dunque la destra (ala cui neve,
disse seco pian piano, arde quest’alma)
e seben sempre essaminar si deve
in ciascun uomo e l’una e l’altra palma,
ala manca però l’altra prevale,
s’è diurno, qual credo, il tuo natale. –
46
A questo dir la bianca man le stende
vago d’udir più oltre il giovinetto.
Con un sospir tremante ella la prende
e prende nel toccarla alto diletto
e quel pungente stral che ‘l cor l’offende
sente scotersi intanto in mezzo al petto,
l’altro con ciglia tese e labra aperte
gli occhi da lei pendenti a lei converte.
47
– Lavar la mano (ella gli dice) è stile
perch’ogn’impression meglio si veggia.
A me però la tua par sì gentile
che non fia che di bagno uopo aver deggia.
Di cinque perle un ordine sottile
vi scorgo, il cui candor dolce rosseggia;
proporzion ch’altrui mostra palese
nobile spirto ed animo cortese.
48
Quelle tre righe poi che verso il sito
dove l’indice siede a dritto stanno
e del più grosso tuo maestro dito
nele radici a terminar si vanno,
tal qual apunto sei, vago e polito
e dilicato e morbido ti fanno,
ai diletti inclinato ed agli amori,
legator d’alme e feritor di cuori.
49
A quanto del’astrologo dicesti
rispondo che non mal deltutto avisa,
che certo è di caratteri funesti
la tua linea vital molto intercisa,
da grossi solchi e ben profondi, e questi
scendon dal primo articolo, divisa,
breve, debile, torta e disunita,
indizi ch’accorciar devrian la vita.
50
Oltre ch’ala mensal s’unisce e lega
quella di vita e quella di natura
e colà dove il pollice si piega
tra l’una e l’altra sua doppia giuntura,
stranio contesto l’intervallo sega
che molti semicircoli figura
e ‘l monte delo dio bravo e feroce
è cancellato da più d’una croce;
51
tutti per mio parer segni evidenti
d’aver tosto a passar grave periglio
e fuor de’ dritti termini correnti
del camin natural chiudere il ciglio.
Ma questi formidabili accidenti
si ponno anco fuggir col buon consiglio;
l’istesso ciel gl’influssi suoi cattivi
scrisse al’uom su la man perché gli schivi.
52
Linea v’ha poi ch’obliqua e mal disposta
dala percussione in alto ascende
e sì di Giove appo i confin s’accosta
che ‘l cavo dela man per mezzo fende.
Aggiungi ancor, ch’ove la mensa è posta,
sovra il quadro un triangolo si stende,
onde da bestia rea ti si minaccia
rischio mortal, se seguirai la caccia.
53
Ma lasciam quelche seguir deve appresso
ch’è troppo a specolar dubbio ed oscuro
e ne’ casi avenire io ti confesso
ch’ogni nostro giudicio è mal securo.
Toccherò del passato alcun successo
onde potrai comprendere il futuro,
che s’avverrà ch’io sia verace in questo,
devrai fede prestarmi anco nel resto.
54
E poiché del destin crudo e nemico
da me narrato alcun effetto sai,
intorno a questo più non m’affatico
a più prospere cose io vengo omai.
Scorgo la bianca striscia e sì ti dico
che sei per altro aventurato assai;
sempre del latte l’onorata via
importa alta fortuna, ovunque sia.
55
L’altra linea sottil, lunga e profonda
che dal dito minuto innanzi corre
e ‘l vicino tubercolo circonda
finch’al monte del sol si viene a porre
e presso ala mensal, che la seconda,
non interrotta mai quasi trascorre,
rende ancor grati e cari i tuoi costumi
a sommi regi, anzi a celesti numi.
56
E se dal’arte mia non son delusa,
havvi una donna, anzi una dea che t’ama,
ogni altro amante, ogni altro amor ricusa,
altra che gli occhi tuoi, luce non brama.
E come pur l’istessa man m’accusa,
al sole, al’ombra, ti sospira e chiama,
per te sol trae de’ giorni e dele notti
le vigilie inquiete e i sonni rotti.
57
Non so se d’esser stato unqua sovienti
preso dal sonno in alcun prato erboso,
dove t’abbian sospir forse e lamenti
d’una ninfa gentil rotto il riposo.
Ancor non so di più, se ti rammenti
d’aver seco passato atto amoroso
e ch’ella poi tra dolci nodi involto
in palagio real t’abbia raccolto.
58
E che ‘n vago giardin tra liete schiere
di fanciulli e donzelle andasti seco,
seco entrasti nel bagno e ‘n tal piacere
ella finché ‘l ciel volse, albergò teco.
Parmi fra que’ diporti anco vedere
un verde, ombroso e solitario speco,
che fu co’ muti suoi secreti orrori
testimonio fedel de’ vostri amori.
59
E fosti ad un bel fonte un dì guidato
a sentir verseggiar candidi augelli;
poi ti condusse sovra un carro alato
in un paese bello oltre i più belli,
dove se per più dì fosti beato,
tu ‘l sai, soverchio fia ch’io ne favelli
e s’accolte vedesti in varie squadre
quante furo o saran donne leggiadre.
60
Quindi a seguir ti richiamò Fortuna
di vaghe fere le vestigia sparte.
La tua fedel però sempre importuna
ti consigliava a tralasciar quell’arte. –
E seguitò narrando ad una ad una
di que’ commerci ogni minuta parte
e del’occulte lor passate cose,
senza mentir parola, il tutto espose.
61
– Quanto dico (soggiunse) e quanto intendi,
tutto dala tua man raccoglier parmi;
trovo di più ch’agli amorosi incendi
sei fatt’esca ancor tu, bersaglio al’armi
e d’amor per amor cambio le rendi,
infin tu l’ami e ciò non puoi negarmi.
S’ami quant’ella, io non so dirti apieno,
so ben che l’ami o che l’amasti almeno.
62
E ti so dir ch’a dignità suprema
ti fia dato aspirar sol per costei
e ch’ad onor di scettro e di diadema
la sua mercé predestinato sei.
Qualunque tua necessitate estrema
protettrice non ebbe altra che lei
e ti fu sempre in ogni tuo successo
fortunato o fortunoso appresso. –
63
Stupisce Adone e sbigottisce e quasi
di languidezza e di desir trabocca
e gli occhi abbassa e non gli son rimasi
colori in faccia né parole in bocca;
e rimembrando i suoi passati casi,
sì fiera passion l’alma gli tocca
e sì fatti sospir ne svelle fore,
che par che fatto pezzi abbia del core.
64
– Veramente gli è ver (poscia risponde)
son preso ed ardo e mene glorio e godo
poiché giamai più degno incendio altronde
non nacque e non fu mai più nobil nodo.
Ma la beltà ch’avaro ciel m’asconde,
lasso e chi può lodarla? apien non lodo.
Lodala, Amor, ch’ivi nascesti ed ivi
regni sempre, trionfi e voli e vivi.
65
Quando quest’occhi in prima Amor rivolse
a mirar la beltà ch’ogni altra eccede
l’alma le porte aperse e la raccolse
dela sua reggia ala più eccelsa sede;
quindi a me di mestesso il regno tolse
ed a colei, che l’avrà sempre, il diede,
nascondendo il mio cor nel sen di lei
e la bellezza sua negli occhi miei.
66
Altro da indi in qua non seppi poi
ch’ale leggi ubbidir del cieco dio
e tutti ricevendo i dardi suoi
gli servì di faretra il petto mio.
Quanto più crebbe amor poscia tra noi
più crebbe in me timor, crebbe desio
e sempre in vera fè stabile e saldo
arsi, lasso, al giel freddo, alsi al ciel caldo.
67
Già del mio bene entro le braccia accolto
vissi un tempo e godei felice amante.
Ma l’iniqua Fortuna, altrui più molto
larga in donar che ‘n conservar costante,
meco non mutò già, mutando volto,
la sua natura lubrica e rotante,
anzi tante miserie ha in me versate
che n’avria ancor la Crudeltà pietate.
68
Misero, e che mi val tra doglie e pene
agli andati piacer volger la mente,
se la memoria del’antico bene
raddoppia il novo mal che m’è presente?
A queste luci ognor di pianto piene,
dela notte natal par l’oriente
ed amo l’ombra assai più che la luce
poiché ‘n sogno il mio sole almen m’adduce
69
O memorando o miserando essempio
del’amaro d’amor dolce veleno,
qual’egli mai più dispietato scempio
fè di questo ch’io soffro in altro seno?
Dal’una al’altra aurora ingombro ed empio
d’affannati sospir l’aere sereno,
né sol, né stella, ove ch’io vada intanto,
sparger giamai mi vede altro che pianto.
70
S’io non deggio veder più que’ begli occhi,
per cui languir, per cui morir mi piace,
serrinsi i miei per sempre e non mi tocchi
raggio più mai dela diurna face. –
Qui, come Morte in lui lo strale scocchi,
s’abbandona d’angoscia e geme e tace
e dal’interno foco onde sfavilla
liquefatto per gli occhi il cor distilla.
71
– Oblio risana ogni dolor profondo
(l’amorosa indovina allor ripiglia);
poiché tanto t’affligi, io ti rispondo
che devresti ascoltar chi ben consiglia.
Ponla in non cale, altre n’ha forse il mondo
di non men belle guance e belle ciglia. –
Volea seguir, ma nela bocca bella,
occupata dal pianto è la favella.
72
– No no, (replica Adon) prima vedrassi
deporre Atlante il suo stellato peso,
neri avrà Febo i crini e tardi i passi,
gelati i raggi ond’è il suo lume acceso,
andran le fiamme al chino, in alto i sassi,
ch’io sia d’altra beltà soggetto e preso.
La’ prima del mio cor dolce ferita
sarà l’ultima ancor dela mia vita.
73
E seben dala vita io lunge vivo
in stato tal che più sperar non spero,
mostrami il caro oggetto onde son privo,
l’occhio del’alma, il peregrin pensiero.
Spesso con questo a visitarla arrivo,
questo è de’ miei sospir fido corriero.
O vada o stiami addormentato o desto,
mai né penso né sogno altro che questo.
74
Non mi duol del mio duol poich’ala doglia
la cagion del dolor porge conforto
e per desio di trionfale spoglia
è gloria in nobil guerra il restar morto.
Non m’essortar ti prego a cangiar voglia,
s’aggiunger non vuoi male al mal ch’io porto;
per lei meglio morire amo in tormento
che per altra giamai viver contento. –
75
Volse baciar la bella bocca allora
la dea d’Amor, ma di dolcezza svenne.
Fu per scoprirgli il ver senza dimora
e d’abbracciarlo apena si contenne.
Volea spuntar la lagrimetta fora
senon ch’ella negli occhi la sostenne,
perch’amor con que’ detti a poco a poco
aggiunse esca ala fiamma e fiamma al foco.
76
S’asciuga i lumi e gli solleva e dice:
– Ceder convienti a forza al ciel perverso.
Vuolsi goder mentre si pote e lice,
ma che giova cozzar col fato averso?
Questa virgula qui che la radice
dela linea vital parte a traverso
e su ‘l monte di Venere si spande,
scopre un nemico assai possente e grande.
77
Eccoti la cagion ch’essule afflitto
fuor del bel nido a tapinar ti mosse.
Un rival forte, un aversario invitto
che ti spinse a fuggir credo che fosse.
Vedi per la rascetta a passo dritto
due paralelle andar non molto grosse;
sembran compagne ed accoppiate in biga,
montano insù con geminata riga.
78
E dal’infima parte ove la mano
s’annoda al braccio, con misura eguale
verso il superior dito mezzano
l’una e l’altra delpari in alto sale
e taglian l’altre due, poste insu ‘l piano
del tondo ch’è tra ‘l polso e la vitale,
ma sono anch’elle da diverse botte
tronche per mezzo in molte parti e rotte.
79
Que’ ramoscelli poi che dala vita
procedon là dov’è di Marte il trono,
si conformano a queste e la partita
voglion pur dinotar di cui ragiono.
Fuor dela patria una furtiva uscita,
fughe ed essili espressi entro vi sono
e di paterni beni e di retaggi
perdite gravi e poveri viaggi.
80
Tacer anco non deggio e ‘l dirò pure,
quelle croci colà picciole e spesse
che con infauste e tragiche figure
su la mensa vegg’io sparse ed impresse,
non son fuorché travagli e che sciagure,
strazi e dolor significati in esse,
e disegnano un cumulo d’affanni
apunto in su ‘l fiorir de’ più verd’anni.
81
E per venire ad un parlar distinto,
dico, per quanto il mio saver n’attigne,
che fosti in ceppi ed in catene avinto
sol per cagion di femine maligne,
perché veggio di stelle un labirinto
che la linea del core intorno cigne
e veggio la mensal, che ‘n due disgiunta,
verso l’indice e ‘l mezzo i rami appunta.
82
Strega malvagia, anzi infernal megera
perché degli occhi tuoi molto invaghissi
d’una prigion caliginosa e nera
vivo ti sepelì sotto gli abissi.
Ma quel penoso carcere non era
il cordoglio maggior che tu sentissi.
Sol con la gelosia fuor di speranza,
t’affligea del tuo sol la lontananza.
83
Né perché con minacce e con martiri
la scelerata incantatrice infame
di torcer si sforzasse i tuoi desiri
a sciorre il primo lor dolce legame,
né per offrirti quanto il vulgo ammiri
e quanto appaghi l’essecrabil fame,
valse a far che volesse unqua il tuo core
falsar la fede o magagnar l’amore.
84
Nulla dico a macchiar la limpidezza
dela tua lealtà giamai le valse,
senon ch’a frodi ed a perfidie avezza
ricorse ad arti ingannatrici e false.
Sotto la finta imagine e bellezza
di colei che tant’ami ella t’assalse;
e senon era il ciel che pietà n’ebbe,
vinto con armi tali alfin t’avrebbe.
85
E però che le stelle ivi raccolte
fuor dela linea son, convien ch’io dica
che rotti i ceppi e le catene sciolte
n’uscisti, non però senza fatica.
Ti diè favore e t’aiutò più volte
la tua pietosa e sviscerata amica,
onde puoi dir per cosa certa e vera
che ti diè libertà la prigioniera.
86
Costei dele malie che t’avean guasta
l’umana effigie con velen possente,
disfece i groppi onde t’è poi rimasta
d’ogn’insano pensier sana la mente.
E tanto aver di ciò detto mi basta,
meglio a testesso è noto il rimanente.
E sai per quanti soli e quante lune
quante incontrasti poi dure fortune. –
87
Tutto in sestesso a rimirarla fiso
recossi Adon da quel parlar commosso.
Tocco da un sovrasalto al’improviso
divenne in volto del color del bosso.
Ma dal dolce balen d’un bel sorriso
fu ferito in un punto e fu riscosso.
La speme sfavillò dentro il timore
e gli si sollevar l’ali del core.
88
– O qual che tu ti sia, la cui dottrina
(prorompe poi) sa penetrar ne’ petti,
come giovane bella e peregrina
può di tanto avanzar gli altri intelletti,
che con sovramortal luce divina
s’apra la strada ai più riposti affetti?
Deh! non più ti celar se donna sei,
ma già donna non sembri agli occhi miei. –
89
– Donna (risponde) io son. Che quanto chiudi
nel profondo del’alma io ti palesi
e scorga i tuoi pensier svelati e nudi
stupir non dei; ciò da’ prim’anni appresi.
Cotanto ponno i curiosi studi
in cui lungo travaglio e tempo spesi.
Quinci il tutto conosco e vie più assai
so degli affari tuoi che tu non sai.
90
Ma che dirai se fia ch’io ti discopra
dov’or si trova il tuo dolce tesoro?
E che molto vicin ti pende sopra
fato miglior, d’ogni tuo mal ristoro?
Qual premio avrò? già per mercé del’opra
gemme non vo, non curo argento ed oro.
Ma che sola una rosa a coglier abbia
di quelle che sì fresche hai nele labbia. –
91
Così dicendo il cupido garzone
trattiene e tuttavia la man gli stringe.
A tal dimanda ed a tal atto Adone
di punico vermiglio il viso tinge
e fa seco tra sé dubbia tenzone:
l’un pensier lo ritien, l’altro lo spinge.
Ciò che la donna dice intender brama,
né vuol romper la fede a chi tant’ama.
92
Sorrise allor quella bellezza rara,
volsi dir come rosa o come stella,
ma non ha stella il chiaro ciel sì chiara
né fu mai rosa in bel giardin sì bella.
Il vel ch’asconde la sembianza cara
si squarcia intanto e più non sembra quella.
Scorge Adon di colei che ‘l cor gli ha tolto,
sbendato il lume e smascherato il volto.
93
Sicome lampo suol nele tempeste
lacerar dele nubi il fosco velo,
o come pur col suo splendor celeste
la lampa serenissima di Delo
sgombra ed alluma in quelle parti e ‘n queste
le notturni caligini del cielo;
così quand’ella il ver gli discoverse
tutte de’ suoi pensier le nebbie aperse.
94
Sta pur in forse Adon di quelche vede,
il piacer lo confonde e lo stupore
e ‘n su ‘l primo apparir, perché non crede
un tanto ben che gli presenta amore,
al’occhio lusinghier non ben dà fede,
ché cerca spesso d’adulare al core;
suol talvolta ingannato il vago sguardo
in ciò ch’altri più brama esser bugiardo.
95
Ma rinfrancato da quel primo assalto,
poiché conobbe il desiato aspetto,
brillar per gioia con festivo salto
sentissi il core e scintillar nel petto.
Tutto dentro di foco e fuor di smalto,
rapito alfin da traboccante affetto
e stillando per gli occhi allegra vena,
tese le braccia e le ne fè catena.
96
L’incatenata ed infocata diva
i nodi raddoppiò saldi e tenaci.
Svegliossi Amor che non lontan dormiva
e d’amor si svegliaro anco le faci.
L’accesa coppia in su la fresca riva
i vezzi favoria con mille baci.
Gioiva Adone e de’ passati affanni
campo avea ben da risarcire i danni.
97
De’ dì perduti e del ritorno tardo
ristora il tempo entro ‘l bel grembo assiso.
Dolce pria l’arse il lampeggiar del guardo,
dolce ferillo il folgorar del riso,
ma dolcemente da più dolce dardo
al saettar del bacio ei giacque ucciso.
Languiano l’alme e d’egual colpo tocca
gravida di due lingue era ogni bocca.
98
Non fu per man di duo maestri saggi
concordia, credo, mai di duo stromenti
che raddoppiasse con sì bei passaggi
differenze di suoni e di concenti,
come di vero amor dolci messaggi
alternavan tra lor sospiri ardenti
e tra que’ baci armonici parlando
garriano aprova e discorrean baciando.
99
– O mia dorata ed adorata dea,
pria ch’io la gloria tua scorgessi apieno,
giuro a te per testessa (egli dicea)
ch’oggi mi palpitava il cor nel seno,
peroché non gli parve e non potea
esser il lume tuo lume terreno.
Un raggio sol che del mio sol mi tocchi
conosciuto è dal cor pria che dagli occhi.
100
Anima del mio cor, giunta è pur l’ora
che si chiuda in piacer lungo tormento.
Degno di rimirarti anzi ch’io mora
son pur la tua mercé fatto contento.
Dela divinità l’aura ch’odora
e del petto che bolle il foco sento.
So che ‘n mostrarmi il ver senza menzogna
non travede lo sguardo e ‘l cor non sogna. –
101
– O sospirato in tante aspre procelle
(rispondea l’altra) e non sperato porto,
tra le tue braccia alfin, che son pur quelle
che bramai sì, lo stanco legno ho scorto.
A dispetto del cielo e dele stelle
meco ho pur la mia vita, il mio conforto,
orché quel fiero Trace ingelosito,
dio di ferro e di sangue, altrove è gito.
102
Centro de’ miei desir, questa che vedi
è colei che t’adora e più non fingo.
S’al tuo veder, s’al mio parlar non credi,
ecco ti bacio, ecco t’abbraccio e stringo.
S’altra prova più certa anco ne chiedi
che i vezzi e i nodi onde t’accolgo e cingo,
puoi dal mio stesso cor saperne il vero
ch’entro i begli occhi tuoi sta prigioniero. –
103
Così diceano e i fauni al mormorio
de’ baci che s’udian ben di lontano,
dal diletto rapiti e dal desio,
giù da’ monti vicin calaro al piano.
Fuor dela verde sua spelonca uscio
il tutor de’ confin, padre Silvano,
e di tanta beltà le meraviglie
a mirar, a lodar, chiamò le figlie:
104
– Ninfe (dicea) di questi ombrosi chiostri,
fate dolce sonar l’aure dintorno
e con gemma eritrea negli antri vostri
segnate in bianco il fortunato giorno.
Mirate là di che divini mostri
d’amorose bellezze è il bosco adorno. –
E qui taceasi e poi con balli e canti
tutti applaudeano ai duo felici amanti.
105
Tirato intanto da duo bianchi augelli
stranio carro s’offerse al partir loro.
Né di ciclopi mai lime o martelli
opra fornir di più sottil lavoro.
I seggi ha di zaffir capaci e belli
e le rote d’argento e i raggi d’oro.
Avorio è l’orbe e ben massicci e sodi
son diamante e rubin le fasce e i chiodi.
106
Partono. Auriga Amor siede al governo
sul bel soglio falcato e l’aureo morso
per via serena, Autumedonte eterno,
con redine di rose allenta al corso.
Verso gli alberghi del giardin materno
va flagellando ai vaghi cigni il dorso.
Auretta amica con suoi molli fiati
seconda il volo de’ canori alati.
107
Ma stimulata da desiri ardenti
d’indugio accusa i volator leggieri
la coppia bella e le parrebbon lenti
del rettor dela luce anco i destrieri.
Fa le rote strisciar lievi e correnti
lubrico il carro a que’ divini imperi,
il carro, che nel grembo accoglie e serra
le bellezze del cielo e dela terra.
108
In occidente il sol già si calava
sferzando i corridor verso le stalle,
né più dritto su ‘l capo i rai vibrava,
ma per traverso altrui feria le spalle;
e già la Notte gelida tornava
dagli antri fuor dela cimeria valle
le campagne del ciel serene e belle
con negra mano a seminar di stelle,
109
quando andaro a sfogar nel letto usato
del’usata magion gli accesi cori,
che spirar si sentia per ogni lato
del’antiche dolcezze ancor gli odori.
Quivi iterando poi lo stil passato,
tornaro ai primi scherzi, ai primi amori.
L’un senza l’altro ad altra cura intento
né movea passo, né traea momento.
110
Un dì sotto la loggia, ove sovente
dispensan l’ore insieme e le parole,
Venere, che giamai l’occhio o la mente
non allontana dal’amato sole,
vedelo in un pensier profondamente
immerso e più tacer ch’egli non suole,
poiché l’amiche ninfe assise al fresco
han del bianco mantil spogliato il desco.
111
Onde per torgli dala mente ogni ombra,
in tai detti ala lingua il nodo ha sciolto:
– Adone, occhio mio caro, omai deh sgombra
tutte dal cor le tenebre e dal volto.
Qual gran pensier quella bellezza ingombra
che di mestessa ogni pensier m’ha tolto,
per cui non curo il ciel, né più mi cale
dela beatitudine immortale?
112
Sprezzo per te la mia celeste reggia,
tu sei solo mio ciel, mio paradiso,
che s’una stella nel mio ciel lampeggia
due più chiare ne gira il tuo bel viso.
E qualor nele rose, onde rosseggia
la purpurea tua guancia, il guardo affiso
e come, oimé! non sospirar poss’io
se scorgo nel tuo volto il sangue mio?
113
Or se la vista sol dela tua faccia
è d’ogni mio desir bersaglio e meta,
rasserenarla omai tanto ti piaccia
ch’io la possa mirar contenta e lieta.
E perché ‘l gioco i rei pensier discaccia
e d’ogni anima trista il duolo acqueta,
per desviar dal’altre cure il core
vo’ che ‘nsieme giocando inganniam l’ore.
114
Se lieve pila in singolar steccato
con curva rete in mano ami colpire
o se di cavo faggio il braccio armato
vuoi globo d’aure gravido ferire,
se stretto infra le pugne il maglio astato
batter palla con palla hai pur desire
o se ti fia gittando i punti a grado
far le corna guizzar del mobil dado;
115
o se le brevi e figurate carte
volger ti piace o che trattar le voglia
finché quattro diverse insieme sparte
siché rompa l’invito alcun ne toglia,
o là dove preval la sorte al’arte
far che l’un dopo ‘l trenta il gioco scioglia,
o trionfar con quella che si lassa
nela confusa ed agitata massa;
116
o se di trentasei brami in sei volte
dodici torne ed altrettante darne
e l’ultime lasciando in monte accolte
otto l’un, quattro l’altro, indi scambiarne
e di quelle che ‘n man ciascuno ha tolte
scoprir il punto e ‘l numero contarne
o riversar la sorte del compagno
facendo dela perdita guadagno;
117
di qual più ti talenta, insomma, puoi
essercizio ozioso aver piacere.
Ma peroché ‘n ciascun, qualunque vuoi
hanno il caso e la fraude assai potere
e perché mostri ne’ sembianti tuoi
nobile ingegno e generoso avere,
un proporronne in cui non abbia alcuna
possanza inganno o signoria fortuna.
118
In tal guisa però pria si patteggi
che ‘l vinto al vincitore un premio dia,
onde se vincerai con queste leggi
pieno arbitrio di me dato ti fia.
Ma s’egli avien che tu non mi pareggi
siché venga la palma ad esser mia,
com’esser tua perdendo uopo mi fora,
voglio dele tue voglie esser signora. –
119
Fermo tra lor con quest’accordo il patto,
ecco d’astuto ingegno e pronta mano
garzon che sempre scherza e vola ratto:
Gioco s’appella ed è d’Amor germano.
Questi su l’ampia tavola in un tratto
a recar venne un tavoliero estrano,
che di fin oro ha la cornice e ‘l resto
tutto d’avorio e d’ebeno è contesto.
120
Sessantaquattro case in forma quadra
inquartate per dritto e per traverso
dispon per otto vie serie leggiadra
ed otto ne contien per ciascun verso.
Ciascuna casa in ordine si squadra
di spazio egual, ma di color diverso,
ch’alternamente a bianco e brun distinto
qual tergo di dragon tutto è dipinto.
121
Scambievolmente al bianco quadro il nero
succede e varia il campo in ogni parte.
– Or qui potrai, quasi in agon guerriero
(disse la dea) veder quanto può l’arte,
dico di guerra un simulacro vero
ed una bella imagine di Marte,
mover assalti e stratagemi ordire
e due genti or combattere, or fuggire.
122
A spettacol sì dolce esser presente
anco il gran padre mio talor non sdegna,
quando alleggiar la faticosa mente
vuol del’incarco onde governa e regna.
Questo gioco il rettor del gran tridente
con le nereidi essercitar s’ingegna
per dar a Giove alcun piacer qualora
del’amico ocean le mense onora. –
123
Ciò detto, versa da bell’urna aurata
su ‘l tavolier di calcoli due schiere,
che di tornite gemme effigiata
mostran l’umana forma in più maniere.
L’una e l’altra falange è divisata
là di candide insegne e qui di nere.
Son di numero pari e di possanza,
differenti di nome e di sembianza.
124
Sedici sono e sedici e sicome
vario è tra loro il color bianco e ‘l bruno
e varia han la sembianza e vario il nome,
così l’ufficio ancor non è tutt’uno.
Havvi regi e reine ed ha le chiome
di corona real cinta ciascuno.
V’ha sagittari e cavalieri e fanti
e, di gran rocche onusti, alti elefanti.
125
Ecco son già gli esserciti disposti,
già ne’ siti sovrani e già negl’imi
son divisi i quartier, partiti i posti.
Stan nel’ultima linea i re sublimi,
e quinci e quindi entrambo a fronte opposti,
la quarta sede ad occupar van primi,
ma ‘l canuto signor, ch’è l’un di loro,
preme l’oscura e tien l’eburnea il moro.
126
La regia sposa ha ciascun re vicina,
un l’ha dal destro lato, un l’ha dal manco.
Tien campo a sé conforme ogni reina,
la fosca il fosco tien, la bianca il bianco.
Nela fila medesima confina
gemino arcier da questo e da quel fianco.
Questi la rissa a provocar sen vanno
e dela real coppia in guardia stanno.
127
Non lontani a cavallo han duo campioni
in pugna aperta a guerreggiar accorti
e nel’estremità de’ duo squadroni
l’indiche fere gli angoli fan forti.
Otto contr’otto assiston di pedoni
in ordinanza poi doppie coorti,
ch’ai primi rischi dela guerra avanti
portano i petti intrepidi e costanti.
128
Così se con l’etiope a far battaglia
talor di Gallia il popolo s’abbatte,
par che stormo di corvi i cigni assaglia,
vengono al paragon la pece e ‘l latte.
Vedesi l’un che di candore agguaglia
del’Alpi sue natie le nevi intatte,
porta l’altro di lor, però che molto
al’aurora è vicin, la notte in volto.
129
Volge a Cillenio in questo tempo i preghi
Ciprigna bella e con que’ dolci vezzi
a cui voglia non è che non si pieghi,
anzi marmo non è che non si spezzi,
chiede che ‘l modo al bell’Adon dispieghi
di dar regola al gioco e moto ai pezzi.
E quei, fra mille Amor che stanno attenti,
ammaestrando il va con questi accenti:
130
– Pugnasi a corpo a corpo e fuor di stuolo
quasi in steccato ogni guerrier procede,
s’un bianco esce di schiera, ecco ch’a volo
dala contraria uscir l’altro si vede.
Ma con legge però che più d’un solo
mover non possa in una volta il piede.
E van tutti ad un fine, in stretto loco
con la prigion del re, chiudere il gioco.
131
E perch’egli più tosto a terra vada,
tutti col ferro in man s’aprono i passi.
Chi di qua, chi di là, sgombra la strada,
pian pian men folta la campagna fassi;
al’uccisor, s’avien ch’alcun ne cada,
del caduto aversario il loco dassi.
Ma campato il periglio, ecetto al fante,
lice indietro a ciascun ritrar le piante.
132
Del marciar, del pugnar, nel bel conflitto
pari in tutti non è l’arte e la norma.
Varca una cella sol sempre per dritto
contro il nemico la pedestre torma;
senon che quando alcun ne vien trafitto
si feriscon per lato e cangian forma;
e ponno nel tentar del primo assalto
passar duo gradi e raddoppiare il salto.
133
Può da tergo e da fronte andar la torre,
porta a destra ed a manca il grave incarco,
ma sempre per diametro trascorre
né sa mai per canton torcere il varco.
Sol per sentiero obliquo il corso sciorre
è dato a quel ch’ha le saette e l’arco;
fiancheggiando si move e mentre scocca
l’un e l’altro confin del campo tocca.
134
Il cavallo leggier, per dritta lista
come gli altri l’arringo unqua non fende,
ma la lizza attraversa e fiero in vista
curvo in giro e lunato il salto stende,
e sempre nel saltar due case acquista,
quel colore abbandona e questo prende.
Ma la donna real, vie più superba,
ne’suoi liberi error legge non serba.
135
Per tutto erra costei, lunge e da presso
e può di tutti sostener la vice,
salvo che ‘n cerchio andar non l’è permesso,
saltellar, volteggiar le si disdice;
privilegio al destrier solo concesso,
corvettando aggirarsi altrui non lice.
Nel resto poi, se non ha intoppo al corso,
non trova al suo vagar meta né morso.
136
Move l’armi più cauto il re sovrano,
in cui del campo la speranza è tutta,
ché, s’egli prigionier trabocca al piano,
l’oste dal canto suo riman distrutta.
Quinci per lui ciascuno arma la mano,
per lui s’espone a perigliosa lutta;
ed egli spettator dela contesa
cinto di guardia tal, non teme offesa.
137
Poco intende a ferire e per l’aperto
in publica tenzon raro contrasta,
non è questo il suo fin, ma ben coverto
dal’insidie schermirsi assai gli basta.
Pur se contro gli vien duce inesperto,
sa ben anco trattar la spada e l’asta;
colpisce e noce e poiché ‘l seggio lassa
di più d’un quadro il termine non passa.
138
Queste le leggi son ch’io ti racconto
del bel certame e rompersi non denno.
Ma perché l’uso lor ti sia più conto
potrai pria dala prova apprender senno. –
Così dic’egli e lo scacchier, ch’è pronto,
si reca innanzi, indi ala dea fa cenno.
A dirimpetto suo fa che s’assida
e siede anch’egli ed a giocar la sfida.
139
Viensi a giornata. A muoversi è primiero
il bianco stuol che Citerea conduce.
Ella, sospesa alquanto insu ‘l pensiero,
il pedon dela donna in campo adduce.
Quel s’avanza duo gradi e non men fiero
un gliene mette a fronte il negro duce.
Scontransi ambo nel mezzo, e destro e scaltro
studia l’un con vantaggio opprimer l’altro.
140
Quinci e quindi a favor di questo e quello
d’armati innanzi un numero si spinge.
Scherza tuttavia Marte e l’un drappello
con l’altro ancor non si confonde o stringe.
Ma de’ duo fanti in singolar duello
già nel candido il bruno il ferro tinge;
gli usurpa il loco, ahi misero, né vede
il nemico vicin che ‘ntanto il fiede.
141
Cade sovra ‘l caduto. Il rege oscuro
va dal mezzo al’estremo e muta sito,
dove tra i fidi suoi tratto in securo
inespugnabilmente è custodito.
Ed ecco allor con aspro incontro e duro
e con rapide rote a guerra uscito,
l’un e l’altro destrier del manco corno
empie di strage la pianura intorno.
142
Ma mentre che la figlia alma di Giove
ala turba pedestre è tutta intenta,
Mercurio, inteso a più sagaci prove,
furtivi aguati insidioso tenta.
Il sinistro corsier tra i fanti move
che sfrenato pertutto erra e s’aventa,
s’incurva e gira e con sottile inganno
procura al re malcauto occulto danno.
143
Eccolo giunto ove minaccia insieme
l’ultimo eccidio ala suprema reggia
ed al destro canton del’ali estreme
dov’un de’ propugnacoli torreggia.
La bella dea d’Adon sospira e geme
che non sa dove pria soccorrer deggia.
Campar non può in un punto e quello e questo
pur la vita del re prepone al resto.
144
Tira il rege in disparte ed indifeso
l’elefante meschino è spinto a terra,
ma ‘l fiero corridor ch’al pian l’ha steso
non pertanto impunito esce di guerra.
Tenta il rischio fuggir, ma gli è conteso
dala gente da piè che ‘ntorno il serra.
Ucciso intanto dala vergin forte
termina il viver suo con bella morte.
145
Qual tauro, s’egli avien che perdut’abbia
pugnando un corno, inferocisce e mugge
e ‘nsanguinando la minuta sabbia
l’armi incontra col petto e non le fugge,
tal con minor consiglio e maggior rabbia
per sì notabil perdita si strugge,
brama di vendicarsi e l’armi ultrici
irrita Citerea contro i nemici.
146
Volontaria a sbaraglio espone i suoi
né cura che più d’un n’esca di vita
purché dato le sia di veder poi
col proprio mal l’altrui ruina unita.
L’arguto messo de’ celesti eroi
con miglior senno i suoi disegni alta;
prevede i colpi e con ragion matura
dela preda superbo il tutto cura.
147
Tacito va tra sé volgendo spesso
mortal essizio ala reina bianca.
Già poiché ‘l destro arciero egli l’ha messo
celatamente appo la costa manca,
malguardato pedon le spinge appresso,
poi traendo un sospir si batte l’anca,
quasi pentito, e con astuti modi
fingendo error, dissimula le frodi.
148
Tosto ch’offrir l’occasion si scorge
pensa Vener nel crin prender la sorte,
corre ingorda ala preda e non s’accorge
che scopre il fianco ala real consorte.
Al nemico pedon ch’oltre si sporge
va già per dar col suo pedon la morte,
quando di tanto mal pietoso il figlio
cenno le fece e l’avertì col ciglio.
149
Sostiene allor la mano e ‘l colpo arresta
la dea che ‘l gran periglio aperto mira
e ‘l pedon, che pur dianzi ardita e presta
cacciava innanzi a suo squadron, ritira.
L’araldo degli dei querulo in questa
di gridi empie il teatro e freme d’ira.
Conquistata l’amazzone e delusa
sua ragion chiama e Citerea si scusa.
150
– Chi nega (dice) al giocator che mossa
la destra errante a trascurato tratto,
in meglio poi correggerla non possa
se nol vieta tra noi legge né patto?
Or che da tanto rischio io l’ho riscossa,
decreto inviolabile sia fatto:
qual fia del’un de’ duo tocco primiero,
quello a forza ne vada, o bianco o nero. –
151
Questa giusta sentenza a tutti piacque
e s apprestaro a risguardarne il fine.
Il divin nunzio affrenò l’ira e tacque
trafitto il petto di mordaci spine
e secreto pensier nel cor gli nacque
di pugnar con inganni e con rapine.
Vigila ale calunnie e molto importa
ala madre d’Amor l’esser accorta.
152
Spesso nel moto le veloci dita
trafuga e scambia e non so come implica
e duo corpi e duo colpi in una uscita
sospinge a danneggiar l’oste nemica.
Già già con man sì rapida e spedita
che la può seguitar l’occhio a fatica,
un faretrato suo manda al’assalto
e fa che del cavallo imiti il salto.
153
Quel balza in mezzo e con mentita insegna
di destrier contrafatto il passo stampa;
vibra sestesso e d’atterrar s’ingegna
la vergin bianca a cui vicin s’accampa.
Aspramente sorride e sì si sdegna
Venere allor, che ‘n vivo foco avampa:
– Ben sei de’ furti autor (disse) e maestro,
ma vuolsi nel celargli esser più destro. –
154
Rise de’ circostanti a pieno coro
la turba, a vista de’ palesi inganni
e tutto rimbombò l’atrio sonoro
di man battute e di battuti vanni.
Vergognoso e confuso al rider loro
sorse Mercurio dai dorati scanni
e succeder Adon volse in suo loco
a terminar l’incominciato gioco.
155
Di Giove in questo mezzo il messaggiero
e l’alato fanciullo, infra lor dui
l’un contro l’altro insieme accordo fero
d’attraversar nela partita altrui.
Per lei parteggia il faretrato arciero,
il celeste orator la tien per lui,
e già vengono entrambo astuti ingegni
ad ingaggiar dela scommessa i pegni.
156
Vuol Mercurio, se vince, un’aurea rete
di filato diamante i nodi intesta,
ch’a far secure ognor prede secrete
spera ch’assai giovar gli deggia questa.
Se vince Amor, vuol il baston che ‘n Lete
può repente attuffar la gente desta,
per poter poi nele notturne frodi
addormentare i vigili custodi.
157
Movesi il vago Adon con cauto aviso
provido al’armi e non le tratta in fallo;
mentre al suo re, nel maggior trono assiso,
vien per dar caccia il candido cavallo,
un con l’arco l’uccide e questi ucciso
cade per un pedon senza intervallo,
quel per un altro; ecco ogni arcier concorre,
ogni destrier si move ed ogni torre.
158
Sorge la pugna e si condensa e mesce
alternando le veci e gli accidenti,
come quando l’Ionio ondeggia e cresce
agitato talor da vari venti.
Ma l’amazzone bianca arriva ed esce
per mezzo l’ali dele negre genti
e nel’andar e nel tornar, mentr’erra,
un sagittario, un elefante atterra.
159
Passa tra l’armi ostili e fulminante,
fende la mischia qual saetta o lampo;
restano addietro e le fan piazza avante
le squadre averse, ognun le cede il campo.
Ella fidando nele lievi piante
onde può sempre agevolar lo scampo,
de’ penetrali interni a corso sciolto
spia l’occulto, apre il chiuso e spiana il folto.
160
Emulo allora in scaramuzza appella
la sua guerriera il principe de’ neri,
ed ecco aprova infuriata anch’ella
precipitosamente apre i sentieri.
Caggion dispersi in questa parte e ‘n quella
elefanti e destrier, fanti ed arcieri.
Chi narrar può le stragi e le ruine
che fan le due magnanime reine?
161
Si fronteggian del pari e parimente
eguale han forza ed armatura eguale.
Già già la bianca il calamo pungente
vibra e da tergo l’aversaria assale.
Ma se l’una ne muor, l’altra repente
non con fato miglior pere di strale
e quinci e quindi con mortal caduta
acquistata è la spoglia e non goduta.
162
Dele due donne i vedovi mariti
cercano allora in salvo ambo ritrarsi,
del gran flagello timidi e smarriti
che guerrier tanti ha dissipati e sparsi.
Pur non d’ogni lor forza impoveriti
possono ancor difendersi e guardarsi.
Tre pedoni, un arciero e torreggiante
ha la bella Ciprigna un elefante;
163
altrettanti n’hai tu, leggiadro Adone,
tranne la belva che ‘l castello porta,
laqual pur dianzi nel funesto agone
per man d’un fier saettator fu morta.
Tutto il resto involò l’aspra tenzone,
tempesta orrenda ha l’altra gente absorta;
mesta a vedere e lagrimosa scena,
desolata di popoli l’arena.
164
Soli i duo capi e senza spose a’ fianchi
stansene avolti in dolorose spoglie.
Ma pur, da rea fortuna afflitti e stanchi,
ai secondi imenei piegan le voglie.
Invita prima il regnator de’ bianchi
le fide ancelle del’antica moglie
al consorzio real, ma si compiace
provar pria di ciascuna il core audace.
165
Le conforta a varcar gli argini ostili
e le manda a tentar l’ultima meta
per veder qual più spirti abbia virili
e sia più franca e generosa atleta.
Nozze reali a femine servili
sperar per legge espressa il gioco vieta,
salvo a quell’una sol ch’invitta e prima
del’altro limitar tocchi la cima.
166
Troncan gli indugi le ministre elette,
la proposta mercé fa piano il guado.
Ma l’altre a quella pur cedon costrette,
che tien del destro corno il terzo grado.
L’ali ale piante ambizion le mette,
tanto ch’oltre sen vola altrui malgrado
e mal può dela gloria il bel sentiero
interdirle il rettor del popol nero.
167
Onde al’onor che le nemiche alletta,
aprova anco le sue stimula e punge
e la quarta da manca al segno affretta,
ma più tarda d’un passo ancor n’è lunge.
La bianca intanto ad occupar soletta
il bel talamo voto, ecco pur giunge
e del’eredità che le perviene
con applauso de’ suoi lo scettro ottiene.
168
Del diadema novel la donna allegra
allenta al corso impetuosa il freno
e possedendo la campagna integra
l’alte ruine risarcisce apieno.
Cade trafitta la guerriera negra
su ‘l confin dela meta, un grado meno.
Fuggon l’altre reliquie e ‘l re confuso
da duro assedio è circondato e chiuso.
169
Di Maia il figlio che vicin gli siede
compatisce d’Adon la doglia intensa
e, nov’arti volgendo, osserva e vede
che la dea degli Amori ad altro pensa,
perché ‘ntesa a tentar col piede il piede
del’amato garzon sotto la mensa
null’altro cura e, di sestessa fore,
vince misera il gioco e perde il core.
170
Il tempo coglie e nel’aurato e bello
bossolo ch’ai cadaveri cattivi
de’ vinti in guerra è carcere ed avello,
stende gli artigli taciti e furtivi.
Un arcier bruno ed un destrier morello
ne tragge ed a pugnar gli torna vivi,
ma perché gli atti e i movimenti sui
ciascun risguarda, adopra il mezzo altrui.
171
La fraude ad esseguir Galania essorta.
Di Venere una ninfa è così detta,
non men destra di man, d’ingegno accorta
che di volto leggiadra e giovinetta.
Quando tutta d’Adon la squadra è morta
i duo freschi guerrier costei vi getta,
onde l’un tende l’arco e l’altro in zuffa
zappa, ringhia, nitrisce e freme e sbuffa.
172
La bella dea del mirto e della rosa
che novo scorge e non pensato aiuto
sovragiunto al nemico, e strana cosa
stima com’avea vinto aver perduto;
lo sguardo alzando stupida e dubbiosa,
sorrider vede il messaggiero astuto,
onde il tratto compreso: – Or tanto basta –
(dice) e ‘l gioco con man confonde e guasta.
173
E dal loco levata ov’era assisa,
spinta dal’ira che nel petto accoglie,
corre a Galania e la percote in guisa
che con quel colpo ogni beltà le toglie.
Ahi! quanto è folle, ahi! quanto mal s’avisa
chi tenta opporsi ale divine voglie.
Fu sì ‘l capo ala misera percosso
con lo scacchier, che le rimase adosso.
174
Da Citerea con tanta furia e forza
è battuta la ninfa afflitta e mesta,
che ‘ncurvato e cangiato in cava scorza
sovra le spalle il tavolier le resta.
La luce de’ begli occhi allor s’ammorza,
sparisce l’oro dela bionda testa,
la cervice, che ‘n sé rientra ed esce,
quasi un mezzo divien tra serpe e pesce.
175
S’accorcia il corpo e fin sovra la nuca
nela macchiata spoglia ascoso stassi;
con quattro piè convien che si conduca
che con gran tardità mutano i passi.
Trasformata di ninfa in tartaruca,
tra spelonche profonde a celar vassi;
e ‘l grave incarco del nativo albergo
sempre dovunque va, porta su ‘l tergo.
176
– Prendi d’ardir sì sciocco il premio degno
(disse la dea con iracondo aspetto)
ad irritar de’ sommi dei lo sdegno
impara ed a turbar l’altrui diletto.
Quel tuo sì pronto e sì spedito ingegno,
più ch’altro or diverrà tardo ed inetto.
Quelle man, già sì preste a far inganno,
pigre altrettanto e stupide saranno.
177
Del tuo vivo sepolcro abitatrice,
in effigie di bestia insieme e d’angue
animato cadavere infelice,
senza viscere vanne e senza sangue.
Severa stella del tuo fallo ultrice,
colà ti scorga ove si torpe e langue
tra granchi e talpe e chiocciole e lumache
in caverne palustri e ‘n valli opache.
178
Dal peso che cagion fu de’ tuoi mali
in ogni tempo avrai l’omero oppresso;
e quando fra lo stuol degli animali
ricercata sarai da Giove istesso,
innanzi a’ suoi divini occhi immortali
a te sola venir non fia concesso,
scusandoti con dir d’esser rimasa
a custodir la tua dipinta casa.
179
Voglio di più, che quando a quel dolce atto
che da me vien, ti stimula natura,
poiché ‘l fin del desir n’avrà ritratto,
il maschio più di te non prenda cura;
e tu per pena allor del tuo misfatto
ti rimarrai del’aquila pastura,
rivolta al ciel la pancia, al suol la schiena,
senza poter drizzarti insu l’arena.
180
Onde malgrado del piacer che sente
d’amorosa saetta un cor ferito,
temprata la libidine cocente,
la salute anteposta all’appetito,
sarai costretta ad esser continente
ed a fuggire il tuo crudel marito,
bench’occulta virtù d’erba efficace
ti farà pur piacer quelch’altrui piace. –
181
Così la maledisse ed adirata
ritrasse altrove il piè Ciprigna bella.
Mercurio che ‘n testudine mutata
vide, sua colpa, la gentil donzella,
pietà ne prese e d’auree corde armata
lira canora edificò di quella,
indi lieto inventor di sì bel suono,
fenne al gran dio de’ versi altero dono.
182
Poiché dal gioco si levò la dea,
tra Mercurio ed Amor gran lite sorse.
Amor che seco attraversato avea,
quando anch’ei dela fraude alfin s’accorse,
dela traversa il pregio a lui chiedea
con gridi al cui romor la madre corse.
Venere con Adon tutta sospesa
dimanda la cagion di tal contesa.
183
Giudice fatta poi dela disputa,
pria del cieco fanciullo ode l’accusa,
che dice esser la verga a lui devuta
e ch’a torto pagar l’altro ricusa.
Ella, che sa del’altro ogni arte astuta,
intender vuol da lui come si scusa
e perché nega al figlio il caduceo
che dee di chi l’ha vinto esser trofeo.
184
– Quand’io pur or non vi conchiuda (ei disse)
ch’a nessun di voi duo la palma tocca,
s’a mio favor nele presenti risse
la sentenza non vien di vostra bocca,
se Giove istesso, ancorché ‘n ciel l’udisse,
non dirà tal querela ingiusta e sciocca;
mio sarà il danno e la ragion ch’io porto
vo’ confessar che sia calunnia e torto. –
185
– Stiamo pur ad udire, io vo, por mente
(sorridendo rispose il nudo arciero)
se co’ sofismi tuoi, bench’eloquente,
saprai darne a veder bianco per nero.
Da’ miei detti (ei soggiunse) apertamente
fra conosciuto e manifesto il vero;
e perch’altro che ‘l ver non v’abbia loco,
non vo’ partir dela ragion del gioco.
186
Del gioco la ragion vuole e richiede
ed al dever del giocator s’aspetta,
ch’altri prenda a giocar quelche possiede
e che ‘l suo, non l’altrui, nel campo metta.
Qualora il gioco in altro stil procede,
l’usanza del giocar non è perfetta.
Tanto meno a chi gioca è poi concesso
giocarsi quel del’aversario istesso.
187
Convien che sia da questo e da quel canto
tra due parti il partito e ‘l rischio eguale.
Se modo non ha l’un da perder quanto
perder può l’altro, il suo giocar non vale,
né portar può di vincitore il vanto
quegli a cui manca un fondamento tale.
Né vincendo talor, pretender debbe
dal perditor quelch’egli in sé non ebbe.
188
Or veggiam, bella dea, s’a proprio costo
giocasti e s’egli è tuo quel ch’hai giocato
e se da te su ‘l tavolier fu posto
quanto ha costui giocando aventurato.
Così del figlio tuo sarà poi tosto
sopito ancor per conseguenza il piato.
Tu stessa in premio esposta ala tenzone
promettesti, perdendo, esser d’Adone.
189
Ed io testessa in testimonio invoco,
invoco teco in testimonio Amore.
Quante volte dicesti al tuo bel foco
ch’egli a pieno è di te fatto signore?
Come può semedesma esporre al gioco
chi non ha in sé né libertà né core?
Chi non ha semedesma in sua balia,
né cosa al mondo che d’altrui non sia?
190
Se tua non sei, ma di costui ch’io dico,
del’altrui dunque e non del tuo giocasti,
né posto avendo sù quanto il nemico
non ti si deve quelche guadagnasti;
onde se tu confermi il dono antico,
se rivocar non vuoi quelche donasti
o se pur non mentì la lingua tua,
ei non perde sestesso e tu sei sua.
191
Ecco che ‘n somma o dichiarar bisogna
ch’egli vinto non è, com’io ragiono,
o d’inganno accusarti e di menzogna
se fu da scherzo e non da senno il dono.
Ed io, quando ciò fusse, avrei vergogna
d’amar chi mi schernì, qualunque io sono,
perché non dee leal amante ch’arda
di vero amore, amar donna bugiarda. –
192
– Quest’argomento è debile e fallace
(ripiglia Amor) né tua ragion difende.
Ciò si tacque al principio e quei che tace
tacitamente acconsentir s’intende. –
– Io son d’Adone ed esser sua mi piace,
sovra questo tra noi non si contende
(disse la dea); quand’io pur fussi sciolta
vorrei farmi soggetta un’altra volta.
193
Ma com’è pur tra giocatori usanza
quando manca talor l’oro e l’argento,
che l’un l’altro del suo danno in prestanza
e supplisce la fede al mancamento,
sebene in me di me nulla m’avanza
di prestarmi a mestessa ei fu contento,
e ‘l mio stato servil, mentre che tacque,
a giocar seco abilitar gli piacque. –
194
E ‘l divin messo a lei: – Non mancan mai
a restio pagator scuse e parole.
Ma conceder ti vo’, come tu ‘l fai,
l’uso che ‘n gioco essercitar si suole.
Finito il gioco, or qual refugio avrai?
Quanto prestato fu, render si vole.
Rendi testessa al tuo cortese amante
e così sarai sua com’eri avante. –
195
– Se valesse il tuo dir (disse il fanciullo)
cadrebbe anco in Adon simil difetto.
Anch’egli a lei donossi e per trastullo
di non esser più suo talvolta ha detto. –
– Dunque (replicò quegli) il gioco è nullo;
mancando la cagion, manca l’effetto.
Altri quelche non ha giocar non pote,
né si gioca giamai con le man vote. –
196
Aprendo allora il bell’Adon le labbia
disse, rivolto al nunzio degli dei:
– A che garrir tra voi con tanta rabbia?
Non oggi è il primo dì ch’io mi perdei.
Perduto ho io, ma quando ancor vint’abbia,
io la vittoria mia cedo a costei.
D’un tal perder mi glorio e non m’attristo
che la perdita mia può dirsi acquisto. –
197
– Or facciam (disse Amor) che vano intutto
fusse il gioco tra lor, come tu vuoi.
Vano non fia però né senza frutto
il gioco che di fuor seguì tra noi.
Di fuor giocammo ed ha ciascuno addutto
un pegno proprio degli arnesi suoi.
Il nostro è nostro e qui né tu né io
dir possiam ch’io sia tuo, che tu sia mio. –
198
E l’altro: – È forza, poiché insieme vanno,
se cessa il principal che ‘l minor cessi.
Ha vinto Adon, seben con qualche inganno,
onde dir non si può ch’io non vincessi.
S’altri v’ebbe la colpa, abbiane il danno.
La rete è mia, tai furo i patti espressi.
Sempre il vincere è bel, sempre si loda,
per sorte si vinca over per froda. –
199
Mentre una coppia in guisa tal contrasta,
l’altra per accordarla s’affatiga.
Prega quel, prega questa e pur non basta
ad acquetar la fanciullesca briga.
Se la racconcia l’un, l’altro la guasta,
tanta è la stizza che di par gl’instiga.
Perché la question non vada innanzi,
Vener lo sdegno oblia ch’ebbe pur dianzi.
200
A Mercurio dicea: – Tu cerchi invano
la rete aver che per mio mal fu fatta,
se l’arte non apprendi di Vulcano
o non t’insegna Amor come s’adatta.
Non vaglion l’armi sue fuor di sua mano,
forza alcuna non han s’ei non le tratta.
Senza lui credi a me ti giova poco
quando ancor abbi e la faretra e ‘l foco. –
201
Dicea poscia al figliuol: – Figliuol perverso,
che vuoi tu far di quella inutil verga?
La brami forse acciocché ‘l mondo asperso
di dolce oblio nel sonno si sommerga?
Quasi in mortal letargo ognor sommerso,
per te non sia senza ch’oblio l’asperga.
Soverchio è ciò, se ponno i tuoi furori,
qualor ti piace, innebriare i cori. –
202
Travagliò molto con accorti accenti
Citerea per comporre ambe le parti,
finch’alfin si placar gli sdegni ardenti
e i tumulti cessaro intorno sparti.
Con tal convenzion restan contenti
lo dio del’alme e l’inventor del’arti
che la verga e la rete e quegli e questi
qualvolta uopo ne fra l’un l’altro presti.
203
Venere, poich’alquanto ebbe deposta
l’ira ch’al bell’Adon pose spavento,
in più solinga parte e più riposta
volta al’autor del suo dolce tormento:
– Dela condizion tra noi proposta,
debitrice (gli disse) a te mi sento.
Seben a torto ho mia ragion perduta,.
t’è pur del gioco la mercé devuta. –
204
Per lo passeggio poi dela verdura
con parlar più distinto ella gli dice:
– Cara parte del cor, cara mia cura,
dolce d’ogni mio ben fonte e radice,
seben la bella e desiata arsura
che mi strugge per te, mi fa felice,
contenta non sarò ch’io non ti veggia
nel natio regno e nela patria reggia.
205
La reggia antica del ciprigno stato
vota ancor serba la real sua sede,
al cui dominio il mio tiranno amato
(chi si sia questi io nol dirò) succede,
come di quella originato e nato
per genitore e genitrice erede.
Or ala signoria ch’a te s’aspetta
piacciati consentir ch’io ti rimetta.
206
Senza capo e signor che ‘l freni e regga
erra ed inciampa il popolo confuso,
qual greggia a cui s’avien che non provegga
pastor, licenziosa esce del chiuso.
Per sì fatta cagion, che re s’elegga
il senato di Cipro ha già conchiuso,
e di chi deggia al soglio esser assunto
dimane il tempo è stabilito apunto.
207
Poiché ‘l tuo nobil ceppo andò sotterra
senza succession di germe alcuno,
nacque lite nel regno e sorse guerra
ché d’usurparlo pretendea più d’uno.
Chi di qua, chi di là l’orfana terra
diessi con l’armi ad occupar ciascuno,
e ciascuno aspirando al sommo seggio
contendean fra sestessi il bel maneggio.
208
Ma per fuggir le sanguinose risse
ebbero al tempio mio ricorso allora,
dove: « Poich’è pur ver (l’oracol disse)
che ‘l più bel nume il bel paese adora,
se sì importante elezzion seguisse
in suggetto non bel, giusto non fora.
Eleggete il più bello!» E qui concordi
quetaro in un parer lire discordi.
209
Ma poi qual per beltà fusse il più degno
perché gran disparer venne fra tutti
e chiedeano da me pur qualche segno
per conoscere il bel dagli altri brutti,
dal’oracolo istesso a por del regno
la corona in mia man furono instrutti:
«Colui che di mia man potrà levarla
dee poi, come più bello, anco portarla.»
210
Io risposi così veggendo questa
la miglior via che ritrovar si possa,
per far che sola allor sia la tua testa
ala corona vedova promossa;
laqual nel dì dela sollenne festa
per altra man di man non mi fia scossa
che per la tua che, se mi tolse l’alma,
ben le si dee d’ogni altro onor la palma.
211
Or tutti uniti in assemblea si sono
quei che ‘l sovrano arbitrio hanno in balia
per essaltar colui solo al gran trono
che ‘l più bello da lor stimato sia.
Pubblicato ha di ciò la Fama il suono,
già di Persia vi tragge e di Soria
gioventù concorrente, e del’editto
il mattino che segue è il dì prescritto.
212
Diman su ‘l primo albor, tosto che spunta,
vivo sol di quest’occhi, il sol novello,
vo’ che tu tene vada in Amatunta
dove s’aduna l’elettor drappello.
Abbagliata e confusa ala tua giunta
cederà la beltà d’ogni altro bello,
in quella guisa pur che ceder suole
lo splendor dele stelle ai rai del sole.
213
Soletto là senza corteggio intorno
ten’andrai pien d’una sprezzata asprezza.
Altri conduca entro ‘l real soggiorno
pompa di servi e d’abiti ricchezza.
Vattene tu non d’altri fregi adorno
che di tua propria e natural bellezza,
che rozzezza, incultura o povertate
non si trova giamai dov’è beltate.
214
Anch’io, non ti turbar, celeste guida
teco verronne e compagnia divina
pertutto e sempre ufficiosa e fida,
o tu vada o tu stia, m’avrai vicina.
Non pensar ch’io da te mai mi divida
voglimi cacciatrice o peregrina;
che seben ne languisco e ne sospiro
diletta apar di te cosa non miro.
215
Del’impero paterno il bel possesso
ch’a te perviene e di ragion si deve,
senza contrasto alcun ti fia concesso:
così prometto e vo’ che ‘l veggia in breve.
Il mio favor che ti fia sempre appresso
ogn’intoppo farà facile e lieve,
siché sarai per successor del regno
riconosciuto ad infallibil segno.
216
E finché s’apra la prigione oscura
che tra’ suoi ceppi l’anima incatena,
onde volando fuor renda a natura
la spoglia corrottibile e terrena,
vivrai, più ch’altro re, lieta e secura
nel bel reame tuo vita serena.
Poi le cose non nate a durar sempre
non ti meravigliar se cangian tempre.
217
Stagion verrà ch’ai greci re fia tolto
questo terren da’ Tolomei d’Egitto;
ma loro il ritorrà non dapoi molto
dela donna del Tebro il braccio invitto.
E bench’Antonio in dolci nodi involto
e di strale amoroso il cor trafitto,
a Cleopatra sua fia che ‘l conceda,
tornerà quindi apoco a Roma in preda.
218
Ma quando poi la monarchia cadente
tramonterà del gran valor latino,
sotto il presidio loro in oriente
l’avranno i successor di Costantino;
infinché d’armi e di guerrier possente
con numeroso essercito marino
ad espugnar ne venga il bel paese
il disgiunto dal mondo estremo inglese.
219
Né d’anni correrà lungo intervallo
che l’acquisto occupato e posseduto
da Riccardo il Brittanno a Guido il Gallo
per un titol real sarà ceduto.
Con quiete maggior questi terrallo
e così fia da’ suoi sempre tenuto,
finché ‘l crudo german l’armi non stringa
e del sangue fraterno il ferro tinga.
220
Ma punito dal ciel questo spietato
daràle pene del malvagio eccesso,
quando movendo il suo navilio armato
l’avrà Liguria in fiera pugna oppresso,
onde sarà del vincitor senato
prigionier prima e tributario appresso,
fatto ala pompa del trionfo ostile
miserabil trofeo, spoglia servile.
221
Veggio, quasi ruscel di questo fonte,
sorger d’un figlio ancor prole novella,
che dala terra delo dio bifronte,
dove nato sarà, Giano s’appella.
Questi con debil forze e voglie pronte
tenta opporsi al furor del fier Melchella,
ma poiché vinto e preso altro non pote,
con oro alfin la libertà riscote.
222
Ecco poscia Giovanni in maritaggio
ad Elena la bella io veggio unito;
Elena, nata del real legnaggio
che ‘n Bizanzio lo scettro ha stabilito.
Ecco Ciarlotta sua che fa passaggio
a nove nozze ed a miglior marito:
poiché la parca il primo nodo allenta,
di Lodovico il zio sposa diventa.
223
E Lodovico con guerriera mano
ne scaccia fuor l’usurpator bastardo,
loqual poi dal poter del gran soldano,
quasi risorto Anteo, fatto gagliardo,
tornando al nido, onde fuggì lontano,
fuga, rompe, sconfige il savoiardo
e ‘l regno intero a racquistar ne viene
ch’al dominio ligustico s’attiene.
224
Per confermarsi con più stabil sorte
lo scettro in mano e la corona in testa,
d’Adria prende costui nobil consorte,
ma non molto però gode di questa.
Ella, dal giogo suo sciolta per morte,
vedova insieme gravida ne resta
e partorisce intempestivo pegno
ond’a Venezia poi ricade il regno.
225
Con strage alfin cui non fia pari alcuna
lo spietato Ottomano a forza il prende.
Vedi quanto alternar sotto la luna
così lo stato uman varia vicende.
Solo per te non girerà Fortuna,
Fortuna, ch’altrui dona e toglie e rende,
ch’Amor con l’aureo stral per farla immota
inchioderà la sua volubil rota. –
226
Risponde Adone e fise intanto tiene
in lei le luci affettuose e pie:
– O dea, gloria immortal dele mie pene
e pena eterna dele glorie mie,
orgoglio tal da tua beltà mi viene
che non cerco regnar per altre vie.
Fortunato è pur troppo il mio pensiero
che di tanta ricchezza è tesoriero.
227
Più non presumo, i miei desir desio
d’altrui signoreggiar non signoreggia.
Ambizion non nutre il petto mio,
siché per grado insuperbir ne deggia.
Finch’essali lo spirito vogl’io
che solo il grembo tuo sia la mia reggia.
Se ‘l regno di quel cor che mi donasti
conservato mi fia, tanto mi basti.
228
Altri con l’armi pur seguendo vada
schiere nemiche e pace unqua non aggia.
A me l’arco e lo stral più che la spada
giova e mostri cacciar di piaggia in piaggia.
Più che la reggia il bosco e più m’aggrada
che l’ombrella real, l’ombra selvaggia.
Se vuoi servi e vassalli, ecco qui tante
suddite fere e tributarie piante.
229
Per questa vita, e credimi, ti giuro,
nulla mi cal di porpore o tesori.
Sazio del poco mio, sprezzo e non curo
l’oro adorato e gl’indorati onori.
Né vo’, solché di te viva securo,
altre gemme più fine, altr’ostri, altr’ori,
di quegli ori e quegli ostri e que’ rubini
onde ingemmi le labra, indori i crini.
230
È bello sì, non può negarsi invero,
dell’impero e del regno il nome e ‘l pregio,
ma l’incarco del regno e del’impero
l’onor ragguaglia imperiale e regio.
Tra catene gemmate è prigioniero
chi di scettro e diadema ha pompa e fregio;
giogo che dolce in vista, aspro e protervo
rende il suo possessor publico servo.
231
Quell’altezza real, quel seggio augusto
di molle seta e di purpureo panno,
che ‘n magion ricca e spaziosa ingiusto
preme sovente e tumido tiranno,
è di più rischi e più flagelli onusto
che di povero tetto ignudo scanno,
e quelch’agli occhi altrui par sommo bene
è l’infelicità di chi l’ottiene.
232
Pungono il dubbio cor di chi governa
di perpetuo timor spinose cure;
e benché rida l’apparenza esterna
non son le gioie sue sincere e pure.
Passa i dì chiari in un’angoscia eterna,
vegghia in lunghi pensier le notti oscure.
Sempre tra piume molli e mense liete
la fame gli è rotta o la quiete.
233
False relazion, dubbi consigli,
insidie occulte, immoderate spese,
di popoli incostanti ire e scompigli,
di domestici servi odi ed offese,
risarcir danni, riparar perigli,
contrattar paci, essercitar contese,
questi son d’ogni principe sublime
gli acuti tarli e le mordaci lime.
234
Quanto s’inalza più, più d’alto scende
la fortuna de’ grandi ala caduta;
e regnando talora anco si prende
in tazza d’or mortifera cicuta.
L’anima mia, cui miglior brama accende,
sorbir altro velen sdegna e rifiuta
di quel dolce e vital, che senza inganno
i tuoi lumi innocenti a ber mi danno.
235
Quant’or tra le lucenti e bionde arene
volge in India, in Iberia il Gange, il Tago,
quanto n’accoglie Scizia entro le vene,
quanto Mida ne fè cupido e vago,
non mi torrà di braccio unqua al mio bene,
sì di modesto aver l’animo appago.
Rapir non mi potrà tanto tesoro
giamai fame d’onor, né sete d’oro.
236
Pur voler mi convien ciò ch’a te piace,
moderatrice d’ogni mio pensiero.
Guardimi il ciel ch’io di disdirti audace
ti neghi nel mio cor libero impero. –
Così favella e la ribacia e tace
il fanciul lusingato e lusinghiero
e s’apparecchia insu la prima uscita
del mattutino raggio ala partita.
237
Fornito intanto il suo camin ritondo,
Febo nel mar d’Esperia il carro immerse.
Sorse fosca la notte e ‘l pigro mondo
sotto l’ali pacifiche coverse.
Chiuse sonno tranquillo, oblio profondo
mill’occhi in terra e mille in ciel n’aperse;
forse fur di que’ duo le luci belle
che, spento il sole, illuminar le stelle.
GLI SPETTACOLI

ALLEGORIA

I giuochi adonii instituiti da Venere nell’essequie d’Adone, sono per farci intendere che quegli amici, i quali veramente di cuore amano, non lasciano con tutte l’ufficiose dimostrazioni possibili d’onorare eziandio dopo la morte la memoria di coloro che hanno amati in vita. Nella giostra, che dopo il tirar dell’arco, il ballo, la lotta e la scherma de’ due precedenti, è lo spettacolo del terzo ed ultimo giorno, oltre i cavalieri barbari che v’intervengono, sono adombrate molte famiglie principali d’Italia. Tra le romane ven’ha primieramente quattro che vengono da pontefici, come Farnesi, Peretti, Aldobrandini e Borghesi. L’altre che seguono sono Colonnesi, Orsini, Conti, Savelli, Gaetani, Sforzi, Cesarini, Cesi, Crescenzi, Frangipani, Molari, Cafarelli, Santacroci e Mattei. Vi si aggiugne di più il giovane sposo Lodovisio, nipote di papa Gregorio il decimoquinto, congiunto ultimamente in matrimonio con la Gesualda, principessa di Venosa. Per la persona di Sergio Carrafa s’intende il prencipe di Stigliano, che così, per quanto dicono, si chiamò il primo capo di quella casa. Ne’ tre fratelli che vengono appresso si figurano i tre figliuoli secolari del serenissimo duca di Savoia; l’uno è detto Doresio dalla Dora, fiume del Piemonte; l’altro Alpino dall’Alpi, presso allequali è il dominio di que’ prencipi; il terzo Leucippo, che vuol dire cavallo bianco, ilquale è la divisa antica di quelle altezze. I due che sono gli ultimi a comparire rappresentano Spagna e Francia. Austria si nomina la guerriera, ch’è il cognome dell’una; Fiammadoro il cavaliere, cioè Oriflamma, ch’è l’istoria nota dello scudo dell’altra. A quella si danno ed il leone e l’aquila, l’uno per esser l’arme di Castiglia, l’altra per la possessione dell’Imperio e l’uno e l’altra come geroglifici della magnanimità. A questo si danno il giglio ed il gallo, l’uno per significare il sudetto scudo, l’altro perché allude al nome della Gallia ed è dedicato a Marte, che predomina quella nazione. Nella battaglia che passa tra loro si accennano le guerre passate; e negli amori che succedono tra amendue si dinota il maritaggio seguito tra questa corona e quella. Il pronostico d’Apollo sopra lo scudo di Vulcano contiene le lodi del re Lodovico ed in breve compendio tutti i progressi della guerra mossa contro gli ugonotti.

ARGOMENTO

Dopo l’essequie nobili e pompose
Venere instituisce i giochi estremi
e, compartiti ai vincitori i premi,
il vel si squarcia ale future cose.

1
Ed ecco alfin, dopo camin sì lungo
scorge la meta il mio corsier già stanco,
onde con maggior fretta io sferzo e pungo
al pigro ingegno il travagliato fianco.
Già la voce vien men, ma mentr’io giungo
presso al’estremo, augel canoro e bianco,
vorrei, purgando il rauco spirto alquanto,
far vie più dolce e non mortale il canto.
2
Qual volubile ordigno il cui volume
misura quelche dà misura al moto,
giunto al tocco del’ora, oltre il costume
veloci i giri accelerando io roto.
Quasi lucerna, in cui s’estingue il lume
quando il vasel d’ogni alimento è voto,
svegliando il vigor languido, mi sforzo
raddoppiar lo splendor mentre l’ammorzo.
3
Somiglio peregrin che’nfermo e fioco
trascorsa già quella contrada e questa,
del patrio tetto e del paterno foco
scoprendo i fumi, i voti al tempio appresta.
Sembro nocchier, che fatto un tempo gioco
per l’immenso ocean dela tempesta,
tosto che dela riva arriva al segno
ripiglia il remo e dà la spinta al legno.
4
Son Leandro novello a cui tra l’onde
mostra lucida lampa eccelsa rocca.
Ma, mentre da vicin mira le sponde,
mentre ch’ador ador la terra tocca,
in guisa il mar orribile il confonde
che gli manca tremante il fiato in bocca
e lasciar teme, pria ch’attinga il lido,
tra gli scogli sommerso, il debil grido.
5
Pur tale e sì benigna è la mia scorta,
sì chiara splende e sì serena e bella,
che dal polo real mi riconforta
in sì dubbiosa e torbida procella;
né tem’io già che mi sia spenta o morta,
perché mai non tramonta artica stella
e può più tosto il sol perder la luce
che quel raggio immortal che mi conduce.
6
Dunque, che fai? Rinfranca ed avalora,
ahi lento nuotator, le forze oppresse.
Ben ha tanto il tuo stil di lena ancora
che ti basta a compir l’alte promesse.
Ecco già desta in ciel sorge l’aurora,
sorga la musa al bel lavor che tesse;
già con l’ultimo fil Febo la chiama
dela gran tela a terminar la trama.
7
La ninfa d’oriente aprendo il grembo
tra nuvoletti candidi e vermigli,
dolce versava ed odorato nembo
di pura manna e di celesti gigli.
Garriano intorno al rugiadoso lembo
i dipinti del’aria alati figli
e per l’ampio seren Favonio e Clori
scoteano i vanni e precorrean gli albori.
8
Sereno il ciel, d’un’aurea luce viva
fregiava l’aere puro e cristallino
e d’odor molli, mentre il sole usciva,
seminava le vie del suo camino;
ed ala funeral pompa festiva
apria dal’uscio d’oro e di rubino,
da mille trombe salutato intorno,
di mille lampi incoronato il giorno.
9
Tranquillo il mar, del’onde sue facea
senz’alcun monte una pianura eguale
e quasi una gran tavola parea
tinta di schietto azzurro orientale;
e come in specchio di zaffir, v’ardea
in tal guisa del ciel l’oro immortale,
che detto avresti o che nel mar profondo
sommerso è il sole o ch’ha duo soli il mondo.
10
Verdeggiante la terra e di bei fiori
vestito il prato e di color novelli,
richiamava, ridendo, i suoi pastori
ale ghirlande, ai pascoli gli agnelli.
Spandea liet’ombre il bosco e, spettatori
de’ bei certami i venti e gli arboscelli,
taceano intenti al nobile apparato
fermando il moto e sospendendo il fiato.
11
Tratta i zefiri a volo e l’aria scorre
del celeste senato il messo eterno;
e non fa sol le deità raccorre
ch’han dela terra o ch’han del ciel governo,
ma chiamata vi tragge e vi concorre
del pelago la turba e del’inferno.
Sol Marte irato e sol Vulcan dolente
non volse ai propri scorni esser presente.
12
Ad onorar le dolorose feste,
instituite al funeral d’Adone,
dalo stellante suo trono celeste
col consorte immortal scese Giunone.
Per sì nove mirar pompe funeste
la cieca reggia abbandonò Plutone.
E per far quell’onor vie più sollenne
il gran Giove del’acque anco vi venne.
13
Oltre Cerere e Bacco, oltre la madre
del forte Achille e’l figlio di Latona,
d’altri dei, d’altre dee v’ha varie squadre,
Berecinzia con Cinzia, Isi e Bellona:
Temi e Vesta vi son, né men leggiadre
Iride ed Ebe e Flora evvi e Pomona,
Giano, Como, Talassio, indi s’asside
tra gli immortali immortalato Alcide.
14
L’ordin non si confonde, a ciascun dassi
secondo il proprio merito la sede;
e Mercurio, il mazzier, dispon le classi
e d’onor pari al grado altrui provede.
A tutti gli altri dei, che stan più bassi,
con l’alta sposa il gran motor precede,
e giù deposto il fulmine tra loro
eminente si mostra in soglio d’oro.
15
Dopo colui che l’universo regge,
ponsi il signor che sovra l’onde regna.
Ai principi minor ch’han da lui legge
loco non lunge inferior s’assegna.
Tien presso al gran Nettun le prime segge
Nereo con Forco e gente altra più degna.
Stan con mill’altri poi cerulei numi
degli umid’antri usciti, i vecchi fiumi.
16
Segue terzo la serie il re profondo,
genero dela dea che’n Etna impera,
e seco ha quella che dal nostro mondo
discese ad abitar la città nera.
Succede, setoloso e rubicondo,
lo dio d’Arcadia con la rozza schiera;
corna e piante ha salvatiche e caprigne
e di minio le guance ognor sanguigne.
17
V’è, di ferula cinto e di ginestra,
Silvan, del’ombre l’arbitro canuto,
che Pale a manca ed ha Vertunno a destra,
dintorno un folto essercito cornuto,
rustica gioventù, plebe silvestra,
il satiro lanoso e’l fauno irsuto,
e presso a questi in non sublime scanno
geni, lari, cureti assisi stanno.
18
Gran piano innanzi ala superba entrata
del bel palagio ove Ciprigna alloggia,
spazioso vestibulo dilata
sotto l’alte finestre e l’ampia loggia,
che s’allarga e distende in piazza ovata,
quasi di circo o di teatro a foggia.
Ha la tela nel mezzo e come s’usa
di palancati e di bertesche è chiusa.
19
Scena è di lieti giochi e par steccato
fatto per diffinir risse e duelli,
tra ben salde colonne incatenato
di graticci pertutto e di cancelli;
ed ha da’ capi al’un e l’altro lato
due porte con barriere e con rastelli,
per cui passando poi, denno i campioni
rappresentar pacifiche tenzoni.
20
Non sol di Cipro i popoli e i vicini
sono al’alto spettacolo presenti,
ma da vie più remoti altri confini
vi convengono ancor straniere genti.
Paesani non men che peregrini
stan su i balconi ale bell’opre intenti.
Parte occupano intorno i catafalchi,
le sbarre il vulgo e’l baronaggio i palchi.
21
Poiché già pieno il campo in ogni parte
scorge la bella dea nata di Giove,
appresta i premi ai giochi e gli comparte
per dispensargli ale future prove.
Fa varie spoglie sue porre in disparte
e tutte rare e preziose e nove
e l’inalza e sospende, accioché sproni
sieno dela virtute i guiderdoni.
22
In alto tribunal stassene assisa,
per poter più spedita aver la vista
e, mentre ingiù lo sguardo intenta affisa,
giudicar meglio chi più loda acquista.
Intanto con l’insegna ala divisa
di porpora e d’argento a lista a lista
l’araldo con tre suoni intima il bando,
poi publica il cartel così gridando:
23
– La dea del terzo cielo in rimembranza
del morto Adon, ch’ha tanto amato in vita,
de’ sacri onori la pietosa usanza
per tre giorni continui ha stabilita.
Oggi, ch’è il primo, al’arco ed ala danza
con bella pugna i concorrenti invita;
negli altri duo vuol che si venga in mostra
ala lotta, ala scherma ed ala giostra.
24
Ben fian dela vittoria i pregi tali
che non saranno invan sparsi i sudori,
né poveri di palme trionfali
invidia avranno i vinti ai vincitori.
Chiunque in guisa indrizzerà gli strali,
che riporti in colpire i primi onori,
o per valore o per fortuna avegna,
ricompensa del’opra avrà ben degna.
25
Quella faretra avrà che colà pende
e di sagri vermiglio ha l’ornamento,
con quell’arco di bosso a cui risplende
l’un capo e l’altro di polito argento.
Chi più vicino al primo il segno offende,
d’un nobil dardo rimarrà contento.
D’ebeno è l’asta, e’l ferro è di tai tempre
che qualvolta ferisce, uccide sempre.
26
Darassi al terzo d’immortale alloro,
degna non pur d’arcier ma di poeta,
ghirlanda che le fronde ha messe ad oro,
attorta a un cordoncel di verde seta.
Fia poscia di colui ch’avrà tra loro
l’ultimo grado in accertar la meta,
spiedo di duro e noderoso cerro
ch’arma la punta di lucente ferro. –
27
Qui tace, e risonar fanno l’agone
cent’altre trombe e nacchere e cornette.
Allor quivi legato ad un troncone
lontano alquanto un cavriuol si mette.
Questo, per ordin dela dea s’impone,
ch’esser deggia bersaglio ale saette.
Ed ecco al saettar destra e leggiadra
arciera in punto e faretrata squadra.
28
Tempo distruggitor d’ogni bell’opra,
ch’affondi i nomi entro l’oscuro oblio,
consenta il tuo rigor ch’io narri e scopra
i più degni tra lor nel canto mio.
O Fama e tu ch’impero eterno hai sopra
le forze invitte del tiranno rio,
tu mel rammenta e dal’etate avara
l’offuscate memorie a me rischiara.
29
Fassi avante Arabin che’n Guba nacque,
del’Arabia petrea nobil cittate,
ma per le selve essercitar gli piacque
contro le fere la robusta etate.
Vien Silvanel, che colà dove l’acque
sen va col Tigri a mescolar l’Eufrate,
crebbe in Apamia, avezzo a ferir solo
le folighe del mar che vanno a volo.
30
Havvi Foresto il troglodito arciero,
che’l deserto per patria ebbe nascendo,
selvaggio cacciator più che guerriero,
agli elefanti ed ai leon tremendo.
V’è Ferindo d’Arsacia, il parto fiero,
che combatter non sa se non fuggendo
e’l cavo arnese al tergo e’n pugno l’arco
di saettame avelenato ha carco.
31
Ermanto v’ha, di cui giamai più dotto
non ebbe in quel mestier l’indica terra.
E Fartete il pigmeo, che fu prodotto
ad aver con le gru perpetua guerra.
E v’è Fulgerio ancor ch’è cipriotto
e di mille un sol colpo unqua non erra,
e’l superbo Medonte il battriano
che d’acciaio lunato arma la mano.
32
S’accinge al’opra e cinge al fianco Ordauro
pien di ferrate penne aureo turcasso.
Il figliuol d’Euro Euripo, il gran centauro,
tal gloria ambisce e’l sericano Urnasso.
Né men di lor Brimonte ed Albimauro
la brama, ircano l’un, l’altro circasso.
Chiedela aprova Ucciuffo ed Anazarbo,
quegli è di Tracia allievo e questi alarbo.
33
E Tirinto e Filino, i duo fratelli,
mostran d’entrar nel numero desire,
nati in Tessaglia e di ferine pelli
vestiti e molto esperti a ben ferire.
Vogliono cento e cent’altri e questi e quelli
del primo gioco al paragone uscire.
Vuol, per accrescer liti, Amor istesso
ala prova del’arco esser ammesso.
34
Or per cessar gli sdegni, onde dolersi
sol dela sorte poi deggian gli esclusi,
scriver fa Citerea nomi diversi
e porgli in urna d’or serrati e chiusi;
e poich’ivi per entro alfin dispersi
son con più d’una scossa e ben confusi,
ad un ad un dal’agitato vaso
per la man d’un fanciul fa trargli a caso.
35
Dentro l’urna il fanciul la mano ascose
e Mitrane n’uscì nel primo scritto,
Mitrane, che lasciate ha le famose
sponde del fiume onde s’impingua Egitto.
Fatto è l’arco, ch’ei tien, di due ramose
corna d’un cervo di sua man trafitto
ed ha nel mezzo le divise punte
con bel manico eburneo insieme aggiunte.
36
D’un dragone african macchiato a stelle
voto scoglio squamoso ha per frecciera
e sgangherando l’orride mascelle
il teschio serpentin gli fa baviera.
Scalze ha le piante e con la bionda pelle
dela più brava e generosa fera
tra quante n’ha Getulia unqua produtte,
ammanta il resto dele membra tutte.
37
Ponsi per dritto filo incontro al segno,
la faretra si slaccia e la disserra
e, traendone fuora alato legno,
s’abbassa e posa un de’ ginocchi in terra.
Lo squadra intorno e con industre ingegno
in un punto con l’arco il ferro afferra.
In cima il tenta e tasta pria se punge,
indi al cordone il calamo congiunge.
38
Tien nela manca il corno, e la saetta
con l’altra mano insu la fune incorda.
Trae fin al destro orecchio a forza stretta
col grosso dito e l’indice la corda,
ch’un angolo divien di linea retta,
e l’occhio intanto con la mano accorda,
e dal’arco incurvato in mezza sfera
fa per l’aria volar l’asta leggiera.
39
Liberata la canna, ancorché fosse
la testa ita a ferir del cavriuolo,
però ch’impaurito il capo ei mosse,
died’alto e passò via rapida a volo.
Il tronco nondimen giunse e percosse
dove lo ritenea stretto il lacciuolo
e sì forte ad entrarvi andò la freccia,
ch’affissa gli restò nela corteccia.
40
Fu per sorte il secondo Arconte armeno
che la man pueril dal’urna trasse,
di fero latte ed ale fere in seno
nutrito in riva al sagittario Arasse,
la’ve Nifate, d’aspre selve pieno,
volge la fronte alpestra al gelid’asse
e dela tigre il fremito dolente
vedovata de’ figli, ode sovente.
41
Raso il mento e la chioma e bruno il volto,
lunga ha la giubba e d’un tabì cangiante,
sferico lino in larghe fasce involto
gli tesse intorno al capo ampio turbante.
Di scaglie d’oro intarsiate e scolto
l’arco ha d’orribil vipera sembiante;
serpe rassembra e’n quella parte e’n questa
chiude l’estremità gemina testa.
42
Grossa canna indiana acconcia in modo
di vagina agli strali, in campo tratta,
d’un sol bocciuol dal’un al’altro nodo
dal’istessa natura ad arte fatta.
Prende il suo posto e ben acuto e sodo
un ne sceglie tra molti e poi l’adatta.
D’un anel d’osso il maggior dito cinge,
indi il calce v’appoggia e l’arco stringe.
43
Stringe, col pugno manco, il legno torto,
col dritto a più poter la corda tira,
l’un piede indietro e l’altro innanzi sporto;
curva gli omeri alquanto insu la mira,
serra il lume sinistro e l’altro accorto
su l’asta aguzza e’l braccio al segno gira,
sbarra alfin l’arco e quel caccia lo strale;
fremono intorno l’aure e fischian l’ale.
44
Lieve più che balen, fendendo il cielo,
lo stral nel caprio a sdrucciolar sen viene.
Nol fiede già, né pur gli tocca il pelo
ma nel canape dà che preso il tiene.
Vien nela corda ad incontrarsi il telo
e fa tremar il cor, gelar le vene
ala fera che tenta a’ suoi legami
romper intutto i già sfilati stami.
45
Scotonsi allor gl’imbossolati brevi
e n’escon duo, l’un prima e l’altro dopo.
Frizzardo è l’un, con le quadrella lievi
uso a chius’occhi ad affrontar lo scopo,
natio del’arso e non da piogge o nevi
rinfrescato giamai clima etiopo,
là dove d’acque e d’ombre ognor mendica
soggiace al primo sol Siene aprica.
46
Cotta ha la pelle e tutto ignudo il busto,
sol cinto in mezzo di listati lini;
tinge la chioma arsiccia e’l pelo adusto
d’odoriferi unguenti e purpurini;
tien di piume vermiglie il capo onusto
e di folte saette impenna i crini,
e, coronata di sì strania cresta,
è faretra al’arcier la propria testa.
47
L’ultimo è Dardiren, là nel’arena
nato ove nasce il solitario Oronte,
la cui serpente e flessuosa vena
ha tra’l Libano e’l Tauro il primo fonte.
Garzon di crespo crin, d’aria serena,
di viso grato e di modesta fronte,
non sol famoso a guerreggiar con l’armi,
ma maestro de’ suoni anco e de’ carmi.
48
Duo archi, un dale corde un dagli strali,
usa e con l’un e l’altro egli ferisce.
Quello stampa in altrui piaghe vitali,
questo dà morte a chi sfidarlo ardisce;
e de’ corpi e de’ cori ha palme eguali
e la dolcezza ala fierezza unisce.
Sembra, di doppio arnese ornato il collo,
con la faretra e con la cetra, Apollo.
49
L’arco guerrier che l’arma e per traverso
dal’omero gli pende al fianco cinto,
è di tasso cornuto assai ben terso,
con purpureo carcasso insieme avinto.
Di vario smalto e di color diverso,
sicom’iride in ciel, tutto è dipinto;
iride sì, però che’n guerra o in caccia
sempre pioggia di strali altrui minaccia.
50
Con lieto mormorio, con molte e molte
voci d’applauso il nome altier si lesse,
perché sapean le turbe intorno accolte
quanto in quell’arte il giovane valesse;
sapean che’l nibbio e l’aghiron più volte
fè ch’a mezz’aria insu’l volar cadesse;
e ch’avria, nonche’n ciel giunto un augello,
diviso con lo strale anco un capello.
51
Prende alor l’arco in man prima Frizzardo,
ch’è fabricato del più bianco dente
e dala selva, ond’è crinito, un dardo
svelle qual più gli par saldo e pungente.
Il segno e’l sito essamina col guardo
ed al vantaggio suo volge la mente.
L’arco in mezzo sostien con la sinistra,
con la destra il quadrel gli somministra.
52
Incoccato ch’ei l’ha, pria che lo scocchi,
pria che’l forbito avorio allarghi e stenda,
piglia la mira e studia ben con gli occhi
dove l’un drizzi e come l’altro spenda.
La distanza misura accioché tocchi
in parte l’animal ch’egli l’offenda.
L’occhio, il braccio, la mano inun rassetta,
l’arco a tempo, la corda e la saetta.
53
Tragge il gomito indietro e la pennuta
verga verso la poppa accosta insieme.
In tondo il semicircolo si muta,
vanno a baciarsi le due punte estreme,
si dischiava la noce e l’asta acuta
salta e ronza per l’aria e fugge e freme.
L’arco il suo sesto alfin ripiglia e torna,
già rallentato, a dilatar le corna.
54
Ch’arrestasse la fera alquanto il moto
l’etiopico arcier non ben sostenne,
ond’ella allor ch’al sibilar di noto
sentì del novo stral batter le penne,
fatto sforzo maggior, non solo a voto
fu cagion che la freccia a cader venne,
ma spezzato il capestro ond’era avolta,
per la piazza fuggì libera e sciolta.
55
Per rabbia e per dolor la destra sciocca
si morde il negro che quel colpo ha fatto.
Ma Dardiren, che’l dardo ha su la cocca,
più non aspetta a scaricare il tratto.
Senz’altro indugio a sé tirando il tocca
e lascia andarlo impetuoso e ratto.
Per l’aria che, qual folgore, divide
striscia lo strale e strepitoso stride.
56
Dal’arco sorian la freccia uscita
e dala man che l’impeto le diede,
va la fera a trovar che sbigottita
move, già rotto il laccio, in fuga il piede
e la raggiunge e di mortal ferita
per lo fianco sinistro il cor le fiede
e’l colpo, onde di sangue il campo bagna,
con lieti gridi il popolo accompagna.
57
Tra i quattro allor saettatori egregi,
che fur dal caso a gareggiar promossi,
fè Citerea distribuire i pregi
a suon di vari bronzi e vari bossi.
Ma Dardiren de’ più superbi fregi
come il più degno e segnalato ornossi;
onde colui, che’l volto arso ha dal sole,
sdegnoso freme e con la dea si dole:
58
– Non per valor (dicea), ma per ventura
m’usurpa oggi costui le glorie prime,
che s’avess’io qual egli ha l’armatura,
giunto non fora a quest’onor sublime.
Di tempra è l’arco suo non molto dura
e guernite ha di corno ambe le cime,
corno di capro alpin ch’agevolmente
si curva e torce ed ala man consente.
59
Di rigid’osso è il mio che pertinace
spezzar prima si può che piegar mai.
Questo adoprar sogl’io perché ferace
di tal materia è la mia terra assai.
Ma se’l discior quell’animal fugace
error fu pur, d’impazienza errai.
Vinto fui sol perch’aspettar non volsi
e per non corre il tempo, apien nol colsi.–
60
Sotto benigno e placido sorriso,
velando allora i suoi tormenti acerbi,
la dea con lieto e mansueto viso
rispose a quegli accenti aspri e superbi:
– Ragion è ben che del mio Adone ucciso
memoria ancor tra’ barbari si serbi –
e, perché vide ben ch’invidia il punse,
al già promesso dono altro n’aggiunse.
61
– Questa sottile ed ingegnosa rete
prendi (gli disse) a più color contesta.
Poco men ch’invisibili ha le sete,
opra Aracne non fè simile a questa.
Le fere di tal fraude ingorde e liete
vi corron volentier per la foresta
ed al’augel che’n sì bei nodi è colto,
il perder libertà non pesa molto. –
62
Finito il dardeggiar, con chiare note
chiama la tromba i ballatori al ballo,
poi tace e’l vulgo, che tacer non pote,
fa bisbigliando al suon breve intervallo.
Ed ecco altr’armonia l’aria percote,
vie più soave che’l guerrier metallo
e Dardiren tra’ musici stromenti
canta il trionfo suo con lieti accenti.
63
Follerio, il ballarin, fuor del drappello
degli altri tutti in prova uscì primiero;
sfrenato strale o fuggitivo augello
fora di lui men presto e men leggiero.
Questi una sua corrente agile e snello
danzò con arte tanta e magistero,
intramezzata di passaggi tali,
ch’empì d’alto stupor l’alme immortali,
64
ond’un par di coturni in premio ei n’ebbe
barbaramente ala ninfal guerniti.
Al purpureo corame il mastro accrebbe
ricchi riccami in bel tramaglio orditi
e’n guisa che stimar non si potrebbe
di figure d’argento eran scolpiti.
Ei donogli a Tersilla il giorno istesso,
che’l don pagò con mille baci appresso.
65
Passa innanzi Alibello, un che co’ salti
s’arrischia a far prodigiose prove.
Sì strani son, son sì mortali ed alti,
ch’orrore insieme e meraviglia move.
Lanciasi in aria e, con tremendi assalti,
in mille foggie inusitate e nove
su la punta or d’un brando, or d’una lancia,
or la schiena riversa ed or la pancia.
66
Poi di ferro la man, di piombo il piede
carco, passeggia l’aure e’l ciel discorre.
e per la tesa fune andar si vede,
qual Dedalo novel, da torre a torre.
Viensi alfin con ardir ch’ogni altro eccede,
col capo ingiù precipitoso a porre
e con l’estremo sol, pendente in libra
sostien sestesso e si raggira e vibra.
67
Il seconda Aquilanio, emulo antico,
degli altri saltator capo sovrano
e seco ha Clarineo, Delio, Laurico
e Garbino e Celauro e Floriano.
Tutti congiunti allor costor ch’io dico,
fan di sé l’un su l’altro un groppo estrano
ed ergendo di membre eccelse mura,
fan di corpi intessuti alta struttura.
68
Di martora ebbe l’un rara e pregiata
zanio artificioso e peregrino,
che gli occhi avea di lucida granata
e le zanne e le zampe avea d’or fino,
la cui morbida pelle era fodrata
d’un bel serico vello incremesino
e con lacci di seta intorno sparsi
poteva al fianco appendersi e legarsi.
69
L’altro non men leggiadra e preziosa
e per materia insieme e per lavoro
con foglie di rubino ebbe una rosa
e con spine di smalto e gambo d’oro.
Onorato ancor poi d’alcuna cosa
fu ciascun altro de’ compagni loro:
– Su su (Venere disse) or basti tanto,
non si tolga al mio sesso il proprio vanto.
70
Serbinsi i cor virili a lotte, a giostre,
non s’usurpi omai l’uom l’arti donnesche.
Vengano e scopran lor le ninfe nostre
come sappiam menar carole e tresche. –
Allor vaghe donzelle in varie mostre
comparver con fiorite e con moresche
e della balleria di quelle schiere
le Grazie eran maestre e condottiere.
71
V’è Lindaura gentil, Marpesia bella,
Mirtea vezzosa e Filantea gioconda,
Albarosa la bianca e Fiordistella
la bruna e, col crin d’or, Fulvia la bionda.
Ma Lilla a cui questa bellezza e quella
di gran lunga non è pari o seconda,
la pupilla d’april sembra tra’ fiori
o la lampa maggior tra le minori.
72
Prende con tanta grazia a danzar Lilla
il contrapasso pria, poi la gagliarda,
che d’amor langue e di dolcezza brilla
il misero Filen mentre la guarda;
e non solo ale fiamme onde sfavilla
l’alto sol de’ begli occhi è forza ch’arda,
non sol la bianca man lo lega e fiede,
ma trafigger si sente anco dal piede.
73
– Bel piè (seco dicea) mentreche finge
la danza essercitar mobile e vaga,
nele tue rote i circoli dipinge
dove m’incanta la mia bella maga.
Tesse mille catene onde mi stringe
ed incurva mill’archi onde m’impiaga;
que’ giri, ch’ella in tanti modi implica,
son labirinti ove’l mio core intrica.
74
O felice il terren che vai premendo!
Deh, perché non poss’io cangiarmi in sasso?
seben, mentre che’n te lo sguardo intendo,
l’anima mia calpesti a ciascun passo.
Oimé, sento il tuo moto e nol comprendo.
Com’esser puoi così veloce, ahi lasso?
Sì sì, vola pur lieve a saettarmi
poich’hai l’ali d’Amor come n’hai l’armi.–
75
Così dela sua Lilla innamorato
l’afflitto pescator tra sé dicea;
ed ella intanto avea sì ben danzato
che l’onor riportò da Citerea.
Dono d’un bel pavone ammaestrato
tra le mense a servir le fè la dea:
con la coda sapea ne’ soli ardenti
scopar le mosche e temperare i venti.
76
Uscir Clizio pastor poscia si scorge
ch’a ballar la sua Filli invita e prega,
Filli sua che ritrosa alquanto sorge,
pur quelche chiede al’amator non nega.
Levata in piè, la bella man gli porge,
la bella man che l’incatena e lega.
Reverente e tremante egli la prende
e si bacia la sua mentre la stende.
77
Seco al tenor dela maestra cetra
pianpian s’aggira pria ch’abbia a lasciarla,
indi la lascia, indi da lei s’arretra,
indi rivolto a lei, torna a baciarla;
e cortese un inchino anco n’impetra
mentre curva il ginocchio ad onorarla.
Stassi la ninfa in mezzo al cerchio immota,
Clizio qual Clizia intorno al sol si rota.
78
Del’onesto favor fatto orgoglioso,
poiché chiusa più volte egli ha la volta,
vassene in atto grave e grazioso
a restringer la man che dianzi ha sciolta.
Torna seco al passeggio aventuroso
e’ntanto egli le parla, ella l’ascolta;
e trattenendo in bassi accenti il gioco,
scopre l’un l’altro il suo celato foco.
79
La dea traendo fuor nobil cicuta
fatta di sette canne in Siracusa,
donolla a Clizio, ala cui voce arguta
ben s’accordò la sua canora musa.
Gazza loquace ch’i pastor saluta
Filli ebbe in dono, in gabbia eburnea chiusa;
umana lingua aver sembra e favella
e chiunque conosce a nome appella.
80
Due coppie ancor la dea volse ch’avesse
di colombe vezzose a meraviglia
e sì feconde che ciascuna d’esse
ben quattro volte il mese impregna e figlia.
L’una è sì bianca che le nevi istesse,
l’istesso latte nel candor somiglia;
l’altra d’un vago vezzo il collo ha cinto
di varie macchie a più color dipinto.
81
Faunia, di Citerea serva lasciva,
vien dopo loro ad occupar la lizza
e come baldanzosa ed attrattiva
prende Ardelio per man, che’n piè si drizza.
Incominciano in prima a suon di piva,
secondo l’uso a carolar di Nizza,
Nizza, che di Provenza il bel paese
rende superbo del suo forte arnese.
82
Mossersi alparo ed amboduo ballando
vedeansi a man a man, sola con solo
prima a passo veloce ir misurando
con giravolte e scorribande il suolo,
poscia l’un l’altra insu le braccia alzando
levarsi in aria e gir senz’ali a volo
e’n più scambietti al’ultima raccolta
serrar il giro e terminar la volta.
83
Così vid’io, qualora i campi aprici
fervon su’l fil dela stagione adusta,
nele selve colà liete e felici
dela famosa e fortunata Augusta
danzatori leggiadri e danzatrici
a groppo a groppo in vaga rota angusta
pender girando a suon d’arpa canora
e di plausi festanti empir la Dora.
84
Compito il primo ballo, ecco s’appresta
la coppia lieta a variar mutanza,
e prende ad agitar, poco modesta,
con mill’atti difformi oscena danza.
Pera il sozzo inventor che tra noi questa
introdusse primier barbara usanza.
Chiama questo suo giuoco empio e profano
saravanda e ciaccona il novo ispano.
85
Due castagnette di sonoro bosso
tien nele man la giovinetta ardita,
ch’accompagnando il piè con grazia mosso,
fan forte ador ador scroccar le dita.
Regge un timpano l’altro, ilqual percosso
con sonaglietti ad atteggiar l’invita;
ed alternando un bel concerto doppio
al suono a tempo accordano lo scoppio.
86
Quanti moti a lascivia e quanti gesti
provocar ponno i più pudici affetti,
quanto corromper può gli animi onesti
rappresentano agli occhi in vivi oggetti.
Cenni e baci disegna or quella or questi,
fanno i fianchi ondeggiar, scontrarsi i petti,
socchiudon gli occhi e quasi infra sestessi
vengon danzando agli ultimi complessi.
87
Letto era un pregio esposto in quelle feste
con colonne d’elettro elette e fine,
ch’avean di sfinge i piè, d’arpia le teste
e custodie di porpora e cortine
e vergate pertutto e quelle e queste
erano d’oro in triplicate trine.
Fatto il talamo ricco e prezioso
ala vista parea più ch’al riposo.
88
Dele danze sfacciate ed impudiche
volse la dea che per trofeo servisse:
– Ale vostre dolcissime fatiche
questo sia’l premio e questo il campo (disse).
Qui col mio figlio ignudo entrò già Psiche
la prima notte ale beate risse;
qui voi dar fine al gioco ed al difetto
potrete del ballar supplir col letto.–
89
Diana, che la guancia avea vermiglia
quegli atti abominabili mirando
e tenea tuttavia chine le ciglia
per la vergogna del ballar nefando,
non fu lenta a chiamar la sua famiglia,
che venne al cenno del divin comando;
e, senza uscir del’onestà devuta,
un riddon cominciò con nova muta.
90
Lucilia bella, che qual sole irraggia,
Lidia gioliva che qual fiamma sface,
Partenia casta, Gloriana saggia,
Absinzia cruda, Antifila sagace,
Florismena solinga, Egle selvaggia,
Lesbia ritrosa, Testili fugace,
Amaranta superba, Alteria altera,
danzan tutte racolte in una schiera.
91
Guidato alquanto insieme il ballo tondo,
ballar volser divise ad una ad una
e con error festevole e giocondo,
ma col decoro debito a ciascuna,
di quante danze ha più leggiadre il mondo
non tralasciaro in tai vicende alcuna,
qual più per arte o per vaghezza aggrada
del ventaglio, del torchio e dela spada.
92
Disse la dea d’amor: – L’onesto e’l bene
del meritato onor non si defraude.
Non dee vera virtù, né si conviene,
senza premio restarsi e senza laude.
Vuolsi qui dimostrar ch’al’opre oscene
Vener non più ch’a le contrarie applaude. –
E fattasi recar la statua d’oro
del’istessa Virtù, la donò loro.
93
Non vuol Febo soffrir che la sorella
l’onor del ben ballar sen porti sola,
onde dele sue Muse il coro appella
e l’aureo plettro accorda ala viola.
Vien tosto, inteso il suon, la schiera bella
al’armonia dela divina scola
e co’ legami dele braccia istesse
stranio balletto in vaghi nodi intesse.

94
Sotto la treccia dele braccia alzate
per filo or quella or questa il capo abbassa,
e torcendo le mani innanellate
altra sen’esce, altra sottentra e passa.
Poich’alfin le catene ha rallentate,
la bellissima filza il campo lassa
e soletta a ballar resta in disparte
Tersicore che diva è di quell’arte.
95
Si ritragge da capo, innanzi fassi,
piega il ginocchio e move il piè spedito
e studia ben come dispensi i passi,
mentre del dotto suon segue l’invito;
circonda il campo e raggirando vassi
pria che proceda a carolar più trito,
sì lieve che porria, benché profonde,
premer senz’affondar le vie del’onde.
96
Su’l vago piè si libra, e’l vago piede
movendo a passo misurato e lento,
con maestria, con leggiadria si vede
portar la vita in cento guise e cento.
Or si scosta, or s’accosta, or fugge, or riede,
or a manca, or a destra in un momento,
scorrendo il suol sì come suol baleno
del’aria estiva il limpido sereno.
97
E con sì destri e ben composti moti
radendo in prima il pian s’avolge ed erra,
che non si sa qual piede in aria roti
e qual fermo de’ duo tocchi la terra.
Fa suoi corsi e suoi giri or pieni, or voti,
quando l’orbe distorna e quando il serra,
con partimenti sì minuti e spessi
che’l Meandro non ha tanti reflessi.
98
Divide il tempo e la misura eguale
ed osserva in ogni atto ordine e norma.
Secondo ch’ode il sonatore e quale
o grave il suono o concitato ei forma,
tal col piede atteggiando o scende o sale
e va tarda o veloce a stampar l’orma.
Fiamma ed onda somiglia e turbo e biscia,
se poggia o cala o si rivolge o striscia.
99
Fan bel concerto l’un e l’altro fianco
per le parti di mezzo e per l’estreme;
moto il destro non fa che subit’anco
non l’accompagni il suo compagno insieme;
concordi i piè, mentre si vibra il manco,
l’altro ancor con la punta il terren preme;
tempo non batte mai scarso o soverchio,
né tira a caso mai linea né cerchio.
100
Tien ne’ passaggi suoi modo diverso,
come diverso è de’ concenti il tuono;
tanti ne fa per dritto e per traverso
quante le pause e le periodi sono
e, tutta pronta ad ubbidire al verso
che’l cenno insegna del maestro suono,
or s’avanza, or s’arretra, or smonta, or balza
e sempre con ragion s’abbassa ed alza.
101
Talor le fughe arresta, il corso posa,
indi muta tenore in un instante
e con geometria meravigliosa
apre il compasso dele vaghe piante,
onde viene a stampar sfera ingegnosa
e rota a quella del pavon sembiante;
tengono i piè la periferia e’l centro,
quel volteggia di fuor, questo sta dentro.
102
Su’l sinistro sostiensi e’n forme nove
l’agil corpo sì ratto aggira intorno
che con fretta minor si volge e move
il volubil paleo, l’agevol torno.
Con grazia poi non più veduta altrove
fa gentilmente, onde partì, ritorno;
s’erge e sospende e, ribalzando in alto,
rompe l’aria per mezzo e trincia il salto.
103
Il capo inchina pria che’n alto saglia
e gamba a gamba intreccia ed incrocicchia;
dale braccia aiutato il corpo scaglia,
la persona ritira e si rannicchia.
Poi spicca il lancio, e mentre l’aria taglia,
due volte con l’un piè l’altro si picchia
e fa, battendo e ribattendo entrambe,
sollevata dal pian, guizzar le gambe.
104
Poich’ella è giunta insù quanto più pote,
la vedi ingiù diminuir cadente
e nel cader sì lieve il suol percote
che scossa o calpestio non sene sente.
È bel veder con che mirabil rote
su lo spazio primier piombi repente,
come più snella alfin che strale o lampo
discorra a salti e cavriole il campo.
105
Immobilmente il popolo sospeso
pende da’ moti di colei che balla.
Stupisce ognun che dele membra il peso
estolla al ciel qual ripercossa palla;
serpa in obliquo o vada a passo steso,
opra il tutto con arte e mai non falla,
ond’alza un grido alfin garrulo e roco
e’l sol termina il giorno ed ella il gioco,
106
e la madre d’Amor, con queste lodi,
dele sorelle sue celebra il vanto:
– Dive immortali, vergini custodi
del pregiato licor del fiume santo,
da cui per fare al Tempo eterne frodi
hanno i miei bianchi augelli appreso il canto,
qual dono offrir vi può che vil non sia
o la sfera o la terra o l’onda mia?
107
Ecco nove corone. Elette queste
sono a fregiar le vostre chiome bionde,
peso ben degno di sì degne teste
poiché de’ cieli al numero risponde.
Son merlate di gemme ed han conteste
di smeraldo finissimo le fronde,
la cui verdura si conforma al verde
del’arbor che giamai foglia non perde.
108
A te, che fatto hai qui novo Elicona
chiudendo il festeggiar di questo giorno,
oltre ch’avrai dela gentil corona,
come l’altre compagne, il crine adorno,
questo ricco monile anco si dona
da cerchiar nove volte il collo intorno,
da cui di bel zaffir pende un branchiglio
che dal’isole vien del mar Vermiglio.
109
Ma tu, che più d’ogni altra altrui diletti,
onde stimata sei la più gentile,
Erato mia, che gli amorosi affetti
spiegando in dolce e delicato stile
lusinghi i cori, intenerisci i petti,
altro avrai che corona e che monile,
degna per la tua rara alta eccellenza
d’esser dela mia rota intelligenza.
110
Se non ho cosa che’l tuo merto agguagli,
resti del buon voler pago e contento;
togli questo scrittoio, i cui serragli,
i cui foderi son tutti d’argento.
Tien figurato di sottili intagli
in ciascun ripostiglio il suo stromento,
coltelli e righe e con mirabil arte
cent’altri arnesi da vergar le carte.
111
È di terso diaspro il bel lavoro
del’urna che l’inchiostro in sé ricetta.
Fuso, invece d’inchiostro, havvi del’oro,
di cui l’arco ha il mio figlio e la saetta.
Del più candido cigno e più canoro
penna lo sparge infra mill’altre eletta
e’l vasel dela polve in grembo tiene
ricche del Gange e preziose arene.
112
Con questo a gloria mia vo’che tu scriva
versi soavi e teneri d’amore.
Ed io, qualor su la Castalia riva
t’esserciti a cantar con l’altre suore,
farò che del tuo stil la vena viva
dolcezza assai del’altre abbia maggiore,
dando al tuo canto, accioché più s’apprezzi,
tutte le grazie mie, tutti i miei vezzi.
113
La stella mia che, quando il sol vien fora,
ultima cade e’n ciel sorge la prima,
quella che sveglia a salutar l’aurora
i sacri spirti ed a cantar in rima
e più che’n altra è solita in quell’ora
d’alzar l’ingegno ond’alte cose esprima,
vo’ che col raggio suo, sempre seconda,
furor divino ala tua mente infonda. –
114
Disse e già fuor de’ tenebrosi orrori
traea di vive perle il corno pieno
Cinzia e spargea di cristallini albori
il taciturno e gelido sereno.
Taceano i venti e languidetti i fiori
giaceano al’erba genitrice in seno.
Nel suo placido letto il mar dormiva,
del cui gran sonno il fremito s’udiva.
115
Sorse Venere bella e seco tolti
tra mille lumi i peregrini dei,
lor provide d’alloggio e fur raccolti
nel’ampia reggia ad albergar con lei.
Sgombra fu la gran piazza, ancorché molti
de’ riguardanti e nobili e plebei
volser, per non lasciar gli agiati luochi,
aspettar nel teatro i novi giochi.
116
Già lampeggiando in ciel l’alba traea
dale nubi notturne auree scintille
e colte già dal seminario avea
dele rugiade mille perle e mille,
onde con larga mano ella spargea
dal vaso d’oro innargentate stille,
innebriando di celesti umori
l’avidità, l’aridità de’ fiori,
117
quando Ciprigna ad ordinar le cose
del dì secondo uscì del ricco albergo
e de’ lottanti al vincitor propose
fiero molosso a brun macchiato il tergo,
ch’avea di piastre terse e luminose
d’acciar dorato intorno un forte usbergo
e d’un cuoio durissimo ferrato,
aspro di punte d’oro, il collo armato.
118
Col novo premio e con la luce nova,
ecco più d’una tromba ad alta voce
dela lotta citar s’ode ala prova
ed incitar la gioventù feroce.
Subito presto a comparir si trova
Cisso il tebano e Batto il cappadoce
e Clorigi è con essi e Vigorino,
il primo è cireneo, l’altro è bitino.
119
Noto al’Olimpo Olimpio ed al Citoro
Eutirto, un di Tessaglia ed un di Ponto;
Brancaforte di Tarso e Bellamoro
di Babilonia, uom celebrato e pronto,
e col temuto Uragano il fier Brunoro
mostrasi anch’egli apparecchiato e pronto,
e Bronco il forte e l’animoso Edrasto
esser bramano i primi al gran contrasto.
120
Ma Satirisco entro l’agone intanto
salta ed aspira ai preparati premi.
D’una driada e d’un fauno in Erimanto
fu generato di confusi semi.
Non è satiro intutto eccetto quanto
tengon sol dela capra i piedi estremi.
Forma umana ha nel resto e di due corna,
con cui cozza lottando, il capo adorna.
121
Corteccio allora, un contadin possente,
contro costui per tenzonar s’è mosso;
ale braccia in Arcadia uso è sovente
venir con gli orsi e n’ha le pelli addosso.
Ha, come gli orsi istessi, irto e pungente
su’l petto il pel, grande ogni membro e grosso;
è dele piante figlio e dele selve,
commun l’albergo e’l vitto ha con le belve.
122
Le selve a questo popolo e le piante,
orribil a contar, fur genitrici
e crebbe poi robusta turba errante,
senza cura di fasce o di nutrici.
Da novo piè calcata, il suoi tremante
scosse la terra infin dale radici,
quando da’ padri frassini e da’ faggi
vide i fanciulli uscir verdi e selvaggi.
123
Spaventati ed attoniti stupiro
quel dì che prima al ciel gli occhi levaro
e videro alternar con vario giro
dela notte e del giorno il fosco e’l chiaro.
Fama è che lungo tratto il sol seguiro
quando oscurar la sera il dì miraro,
temendo forte, ahi semplici! non loro
involasse per sempre i raggi d’oro.
124
Veder duo lottator tanto eccellenti
da corpo a corpo a contrastar ridutti,
fu gran diletto, ond’a mirargli intenti
in piè s’alzaro i circostanti tutti.
Non stetter molto a bada i combattenti,
ambo delpar nell’essercizio instrutti,
ma subito n’andar senz’altro dirsi
impetuosamente ad assalirsi.
125
Non da spiedo o da stral talor feriti
duo fier leoni o duo cinghiali alpestri
risonar d’urli orrendi e di ruggiti
fan con tanto furor gli antri silvestri,
con quanto insieme ad affrontarsi arditi
vennero dela lotta i duo maestri
e si strinsero a un tempo e d’alti gridi
rimbombar fer d’intorno i campi e i lidi.
126
Tra saldi nodi e rigide ritorte
avinchiati così stetter gran pezza,
poi si staccaro e con rivolte accorte
cominciaro a mostrar forza e destrezza.
Pesante è l’un, ma ben gagliardo e forte,
l’altro è leggier, ma di minor fortezza,
pur, girandosi ognor, con l’arte astuta
e con la propria agilità s’aiuta.
127
Poich’ei più volte ha circondato il piano,
le gambe allarga e ferma i piedi in terra,
le spalle incurva e l’una e l’altra mano
distende innanzi, accinto a nova guerra.
Con minaccioso scherno il fier villano
sorride e contro lui ratto si serra
e con un braccio, il più forte che pote,
di sovra la collottola il percote.
128
Quasi duro bastone o grossa trave
parve battesse al satiro la fronte
e stordito restò dal picchio grave,
pur come addosso gli cadesse un monte.
Ma si riscote intanto e perché pave
d’un nemico sì fier l’offese e l’onte,
cerca di prevaler sagace e scaltro
con stratagemi e con cautele al’altro.
129
Mostrò forte dolersi e d’aver rotta
la testa e di cader quasi s’infinse,
onde colui per dargli un’altra botta,
scioccamente ridendo, oltre si spinse
e, credendo omai vinta aver la lotta,
senza riguardo alcun, seco si strinse;
ma tutto in semedesmo ei si raccolse
ed aspettar quell’impeto non volse.
130
Mentre Corteccio, con l’ardir ch’ha preso
risoluto ritorna ala battaglia
e la seconda volta il braccio steso
per di novo ferirlo a lui si scaglia,
la fronte abbassa e, pria che l’abbia offeso,
gli entra di sotto e fa che’nvan l’assaglia
e dà loco ala furia e la ruina
del colpo irreparabile declina.
131
Schivato il colpo e col suo destro braccio
preso del’aversario il braccio manco,
quasi legato da tenace laccio
gliel’imprigiona e l’attraversa al fianco.
Tenta ben l’altro uscir di quell’impaccio,
ma perché greve e travagliato e stanco
ceder gli è forza e nel colpire a voto
è tirato a cader dal proprio moto.
132
Tutto in un tempo ei gli passò sfuggendo
sotto l’ascella e gli s’avinse al collo
e con le mani il gran ventre cingendo
gli saltò sulle terga e circondollo
in guisa tal che’n ginocchion cadendo
quei venne a terra e non potea dar crollo;
pur con sì fatto sforzo alfin si torse
che quasi in piedi libero risorse
133
e con quel dimenar diè sì grand’urto
al destro assalitor che l’avea cinto,
ch’al’improviso allor colto e di furto,
fu per caderne anch’egli, indietro spinto.
Ma pria ch’apien disciolto e’n piè risurto
fusse l’altier, già poco men che vinto,
il quasi vincitor dela contesa
non fu già lento a rattaccar la presa.
134
Robustamente con le braccia il lega,
con le corna il ferisce a capo chino
e’l ginocchio di dietro, ove si piega,
batte in un punto col tallon caprino
e tanta forza ad atterrarlo impiega,
che lo costringe a traboccar supino.
Far non potè però, quando l’oppresse,
ch’ancor sovra il caduto ei non cadesse.
135
Seco abbracciato e fortemente stretto
l’abbattuto pastor in modo il tenne,
ch’addosso in venir giù sel trasse al petto,
onde cadere ad ambodue convenne.
Cadder sossovra e d’onta e di dispetto
l’un e l’altro fremendo in piè rivenne;
e già moveansi a più rabbiose risse
ma Citerea vi s’interpose e disse:
136
– Non convien che più oltre oggi proceda,
giovani valorosi, il furor vostro,
né che cotanto un vano sdegno ecceda;
basti l’alto valor che qui s’è mostro.
Non vo’ che’l sangue alo scherzar succeda,
non è mortal conflitto il gioco nostro;
cessino l’ire; ambo egualmente siete
degni di palma ed egual premio avrete.
137
Abbiasi Satirisco il can promesso
ma non s’oblii del’altro insieme il merto;
quel pardo cacciator gli fia concesso
ch’è di spoglia ricchissima coverto. –
Più volea dir, ma su quel punto istesso
vide Membronio entrar nel campo aperto,
Membronio il fiero scita, uom ch’ale membra
animata piramide rassembra.
138
Sembra torre sensibile e spirante,
sembra viva montagna ala statura.
Non giamai, credo, in alcun suo gigante
tanta massa di carni unì Natura.
Dal vasto capo ale tremende piante
così dismisurata è la misura,
che tra gli uomini grandi è quello istesso
ch’è tra i virgulti piccioli il cipresso.
139
Pien di superbo e temerario orgoglio
questi nel chiuso cerchio entrato apena,
depon le vesti e in un confuso invoglio
furiando le gitta insu l’arena.
Poi, quasi eccelso ed elevato scoglio,
del’ampie spalle e del’immensa schiena
scopre gli eccessi e di terribil ombra,
ben piantato nel mezzo, il piano ingombra.
140
Qual Tizio fuor dela prigion tenace
libero e’n piè levato a veder fora,
se l’augel che famelico e mordace
le sue feconde viscere divora,
da’ nove campi ove disteso ei giace
sorger gli desse e respirar talora,
cotal parea quel mostro orrendo e rio,
ch’i più temuti a spaventar uscio.
141
Con bieco sguardo in prima egli si vide
torcer le luci e sollevar la faccia,
aspra se scherza ed orrida se ride,
or che fia se s’adira o se minaccia?
Indi con formidabili disfide,
ambe sbarrando incontr’al ciel le braccia,
di tai parole audaci ed arroganti
l’orecchie fulminò degli ascoltanti:
142
– Or venga a noi di quanta gente accoglie
questa di lottatori ampia adunanza,
qual più di palme cupido e di spoglie
in sestesso si fida e’n sua possanza.
Vedrem chi tanto insane avrà le voglie,
che di meco pugnar prende baldanza.
Parlo a chiunque intorno ode il mio grido
e quanti qui ne son, tanti ne sfido. –
143
Nessun risponde al’oltraggiose note,
salvo sol di Beozia un giovinetto,
ch’accende allor, perché soffrir nol pote,
di vergogna la guancia e d’ira il petto.
Incomincia a segnargli ambe le gote
del primo pelo un picciolo fregetto,
ma sotto l’ombra dele fila bionde
di qua, di là la zazzera l’asconde.
144
Crindor, dal’or del crine, egli ebbe nome,
perché sì bionde e molli e dilicate
e sì crespe e sì terse avea le chiome,
ch’auree in vero pareano e non aurate.
E qualor dala forbice, sicome
sogliono a chi si tonde, eran tagliate,
per posseder sì lucido tesoro
le compravan le donne a peso d’oro.
145
Senza accorciarla un lustro ha già nutrita
la bella chioma, ond’è diffusa e lunga
e non è di che culta e ben forbita,
de’ più pregiati aromati non l’unga.
Ma s’or avien che dal’impresa ardita
vincitor esca e ch’ala patria ei giunga,
troncar promette in voto i capei cari
e d’Apollo offerirgli ai sacri altari.
146
Poiché vede ch’alcun non osa ancora
di contraporsi a quel colosso immane,
sfibbiasi il manto e senz’altra dimora,
scinte le spoglie, ignudo ivi rimane
e del corpo viril dimostra fora
le fattezze leggiadre e sovrumane,
onde del’altre membra al vago volto
quelche i drappi ascondeano, il pregio ha tolto.
147
Sentendo nel bravar che fa colui
publica e general l’ingiuria e l’onta,
benché debil di forze, incontr’a lui
dala voglia è portato audace e pronta,
né senza tema e meraviglia altrui
il coraggioso giovane l’affronta.
Ma l’altro, con piè fermo e fronte oscura,
minacciando l’aspetta e nulla il cura.
148
Somiglia là, nelo steccato ibero
tauro cui gente irritatrice espugna,
qualor dal canneggiar fatto più fiero,
fiede il ciel con la fronte, il suol con l’ugna,
la coda inalza, abbassa il collo altero,
sbarra le nari e sfida i venti a pugna
e par, torto le corna e torvo i lumi,
quando sorge dal letto il re de’ fiumi.
149
E che può folle ardir? che può? che vale
contro sì sconcia machina e sì vasta?
che non ch’aver proporzione eguale,
con tutto il petto al capo gli sovrasta?
Lasciasi pur crollar, mentr’ei l’assale,
sostien gli urti innocenti e non contrasta;
ma’l tempo attende e con accorto ciglio
cerca ala treccia d’or dargli di piglio.
150
La treccia d’oro ch’al soffiar del vento
volava intorno innanellata e sciolta,
era molto al garzon d’impedimento
e gli occhi gli copria tant’era folta;
onde il gigante ala vittoria intento
ebbe pur d’afferrarla agio una volta;
nel’aureo crin la fiera man gli stese
e tanto ne stracciò quanto ne prese.
151
Come quando talora astuto gatto
il nemico che rode ha nela branca,
non subito l’uccide al primo tratto
ma quinci e quindi lo raggira e stanca,
finché, veggendol poi mezzo disfatto
e che lo spirto ador ador gli manca,
dopo lungo scherzar, pur finalmente
ala zampa lo toglie e dallo al dente,
152
così Membronio altero e furibondo
poiché sofferto ha il bel Crindoro alquanto,
con oltraggio crudel per lo crin biondo
lo sbatte a terra e quivi il lascia intanto;
e disprezzando insieme il cielo e’l mondo
l’insolente parlar raddoppia e’l vanto:
– Perché soffre (dicea) chi più si stima
che gli tolga un fanciul la lotta prima?
153
Venite voi, ch’io tal onor non curo,
voi forti, al braccio mio degna fatica.
Venga ciascun che vuol provar se duro
o molle è il sen dela gran madre antica. –
Così dic’egli con sembiante oscuro,
né Corimbo sostien che così dica;
di Crindoro è compagno, anch’egli greco,
e di stretta amistà legato seco.
154
Nacque su l’Acheloo, famoso fiume,
che lottò già col domator de’ forti
e contan che l’istesso umido nume
gl’insegnò l’arte e mille tratti accorti
e del pontar la pratica e’l costume
e le prese a cangiar di varie sorti;
e di persona essendo agile e destra,
vincitor riuscì d’ogni palestra.
155
Spiacque a ciascun la crudeltà villana
del barbaro feroce e discortese,
ma’l fido amico ala caduta e strana
d’ira non men che di pietà s’accese.
– Volgiti (disse) a me, bestia inumana,
che disonori l’onorate imprese
e d’avilire e d’infamar ti gonfi
l’onor dele vittorie e de’ trionfi.
156
Non superbir con vanità sì sciocca,
perché mole di membra abbi cotanta,
ché, se sembra il tuo corpo eccelsa rocca,
eccelsa rocca ancor s’abbatte e schianta.
Spesso da giogo altero al pian trabocca
tronca da picciol ferro, immensa pianta,
spesso lo smisurato angue d’Egitto
da minuto animal cade trafitto.
157
Fu l’uccisor del fier leon nemeo
vie più forse di te forte e membruto,
pur nel tallon trafitto alfin cadeo
dal morso sol d’un pesciolin brancuto.
Fu di quel ch’io mi son, del campo acheo
forse minor l’esploratore astuto,
pur tolse di sua man con picciol remo
l’arroganza e la vita a Polifemo. –
158
Con un ghigno sprezzante e pien d’orgoglio
l’ascolta il grande e qual si sia nol degna:
– Teco non con la man combatter voglio,
solo il mio piede a ben lottar insegna.
Con un calcio di quei, ch’aventar soglio,
ti manderò dove Saturno regna;
e’n tornar giù mi recherai novelle
di ciò che colassù fanno le stelle. –
159
Così rispose, e così detto prese
un salto tal che fè stupir le genti,
né l’Appennin sì forte o il Monsanese
scosso è talor da prigionieri venti.
Poi d’un grido sì fiero il cielo offese,
che la terra crollò da’ fondamenti;
vacillò la gran piazza e rimbombonne
l’aria e tremaro intorno archi e colonne.
160
Con sì fatto romor, quand’Ercol morse,
aprì latrando Cerbero le gole;
con tal rimbombo Giove a punir corse
del fier Titan la temeraria prole
e con strepito egual Pozzuol fè forse
d’alto spavento impallidire il sole,
alor ch’alo scoppiar dele campagne
vomitò fiamme e partorì montagne.
161
Senz’altro motto al vantator superbo
il buon Corimbo allor si drizza e tace.
È d’età verde e di vigore acerbo,
indomito di cor, di spirto audace,
tutto callo, tutt’osso e tutto nerbo,
di polpe asciutto e d’animo vivace.
Quadrato ha il corpo e sovra i fianchi stretto,
gli omeri larghi e spazioso il petto.
162
Stupir le turbe intorno, a cui non era
conta la fama del campion gagliardo,
quando insperato e solo uscir di schiera
l’ebber veduto e’n lui fisaro il guardo.
Ma tra color ch’avean notizia intera
di quel valor che non fu mai codardo,
meraviglia non nacque e lor non nove
l’usate n’attendean prodezze e prove.
163
Del pari ignuda e stimulata e punta
da sprone egual la fiera coppia arriva,
e poiché già concesso a prima giunta
libero ad ambo il campo è dala diva,
poich’han la pelle immorbidita ed unta
col licor verde dela molle oliva,
chinansi a terra e con furore e rabbia
fregan le mani insu la secca sabbia.
164
Quando d’arida polve ambo pres’hanno
quanto lor basta ad inasprar le palme,
non così tosto ad abbracciar si vanno
quelle due senza pari intrepid’alme.
Ma de’ corpi ch’al moto accinti stanno,
ferme nel suol le ben librate salme,
da capo a piè, da questo e da quel canto,
trattengon gli occhi a misurarsi alquanto.
165
Usa ciascun l’industria, adopra ogni arte
per aver nela luce anco vantaggio
e sceglie il sito e’n guisa il sol comparte,
che gli occhi offenda al’aversario il raggio,
cercando pur di collocarsi in parte
dove non n’abbia la sua vista oltraggio,
e’n sì fatta postura il lume piglia
che gli fieda le spalle e non le ciglia.
166
Volge Membronio al suo nemico il viso,
tien curvo il collo e tien le gambe aperte
e’ntento ad avinchiarlo al’improviso,
larghe le braccia ed inarcate ed erte.
Corimbo in sé raccolto e’n su l’aviso,
le man, gli occhi e la faccia a lui converte
ed indietro col piè, col capo avante,
tenta aver nela presa il primo istante.
167
Lanciarsi ambo in un tratto ed investiti
s’aviticchiar con noderosi groppi;
né polpo a nuotator tra’ salsi liti
tese mai nodi sì tenaci e doppi,
come fur quei, che di lor membra orditi,
tentando insidie e traversando intoppi,
strinsergli insieme in cento modi estrani
con le braccia, co’ piedi e con le mani.
168
Premer petto con petto ambo vedresti
e stinco a stinco e fronte a fronte opporsi,
ambo a prova afferrarsi agili e presti
sotto i lombi, su i colli e dietro ai dorsi.
Stan così buono spazio e quegli e questi,
pur disbrigati al fin vengono a sciorsi
e, con gran giri intorniando il loco,
van quinci e quindi e fan più largo il gioco.
169
Torna da capo ad affrontarsi e i petti
congiunge insieme la robusta coppia,
e sì forte gli tien serrati e stretti
ch’afferma ognun che già vien meno e scoppia;
poi son pur a lasciarsi alfin costretti,
indi pur l’un e l’altro ancor s’accoppia,
e l’un e l’altro mentre or lascia, or prende,
scambievolmente ognor varia vicende.
170
Come in riva palustre o in balza alpina,
quando dal furor d’euro è combattuta,
minaccia antica pianta alta ruina,
accenna arbore eccelsa alta caduta,
or la cima frondosa a terra inchina,
or in alto dal vento è sostenuta
e’l moto alterno del’altere fronti
fa stupire e tremare i fiumi e i monti,
171
così fanno quei duo. Sovente vedi
mutar fogge d’assalto or quello, or questo;
il minor dal maggior talvolta credi
già soffogato ed abbattuto e pesto;
in un momento poi risorto in piedi
rincalza l’altro ed a ghermirlo è presto;
or respinge il nemico, or n’è respinto,
né si distingue il vincitor dal vinto.
172
Su le dita de’ piè Corimbo in alto
s’erge talor, ma non gli arriva al mento;
talor prende a saltar, ma sempre il salto
appo busto sì grande è corto e lento.
Non però si ritrae dal fiero assalto,
né di forza gli cede o d’ardimento;
virtù raccolta è vie più forte e langue
troppo allargato in un gran corpo il sangue.
173
Membronio, saldo in mezzo al campo e dritto
di guardia in atto e di difesa stassi
e cerca stancheggiar l’emulo invitto
che gli va intorno con veloci passi,
ma per farglisi egual nel gran conflitto
convien che’l tergo incurvi e che s’abbassi.
Pensa dargli di piglio e l’altro fugge,
ond’ei sbuffa e bestemmia e freme e rugge.
174
Qual orbo a cui zanzara intorno o pecchia
vola importuna ad infestar la faccia,
ed or nel naso il punge or nel’orecchia,
e più ritorna quant’ei più la scaccia,
tal, quanto più si volge ed apparecchia
or quinci or quindi ala tenzon le braccia,
dal destro assalitor men si difende
e le man per pigliarlo indarno stende.
175
Già sono entrambo affaticati e stanchi
e di molle sudor bagnati e sparsi,
già con spesso alitar battono i fianchi
e vanno alquanto al travagliar più scarsi.
Ma’l più grave trafela e par gli manchi
la lena intutto e brama omai posarsi;
mostra ogni vena il corpo enfiata e rossa
e più forte anelando il fiato ingrossa.
176
Pur dal’onor sospinto in piè sostiensi
e gli usati furori in sé raccende;
ma con la vastità de’ membri immensi
più che con la possanza ei si difende.
Il greco, ch’ha più vigorosi i sensi,
più fresco al’opra e più vivace intende
ed ecco già que’ nervi intanto adocchia
che di dietro incurvar fan le ginocchia,
177
e perché lasso il vede e pien d’angoscia,
con la destra gli accenna inver la spalla.
Minaccia al collo e in un momento poscia
s’inchina, ma l’effetto al pensier falla,
che la man troppo breve al’ampia coscia,
inumidita dal licor di Palla,
non potendo fermar la palma in essa,
lubrica a sdrucciolar vien da sestessa.
178
Il superbo di Scizia, ancorché rotto
dala stanchezza, allor punto non tarda
e vistosi da lui sì malcondotto,
par che di stizza e di dispetto n’arda.
Sovra andar gli si lascia e quasi sotto
sel caccia in modo con la man gagliarda,
ch’a l’ombra del gran seno, onde il soverchia,
tutto l’asconde e con le braccia il cerchia;
179
così chi cerca con occulta mina
l’oro sepolto in sotterraneo speco,
se la rupe si rompe e’n giù ruina,
siché chiusa la buca ei resti cieco,
sotto l’alta percossa e repentina
tutti gli ordigni suoi ne tragge seco
e pon fine in un punto al’opra ardita,
a l’ingorda avarizia ed ala vita.
180
Non perde il cor Corimbo, anzi s’affretta
in caricarlo e riposar nol lassa;
e perch’a far un colpo il tempo aspetta,
sotto il braccio nemico il capo abbassa
e con più d’una scossa e d’una stretta
gli esce ale coste, indi ale spalle, e passa.
Di qua, di là, con l’una e l’altra mano
gli annoda i fianchi e tenta alzarlo invano.
181
Più volte a destra, a manca il fier gigante
spinge e respinge e con gran forza il tira,
ma non men saldo il trova o men costante
che grossa quercia a zefiro che spira.
Dele gran gambe ognor, dele gran piante
sì ben fondate tien, mentr’ei l’aggira,
le colonne e le basi insu l’arene,
che la propria gravezza in piedi il tiene.
182
Pur alfin tutto ala vittoria inteso,
ratto da faccia a faccia a lui s’aventa,
indi, quantunque intolerabil peso,
sollevandol da terra, alto il sostenta.
Quando così nel’aria ei l’ha sospeso,
non allarga i legami e non gli allenta,
ma con tutto il vigor dela persona
là dove pende più, più s’abbandona.
183
Sovra l’osso del petto alto levato
calcollo sì che’l respirar gli tolse.
Quanto d’impeto avea, quanto di fiato
nele membra e nel cor, tutto raccolse
e, piegandolo a forza al manco lato,
lui da sé spinse e sé da lui disciolse,
onde cadendo alfin, con l’ampia schiena
il membruto campion stampò l’arena.
184
Non altrimenti il generoso Alcide
quando il libico Anteo pugnando assalse,
poiché dela cagion chiaro s’avide
ond’ei più volte al suo valor prevalse,
tra le braccia possenti ed omicide
stringendolo schernì l’arti sue false
e tanto spazio lo sostenne e resse
che violenta fuor l’alma n’espresse.
185
Cadde con quel fragor che suole al basso
cader smosso dal’onde argine o ponte
e parve apunto che scosceso il sasso
venisse quasi a dirupare un monte.
Tutti a quella ruina, a quel fracasso
segno mostrar d’alta letizia in fronte
e con grido e stupore al riso misto,
favorire applaudendo ognun fu visto.
186
Mentre intorno ridea la turba pazza,
confondendo al’applauso alto bisbiglio,
fattosi Citerea venire in piazza
stranio vasel, volse a Corimbo il ciglio:
– Tua sia questa (gli disse); in questa tazza
che’n India conquistò lo dio vermiglio,
Giove bevea nel tempo già, che pria
di Ganimede a mensa Ebe il servia.
187
La tazza ha il ventre assai capace e grande
e, come vedi, è di cristallo alpino;
sorge vite dal fondo e dale bande
le serpe intorno e fa corona al vino;
son di smeraldo i pampini che spande,
l’uve son di topazio e di rubino;
e’n guisa tal che l’arte assembra caso,
il tronco inferior fa piede al vaso.
188
In mezzo al vaso ricco e prezioso
sta con arte mirabile piantato
un cespo intier del’arboscel ramoso
che fu già da Medusa insanguinato,
onde il dolce licor d’un fresco ombroso
sparge, né men ch’al labro al’occhio è grato
e mesce il rosso al verde e’nsieme serra
le delizie del mare e dela terra.
189
Dele gemme ch’ha dentro il prezzo è il meno.
Sì sottil l’artificio è di quest’opra,
perché mentre la coppa ha voto il seno,
paiono acerbi i grappoli di sopra;
ma quando poi comincia ad esser pieno,
tanto che’l vino infin al’orlo il copra,
s’annegrisce il rigor dela verdura
e diventa l’agresto uva matura. –
190
Così dic’ella e gliel consegna e porge
e, veduto Membronio ala pianura,
loqual carco di polve in piè risorge
vie più che di superbia e di bravura,
perché confuso il mira e ben s’accorge
quanto l’affligga il duol di sua sciagura,
non vuol ch’alcuno in sì festoso giorno
da lei si parta con mestizia e scorno.
191
Una gran fiasca in dono ottien da lei,
opra ben tersa d’acero tornito,
che d’un bel chiaro oscuro in duo camei
per la man del gran Guido è colorito.
In una parte de’ celesti dei
dipinto è il lauto e splendido convito,
nel’altra una vendemmia ha di baccanti,
di selvaggi sileni e coribanti.
192
Sovragiunge Crindoro il qual si lagna
del torto ingiusto e mostra interno affanno,
dicendo che da lui nela campagna
fu per fraude abbattuto e per inganno.
Graffiasi il volto e di bel pianto il bagna
e vendica nel crin l’ingiuria e’l danno
ed accrescono grazia ala beltate
le chiome polverose e lacerate.
193
Ride Ciprigna e col bel vel sottile
gli asciuga di sua man gli occhi piangenti.
Poi d’alabastro candido e gentile
fa due portar ben grandi urne lucenti,
già di ceneri sacre antiche pile,
or tutte piene d’odorati unguenti:
– Questi licori preziosi e fini
servanti (disse) a far più molli i crini. –
194
Dopo le lutte faticose e fiere
la bellicosa dea prende per mano
e la vuol seco giudice a sedere
sovra il gran palco che comanda al piano.
Poi fra le genti armigere e guerrere
fa per l’araldo suo gridar lontano
che chiunque onor brama in campo vada
a tirar d’armi ed a giocar di spada.
195
Per incitar, per allettar con l’esca
gli animi forti ala tenzon novella,
e perch’ai cori arditi ardir s’accresca,
un dolce premio a conquistar gli appella;
vergine addita lor fiorita e fresca
nata in Corinto e fra le belle bella,
bianca vie più che tenero ligustro,
e compito ha di poco il terzo lustro.
196
Fu beltà tanta ai fianchi di coloro
che deveano armeggiar, stimolo ardente,
perch’al valor che langue, alto ristoro
i trastulli d’amor recan sovente.
Tosto Brandin comparve ed Armidoro,
l’un detto il feritor, l’altro il valente,
Gauro lo scarmigliato, Ormusto il fiero,
Garinto il rosso e Moribello il nero.
197
Taurindo il mosco, il tartaro Briferro,
Argalto il siro, il persian Duarte
e Giramon che sì ben gira il ferro
e Fulgimarte, il folgore di Marte.
Magabizzo e Spadocco, un ladro, un sgherro,
ambo or rivolti a più lodevol arte.
Belisardo dal guado, Albin dal ponte,
Grottier dal bosco ed Olivan dal monte.
198
Mentre son questi in gara ed altri eroi
di cui la Musa mia l’opre non narra,
Esperio ispano di cui prima o poi
uom più audace non fu, prende la smarra;
e precorrendo i concorrenti suoi,
cacciasi il primo entro la chiusa sbarra,
indi la man toccando ala donzella,
con un sorriso altier così favella:
199
– Farà meco pugnando oggi costei
d’altra guerra miglior, campo il mio letto.
Non speri alcun dela beltà di lei
finch’avrò questa in man, prender diletto.
Chiunque opporsi ardisce ai detti miei,
venga e’l vieti, se può, ch’io qui l’aspetto.
Gli ozi più dolci son dopo i sudori,
pria convien trattar l’armi e poi gli amori. –
200
Bardo il toscano allora oltre s’avanza,
sdegnoso che costui tanto presuma
e dice: – Nel parlar tanta arroganza
là dov’è chi più val non si costuma.
Se sostegno non hai d’altra speranza,
giacerai scompagnato in fredda piuma.
Il guadagno non va senza il periglio
e’l ver piacer dela fatica è figlio. –
201
– E tu chi sei? (replica l’altro) e donde
il primo a cercar brighe esci fra tanti?
Spesso quand’altri per timor s’asconde,
chi di tutti è il peggior si tragge avanti. –
– Son chi mi sono, e qual mi sia (risponde)
son più di te, che si ti stimi e vanti
e di qualunque alpar di te s’apprezza
degno di posseder quella bellezza. –
202
Avea per cominciar deposto il manto,
ma trovò che già preso era l’arringo
e che l’avea già prevenuto intanto
e venia contr’Esperio, Ugo il fiammingo;
per attenderne il fin si trae da canto
e vede questo e quel cauto e guardingo
moversi a tempo e’n vaga pugna e nova
vicendevoli industrie usar a prova.
203
Or s’inchinano al suol curvati e bassi,
or in men d’un balen levansi in alto,
or fanno innanzi, or tranno indietro i passi,
or son rapidi al giro, or destri al salto.
Trattiensi alquanto il belga e’n guardia stassi,
alfin s’arrischia a più vicino assalto.
Fa pur l’istesso il baldanzoso ibero,
ma volge in simil atto altro pensiero.
204
Di stringersi con lui si riconsiglia
e non pone al’effetto altra dimora.
Dela spada nemica il debil piglia
siché la sforza a scaricar di fora.
Poi con la sua l’avinchia e l’attortiglia,
vista al disegno suo commoda l’ora.
In qual modo io non so, so che lontano
gliela fa svelta alfin balzar di mano.
205
Ride ed inerme il lascia ed indifeso
l’altier che’n suo valor troppo si fida
ed a schernir più che a schermire inteso
volgesi a Bardo e lo minaccia e sgrida.
Colui corre al’appello e, d’ira acceso,
vassene ad affrontar chi lo disfida,
loqual contro gli vien per fargli il tratto
che dianzi al’altro astutamente ha fatto.
206
Ma quel d’Etruria che’l suo gioco intende,
svia con la palma il ferro e lo raffrena,
con la manca la destra indi gli prende
e la guardia gli afferra e gl’incatena
e mentre in guisa il tien che non l’offende
passandogli col piè dietro la schiena,
di piatto ancor, quasi fanciul con verga,
al superbo spagnuol batte le terga.
207
Non riposa egli già poich’ha del Tago
l’altero idalgo umiliato e vinto,
ché di nova fatica è ben presago,
visto Olbrando l’insubre a pugna accinto,
che’l capo ha di gran piume ornato e vago
e di banda purpurea il petto cinto.
Largo fa questi il gioco e con bravura
leggiadra da veder più che secura.
208
Con ampie rote intorno a lui passeggia
e’l taglio adopra a dritto ed a traverso.
Senza intervallo alcun sempre colpeggia
e tien nel colpeggiar modo diverso.
L’altro sta ben coverto e temporeggia
col ferro al ferro di lontan converso.
Alfin, quando a misura esser s’accorge,
il tempo coglie e’ncontr’a lui si sporge.
209
Saggio è chi coglie a tempo il tempo lieve,
che lieve più che stral vola e che vento
ed è picciolo instante, attimo breve
e quasi indivisibile momento.
Ma se’n ogni altro affare esser non deve
altri a pigliarlo neghittoso e lento,
più nella scherma è necessario assai,
ché se’l lasci fuggir, non torna mai.
210
Tosto ch’a senno suo gli apre la porta
colui che di ferir l’aure si vanta,
più non indugia il tosco e non sopporta
ma la stoccata subito gli pianta;
e con impeto tal la punta porta
lancia ver lui con furia tanta,
ch’a cader quasi indietro ei l’ha costretto
e la spada gli rompe in mezzo al petto.
211
Applaudon tutti allor, ma quando Bardo
già nel pugno la palma aver si stima,
di lui si duol lo schermidor lombardo
e ceder non gli vuol la spoglia opima,
anzi perfido il chiama ed infingardo,
con dir che rotto il brando avea già prima
nel’assalto d’Esperio e si querela
ch’egli per fraude il vinse e per cautela.
212
La fanciulla per man Bardo tenendo
vuol pur che come sua, gli si conceda.
L’altro per l’altra ancor la vien traendo,
ciascun brama per sé la nobil preda.
Ma le due dee gli acquetano, imponendo
ch’ancor da capo a tenzonar si rieda
ed acciocché’l giudicio alfin non erri,
fan visitar con diligenza i ferri.
213
Per mostrar meglio il ver, la pugna accetta
il guerrier d’Arno, ancorché d’ira avampi,
ed ecco il ferro allor con tanta fretta
torna il bravo a rotar ch’eccede i lampi.
Ma già del’altro il ciel fa la vendetta
e’l caso vuol che l’aversario inciampi,
ch’un non so che gli s’attraversa al passo
e’l piè gli manca e sdrucciola in un sasso.
214
Con la chiave del piè guasta e scommessa
risorge Olbrando dale molli arene,
dolente sì che’n mezzo al’ira istessa
al nobil vincitor pietà ne viene,
loqual cortesemente a lui s’appressa,
a levarsi l’aita e lo sostiene
ed obliando le discordie e l’onte
gli forbisce le vesti e’l bacia in fronte.
215
La giovane tra lor già litigata
restò pur finalmente in suo potere,
e l’altro, che pur dianzi avea stracciata
la traversa vermiglia in su’l cadere,
un’altra n’ebbe, intorno intorno orlata
di merletti di perle a tre filiere
ed avea di grottesche e di fogliami,
lavor di nobil ago, ampi riccami.
216
– Più che propria virtù destin secondo
diè questa palma (ei disse) al mio rivale.
Colei che n’erge in alto e spinge al fondo,
dona spesso gli onori a chi men vale. –
E l’altro allor: – Più dee pregiarsi al mondo
favor divin d’ogni valor mortale.
Se le stelle mi fer sì fortunato,
dunque il ciel m’ama e ne ringrazio il fato. –
217
Vener qui s’interpose e sciolse il nodo
con un dolce sorriso ala favella:
– Vincasi pur in qualsivoglia modo,
che la vittoria alfin fu sempre bella. –
Tronco il filo ala lite e fisso il chiodo
al decreto immortal, la dea più bella
fè dopo questi i duo primier campioni
contenti anco restar con altri doni.
218
Ponsi poscia a mirar Marzio e Guerrino,
l’un de’ quali è guascon, l’altro normanno,
l’un e l’altro iracondo e repentino
che tolerar, che destreggiar non sanno.
Esce pria l’aquitano, indi vicino
fattosi al’altro, ove le smarre stanno,
perché vinto d’orgoglio esser non soffre,
de’ duo stili d’acciar la scelta gli offre.
219
Eran le smarre ben temprate e dure,
quantunque oltre il dever lunghe, sottili.
Guerrin sorride e dice: – Altre armature
si convengon che queste a cor virili.
Parmi un scherzar da pargoletti o pure
un pugnar da guerrier codardi e vili.
A dirti il ver, meglio amerei provarmi
con la spada di fil che con quest’armi. –
220
– A chi pace non vuol, guerra non manca
(Marzio risponde) in campo ecco mi vedi.
Voglimi o con la nera o con la bianca,
pronto sempre m’avrai qual più mi chiedi. –
Non vuol Ciprigna che la coppia franca,
che già nova disfida ha messa in piedi,
la festa sua sì dilettosa e lieta,
macchi di sangue e gliel contende e vieta.
221
Grida Guerrino: – Almen fa che sien tolti
dale punte de’ ferri i duo bottoni,
né sien da’ colpi eccettuati i volti;
mantenga poi ciascun le sue ragioni. –
– Non creder ch’io miglior novella ascolti,
né men brami di te quel che proponi –
(replica Marzio) e freme iratamente,
onde Vener, costretta, alfin consente.
222
Non molto in lungo andò tra loro il gioco,
né l’un del’altro ebbe la man men presta.
Si serrar tosto insieme i cor di foco
e la mira pigliaro ambo ala testa.
Onde l’assalto lor, che durò poco,
si terminò con azzion funesta
e passato e squarciato al’improviso
l’un con l’occhio restò, l’altro col viso.
223
Poich’ha la dea, non senza doglia acerba,
visto il tragico fin dela battaglia,
in risanargli con qualch’util’erba
prega Apollo a mostrar quant’egli vaglia.
Poi dona a Marzio d’agata superba,
da portar nel cappel, ricca medaglia
ed a Guerrin d’una fattura estrana,
per ornarsene il petto, aurea collana.
224
Sorge Altamondo, un aleman membruto,
di superbia e di vin fumante e caldo
e non attende che col suono arguto
l’inviti in campo a duellar l’araldo.
Cariclio, il greco, è contro lui venuto,
d’ossa minor, ma ben robusto e saldo,
uom di corpo, di piè, di mano attivo,
di spirto pronto e di coraggio vivo.
225
Vassene il greco senza far parole
per dargli il primo allor allor di piglio;
aspettar che si scaldi egli non vole,
né stima il dargli tempo util consiglio,
ché la ruina di sì greve mole
teme e’l restarne oppresso è gran periglio.
Onde nel ripararsi e nel colpire
del’industria si serve e del’ardire.
226
Nele sue guardie ha di svantaggio il grande
e d’uopo è ben ch’anch’egli il senno adopre,
ch’ad ogni moto che le braccia spande,
del’ampio corpo una gran parte scopre.
Mal picciolo davante e dale bande
facilmente si serra e si ricopre
e può meglio cangiar sito e postura,
non avendo a guardar tanta statura.
227
Mentre i colpi il germano adombra e finge
con molti tempi e’l tempo indarno spende,
l’ultima parte del suo forte ei spinge
siché nel mezzo il debile gli prende;
gli guadagna la spada, indi si stringe
seco ed addosso gli si scaglia e stende,
né potendol ferir di piede fermo
con fugace trapasso usa altro schermo.
228
Su per la spada, che Cariclio ha stesa,
quegli allor trae di punta inver la faccia;
ma questi anch’ei di punta a fargli offesa
sotto il braccio suo destro il ferro caccia,
e per non s’arrischiar seco ala presa,
che sa ch’ha maggior forze e miglior braccia,
senz’altro indugio in un medesmo istante
lo ferisce nel fianco e passa avante.
229
Per dargli in testa, con un tratto accorto
di riverso al cavar tira Altamondo;
ma l’altro allor, che si ritrova al corto,
mentre la spada si rivolge in tondo,
subito che del ferro il giro ha scorto
su’l primo quarto il batte col secondo,
la misura gli rompe e con tre passi,
cautamente veloce, indietro fassi.
230
E perché vede che il nemico a molta
possanza accoppia ancor scaltrito ingegno
e se sotto gli va sol una volta
non avrà quella furia alcun ritegno,
fa, con la mente in sé tutta raccolta,
ricorrendo al’astuzie, altro disegno
ed usa ogni arte accioché vinta sia
dala sagacità la gagliardia.
231
Torna e di novo ancor gli s’avicina,
fingendo di tentar nove passate,
poscia, con gran prestezza, il capo inchina
tra le cosce di lui che l’ha sbarrate
e in aria con altissima ruina
dopo’l tergo sel gitta a gambe alzate,
siché dele gran membra il vasto peso
riman, quant’egli è lungo, a terra steso.
232
Venere una cintura allor gli dona
ch’ha di sottil riccamo i guernimenti
e son d’oro le brocche, ond’ala zona
s’affibbian col tirante i perpendenti.
E’l tedesco, ch’al suol con la persona
brutta di polve, sparge alti lamenti,
guadagna anch’ei, benché turbato e tristo,
contro l’ebrezza un indico ametisto.
233
Ma già Cencio e Camillo il vulgo aspetta,
ogni voce nel circo omai gli chiama.
Tanta è l’opinion di lor concetta,
che’l popol tutto il paragon ne brama.
Coppia questa di mastri era perfetta,
emuli d’alta stima e di gran fama,
ch’ebber per mille palme infra i migliori
nele scole latine i primi onori.
234
Nacquero in riva al Tebro, ambo romani,
ma da’ nativi lor patri soggiorni
per desio di veder paesi estrani,
capitati eran qui di pochi giorni.
Già di spada e pugnale arman le mani,
d’abito lieve e rassettato adorni
e succinta hanno a studio in su’l farsetto
spoglia di bianco lino intorno al petto.
235
Ed accioché de’ colpi il segno resti
nela candida tela e vi s’imprima,
dal’un canto e dal’altro e quegli e questi
tinti han di nero i ferri insu la cima.
Non sono ad affrettarsi ancor sì presti
e non si stringon subito ala prima,
ma fanno, intenti ad ogni moto e cenno,
moderator del’ardimento il senno.
236
Tenta ciascun con ingegnose prove
farsi al proprio vantaggio adito e strada.
Concorde al corpo il piè, concorde move
l’occhio ala mano ed ala man la spada.
Or minaccia in un loco e fa ch’altrove
inaspettata la percossa cada,
or, risoluto l’un l’altro incontrando,
sottentra insieme e si sottragge al brando.
237
In ambo la ragion s’agguaglia al’ira,
l’un e l’altro è delpari agile e forte.
Quegli talor accenna e talor tira
colpi furtivi con insidie accorte;
questi girando al ferro ostil che gira,
oppon guardie sagaci, astute porte.
Se l’un con leggiadria chiama fingendo,
l’altro con maestria para ferendo.
238
Camillo, ove il passaggio aperto vede,
spinge la spada per entrar veloce:
– Ripara or questa – dice, e batte e fiede
col piè la terra e l’aria con la voce.
Ma Cencio con la sua non gliel concede,
l’urta in sul forte e la ribatte in croce,
sovra l’elsa la ferma e dal’impaccio
ritrae subito poi libero il braccio.
239
In un tempo medesmo il ferro abbassa
dritto al costato inver la manca parte
e mentre impetuoso andar si lassa,
grida: – Così s’inganna arte con arte. –
L’altro il periglio del furor che passa
schiva col fianco e traggesi in disparte;
ed ambo i ferri, mentr’un poggia un cala,
scorrono invan sul tergo e sotto l’ala.
240
Non molto stan, ch’essendo entrambo in punto
di tornar ale prese ed ale strette,
tiran di punta in un medesmo punto
sì ratti che del ciel sembran saette;
e’n quella parte ove l’un coglie apunto,
l’altro né più né men la spada mette.
A colpir questo e quel va su le cosce,
siché vantaggio in lor non si conosce.
241
La rattacca Camillo e si presenta
col piè destro davante ardito e franco
e’n passo natural vi si sostenta
di profilo col busto e mostra il fianco
e con la spada, che per dritto aventa,
stende il braccio migliore ed alza il manco.
Ripara un col pugnal la testa in alto
e l’altro il corpo dal nemico assalto.
242
Cencio incontro gli va né si scompone,
ma col sinistro piede oltre s’avanza;
nel dritto del diametro si pone,
sich’al circol pervien dela distanza
e dela manca spalla il punto oppone
verso la linea ostil, poi fa mutanza
e dal confin che dianzi s’ha prescritto,
di moto traversal move il piè dritto.
243
Esce dal primo circolo e va ratto
nel secondo de’ quattro a cangiar posto
e rimosso quel punto, annulla a un tratto
dela linea nemica il segno opposto,
e con moto minor di quelch’ha fatto
colui, che di ferirlo era disposto,
e deltutto contrario al’altrui moto,
fa che, se vuol ferir, ferisca a voto.
244
Quegli allor piede a piede insieme aggiunta,
s’apre in passo di forza e viengli addosso
e la stoccata seguita e la punta
porta a quel segno pur ch’è già rimosso
e’n lui, ma così scarso, il ferro appunta
che tocco si può dir più che percosso.
Il colpo è sì leggier, noce sì poco,
che riman dubbio a chi rimira il gioco.
245
Ma l’altro a un tempo dala parte aversa
contraposto d’obliquo ala ferita,
la spalla destra, incontr’a sé conversa,
gli ha di ferma imbroccata apien colpita
e col pugnale intanto gli attraversa
la spada ch’al tornar resta impedita;
poi si ritira e con la sua distesa
ponsi e col corpo in scorcio ala difesa.
246
Qui fè cenno agli araldi e non permise
che l’ostinata pugna oltre seguisse
e la coppia magnanima divise
la nemica degli odi e dele risse;
e fu pari la gloria e dele decise
che dipar la mercè si compartisse;
e da Ciprigna in premio e da Bellona
folgorina ebbe l’un, l’altro bisciona.
247
Erano queste due famose spade,
Enea già l’una e l’altra usò Camilla.
Ambe di rara e singolar bontade
e quella e questa svincola e sfavilla.
Sì dolce è il taglio e così netto rade,
ch’altri prima che’l senta, il sangue stilla.
Hanno ricche guaine e le lor daghe
con bei manichi d’or pompose e vaghe.
248
Intanto il sol s’inchina e fa passaggio
d’Esperia a visitar l’estremo lito
e stanco peregrin del gran viaggio,
avendo il minor circolo fornito;
carta è il ciel, l’ombra inchiostro e penna il raggio,
onde cancella il dì ch’è già compito
e’l fin del lungo corso a lettre vive
d’oro celeste in occidente scrive.
249
Sparito il sole, in apparir le stelle
voto tutto di genti il campo resta.
Chi sotto le frondose e verdi ombrelle
vassene ad alloggiar nela foresta,
chi del palagio in queste stanze e’n quelle
e chi de’ borghi in quella casa e’n questa;
altri giace in campagna e’l giorno attende
tra pergolati e padiglioni e tende.
250
Ma già traea del Gange i biondi crini
lasciando Apollo i suoi dorati alberghi
e ratto fuor degl’indici confini
ai volanti corsier sferzava i terghi,
per venirsi a specchiar ne’ ferri fini
degli elmi tersi e de’ lucenti usberghi,
onde sembrava al mattutino lampo
tutto di soli seminato il campo,
251
quando l’usata tromba ecco s’ascolta
ch’al gran bagordo appella i cavalieri.
Già s’è la turba al nuovo suon raccolta,
già si veggion passar paggi e scudieri
e trar cavalli a mano e gir in volta
con livree, con insegne e con cimieri
e portar quinci e quindi armi ed antenne,
bandiere e bande e pennoncelli e penne.
252
Mentre che del paese e di ventura
molta cavalleria concorre al gioco,
siché dela larghissima pianura
son già pieni i cantoni a poco a poco,
dela quintana esperti fabri han cura
e di piantarla in oportuno loco;
e proprio insu la sbarra appo la lizza
nel mezzo dela tela ella si drizza.
253
Sta coverto di ferro un uom di legno,
con lo scudo imbracciato e l’elmo chiuso,
ch’esposto ai colpi altrui, bersaglio e segno
termina il busto in un volubil fuso
e s’affige ala base e gli è sostegno
forato ceppo e ben fondato ingiuso,
sovra cui, quando avien ch’altri il percota,
agevolmente si raggira e rota.
254
Tre catene ha la destra e quindi avinto
di tre globi di piombo il peso pende,
siché qualora il manco braccio è spinto,
l’altro con esse si rivolge e stende,
pur come voglia, ale vendette accinto,
castigar chi fallisce e chi l’offende;
né sì cauto esser può, né gir sì sciolto,
che sul tergo il guerrier non ne sia colto.
255
Un pilier di diaspro in terra fitto
su la porta al’entrar delo steccato
in gran lamina d’or regge uno scritto
a note di rubin tutto vergato:
qui dela giostra il generale editto
che dianzi a suon di trombe è publicato,
di quanto in essa adoperar conviene
le leggi per capitoli contiene.
256
Bella è la vista a meraviglia e lieta,
varia la gente e l’abito diverso.
Chi scopre nel vestir gioia secreta,
chi tacendo si duol d’amor perverso.
Chi cifra ha d’or su l’armi e chi di seta,
altri in prosa alcun breve ed altri in verso.
Ciascuno o nel colore o nel’impresa
al’amata bellezza il cor palesa.
257
Sidonio in campo è il primo a comparire,
Sidonio dico, il genero d’Argene,
l’accorto amante il cui felice ardire
meritò d’ottener l’amato bene.
Ma mentre tutto intento a ben ferire
già con la lancia in punto oltre ne viene,
dala sua donna, ch’è sul palco assisa,
con altr’armi è ferito e d’altra guisa.
258
Quarteggiate d’argento armi azzurrine
son le divise sue pompose e belle,
di zaffir tempestate e di turchine,
fatte a sembianza d’onde e di procelle,
tra cui consparse son d’acque marine
e di brilli cilestri alquante stelle,
che fanno al sol, sicom’ai lampi il flutto,
balenar, tremolar l’arnese tutto.
259
La lorica è d’argento, adorna e ricca
dele più belle pietre di levante.
Con fibbie d’or si serra e si conficca
con chiodetti pur d’oro e di diamante.
Bandato vien d’una cerulea stricca,
con bei fiocchi di seta ingiù cascante;
e del color medesmo al destro braccio
tien di biondi capei trecciato un laccio.
260
Perché Dorisbe azzurra usa la veste,
veste anch’egli l’azzurro e l’usa e l’ama
e l’auree fila in quel cordon conteste
son dele chiome pur dela sua dama.
Con piume d’or quel fanciullin celeste,
quel nudo arcier ch’Amore il mondo chiama,
sovra la rota di Fortuna assiso
porta nel’elmo e nelo scudo inciso.
261
Esce per sorte a tutti gli altri avanti
e’l primo loco ad occupar si move.
Tre volte correr sol lice a’ giostranti
per legge dela dea figlia di Giove.
Soriano ha un corsier, che i primi vanti
riportò dela giostra in cento prove
e già chiede co’ ringhi, accinto al corso,
al suo signor la libertà del morso.
262
È baio e di fattezze assai ben fatte,
grasso petto, ampia groppa e largo fianco.
Spesso col piè sonoro il terren batte,
ora col destro il zappa, ora col manco.
Quasi notturno ciel solco di latte,
gli divide la fronte un fregio bianco,
brune ha gambe e ginocchia e brune chiome,
duo piè balzani e Balzanello ha nome.
263
Di pace impaziente e di dimora,
sente l’odor dela vicina guerra.
Tende l’orecchie e sbuffa adora adora,
le nari ador ador gonfia e disserra,
tutto spumoso il ricco fren divora,
drizza il collo, erge il crin, gratta la terra.
E tosto che tre volte ode la tromba
par sasso che volando esca di fromba.
264
Gli stringe i fianchi e l’una e l’altra costa
con gli stimuli d’or punge e ripunge,
e di là dove apunto il colpo apposta
va per dritto a ferir non molto lunge.
Il buon destrier, ch’al termine s’accosta,
para in tre salti e, quando alfin vi giunge,
al mormorio del’ottenuta laude
con la test’alta e col nitrito applaude.
265
Tra’l segno inferior ch’è nela gola
e’l secondo di mezzo il tronco ei spezza;
e benché’l pregio è d’una botta sola,
Vener, che molto il suo fedele apprezza,
col dono avantaggiato il riconsola
d’un fornimento pien d’alta ricchezza,
guernigion da destrier superba e bella
con testiera e groppiera e fascia e sella.
266
A lui succede un saracin di Tarso
che la corazza e la divisa ha nera
e di serpi d’argento il campo sparso
dela cotta che l’arma ala leggiera.
Con l’asta in pugno è nel’agon comparso,
che pur di negro in cima ha la bandiera;
sul sinistro galon curva la storta
e’l turcasso con l’arco al tergo porta.
267
Passato un cor d’acuto strale e crudo
ha per cimier la cappellina bruna.
Di gran foglie d’acciar fasciato scudo,
scudo a sembianza di non piena luna,
copre senza bracciale il braccio ignudo,
né color v’ha né v’ha pittura alcuna
fuor due righe di bianco e dice: – O morte,
l’anima senza corpo, o miglior sorte. –
268
Avea per la bellissima Adamanta,
figlia del re d’Arabia, il cor ferito.
Era però dala vezzosa infanta
ogni servigio suo poco gradito
e, benché fusse in lui prodezza quanta
illustrar possa altrui, languia schernito,
perché mento avea raso, irsuto labro,
viso pallido, brun, rugoso e scabro.
269
Tosto riconosciuto ala coverta
del’armi fu com’uom famoso e chiaro.
Veggendol poi con la baviera aperta,
le turbe intorno un lieto grido alzaro:
– Ecco Alabrun che’n ogni colpo accerta,
Alabrun dala lancia, il campion raro.
Senza dubbio egli è desso. Avrà tra poco
termin la festa e si vedrà bel gioco. –
270
Vien portato costui da un suo stornello
rapido sì, che se’n campagna il vedi
formar volte e rivolte, agile augello,
mobil paleo, volubil fiamma il credi.
E se’n fuga ne va spedito e snello,
par le procelle apunto abbia ne’ piedi.
Vergato a bruno e pien d’alto ardimento,
vola, non corre, e nome ha Passavento.
271
Sovente il crin solleva, erge la testa
e picchia il suol con la ferrata zampa,
calca nel corso l’erba e non la pesta,
preme col piè l’arena e non la stampa;
soffia borfando e’n quella parte e’n questa
sempre si volge e d’alto incendio avampa;
chiude, né trova al suo furor mai loco,
sotto il cener del manto alma di foco.
272
Contan che del’arabica pendice,
mentre pascea l’armento in riva al’acque
pien di quella incostanza, imitatrice
del mar vicino, insu gli scogli nacque.
Nettun primier domollo, anzi si dice,
che talor di montarlo ei si compiacque.
Quel veloce il portava e vie più lenti
ne venian dietro ad emularlo i venti.
273
Pungendo ei dunque a quel destrier la pancia,
è sì rapace e violento il moto,
ch’agio non ha d’arrestar pur la lancia,
perde l’incontro e fa l’arringo ir voto.
Onde, infiammato di rossor la guancia
per error sì notabile e sì noto,
ritorna a spron battuto e briglia sciolta
a serrarlo nel corso un’altra volta.
274
Vana ancora è la botta ed è tra via
dal soverchio furor dispersa e guasta,
che pria che giunto ala sortice ei sia
per sestessa in andar si rompe l’asta:
– Ancor tu contro me, Fortuna ria,
(disse) congiuri? Amor solo non basta?
Venga il mio Farfallino! – e dai sergenti
gli fu innanzi recato ai primi accenti.
275
Questo del’altro è men carnoso e grande,
stretto di ventre e corto di giunture.
È del color dell’uve e dele ghiande
quando in piena stagion son ben mature.
Biondi, quasi leone, i velli spande
ed ha luci vermiglie e gambe oscure,
membra svegliate ad ogni cenno e pronte,
rabican nela coda e nela fronte.
276
La guernitura è candida e morella
con bei puntali di lucente smalto,
ma di lame acciarine arma la sella,
ben ferme e forti ad ogni duro assalto.
Selva di folte piume ombrosa e bella
gl’imbosca il capo e si rincrespa in alto.
Semedesmo ei vagheggia ed orgoglioso
de’ ricchi fregi suoi non ha riposo.
277
Vi salse il moro e, del’error commesso
tutto stizzoso, un’altra lancia tolse
e di meglio colpir fermo in sestesso,
contro il facchin le redine gli sciolse;
e’nfin al pugno alfin la ruppe in esso
e tra’l visale e la nasella il colse;
e senon che strisciò raschiando il segno,
del primo pregio il colpo era ben degno.
278
Pur dala bella giudice, che i gesti
stava a notar de’ giostrator baroni
per compartir conformi a quegli e questi
gli onori al’opre, ale fatiche i doni,
in pegno di conforto ai pensier mesti
un paio riportò di ricchi sproni,
che di fin or le fibbie e le girelle
e d’aguzzi diamanti avean le stelle.
279
Floridauro e Rosano eran duo pegni
d’una portata insieme al mondo nati
e pargoletti ereditaro i regni
de’ Caspi alpestri e de’ Rifei gelati.
Ma poi per colpa di duo servi indegni,
che già dal morto re furo essaltati,
a tradigion del regio scettro privi
n’andaro orfani un tempo e fuggitivi.
280
Cresciuti in forze e pervenuti agli anni
mossero l’armi intrepidi guerrieri
e vendicaro i ricevuti danni
e racquistaro gli usurpati imperi.
Or già vinti ed uccisi i duo tiranni,
qua ne veniano i giovinetti alteri
e del color del’erbe e dele foglie
sparse di soli d’oro avean le spoglie.
281
L’oro forbito insu l’arnese verde
in cotal guisa folgora e risplende,
che la vista abbarbaglia e la disperde
e’l finto sol col vero sol contende
e contendendo al paragon non perde
ché, se raggi ne trae, lampi gli rende.
Ambo egualmente di due belle imprese
fanno al’elmo ornamento ed al pavese.
282
Nel’una è un sole a cui velar la luce
tenta vil nube e ricoprir la faccia;
– Ingrata al genitor che lo produce –
dice il cartiglio che lo scudo abbraccia.
Nel’altra il sol istesso anco riluce
che’l malnato vapor distrugge e straccia;
e dice il motto insu la targa al tergo:
– Io che’n alto la trassi, io la dispergo. –
283
Cavalca quei di placida andatura
destrier gentil che nel’andar paleggia.
Tranne il ciglio e’l calcagno, in cui Natura
sparse alquanto di brun, tutto biancheggia
e’l cigno intatto e la colomba pura
nela canicie del bel pel pareggia.
Sembra al’andar, sì vago è quel cavallo,
sposa in passeggio o donzelletta in ballo.
284
Nacque di padre trace e madre armena
ne’ monti là dov’aquilone alberga.
Nominossi Armellino e l’ampia schiena
un profondo canal gli riga e verga.
Rimorde il morso che con or l’affrena
e si lascia con man palpar le terga.
Sbavan le labra e con lasciva sferza
la lussuria del crin su’l collo scherza.
285
Picca quest’altro un barbaro veloce
ch’egual quasi al pensiero il corso stende.
Delo spron, dela verga e dela voce
pria che senta il comando, il cenno intende.
Fierezza vaga e leggiadria feroce
umile al morso alteramente il rende.
Steril per arte e meglio assai per questo,
fatto inabil marito, abile al resto.
286
Chiamasi il Turco e dela Furia lieve
diresti e che del’Impeto sia figlio,
lungo e sottil la gamba, asciutto e breve
il capo, alto la fronte, altero il ciglio.
Di tutto il corpo ch’è di bianca neve
l’estremo dela coda ha sol vermiglio,
picchiato a schizzi e di macchiette fosche
puntellato il mantel come di mosche.
287
Corsero alternamente e pria Rosano
ben due volte colpì nela gorgiera.
Corse la terza poi, ma corse invano,
che la sbarra toccò nela carriera.
Non fè meglio di lui l’altro germano,
che due volte tornò con l’asta intera;
fallò duo colpi ed ala terza botta
gli fè danno maggior l’averla rotta.
288
Mentre che’n cento pezzi ala goletta
la ruppe con la man possente e franca,
una scaglia volò come saetta
e si confisse al corridor nel’anca;
ond’a contaminar la neve schietta
di quella spoglia immacolata e bianca,
videsi tosto un vermiglietto rivo
per la piaga spicciar di sangue vivo.
289
Di quel caso pietosa e di quel sangue
Venere il tutto ad osservare intenta,
al primo un bel cimiero in foggia d’angue
fabricato di gemme in don presenta.
Al’altro, in vece del destriero essangue,
di pel simile al’ambra una giumenta
che già di poco ingravidata il seno
di parto ancor non ben maturo ha pieno,
290
specchio e corona dele frigie stalle,
figlia di bella e generosa madre
e dele più magnanime cavalle
scelta per la miglior fra cento squadre.
Nel petto, nele groppe e nele spalle
pomellata è di macchie assai leggiadre.
Dala vivacità che in lei sfavilla
il nome tolse e s’appellò Favilla.
291
Segue Montauro, uom ben corputo e grosso,
da sei scudieri accompagnato e cinto
con l’istessa livrea ch’ei porta addosso
stellata d’oro in un rossor mal tinto.
Lo scudo altier, che similmente è rosso,
tien del gran Giove il fulmine dipinto.
Di corona real, tutta contesta
di gemme e d’or, cerchiato ha l’elmo in testa,
292
e nela sommità del morione
par fischi e spiri fuor fiamma vivace
e spiega l’ali ed apre un fier dragone
del’ampia gola il baratro vorace.
Saginato e rossigno ha un suo ronzone
ch’ala grandezza sua ben si conface.
Nacque in India sul Gange ed è cornuto
e’l corno è lungo e più che lancia acuto.
293
Pende un fiocco di perle al corno in punta,
di perle dele noci assai maggiori.
Porpora con argento inun congiunta
d’un sovrariccio d’or broccata a fiori
che, del’estremo margine trapunta
di bei fregi ha la fascia e di lavori,
tuttutto il superbissimo Alicorno
tien dal capo al tallon bardato intorno.
294
Gonfio di gloria e di superbia pazza
in sestesso il guerrier si pavoneggia
e quantunque sia solo in sì gran piazza,
tutta ei solo l’occupa e signoreggia.
E benché forte e di feroce razza,
l’animal, che cavalca e che maneggia,
sotto il peso che porta insu la schiena,
ficca un braccio le braccia entro l’arena.
295
È re di Rodo. Il regno a cui comanda
con Cipro insu i confini è sempre in guerra.
Questi in atto sprezzante allor da banda
per giostrar su le mosse un tronco afferra.
Ma l’araldo ne vien che gli dimanda
chi siasi e di qual gente e di qual terra.
Risponde il fier, colmo d’orgoglio e sdegno:
– Chi’l sol non vede è dela luce indegno.
296
Sole è il mio nome e non è loco alcuno
dove chiaro non sia, né più dirotti
ch’esser ben devria qui noto a ciascuno
il temuto flagel de’ Cipriotti.
Ciò basti e basti sol ch’io mi son uno
uso a far molti fatti e pochi motti. –
Non bada a far, ciò detto, altro discorso,
la lancia impugna e s’apparecchia al corso.
297
L’orecchie apena il primo suon gli fiede
del tortuoso incitator metallo,
che dispicca un gran trotto e ne succede
l’effetto mal, bench’abbia scusa il fallo.
Sinistrando il destrier dal destro piede,
cadder tutti in un fascio uomo e cavallo.
Quel suo dal corno è poderoso e grave
e del mestier la pratica non have.
298
Levasi infretta dal’immonda sabbia
tra sé fremendo irato e furibondo;
e perché, quando colpa egli non v’abbia,
chi manca al primo arringo esce al secondo,
rimonta arso di scorno, ebro di rabbia
in un altro corsier membruto e tondo,
di non minor possanza e gagliardia,
che la dea degli amori in don gl’invia.
299
D’un’alfana di Scizia e d’un centauro
là nel freddo Pangeo fu generato.
Il suo pelame è del color del’auro,
il suo nome per vezzo è lo Sfacciato,
perché sol nela faccia, il resto è sauro,
d’una gran pezza bianca ei va segnato.
Di quattro gambe parimente è scalzo
e camina saltando a balzo a balzo.
300
Poco miglior del primo il second’atto
seguì, perché dal segno ancor lontano,
lo sconcerto e’l disordin fu sì fatto
che si lasciò la lancia uscir di mano.
Pur la ripiglia e studia il terzo tratto
per far buon corso e non ferire invano,
né dando loco altrui d’entrar in campo,
con l’incontro emendar cerca l’inciampo.
301
Lo scudo del facchin nel mezzo imbrocca
che la scorza ha d’acciar lubrica e liscia,
onde vien l’asta ingiù tosto che’l tocca,
di sghembo a sdrucciolar con lunga striscia.
Girasi il torno e la catena scocca,
che s’ode allor fischiar com’una biscia
e nel passar con le piombate palle,
fa lunge al cavalier sonar le spalle.
302
Qual robusto castagno o pino alpino
del celeste centauro ai primi orgogli,
s’avien che del bel verde ostro o garbino,
la folta chioma e le gran braccia spogli
o ch’a busse ne scota il contadino
gl’irsuti ricci e i noderosi scogli,
fulmina al piano i frutti suoi sonori,
dele mense brumali ultimi onori,
303
tal quella mobil machina che presta
in semedesma si raggira e libra,
facendo allor fioccar l’aspra tempesta
il braccio move e le catene vibra
e’n tal guisa al guerrier la schiena pesta
ch’ogni nervo gli dole ed ogni fibra.
Batte le palme il vulgo e fischia e grida,
non è vecchio o fanciul che non ne rida.
304
Tornaro i primi a replicar l’antenne:
tal n’ebbe onor che fu biasmato avante;
e spesso il piombo incatenato venne
a scaricar la grandine pesante.
Così la piazza un pezzo si trattenne
con gran piacer del popol circostante;
e ciascun tanto o quanto, il vile e’l prode
n’ebbe chi più, chi meno, o premio o lode.
305
Vede girando poi Vener le ciglia
a coppia a coppia entrar nela barriera
di diciotto guerrier nobil quadriglia,
ai sembianti ed agli abiti straniera.
L’armatura ciascun porta vermiglia,
salvo colui che capo è dela schiera;
e con tal grazia e maestà cavalca
che’l passo volentier gli apre la calca,
306
onde ala saggia dea dela civetta
stupida in atto si rivolge e parla:
– Che squadra è quella che fra l’altre eletta
trae tutti gli occhi intenti a vagheggiarla
e vien con sì bell’ordine ristretta,
ch’io per me non saprei, senon lodarla? –
Così dice la dea nata dal’onde
e la vergin del ciel così risponde:
307
– A la tua Teti è ben ragion che porti
questo di fortunato obligo eterno,
perché mentre pur dianzi i guerrier forti
prendendo in picciol legno i flutti a scherno
trascorreano i sentier torbidi e torti
del’elemento a lei dato in governo,
per onorar la tua famosa festa
l’acque turbò con subita tempesta;
308
onde il drappello aventurier, ch’errante
altre imprese cercando in Asia giva,
stanco dal mareggiar, fermò le piante
in quest’amena e dilettosa riva.
Or qui finché s’acqueti il mar sonante
vien per provarsi ala tenzon festiva,
peregrin di costume e d’idioma
e v’è dentro raccolto il fior di Roma.
309
Chiamala ognun la compagnia del foco
perché qual foco dissipa e consuma.
Non trova al suo valor riparo o loco,
arde pertutto e tutto il mondo alluma.
Ciascun destriero in vera pugna o in gioco
di tre penne sanguigne il capo impiuma.
Gli elmi e l’armi hanno eguali e questi e quelle
han per fregi e cimier fiamme e fiammelle.
310
Tutto delpari ala medesma guisa
l’inclito stuol di porpora è guernito,
senon quanto diversa è la divisa
di cui ciascun lo scudo ha colorito.
Solo colui, meco lo sguardo affisa
a quel primier ch’io ti dimostro a dito,
come di tutti lor suprema scorta,
differente dagli altri il vestir porta.
311
Quegli è Michel che, quasi eccelso duce
vien dela truppa e condottier sovrano,
pompa, gloria, delizia, unica luce
de’ sacri colli e del’onor romano.
Scelto fu dagli eroi ch’egli conduce
di consenso commun per capitano.
Ecco la sbarra d’ostro, ecco l’altero
leon che s’erge e tien fra l’unghie il pero.
312
Colui ch’è seco insu la fila prima,
è il gran Ranuccio, intrepido campione,
tra i più chiari guerrier di somma stima
vibri l’asta o la spada insu l’arcione;
onde, poggiato dela gloria in cima,
mille l’attendon già palme e corone.
Su la rotella d’or mira dipinti
con le foglie cerulee i sei giacinti.
313
Pietro il seconda, alta speranza e pregio
d’Italia tutta e l’onorato stemma
in celeste color con ricco fregio
d’un aureo rastro e di sei stelle ingemma.
Marcantonio è con lui, giovane egregio,
guarda colà misterioso emblemma:
convien pur che soggiaccia, il senso esprime,
l’infernal drago al’aquila sublime.
314
L’altro che segue e la colonna mostra
bianca insu’l minio ed ha sì fier l’aspetto,
Sciarra s’appella, e’n guerra mai né in giostra
non fu più ardito cor, più franco petto.
Virginio è quei che’l puro argento inostra
di tre traverse di rubino schietto,
anima illustre e d’adornar ben degna
del tuo bel fior la gloriosa insegna.
315
Vedi un che degli augei l’alta reina
tarsiata ha di scacchi orati e neri,
lucido sol dela virtù latina;
Camillo ha nome, ascritto infra i primieri.
Sabellio seco apar apar camina,
specchio immortal di duci e di guerrieri;
conosco ben l’impronta sua famosa
ch’è la colomba e tra i leon la rosa.
316
Eccone un’altra coppia; al destro fianco
veggio un baron di generose prove,
Ruggier, che sovra’l fondo azzurro e bianco
inquartato l’augel porta di Giove.
Veggio poi Sforza che gli vien dal manco,
né con minor baldanza il destrier move;
figura in su’l turchin l’orbe di smalto
aureo leon con aureo pomo in alto.
317
Ve’ Gismondo ed Emilio. O stirpe altera,
tra le fortune invitta e tra’ perigli!
Quei sovr’alta colonna aquila nera
spiega che spiega l’ali, apre gli artigli,
dove stretta in catene è quella fera
che riforma lambendo i rozzi figli.
Questi, ch’è de’ più celebri e più conti,
un cornio ha nel brocchier sovra tre monti.
318
Orazio è quegli là che nel vermiglio
tre lune d’oro ancor crescenti ha sparte.
Signor d’armi possente e di consiglio,
del guerreggiar, del comandar sa l’arte.
D’una ninfa del Tebro è costui figlio
onde figlio lo stima altri di Marte;
ed è ben tal, ché Marte ei sembra apunto,
Marte quando è però teco congiunto.
319
Mario a lato gli va. L’armi che cinge,
fuor lo scudo ch’è rosso, ha tutte bianche.
Duo leoni in quel rosso egli dipinge
che quattro pani d’oro han tra le branche.
Annibaldo la lancia aprova stringe
e’n sembianze ne vien feroci e franche.
Il bruno scorpion scolpisce in oro,
che vessillo fia poi del fiero moro.
320
Il buon Curzio procede a lui vicino,
Scipio con Fabio alfin dietro s’accampa.
L’un nel targone azzur sculto d’or fino
tien l’animal magnanimo che rampa.
L’altro il quartier dorato e purpurino
di croce trionfal per mezzo stampa.
L’ultimo ha lista d’or che per traverso
scacchier divide innargentato e perso.
321
Ma non vedi un di lor ch’ha già l’antenna
sovra la coscia e, benché grave e grossa,
lieve giunco gli sembra ed agil penna,
stiam pur dunque a mirar quant’egli possa.
Già fattosi da capo, ecco ch’accenna
dritto insu’l filo entro l’agon la mossa.
Ecco volar qual folgore leggiero
la piuma che fiammeggia insu’l cimiero. –
322
Intanto poiché furo i nomi scritti
de’ cavalier dala divisa ardente
e d’osservare i promulgati editti
giuraro e per mirar tacque la gente;
correndo ad un ad un gli emuli invitti,
tutti si segnalar notabilmente;
alcun non fu che non n’uscisse apieno
o con vittoria o con applauso almeno.
323
Restava sol colui che dela bella
brigata quasi il principal venia
quando con foggia insolita e novella,
il serraglio passò dela bastia;
né so s’alcun sì ben disposto in sella
l’agguagliasse giamai di leggiadria.
Dopo tutti, costui venne solingo
signorilmente a posseder l’arringo.
324
Il più superbo augel su la celata
trionfante nel’atto ha per cimiero,
qualor gonfio di fasto apre e dilata
dele conche di smalto il cerchio intero
e dela piuma florida e gemmata
spiegando gli orbi di sue pompe altero,
la bella scena dela coda grande
di cento specchi illuminata spande.
325
Di più color la sovravesta intesse
che la spoglia non è di Flora o d’Iri,
in cui le cime dele penne istesse
son di smeraldi in vece e di zaffiri,
sì ben da dotto artifice commesse
che par che’ntorno il fermamento ei giri.
Par con tant’occhi un Argo e sembra armato
un giardino fiorito, un ciel stellato.
326
Con l’abito ha il destrier qualch’agguaglianza,
non so s’altro mai tal ne fu veduto.
Bianco ha il mantello e’n disusata usanza
sparso di nere macchie il pel canuto;
ma le macchie e le rote hanno sembianza
di ciglia e d’occhi, ond’ei rassembra occhiuto.
Cervier s’appella e par mentre passeggia
l’orgoglioso pavon quando vaneggia.
327
Un fusto intier di frassino silvestro
per far buon colpo a bella posta elegge.
Prima sel reca in man dal fianco destro,
poi tra via l’alza e’nsu la destra il regge.
Ma qual braccio poria forte e maestro
piegarlo pur, non che ridurlo in schegge?
Tre volte corre e’l saracin percote,
ma quel duro troncon romper non pote.
328
Ed ecco dopo lui vi comparisce
altro stranier che’l popol folto allarga.
Nel suo volto e negli anni april fiorisce,
par che raggi d’amor per tutto sparga.
Per obliquo ha costui tre mezze strisce
di lucid’or nella purpurea targa
e su l’elmetto, ch’è di salda tempra,
la fenice immortal quando s’insempra.
329
Non solo eterne in questa esprime l’opre
del proprio singolar pregio e valore,
ma dela donna sua la beltà scopre,
ch’è del mio bel Sebeto unico onore.
Di morato satì l’armi ricopre,
color gentil che pur dinota amore,
in foggia di mandiglia o di guarnacca
che con bottoni di rubin s’attacca.
330
Io non so dir se quel superbo arnese
di tanti fregi e sì pomposo adorno
già dal nobil signor del bel paese,
a cui fan l’Alpi ampia corona intorno,
al gran monarca del valor francese
donato già nel trionfal ritorno,
fusse tal ch’agguagliar potesse in parte
di questa spoglia o la ricchezza o l’arte.
331
Di genitrice ispana e padre moro
regge un destrier ch’agli atti è foco e vento.
La groppa, il capo e tutto il resto ha d’oro,
fuor che’l sinistro piè che sembra argento,
e dela bardatura il bel lavoro
pur d’oro è tutto e d’oro il guernimento,
d’oro le staffe e d’oro il fren spumante
e d’or porta calzate anco le piante.
332
Del cavalier che lo cavalca e doma
è l’occhio destro e’l fior dela sua stalla.
Ei stesso il pasce e Francalancia il noma,
perché dal dritto corso unqua non falla.
Vedesi insuperbir sotto la soma,
lieto del peso che sostiene in spalla,
cavar spesso l’arena e l’or lucente
del fren sonoro essercitar col dente.
333
Senza mutar cavallo o prender fiato
questi l’uom finto in tre carriere assale
e ben tre volte in lui del pin ferrato
rompe fin ala resta il tronco frale;
e nela terza ha più secondo il fato
e fa colpo miglior con forza eguale:
nela buffa gli dà presso la vista,
si ché tre botte in una botta acquista.
334
Fuor dela lizza ei s’è ritratto apena,
quand’ecco in giubba d’or contesta a maglie
giostrator nuovo. Un corsier falbo affrena,
bravo e di sommo ardir nele battaglie.
Su la cresta del’elmo ha la sirena
tutta squamosa di dorate scaglie.
Quelche s’imbraccia dala parte manca
con tre gran fasce l’incarnato imbianca.
335
Bel cavalcante in maestoso gesto
con largo giro il chiuso pian circonda.
Va poi nel mezzo e da quel lato e questo
spinge il destrier ch’è quasi al vento fronda.
Dolce di bocca ed ala mano è presto
e di gran core e di gran lena abonda.
Spirito ha nome e gli conviene invero
perch’oltremodo è spiritoso e fiero.
336
Cordon di sottil seta il regge a freno,
barbaro pettoral l’orna a traverso,
che d’auree borchie è tempestato e pieno
e di gran perle orientali asperso.
Ala testa frontal, fermaglio al seno
gli fan due bolle di smeraldo terso
e per mezzo le coste, ove si stringe,
serica zona e gioiellata il cinge.
337
Del più fin or ch’invia l’alpe arimaspa
fabricata e contesta ha sella e frangia.
Serra la coda, il pavimento raspa
e le gemme del fren rumina e mangia.
Con tanta maestria le braccia innaspa,
con tal arte in andando il passo cangia,
che ne’ suoi vaghi atteggiamenti e moti
par che’n aria schermisca e’n terra nuoti.
338
Poiché conosce che il guerrier risolve
dar spettacolo grato al’altrui viste,
non sai dir, così destro ei si rivolve,
se vola in aria o se nel suol sussiste;
né pur col vago piè segna la polve,
né su la messe offenderia l’ariste.
E quegli or lo sospinge, or lo ritira,
or lo sospende, or com’un torno il gira.
339
A suon di tamburini e di trombette,
lo cui strepito rauco il ciel assorda,
tre volte e quattro intorno egli il rimette,
ed al pronto ubbidir l’aiuto accorda,
sempre applicando ai salti, ale corvette
col dolce impero del’agevol corda,
dela gamba, del piede e del tallone
or la polpa, or la staffa ed or lo sprone.
340
Talor l’arresta, di saltar già lasso,
e nel raccorlo imprime orma sovr’orma.
Poi di novo il volteggia a salto e passo
mutando a un punto e disciplina e norma
e mentre va con repolon più basso
terra terra serpendo, un cerchio forma.
Chiunque il mira al variar stupisce
di tanti e tali e giramenti e bisce.
341
Spesso gli fa, sicome cionco o zoppo,
o questo o quello alzar dele due braccia
e dandogli un leggier mezzo galoppo,
sovra tre piedi or quinci or quindi il caccia.
Fermo nel centro alfin, con un bel groppo
di saltetti minuti alza la faccia
e’l fa davante al tribunal divino
inginocchiar con reverente inchino.
342
Per non troppo stancarlo, ancorché tutto
sia foco e tutto spirto e tutto nervo
e perché sa ch’è per usanza instrutto
più ch’al corso al maneggio, accenna al servo,
ch’un n’ha più fresco e riposato addutto
ma disfrenato, indocile e protervo.
La coda, il crin, la gamba, il capo e’l viso
solo ha di nero, il rimanente è griso.
343
Del color del cilicio orna la spoglia
semplice berrettino e non rotato,
onde quand’uscir suol fuor dela soglia,
è da ciascun l’Ipocrito chiamato.
Par mansueto agnel pria che si scioglia,
sembra una furia poi discatenato.
Così ricopre a chi non sa suo stile
la superbia del cor d’abito umile.
344
Il cavalier con la sinistra mano
su’l pomo del’arcion la briglia stende,
spiccato un leggier salto indi dal piano,
senza staffa toccar sovra v’ascende.
Quel ritroso e restio s’impenna invano,
invan s’arretra e calcitra e contende,
che vié più del guinzaglio e del capestro
può l’arte in lui del domator maestro.
345
Pria dala verga e dalo spron corretto,
poi con vezzi addolcito e fatto molle,
quantunque ancor pien d’ombra e di sospetto
consentir gli convenne a quant’ei volle;
e benché gisse ov’era a gir costretto
con precipizio impetuoso e folle,
pur gli fè nondimeno un verde salce
romper con bell’incontro infin al calce.
346
Lascia il polledro e fa menar dal paggio
altro destrier ch’è del color del topo,
superbo sì, ma non così selvaggio
e sempre avezzo ad investir lo scopo.
Spirto ha discreto e moderato e saggio
e senza segno alcun capo etiopo.
Con occhio ardente e con orecchia aguzza
fremita, anela ed annitrisce e ruzza.
347
Di portar per l’agon l’usato incarco
ferve già d’un desir non mai satollo
e vuolsi delo sprone essergli parco,
basta accennargli ed allentargli il collo;
va più ratto che strale uscito d’arco,
senza dar ala mano un picciol crollo;
la via trangugia e rapido e leggiero,
ruba di man la briglia al cavaliero.
348
Dal correr trito e dal’andar soave
Turbine è detto e i turbini trapassa.
La destra allor di smisurata trave
arma il guerriero estrano, indi l’abbassa
e nel facchin, benché massiccia e grave,
tutta, qual fragil vetro, ei la fracassa.
Due volte corse e fè l’istesso effetto,
l’una al guanciale e l’altra al bacinetto.
349
Rivolta allora a Citerea Bellona
che tace e con stupor la mira in volto:
– Che ti par di costui (seco ragiona)
ch’ad ogni altro nel corso il pregio ha tolto?
S’io miro, oltre il valor dela persona,
la patria ond’egli uscì, non mi par molto,
poich’a lei qualunqu’altra in tali affari
convien che ceda e da lei sola impari.
350
È figlio di Partenope famosa,
Sergio, garzon d’indomito ardimento,
ch’ai monti di Venafro e di Venosa
ed ai piani di Bari e di Tarento,
gente vincendo invitta e valorosa
imposto ha il giogo e non ha peli al mento.
Se’n guerra conquistò spoglie e trofei
che farà nele giostre e ne’ tornei?
351
L’esser qui ben montato, io ben confesso,
ch’altrui val molto, e fora il dir menzogna
che dal cavallo al cavalier ben spesso
e l’onor non resulti e la vergogna.
Ma ch’ardire e vigore abbia in sestesso
e di core e di corpo anco bisogna,
loqual irruginisce e resta ottuso
quando non v’è la buona scola e l’uso.
352
Quest’uso dunque, ch’affinar si suole
col travaglio e’l sudor, fiorisce quivi,
e non v’ha loco in quanto gira il sole
dove meglio s’esserciti e coltivi.
Ma costui, d’alta stirpe altera prole,
è tal che raro fia ch’altri v’arrivi.
Rimira l’armi sue colà ritratte,
un ciel di sangue con tre vie di latte. –
353
Più volea dir, ma l’altra allor repente
il parlar le’nterruppe e disse: – Or guarda
guarda que’ tre, che fior d’ardita gente
sembrano in vista e’n armeggiar gagliarda,
mira i sembianti nobili, pon mente
come ciascun tra l’armi e splenda ed arda.
Già chi sien ben m’avviso. – E l’inventrice
del’arboscel pacifico le dice:
354
– Son, s’io mal non m’appongo e non vaneggio,
di Savoia i tre lumi, i tre fratelli,
tra quanti qui nel’assemblea ne veggio
pregiati, illustri ed incliti donzelli.
Tengon nel piano augusto il real seggio
tra que’ confin deliziosi e belli
a cui con molli braccia e dure fronti
fan riparo tre fiumi e cento monti.
355
Candida è di ciascun la sovrainsegna,
candide son le vesti e le lamiere.
Ma l’un nel’elmo e nel brocchier disegna
il sagittario del’eterne sfere;
l’altro in questo ed in quel figura e segna
croce, terror del’africane schiere;
del terzo adorna il capo, adorna il fianco,
posto in campo vermiglio un destrier bianco.
356
Tutti costor che vedi ed altri molti
son qui per arte pur giunti di Teti.
Ecco l’un dopo l’altro inun raccolti
cominciano a spezzar faggi ed abeti.
Doresio è quei che già gli occhiali ha sciolti
al destrier ch’ha nel cor spirti inquieti:
buon per giostra, atto a caccia, uso in battaglia,
altro il mondo non ha di miglior taglia.
357
Sottile il capo, il collo ha curvo ed ambe
brevi l’orecchie e l’una e l’altra acuta,
aspre di nervi e muscoli le gambe,
largo petto, ampio sen, groppa polputa.
Spesso sbrana le fauci e lecca e lambe
il fren dorato, il labro arriccia e sputa,
né fu di corso mai, né mai di core
velocità, ferocità maggiore.
358
Bruna ha la spoglia in ogni parte integra
più che spento carbone o pece schietta.
Ma bell’aria, occhio vivo e vista allegra,
morbida pelle e rilucente e netta.
Biancheggiar gli fa sol la fronte negra
in forma di cometa una rosetta.
Altri Corvo il chiamò, ma Biancastella
per tal cagione il suo signor l’appella.
359
Alpino è l’altro e del sicano armento
vivacissimo allievo un corsier preme,
ne’ campi là del fertile Agrigento
pasciuto e nato del più nobil seme.
Veste mantel tutto leardo argento
senon che fosche ha sol le parti estreme,
e l’ampia groppa e le spianate spalle
gli ara con lunga lista un nero calle.
360
Su la cervice dala destra parte
gli pende il crine e spesso il quassa e scote.
S’aggira e per l’arene intorno sparte
tesse prigioni e labirinti e rote.
Quant’è dal suol fin ala cinghia ad arte
par che misuri e’n van l’aure percote.
Ringhia, né volentier soggiace al freno,
scorre qual lampo e chiamasi Baleno.
361
Vedilo là che con la man robusta
felicemente il gran lancione ha rotto.
Ecco or Leucippo insu gli arcion s’aggiusta,
non men nel’armi essercitato e dotto.
Vedi che già per dritta linea angusta
sen va broccando il corridor ch’ha sotto.
Il produsse Granata e col pennello
nol saprebbe pittor formar più bello.
362
Non mai Saturno in sì leggiadre spoglie
sonar d’alti nitriti intorno feo,
per involarsi ala gelosa moglie,
le foreste di Pelio e di Peneo.
Al nobil volator la palma toglie
che portò già per l’aria il mio Perseo.
Perde appo lui quel che domò Polluce
e Lucifero detto è dala luce.
363
Né più grate fattezze e signorili
quel del’Aurora in oriente ha forse;
né con più baldanzosi atti gentili
il famoso Arione in Tebe corse.
Vergin non mai sì lunghi o sì sottili
in trecce e’n groppi i suoi capelli attorse,
sicome molli e delicate ei spiega
le belle sete e’n nastro d’or le lega.
364
Fama è ch’avendo il sol, giunto al’occaso,
disciolto il carro insu l’arena ibera,
del seme di Piroo concetto a caso
partorillo del Tago una destriera.
Partita con bel tratto infin al naso
ha di bianco la fronte, alquanto nera,
e di vaghi coturni innargentati
tutti fin al ginocchio i piè calzati.
365
Il resto di gran pezze ha vario il manto,
quasi per arte a più color tessute
e’l bel candor, che toglie al’Alpi il vanto
quando al verno maggior son più canute,
seminato di bigio è tuttoquanto
in spesse stelle e’n gocciole minute.
Eccetto il capo, il piè, la coda e’l crine,
spruzzato par di ceneri e di brine.
366
Già già si move e fuor del folto stuolo
del cor disfoga i generosi ardori.
Ecco lievi ondeggiar per l’aria a volo
del cimier bianco i tremolanti albori.
Par l’aura il porti, apena liba il suolo
e’l suo duce conduce a sommi onori,
là dove per valor più che per sorte
rompe il saldo troncon col braccio forte. –
367
Così dicea Minerva e ben di quanto
parlato avea veraci erano i detti,
perch’altamente ale lor prove intanto
posto avean fin gli armeggiatori eletti,
onde volendo oltre la loda e’l vanto
remunerargli con cortesi effetti,
con questo dir la dispensiera bella
rivolse a lor la faccia e la favella:
368
– Or qualcosa avrò mai ch’al vostro merto,
invitissimi eroi, ben si convegna?
Non se fusse del mar l’erario aperto,
ricchezza avria di tal valor condegna.
Man che larga altrui dona, io so ben certo,
che don picciolo e basso aborre e sdegna.
Pur senza aver riguardo a vil tesoro,
gradirete il desir con cui v’onoro.
369
Voi, che dove il Po sorge in picciol rivo,
principi generosi, avete il trono,
queste tre gemme or non prendete a schivo
che’n segno sol del buon voler vi dono.
L’una è carbonchio e v’è intagliato al vivo
cinto di fiamme il gran rettor del tuono
quando i giganti fulmina dal’Etra;
e’l foco imita ben l’istessa pietra.
370
L’altra d’Apollo con la cetra e’l plettro
mostra incisa l’effigie in un zaffiro
ed è legata in un anel d’elettro
ch’ha di smalti eritrei distinto il giro.
Nela terza lo dio che tien lo scettro
del quinto cerchio, egregie man scolpiro,
gemma di quella indomita durezza
cui né foco disfà né ferro spezza.
371
Tu, che dal bel Sebeto in qua trascorso
germoglio illustre di famosa gente,
tanto vali al maneggio e tanto al corso,
quest’elmo accetta limpido e lucente.
Rassomiglia a vederlo un teschio d’orso
e le pupille ha di piropo ardente,
le gran fauci spalanca e son costrutti
di diamanti arrotati i denti tutti.
372
Né spiaccia a te, degna progenie e chiara
di quel sangue lodato, onor degli ostri,
per cui col Tebro altero in nobil gara
fia che’l Reno minor contenda e giostri
ed a cui già con Felsina prepara
il Vaticano i più sublimi inchiostri,
il pronto, ancorché povero tributo
prender in grado, al tuo valor devuto.
373
Ecco una spoglia che i suoi stami fini
intinti ha nel licor dele cocchiglie,
ordita a sovraposte e di rubini
fregiata e d’altre ancor gemme vermiglie.
Molti piccioli specchi adamantini
accrescon del lavor le meraviglie,
consparsi in lei sì chiari e lampeggianti
ch’abbarbaglian la vista a’ riguardanti.
374
L’ostro insieme e’l cristallo accoppiar volli
a dinotarti con duo saggi avisi
e la real grandezza a cui t’estolli
e la chiara prudenza in cui t’affisi;
ond’avran maggior gloria i sacri colli
da te, da’ tuoi nel’alta sede assisi,
che quando in altra età Roma felice
fu di mille favelle imperadrice.
375
Questo di fila d’or manto tessuto
che infin al lembo è figurato a stelle,
là dove tutte han di diamante acuto
fissa al centro una punta e queste e quelle,
tuo fia, signor, ch’hai qui recar saputo
d’arnesi in campo invenzion sì belle,
che non fia mai che’n giostra altri compaia
con portatura più leggiadra e gaia.
376
E’nsieme a voi, che da’ confini estremi
del nobil Lazio per sì lunghi errori
seco veniste, d’altri pregi e premi
non mancheranno ancor publici onori.
Ma se da farvi al crin degni diademi
palme Idume non ha, Parnaso allori,
di sé s’appaghi il gran valor latino,
lumi eterni di Marte e di Quirino. –
377
Tacquesi, ed ecco allor mentre i destrieri
già già Febo inchinava al mar d’Atlante,
per diverso camin duo cavalieri
in un tempo venir d’alto sembiante.
Dorati ha l’un di lor gli arnesi interi,
sovra l’elmo l’augel del gran tonante
e nel tondo d’acciar rampante e dritto
il feroce animal d’Ercole invitto.
378
Viensene assiso in un giannetto ibero
figlio del vento e ben l’agguaglia al corso.
Zefiro nominato è quel destriero,
picciolo il capo ed ha solcato il dorso;
raro crin, folta coda, occhio guerriero,
lunato il collo e sovra’l petto il morso;
fremendo il rode e pien di spirti arditi
squarcia l’aria co’ passi e co’ nitriti.
379
Salvo la fronte, ove per mezzo scende
candidissima riga, è tutto soro.
Barde ha purpuree, di purpuree bende
gli fa ricco monile arnese moro.
Sonora piggia e tremula gli pende
giù dala sguancia di squillette d’oro.
Alto la staffa e coturnato il piede,
con lungo sprone il cavalier lo fiede.
380
L’abito del guerrier che segue appresso
è di sciamito azzur, fatto a fogliami
e di gigli minuti un nembo spesso
v’è sparso, il cui contesto è d’aurei stami.
Sculto in mezzo alo scudo ha il fiore istesso,
un giglio sol, maggior che ne’ riccami.
Ed erge per cimier di gemme adorno
il sollecito augel ch’annunzia il giorno.
381
Governa il fren d’un gran frison cortaldo
ch’è del color del dattilo maturo,
a par d’un monte ben quartato e saldo
e tre talloni ha bianchi e l’altro oscuro.
Mostra nel’occhio il cor focoso e caldo,
segna la fronte nera argento puro;
e col piè forte e col gagliardo passo
stamperia le vestigia anco nel sasso.
382
Petto largo ha tre spanne e doppia spina
e corta schiena e spaziosa coda,
bocca squarciata e testa serpentina,
di corno terso unghia sonante e soda;
leva a tempo e ripon quando camina
le grosse gambe e le ripiega e snoda.
Tremoto è il nome suo, però che’n guerra
ciò ch’urta abbatte e fa tremar la terra.
383
Nel’incognita coppia ognuno affisse,
pien di diletto e di stupore, il ciglio
e come un doppio sol quivi apparisse,
d’ognintorno ne nacque alto bisbiglio.
Il nome d’amboduo prima si scrisse,
il guerrier dal leone e quel dal giglio;
indi fur dala sorte in egual loco
a vicenda e delpari ammessi al gioco.
384
Dà di piedi al destrier prima colui
che’l giglio porta e rompe insu la cresta.
Quel che porta il leon va dopo lui
e nel loco medesmo il colpo assesta.
Altre due volte corrono ambodui,
né v’ha vantaggio in quella parte o in questa,
che l’un e l’altro con tre lance rotte
viene egualmente a guadagnar tre botte.
385
Un pregio esser non può che si divida
tra duo campioni e già ne sono a lite.
Vuol Citerea che’l dubbio si decida
con nove lance eguali e ben forbite.
Ma Palla è di parer che per disfida
le controversie lor sien diffinite.
Battansi in giostra e chi più val di loro,
sicome avrà la palma, abbia l’alloro.
386
Da corpo a corpo gli emuli superbi
concordi a terminar la differenza,
son posti in prova e con sembianti acerbi
di qua, di là ne vanno a concorrenza.
Dela vittoria a qual di lor si serbi
su le punte del’aste è la sentenza.
Cenna al trombetta allor Vener dal palco
che dia la voce al concavo oricalco.
387
Quei dal tergo onde pende in mano il toglie,
pon su l’orlo le labra e, mentre il tocca,
nel petto pria quant’ha di spirto accoglie
quinci il manda ale fauci, indi ala bocca.
Gonfia e sgonfia le gote, aduna e scioglie
l’aure del fiato e’l suon ne scoppia e scocca.
Rompe l’aria il gran bombo e’l ciel percote
e risponde tonando eco ale note.
388
Veder de’ duo destrier, poiché fur mossi
fu spavento lo scontro e fu diletto,
quando rotti i troncon nodosi e grossi,
fronte con fronte urtar, petto con petto.
Rimbombar lunge e sfavillar percossi
ambo gli scudi e l’un e l’altro elmetto.
Fu del’armi il fulgor, de’ colpi il suono
agli occhi un lampo ed al’orecchie un tuono.
389
Il broccal delo scudo al’altro incise
quel che venia con l’aquila grifagna;
falsollo e la divisa anco divise,
che dispersa n’andò per la campagna.
L’altro segnò più basso e’l ferro mise
per entro al corpo al corridor di Spagna,
che con tremoto poi venuto a fronte,
n’andò col suo signor tutto in un monte.
390
Visto il suo bel destrier che sanguinoso
per l’incontro mortal s’accoscia in terra,
di vendicarlo il cavalier bramoso
dale staffe si sbriga e’l brando afferra:
– Tu non sei né gentil né valoroso
ch’a sì degno animal fai torto in guerra,
guerrier villano e discortese, o scendi
o da simil perfidia il tuo difendi. –
391
Così dice il dorato e quel del gallo:
– Fu sciagura (risponde) e non oltraggio,
degno di scusa involontario fallo,
né creder ch’io da te voglia vantaggio. –
Smonta con questo dir giù da cavallo
e trae la spada con egual coraggio.
Così fremendo di dispetto e d’onta
l’un l’altro a un tempo in mezzo’l campo affronta.
392
Gemon l’aure dintorno e l’aria freme,
treman del vicin bosco antri e caverne.
Son di questo e di quel le forze estreme
e chi n’abbia il miglior mal si discerne.
Lampeggiar vedi aprova i ferri insieme
ed odi orrendi folgori caderne;
per traverso e per dritto, or bassi or alti,
tornan più volte a rinovar gli assalti.
393
Sonar le spade e risonar gli scudi
fa del’aspra tenzon l’alta ruina.
Par che battute da novelle incudi
escan l’armi pur or dela fucina.
Ardon lor le palpebre ai colpi crudi
gli elmi infocati, la cui tempra è fina
e le fiammelle e le scintille ardenti
gli fan quasi invisibili ale genti.
394
Senza riposo alcun, senza dimora,
or di taglio si tranno ed or di punta.
In quella cote istessa ove talora
l’acuto ferro si rintuzza e spunta
ivi s’arrota, ivi s’irrita ancora,
l’ira più dal furor scaldata e punta.
Ed ecco alfin quel dal’aurato arnese
risoluto s’aventa a nove offese.
395
Alzò la spada ed un fendente tale
sovra le tempie al’aversario trasse,
che rotto al gallo il rostro e tronche l’ale,
fè che stordito al suol s’inginocchiasse.
Fu forse Amor che per destin fatale
con fronte china e con ginocchia basse,
l’idol dal cielo a’ suoi pensieri eletto
volse pur ch’adorasse a suo dispetto.
396
Non è da dir, poich’egli in sé rivenne,
con quanta rabbia e qual furor si mosse.
Dritto verso la testa il colpo tenne,
su la barbuta ad ambe man percosse.
Al’aquila tagliò l’unghie e le penne,
spezzò del barbazzal le piastre grosse,
squillò l’acciaio e tal fu quella botta
che la spada di man gli cadde rotta.
397
Ruppe lo stocco e gli rimase apena
de l’elsa d’oro in man la guardia intera
e’l colpo uscì di sì gagliarda lena
ch’al nemico sbalzar fè la visiera.
Ma, tolto il vel che ricopria la scena,
si scoverse il guerriero esser guerriera
e con le bionde chiome al’aura sparse
bella non men che bellicosa apparse.
398
Come rosa fanciulla e pargoletta
che dal novo botton non esce ancora,
dala buccia in cui sta chiusa e ristretta
s’affaccia alquanto a vagheggiar l’aurora,
così, nel far di sé la giovinetta
publica mostra del’elmetto fora,
in quel vivo color si rinvermiglia
che l’onestà dala vergogna piglia.
399
Ala vergogna, ala fatica or l’ira
rossore aggiunge e ne divien più bella,
onde molto più spessi aventa e tira
i colpi in lui l’intrepida donzella.
Ma l’altro allor che quel bel volto mira,
senza moto riman, senza favella,
trema, sospira e sparge a mille a mille
più dal cor che dal’armi, alte faville.
400
E mentr’ella a ferirlo ha il ferro accinto
per far ch’essangue a terra alfin trabocchi:
– Che fai che fai? (le dice) eccomi estinto,
senza che più la bella man mi tocchi.
Morto m’hai già, nonch’abbattuto e vinto
co’ dolcissimi folgori degli occhi.
Crudeltà più che gloria omai ti fia
con più piaghe inasprir la piaga mia.
401
Ma poiché morto pur brama vedermi
congiunto a beltà tanta un cor sì crudo,
ecco la testa, ecco la gola inermi
t’offro senza difesa e senza scudo. –
Disse ed anch’ei restò, tolti gli schermi
dela cuffia di ferro a capo ignudo
e parve un sol, qualor più luminosi
trae fuora i raggi in fosca nube ascosi.
402
Tosto che’n luce uscì quelche pur dianzi
di celar la celata avea costume,
trovossi anch’ella un garzonetto innanzi
che mettea pur allor le prime piume.
Io non so dir, quanto l’un l’altro avanzi
e’n cui splenda d’amor più chiaro il lume.
Sembran Pallade e Marte armati in campo
di beltà, di valor gemino lampo.
403
L’afflitta Citerea, quando il bel viso
si discoverse, ancorch’alquanto smorto,
arse a un punto e gelò, ché le fu aviso
di rivedere il caro Adon risorto.
Ma che direm del fulmine improviso
che si sente nel cor, poiché l’ha scorto,
la giovane superba al primo instante?
Quelche mai più non le successe avante.
404
S’a lui spezzossi entro la destra il brando,
a lei si spezza il core in mezzo al petto,
né meno, il cupid’occhio in lui fermando,
perde le forze a quel novello oggetto.
Già comincia a gustar, ratto cangiando
nela guancia color, nel’alma affetto,
le dolci amaritudini del core,
le dolcezze amarissime d’amore.
405
Dialogi di sguardi e di sospiri
che quinci e quindi ad incontrar si vanno,
reflessi di pensieri e di desiri
un bel muto concento insieme fanno.
Ma l’un, che l’altra per maggior martiri
armata tuttavia scorge a suo danno,
pur come in atto di ferir l’aspetti,
ripiglia il favellar con questi detti.
406
– Io vo’ morir, ma volentier saprei
l’alta cagione onde’l mio mal procede.
O donna o dea, se sì spietata sei
ch’offender vogli pur chi pietà chiede,
deh fammi noto almen chi sia colei
che la pace mi nega e la mercede.
Poi mi fia dolce e cara ogni ferita,
morendo per le man dela mia vita.
407
Quelle, s’è giusto il prego, a trar sì pronte
dale mie vene il sangue armi omicide,
sospendi tanto sol che tu mi conte
chi di due morti insieme oggi m’uccide. –
Trattiene i colpi e la turbata fronte
rasserenando alquanto aspro sorride
e fiera in vista e mansueta in voce
risponde allor la vergine feroce:
408
– Non son vil feminetta; il naspo e l’ago
questa destra virile aborre e sprezza.
Di guernirla di ferro anch’io m’appago
ed è la spada a sostenere avezza.
Non ne’ cristalli fragili l’imago
piacemi vagheggiar di mia bellezza;
specchio m’è l’elmo rilucente e fino
e questo terso scudo adamantino.
409
Sdegnar dunque non dei d’oprar la spada
tentando incontr’a me l’ultima sorte,
tanto che l’un rimanga e l’altro cada
col fin dela vittoria o dela morte,
poich’io ti so ben dir ch’aver m’aggrada
più ch’aspetto leggiadro, animo forte.
Ha la man feminile anco i suoi pregi
e vinse duci e trionfò di regi.
410
Ma poich’odio non è né rissa antica
ch’oggi qui ne conduce a trattar l’armi
e tu mel chiedi con preghiera amica
ed io di rado in uso ho di celarmi,
se mi permette pur che’l tutto io dica
il tempo e’l loco e piaceti ascoltarmi,
istoria udrai, cui non fu pari alcuna
stravaganza di stato o di fortuna.
411
Venne d’Ircania ad occupar la reggia
la generosa vergine Tigrina
ed ancor la possiede e signoreggia
con quanta region seco confina;
donna ch’ala beltà l’ardir pareggia,
dele feroci Amazoni reina.
Ma, benché fusse d’un tal regno erede,
non s’appagò dela materna sede.
412
Sdegnò di star tra’l Sero e’l Messageta,
genti inumane, immansuete e crude,
né del’Imavo l’arrestò la meta
né’l fren dela Meotica palude
né’l freddo Tanai che quel passo vieta
né’l Caspio mar che quel confin rinchiude,
siché con l’altre sue che trattan l’arco,
non si spedisse a novi acquisti il varco.
413
La schiatta di costei, quant’ognun dice,
è di Pantasilea scesa e d’Ettorre.
Valore ebbe dal ciel quant’aver lice,
né donna seco in leggiadria concorre.
Ma del sesso viril disprezzatrice,
l’amorose dolcezze odia ed aborre
e’l popol feminil governa e regge
con dura troppo e’ntolerabil legge.
414
La legge dele femine guerrere
che già regnaro al Termodonte in riva
è tal che sotto pene aspre e severe
del commercio degli uomini le priva.
Quinci avien che ciascuna è del piacere
per cui si nasce totalmente schiva
e, senon quanto a conservarle basta,
vivon vita tra lor solinga e casta.
415
Era quest’uso in quelle parti antico
finché, come dirò, fu poi dismesso,
né si servian del genere nemico
se non per propagarne il proprio sesso.
Talor col forestier l’atto impudico
per cagion dela prole era permesso,
ma, serbando a nutrir sol le fanciulle,
strangolavano i maschi entro le culle.
416
Quantunque universal fusse e commune
lo statuto antichissimo ch’ho detto,
fra tante nondimen n’erano alcune
molto inclinate al natural diletto;
e non potendo più starne digiune,
né giacer solitarie in freddo letto,
fer secreta congiura, indi pian piano
si ribellaro e tolser l’armi in mano.
417
Tiranno allor di Parzia era Argamoro
che fu gran tempo di Tigrina amante,
di paese possente e di tesoro,
forte e più ch’altro mai fiero gigante.
Ma nulla gli giovò la forza o l’oro
con cor di ferro e petto di diamante;
mille rifiuti e mille scorni ei n’ebbe;
ma tra l’aspre repulse il desir crebbe.
418
Or, già ala licenza il fren disciolto,
le donzelle di Scizia e le matrone
con lui s’uniro e l’appetito stolto
col pretesto coprir dela ragione.
Ond’egli un grosso essercito raccolto,
fatto di tutte lor capo e campione,
prese, sfogando il già concetto sdegno,
a danneggiarla ed a turbarle il regno.
419
Ebbe seco in aiuto Alani e Traci
e Medi e Battri e Sarmati ed Armeni,
talché d’erranti barbari rapaci
vidersi i piani in breve spazio pieni
e di crudo signor fieri seguaci
guastar villaggi e disertar terreni,
crudelissimamente in ogni loco
sacco e sangue spargendo e ferro e foco.
420
Armò sue squadre anch’ella e virilmente
s’oppose a quel furor la donna forte,
ma di gran lunga inferior di gente
fu risospinta ale caucasee porte;
quand’ecco Austrasio il cavalier valente,
venne quivi di capo a dar per sorte
a cui d’Aspurgo appartenea lo stato,
semplice allora aventurier privato.
421
Bramoso Austrasio d’emendar l’oltraggio
e di lei già per fama acceso il core,
sentì, facendo a sì bel sol passaggio
sotto clima gelato estremo ardore
e, giunto presso a quel celeste raggio,
se dianzi ardeva, incenerì d’amore.
Amor in somma in cotal guisa il vinse
che per non mai si scior seco si strinse.
422
Scettro a scettro congiunto e spada a spada,
l’impeto affrena de’ guerrier ladroni;
scorre di qua di là l’ampia contrada
e’l gigante reprime e suoi squadroni;
poi per non star sì lungamente a bada
ed in una ridur molte tenzoni,
da sol a sol, finché l’un l’altro uccida,
in campo a tutto transito lo sfida.
423
Tigrina ogni ragion di quel reame
d’uom sì famoso entro le man rimise,
loqual venuto a singolar certame
brando per brando il fier rivale uccise
ed, al duce maggior rotto lo stame,
si ruppe anco il suo campo e si divise,
ché, vulgo imbelle essendo e mal instrutto,
fu facil cosa a dissiparlo intutto.
424
Dal gran valor del principe germano,
dal nobil volto e dal parlar cortese,
dal’obligo che porta ala sua mano,
vinta è Tigrina e non sa far difese.
Fatto al possente arcier contrasto invano,
come grata e gentile, alfin si rese
e ferita e legata e prigioniera
al gran giogo inchinò l’anima altera.
425
Ma d’onesto rispetto un dubbio greve
la costringe a celar quelche desia
che, benché dale leggi onde riceve
regola il regno suo libera sia,
in quelch’altrui vietò peccar non deve
né convien ch’a disfarla essempio dia.
Quindi onor, quinci amor le batton l’alma,
pur l’affetto più dolce ottien la palma.
426
Qual d’ognintorno assediata e cinta
da fameliche fiamme arida stoppia,
è forza pur che divorata e vinta
resti dal foco che stridendo scoppia,
tal da quel crudo a vaneggiar sospinta,
ch’ognor nov’esca al novo ardor raddoppia,
cede, e benché ritrosa, alfin si piega
e d’amor ad amor cambio non nega.
427
Austrasio intanto l’essortò parlando
la ria costuma a cancellar del regno
e le rubelle a richiamar dal bando
che ben ebber cagion di giusto sdegno.
Disse ch’abominabile e nefando,
di civiltà, d’umanitate indegno
era il rigor di quella legge dura,
contraria al cielo, al mondo ed a natura.
428
Con più d’una ragion faconda e saggia
mostrò quanto infelice è quella donna,
laqual sestessa e l’universo oltraggia
vivendo senza l’uom ch’è sua colonna;
e ch’egli è ritrosia troppo selvaggia,
quasi di fera alpestra avolta in gonna,
voler che s’aborisca e si detesti
il bel trastul degli abbracciari onesti.
429
Soggiunse ancor che’l proibire al mondo
il marital diletto era un delitto,
ch’a conservarlo e renderlo fecondo
fu dale stelle e dagli dei prescritto;
e chi s’astien da quel piacer giocondo
nega a natura il suo devuto dritto,
anzi mentre ch’amor disdegna e fugge
l’umana specie inquanto a sé distrugge.
430
Seguì di più, che se le loro antiche
per qualch’ira privata odiar gli sposi,
non devean l’altre poi sempre nemiche
mostrarsi ai dolci altrui vezzi amorosi,
né ridursi a durar tante fatiche
nate solo ai domestici riposi,
arando i campi e coltivando gli orti
ch’eran propri mestier de’ lor consorti.
431
Conchiuse alfin ch’oltre lo star sì sole
per altro erano ancor donne infelici,
ai passaggier per generar figlioli,
esposte a guisa pur di meretrici;
e ch’era non men misera la prole
che del seme nascea de’ lor nemici,
costretta ancora a perder le mammelle,
parti del sen le più gentili e belle.
432
Non penò molto il cavalier discreto
per ben disporla a far questa mutanza,
perch’oltre che la donna odio secreto
portava al’empia e scelerata usanza,
a revocar quel rigido divieto
già da sé persuasa era a bastanza,
per onestar de’ lor trafitti cori
con leggittimo titolo gli amori.
433
Così cessar le leggi inique e sozze,
del pazzo abuso s’annullaro i riti,
furon le guerre e le discordie mozze,
le contumaci donne ebber mariti,
ottenne Austrasio le bramate nozze,
passò Tigrina agl’imenei graditi,
concepinne a suo tempo e partorio
pargoletta bambina e fui quell’io.
434
Nacqui, né fui però sì tosto nata
che strano caso e portentoso avenne.
Aquila bianca, d’oro incoronata,
dal ciel battendo l’argentate penne,
per le finestre dela stanza entrata
dritto ala cuna, ov’io giacea, ne venne
e mentr’io tra le fasce ancor vagia,
mi ghermì con gli artigli e portò via.
435
Io non so se fu Giove in forma tale
ch’aver volse di me pietosa cura
o del grand’avo mio l’ombra immortale,
già difensor dele troiane mura,
che la rapace augella imperiale
per insegna portò nel’armatura.
Opra più tosto fu d’un mago antico
che dela stirpe mia fu sempre amico.
436
Ella al vecchion dela Foresta Nera,
così si nominava il negromante,
l’aure trattando rapida e leggera,
senza alcun mal depositommi avante.
Vita mena costui dura ed austera
là dela folta Ercinia infra le piante,
e’n quelle solitudini silvestri
gli sono i libri suoi muti maestri.
437
Il buon vecchio di me prese il governo,
cui per sempre obligata io mi conosco.
Con zelo m’allevò più che paterno,
sempre tra le fatiche entro quel bosco.
Varcai rigidi fiumi al maggior verno,
vegghiai gelide notti al ciel più fosco,
lottai con orsi ed affrontai leoni,
né temei d’assalir tigri e dragoni.
438
Austria nome mi pose; e’ntanto essendo
già de’ tre lustri oltre l’età cresciuta,
in Austrasio ch’un giorno a caccia uscendo
avea de’ suoi la compagnia perduta,
mentre ch’a fronte avea cinghiale orrendo
a caso m’abbattei non conosciuta.
L’uno era inerme e l’altro fiero e forte,
io questo uccisi e quel campai da morte.
439
Come alfin mi conobbe e come fui
dale selve condotta ai gran palagi,
lungo a dir fora e quali e quanti a lui
fè di me poscia il savio alti presagi.
Questo però tacer non voglio altrui,
ch’ancor tolta ai travagli e data agli agi,
tra le delizie sue la corte folle
forza non ebbe mai di farmi molle.
440
Comprender puoi dal’abito s’io nacqui
agli ozi vili o se viltà disprezzo,
al’impero d’Amor mai non soggiacqui,
mai non mi mosse allettamento o vezzo;
e di poter mostrar più mi compiacqui
in questo corpo ale fatiche avezzo
le cicatrici degli assalti audaci
che le vestigia de’ lascivi baci.
441
Tolto dal genitor dunque congedo,
di Germania soletta io fei partita
e tra vani riposi aver non credo
perduti i giorni in oziosa vita.
Ma mentre alfin per nave in patria riedo,
via sperando dal mar piana e spedita,
dopo molte aventure, a queste spiagge
tempestoso aquilone ecco mi tragge.
442
Or poiche’n brevi detti udito hai quanto
raccontar saprei mai del’esser mio,
se lice pur, posta giù l’ira alquanto,
il nemico essaudir com’ho fatt’io
fa tu, narrando il tuo meco altrettanto,
ch’ancor non men d’intenderlo desio,
e’l tuo sembiante e’l tuo parlar mi pare
di guerrier non oscuro e non vulgare. –
443
Così diss’ella e si ritrasse poi
in quel contegno suo dolce e severo,
quando: – Poiché così comandi e vuoi
(cominciò rispondendo il cavaliero)
de’ miei, simili in parte ai casi tuoi,
che sono ancor meravigliosi invero,
con non lungo sermone a darti conto,
feritrice mia bella, eccomi pronto.
444
Ardean tra’l re Francone e’l re Morgano
guerre crudeli e mortalmente orrende
e d’aspri assalti ognor con l’armi in mano
alternavan tra lor fiere vicende.
Dominava il primier tutto quel piano
che’nfin dal’Alpi ai Pirenei si stende;
l’altro reggea dela maggior Brettagna
quanto paese il gran Tamigi bagna.
445
Vennero alfin tra questa parte e quella
per maritaggio ad amicar le spade
e’l re gallo al bretton diè la sorella,
Fiordigiglio, che fior fu di beltade,
Fiordigiglio gentil, di cui più bella
non ebbe il mondo in questa o in altra etade
dal lucid’orto al’occidente oscuro,
dal’umid’austro al’agghiacciato arturo.
446
Ambiziosa di cotanto bene,
Anglia con general pompa festiva
la ricettò nele beate arene
com’a sposa real si convenia.
Felice chiama e fortunata tiene
la disgiunta dal mondo estrema riva,
dove seco traendo un dì novello
sorge al cader del sole un sol più bello.
447
Loda il candido sen, la treccia bionda,
le fresche guance, i seren’occhi ammira.
Diresti ben che gelosia n’ha l’onda
de l’ocean, ch’or viene, or si ritira,
né per altro quell’isola circonda
e dintorno a’ suoi lidi si raggira,
senon per custodir sì bel tesoro
quasi serpe che guardi i pomi d’oro.
448
Era Morgano uom di gran forze ed era
di membra poco men che gigantee,
ma non avea quella prudenza intera
che costumato principe aver dee.
D’aspra natura impaziente e fiera,
d’opre malvage e scelerate e ree.
E ben fede facean di quanto ha detto
la terribil sembianza e’l sozzo aspetto.
449
La faccia ha bruna e di color ferrigna,
illividita d’un crudel pallore,
ciglia congiunte in union maligna,
occhio fellone e sguardo traditore.
Villanamente ador ador sogghigna
con un sorriso che non vien dal core.
I movimenti, i portamenti tutti
son rigorosi e spaventosi e brutti.
450
Or io non so qual ria sciagura o sorte,
con quai d’empia malia nodi tenaci
le forze legò sì del fier consorte
ch’ei non potè mai trarne altro che baci.
Pur l’ama intanto, anzi d’amor più forte
nel vietato diletto ardon le faci
ed agli uffici inabile di sposo,
quant’egli è men potente, è più geloso.
451
Fu consiglio, cred’io, di chi governa
dele stelle lassù l’ordin fatale.
Non volse dar la providenza eterna
ad uom terreno una ventura tale
e parve indegno ala bontà superna
di cotanta beltà sposo mortale;
onde serbolla a nozze eccelse e sante
d’amor celeste e di divino amante.
452
Odi strano accidente, odi in che nova
guisa dal ciel l’origine pigliai
e dì se genitura altra si trova
sì fatta al mondo o si trovò giamai.
Indi al concetto il nascimento aprova
simile, se m’ascolti, anco vedrai,
mostruoso, ammirabile e ch’eccede
ogni credenza intutto ed ogni fede.
453
Nela stagion che dela terra l’ombra
dal fondo uscita del cimerio speco
spegne il sol, copre il cielo e l’aria ingombra
e fa muta la gente e’l mondo cieco,
mentr’ella dorme, ecco che’n sogno l’ombra
l’appar di Marte e si congiunge seco.
Poi desta il giorno, di feconde some
grave si sente il ventre e non sa come.
454
Turbasi e de’ begli occhi il lume imbruna
e languisce e stupisce e trema e gela
e di sua dura e misera fortuna
incontr’al ciel si lagna e si querela.
Pur quanto può fin ala nona luna
la gravidanza sua ricopre e cela.
Ma qual secreto alfin non manifesta
quel cauto mostro ch’ha cent’occhi in testa?
455
Morgano, entro’l cui petto il foco acceso
tempra col ghiaccio suo la gelosia,
accorto alfin del disusato peso,
del concetto innocente i segni spia.
Oltre il sen grosso, onde’l sospetto ha preso,
gli accresce nel pensier la frenesia
il veder gonfie ancor le poppe eburne
del nettare d’Amor fontane ed urne.
456
La ritira in disparte, indi le chiede
con torvo ciglio e con severa faccia
del’onor maritale e dela fede
le schernite ragioni e la minaccia.
La sventurata, che da lui si vede
già discoverta, di paura agghiaccia,
ché di quel fiero cor le son ben noti
troppo tremendi e repentini i moti.
457
Volea le labra allor allora aprire
la bella donna e raccontar la cosa;
ma non seppe il crudel tanto soffrire,
tal gli bollia nel cor rabbia gelosa.
Traendo fuor senza volerla udire,
un suo spadon, con furia impetuosa,
colpo tirò sì sconcio e smisurato
che la tagliò dal’un al’altro lato.
458
Dico che dela spada il fil le mise
sì per dritto nel corpo ed a misura,
che la ruppe a traverso e la divise
tutta per mezzo i fianchi e la cintura.
Con le gambe dal busto allor recise
quinci il tronco riman mezza figura,
quindi il bel sen sul pavimento resta
ale braccia attaccato ed ala testa.
459
Apena ella di sangue un largo fiume,
in due pezzi caduta, a terra sparse,
che fatta chiara in viso oltre il costume,
pur com’un sol visibilmente apparse.
Fuor de’ begli occhi di celeste lume
folgore uscì che l’abbagliò, che l’arse;
sentissi il fier dal raggio e dal’ardore
ferir la vista e fulminare il core.
460
E di quel lampo, ond’ebbe il cor ferito,
tanta il sacro splendor luce gli porse,
che’n sé tornando il barbaro marito,
di sua ferina immanità s’accorse.
Onde del’opra rea tardi pentito,
la man per ira e per dolor si morse
e fisi gli occhi in quell’oggetto orrendo,
forte a dolersi incominciò piangendo.
461
«Fiordigiglio mia cara (egli dicea)
il cui nome gentil veracemente
se forsennato pur non mi facea
la passion che traviò la mente,
per sestesso mostrar sol mi potea
un intatto candor d’alma innocente,
deh con qual mar di lagrime poss’io
pagar giamai d’un sì bel sangue il rio?
462
Anima disleal, perfido core,
che per sì vil misfatto infame sei,
se già non valse a moverti l’amore
che mentre visse ti portò costei,
come almen non ritenne il tuo furore
giusta pietà dela beltà di lei
dal macchiar del bel sen le pure nevi
e’nsieme quell’amor che le devevi?
463
Stolta mia destra, che d’un tanto eccesso
di ferità ti festi essecutrice,
ragion non è che del gran mal commesso
si faccia anco altra man vendicatrice.
Serrò già contro lei, contro mestesso
questo mio traditor braccio infelice,
emendi Amor l’error ch’egli commise
con l’odio che si deve a chi l’uccise.
464
Spada villana, al tuo signor ingrata,
che nel mio bene incrudelir potesti
ed ancor de’ begli ostri insanguinata
quasi accusando il feritor ne resti,
se già fosti crudel, fosti spietata
nel’alta crudeltà che commettesti,
or a quel gran dolor che mi saetta
non negar la pietate e la vendetta».
465
Così, piangendo e sospirando, disse
e, tenendo nel pugno il ferro stretto,
senza trovarsi alcun che l’impedisse
sospinse il braccio ed applicollo al petto,
e, trafitto appo lei ch’egli trafisse,
pien d’amoroso e di rabbioso aspetto
freddo cadendo e pallido ed essangue,
insieme mescolò sangue con sangue.
466
Chi crederà prodigiose e nove
altezze di miracoli divini?
chi d’un corpo ch’è morto e non si move,
uscir vide giamai vivi bambini?
Nel ventre che spaccato era là dove
hanno l’anche e le coste i lor confini,
dentro l’aperte viscere anelante,
spirar si vide e palpitar l’infante.
467
Il parto, ch’era per uscir già presto,
accelerato dal fellon crudele,
fuor del lacero sen pietoso e mesto
di lei raccolse un famigliar fedele.
A sua magion recollo in cavo cesto
sotto panni appiattato e sotto tele,
e quivi il fè con sì benigna aita
dala moglie allattar che’l tenne in vita.
468
Sì vissi e crebbi ed, oh stupor! del petto
scritte portai nela sinistra parte
note di sangue il cui tenor fu letto:
‘Fiammadoro è costui, figlio di Marte’.
Quindi poi Fiammador fui sempre detto
e fu di quel gran dio mirabil arte
che come mi campò pria ch’io nascessi,
così, credo, curò gli altri successi.
469
Il mio leal custode, il balio fido,
sovra una lieve e ben spalmata fusta
tragittando a Calesso il salso lido,
passò di Gallia al’alta reggia augusta,
dove inteso l’annunzio, udito il grido
del’onta indegna e dell’ingiuria ingiusta,
il mio gran zio che governava il regno
pianse di duolo ed avampò di sdegno.
470
Per vendicar dela sorella i torti,
mosse poi l’armi e grand’incendio accese.
Questo il principio fu di tante morti,
quinci nacquer le risse e le contese
che con odio mortal tra i petti forti
durano ancor del franco e del’inglese,
che tra lor confinando, han d’ambo i lati
cagion di star su le frontiere armati.
471
Fece il re quivi intanto ammaestrarmi
come regio garzon nutrir si debbe.
Ma di fuggir poi gli ozi e seguir l’armi
anco in me con l’età la voglia crebbe.
Vezzo, prego o consiglio a distornarmi
da sì nobil pensier forza non ebbe.
Così dal ciel guidato e dala sorte
sconosciuto e notturno uscii di corte.
472
Già di paesi e popoli diversi
costumi assai, peregrinando, ho visti.
Molto errai, molto oprai, molto soffersi
per far d’eterno onor pregiati acquisti.
Poi per l’Egeo tra i flutti e i venti aversi
ne venni anch’io sicome tu venisti;
quel borea istesso che’l tuo legno spinse
anco a prender qui porto il mio costrinse.
473
Narrate io t’ho gran meraviglie e tali
che volto forse avran di favolose;
ond’essendo sì strani i miei natali,
credo, che’l ciel mi serbi a strane cose.
E certo o di gran beni o di gran mali
fortune attendo o liete o dolorose,
secondo che di gioia o di martire
per te m’è dato o vivere o morire. –
474
Così divisa, ed ecco ingiù disceso,
mentre queste ragion passan tra loro,
tutto concorre ad onorargli inteso
del celeste collegio il concistoro.
Là’ve in duo petti era egual foco acceso,
con la madre d’Amor venner costoro;
ed ella con sereni occhi ridenti
fè l’aria risonar di tali accenti:
475
– O coppia degna e da’ più degni eroi
sol per gloria del mondo al mondo uscita,
qui gran tempo aspettata e’n ciel da noi
troppo ben conosciuta e ben gradita,
deponete omai l’armi e sia tra voi
la tenzon con lo sdegno inun sopita.
Canginsi in vezzi le discordie e l’ire
e sia pari l’amor, com’è l’ardire.
476
Ardete, anime belle; ai vostri ardori
son propizie le stelle, i cieli amici!
Già le Grazie pudiche e i casti Amori
v’arridon tutti con benigni auspici.
Fortunati desir, beati cori,
che’n sì nobile incendio ardon felici;
esca onde trae la fiaccola e’l focile
d’Amor e d’Imeneo fiamma gentile.
477
Lunga stagion tra dilettosi affanni
sotto un giogo dolcissimo vivrete.
Vivran le glorie vostre al par degli anni,
n’andranno i vostri onor di là da Lete.
Già spiegando per voi la Fama i vanni,
tutte scorre del ciel le quattro mete
e sparge intorno i fiati suoi sonori
dal meriggio ai trion, dagl’Indi ai Mori.
478
Le due gran monarchie nel mondo sole,
cedan Greci e Romani e Persi e Siri,
per voi fien grandi e per la vostra prole
laqual fia ch’Asia tema, Europa ammiri.
Le lor terre, i loro mari apena il sole
visitar potrà mai con mille giri,
d’amicizia congiunte e d’allianza,
emule di grandezze e di possanza.
479
Tu, che per doppia via l’alme rubelle,
verginella real, vinci in battaglia,
rischiara i raggi dele luci belle,
né del morto destrier punto ti caglia.
So che del sol le stalle e che le stelle
non l’hanno tal ch’appo’l tuo merto vaglia;
questo mio nondimen con lieta faccia,
ch’è miglior de’ miglior, gradir ti piaccia.
480
Là nel fonte del sol dove in pastura
la corridrice nomade col pardo
si copulò, d’adultera mistura
concetto nacque e fu chiamato Ippardo.
Parte chiara ala spoglia e parte oscura
quasi piuma di storno ha del leardo,
stellata in guisa tal tutta a rotelle
che’n lui le macchie istesse anco son belle.
481
Tenero il tolse ala materna mamma
e frenollo e domollo Arte maestra.
Spinselo or dietro a cerva, or dietro a damma,
or per campagna, or per montagna alpestra.
Pronto ai salti, agli assalti, uso è qual fiamma,
girarsi a manca e raggirarsi a destra
e veloce e feroce a meraviglia
la genitrice e’l genitor somiglia.
482
E tu franco guerrier, ch’oggi ten vai
nel trionfo d’amor con tanto fasto
e sovr’ogni trofeo ti pregi assai
d’uscir vinto e prigion dal gran contrasto,
non languir più, né più lagnarti omai
del brando rotto o delo scudo guasto.
Lascia pur l’armi usate e prendi quelle
ch’or io t’arreco assai più forti e belle.
483
Questa spada biforme onde già fue
dal buon Perseo l’orribil Orca uccisa,
Anfisbena ei chiamò, però che’n due,
come vedi, ha la lama ingiù divisa.
Aguzza l’una è dele parti sue,
ma si termina l’altra in altra guisa,
ché nel’estremità curva diviene,
l’una taglia di lor, l’altra ritiene.
484
Degna del fianco ben fora di Marte
l’arme onde possessore oggi ti faccio,
ma perde appo lo scudo il pregio in parte
che peso fia del valoroso braccio.
De’ suoi lavori il gran mistero e l’arte
altri ti scoprirà, questo mi taccio.
Vi vedrai del futuro occulte cose
e de’ tuoi successor l’opre famose. –
485
Barbaro scudo a questo dir recato
fu da molti valletti in un momento.
Nel’incude di Lenno è fabricato,
d’oro ha il bellico, il circolo d’argento
e di minute istorie effigiato
l’orlo, a cui fanno intorno ampio ornamento,
ogni figura sua vivace e bella
poco men che non spira e non favella.
486
Allor lo dio che signoreggia in Delo,
rivolto a specolar quelle sculture,
de’ secreti ineffabili del cielo
affisa gli occhi entro le nebbie oscure;
indi, squarciando il tenebroso velo
che i gesti asconde del’età future,
pien di spirito sacro ed indovino
a Fiammadoro interpreta il destino:
487
– Guarda (dicea) nel mezzo e vedrai pria
d’uno in tre gigli la mutata insegna.
Tal qual è sarà sempre in tua balia
mentre il peso mortal l’alma sostegna.
Da indi in poi custode il ciel ne fia
finché’l gran Clodoveo nel mondo vegna.
Per miracolo allor lo scudo istesso
fia dinovo alla terra ancor concesso.
488
Volgiti al cerchio poi del ricco arnese
e mira quante imagini v’ha sculte.
Son de’ tuoi gran Borbon le chiare imprese
che sotto oscuro vel giacciono occulte,
finch’un tanto splendor fatto palese
dale penne più nobili e più culte,
in quanto l’ocean bagna e circonda,
per mille lustri illustre, i rai diffonda.
489
Nel gallico terreno, ancorch’angusto
sia quasi tutto a tal legnaggio il mondo,
in cotal guisa di quel ceppo augusto
fia radicato il gran pedal fecondo,
che giamai quercia il suo robusto busto
non piantò sì nel più profondo fondo.
Tronco a cui non fia mai che vento crolli,
fertile di radici e di rampolli.
490
Per conoscer apien qual sia la pianta,
basta solo assaggiarne un frutto o dui.
Questo però di frutti ha copia tanta
che ne confonde e ne satolla altrui;
e come l’arbor d’oro onde si vanta
l’Esperia, abondasi de’ pomi sui,
che chi la scote per carpirne un solo
ne fa mille talor piovere al suolo.
491
Di tant’avi e nipoti e padri e figli
lasciando dunque il numero infinito,
converrà ch’al miglior solo m’appigli:
ed ecco un sol fra mille io ten’addito.
Vedi del’alfabeto a piè de’ gigli
il decimo elemento ivi scolpito:
il nome è quel di quel garzon reale
a cui promette il ciel gloria immortale.
492
Gloria immortal trarrà da chiari pregi
del genitor non men ch’eterno essempio,
del genitore, a’ cui gran fatti egregi
benché s’opponga il fato iniquo ed empio,
la fenice però sarà de’ regi,
di pietà, di giustizia il trono e’l tempio,
un Numa in pace, un Alessandro in guerra,
un vero nume, un vivo lume in terra.
493
L’esser nato d’un re che di valore
fia specchio al mondo e fior d’ogni bontate,
di cui saran con sempiterno onore
più vittorie che guerre annoverate,
somma laude gli fia, ma vie maggiore
il secondar di lui l’orme onorate;
felice inun di posseder ben degno
e la virtute ereditaria e’l regno.
494
Quai poeti di lui, quali oratori
potranno, ancorché celebri e celesti,
o in note sciolte o in numeri canori
tanto mai dir che più da dir non resti?
Che può pensar de’ suoi sovrani onori,
che può narrar de’ suoi sublimi gesti,
secca ogni vena, ogni virtù perduta,
intelletto confuso e lingua muta?
495
Quegl’infelici e miseri ch’oppressi
dal crudel di Bisanzio empio tiranno
dele dure catene i ferri istessi
logori quasi con le membra avranno,
per lui sol fiano in libertà rimessi,
per la sua man fia vendicato il danno;
e poiché l’oriente avrà distrutto,
si farà tributario il mondo tutto.
496
Non di sol, non di gel tanto ardimento
affrenar mai potranno ardori o brume.
Veggio l’Indo e’l Gelon, quel di spavento
gelar, questo sudar contro il costume.
Veggio la luna trace il puro argento
macchiar di sangue, impoverir di lume;
torbido il Nil già per sett’occhi piange
e l’aureo suo pallor raddoppia il Gange.
497
Veggio che sol per lui la Tana estrema
più di timor che di rigore agghiaccia;
scote i suoi boschi il Caucaso che trema
di quel valor che’l giogo gli minaccia;
già cede il Parto e disusata tema
con non mentita fuga in fuga il caccia;
veggio gli archi depor Meroe al suo nome
e di saette disarmar le chiome.
498
Marte, nonch’altri, ilqual per tema eletto
s’ha l’albergo lassù nel cerchio quinto,
converrà che più alto abbia ricetto,
s’esser non vuol anch’egli in guerra vinto.
Fia Giove ancor d’alzar il ciel costretto
ed allargar del’universo il cinto,
che’l suo nome, il suo ardir non ben si serra
tra gli spazi del’aria e dela terra.
499
E come il suo magnanimo pensiero
termine non avrà che lo capisca,
così confin che’l chiuda anco l’impero
non troverà dov’ei di gire ardisca
e non in questo sol noto emispero
fia che lo scettro suo si stabilisca,
ma dove ancor con affannata lena
giungono stanchi i miei corsieri apena.
500
È ver che’n su’l bel fior del’età fresca
contraria avrà sediziosa gente,
diversa assai dala bontà francesca,
disleale, ostinata, empia, insolente.
Vedi vedile in mano il foco e l’esca
con cui semina intorno incendio ardente,
che nel sen dela patria appreso e sparso
l’ha quasi il corpo incenerito ed arso.
501
Per intutto estirpar l’Idra ramosa,
che quanto più moltiplica più noce,
l’armi giuste intraprende e non riposa
l’infaticabil giovane feroce.
Suda ed anela ala stagion nevosa,
quando adusto da borea il verno coce;
se’n ciel rugge il leon, latra la cagna,
ei sotto i raggi miei marcia in campagna.
502
Con le squadre più fide e più devote
movesi ad espugnar l’empia caterva
che le leggi calpesta, il giogo scote
e ricusa ubbidir soggetta e serva;
vegghia, studia, travaglia il più che pote
quella peste a scacciar fiera e proterva,
che del’afflitta Gallia in modo orrendo
va per le chiuse viscere serpendo.
503
È giunto a tale il suo valor sovrano
ch’omai vince e trionfa e non combatte.
Son dal nome vie più che dala mano
prese le rocche e le città disfatte;
solo col vento dele penne al piano
la sua gran fama l’alte mura abbatte;
cede ogni forte, ogni castel si rende:
misero chi contrasta e si difende!
504
Sassel ben d’Angerì la turba stolta
che l’accordo pospone ala difesa.
Ecco Salmuria a’ rei ladron ritolta,
né Bergeracco poi fa gran contesa.
Ecco la prima e la seconda volta
Cleracco a forza è soggiogata e presa,
Pouso, Mondur, Lunello ed ecco mille
racquistate in un punto e piazze e ville.
505
Fa ben due volte a Montalban ritorno,
né per pioggia o per neve assalto allenta,
ma col fiero cannon la notte e’l giorno
l’eccelse torri e’l gran giron tormenta.
Passa quindi a Narbona e tutti intorno
gli ammutinati popoli spaventa;
e posto campo ala città sovrana
di cadaveri ostili i fossi appiana.
506
E mentre ivi di sangue il campo tinge,
da lunge ala Roccella anco fa guerra.
Spernon da un lato e Suesson la cinge
e di soccorso ogni camin le serra,
né minor forza la combatte e stringe
dala parte del mar che dela terra,
dove al gran porto del’alpestra rocca
tenta industre ingegner chiuder la bocca.
507
Spianta le selve e le miniere vota
e con legni e con ferri il mar affrena,
e copulando vien, benché remota,
d’entrambo i capi l’un’e l’altra arena;
ed acciocché sue machine non scota,
quasi in dura prigion l’onda incatena,
e’l buon duce di Guisa insu l’entrata
il varco guarda con possente armata.
508
Tien del rege costui la vece e’l loco,
guerrier cui non fia mai chi si pareggi.
Vanne e sprezza pur l’onda e sprezza il foco,
inclito eroe che la gran classe reggi!
Ben avrai quella e questo a temer poco,
milita il ciel per te mentre guerreggi
e l’un e l’altro orribile elemento
ti favorisce e la fortuna e’l vento.
509
Mira con qual inganno han mossi i legni
le ribellate e debellate genti,
che portan seco insidiosi ingegni
d’occulti fuochi e d’artifici ardenti;
ma di toccar sì nobil corpo indegni
scoppiano a voto i perfidi stromenti,
volan le fiamme e’nsieme il mar confonde
le nebbie e i fumi e le faville e l’onde.
510
Vedi ogni altro vascello irne lontano,
soletto ei si riman su l’ammirante.
Tutto incontro gli vien lo stuol villano;
ei non lascia però di girne avante,
anzi principe insieme e capitano
e soldato in un punto e navigante,
minacciando il nocchier ritroso e tardo
atterrisce il Terror sol con lo sguardo.
511
Può ben l’aspro conflitto ivi vedersi
pien d’accidenti tragici e mortali;
vele stracciate ed uomini sommersi
e remi rotti ed arbori e fanali.
Spettacoli d’orror così diversi
oggetti ti parrian più ch’infernali,
s’udir potessi ancor gli alti rimbombi
che fanno i cavi bronzi e i fusi piombi.
512
Ecco la strage delo stuol rubello,
ecco i navili suoi sparsi e distrutti.
L’animoso signor di cui favello,
fa del sangue fellon vermigli i flutti.
Saltando va da questo legno a quello
e la sua spada è scudo agli altri tutti.
Col grido e con la man fulmina e tuona,
così la fè difende e la corona.
513
Intanto al popol falso e contumace
perdona alfin placato il gran Luigi
e dopo lungo assedio e pertinace
dispiega in Mompelier la fiordiligi,
quindi con la vittoria e con la pace
tra la palma e l’olivo entra in Parigi
e lieta sotto il trionfal vessillo
torna la Francia al bel viver tranquillo.
514
Tornan l’Arti più belle e le Virtudi
poco dianzi fugaci e peregrine,
fioriscon gli alti ingegni e i sacri studi,
crescon i lauri a coronargli il crine,
riposan l’armi orrende, i ferri crudi
pendon dimessi e le battaglie han fine.
Son fatti i cavi scudi e i voti usberghi
nidi di cigni e di colombe alberghi. –
515
Qui tacque Apollo e’l pescator Fileno,
che presente ascoltò quant’egli disse,
quanto diss’egli e tutto il filo apieno
di que’ tragici amori in carte scrisse.
Giunse intanto la notte e nel sereno
tempio del ciel le sue lucerne affisse.
Tornaro a Stige le tartaree genti,
l’altre ale stelle e l’altre agli elementi.
LA DIPARTITA

ALLEGORIA

Per la dolorosa separazione d’Adone e di Venere dassi altrui a divedere con quanta pena e difficoltà si priva la carne del suo godimento sensibile. Per Tritone, mostro marino che, cavalcato da Venere ed allettato dalla promessa del premio amoroso, di qua e di là con larghe ruote trascorre il mare, si figura l’uomo sensuale, mezzo bestia quanto alla parte inferiore, ilqual posseduto e signoreggiato dalla volontà che gli promette piaceri e dolcezze, immerso dentro il pelago di questo mondo, va per esso delcontinovo senza alcun riposo con tortuosi errori vagando. Per Glauco, che in virtù d’un’erba mirabile, lavato da cento fiumi, di pescatore diventa dio, si disegna lo stato di colui ch’entrando nel gusto della vera sapienza e con l’acque della vera penitenza purgandosi delle macchie del senso, prende forma e qualità divina ed acquista la beatitudine e l’immortalità. Per la festa degl’iddii e delle ninfe del mare, ch’arridono al passaggio della dea, si ombreggia la salsedine essere amica alla generazione, come quella che per lo suo calore ed acrimonia è provocatrice della lussuria.

ARGOMENTO

Dal caro suo con lagrime e sospiri
prende congedo Venere dolente;
poi di Triton su’l tergo alteramente
solca tranquilli i liquidi zaffiri.

1
Quando due alme innamorate e fide
si scompagnan talor per dura sorte,
mortal angoscia ambe le vite uccide
né proprio è la partita altro che morte.
E s’è gran doglia allor che si divide
l’alma dal corpo suo dolce consorte,
che fia qualor ad alma alma s’invola,
anzi in due si diparte un’alma sola?
2
O se potesse in un medesmo punto
quando coppia che s’ama Amor diparte,
aver ciascun due vite, onde disgiunto
dala di sé più cara e miglior parte
ed al’amato sen sempre congiunto,
senza giamai partir girne in disparte,
più lieta l’alma al dolce oggetto unita
là dov’ama vivria che dove ha vita.
3
Deh! come volentier torrebbe un core
farsi baleno o divenir saetta
purché dal’arco poi che scocca Amore
fusse aventato ove il suo ben l’aspetta.
O quanto invidia al sol l’aureo splendore
che va scorrendo il ciel con tanta fretta
per poter con un raggio ardente e vivo
visitar l’altro sole ond’egli è privo.
4
Felici augelli e fortunati venti
cui penne da volar diede Natura;
beati fiumi e rivoli correnti
che di vagar pertutto hanno ventura;
aventurose voi, stelle lucenti,
ch’ardete in fiamma dilettosa e pura,
e, se cangiate pur siti e ricetti,
vi vagheggiate almen con lieti aspetti.
5
Misero quegli a cui per alcun modo
convenga abbandonar delizia antica,
che, come o schiantar ramo o sveller chiodo
non si può senza strepito e fatica,
così spezzar l’indissolubil nodo
d’un vero amante e d’una vera amica,
se l’un dal’altro si distacca e scioglie,
non si può senza pianti e senza doglie.
6
Ed egli a lei sospira ed ella a lui
risponde con sospir tronchi e tremanti.
E così accorda gli stromenti sui
Amor con tuono egual fra sé sonanti.
Tai son le lingue mutole con cui
favellano tra lor l’anime amanti.
Con queste care epistole furtive
pria che giunga il partir, l’un l’altro scrive.
7
Qual affanno credete e qual martoro
di Ciprigna e d’Adon nel cor s’aduna
mentre per ecclissar le gioie loro
oscura s’interpon nube importuna?
Chi lontano talor dal suo tesoro
fu costretto a provar simil fortuna,
potrà ben misurar con l’argomento
del suo proprio dolor l’altrui tormento.
8
Gravida già di luce, il vago seno
apria l’Aurora e partoriva il Giorno.
Erano al parto lucido e sereno
e l’Aure e l’Ore allevadrici intorno.
Teti in conca d’argento un bagno pieno
gli avea di perle e di zaffiri adorno;
e fasce d’oro il Sole e l’Oriente
porgea cuna di rose al Dì nascente.
9
I fidi amanti che tra’ bianchi lini
smarriti nel color dele viole
avean fin presso agli ultimi confini
spesa in vezzi la notte ed in parole,
al dolce suon de’ baci mattutini
destar gli augelli e risvegliaro il sole.
Sorgendo poi dale rosate piume
apriro gli occhi e gli prestaro il lume.
10
Ella ch’al rito degli usati giuochi
deve apunto quel dì girne a Citera,
dove ne van da’ circostanti luochi
i suoi devoti ogni anno in lunga schiera
e di vittime sacre e sacri fuochi
onoran lei che’n quelle parti impera,
parlar non osa e non s’arrischia a dire,
o parola mortal! che vuol partire.
11
Come se vuol talor putrido dente
sveller con destra man maestro accorto,
non su le fauci a por subitamente
va del tenace can l’artiglio torto,
ma con stil dilicato e diligente
lo scalza in prima e porge al mal conforto,
così Venere bella il bell’Adone,
preparando l’affetto, al duol dispone.
12
Più volte si sforzò, ma non sapea
come né donde incominciar devesse.
Egli è ben ver che quanto a dire avea
negli occhi scritto e negli sguardi espresse;
e dal fanciul che quanto ella tacea
pur con l’occhio e col guardo intese e lesse
in quella dura e rigida partenza
chiedea con vive lagrime licenza.
13
– Conviemmi (dice, e sciolto il freno al pianto
gli fa monil d’ambe le braccia al collo)
conviemmi pur (né di baciarlo intanto
può l’ingordo desio render satollo)
conviemmi ahi lassa, e con qual duolo e quanto
e con che lingua e con che cor dirollo?
conviemmi oggi da te far dipartita,
idoletto gentil di questa vita.
14
Per celebrare il dì pomposo e festo
passo a Citera e ne vien meco Amore.
De’ solenni apparecchi il tempo è questo
onde là fassi al mio gran nume onore.
Io parto sì, ma seben parto io resto
e mi si parte insu’l partire il core.
Quest’assenzia, ben mio, fiera e crudele
altro per me non fia ch’assenzio e fiele.
15
Breve l’indugio fia, breve il soggiorno,
che sai ben tu ch’io senza te non vivo,
né più in la differir voglio il ritorno
senon quanto si chiuda il dì festivo.
Tu, che movi cacciando i passi intorno
dela solita scorta intanto privo,
deh non andar dove l’audacia, figlia
dela follia, ti guida e ti consiglia. –
16
Adon par ch’a quel dir gemendo voglia
a favilla a favilla il cor disciorre.
Risponder vuol, ma l’importuna doglia
non lascia ala ragion note comporre;
e s’alfin pur la lingua avien che scioglia,
il duolo è che per lui parla e discorre.
Forma rotti sospiri, accenti mozzi
e sommerge la voce entro i singhiozzi.
17
– Dunque (dicea) dunque è pur ver che vuoi
peregrina da me torcere i passi?
Dì dimmi, e come abbandonar mi puoi
romito abitator d’antri e di sassi?
Perché privarmi, o dio, degli occhi tuoi?
o dio! perché ten vai? perché mi lassi?
e mi lassi soletto senon quanto
mi faran compagnia la doglia e’l pianto.
18
Cara la vita mia, deh dimmi, è vero?
non più scherzar, qual fato or ne disgiunge?
Ch’io né da scherzo ancor pur col pensiero
posso o voglio da te vedermi lunge.
Che farai? che rispondi? Io temo, io spero.
Ah che pietà di me non ti compunge!
Vedi volti quest’occhi in fonti amari,
che pur giurar solevi esserti cari.
19
Veggio or ben io che dal tuo figlio avaro
qualche breve talor gioia s’ottiene
sol perché cresca alfin lo strazio amaro
e si raddoppi il mal, perdendo il bene.
Lasso, ei m’aperse un sol felice e chiaro
per poi lasciarmi in tenebre ed in pene;
prese il crudele a sollevarmi in alto
per far maggior del precipizio il salto.
20
Se di votivi onori hai pur desio
ed agli altari tuoi cotanto pensi,
non è forse tuo tempio il petto mio?
non son voti i pensier, vittime i sensi?
Se vuoi dal popol tuo fedele e pio
fiamme lucenti e peregrini incensi,
non son vive faville i miei desiri?
non son fumi odorati i miei sospiri? –
21
Ed ella a lui: – Chi detto avrebbe mai
che chi dal volto tuo bear si sente
sentir devesse poi tormenti e guai
sol per mirarti ed esserti presente?
E chi pensato avria che que’ bei rai
mi devesser mirar pietosamente
e non rasserenar sol con la vista
qual tempesta maggior del’alma trista?
22
Vedi vedi se strana è la mia sorte,
ch’oggi la mia salute è per mio peggio.
Le tue luci leggiadre eran mie scorte,
or mi sento morir perché le veggio.
Onde per non mirar la propria morte
bench’altr’alma che te non ho né cheggio,
torrei di dar quest’alma e bramo almeno
per poter non partir, morirti in seno. –
23
Ed egli a lei: – Non so perché si lagni
chi procaccia a sestessa il suo tormento.
Per qual cagion da me ti discompagni
se’l non farlo è in balia del tuo talento?
Quel duro cor, che mentre parli e piagni
forma sì mesto e querulo lamento,
sicome s’ammollisce a lagrimarmi,
non potrebbe ammollirsi a non lasciarmi?
24
A che mostrarti afflitta e lagrimosa?
Non più pianger omai ché’l pianto è vano.
Non sente passion molto penosa
né molto il senso e l’intelletto ha sano,
chiunque piagne per dolor di cosa
cui rimedio è del suo arbitrio in mano.
Perdona, o dea, se troppo ardir mi prendo
e se per troppo amor forse t’offendo. –
25
Ed ella: – Adon, s’egli mi piace o dole
cangiando nido e variando loco
l’allontanarmi dal mio vivo sole,
quantunque io sappia ben che fia per poco,
comprenderlo ben puoi dale parole
che dal centro del cor m’escon di foco.
Chiedilo, se nol credi, a questi lumi
già ricetti di fiamme, or fatti fiumi.
26
Ma che poss’io se mi rapisce e move
violenza fatal di legge eterna?
Decreto incontrastabile di Giove
regge il mio moto e’l mio voler governa.
Piacesse al ciel che, per non girne dove
oggi m’obliga a gir forza superna,
stesse nela mia man questa partita
sicome nela tua sta la mia vita. –
27
Ed egli: – Or come sai, s’amor n’è senza,
formar ragioni a’ danni miei sì belle?
Non è buon segno aver tanta eloquenza
quando di là dov’ama un cor si svelle.
Chi sa del ben amato ala presenza
trovar discolpe e queste scuse e quelle,
animo ancor avrà ben a bastanza
da soffrir volentier la lontananza.
28
Vanne vattene pur. Del mar tranquillo
assai meglio potrai valicar l’onde
se puoi sì di leggier queste ch’io stillo
passar, quantunque torbide e profonde.
Conceda il cielo al foco, ond’io sfavillo,
acque piane pertutto, aure seconde.
Abbia di te Fortuna ovunque vai
cura maggior che tu di me non hai.
29
Oimé, spiegar ciò ch’io spiegar vorrei
mi contende il martir che m’addolora.
Poiché d’andar deliberata sei,
del tuo fedel sovengati talora
ed almen quantoprima agli occhi miei
riporta il chiaro sol che gl’innamora.
O ti riveggian pur pria che la cruda
morte con mortal sonno a me gli chiuda.
30
Io so ben io, poiché del dolce e caro
cibo divin che l’anima nutriva
Amor ingiusto, ingiusto Fato avaro
per legge crudelissima mi priva,
né vuol ch’io pur d’un raggio ardente e chiaro
de’ begli occhi sereni almen mi viva,
so ch’io morrommi; e fia beata sorte
se per te, vita mia, corro ala morte.
31
Ma poiché nulla il mio tormento acerbo
può con sì caldi e sviscerati preghi
il rigor di quell’animo superbo
intenerir, sì ch’a pietà si pieghi
ed al duol che nel’alma io chiudo e serbo
Amor vuol che d’amor premio si neghi,
vita del morir mio, piacciati almeno
darmi loco nel cor, senon nel seno.
32
Non cancelli o disperda onda d’oblio
d’un sì bel foco in te la rimembranza;
ma come vive il ver nel petto mio,
ancor nel tuo ne viva ombra e sembianza.
Questo picciol ristoro al gran desio,
questa poca mercé solo m’avanza:
quando albergo miglior mi sia disdetto
nela cara memoria aver ricetto.
33
Se’l giorno uscir vedrai dal’oriente
che la gente consola afflitta ed egra,
stando lunge da me, torniti a mente
che tu sol sei quel sol che mi rallegra.
Se spiegar dopo’l dì chiaro e lucente
vedrai la notte la sua benda negra,
ricordati che tale anco m’ingombra
senza te nebbia e gelo, orrore ed ombra.
34
Se fior vermiglio in prato o verdeggiante
miri in vago giardino erbetta o foglia,
dì teco allor: «Nel mio fedele amante
alto e nobil desio così germoglia».
S’incontri per camin fiume sonante,
facciati rammentar dela mia doglia,
pensando pur che più profondi e vivi
versan per te quest’occhi e fonti e rivi.
35
Se di perle e rubin ricco monile
o bel diamante intorno a te lampeggia,
ti rappresenti la mia fede umile
cui gemma oriental non si pareggia.
E se’n cristallo limpido e gentile
si specchia il tuo bel volto e si vagheggia,
imagina ch’ognor l’imagin cara
nel mezzo del mio cor splende più chiara.
36
Così pertutto, ovunque andrai dintorno,
di me mai sempre il simulacro finto
di color vivi in vive forme adorno
dal cortese pensier ti fia dipinto.
Felice me, se quando poscia il giorno
cede al’ombre notturne e cade estinto,
ti stampasse dormendo il sonno vago
la mia vagante e fuggitiva imago.
37
Ma ciò non spero. Esser non può giamai
che’l sonno, il sonno freddo, il sonno cieco
accostarsi presuma a sì bei rai
e venga tante fiamme a portar seco.
Soffrirò dunque e mi fia pur assai
ch’io del proprio dolor mi doglia meco
e con lo spirto errante e peregrino
possa sempre al mio ben farmi vicino. –
38
Qui tace e poi soggiunge: – Ahi! che serpendo
mi va per entro il petto un freddo ghiaccio.
Temo non tu, da me sazia fuggendo,
al caro Marte tuo ne torni in braccio.
Se questo è ver, di propria mano intendo
scior del’amore e dela vita il laccio.
Crudel, se non ti move il mio cordoglio,
ben sei figlia del mar, nata di scoglio. –
39
Risponde l’altra allor: – Raro vien solo
un mal, per aspro e per mortal che sia.
Il separarmi con fugace volo
dala tua vista e dala vita mia,
sappi, ch’egli non m’è sì grave duolo
né mi dà pena tanto acerba e ria,
quanto il vederti piangere e sentire
sì profondo dolor del mio partire.
40
Ma l’udirmi incolpar di poco fida,
ciò più m’afflige. E credi, anima ingrata,
ch’io con lo dio guerriero ed omicida
cangiar mai deggia la mia pace amata?
In lui spavento, in te beltà s’annida;
ei tutto ferro e tu con chioma aurata;
egli con fiere e sanguinose palme
uccide i corpi e tu dai vita al’alme. –
41
Poi segue: – Se giamai porrò in oblio
del mio costante amor l’alta fermezza,
il ciel di me si scordi; o se pur io
rimembrar giamai deggio altra bellezza,
destin mi faccia ingiurioso e rio
scontar con mille affanni una dolcezza.
Facciami acerba e dispietata sorte
pianger la vita mia nela tua morte. –
42
Ed egli: – S’altro stral giamai mi fiede
di quel ch’uscio de’ tuoi begli occhi ardenti,
per questi prati, ovunque poso il piede,
secchin l’erbette verdi e i fior ridenti.
Semai rivolgo dal’antica fede
ad altro oggetto i miei pensieri intenti,
traggami iniqua stella inerme e stanco
dove mostro crudel mi squarci il fianco. –
43
Con la man bella, a questo dir, la bocca
leggiermente da lei gli fu percossa:
– Or quai (gli disse) la tua lingua sciocca
bestemmie infauste a proferir s’è mossa?
Sovra chiunque un sol capel ti tocca
cader più tosto il rio presagio possa.
Taci, né più ciò dir quando tu giuri;
lunge da te così malvagi auguri. –
44
Ciò detto, con pietoso e languid’atto
la coppia alquanto il favellar ritenne
e versando per gli occhi il cor disfatto
pur da capo l’un l’altro a baciar venne,
come fermar col pianto e far il patto
volesser con le lagrime sollenne
e consolando l’anime dolenti
suggellar con le labra i giuramenti.
45
Così le gioie e le memorie estreme
con soavi accoglienze in vari modi
vanno alternando ed iterando insieme
e restringon più forte i cari nodi.
Lo sconsolato Adon lagrima e geme
risaettato il cor d’acuti chiodi;
Vener con roca e languida favella
– Non pianger – dice e seco piange anch’ella.
46
Poiché i vezzi d’amor così su’l letto
replicati tra lor molto si sono,
ecco che pur s’arrischia il giovinetto,
pria ch’ella parta, a dimandarle un dono.
E con tanti sospir, con tale affetto
forma de’ detti e dele voci il suono,
ch’ella tutta a quel dir s’intenerisce,
arde d’amore e di pietà languisce.
47
– Vedi pur quanto il sol col chiaro lume
circonda e chiedi omai con franco ardire.
Giuro per Stige, inviolabil fiume,
nulla fia che si neghi al tuo desire.
Sì potess’io del’immortal mio nume
l’alta immortalità teco partire,
ch’ognor non mi terria turbata e mesta
sollecito timor che mi molesta.
48
Lassa, perché mi vieta avaro fato,
fato avaro e crudele ad ambo noi,
del mio divino spirito beato
poter parte innestar ne’ membri tuoi,
sì che di viver poi ne fusse dato
con un’anima sol commune a doi?
Che basterebbe al’un’e l’altra salma
di duo fedeli amanti una sol’alma. –
49
Così dic’ella e quegli allora il novo
desio l’espon con fervide preghiere:
– Sai ben che dopo quel che teco io provo
sommo ed incomparabile piacere,
altro trastul che travagliar non trovo
con l’arco in man le fuggitive fere.
Piacciati, prego, almen per un brev’uso
di lasciarmi cacciar nel parco chiuso. –
50
Un parco in Cipro avea chiuso e secreto
la dea d’Amor, pien di feroci belve.
Salvo a Diana sol, quivi è divieto
ch’altro pastore o cacciator s’inselve.
Umile animaletto e mansueto
raro v’appar come nel’altre selve.
Da mostri orrendi, eccetto entro quel muro,
tutto il resto del’isola è securo.
51
– Ah! (disse Citerea) quanto mi pesa
irrevocabilmente aver giurato. –
Tenta stornarlo dala folle impresa,
tenta mollirgli l’animo ostinato.
Ma può solo appagar la voglia accesa
la chiesta grazia del piacer vietato;
grazia ingrata a colei che la concede
e dannosa e mortale a chi la chiede.
52
E perch’ei scorge che la dea ritrosa
a quel caldo pregar non ben consente,
vela i begli occhi d’una nebbia ombrosa
e vibra umido d’ira il raggio ardente.
– Poco curar degg’io fronte sdegnosa
(diss’ella) e non mi cal d’occhio piangente
perché, cor mio, più volentier sopporto
di vederti colerico che morto.
53
Non voler, prego, ah, non voler, per dio!
orme seguir di perigliosa traccia.
Se di caccia o di preda hai pur desio,
io sia la preda e sia d’amor la caccia.
Sien le tue reti e i lacci tuoi, ben mio,
quest’auree chiome e queste molli braccia;
tolgano il dolce ciglio e’l dolce sguardo
l’ufficio al’arco e’l ministerio al dardo. –
54
Tace e del vicin mal quasi presaga,
non si sazia tenerlo in grembo stretto.
Sente da un certo che l’interna piaga
ritoccarsi aspramente in mezzo al petto
che par ch’al’alma innamorata e vaga
dica: – Tosto avrà fin tanto diletto. –
Onde dubbiosa ed impedita il mira
e di foco e di gel trema e sospira.
55
Dicele alfin: – Poiché sei fermo intutto
ch’io ti deggia attener quanto ho promesso
né teco il mio parlar porta alcun frutto,
non mi voglio ritor quelch’ho concesso.
Ma se non ami il mio perpetuo lutto
e se ti cal di me, cura testesso;
ed almen nel’esporti a tal periglio
con riguardo procedi e con consiglio.
56
Bastar pur ti devrian qui nel’aperto
tante pianure e collinette e piagge
senza tentar per quel serraglio incerto
bestie inumane, indomite e selvagge.
Ma daché poco cauto e meno esperto
baldanza pueril colà ti tragge,
schiva fere voraci e non gir solo,
ma conduci di ninfe armato stuolo.
57
Timida damma o semplicetto cervo
vattene pur cercando in piano o in monte,
ma d’alpestro animal crudo e protervo
guardati d’irritar le brame e l’onte,
cui né punta di stral né teso nervo
faccia in fuga giamai volger la fronte.
Deh! non far, vita mia, che l’ardir tuo
uccidendone un sol n’uccida duo.
58
Fuggi s’irsuto ed ispido cinghiale
vedi spumante di livor le labbia.
Mostro d’orgoglio e di fierezza eguale
fa pur pensier che l’Africa non abbia.
Schermo seco non giova, ardir non vale,
ché s’avanza in dispetto e cresce in rabbia;
dove le luci minacciose e torte
volga talor, là presso è pianto e morte.
59
Né giovenil temerità ti spinga
l’ira a provar del’implacabil orso,
come l’unghia nel sangue e’l dente tinga
rapito da furor senza discorso.
Lagrimosa beltà, prego o lusinga
al suo morso mortal non pone il morso,
né pote altro giamai che strazio e strage
le sue voglie appagar crude e malvage.
60
Ancor d’Ircania ala superba fera
studia a tutto poter sottrarti lunge.
Questa chi la persegue aspra guerrera,
schernitrice de’ rischi, opprime e punge.
Più del marito Zefiro leggiera
velocemente il fuggitivo aggiunge.
Sparge d’ira le macchie e furia e freme
ch’ognor de’ cari parti il furto teme.
61
Né men d’ogni altro l’animal che rugge
abbi sempre a schivar pronto l’ingegno.
Non teme no, non teme il fier, non fugge
asta, spiedo o spunton non gli è ritegno.
Ciò che’ncontro gli vien, lacera e strugge,
ogn’intoppo gli accresce esca alo sdegno.
Foco gli occhi al crudel, ferro gli artigli
arma e sprezza iracondo armi e perigli.
62
Deh! se pur senza me creder si denno
sì belle membra a sì dubbioso bosco,
fa, dolce anima mia, quant’io t’accenno,
campa di questi rei la rabbia e’l tosco,
ch’intelletto non han, mente né senno
da conoscere in te quelch’io conosco.
Non cura alcun di loro e non apprezza
gioventù, leggiadria, grazia o bellezza. –
63
Qual rosa oppressa da notturno gelo
o di pioggia brumale il crin diffusa,
sovra le spine del materno stelo
impallidisce languida e socchiusa,
ma, se zefiro torna o l’alba in cielo,
fuor del verde cappel sue gemme accusa
e con bocca odorata e purpurina
sorride al sole, al’aura ed ala brina,
64
tal parve apunto Adone, e men cruccioso
il ciglio serenò torbido e tristo,
onde folgoreggiar lampo amoroso
tra i nembi dele lagrime fu visto;
nel volto ancor, tra chiaro e nubiloso,
fè di riso e di pianto un dolce misto
e di duol vi dipinse e di diletto
confuso il core un indistinto affetto.
65
Ella il ribacia e perché già più rara
vede l’ombra del ciel farsi in levante,
levasi per uscir con l’alba a gara
tutta di vezzi languida e cascante.
Mentre ch’è l’aria ancor tra bruna e chiara
sorge e sorger fa seco il caro amante,
le Grazie appella, i dolci nodi rompe
e chiede da vestir l’usate pompe.
66
Giovinette attrattive e verginelle
son queste, ignude e’n sottil velo avolte,
sempre liete e ridenti e sempre belle,
sempre unite in amor né mai disciolte,
di pari età, di par beltà sorelle,
con palma a palma in caro groppo accolte,
somiglianti tra sé mostrano espresso
non diverso e non uno il volto istesso.
67
Dielle Eunomia ala luce e, già concette
del gran dio degli dei, nacquer divine.
Del’Acidalio, ancor che pure e nette,
lavansi ognor nel’acque cristalline.
E son tre sole al degno ufficio elette,
Talia la dotta, Aglaia ed Eufrosine,
bench’al numero lor poi Citerea
abbia ancor Pito aggiunta e Pasitea.
68
Un’altra anco di più, che’l pregio ha tolto
d’ogni rara eccellenza a tutte queste,
aggregata ven’è, non è già molto,
e sempre di sua man la spoglia e veste.
Celia s’appella e ben del ciel nel volto
porta la luce e la beltà celeste;
ed oltre ancor che come il cielo è bella,
ha l’armonia del ciel nela favella.
69
O con abito pur che rappresenti
ninfa selvaggia il suo pastore alletti,
o dolce esprima in amorosi accenti,
fatta donna civile, alti concetti,
o talor spieghi in tragici lamenti
reina illustre i suoi pietosi affetti,
co’ sospiri non men che con la laude
chi ne langue trafitto anco l’applaude.
70
Talia, ch’ha de’ teatri il sommo onore,
invida a costei cede il primo vanto,
onde veggendo pur la dea d’amore
che le Grazie di grazia avanza tanto,
non sol degna la fa del suo favore
fra l’altre tutte e del commercio santo,
ma per renderla intutto al cielo eguale
sempiterna l’ha fatta ed immortale.
71
Viene al suo cenno allor, sì come ha stile
quando avien che dal sonno ella si scioglia,
il drappelletto nobile e gentile
dela camera sacra entro la soglia.
Reca di bisso candido e sottile
orlata d’oro e profumata spoglia;
di questa bianca e dilicata tela
il non men bianco sen circonda e vela.
72
Gonna di seta e porpora contesta,
dele ninfe di Lidia opra e lavoro,
si stringe intorno in guisa di tempesta
seminata pertutto a rose d’oro.
Vesta ricca e real; ma non ha vesta
pari a tanta beltà l’arabo o il moro.
Degno fora a’ bei membri abito e velo
riccamato di stelle apena il cielo.
73
Sotto un’ombrosa ed odorata loggia
de’ suoi rami intessuta ella sedea,
a cui di rose in sen purpurea pioggia
scherzando ador ador l’aura scotea.
Ed a comporle in peregrina foggia
la chioma che disciolta le cadea,
tutte tre da tre lati accorte e belle
intorno l’assistean l’idalie ancelle.
74
L’una a destra le siede e con la destra
lucido speglio le sostiene ed erge;
l’altra lo sparso crin dala sinestra
di finissimo nettare consperge;
la terza poi con man scaltra e maestra
le scarmigliate fila ordina e terge
e dale spalle con eburneo dente
ara le vie del crespo oro lucente.
75
Al’aura il crin, ch’al’auro il pregio toglie,
si sparge e spande in mille giri avolto
e’l vel, ch’avaro in sua prigion l’accoglie,
fugge e licenzioso erra su’l volto.
Sestesso lega e poi sestesso scioglie,
ma legato non men lega che sciolto
e si gonfia e s’attorce e scherza e vola
per le guance serpente e per la gola.
76
Spesso ala fronte candida e serena
qual corona dintorno aurea risplende;
or fa degli orbi suoi rete e catena,
or i suoi lunghi tratti a terra stende;
talor diffuso in preziosa piena
quasi largo torrente al sen le scende
e par, mentre si versa in ricco nembo,
Giove che piova ala sua Danae in grembo.
77
Ma quei liberi error frena e comparte
l’ingegnosa ministra e lor dà legge.
Molti ne lascia abbandonati ad arte,
molti con morso d’or doma e corregge;
parte ne chiude in reticella e parte
per ordir groppi e cerchi ella n’elegge;
e qual di lor per emular l’aurora
di fiori ingemma e qual di gemme infiora;
78
e mentre solca con dentato rastro
per diritto intervallo i biondi crini
e dal sommo del candido alabastro
termina in spazio angusto i duo confini,
va tuttavia sovra leggiadro nastro
intrecciando gli stami eletti e fini,
dove con ami e calamistri accoglie
tremolanti cimier, piumaggi e foglie.
79
Le trecce alfin distingue e quella e questa
stringe in due masse eguali e poi l’aduna
e forma in cima dela bionda testa
con due corna superbe aurata luna.
Del vulgo de’ capei che’ntorno resta,
parte non lascia inordinata alcuna,
ma ne fabrica e tesse in mille modi
anella ed archi e labirinti e nodi.
80
Poiché perfette ognuna esser comprende
delo stranio lavor le meraviglie,
altra di rose a sovraporle intende
ghirlandette odorifere e vermiglie,
altra agli orecchi due lucenti appende
dele conche eritree cerulee figlie,
altra a l’eburnea gola affibbia in giro
con brocche d’oro un vezzo di zaffiro.
81
Sovra un letto di fior Venere assisa
il piombato cristal si tiene avante;
quel lampeggia a’ suoi lampi in quella guisa
che suol d’Endimion la bianca amante;
e mentre ivi per entro i lumi affisa
pur come in fino orienta! diamante,
fa de’ fregi del collo e del’orecchio
giudice l’occhio e consiglier lo specchio.
82
Ma de’ piropi il tremulo splendore
abbaglian del bel ciglio i dolci rai.
Può de’ rubini il folgorante ardore
ala bocca gentil cedere omai;
appo il candido dente il bel candore
dela doppia union perde d’assai;
e’l puro odor che nele spoglie è chiuso
da’ fiati soavissimi è confuso.
83
Or poich’ha tutt’in punto arnesi e vesti,
al bel viaggio indirizzando vassi
e nel’uscir co’ vaghi occhi celesti
innamora gli sterpi, infiamma i sassi.
Move i sembianti Amor, Lascivia i gesti,
Grazia le piante e Maestate i passi.
Così pian pian si parte e s’incamina
con Adon lagrimoso ala marina.
84
Apena giunta insu la verde riva
fa per invidia dileguar le stelle.
Cedon gli orrori a quella luce viva,
fuggon le nebbie e fuggon le procelle.
Il ciel sorrise e’l sol, ch’allora usciva,
si specchiò nele luci ardenti e belle;
onde parea con gemino splendore
che duo fussero i soli e due l’aurore.
85
Come l’augel che le sue spoglie inferme
dentro rogo odorifero consuma,
poiché’l risorto e giovinetto verme
ha rivestito di novella piuma,
prodigioso e redivivo germe
dì purpureo splendor l’Egitto alluma
e ritornando inver le patrie piaggie
lunga striscia d’augei dietro si tragge,
86
così dovunque il piede o l’occhio gira,
rendendo il suol fiorito, il ciel sereno,
mille Amori la dea seco si tira.
Qual sotto il lembo e qual le vola in seno
e l’aere ov’ella ride, ond’ella spira,
d’anime tutto amorosette è pieno,
ch’al vivo raggio ond’è più chiaro il giorno
sicom’atomi al sol scherzano intorno.
87
Scherzale intorno lascivetto e folle
in mille groppi un nuvolo d’Amori;
popolo ignudo, alata plebe e molle,
sagittari feroci e feritori.
Di palco in palco van, di colle in colle
altri cogliendo, altri versando fiori.
Parte l’oro pungente e’l piombo aguzza,
parte di vivo umor stille vi spruzza.
88
Qual di musico libro il grembo ha carco,
qual va con cetra e qual con arpa in braccio;
chi fere affronta e chi l’attende al varco,
chi fiamme accende e chi vi mesce il ghiaccio;
un scocca la saetta, un tende l’arco,
un tesse un nodo, un altro ordisce un laccio,
questi su l’ali stassi e quei leggiero
d’un cigno o d’un pavon si fa destriero.
89
Quegli l’affrena e questi il fren gli allenta,
l’un l’altro ingiuria, assale, urta e minaccia.
Questi il compagno importunando tenta
di trarlo a terra e quegli in fuga il caccia.
Altri mentre sestesso in alto aventa
ride cadendo, altri il caduto abbraccia.
Dele cadute lor l’atto è diverso,
chi boccon, chi supino e chi traverso.
90
Molti cercan ne’ faggi i nidi ascosi
dove stanno a covar le tortorelle;
molti ne’ tronchi degli allori ombrosi
fabrican case e gabbinetti e celle;
v’ha chi di vinchi e vimini viscosi
implica l’amenissime mortelle;
né manca chi gli augei caduti al visco
chiude in gabbie di giunco o di lentisco.
91
Altri intrecciate e’n lunga linea attorte
di molti archi ha le corde insieme avinte,
e poiché l’ha d’un elce a un ramo forte
sospese e l’armi d’or deposte e scinte,
quivi s’asside e più d’un suo consorte
agitando il va poi con mille spinte.
Si libra e vibra e mentre in aria sbalza
quasi in mobile culla or cala, or s’alza.
92
Alcun giocando con aurate poma
le bacia e gitta ala contraria banda;
altri con pari e vicendevol soma
pur baciando le prende e le rimanda.
Sciolta ciascun di lor porta la chioma,
a cui l’istesso crin scusa ghirlanda.
E le faretre e le quadrella loro
parte sono indorate e parte d’oro.
93
Arman la man di facellette ardenti
e spesso avien che l’un l’altro saetti;
ma senz’ira o dolor porgon ridenti
agli strali arrotati ignudi i petti.
Han qual d’ostro e qual d’or penne lucenti,
varie sicome apunto han gli augelletti.
Son vermiglie e cerulee e verdi e gialle
e d’altri più color fregian le spalle.
94
Figli son dele ninfe e son germani
d’Amor, d’eguale età, d’aspetto eguale.
Sa ciascun d’essi ancor ne’ petti umani
vibrar la face ed aventar lo strale;
ma fuorch’alme vulgari e cor villani
arder non suole e saettar non vale.
Solo il principe lor sdegna trofei
di cor selvaggi e d’animi plebei.
95
– Chi fia di voi, vaghi fanciulli e fidi,
che trovar sappia ove Tritone alberga?
e prestamente a me l’adduca e guidi
perché quinci mi porti insu le terga?
Ite a cercarne i più riposti lidi,
o che per l’acque egee forse s’immerga
o che tonar con la sonora conca
faccia del mar di Libia ogni spelonca.
96
Premio fia degno a sì leggiadra impresa
nobil faretra a nobil arco aggiunta.
Eccola là, sovra quel mirto appesa,
di perle tutta e di rubin trapunta,
di canne armata a cui non val difesa,
canne guernite di dorata punta.
D’indico avorio e d’arabo lavoro
orli ha d’or, fibbie d’oro e lacci d’oro. –
97
Come al fischiar del comito supremo,
quando ala ciurma incatenata accenna
salpar il ferro ed afferrare il remo,
stender la vela e sollevar l’antenna,
vedesi il legno che con sforzo estremo
tosto l’ali per l’acque al volo impenna;
freme l’onda percossa, il lito stride,
mentre a voga arrancata il mar divide,
98
così tosto che sciolse in note tali
Vener la lingua, i faretrati augelli
chi di qua, chi di là, battendo l’ali,
si divisero aprova in più drappelli;
e sparsi intorno per gli ondosi sali,
questi confini investigando e quelli,
tutte del mar, quasi corrieri e spie,
ingombraro, esplorar l’umide vie.
99
Per lo Carpazio mar Triton la traccia
di Cimotoe ritrosa allor seguiva.
Spesso la tocca il fier, spesso l’abbraccia
e si strugge tra l’acque in fiamma viva.
Ella l’orrenda e spaventosa faccia
del’ingordo seguace abborre e schiva
e timidetta co’ capegli sparsi
va tra l’alghe più dense ad appiattarsi.
100
Fugge la ninfa e d’or in or le sembra
che l’osceno amator le giunga sopra.
La nudità dele cerulee membra
cerca di scoglio in scoglio ove ricopra.
Ei che l’alta beltà fra sé rimembra,
sott’acqua a nuoto ogni suo studio adopra,
e con lubrico guizzo il molle argento
frange e rincrespa, ala gran preda intento.
101
– O (disse Amor) per entro i guadi algosi
non han potuto e sotto il mar profondo
a me tenersi i vostri furti ascosi,
a me, che so quanto si fa nel mondo.
Vienne ed appresta gli omeri scagliosi
dela dea nostra a sostenere il pondo.
Né vil fia la mercé di tua fatica:
Cimotoe avrai di ribellante amica. –
102
Fuor del gorgo prorompe e in alto ascende
il semipesce allor torvo e difforme.
In stranio innesto si commette e rende
la pistrice con l’uom misto biforme.
Vela d’ondoso crin le braccia e stende
con doppio corso biforcate l’orme.
Tre volte il petto move e lieve e ratto,
giunge in Cipro nuotando al quarto tratto.
103
Mentre il mostro squamoso approda al lido
col vago stuol de’ pargoletti alati,
ecco si volge pur la dea di Gnido
sospirosetta ai dolci lumi amati
e prende alfin dal caro amante fido
gli ultimi baci e gli ultimi commiati.
– Core a dio, vita a dio (l’un l’altro dice)
tu vanne in pace; e tu riman felice. –
104
Giace senz’onda il mar tranquillo in calma,
brilla l’aria pacifica e serena,
onde Triton sestesso al corso spalma
dala fiorita e fortunata arena;
ed a sì dolce e dilettosa salma
sottopon volentier l’ispida schiena,
perché de’ suoi sospiri in tal maniera
coglier, solcando il flutto, il frutto spera.
105
Quasi ombrella la coda in alto inarca
la marittima belva ambiziosa.
Squallido il tergo ove si preme e carca
ha di murice viva e fresca rosa.
Così Ciprigna il mar naviga e varca
quasi in morbido letto o in grotta ombrosa,
scorre i piani volubili a seconda
e col candido piè deliba l’onda.
106
Già s’ingorga per l’alto e già la diva
quanto perde del suol, del’onda acquista.
Ma, qual cerva ferita e fuggitiva,
indietro ador ador gira la vista,
né dal’amata e sospirata riva
torce il guardo giamai pensosa e trista.
Vorria, né sa qual gelo il cor le tocchi,
come vi lascia il cor, lasciarvi gli occhi.
107
De’ promessi imenei lieto e gioioso
e del’incarco suo Tritone altero,
non fende già del pelago spumoso
per dritto solco il liquido sentiero,
ma va con giri obliqui il campo ondoso
attraversando rapido e leggiero,
rapido sì, che suol con minor fretta
sdrucciolar saettia, volar saetta.
108
Arridon tutti al trapassar di lei
de’ regni ondosi i cittadini algenti.
Alcun non è de’ freddi umidi dei
che non senta d’amor faville ardenti.
Rinovella Alcion gli antichi omei,
ardon l’alghe, ardon l’aure, ardono i venti.
Umili i flutti e mansuete l’acque
riconoscon la dea che da lor nacque.
109
Sorge dal fondo cupo e cristallino
cantando a salutarla ogni sirena.
Ciascuna ninfa e ciascun dio marino
alcun mostro del mar preme ed affrena;
cavalca altri di lor curvo delfino,
altri lubrica conca in giro mena;
e tutti fan da quella parte e questa
a sì gran passaggiera applauso e festa.
110
Nice, una tigre, orribil mostro e sozzo,
terror del’ocean, con alga imbriglia;
Ligia, un montone il cui feroce cozzo
le navi e i naviganti urta e scompiglia;
tien di verde giovenco avinto il gozzo
con molle giunco Panopea vermiglia;
Leucotoe bianca, con rosato morso
di cerulea leonza attiensi al dorso.
111
Regge Temisto a fren pigra lumaca,
Cidippe un ceto con le fauci aperte.
Nele latebre d’una grotta opaca
margarite e zaffir coglie Nemerte
ed a quel sol che’l mar tranquilla e placa
ne fa votive e tributarie offerte.
Corrono in un drappel dal’onda eoa
Ippo, Euanne, Calipso, Acasta e Toa.
112
Sparge le chiome ai zefiri Anfitrite
di ciottoli consparse e di coralli;
con le piante d’argento Egle e Melite
fendon spumanti i mobili cristalli;
Aci con Galatea varie partite
mena di vaghi e leggiadretti balli;
e seco le nereidi e le napee
vanno e cent’altre ninfe e cento dee.
113
Essaco Esperia va cercando a nuoto
per le pianure liquide e tranquille;
Aretusa ed Alfeo, Prinno e Licoto
spruzzan le nubi di lucenti stille;
Climene e Spio, Cimodoce con Proto,
Leucippe e Deiopea con altre mille
del gran rettor del mar compagne e serve
cantan gli amori lor, nude caterve.
114
Nettuno fuor del cavernoso claustro
con Venilia e Salacia e Dori e Teti,
gaiamente rotando il nero plaustro
sovra quattro delfin lascivi e lieti,
dà bando a borea, impon silenzio ad austro,
fa che placido i moti il flutto acqueti.
Di verde muschio e d’argentate brine
molle ha la barba e rugiadoso il crine.
115
Non men come reina e come dea
la sua bella consorte ha soglio e scettro.
Da duo pescidestrier conca eritrea
tirata inalza un bel sedil d’elettro;
quivi anch’ella al passar di Citerea
canta le fiamme sue con aureo plettro;
tingon le pure guance ostri lucenti,
son coralli le labra e perle i denti.
116
L’abito suo, che come il mare ondeggia,
di scintille d’argento un lume alluma;
bianco, ma’l bianco imbruna, il brun biancheggia,
talch’imita al color l’onda e la spuma.
Sovra l’algosa chioma le lampeggia
di brilli adamantini estrania piuma
e treccia a treccia in bei volumi attorta,
quasi groppo di bisce, in testa porta.
117
Incorona di gemme alto diadema
la fronte trasparente e cristallina,
a cui nel mezzo balenando trema
più che stella di ciel, stella marina.
Pende in duo globi dala parte estrema
d’ambe l’orecchie gemina turchina,
ed al collo, ale braccia in doppi giri
fan monili e maniglie ambre e zaffiri.
118
Segue Forba con Forco; e Nereo il primo
che’ntreccia il bianco crin di verdi erbette,
per farle onor dal fondo oscuro ed imo
raguna ostriche fresche e perle elette;
Melicerta il fanciul tra l’alga e’l limo
bacche e viole tenere framette;
Ino l’abbraccia e mormorando insieme
Palemon con Portun rauco ne freme.
119
Chi giù s’attuffa e chi risorge a galla,
chi balza in aria e chi nel mar si corca;
altri portato è da una foca in spalla,
altri da una pistrice, altri da un’orca;
qual sovra un bue marin trescando balla,
qual su le terga d’una orribil porca;
questi da un nicchio concavo è condotto
e quegli immane una balena ha sotto.
120
Ed ecco insu quel punto uscir di fianco
Proteo, del ciel del’acque umido nume,
Proteo, che’l gregge suo canuto e bianco
menar ai salsi paschi ha per costume,
Proteo, saggio indovin che talor anco
si cangia in sterpo, in sasso, in fonte, in fiume,
talor prende d’augel mentito volto,
talor sen fugge in fiamma o in aura sciolto.
121
Or con l’armento mansueto e vago
pasce giovenco la materna mamma;
or salta orso brancuto, or serpe drago,
segnato il tergo di sanguigna squamma;
or veste di leon superba imago,
armando gli occhi di terribil fiamma;
or vien tigre, or cinghiale, or per le rupi
latra fra’ cani ed ulula fra’ lupi.
122
Questi qualor la notte il mondo adombra,
mentre il vento riposa e l’onda e’l pesce,
i solchi azzurri con sue schiere ingombra
e i procellosi campi agita e mesce.
Ma tosto ch’a fugar l’orrore e l’ombra
di grembo a Teti, il sol si leva ed esce,
cercar, fuggendo il caldo, ha per usanza
in opaca spelonca ombrosa stanza.
123
Or la nova beltà ch’al sol fea scorno
da’ cavi scogli a viva forza il trasse,
siché senza temer la luce e’l giorno
s’alzò dal’acque più profonde e basse
e, tre volte girato il carro intorno,
a Tritone accennò che si fermasse.
Stetter taciti i venti e l’onde immote
mentr’ei sciolse la lingua in queste note:
124
– O dea prole del mar, misera, e dove
malguidato pensier ti guida e mena?
Deh, qual vaghezza o qual follia ti move
a cercar altro lido ed altra arena?
O quanto meglio volgeresti altrove
il camin che t’adduce a nova pena!
Tu dal bell’idol tuo lunge ne vai
e di sua vita il termine non sai.
125
De’ giuochi citerei vai spettatrice
dove accolta sarai con festa e canto,
ma tragedia funesta ed infelice
volgerà tosto ogni tua gioia in pianto.
Offrir vedrai, come il destin mi dice,
vittime elette al tuo gran nume santo;
ma vedrai poscia un sacrificio infausto
di chi ti fè del’anima olocausto.
126
Minaccia al bell’Adon mortal periglio
fero ciel, cruda stella, iniquo fato;
né molto andrà che’l sol del suo bel ciglio
fia d’eterna caligine velato;
e di quel volto candido e vermiglio
languirà secco l’un e l’altro prato;
giacerà sparsa al suol la chioma bionda,
di sangue e polve orribilmente immonda.
127
Già veder che l’assaglia e che l’uccida
il mostro formidabile m’aviso.
Da sacrilego dente ed omicida
veggiogli il corpo rotto, il fianco inciso.
Odo già le querele, odo le strida,
veggio squarciato il tuo bel crine e’l viso.
Il veggio o bella; al vaticinio credi,
se non ami il tuo danno, indietro riedi. –
128
Antivedendo il suo vicin tormento,
Proteo con questo dir Ciprigna assalse.
Ella ascoltollo, ancorché l’onda e’l vento
fer che’l tutto distinto udir non valse.
Egli il ceruleo suo spumoso armento
sferzato allor per le campagne salse,
doglioso in atto sospirando tacque
e lievemente s’attuffò nel’acque.
129
Restò d’alto stupor pallida e muta
e per le vene un freddo gel le corse,
Venere bella, e con puntura acuta
tarlo di novo dubbio il cor le morse;
onde tra’ suoi sospetti irrisoluta
fu d’indietro tornar più volte in forse,
dal timor, dal dolor confusa tanto
che non sapea senon disfarsi in pianto.
130
Il gran tenor dele parole intese
fu saetta mortal che la trafisse,
talché Triton ben vide e ben comprese
la cagion di quel duol che sì l’afflisse.
Quindi il corso tra via lento sospese
e’n pietos’atto a lei si volse e disse:
– Deh! qual cura noiosa or la tua luce
conturba sì ch’a lagrimar t’induce?
131
A quella smorta e lagrimosa faccia,
al sol di que’ begli occhi or fatto oscuro,
chiaro ben m’avegg’io quanto ti spiaccia
l’alto presagio del gran mal futuro,
ch’orribil morte al bell’Adon minaccia
pria che sia de’ verd’anni il fior maturo.
Ma per cose giamai gioconde o meste
alterar non si deve alma celeste.
132
Del sovrano motor l’amata prole,
di quanto amor governa alta reina,
che non farà? che non potrà, se vole?
qual legge astringer può forza divina?
Facile, o dea, ti fia s’al tuo bel sole
perpetua notte empio destin destina,
con quell’impero che lassù t’è dato,
vincer natura ed ingannare il fato.
133
Spesso per grazia al’uomo il ciel concede
le sue tempre eternar caduche e frali.
Arianna non conto e Ganimede
ch’al’alte deità son fatti eguali
e per Bacco e per Giove ancor si vede
che tra le stelle vivono immortali.
L’essempio più vicin solo ti mostro
d’un noto cittadin del regno nostro.
134
Glauco che da Nettuno infra lo stuolo
ascritto fu dela marina classe,
pria ch’entrando nel mar, lasciando il suolo,
fatto scaglioso dio forma cangiasse,
era vil pescatore, avezzo solo
ale reti, ale canne ed ale nasse.
Ma per somma ventura ottenne in sorte,
benché mortal, di superar la morte.
135
Sovra la spiaggia un dì del mar beoto,
vestito ancor dela terrena spoglia,
d’un’erba estrana e di vigore ignoto
colse e gustò miracolosa foglia,
e nascersi nel cor di girne a nuoto
di subito sentì pensiero e voglia
e’ntutto uscito del’umana usanza
altra natura prese, altra sembianza;
136
mutò figura, il corpo si coperse
tutto di conche e divenn’alga il crine
ed apena in tal guisa ei si converse
che saltò dale sponde al mar vicine;
e poich’entro le viscere s’immerse
dele vaste e profonde acque marine,
purgato il velo uman da cento fiumi
s’assise a mensa alfin con gli altri numi.
137
Or il pianger che val? perché le ciglia
non volgi omai di torbide in serene?
Ben lice a te, che del gran dio sei figlia,
da cui felice ogni influenzia viene,
con simil privilegio e meraviglia
sottraendo al gran rischio anco il tuo bene,
operar quel che fu talor concesso
nonch’al divin favore, al caso istesso.
138
Seben la falce ria troncar la vita
disegna inbreve al giovinetto acerba,
dal debito commun puoi con l’aita
francarlo tu di quella incognit’erba;
e torcendo al suo fil linea infinita
malgrado dela parca empia e superba
farlo passar, pria ch’ella abbia a ferire,
al’immortalità senza morire. –
139
La dea que’ detti ascolta e non risponde,
ma tace alquanto e sta tra sé pensosa.
Pensando va come aver possa e donde
quella mirabil erba aventurosa,
dentro le cui bennate e sacre fronde
vive virtù sì singolare ascosa,
ché ritrovar non sa via più spedita
d’assecurar la vita ala sua vita.
140
Rotto alfine il silenzio, ella gli chiede
in qual parte abbia Glauco il suo soggiorno
e, se volendo ir a cercarlo ei crede,
di poterla condurre e far ritorno
tanto che possa poi, quand’egli riede,
a Citera arrivar l’istesso giorno,
perché convien che per la via men lunga
quella sera medesma ella vi giunga.
141
– Benché per tutto il mar (soggiunse allora
il trombetta del’onde) abbia ricetto,
suol più ch’altrove in Ponto ei far dimora
e per questa cagion pontico è detto.
Ma se fia d’uopo, andar potrenvi ancora,
e volar per quest’acque io ti prometto.
S’avesse ancor nel’ocean l’albergo,
nel’ocean ti porterei su’l tergo.
142
Purché tu, da cui sol la piaga mia
può salute sperar, mi prema il dorso,
purch’affrenato e governato io sia
da sì soave e sì felice morso,
oggi sfidar per la cerulea via
i destrieri del sole ardisco al corso
e vo’ del sol più presto e più leggiero
circondar dela terra il cerchio intero. –
143
Tace e rade pria Rodo, isola dove
di Ciprigna e del Sol la figlia nacque,
e’n cui la saggia dea nata di Giove
i primi altari aver già si compiacque,
onde colui che l’universo move,
oro in grembo le sparse in vece d’acque;
ricca del gran colosso, immensa mole,
simulacro del sol ch’offusca il sole.
144
Quindi a Carpato passa e passa a Creta
che per gran tratto entro’l suo mar si sporge
e di cento città pomposa e lieta
e del bosco di Giove altera sorge
e’l labirinto, onde l’uscir si vieta,
per infamia famoso, entro vi scorge
e’l monte Ideo che’l dittamo conserva,
fido refugio ala trafitta cerva.
145
Ad Egla poi, che fu poi detta Sime
dala figlia d’Ialiso, ne viene.
E Telo incontra che le glorie prime
de’ fini unguenti dala fama ottiene.
Dele Calinne le frondose cime,
d’Astipalea le pescarecce arene
varca e pur degli amori amato nido,
di duo porti superba, addita Gnido.
146
Scopre Nisiro al cui pesante sasso
Polibote soggiace e poscia vede
l’alto muro e’l castel d’Alicarnasso
de’ principi di Caria eccelsa sede,
e’l mausoleo che’n quel medesmo passo
dela fè d’Artemisia altrui fa fede,
e non lontano Salmace che’n doppia
forma duo sessi, osceno fonte, accoppia.
147
Indi gli appar la dilettosa Coo,
per Ippocrate chiara e per Apelle,
onde di stame e di lavoro eoo
vengon le vesti preziose e belle;
e’ngolfandosi apien nel mar Mirtoo,
terre discerne e region novelle
e senza intoppo alcun trascorre Claro,
Patmo e Leria in un punto, Amorgo e Paro.
148
Vie più lieve ch’augello o che baleno,
tosto di Delo al sacro lido arriva;
vede d’Ortigia, ove sgravata il seno
posò Latona, la felice oliva;
Nasso da bacche tempestata e Teno
costeggia e di Micon tocca la riva:
quella i figli di Borea in grembo chiude,
questa de’ suoi giganti ha l’ossa ignude.
149
Del vago corso al’impeto fugace
forze raddoppia e Siro attigne e Rena:
l’una a morbo mortal mai non soggiace,
l’altra di busti e di sepolcri è piena.
Visita Citno d’ogni fior ferace
e Sifno che ferace è d’ogni vena
e fin presso a Serifo allarga il giro,
dove le rane garrule ammutiro.
150
I verdi dumi poi scorge di Cea,
ricca d’armenti e fertile isoletta;
né tarda l’altra a discoprir ch’Eubea
dala prole d’Asopo ancora è detta.
Caristo a man a man che l’onda egea
vagheggia intorno a trapassar s’affretta,
ai cui bei marmi il frigio e l’africano
e Paro istessa si pareggia invano.
151
Scorre a Giaro, ov’han gli essuli il bando
e’n cui de’ topi la vorace fame
rode l’acciar, de’ Cafarei lasciando
lontano alquanto il promontorio infame.
Volgesi ad Andro e vien forte vibrando
l’umide penne del’azzurre squame
e fa l’estremo del suo sforzo tutto
per superare il capriccioso flutto.
152
Fa senza indugio a Doliche tragitto,
dico di Prannio ala vinosa valle,
e dovunque la via taglia per dritto
vedi di spuma innargentarsi il calle;
eccol già dove cadde Icaro afflitto,
ecco che Samo ha già dopo le spalle,
Efeso già si mostra e già comparso
il bel tempio s’ammira, ancor non arso.
153
Sorge incontro ad Arvisia e vede Chio
di generosi pampini feconda,
e Lesbo, che gli accenti estremi udio
dela fredda d’Orfeo lingua, circonda,
e di Tenedo, sacra al biondo Dio,
prende e poi lascia la malfida sponda
che l’oste greca ascose entro il suo porto
per far a Troia sua l’ultimo torto.
154
Trattien la bella dea su le ruine
d’Ilio le luci alquanto intente e fise
e sospirando del gran regno il fine
piagne gli errori del suo già caro Anchise.
Ma quando mira poi l’acque vicine
di Simoe ove il bel parto in terra mise
da cui dee propagarsi il suo legnaggio,
acqueta il duolo e seguita il viaggio.
155
Tant’oltre il nuoto suo spedito e pronto
stende Tritone e tanto innanzi passa
che, nonché del’Egeo, del’Ellesponto
il vastissimo sen dietro dietro si lassa;
e già l’altero corno, onde col Ponto
cozza la Tracia, ad incontrar s’abbassa
e dele Cianee sprezza gli orgogli,
sassi guerrieri ed animati scogli.
156
Sbocca alfin nel’Eusin, ch’ai raggi vivi
fiammeggia dela dea del terzo lume.
Ed ella, pria ch’ala magione arrivi,
chiede novelle del ceruleo nume.
Ma da molte nereidi ode che quivi,
benché d’usar sovente abbia costume,
son molti di che più non vi soggiorna
e rade volte ad abitar vi torna;
157
e la cagion che’l tragge e l’allontana
dal patrio loco, è la beltà di Scilla,
Scilla orgogliosa vergine sicana
per cui tra l’acque gelide sfavilla.
Ei, daché la privò d’effigie umana
magica forza e in mostro convertilla,
là dove il faro in gran tempeste ondeggia
la visita ogni giorno e la corteggia.
158
Sinistro augurio allor Venere prende
che sia la speme al suo pensier precisa.
Ma di trovarlo un tal desir l’accende
che risolve d’andarvi in ogni guisa.
Tritone intanto che’l disegno intende
di lei che tien su l’ampia groppa assisa,
volgesi indietro e si raggira e guizza
e ratto inver Sicilia il camin drizza.
159
La coda ch’egli in vece usa di briglia
move il destrier del mare e’l mar ne sona
e’n poche ore a fornir vien molte miglia
sì l’amoroso stimulo lo sprona.
L’alto sentier del Bosforo ripiglia
e del’immenso Eusin l’acque abbandona
e rivede Bizanzio e non lontano
il Calcedone lascia a manca mano.
160
Corre verso Posidio e già sornuota
la Bitinia e la Misia e già travalca
la Propontide tutta e scherza e rota
con stupor dela dea che lo cavalca.
Di Cizico e di Lampsaco, devota
al suo sozzo figliuol, la spiaggia calca
e di novo ripassa il varco infido
d’Elle che pianger fè Sesto ed Abido.
161
L’Egeo succede, entro il cui flutto insano
Taso, ch’ha di fin or vene feconde,
e Lenno vede ove mantien Vulcano
officina di foco in mezzo al’onde
e Sciro ancor, ch’al greco astuto invano
tra sue false latebre Achille asconde
e là dove colui che chiara tromba
e del’uno e del’altro ha poi la tomba.
162
Lasciasi a tergo Pagase ed Iolco
e Pelio, onde materia ebbe il lavoro
del primo legno, che condusse a Colco
Argo rapace dela spoglia d’oro,
quando seppe Giason, traendo al solco
fertile d’armi l’indomabil toro
ed appannando al fier dragon le ciglia,
d’Ete incantar l’incantatrice figlia.
163
Qui negli angusti guadi entra del mare
che dal’Abante separa il Beoto;
Opunte in prima e Tebe indi gli appare,
dove i sassi dal canto ebbero il moto,
ed Aulide ov’i Greci insu l’altare
l’alta congiura confermar col voto;
e col rapido Euripo oltre sen fugge
al Sunio estremo ove’l mar latra e mugge.
164
Su la destra poi torna inverso Atene
e d’Eaco ala gran reggia appresso giunge,
siché può di Corinto appo l’arene
l’istmo veder ch’i duo confin congiunge.
Spingesi ad Epidauro ed a Trezene
e Scilleo lascia e lascia Argo da lunge;
e quindi di Malea corre veloce
a declinar la perigliosa foce.
165
E lungo il mar lacon per le remote
spelonche onde non senza alto spavento
da Tenaro a Pluton passar si pote,
a Messenia si cala in un momento
e si scaglia di là fino ale Plote
che da’ duo figli del più freddo vento
quando seguir le tre sorelle rie
ebber il nome dele sozze arpie.
166
Di Zacinto al bel margine s’accosta
che’n spessi boschi in mezzo al’onda è steso,
né molto da Melena si discosta
che da Cefalo poscia il nome ha preso.
D’Itaca schiva la sassosa costa,
picciolo scoglio e sterile e scosceso,
ma per Ulisse suo chiaro riluce:
così sola virtù gloria produce.
167
Resta Dulichio indietro e’ndietro resta
dela famosa Elea la piaggia bella,
ch’ai destrier vincitor la palma appresta
onde il lustro e poi l’anno Olimpia appella.
Indi per colà dove aspra tempesta
le rive ognor di Lepanto flagella
striscia, serpe, volteggia e nel ritorno
l’isole degli Echini aggira intorno.
168
Passando per l’Echinadi la dea
a quel tragico mar rivolse il ciglio
che del sangue latin prima devea
e del barbaro poi farsi vermiglio.
– O sacre al crudo Marte acque (dicea)
quant’ira, quant’orror, quanto scompiglio,
quai l’Europa da voi, quai l’Asia attende
sciagure e mali in due battaglie orrende?
169
Di due pugne famose e memorande
sarai campo fatal, piaggia funesta.
Per l’una, celebrar Roma la grande
deve al suo vincitor trionfo e festa.
Per l’altra alte ruine e miserande
Bizanzio piangerà misera e mesta,
e per questa e per quella in mille lustri
Leucate fia ch’eterno grido illustri.
170
Questo, e sarà pur ver, ceruleo flutto
che diè nel mio natal culla al gran parto
sepolcro diverrà sanguigno e brutto
del vinto egizzio e del fugace parto.
D’alghe invece e di pesci avrà pertutto
di cadaveri immondi il grembo sparto
e tutta coprirà l’onda crudele
di rotte antenne e di squarciate vele.
171
Piango i tuoi casi, Antonio, e duolmi forte
che t’appresti Fortuna oltraggio e danno
poiché quei che t’induce a sì rea sorte
è pur l’autor del mio mortale affanno.
Ma chi potrà senon tormento e morte
sperar giamai dal perfido tiranno,
se’n più misero stato ed infelice
condanna anco a languir la genitrice?
172
Tu dal’armi di Cesare sconfitto
fuggi del Nilo ale dilette arene,
ma dala strage del naval conflitto
la bella fiamma tua teco ne viene.
Io, da quelle d’Amore il cor trafitto
porto e partendo, oimé, lascio il mio bene,
né so se per destino unqua mi tocchi
che l’abbian più da riveder quest’occhi.
173
L’altro esterminio onde di por s’aspetta
al turchesco furor morso e ritegno,
fia d’ingiuria immortal poca vendetta
contro il distruggitor del mio bel regno.
No no, fuggir non puoi malvagia setta
il castigo del ciel ben giusto e degno
d’aver guasti ad Amor gli orti suoi cari
e cangiate in meschite i nostri altari.
174
Vedrò pur la tua luna, empio idolatra,
nemico al sommo sol, mastin feroce,
pallida, fredda, sanguinosa ed atra
romper le corna in questa istessa foce.
Fremi, furia, minaccia, arrabbia e latra
contro l’invitta e trionfante croce;
vedrò con ogni tua squadra perversa
l’armata babilonica dispersa
175
grazie al valor del giovinetto ibero,
difensor del’Italia e dela fede,
che del corsar per molte palme altero
fiaccherà i legni e spoglierà di prede,
spaventerà l’orientale impero,
farà di Costantin tremar la sede,
lasciando, Arabi e Sciti, i busti vostri
scherzo del’onde e pascolo de’ mostri. –
176
Qui tace, indi di perle inumidito
col vel s’asciuga de’ begli occhi il raggio
ché le sovien che’n quel medesmo lito
avrà l’essequie il maggior dio selvaggio
quando, arrestando a mezza notte udito
de’ naviganti stupidi il viaggio,
farà lunge sonar gli Acrocerauni
l’ululato de’ satiri e de’ fauni.
177
Mentre Venere bella in flebil atto
del doloroso umor terge la guancia,
Tritone Azzio trascorre e da Naupatto
verso gli orti d’Alcinoo oltre si lancia.
Soffia e sbuffa anelando e per gran tratto
s’apre la via con la scagliosa pancia;
e tanto allarga le robuste braccia
ch’entro l’ionio sen tutto si caccia,
178
e dagli estremi termini d’Epiro
di Iapigia il confine ultimo afferra
scorrendo in lungo e spazioso giro
tutto il gran lembo che l’Italia serra,
fino a quel braccio da cui già partiro
l’onde crucciose la feconda terra,
quando con fier divorzio a forza spinta
restò da Reggio l’isola distinta.
179
Giunta in Trinacria alfin Ciprigna bella
di Peloro e di Zancle ala costiera,
colà dove la misera donzella
presa avea forma di rabbiosa fera,
Glauco cercando in questa riva e’n quella,
s’accorse in somma pur ch’egli non v’era;
e le compagne poi di Galatea
per certo ancor n’assecurar la dea.
180
– È ver (dicean) che da che Circe in scoglio
mutata a questa ninfa ha la figura,
spesso a narrar ne viene il suo cordoglio
al’aspra selce che di lui non cura;
ma perché colma d’ostinato orgoglio
più tra l’onde de’ pianti ognor s’indura,
per medicar quell’amorosa piaga
ito è pur dianzi a ritrovar la maga.
181
Nela costa del Lazio ov’ella stassi,
l’innamorato e desperato dio
molto non ha, con frettolosi passi
quinci a pregarla supplice sen gio,
o ch’almen per virtù d’erbe e di sassi
gli faccia il proprio mal porre in oblio,
o che, tornata ala sembianza antica,
render la voglia a’ suoi desiri amica. –
182
D’aver tanto travaglio invan perduto
ala madre d’Amor forte rincrebbe
e del fiero pronostico temuto
l’infausto auspicio in lei sospetto accrebbe,
ma temendo che troppo oltre il devuto
tardi tornata a suo camin sarebbe,
per ritrovarsi ala gran festa a tempo
differì quell’affare a miglior tempo.
183
Impon che’l corso il più che può spedito
volga a Citera al corridor guizzante,
ch’essendo posta insu l’estremo sito
del paese di Pelope a levante,
dal tempestoso e periglioso lito
di Sicilia non è molto distante.
Quegli ubbidisce e’n breve ecco ch’alfine
del bel loco le spiagge ha pur vicine.
184
Seben non pensò mai la dea d’Amore
di far per tante vie camin sì torto,
loda del mostro il dilettoso errore
poiché in men che non crede è giunta in porto
e con tanto paese in sì poche ore
l’arcipelago tutto ha scorso e scorto;
le Cicladi, le Sporadi e le rive
pelasghe, eolie ed attiche ed argive.
185
Per attuffarsi già nela marina
l’auriga intanto lucido di Delo
precipitoso i corridori inchina
co’ morsi al’acqua e con le groppe al cielo.
Vede stillar dal crin pioggia di brina,
dale nari sbuffar nebbia di gelo,
ma veder del bel carro altri non pote
più che l’estremità del’auree rote.
186
In quell’ora ch’apunto avea Giunone
dele faci notturne il lume acceso,
venne in Citera a disgravar Tritone
il curvo dorso del suo nobil peso.
E poiché dela coda il padiglione
stanco in lunghi volumi ebbe disteso,
con verde giunco insu l’algose piume
sen gio del petto ad asciugar le spume.
LA MORTE

ALLEGORIA

Nella congiura di Marte e di Diana contro Adone si dà a conoscere che tanto l’animo bellicoso quanto il casto sogliono odiare il brutto piacere; l’uno come occupato nelle asprezze della milizia, intutto contraria alle morbidezze dell’ozio, per sua generosità lo sdegna; l’altro per propria virtù è inclinato ad aborrire tutte quelle licenze che trappassano i confini della modestia. Nella morte d’Adone ucciso dal cinghiale si fa intendere che quella istessa sensualità brutina di cui l’uomo seguita la traccia è cagione della sua perdizione. Nel pianto di Venere sopra il morto giovane si figura che un diletto lascivo amato con ismoderamento, alla fine mancando, non lascia se non dolore. Nella scusa che fa il porco con la dea, si dinota la forza della bellezza, che può alle volte commovere gli animi eziandio ferini e bestiali. Nel tradimento d’Aurilla, che pentita finalmente si uccide ed è da Bacco trasformata in aura, si disegnano gli effetti dell’ira, dell’avarizia, della ebrietà e della leggerezza.

ARGOMENTO

Spinta da Falsirena Aurilla infida
dà del rival di Marte a Marte aviso;
poiché dal fier cinghiale il vede ucciso
il gran dolor fa che sestessa uccida.

1
Son due fiaccole ardenti Amore e Sdegno
che’nfiamman l’alme di penosa arsura;
stanno nel core e turbano l’ingegno,
né da lor la Ragion vive secura.
Son d’egual forza ed emuli nel regno,
ma contrari d’effetto e di natura:
l’uno è dolce trastullo e dolce affetto,
l’altro produce solo odio e dispetto.
2
Quando talor questi aversari fieri
pugnan tra lor, l’uom ne languisce e geme
e’l cor, ch’è picciol campo a duo guerrieri
e seggio angusto a duo signori insieme,
da conflitto mortal, d’aspri pensieri
combattuto delpar, sospira e freme.
Quinci fervida schiuma e quindi intanto
versa doglioso ed angoscioso pianto.
3
L’anima afflitta in sì crudel battaglia
mentre a prova con quel questo contende,
sicome libra le cui lance agguaglia
doppio peso conforme, in dubbio pende;
ed al gemino spron che la travaglia
or di desire, or di furor s’accende;
quando di là, quando di quà la gira
alternamente o l’appetito o l’ira.
4
Nela guerra però che quella e questa
passion discordante a gara fanno,
vincitor le più volte alfin ne resta
e ne trionfa il lusinghier tiranno
che’l gran competitor preme e calpesta,
onde la rabbia poi diventa affanno,
e là dove pur dianzi era reina
serve di cote ov’ei gli strali affina.
5
Sovente, allor che di quant’egli brama
il fin di conseguir non gli è permesso
dal’amata beltà che nol riama,
suol congiurar col suo nemico istesso.
Amor lo Sdegno in suo soccorso chiama
ch’ala vendetta inun s’arma con esso.
Quel disprezzo lo stimula e l’irrita
a congiungersi seco e dargli aita.
6
Ma s’avien che, dal’Ira a terra spinto,
Amor caggia dal trono ov’egli siede,
poiché pur una volta ella l’ha vinto
e debellato ed abbattuto il vede,
qual servo il tien sott’aspro giogo avinto,
né sorger né regnar più gli concede;
anzi lo sforza con superbo impero
a disamar quelch’egli amò primiero.
7
Di queste due facelle il core accesa
Falsirena la falsa incantatrice,
tutta del bell’Adone ai danni intesa
sembra stolta baccante o furia ultrice.
Il modo sol da vendicar l’offesa
pensa e come dar morte al’infelice;
e secondo il Furor che la consiglia
or questo or quel parer lascia e ripiglia.
8
Non cotanti color cangia la piuma
che’ngemma ala colomba il collo intorno
quando mostra a colui che il mondo alluma
il suo bel vezzo in varie guise adorno,
quanti la passion che la consuma
và mutando pensier la notte e’l giorno.
Alfine i dubbi onde la mente involve
in un partito perfido risolve.
9
– S’amor (seco dicea) non può giovarmi,
se lusinga, promessa, oro non giova,
se de’ tremendi miei magici carmi
vana riesce ogn’infallibil prova,
se non vaglion le forze, i ferri e l’armi,
s’altro rimedio un tanto mal non trova,
a far almeno il mio desir contento
varrà forse l’inganno e’l tradimento. –
10
Aurilla era una ninfa ancella antica
dela diva di Cipro e di Citera,
bella ma poco saggia e men pudica,
avara alquanto e garrula e leggiera.
Era costei di Bacco amata amica
più ch’altra allor del’amorosa schiera.
Conosciuta costei mobile e vaga,
volse il suo mezzo adoperar la maga.
11
Colsela quando incontro a Citerea
d’alcun lieve sdegnetto era ancor calda
e’n tempo apunto ch’asciugata avea
più d’una tazza del licor che scalda.
Menovvi un mostro suo la fata rea
contro cui non restò fede mai salda.
Così la vinse e non trovò ritegno
ad esseguire il suo crudel disegno.
12
L’Interesse vi venne e con l’uncino
trasse l’avida ninfa ala sua rete.
O fame infame del metallo fino,
o sacra troppo ed essecrabil sete
che non mai satollarti hai per destino,
ch’ognor quanto più bevi hai men quiete,
a che non sforzi tu gli umani petti
signoreggiati da tiranni affetti?
13
Carca d’oro la mano e d’ira il seno,
d’ira che chiusa più, vie più sfavilla,
cieca dal fumo di quel rio veleno
che da’ soavi pampini distilla,
di quanto far bisogna instrutta apieno
vassene dunque la malvagia Aurilla
e dritto il passo move a quella parte
là dove sa che ritrovar può Marte.
14
Ritrovollo solingo e come quella
che di prudenza a fren mai non soggiacque,
gli fè con lunga e lubrica favella
cose udir che d’udir forte gli spiacque:
narrò gli amori dela dea più bella
e de’ progressi lor nulla gli tacque,
l’età del vago e la beltà dipinse
e’n più discorsi il suo parlar distinse.
15
Scioglie la lingua baldanzosa e pronta
e non senza alcun fregio il ver gli espone;
gli afferma che per fargli oltraggio ed onta
data s’è in preda a un rustico garzone.
E l’istoria e la beffa indi gli conta
quando nascose e fè fuggire Adone,
che per tema appartato alquanto il tenne,
poi richiamato subito rivenne.
16
Dicegli che di lui seco soletta
sempre si ride e scorni aggiunge a scorni,
gli soggiunge ancor poi che la diletta
partita è dal suo ben per qualche giorni.
E gli conchiude alfin che la vendetta
molto facil gli fia pria ch’ella torni.
E gl’insegna e gli mostra e gli divisa
il tempo, il loco commodo e la guisa.
17
Nel fier signor dele sanguigne risse
non era intutto ancor spento il sospetto
e, daché l’infernal serpe il trafisse,
sempre un freddo velen celò nel petto;
onde quando colei così gli disse
l’agghiacciò lo stupor, l’arse il dispetto.
Tacque e’l ciel minacciando e gli elementi
torse gonfi di rabbia i lumi ardenti.
18
Qual robusto talor tauro si mira,
superbo duca del cornuto armento,
che col fiero rivale entrato in ira
schiuma sangue, ala foco e sbuffa vento,
dagli sguardi feroci il furor spira,
ne’ tremendi muggiti ha lo spavento,
nella bocca e negli occhi orror raddoppia
folgore che rosseggia e tuon che scoppia,
19
tal da gelosi stimuli ferito,
tra sé fremendo il capitano eterno,
poich’ha l’annunzio inaspettato udito,
par furia agli atti ed ha nel cor l’inferno,
fuor del’albergo e di sestesso uscito,
il ferro appresta a vendicar lo scherno
e senza indugio, ebro d’orgoglio insano,
il giovane sbranar vuol di sua mano.
20
Avea l’illustrator degli emisperi
nel’Atlantico mar la face estinta.
L’oscura terra avea di vapor neri
la faccia al chiaro ciel macchiata e tinta.
Reggeva il Sonno gli umidi destrieri
dela Notte di nebbie e d’ombre cinta
e con placido corso e taciturno
volgea le stelle al gran camin notturno.
21
Nel proibito altrui bosco selvaggio
vassene Marte alo sparir del sole,
ch’alo spuntar del mattutino raggio
sa ben ch’Adon tornar dentro vi vole.
Quivi appoggiato ad un troncon di faggio
del’ore pigre si lamenta e dole.
Quivi s’asside ad aspettar la luce
degli esserciti orrendi il sommo duce.
22
Pensando ai torti suoi sì gravi e tanti,
geme in un mormorio flebile e fioco,
si distempra in sospir, si stilla in pianti
e giace in ghiaccio e si disfoga in foco.
Ha le labra di fiel verdi e spumanti,
né trova al gran martir requie, né loco;
e sì forte è l’affanno e sì possente
che le corde del cor spezzar si sente.
23
Mentre che con l’amor l’ira combatte,
il dolor s’interpone; e dice alfine:
– Dunque di quelle ch’io stimava intatte
bellezze incomparabili e divine
posseditrici indegne, oimé, son fatte
rozze braccia selvagge e contadine?
quelch’io bramar apena osai lontano,
preda divien d’un cacciator villano?
24
O vie più dele passere fugaci
che tranno il carro tuo vaga e leggiera,
quanto ne’ vezzi tuoi finti e fallaci
stolto è chi crede e misero chi spera.
Mi promisero questo i detti e i baci
dela bocca bugiarda e lusinghiera,
quand’io, credulo a quel che mi giurasti,
lasciai caderti a piè tutti i miei fasti?
25
Chi mai tanta beltà vide in suggetto
sì mobile, incostante e disleale?
e in amante sì fido e sì perfetto
tanta disaventura e tanto male?
Or qual sarà entro l’inferno Aletto
se la figlia di Giove in cielo è tale?
che faran l’altre donne infami e ree
se scelerate son l’istesse dee?
26
Perfido sesso, ahi com’inganna e mente
quella beltà ch’a torto il ciel ti diede.
Volubile qual fronda è la tua mente,
instabile qual onda è la tua fede.
Io per me spererei più facilmente,
ch’una sola fedele a chi le crede
fra tante false, ingrate e mentitrici,
tra gli augelli trovar mille fenici.
27
Ma dov’è Marte il tuo furore? e dove
l’alto valor che signoreggia i ferri?
Quegli innocenti e miseri ch’a Giove
gridan mercé, senza pietate atterri;
contro chi meno il meritò si move,
talor fuor di ragion l’ira disserri.
Di strugger squadre armate hai pur trastullo
e t’offende e schernisce un vil fanciullo.
28
Sei tu colui che i popoli e gli imperi
mieter dala radice hai spesso in uso?
per cui la Parca innaspatrice interi
vota talvolta i secoli dal fuso?
Non se’ tu quei ch’hai degli Sciti alteri,
del Gelon, del Biston, l’orgoglio ottuso?
dietro al cui carro invitto umil ne viene
il Terror col Furor stretto in catene?
29
Ed or l’armi e i trofei basso e vulgare
concorrente mortal di man ti toglie
e soffri pur che quelle membra care
sien delizie communi al’altrui voglie.
Che ti giovano omai tante e sì chiare
prede, palme, corone, insegne e spoglie,
s’un pargoletto ogni tua gloria uccide
e de’ trionfi tuoi trionfa e ride?
30
Se fusse tuo rival quel re superno,
che dal ciel move il tutto e’l tutto pote;
se fusse emulo tuo quel ch’ha in governo
l’acque e col eran tridente il mondo scote;
se fusse quel ch’ad Ecate d’Averno
donò lo scettro ruginoso in dote,
potresti almen di quest’oltraggio audace
darti con più ragion conforto e pace.
31
Quella destra immortale è forse stanca
per cui sol treman Rodope e Pangeo?
è forse rotta quella spada franca
che già percosse Encelado e Tifeo?
No no, l’usata forza in te non manca;
pera dunque il donzel perfido e reo
e, benché sia di divin ferro indegno,
fa che col sangue suo spenga il tuo sdegno. –
32
Così doleasi il cavalier del cielo,
trafitto il cor dal dispietato aviso,
e vie più fredde del notturno gelo
eran le brine onde bagnava il viso;
quando colei, ch’è reverita in Delo,
affaccioglisi innanzi al’improviso
e degli uditi gemiti feroci
ruppe nel mezzo le crucciose voci:
33
– Che val (gli disse) il tuo tormento ignoto
a quest’ombre narrando orride e nere,
senz’alcun pro del bosco ermo e remoto
assordar l’aure e risvegliar le fere?
Altri gioisce e tu qui bravi a voto,
altri i riposi tuoi stassi a godere;
e tu minacci e col tuo van lamento
tagli gran colpi al’aria e sfidi il vento.
34
Sembri schermendo la spezzata spada
tigre che dietro al cacciator s’affretta,
ma trattiene il suo corso a mezza strada
su’l bel cristal ch’a vaneggiar l’alletta
e mentre sta pur neghittosa a bada,
perde la prole insieme e la vendetta,
quando volar devrebbe e con gli artigli
toglier la vita a chi le tolse i figli.
35
Tu però, dio sì prode e sì gagliardo,
non dei d’un sangue vil tinger le mani.
Potresti e chi nol sa? sol con un guardo
subbissar quel fanciul, disfarlo in brani.
Per quella poi che d’amoroso dardo
ti punse il core i tuoi dolor son vani;
sai che fermezza in lei può durar poco,
sendo figlia del mar, moglie del foco.
36
A consiglio miglior volgerai dunque,
s’a mio senno farai, l’animo offeso,
lasciando a me per questo e per qualunque
misfatto suo di castigarla il peso;
ch’io non ho meno incontr’a lei, quantunque
per altro affare, il cor di sdegno acceso,
né di te meno ad esserle nemica
m’obliga giustamente ingiuria antica.
37
Questa, obbrobrio del ciel, putta celeste
quando comparve al suo lascivo amante
sotto la casta e virginal mia veste,
sotto le forme mie pudiche e sante,
per ricoprir con apparenze oneste
la sfacciatagin sua, gli venne avante
e con sue frodi in altro manto chiuse
la pueril simplicità deluse.
38
Sempre poi col suo drudo in biasmo mio
vibrò la lingua temeraria e sciocca
e con parlar ingiurioso e rio
spesso in cose d’onor pose la bocca;
e benché in terra e’n ciel nota son io,
un sì maligno ardir troppo mi tocca;
ritrovar mai non seppe altro pretesto
per da me desviarlo, eccetto questo.
39
Ella d’Adon la signoria m’ha tolta
che pronto era a seguir gli studi miei,
ma con lunghi sermon più d’una volta
da quel camin lo distornò costei.
Or per punir questa insolenza stolta
io vo’, nocendo a lui, nocere a lei,
che, quantunque immortal, l’ama sì forte
che so ch’ella morrà nela sua morte.
40
Toccar quel suo malnato osò le crude
armi pericolose, armi interdette,
quelle ov’ancora il mio furor si chiude,
dico di Meleagro arco e saette.
Queste, il giur’io per l’infernal palude,
da sestesse faran nostre vendette,
perché son tali che giamai non sanno
portar a chi le porta altro che danno.
41
Oltre di ciò, quando a cacciar dimane
riede, secondo l’uso, il folle arciero,
d’irritar contro lui fuor dele tane
un mio cinghial talmente io fo pensiero,
che d’Atteone alcun rabbioso cane
nel suo signor non si mostrò sì fiero,
né fu mai fiero e formidabil tanto
l’altro, al cui nome ancor trema Erimanto. –
42
Così di Tracia al paladin tremendo
favellò Cinzia, ond’ei l’armi depose;
e più distinto poi l’ordin tessendo
dele disposte e concertate cose,
seco insieme in agguato ivi attendendo
finché venisse il bel garzon, s’ascose,
per dar effetto ala crudel congiura
tra i vietati confin di quelle mura.
43
Già del difeso e riservato parco
poiché Vener partissi, Adone ardito
non sol più volte il periglioso varco
tentato avea, ma n’era salvo uscito.
Né mica per timor di spiedo o d’arco
il lasciaro que’ mostri irne impunito,
ma perch’ala beltà del giovinetto
ed ala dea del loco ebber rispetto.
44
Quinci malcauto e temerario accrebbe
tant’orgoglio nel cor, tanta fidanza
che, presumendo poi più che non debbe,
di rientrarvi ognor prese baldanza;
onde il crudo destin ch’allor ben ebbe
d’esseguir l’ira sua campo abastanza,
trassel, mentre Ciprigna era lontana,
tra l’insidie di Marte e di Diana.
45
Sorgea l’Aurora, ma dolente e mesta
e con pallida faccia e nubilosa
si dimostrava ben nunzia funesta
quel dì crudel d’alcuna infausta cosa.
Portava dela Notte il velo in testa,
la ghirlanda sfrondata e sanguinosa,
onde il sol che ben chiaro ancor non era,
pur allor si levava e parea sera,
46
quand’ei ch’una gran caccia il giorno dianzi
dentro il loco medesmo avea bandita,
più d’una truppa a far ch’oltre s’avanzi
di cacciatori e cacciatrici invita.
Clizio il gentil pastor si tragge innanzi
e gli promette ogni fedele aita.
La bella Citerea pria che partisse,
– Ti raccomando il bell’Adon – gli disse.
47
Tosto i più fieri e generosi cani,
di cui gran moltitudine adunossi,
per densi boschi e per aperti piani
fur da’ maestri lor guidati e mossi.
Segusi e veltri e co’ feroci alani
vennervi i formidabili molossi,
figli d’angliche madri e corse e sarde
ed altre varie ancor razze bastarde.
48
Armasi Adon, da folle audacia spinto,
e gli arnesi malvagi appresta e prende.
Già del’arco essecrando il collo ha cinto,
già l’infausta faretra al lato appende,
il curvo corno ha dopo’l tergo avinto
in cui lo smalto insu l’avorio splende.
Ma l’avorio però candido e bianco
cede ala bella mano ed al bel fianco.
49
Oltre l’arco e gli strali ha nella destra
grossa mazza pesante e noderuta,
che fu rozzo troncon d’elce silvestra
e ferrata è da capo a punta acuta.
Con la manca conduce ed ammaestra
un suo levrier che’n ogni affar l’aiuta;
né movon mai discompagnati il piede
con bel cambio tra lor d’amore e fede.
50
Quest’era il caro, il favorito e nato
d’una cagna spartana era e d’un pardo.
Non fu giamai sì lieve augello alato,
non sì rapido mai partico dardo,
non sì veloce zefiro ch’a lato
al suo presto volar non fusse tardo.
Non corse unqua sì snella o damma o tigre
ch’appo a quel can non rassembrasser pigre.
51
Spirto vivace avea, corpo ben fatto
e la fuga sì pronta e sì leggiera,
che spesso il daino e il cervo agile e ratto
fermò col dente e giunse ala carriera.
Avea testa di serpe e piè di gatto,
schiena di lupo e pelo di pantera.
Saetta egli avea nome ed era al corso
saetta sì, ma più saetta al morso.
52
Era al collo il collar conforme apunto,
ricco monil che l’amorosa dea
d’un bel serico brun tutto trapunto
di propria man con sottil ago avea.
E v’avea, non pensando, in forte punto
istoria espressa dolorosa e rea:
di Cefalo la caccia empia e funesta,
tragico augurio, è in quel lavor contesta.
53
Così guernito, con secura faccia,
colà sen gio dove fortuna il trasse,
nela famosa e memorabil caccia
il bell’Adone a compartir le lasse;
già’l lungo odor dela ferina traccia
seguono i bracchi con le teste basse,
già vanno i veltri a coppia a coppia intorno,
ma non si sente ancor voce né corno.
54
Adon dela foresta il sito prese
e’l tumulto in silenzio alquanto tenne,
poi d’ognintorno ben legate e tese
lunghe linee di corda a tirar venne.
Gran numero pertutto indi v’appese
di colorite e tremolanti penne,
perché desser talor, mosse dal vento,
ale bestie selvagge ombra e spavento.
55
Ciò fatto, del cacciar l’ordine dassi
e la guardia s’assegna ad ogni strada,
accioché quando a dar l’assalto avrassi
senza bisogno altrove altri non vada.
Ciascun guarda il suo posto e tutti i passi
son omai chiusi ove’l camin si guada.
Intenti e presti a custodir gli aguati
stan su l’aviso i cacciatori armati.
56
Qui comincia a levarsi il romor grande,
di latrati e di gridi il ciel risona.
Rimbombo tal moltiplica e si spande
che la selva stordisce e l’aria introna
e fa per entro a fronte e dale bande
degli arbori tremar l’ampia corona
ed eco risentir, che’n quelle tane
raro o mai non rispose a voci umane.
57
Ecco vulgo smacchiar fuor dele cove
di mansuete fere ed innocenti.
La lepre vile in dubbio il corso move,
né’l timido coniglio i passi ha lenti;
sparsi van quinci e quindi e non san dove
de’ vecchi cervi i fuggitivi armenti;
sola la volpe astuta il piè sospende
ch’ad ingannar l’ingannatore intende.
58
Ma’l tropp’ardito Adon, che d’aver crede
altrettanto valor quant’ha bellezza,
di fugace animal minute prede,
quasi indegne di lui, disdegna e sprezza.
Fieramente leggiadro andar si vede
ed a prove aspirar d’alta prodezza.
Bella ferocità nel suo bel viso
aspreggiato ha d’orgoglio il dolce riso.
59
Tal di Grecia il garzon Tessaglia scorse
del dì cacciando alleggerir la noia
e recar poi di tigri uccise e d’orse
al maestro biforme orride cuoia.
Tal già le selve sue trascorrer forse
vide Cartago il giovane di Troia
ed aspettar con baldanzosa fronte
se superbo leon scendea dal monte.
60
E tal vid’io di cani e di cavalli
menando il gran Luigi elette schiere,
talor di Senna per l’amene valli
castigar l’ozio e seguitar le fere
e con l’invitta man che regge i Galli
e ch’è nata a domar genti guerrere,
tra i lor covili più riposti ed ermi
espugnar per trastullo i mostri inermi.
61
Tutta la selva di scompiglio è piena,
chi teso l’arco a saettar s’accinge,
chi la rete racconcia e la catena,
chi la fune rallenta e chi la stringe.
Altri il can che squittisce a forza affrena,
altri, sciolto il cordon, l’irrita e spinge,
questi col rauco suon la fera sfida,
quei sovra un faggio di lontan la sgrida.
62
Scorre Adon la verdura, entra soletto
tra i più folti cespugli e scende e poggia
tanto che trova un torbido laghetto
accumulato di corrotta pioggia
e s’accosta ala costa, ove gli è detto
che gran cinghiale e spaventoso alloggia,
perché veder, perché distrugger vole
quell’animata e smisurata mole.
63
– Or qual ti mena a volontaria doglia,
fanciullo incauto, o tua sciocchezza o sorte?
Del’aspro teschio e del’irsuta spoglia
non fia giamai che’l bel trofeo riporte.
Cangia, deh cangia l’ostinata voglia,
fuggi, deh fuggi la vicina morte.
D’aver uccisa una vil fera il vanto
picciol premio fia troppo a rischio tanto. –
64
Parea queste parole ed altre assai
dicesser l’erbe a lui dintorno e i fiori,
che trar virtù da’ suoi sereni rai
soleano e da’ suoi fiati aver gli odori.
– Ritorna indietro, o folle, ove ne vai? –
Da lunge gli dicean ninfe e pastori.
–Ah torci il piè dalo spietato stagno! –
gridava Clizio, il suo fedel compagno.
65
– Fuggi Adon, fuggi, oimé, non esser sordo
al mio caldo pregar, la fera orrenda.
Di Venere i ricordi io ti ricordo,
non voler che te pianga e me riprenda,
non far che di fierezza un mostro ingordo
un mostro di beltà strugga ed offenda.
Che tu vada a cercar tanto periglio,
mi perdoni il tuo genio, io non consiglio. –
66
Ei nulla intende e nulla cura e dritto
colà sen va dove l’audacia il guida.
Capita al fatal loco ov’ha prescritto
il fine al viver suo stella omicida,
dove il ministro del mortal delitto
per corre il fior d’ogni beltà s’annida,
infausta, infame ed infelice selva
che dà ricetto al’arrabbiata belva.
67
Tra duo colli ch’al sol volgon le spalle
dense di pruni e di fioretti ignude,
nel cupo sen d’una profonda valle
giace un vallon che forma ha di palude;
e senon quanto ha solo un picciol calle
scagliosa selce in ogni parte il chiude.
Quel macigno che’l cerchia alpestro ed erto
lascia sol, bench’angusto, un varco aperto.
68
Quivi nel mezzo, di funeste fronde
ombreggiato pertutto, un lago stagna,
che con livido umor di putrid’onde
sempre sterile e sozzo il sasso bagna.
Non ha dintorno ale spinose sponde,
perché scoscese son, molta campagna,
ma breve piazza insu’l sentier si scerne,
tutta di greppi cinta e di caverne.
69
Non toccò mai l’abominabil riva,
bench’affamato e sitibondo, armento,
che l’erba e l’acqua fetida e nociva
d’assaggiar, di gustar, prende spavento.
Non sol la ninfa e’l fauno ognor la schiva,
non sol l’aborre il sole e l’odia il vento,
ma dala spiaggia immonda ed interdetta
fuggon lontano il lupo e la civetta.
70
Quest’è l’albergo, del cinghial non dico,
ma del’ira del ciel che lo produsse.
Taccia pur Calidonia il grido antico
del flagello crudel che la distrusse.
L’arabo inculto o il garamanto aprico
mostro non ebbe mai ch’egual gli fusse.
Qui s’accovaccia e dentro l’acqua nera
stassi attuffata la solinga fera.
71
Nel pantan che circonda un mezzo miglio
tra siringhe palustri il ventre adagia.
Splende nel fosco e minaccioso ciglio
d’un orribile ardor luce malvagia.
Fiaccola accesa par l’occhio vermiglio,
spruzzato ferro o stuzzicata bragia.
Calloso ha il cuoio, il fianco e’l rozzo tergo
arma di dure sete ispido usbergo.
72
Ossa sporge ben lunghe e di sanguigna
schiuma bavose il grugno, aguzze e torte,
la cui materia rigida e ferrigna
è vie più che l’acciar tagliente e forte,
onde qualor le batte e le degrigna
pria che faccia morir mostra la morte,
talché’n dubbio è chi muor, né s’assecura
se la piaga l’uccida o la paura.
73
Dà fiato allor subitamente al corno
stupido Adon d’un animal sì grosso,
onde di ninfe e di sergenti intorno
con cani e dardi un folto stuol s’è mosso.
che tentan fuor del’umido soggiorno
farlo sbucar del paludoso fosso.
D’urli confusi e di latrati insieme,
che danno anima agli antri, il bosco freme.
74
L’orgoglioso cinghial, che di duo numi
cova in seno il furor, si leva e vanne,
e, stralunando gl’infocati lumi
ed arrotando le rabbiose zanne,
fiacca intorno le spine e spezza i dumi,
fa le frasche strisciar, sonar le canne
e dele voci infuriato al grido
per cacciarsi nel bosco esce del nido.
75
Come quando aquilon rapido e stolto
rompe le sbarre e le catene scioglie
e sorgendo di Scizia in nembo folto
l’aride nubi e tempestose accoglie,
mentre gonfia soffiando il nero volto
fa le piante tremar, cader le foglie
e sferza i lidi orribilmente e spazza
tutta del mar la spaziosa piazza,
76
così, saltata alfin la bestia brutta
del fangoso canneto oltre i confini,
fa stracciata stormir la selva tutta,
scote le querce e schioma i faggi e i pini,
onde par che percossa e che distrutta
da procelloso turbine ruini;
le pietre schianta e degli antichi arbusti
sbarba i tronchi più saldi e più robusti.
77
Torce obliqua la testa e con più stizza
ch’indomito torel grugnisce e mugge
e, mentre inver la selva il corso drizza,
ciò che s’oppon tra via, sbaraglia e strugge.
Vendicarsi però di chi l’attizza
ancor non pote, ognun s’arretra e fugge.
Senza pur adoprar le zanne orrende
sol col terror degli occhi ei si difende.
78
Le macchie attraversando e le boscaglie
altrui malgrado, insuperbito passa.
Le doppie reti e le ben grosse maglie
squarciate a terra e dissipate lassa.
Corre e con l’urto abbatte aste e zagaglie,
spiedi e spunton con l’impeto fracassa.
Se guata o morde, orribile e pungente
par lo sguardo balen, fulmine il dente.
79
Apre le turbe e le ritorte sforza,
né v’ha più chi l’affronti o chi l’arresti.
Ebro di sangue il suo furor rinforza
e ne lascia in altrui segni funesti.
Superato ogni intoppo ei passa a forza
e fa fuggir que’ cacciatori e questi;
fuggono e poi da questa rupe e quella
lanciano di lontan lance e quadrella.
80
Ei tra la folta, omai rotta e divisa,
travalca i guadi e i colpi altrui non cura,
né d’un’intacco ha pur la pelle incisa,
sì soda di quel pelo è l’armatura.
I cani che’l seguiano ha conci in guisa
che ne giace più d’un per la pianura;
molti sdruciti la spietata zanna
ne lascia, altri ne squarta, altri ne scanna.
81
Adon che quel crudel mostro inumano
scorge cotanta far strage e ruina,
non sbigottisce, anzi con l’armi in mano
sen corre ad incontrar l’ira ferina.
Eccol giunto da’ suoi tanto lontano,
ecco tanto la fera ha già vicina,
quanto da forte man lentato e scarco
n’andria scoppio di fionda o tratto d’arco.
82
L’arco ha già stretto e la saetta ha mossa
e segna e tira e dove vuol colpisce;
ma così forte è dela scorza grossa
la corazza, che’l coglie e nol ferisce,
anzi vana non solo è la percossa,
ma l’irrita più molto e l’inasprisce,
e quel furor ch’ha già raccolto in seno,
cresce senza riparo e senza freno.
83
Imperversa accanito infra le genti,
oltre si scaglia e co’ mastin s’azzuffa.
Le puche dela fronte irte e pungenti
e dela pelle setolosa arruffa.
Dele picciole luci i fuochi ardenti
vibra e s’arriccia e si rabbuffa e sbuffa,
di scintille di sangue orridi lampi
par che secchino i fiumi, ardano i campi.
84
Non perde Adon coraggio e dà di piglio
al secondo quadrel ch’è vie più fino
e spera nel cinghial farlo vermiglio
perché’n Etna il temprò fabro divino.
Di Vener bella al faretrato figlio
tolto l’avea per suo peggior destino,
onde nel fiero e furioso core
s’accoppiaro due furie, Ira ed Amore.
85
Lo stral, che’l miglior fianco al mostro colse,
d’umano ardor l’alma inumana accese,
onde quando al fanciul gli occhi rivolse
che da lunge il trafisse e non l’offese,
vago del danno suo non sene dolse,
ma per meglio mirarlo il corso stese
ed ingordito di beltà sì vaga,
miracol novo, inacerbì la piaga.
86
Chi dunque stupirà che del fratello
ardesse Bibli con infame ardore?
e Mirra, di cui nacque Adone il bello,
ad amar s’accendesse il genitore?
Qual meraviglia fia che questo e quello
per la propria sua specie infiammi Amore,
se nel cor d’una fera ebbe ancor loco
sì violento e mostruoso foco?
87
L’animoso garzon veggendo il verro
che gli si gira intorno e gli s’accosta,
non monta per salvarsi olmo né cerro,
non cerca per fuggir grotta riposta,
ma gitta l’arco e del’astato ferro
gli rivolge la punta inver la costa
e sovra il guado ove la strada ha presa
intrepido si ferma ala difesa.
88
Prima il guinzaglio al suo Saetta allenta
e la lassa discioglie ornata e ricca,
loqual non si spaventa, anzi s’aventa
per l’orecchio afferrargli e’l salto spicca;
quel volge il grifo ove la presa ei tenta
e nela gola il curvo osso gli ficca;
con la zanna di sangue immonda e sozza
al coraggioso cane apre la strozza.
89
Ode guaire il suo fedele e gira
Adon le luci ov’ei si giace ucciso
e d’affetto gentil, mentre che’l mira,
informa il vago e dilicato viso.
Corre pietoso ov’anelando spira,
malvolentier dal suo signor diviso;
gli chiede aita con lo spirto in bocca,
col muso il lecca e con la zampa il tocca.
90
Tanto si dole Adon, tanto si sdegna
che giaccia estinta la sua fida scorta,
che mentre vendicarla egli disegna
vie più l’ardir che la ragione il porta.
Faccia senno o follia, che che n’avegna,
vuol che mora il crudel che gliel’ha morta,
viver non cura e pur che’l porco assaglia
non chiede al proprio cor se tanto ei vaglia.
91
Desperato s’appresta ala vendetta
tentando impresa ove valor non vale
ed espon sé, per troppo amar Saetta,
senza riscossa a volontario male.
Fassi incontro al feroce, indi l’aspetta,
pria brandisce lo spiedo e poi l’assale.
Sopra il manco si pianta e mentre il fiede
segue la destra man col destro piede.
92
Con la tenera mano il ferro duro
spigne contro il cinghial quanto più pote,
ma più robusto braccio e più securo
penetrar non poria dov’ei percote.
L’acuto acciar, com’abbia un saldo muro
ferito overo una scabrosa cote,
com’abbia in un’ancudine percosso,
torna senza trar fuor stilla di rosso.
93
Quando ciò mira Adon, riede in sestesso
tardi pentito e meglio si consiglia.
Pensa alo scampo suo se gli è permesso
e teme e di fuggir partito piglia,
perché gli scorge in risguardarlo appresso
quel fiero lume entro l’orrende ciglia
ch’ha il ciel talor, quando tra nubi rotte,
con tridente di foco apre la notte.
94
Fugge, ma’l mostro innamorato ancora
per l’istesso sentier dietro gli tiene
ed intento a seguir chi l’innamora
per abbracciarlo impetuoso viene.
Ed ecco un vento al’improviso allora,
se Marte o Cinzia fu non so dir bene,
che per recargli alfin l’ultima angoscia
gli alzò la vesta e gli scoprì la coscia.
95
Tutta calda d’amor la bestia folle
senza punto saper ciò che facesse,
col mostaccio crudel baciar gli volle
il fianco che vincea le nevi istesse
e, credendo lambir l’avorio molle,
del fier dente la stampa entro v’impresse.
Vezzi fur gli urti: atti amorosi e gesti
non le insegnò Natura altri che questi.
96
Vibra quei lo spuntone e gli contrasta
ma l’altro incontra lui s’aventa e serra,
rota le zanne infellonito e l’asta
che l’ha percosso e che’l disturba afferra
e di man gliela svelle e far non basta
Adone alfin che non sia spinto a terra.
L’atterra e poi con le ferine braccia
il cinghial sovra lui tutto si caccia.
97
Tornando a sollevar la falda in alto
squarcia la spoglia e dala banda manca
con amoroso e ruinoso assalto
sotto il vago galon gli morde l’anca,
onde si vede di purpureo smalto
tosto rubineggiar la neve bianca.
Così non lunge dal’amato cane
lacero in terra il meschinel rimane.
98
O come dolce spira e dolce langue,
o qual dolce pallor gl’imbianca il volto!
Orribil no, ché nel’orror, nel sangue
il riso col piacer stassi raccolto.
Regna nel ciglio ancor voto ed essangue
e trionfa negli occhi Amor sepolto
e chiusa e spenta l’una e l’altra stella
lampeggia e morte in sì bel viso è bella.
99
Tu, Morazzon, che con colori vivi
moribondo il fingesti in vive carte
e la sua dea rappresentasti e i rivi
del’acque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital dela tua nobil’arte
ed a ritrarlo, ancor morto ma bello,
insegni ala mia penna il tuo pennello.
100
Arsero di pietate i freddi fonti,
s’intenerir le dure querce e i pini
e scaturir dale frondose fronti
lagrimosi ruscelli i gioghi alpini.
Pianser le ninfe ed ulular da’ monti
e da’ profondi lor gorghi vicini,
driadi e napee stempraro in pianto i lumi,
quelle ch’amano i boschi e queste i fiumi.
101
V’accorse Clizio ed al soccorso seco
venne, ma’ndarno, intempestiva gente,
ch’ad appiattarsi in solitario speco
sen gio la fera e sparve immantenente.
Così lupo ladron per l’aer cieco,
poi ch’ha nel gregge insanguinato il dente,
ricoverto dal vel del’ombra fosca
serra al ventre la coda e si rimbosca.
102
Dove, Venere bella, ahi! dove sei?
e dove son le tue promesse tante,
quando lassù nel regno degli dei
per rincorar lo sbigottito amante,
dicesti, ch’a placar gl’influssi rei
di quel pianeta irato e minacciante
bastava un sol de’ tuoi benigni sguardi?
or ecco i detti tuoi falsi e bugiardi.
103
Ecco come a schivar prefissa morte
poco giova consiglio incontro al fato
e’l furor mitigar di stella forte
mal può di luce amica aspetto grato.
Così vuol chi’l destin regge e la sorte,
sotto sì fatte leggi il mondo è nato.
Ma tu, lassa, che fai? perché non riedi
a tor piangendo gli ultimi congedi?
104
Era senza colui che l’innamora
ogni piacer di Venere imperfetto,
ch’amor e gelosia moveanle ognora
gran lite di pensier nel dubbio petto;
a cui la notte imaginosa ancora
raddoppiava timor, crescea sospetto,
però che con sembianza infausta e ria
Adon, ne’ suogni suoi, sempre moria.
105
Fioria tra molti che n’avea Citera
un favorito suo mirto felice.
Questo di più per man crudele e fera
tronco mirò dal’ultima radice;
dimanda il come e la dogliosa schiera
dele driadi piangenti alfin le dice
che con tartarea e rigida bipenne
l’empia megera ad atterrarlo venne.
106
Nel’ora che calando al’oceano
quasi ogni stella in occidente è scorsa,
onde, restando in ciel solo e lontano
impallidisce il guardian del’orsa,
la bella dea, che si distrugge invano
da mille acute vipere rimorsa,
dopo lungo pugnar col suo desio
concesse gli occhi ad un profondo oblio.
107
Ed ecco in questi torbidi riposi
tra le notturne e mattutine larve
con occhi, ahi quanto oscuri e lagrimosi,
del bell’idolo suo l’ombra l’apparve.
Cotal non già, qual ne’ giardini ombrosi
quando in Cipro il lasciò, vivo le parve;
sconciamente ferito e’n vista essangue,
dal bel fianco piovea gorghi di sangue.
108
La chioma il cui fin or più d’una volta
dele glebe del’Indo il pregio ha vinto,
squallida, bruna e bruttamente incolta
l’usato suo splendor le mostra estinto.
Il viso, ov’ogni grazia era raccolta,
dela notte d’averno è sparso e tinto
e macchiato del fumo è d’Acheronte
il chiaro onor dela superba fronte.
109
Poiché di lui ch’avea nel cor ritratto
la nota effigie riconobbe apena,
– Ahi qual altrui perfidia o tuo misfatto
(gridò), qual fato a tanto duol ti mena?
E dond’avien che sì dolente in atto
conturbi del mio ciel l’aria serena?
Se’ tu’l mio Adone? o da fallaci forme
deluso il tristo cor vaneggia e dorme?
110
Dunque in preda mi lasci a pianto eterno?
dunque iniquo destin tanto ha potuto?
Ti rapì forse in cielo o nel’inferno
per amor Giove o per invidia Pluto?
Rispondi o caro mio; perché ti scerno
in tanta afflizion tacito e muto?
Dove son, mia dolcezza e mio tesoro,
le parole di mele e i motti d’oro?
111
Dove degli occhi le pietose faci,
che furo il faro al’alte mie procelle?
Adon, se morto sei, morto mi piaci,
tue bellezze per me fien sempre belle.
Cotesto sangue io suggerò co’ baci,
t’arderò co’ sospir cento facelle,
purché morto ancor m’ami e non ti spiaccia
aver la tomba tua tra le mie braccia. –
112
Risponde: – È questo, oimé, crudele amica,
quanto dal vostro amor sperar mi deggio?
così s’oblia quel’alta fede antica
ch’avrà mai sempre in questo petto il seggio?
Voi qui tra giochi e balli, ond’a fatica
vi tragge il sonno or occupata io veggio
e, le miserie mie curando poco,
più non vi risovien del nostro foco.
113
Deh, se non fredda intutto entro il cor vostro
vive di tanto ardor qualche scintilla
e se pur l’esser dea del terzo chiostro
amorosa pietà nel sen vi stilla,
volgetevi a mirar qual io vi mostro
la faccia un tempo già lieta e tranquilla
e qual di furiali aspre catene
duro groppo mi stringe e mi ritiene.
114
Poiché pur al mio strazio acerbo ed empio
negan l’aita vostra i fati rei
e d’ogni altro amator misero essempio
più non deggio goder quelch’io godei,
tornate almeno a riveder lo scempio
che fè crudo cinghial de’ membri miei.
Pregovi sol che non vogliate ancora
che di tormento un’altra volta io mora.
115
S’Atropo ha rotto insu’l rotar del fuso
il fil del’ore mie ridenti e liete
ed al’ombre del’orco, ov’io son chiuso,
dato m’ha prigionier, deh! non piangete,
poiché de’ vostri amori anco laggiuso
fia ch’io sempre mi glori in riva a Lete.
Uom più viver non dee cui tanto lice
e, morendo per voi, moro felice.
116
A dio, mi parto, ir mi convien fra l’alme
il cui pianto a pietate altrui non piega. –
Così dicendo le tremanti palme
tender si sforza e’l duro ferro il nega,
il duro ferro che d’indegne salme
con tropp’aspro rigor le man gli lega.
A quel moto, a quel suon di ferri scossi
sciolsesi il sonno e Citerea destossi.
117
Da quella vision tremenda e fiera
sbigottita si leva e nulla parla.
Ben si consola assai che non fu vera,
duolsi sol ch’ei svanì senza abbracciarla.
Esce là dove la festiva schiera
sta di mille ministri ad aspettarla
e mentre che le fan folta corona
le ninfe citeree, così ragiona:
118
– Già vosco in questa a me terra diletta
indugiar più non posso, o fide mie.
Già la custodia del mio ben m’aspetta
e mi richiama ale magion natie.
Troppo del’altru’ invidia il cor sospetta
non mel vada a furar per mille vie.
L’onda del mar dala rapace arsura
de’ ladroni d’amor non m’assecura.
119
Volgo, né molto in alcun dio mi fido,
di certo danno opinioni incerte.
Temo non abbia dela Fama il grido
de’ miei secreti le latebre aperte
e l’orme già nel più riposto nido
del mio dolce deposito scoverte.
Cipro di tanto ben non è capace
e’l mio crudo figliol troppo è sagace.
120
Le fere altrove con acuto strale
il bell’Adone a saettare intende.
Qui, lassa, a me d’antiveduto male
dardo vie più pungente il petto offende;
ei con veltri mordaci i mostri assale,
del cui forte abbaiar diletto prende,
io da più fieri can d’aspro tormento
che mi latrano al cor, morder mi sento.
121
Ahi! ben nela stagion fosca e tranquilla
posan le membra insu l’agiate piume;
il cor non già che si distrugge e stilla
povero d’altro sole e d’altro lume.
Al primo suon dela diurna squilla
le palpebre appannar talor presume.
Quando le luci che dormir mal ponno
al pianto aprir devrei, le chiudo al sonno.
122
E’l sonno, il sonno ancor pietoso anch’esso
del’amorose mie penaci cure
qualche raggio del ver mi mostra spesso
tra l’ombre sue caliginose e scure
e del mio ben visibilmente espresso
in sanguinose e pallide figure
con sollecito orror che mi spaventa
simulacri talor mi rappresenta.
123
Giorno non è che con infauste cose
non mi minacci alcun prodigio tristo.
Deh! quante volte l’intrecciate rose
per sestesse cader dal crin m’ho visto?
e quante scaturir dal’amorose
poppe insieme col latte il sangue misto?
La mano il petto involontaria offende
e malgrado degli occhi il pianto scende.
124
Mi sembra il lieto applauso urlo funesto
e le cetre per me non son canore;
non so che d’infelice e di molesto
misera me, mi presagisce il core.
Col sol che sorge a dipartir m’appresto,
troppo lunghe fur qui le mie dimore;
prima al ciel che m’attende e poi gir deggio
a riveder colui che sempre veggio. –
125
Detto così, spalma il bel carro e poi
per l’aura oriental la sferza scote
e l’auree nubi de’ confini eoi
rompendo va con le purpuree rote.
Ma pur lassa in andando aver co’ suoi
travagliati pensier tregua non pote
ed ondeggiando ognor tra questi e quelli
vola assai più con lor che con gli augelli.
126
– Oimé, dunque il mio ben (dicea tra via)
in lochi malsecuri e perigliosi
ad ogn’incontro di fortuna ria
solo ed a mille rischi in preda esposi?
Ebbi core, o mio core, anima mia,
di lasciarti tra mostri empi e rabbiosi?
nemici di pietà, mostri arrabbiati,
ma molto men di me crudi e spietati.
127
E forse apunto allora intenta io m’era
ne’ giochi a trastullarmi e nele feste
quando devevi tu, gioia mia vera,
con la morte scherzar per le foreste.
Ben mi staria ch’avesse alcuna fera
tinte nel sangue tuo l’unghie funeste.
Ben per un fallo inescusabil tanto
giusta pena mi fora eterno pianto.
128
Deh! sarà ver ch’ancor tra queste braccia
stringer ti possa un’altra volta mai?
degg’io più ribaciar la cara faccia?
rivedrò de’ begli occhi i dolci rai?
Begli occhi, ahi qual timore il cor m’agghiaccia,
vi troverò quai dianzi io vi lasciai?
O spenta è forse pur la luce vostra,
sicome il sogno orribile mi mostra?
129
Sospesa sto tra lo spavento e’l duolo,
nulla più mi rallegra, il tutto io temo.
Su suso, augelli, accelerate il volo
ch’omai la notte è sul confine estremo.
Fugata l’ombra e rischiarato il polo
tosto a specchiarci in altro sole andremo. –
In tal guisa illustrando il mondo cieco
Venere bella si lagnava seco.
130
Così dubbia tra sé la madre ircana
spesso ha de’ propri danni il cor presago,
qualor cercando ai figli esca lontana
torce il passo da lor ramingo e vago,
temendo pur nela sassosa tana
fiero non entri a divorargli il drago
o pur furtivo intanto il piè non mova
l’astuto armeno a saccheggiar la cova.
131
Già di Citera ala magion celeste
la bella dea d’amor facea ritorno.
Già di rose e di perle inun conteste
s’avea’l crin biondo e’l bianco seno adorno;
e mentre il chiaro dio che spoglia e veste
d’ombra la terra e di splendore il giorno
stracciava dela notte il bruno velo,
l’ultime stelle accommiatava in cielo.
132
L’Aurora intanto che dal suo balcone
gli umidi lumi abbassa ala campagna,
vede anelante e moribondo Adone
ch’ancor con fievol gemito si lagna.
Vede che’l duro fin del bel garzone
ogni ninfa con lagrime accompagna
e che tutte, iterando il dolce nome,
battonsi a palme e squarciansi le chiome.
133
Diceano: – È morto Adone. Amor dolente,
or che non piagni? Il bell’Adone è morto.
Empia fera e crudel col duro dente,
col dente empio e crudel l’uccise a torto.
Ninfe, e voi non piangete? Ecco repente
Adon vostro piacer, vostro conforto,
lascia del proprio sangue umidi i fiori.
Piangete, Grazie, e voi piangete Amori.
134
Giace Adone il leggiadro, Adone, il vanto
di queste valli, in grembo al’erba giace
pallidetto e vermiglio. Il riso, il canto
lasciate, o Muse. Amor, spegni la face.
Piangete Adone, Adon degno è di pianto,
sbranato da cinghial crudo e vorace.
Adone, il nostro Adone or più non vive.
Piangete, o fonti e lagrimate, o rive.
135
Pianga la bella dea l’amante amato
se pur quaggiù dala sua sfera il mira.
Non più la bacia no, non più l’usato
sguardo soave in lei pietoso gira.
Più del mostro omicida ha il cor spietato
se’l caro Adon non piange e non sospira;
stilli in lacrime gli occhi afflitti e molli.
Piangete, o selve e rispondete, o colli.
136
Misero Adon, tu, pien di morte il viso,
versi l’anima fuor languido e stanco.
Porta piagato a un punto e porta inciso
Venere il core, il bell’Adone il fianco.
Il fianco, oimé! del bell’Adone ucciso
più del dente che’l morse è bello e bianco.
Raddoppiate co’ pianti alto i lamenti.
Piangete, o fiumi e sospirate, o venti.
137
Cani infelici, il vostro duce caro
freddo su l’erba e lacerato stassi:
piangete Adone e di latrato amaro
empiete i muti boschi, i cavi sassi.
Boschi, un tempo felici, or per avaro
destin rigido e rio dolenti e lassi,
già lieti e chiari, or dolorosi e foschi,
piangete, o sassi e risonate, o boschi. –
138
Così piangean le sconsolate e fora
uscia d’alti sospir misto il lamento.
A sì tristo spettacolo l’Aurora
stille versò di rugiadoso argento,
com’ella per pietà volesse ancora
piangendo accompagnar l’altrui tormento;
e stupida d’un mal tanto improviso
subito a Citerea ne diede aviso.
139
– Lascia o dea (le dicea) deh! lascia omai
di rotar l’orbe tuo che più non splende.
Non vedi tu laggiù, scendi, che fai?
di morte e di dolor sembianze orrende?
Cingi il bel crin, non più di rose e rai,
d’alti cipressi e di funeste bende.
Tempo non è da far per la via torta,
mentre il tuo sol tramonta, al sol la scorta. –
140
Non così d’Euro ale gagliarde scosse
trema in alto Appennin pianta novella
come al’annunzio orribile si mosse
d’accidente sì rio la dea più bella.
Fermò, vinta dal duol che la percosse,
il suo corpo, il suo cerchio e la sua stella.
Stupì, morì, fu dal mortal dolore
suppresso il pianto e s’ingorgò nel core.
141
Ma poich’al’ira impetuosa il duolo
cesse e potè del petto il varco aprire,
parte volta ale stelle e parte al suolo,
prese altamente in questa guisa a dire:
– Or qual, vivo colui che regge il polo,
ebbe tanto poter, terreno ardire?
regna il mio sommo padre? o pur insani
signoreggiano il ciel gli empi titani?
142
Rotte forse le rupi ha d’Inarime
con l’altera cervice il fier Tifeo?
da Vesevo, il cui giogo ancor l’opprime,
risolleva la fronte Alcioneo?
dale valli d’abisso oscure ed ime
fulminato risorge or Briareo?
o d’Etna in Cipro pur si riconduce
a rivedere Encelado la luce?
143
Non già non mi produsse in bosco o in fiume
di deità plebea rustica schiatta.
Siam progenie ancor noi di quel gran nume,
che del fulmine eterno il foco tratta.
Chi mie ragion di violar presume?
Ogni legge del ciel dunque è disfatta?
Che stragi, oimé! che strazi empi son questi?
chiudon tanto furor l’alme celesti?
144
Ingiustissimo ciel, di lumi indegno,
degno di ricettar sol ne, tuoi chiostri
simili apunto a quel ch’oggi il suo sdegno
nel mio bene ha sfogato, infami mostri.
Tiranni iniqui del’etereo regno,
ecco pur appagati i desir vostri.
O quanto a torto a voi gl’incensi accende
lo schernito mortale e i voti appende.
145
Già non osò con voglie a voi rubelle
quel mio, che colaggiù morto si piagne,
per assalir, per espugnar le stelle
fabricar torri o sollevar montagne.
Già non tentò con quella mano imbelle,
sol fere usa a domar per le campagne,
sovra l’umana ambizione altero
d’usurparvi l’onor, torvi l’impero.
146
Vanne ai templi di Scizia il tuo digiuno
d’uman sangue a sbramar, Giove rabbioso.
Qual fu la colpa? in che t’offese o Giuno
quell’innocente essangue e sanguinoso?
Chiedea forse arrogante ed importuno
gli abbracciamenti del tuo ingordo sposo?
Anzi umilmente e senza alcuno orgoglio
vivea romito in solitario scoglio.
147
Ma che gli valse, oimé? Non può celarsi
da maligno livor somma beltate;
or d’ogni vostro ben superbi e scarsi.
trionfando di me, lassù regnate. –
Poich’ella ha questi detti al’aria sparsi,
per le piagge del ciel fresce e rosate
portata dala gemina colomba
velocissimamente a terra piomba.
148
Ecuba con tal rabbia in Troia forse
n’andò latrando infuriata e folle,
quando lasciar la bella figlia scorse
il greco altar del proprio sangue molle;
e tal mi credo in Babilonia corse
la donna che regnar per fraude volle,
con una treccia sciolta e l’altra avinta,
con una poppa avolta e l’altra scinta.
149
Da lunge udì del giovane meschino
e dele ninfe la pietosa voce
e col timon precipitoso e chino
gli augei corsieri accelerò veloce.
Ma quando a rimirar vien da vicino
l’opra spietata del cinghial feroce,
colà si lancia ed incomposta e scalza
dal,aureo carro insu la riva sbalza.
150
Salta dal’aria e vede apertamente
Adone a duro termine condotto.
Vede dala lunata arma pungente
il vago fianco fulminato e rotto,
e’l bel collo su gli omeri cadente
e la bocca che langue e non fa motto,
e’n veggendo serrar luci sì vaghe
sente aprirsi nel cor profonde piaghe.
151
De’ begli occhi sereni il puro raggio
folto nembo di lagrime coverse.
O qual onta ale guance o qual oltraggio
fece ale chiome innannellate e terse!
Stracciolle e del bel viso il vivo maggio
di vivo sangue ed immortale asperse
ed ai caldi sospir lentando il freno
con man s’offese ingiuriosa il seno.
152
Tosto si gitta insu’l bel corpo e come
forsennata e baccante il grido scioglie;
gli dislaccia la veste, il chiama a nome,
gli ricerca la piaga e’n braccio il toglie.
Poi le sanguigne e polverose chiome
con gli occhi lava e con le man raccoglie
e del costato i tepidi rubini
terge con l’or de’ dissipati crini.
153
La bella man ch’abbandonata e stanca
rade il suol con le dita e i nodi allenta,
dentro la neve tepidetta e bianca
del’una e l’altra sua stringe e fomenta
e’n lei quel moto e quel calor che manca
di svegliar, d’aiutar s’ingegna e tenta.
Su lo smorto garzon s’inchina e piega,
lo scote, il preme e di parole il prega.
154
L’un con muto parlar pietà chiedea
profondissimamente sospirando.
L’altra con gli occhi pur gli rispondea
amarissimamente lagrimando.
– Oimé! che veggio? È questi Adon? (dicea);
chi ti ferì? come t’avenne? e quando?
chi fu, nettare mio? chi fu il crudele
che le dolcezze tue sparse di fiele?
155
Qual crudo mostro, oimé! qual mano ardita
tanta licenza a danni miei si prese?
Come ogni asprezza sua, dolce mia vita,
in te non raddolcì fatta cortese?
Ahi che ferì duo petti una ferita,
nela tua morte la mia vita offese.
Quel tuo sangue è mio sangue e quel tormento
ch’afflige il corpo a te, nel’alma io sento.
156
Non ti diss’io: «Di seguitar, deh lassa!
per inospite balze orme ferine,
ch’a guisa di balen che vola e passa
correrai tosto ad immaturo fine?»
Stato pur fusse il mio presagio, ahi lassa!
bugiardo in augurar tante ruine,
ch’essangue il tuo bel volto or non vedrei
miserabile oggetto agli occhi miei.
157
O troppo dele fere aspro seguace
ed ai consigli miei credulo poco,
quant’era il meglio tuo startene in pace
ne’ miei giardini ov’è perpetuo gioco?
Or il trofeo dela tua caccia audace
fia la perdita sol del mio bel foco.
Sventurata beltà, come in un punto
del tuo corso vitale il fine è giunto.
158
Dunque andran quelle luci innamorate
nel sen di morte a suscitar gli amori?
quelle man bianche e quelle chiome aurate
ad imbiancare, ad indorar gli orrori?
quelle labra fiorite ed odorate
dentro le tombe a seminare i fiori?
Dunque andrà lo splendor di quel bel viso
a portar negli abissi il paradiso?
159
O miei veri sospetti, o troppo veri
sogni temuti, or ben il dubbio intendo.
Or de’ prodigi spaventosi e fieri
il gran mistero e la cagion comprendo.
Ecco come indovini i miei pensieri
veraci fur del’accidente orrendo.
Ciò che previsto fu, ciò che predetto
da Mercurio e da Proteo, ha pur effetto.
160
Deh qual furia mi trasse? e quale errore
mi fece ogni dever porre in oblio,
quando per vana ambizion d’onore
solo qui ti lasciai nel partir mio?
Questa fu la mia fè, questo l’amore?
Di te dunque e di me tal cura ebb’io?
Non s’incolpi del danno iniqua sorte,
frutto del mio fallire è la tua morte.
161
Adone Adone, o bell’Adon, tu giaci
né senti i miei sospir, né miri il pianto.
O bell’Adon, o caro Adon, tu taci,
né rispondi a colei ch’amasti tanto.
Lasciami lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto.
Arresta il volo, aspetta tanto almeno
che’l mio spirto immortal ti mora in seno.
162
Accosta accosta al contrafatto volto,
misera dea, la faccia e gemi e plora
e s’alcun peregrin spirito accolto
tra quell’aride labra ancor dimora,
s’alcun tepido bacio a morte tolto
nela bocca gentil palpita ancora,
coglilo e finché’n pianto il cor si stempre
l’imagin del tuo ben bacia per sempre. –
163
Con semirotti e singhiozzati accenti
la dea del terzo ciel così si dole,
ma tanto il duol s’avanza infra i lamenti
che le lega la lingua e le parole.
Alza la fronte e i pigri occhi dolenti
già vicino al’occaso il suo bel sole,
ma vacilla lo sguardo e sparge insieme
l’alma dal petto e queste voci estreme:
164
– Fa forza al duolo, o mia fedele, e stendi
la mano alquanto ala mia man (le dice)
prendi quest’arco infortunato e prendi
questa faretra mia poco felice.
Poi l’uno e l’altra al sacro tempio appendi
dela dea boschereccia e cacciatrice.
Fa che restin per sempre ivi sospesi
con l’armi infauste i malvestiti arnesi.
165
Eccomi al passo ove convien purch’io
scenda laggiù tra gli amorosi spirti
doppiando a Stige ardor con l’ardor mio,
crescendo ombra con l’ombra ai verdi mirti,
Ma ciò ben mi si dee, che fui restio,
e perdon tene cheggio, ad ubbidirti.
Arma tu di costanza il petto franco
meglio ch’io non armai di strali il fianco.
166
Io, poiché dale stelle è già prescritto
irretrattabilmente e dagli dei
che da crudo animal deggia trafitto
oggi morir sul fior degli anni miei,
cedo al destin, né in tale stato afflitto
più, se potessi ancor, viver vorrei.
E qual mai più, vivendo, avrei conforto
se’l mio caro Saetta a piè m’è morto?
167
Ma pria che gli occhi addolorati e mesti
chiuda a quel sol che’n forte punto io vidi,
vo’ che l’ultimo dono almen ti resti:
gli altri cani ti lascio, amati e fidi.
Altro or non ho che questi crini, e questi,
pregoti, accetta e di tua man recidi
e serbagli per lui che’l cor ti diede,
reliquie di dolor, pegni di fede.
168
Tu, se vivrà l’amor dopo la vita,
cura che le mie spoglie altri non tocchi
e che vil mano in alcun tempo ardita
arco de’ miei non tenda o stral non scocchi. –
Qui gli manca la voce indebolita
e di grave caligine i begli occhi
opprime sì, ch’aprir più non si ponno,
dela notte fatal l’ultimo sonno.
169
Su’l bel ferito la pietosa amante
altrui compiange e semedesma strugge,
e sparge, lassa lei, lagrime tante
e con tanti sospir l’abbraccia e sugge
che par già d’or in or l’alma anelante
voglia fuggir dove l’altr’alma fugge.
In cotal guisa al’implacabil pena
mentre cerca alleggiarla, accresce lena.
170
Fur viste arboreggiar l’erbe minute
intorno a quel cadavere gentile,
perché volse di lor così cresciute
fargli la bara ambizioso aprile.
Fama è che l’aspre querce e l’elci irsute
incurvaro le braccia in atto umile,
dov’ei spirava ancor tra i funerali
spirti amorosi almen, se non vitali.
171
I cani istessi di pietate accesi,
raro essempio di fè dopo la morte,
presso il caro signore a terra stesi
con un flebil latrar si doglion forte;
e d’ogni atto amorevole cortesi
ne’ casi ancor dela sinistra sorte,
emuli in ciò di Venere infelice,
van lambendo a baciar la cicatrice.
172
Ma ceda ogni altro duolo a quella doglia
ch’ala bella Ciprigna il petto punge.
Ella agli occhi d’Adon, pur come voglia
compartir lor la luce, i suoi congiunge
e l’insensata e semiviva spoglia
del balsamo d’amor condisce ed unge
e col volto di lui si stringe tanto
che non dà loco alo sgorgar del pianto.
173
Su la guancia di fior di fiamme priva
tepida vena e lagrimosa versa
e’l color e’l calor desta e raviva
ch’involando ne va morte perversa.
Non sai dir s’egli estinto o s’ella è viva,
sì poco hanno tra lor forma diversa;
né discerner si può qual viva e spiri
senon solo ne’ pianti e ne’ sospiri.
174
Chi vide mai di nube in spesse stille
la pioggia che col lampo a un tempo cade,
tal temprata d’umori e di faville
imagini tra sé quella beltade.
E mentr’apria tra mille fiamme e mille
ruscelletti di perle e di rugiade,
in atti mesti e gravi si dolea,
qual deve amante e qual conviensi a dea.
175
L’umide luci in prima al ciel rivolse,
poscia a terra chinolle e’n lui l’affisse.
Lo spirto tutto in un sospiro accolse
e sospirò perché lo spirto uscisse.
Alfin la lingua dolorosa sciolse
in dolci note amaramente e disse:
– Misera! – ma sì largo il pianto abonda,
che sommerge la voce in mezzo al’onda.
176
– Misera (indi ripiglia) ed è pur vero
che si giri lassù stella sì cruda?
Or godi, invido sol, vattene altero
che’l bel’emulo tuo le luci chiuda.
Poco era in braccio al getico guerriero
avermi a tutto il ciel mostrata ignuda,
se’n strana ecclisse e’n fiero aspetto e duro
non mi mostravi il mio bel sole oscuro.
177
Sei tu, dimmelo Adon, l’idol mio caro?
Tant’osa e tanto può morte superba?
Dov’è dele tue stelle il lume chiaro?
a che fiera tragedia il ciel mi serba?
O già sì dolce, or dolcemente amaro,
com’ogni mia dolcezza hai fatta acerba!
Ben a Mirra sei tu simile intutto,
nato d’amara pianta amaro frutto.
178
Io per me giurerei che per dispetto
là nel foco di Stige e di Cocito
quell’arco tuo malnato e maledetto
temprato fu dal mio crudel marito.
E quel cinghial che t’ha squarciato il petto
di Cipro no, ma del’inferno uscito,
tutta entro a sé di Cerbero la rabbia
e’l furor dele Furie io credo ch’abbia.
179
Ma volse forse la malvagia fera
de’ tuoi chiusi pensier costanti e fidi
e dela fiamma tua pura e sincera
curiosa spiar gl’interni nidi.
Ah che farmi vedere uopo non era,
ché chiaro ognor ne’ tuoi begli occhi il vidi,
per mostrarmi il tuo amor securo e certo,
sviscerato il bel fianco e’l core aperto.
180
Di non poter cangiar sol mi querelo
col ciel l’abisso e n’ho cordoglio ed ira.
Ma come vesto incorrottibil velo
se l’alma mia per la tua bocca spira?
se la felicità ch’io godo in cielo
pende dal moto ch’i tuoi lumi gira
e la mia deità te solo adora,
com’esser può ch’io viva e che tu mora?
181
Morte, o del’inferno arpia rapace,
come sempre per uso il meglio furi;
qualunqu’altro ladron rubando tace
e cela i furti suoi negli antri oscuri;
tu di tue prede alteramente audace
ti glori e di nasconderle non curi,
anzi ne fai con mill’applausi e mille
cantar inni, arder lumi e sonar squille.
182
Lassa, ch’io ben vorrei l’alta rapina
torre al’artiglio tuo sozzo ed infame
e racquistar questa beltà divina,
troppo bell’esca a sì voraci brame.
Ma legge irrevocabile destina
che non s’annodi mai spezzato stame
e, voto il fuso e la conocchia scarca,
il filo venir men veggio ala Parca.
183
Gran padre, or tu che su’l gran trono assiso
hai dele cose universal governo,
poscia ch’hai tanto ben da me diviso,
rompi le leggi del destin superno.
L’invida man ch’ha quel bei fil reciso,
perché l’attorce ala mia vita eterno?
perché per dura ed immutabil sorte
mortalar l’immortal non può la morte?
184
O perché di sorbir non m’è concesso
in cima a un bacio o in un sospiro accolta
una morte medesma entro l’istesso
labro ove l’alma mia vive sepolta?
Impotente dolor, poiché per esso
non può dal vital nodo esser disciolta.
Ahi che troppo contraria al bel desire
questa immortalità mi fa morire. –
185
Con quel poco di spirto che gli resta
di Ciprigna i lamenti Adone udia,
né potend’altro, in flebil voce e mesta
dir le volea: – Mia vita, anima mia. –
Ma sprigionata l’anima con questa
parola aperse l’ali e volò via;
e dala bocca essangue e scolorita
in vece di – Mia vita – uscì la vita.
186
Uscì sdegnosa e quasi svelta a forza
dela cara magion poco abitata,
lasciando pur malvolentier la scorza
l’alma di sì bel corpo innamorata.
Mentre de’ chiari lumi il foco ammorza,
impietosisce ancor Morte spietata,
e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio
per volerlo baciar lo stringe in braccio.
187
Volse le labra allor la bella diva
con le labra compor pallide e smorte
per impedir al’alma fuggitiva
forse l’uscita e chiuderle le porte
e per raccor qualche reliquia viva
del dolce che furando iva la morte.
Misera! ma trovò secchi e gelati
negli aneliti estremi i baci e i fiati.
188
Lasciandosi cader fra cento e cento
ninfe che’n mesto e lagrimoso coro
facean co’ gridi un tragico lamento
e con le palme un strepito sonoro,
da’ begli occhi spargea fila d’argento
e da’ laceri crini anella d’oro;
né per altra beltà fu giamai tanto
bello il dolore e prezioso il pianto.
189
Mille piccioli Amori a trecce a trecce,
quasi di vaghe pecchie industri essami,
segnando nelle rustiche cortecce
l’infortunio crudel, gemon tra’ rami;
e sfaretrati e con spuntate frecce,
rotte le reti d’or, sciolti i legami,
gittate a terra fiaccole e focili,
fanno ale triste essequie ossequi umili.
190
Chi delle belle lagrime di lei
spruzza le penne e chi le labra asperge.
Chi nel’umor di que’ begli occhi rei
tempra gli strali e chi gli arrota e terge.
Chi disdegnando omai palme e trofei
la facella immortal dentro v’immerge.
Chi mentr’ella il bel crin si svelle e frange,
tutto fermo insu l’ali, ascolta e piange.
191
Altri da terra le spezzate ciocche
coglie de’ sottilissimi capelli.
Altri n’avolge le dorate cocche,
altri ricco cordon tesse di quelli.
Vanno a baciar le languidette bocche
or di questa or di quel molti fratelli.
Ufficiosi ancor molti e dolenti
volano intorno a varie cure intenti.
192
Qual su la guancia di squallor dipinta
stilla d’acque odorate un largo fiume.
Qual su i begli occhi, la cui luce tinta
d’ombra mortal, mendica è già di lume,
per suscitar qualche favilla estinta
o di vita o d’amor batte le piume.
Altri mentr’egli more ed ella langue
asciuga al’una il pianto, al’altro il sangue.
193
Con gli Amori piangean le Grazie anch’elle,
quando rivolto in lor l’afflitto ciglio,
Venere a sé chiamando una di quelle,
ratto mandolla a ricercar del figlio.
Piega il ginocchio Aglaia e dale belle
compagne di partir prende consiglio;
ma dubbiosa e sospesa il passo move,
ché trovarlo vorria né sa ben dove.
194
Mira e rimira il ciel, la terra e’l mare,
poiché per tutto Amor l’ali distende,
se del fiero fanciul vestigio appare,
ma del loco ove sia nulla comprende.
Allor da terra inver l’eccelse e chiare
region del’Olimpo in alto ascende
e’l trova alfin colà sovra i superni
poggi celesti infra i begli orti eterni.
195
Stavasi Amor delo stellato mondo
sotto un mirto fiorito entro i giardini
e duo d’aspetto amabile e giocondo
coetanei fanciulli avea vicini.
L’un che fu dele nozze autor fecondo,
di verde persa attorto i biondi crini,
d’aureo socco calzato, era Imeneo,
vago figlio d’Urania e di Lieo.
196
L’altro era quei ch’al regnator sovrano
porge il licor divino in cavo smalto.
Facean tra sé costoro un gioco estrano
e movean con le dita un strano assalto.
Or le palme stringeano, or dela mano
gittavan parte e sosteneano in alto
e quinci e quindi i numeri per scherzo
la sorte a un tempo essercitava in terzo.
197
Era dela contesa arbitro eletto
Como, dio de’ conviti e dele feste,
Como inventor del riso e del diletto,
piacer d’ogni mortal, d’ogni celeste.
E s’eran vari premi al suo cospetto
proposti già da quelle parti e queste;
recata avea di rose una corona
l’abitator di Pindo e d’Elicona.
198
Di nettare purpureo urna capace
è il pegno ch’assegnato ha Ganimede.
Amor, ch’è nudo e fuorché strali e face
cosa non ha, ma vive sol di prede,
preso ala rete sua dura e tenace
promette al vincitor spoglia e mercede:
indico augel che di smeraldo e d’ostro
ha fregiata la piuma e tinto il rostro.
199
E già vittorioso alfin rimaso
facea di gridi risonar le sfere
e’nsuperbito di sì lieto caso,
per tutto dibattea l’ali leggiere;
indi postosi a bocca il dolce vaso
tutto votollo e già fornia di bere,
quando a lui s’accostò dogliosa e bella
di Citerea la messaggiera ancella.
200
Come le fu nel’ambasciata imposto,
in disparte il tirò dal’altra gente,
né gli ebbe apieno il fier successo esposto
ch’ogni sua gioia intorbidò repente.
– Vienne, non più tardar, vientene tosto
a confortar la misera dolente,
dico la madre tua, ch’uopo ha d’aiuto,
o d’ogni forza espugnator temuto. –
201
Il fin di questo dir non ben sostenne
l’impaziente e curioso arciero.
Apena incominciò che la prevenne
senza intender distinto il fatto intero,
ed – O (squassando per furor le penne)
olà chi fu? Non mi negare il vero,
chi fu (proruppe) ardito? o chi mai fia
d’addolorar la genitrice mia?
202
Contro il ciel, contro il mondo e contro Giove
armar giuro la destra e mover guerra.
Rivestito il farò di piume nove
novi amori a furar scender in terra,
farollo ancor, se punto ira mi move,
con quella man che’l folgore disserra,
dagli stimoli miei punto ed offeso
gir solcando l’Egeo sott’altro peso.
203
Se fia Saturno del suo duol cagione
vecchio maligno e neghittoso e tardo,
l’udrai nitrir fra i regi armenti e sprone
al fianco gli sarà quest’aureo dardo.
Se di Cillene il volator ladrone
vela d’amara nebbia il dolce sguardo,
ecco in Atene or or tel dò ferito,
né l’arte gli varrà dela sua Pito.
204
Se da Pallade nasce il suo cordoglio,
fia con Vulcan ricopulata insieme
e la lutta quassù rinnovar voglio
onde già cadde il mostruoso seme.
Né delo dio ferrato il vano orgoglio,
la fierezza o l’orror per me si teme,
ché, benché cinto di diaspro e marmo,
sa ben ch’a senno mio spesso il disarmo.
205
S’Apollo a parte fia di tanto danno,
vo’ flagellarlo in duri nodi avinto
e suoi flagelli e sferze sue saranno
le foglie del’alloro e del giacinto.
Ad arder sforzerò con pari affanno
nel freddo cerchio suo la dea di Cinto.
Struggerà il cor, se’l mio furor si desta,
Climene a quello, Endimione a questa.
206
S’è ver che’l suo piacer turbi e’l suo gioco
colui che di due ventri al mondo nacque,
là dove ogni valor gli varrà poco
a novi ardori il condurrò per l’acque.
Vedrà che cede al mio l’istesso foco,
onde la madre fulminata giacque;
e s’egli col suo vino agita altrui,
io posso col mio strale agitar lui.
207
Se ministro sarà di questo pianto
del’ondoso Ocean l’umido padre,
o quelch’un tempo amore aborrì tanto
rigido re dele tartaree squadre,
incatenati e supplici mi vanto
di trargli a piè dela mia bella madre,
per mostrar quanto folle è chi non crede
ch’ala forza d’Amore ogni altra cede. –
208
Così disse, e col fin di detti tali
ala voce sfrenata il fren raccolse;
poi più veloce assai ch’un de’ suoi strali,
l’impeto ruinoso ingiù rivolse
e col gemino sibilo del’ali,
che con rapide scosse a volo sciolse,
lei precorrendo, che tra via rimase,
sdrucciolò ratto ale materne case.
209
Come adusto vapor, sparito il sole,
che con raggio possente in alto il trasse,
di lunga sferza e luminosa suole
rigar del’aria le contrade basse,
così di Citerea l’altera prole
parve foco e splendor seco portasse
quando in terra veloce a calar venne
tutto serrato nele tese penne.
210
Chi può l’ira narrar, narrar il duolo
del superbo garzon quand’egli ha scorto,
poscia che’n Cipro ha terminato il volo,
de’ duo l’una malviva e l’altro morto?
D’Adon compagno, a Venere figliuolo,
lui senza vita e lei senza conforto,
o come in preda ai desperati affanni
si squarcia il velo e si spennacchia i vanni.
211
Qual augellin che’l dolce usato nido
dove i figli lasciò voto ritrova,
gli vola intorno e con pietoso strido
assordando la valle, il duol rinova,
tal dagli occhi d’Adon, su’albergo fido,
non sa partirsi e nulla più gli giova;
piagne i perduti sguardi e’n tutto cieco
brama non esser dio per morir seco.
212
Ma per non raddoppiar l’acerbe pene
di colei che gli diede essere e vita,
l’alto dolor dissimula e ritiene
ale correnti lagrime l’uscita.
Indi per consolarla a lei sen viene
che, traendo dal cor vena infinita,
par che per gli occhi fuor voglia in tant’acque
versar tutto quel mare ond’ella nacque.
213
Ella a cui per morir con lui che more
d’esser nata immortal molto rincrebbe,
di sì fervente ed efficace amore
eternar la memoria almen vorrebbe
e con l’aspra memoria anco il dolore
che dopo morte a gran ragion gli debbe.
Quindi ognor ripetendo il caro nome
pace non vuol con l’innocenti chiome.
214
Mentre intorno cadean le chiome sparte,
meraviglia gentil nacque di loro,
ch’abbarbicate in questa e’n quella parte
trasformaro in smeraldo il lucid’oro.
Preser radice e con mirabil arte
l’erba arricchir d’un signoril tesoro;
e’l nome dela dea lacere e tronche
serbano ancor per l’umide spelonche.
215
Volea fuggir Amor, tanta pietate
del’angosce materne al cor gli venne,
ma dele lagrimette innargentate
la bella pioggia gli spruzzò le penne;
né potendo trattar l’ali bagnate,
il volo a forza entro’l bel sen ritenne
e tentò con dolcissimi argomenti
d’acquetar quelle doglie e que’ lamenti.
216
Tutto pien di sestesso egli s’appressa
e sparso d’amarissima dolcezza
la stringe e bacia e con la benda istessa
le rasciuga i begli occhi e l’accarezza.
– Madre (dicea) di consumar deh! cessa
con l’altrui vita inun la tua bellezza.
La povertà degli antri oscuri e vili
indegna è di vestire aurei monili.
217
Perdona al’auree trecce e poni omai
a sì lungo languir misura e freno;
né più turbar, ch’han lagrimato assai,
de’ duo soli amorosi il bel sereno.
Che se di dea celeste opera fai
vivo il bel foco tuo serbando in seno,
il pianger tanto un ben caduco e frale
ti vien quasi a mostrar donna mortale.
218
Il trono mio dentro i tuoi lumi belli
stassi e’l foco e lo stral che mi donasti.
Non soggiogo con altro i cor rubelli,
qui fondato è il mio regno e tanto basti.
Non pianger più che non son occhi quelli
degni d’esser dal pianto offesi e guasti.
Si stilla in quell’umor l’anima mia,
ch’altri pianga per te più dritto fia.
219
Che fia di me, ch’i miei per sempre ho chiusi,
se da te tanta grazia or non impetro?
Romperò l’armi mie, se ciò ricusi,
a piè di questo tragico feretro;
seben son già tutti i miei strali ottusi
e l’arco, ch’era d’or, fatto è di vetro,
dela face l’ardor gela e s’ammorza
ed io col pianger tuo perdo ogni forza.
220
Lasso, si strugge il ciel, langue natura
e vien quasi a mancar la stirpe nostra.
Non vedi Febo che di nube oscura
vela la fronte e pallido si mostra?
Sviene ogni fiore e secca ogni verdura
per questa già si lieta erbosa chiostra,
poiché Favonio, che scherzar vi suole,
per altri fiati respirar non vole.
221
I dolenti augelletti o muti tutti
taccion tra’ rami o fanno amari versi.
Mira le tue colombe a tanti lutti
com’hanno i baci lor rotti e dispersi;
mira nela tua cuna i salsi flutti
che par fremendo ancor voglian dolersi;
e le belle unioni a te sì care
divengon per dolor lagrime amare.
222
Senza quella beltà che sol mi porse
vita e vigore anch’io morir mi sento.
Ben potrebbe il destin punirti forse
che chi nacque di te per te sia spento.
Del pianto, che fin qui tropp’oltre corse,
qualche parte risparmia e del tormento,
per serbarmi la vita a miglior sorte
o per pianger la mia con l’altrui morte.
223
Pregisi che per lui piangan le dive
Adon tra le miserie anco beato.
Morì quanto ala vita, al’onor vive,
mortal fu il corpo, il nome è immortalato.
Piagne colà d’Arabia insu le rive
Mirra vie più costui che’l suo peccato.
Piangon gli Amori in Cipro, i bronchi, i dumi
distillan pianto e corron pianto i fiumi.
224
Fu bello, è ver; non però già d’alcuna
grazia, sia con sua pace, Adon si vanti
ch’agguagli quest’onor, questa fortuna
d’aver l’essequie da sì dolci pianti,
che’n suggetto terren mai non s’aduna
merito degno di divini amanti;
e quand’ama alcun dio cosa mortale,
la fa valer quelche per sé non vale.
225
Tu l’ombra di colui piangendo offendi
che felice riposa e lieto giace
e gode forse entro gli abissi orrendi
maggior che tu non hai quiete e pace.
Sgombra dunque ogni affanno ed a me rendi
le fiamme e i dardi miei, l’arco e la face,
che ti giuro per essi a tutti i cori
far sentir, fuorch’al tuo, piaghe ed ardori. –
226
Così scopriva Amor l’interno affetto
e volando in quei punto anco volea
per in parte esseguir quanto avea detto
già ne’ begli occhi entrar di Citerea.
Ma respingendo il crudo pargoletto
con la man bella l’infelice dea,
– Taci taci (gli disse) a che presumi
baciarmi il volto ed asciugarmi i lumi?
227
Tardi con questi tuoi mi torni innanzi
intempestivi omai vezzi e conforti.
Or mi lusinghi e’ ncontr’a me pur dianzi
l’armi volgesti e n’ebbi ingiurie e torti.
Ah che di ferità le tigri avanzi,
né brami altro giamai che stragi e morti.
È tua la colpa e non altronde uscio
la sua morte, il tuo danno e’l pianto mio.
228
Sù sù, vattene al bosco, affretta l’ale
con questi d’ogni ben vedovi Amori.
Recami preso il perfido animale,
l’empio distruggitor de’ nostri onori,
accioch’io con l’autor d’ogni mio male
possa in parte sfogar tanti dolori;
ch’almen con la sua morte a te s’aspetta
far dela vita mia qualche vendetta. –
229
Ubbidisce il fanciul pronto e spedito,
né tarda a rivestir gli usati incarchi.
Già va per tutto col drappello ardito
spiando i boschi, attraversando i varchi.
Lunge si sente per l’erboso lito
lo stridor dele penne e’l suon degli archi,
mentre ciascun di lor per la foresta
apparecchia gli arnesi e l’armi appresta.
230
Di saette, di spiedi e di ritorte
armato va l’essercito pennuto.
Qual col ginocchio a terra incurva il forte
o di legno o di nervo arco cornuto,
qual per condurre il reo cinghiale a morte
forbisce a dura cote il ferro acuto
e lievemente poi, mentre l’incocca,
con l’estremo del dito in punta il tocca.
231
Così qualor dale granite spiche
scote su l’aia il metidor l’ariste,
agli essercizi lor van le formiche
rigando il suol di lunghe e nere liste;
così tra lor le cure e le fatiche
partendo, in più d’un stuol schierate e miste,
vanno a rapire i più soavi umori
l’api dorate agli odorati fiori.
232
Già la selva si cerca e si circonda,
ciascuno il primo a prova esser s’ingegna.
Trovano in tana alfin cupa e profonda
la fera che del giorno il lume sdegna
e con la bocca ancor di sangue immonda,
poich’offesa ha colei che’n Cipro regna
e colto il fior di così nobil vita,
quivi di tanto error vive pentita.
233
Tirata è fuor del cavernoso sasso,
altri la gola, altri le gambe allaccia.
Chi sferza con la corda il fianco lasso,
chi da tergo con l’arco oltre la caccia;
move tardo e ritroso il piede e’l passo,
timida trema e sbigottita agghiaccia
l’orrida prigioniera e’n van si scote,
a cui la dea parlò con queste note:
234
– O di qualunque mostro aspro e selvaggio
più maligna e crudel furia non fera,
tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio
che de’ colpi d’Amor degno sol era?
tu di quel sol discolorare il raggio
che facea scorno ala più chiara sfera?
romper d’un tanto amore il nodo caro
e’l dolce mio contaminar d’amaro?
235
Or qual rabbia infernal, qual ira insana
stimulò sì la tua spietata fame?
com’osò la tua gola empia e profana
di tal esca cibar l’avide brame?
potesti esser sì cruda e sì villana
in accorciar quel dilicato stame?
O di tal ferità ben degna prova,
rea ventura dal ciel sovra ti piova. –
236
La bestia allor, che d’amoroso dardo
il salvatico core avea trafitto,
quasi mordace can ch’umile e tardo
riede al suo correttor dopo il delitto,
a quegli aspri rimproveri lo sguardo
levar non osa, oltremisura afflitto;
pur la ruvida fronte alzando insuso
in sì fatti grugniti aperse il muso:
237
– Io giuro (o dea) per quelle luci sante
che di pianto veder carche mi pesa,
per questi amori e queste funi tante
che mi traggono a te legata e presa,
ch’io far non volsi al tuo leggiadro amante
con alcun atto ingiurioso offesa;
ma la beltà, che vince un cor divino,
può ben anco domar spirto ferino.
238
Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo,
il cui puro candor l’avorio vinse,
che per farsi al calor riparo e scudo
dela spoglia importuna il peso scinse;
onde il mio labbro scelerato e crudo
per un bacio involarne oltre si spinse.
Lasso, ma senza morso e senza danno
l’ispide labbra mie baciar non sanno.
239
Questo dente crudel, dente rabbioso,
d’ogni dolcezza tua fu l’omicida.
Questo ale gioie mie tanto dannoso
punisci e di tua man or si recida;
e come del’altrui fu sanguinoso,
tinto del sangue suo si dolga e strida.
Ma sappi, o dea, che se t’offese il dente,
scusimi Amor, fu l’animo innocente. –
240
Con tanto affetto al’unica beltate
i suoi rigidi amori il mostro espresse,
che del rozzo rival mossa a pietate,
di quel fallo il perdon pur gli concesse;
e per ambizion che del’amate
bellezze un mostro ancor notizia avesse,
men fosco il guardo a’ suoi scudier rivolto,
subito comandò che fusse sciolto.
241
Sciolta l’afflitta e desperata belva
cercando va la più riposta grotta;
fugge dal sole in solitaria selva
tra folti orrori ove mai sempre annotta.
Per vergogna e per duol quivi s’inselva
e la zanna crudel vi lascia rotta;
la zanna ch’oscurò tanta bellezza,
contro que’ duri sassi a terra spezza.
242
La scelerata allor ninfa loquace
che fu prima cagion di tanto male,
io dico Aurilla che la lingua audace
sciolse, Adone accusando, al gran rivale,
pentita anch’ella e non trovando pace
nel dolor che l’assedia e che l’assale,
sen fugge al bosco e gitta l’oro e dice:
– Vanne de’ cori avari esca infelice!
243
Oro malnato, del tuo pessim’uso
previde i danni il cielo e sene dolse,
e quasi in stretto carcere laggiuso
nel cor de’ monti seppellir ti volse.
Chi fu che la prigione ov’eri chiuso,
omicida crudel, ruppe e disciolse?
Del ferro istesso più crudele e rio,
senon che’l ferro fu che ti scoprio.
244
E pur il sol, poiché ti vide fore,
poiché fur le tue forze al mondo note,
si compiacque di te, del tuo splendore
e del bel carro n’indorò le rote.
Per te possanza al suo gran regno Amore
accrebbe e’n tua virtute il tutto pote;
tu fabricasti i più pungenti strali,
né fa mai senza te piaghe mortali.
245
Qual cor non domi? o qual valor sì forte
fia che senza cader teco contrasti?
qual sì ritrosa vergine le porte
non t’apre de’ pensier pudici e casti?
O pestifero tosco, o morbo, o morte
ch’i più puri desir corrompi e guasti,
ben è ragion se ne’ più cupi fondi
quasi per tema pallido t’ascondi.
246
Ma qual potea del mio più grave fallo
altri per tua cagion commetter mai?
Fu più del fragilissimo cristallo
la mia perfida fè fragile assai.
Per cupidigia d’un sì vil metallo
innocente beltà tradire osai.
Forsennato dispetto, impeto stolto,
ch’ala diva de’ cori il core ha tolto.
247
Fere, barbare fere, ingordi mostri,
uscite, orride tigri, orsi nocenti,
uscite a divorar da’ cavi chiostri
col mio corpo in un punto i miei tormenti.
Ben saranno, cred’io, gli artigli vostri
del tarlo ch’ho nel cor meno pungenti;
fere di questa fera assai più pie,
se sepolcro darete all’ossa mie.
248
Ma se le fere pur crude e proterve
per maggior crudeltà trovo men ree,
questa man, questo stral che fa? che serve
che’l sen non m’apre e’l sangue mio non bee?
Orche’n me più l’insania ebra non ferve,
la ragion sue ragioni usar ben dee,
e vendicar con piaga memoranda
di tanta fellonia l’opra nefanda.
249
Volgi a me gli occhi e mira i pianti miei,
o di prigion sì bella anima uscita,
alma, che sciolta per mia colpa sei
dal bei nodo ond’Amor ti strinse in vita.
Deh, perché non poss’io, come vorrei,
seguitarti volando ove se’ gita?
Sì sì potrò, ché di quest’aureo strale
le penne per volar mi daran l’ale.
250
Questo mio fido stral che tanto asperso
per le selve ha fin qui sangue ferino,
fia che nel sangue mio tinto ed immerso
a sì gran volo or or m’apra il camino. –
Sì disse, e nel bel sen lo stral converso,
sodisfece al tenor del fier destino,
onde di tepid’ostro un largo rio
tosto a macchiar le vive nevi uscio.
251
Bacco, che la mirò dal vicin colle,
Bacco, ch’era di lei fervido amante,
raccolse per pietà lo spirto molle
e cangiollo in leggiadra aura vagante.
Or cangiata anco in aura è vana e folle,
mobil, come fu sempre, ed incostante;
né trasformata in lieve aura sonora
di garrir cessa e mormorare ancora,
252
e, fatta aura raminga, a tutte l’ore
colà sen vola ove’l terren fiorisce,
e quivi il bell’Adon mutato in fiore
molce co’ baci e co’ sospir nutrisce
e dale belle foglie il vano odore,
vana emenda del danno, almen rapisce,
poi per lo sottilissimo elemento,
di sue dolci rapine innebria il vento.
253
Più che mai tardi da’ profondi abissi,
la notte di quel dì nel’aria ascese;
né tanto mai dapoi che’l sol partissi
le sue tenebre usate il mondo attese;
né mai velata di pietose ecclissi
sì pigra Espero in ciel le faci accese;
e quando aperse lo stellato polo,
tutt’altro illuminò che Cipro solo.
CANTO XVII
CANTO XVIII
CANTO XIX
CANTO XX
LA SEPOLTURA

ALLEGORIA

Con la visita de’ quattro dei amici di Venere, iquali vengono a condolersi con essolei, si allude a quattro cose che concorrono a fomentar la lascivia. Per Cerere s’intende la crapula, per Bacco l’ebrietà, per Tetide l’umor salso e per Apollo il calor naturale. Le favole di Giacinto, di Pampino, d’Acide, di Carpo, di Leandro, d’Achille e d’Adone istesso, morti nella più fresca età per fortunosi accidenti e trasformati per lo più in fiori o in altre sostanze fragili, son poste o per significare naturalmente l’effetto e la qualità di quelle cose che son figurate in essi o per esprimere moralmente la vanità della gioventù e la brevità della bellezza.

ARGOMENTO

Mentre Venere piagne e si lamenta
è visitata dagli amici dei;
sepolto in nobil tomba è poi da lei
il morto Adon, che vago fior diventa.

1
Umano ufficio è veramente il pianto
e più proprio del’uom, forse, che’l riso,
poich’apena vestito il fragil manto,
in aprir gli occhi al sol ne bagna il viso.
Non si dia no di quest’affetto il vanto
l’animal che si duol su’l corpo ucciso;
formar non san, non san versar le fere
figlie dela ragion lagrime vere.
2
Pur quantunque a ciascun fin dala cuna
sempre quasi quaggiù pianger convegna,
dove tra mille ingiurie di Fortuna
fuorché doglia e miseria altro non regna,
se si trova cagion sotto la luna
da lagrimar che sia ben giusta e degna,
qualunque trista e miserabil sorte
merita più pietà, cede ala morte.
3
E seben chi per noi volse patire,
le tolse l’ago e l’ha lasciato il mele,
onde sonno s’appella e non morire
quando in pace riposa un cor fedele,
pur senza inconsolabile martire
far non si può né senza aspre querele.
Quindi l’istessa ancor prole di Dio
sovra l’amico suo pianse e languio.
4
Veder che poca polve e sospir breve
tanti lumi e tesori ingombri e prema
grava altrui sì, che ben stimar si deve
dele cose terribili l’estrema.
Chi fia, che come al sol tenera neve,
non si stempri mirando e che non gema,
fatto d’alti pensier nido sì bello
seminario di vermi entro un avello?
5
E che fia poi, se’nsu’l vigor degli anni,
mentre de’ lieti dì l’april verdeggia,
giovane pianta e, per più gravi danni
bella ancora e gentil, svelta si veggia?
Ma gli acerbi cordogli e i duri affanni
ahi qual angoscia, ahi qual dolor pareggia
di chi sterpato ala stagion più verde
dele gioie sperate il frutto perde?
6
Quando per morte incenerito e spento
alma ch’avampa il suo bel foco vede,
e reciso quel nodo in un momento
che già strinser sì dolce Amore e Fede,
non s’agguagli tormento a quel tormento,
quest’è il dolor ch’ogni dolore eccede;
materia amara da sospiri e pianti
nonch’ai mortali, agl’immortali amanti.
7
Venere, poi che su la fredda spoglia
sparse lung’ora invan lagrime e note,
deh! qual sentì nel cor novella doglia
al raggirar dele notturne rote,
quando, tornata ala deserta soglia
nele camere entrò vedove e vote?
e’l bel palagio pien d’orror funesto
vide senza il suo sol solingo e mesto?
8
Quella magion, che dal divino artista
fabricata fu già con tanta cura,
le sembra, ahi quanto infausta ala sua vista,
desolata spelonca e tana oscura.
Sì la memoria del piacer l’attrista,
ch’odia l’oggetto del’amate mura
e’l ciel del’idol caro, orché n’è priva,
quasi inferno noioso, aborre e schiva.
9
Come pastor, che tardi il piè ritragge
verso l’ovile a passi corti e lenti,
e trovalo da fere aspre e selvagge
tutto spogliato o da predaci genti,
per le selve vicine e per le piagge
chiama e richiama i suoi perduti armenti,
e, dale solitudini profonde,
nulla, fuorché la valle, altro risponde;
10
o come vacca, a cui di sen rapito
abbia il picciol vitel dente inumano
o col maglio crudel rotto e ferito
apiè del sacro altar rigida mano,
di doloroso e querulo muggito
rimbombar fa dintorno il monte e’l piano,
ultima al prato, con dimesse corna,
esce di mandra ed ultima ritorna;
11
così, dapoi che’l caso empio successe
del’infelice Adon, la dea di Gnido,
baciando l’orme dal bel piede impresse,
trascorse il muto e solitario nido.
Nela stanza ch’Amore un tempo elesse,
de’ suoi dolci trastulli albergo fido,
guarda il letto diletto e, quivi afflitta,
geme, l’abbraccia e sovra lui si gitta.
12
Sola sovente al bel giardin sen riede,
visita l’antro ombroso e’l poggio aprico,
dove l’erba stampata ancor si vede
dele vestigia del diletto antico.
Parla ale piante sconsolate e chiede
al sordo bosco il suo fedele amico.
Bagna di pianto i fiori ov’ei s’assise
e scherzò seco dolcemente e rise.
13
L’Aurora uscì, non già di lieti albori,
ma di lagrime e d’ombre aspersa il volto,
né di vaghi portò purpurei fiori,
ma di brune viole il crine avolto.
Seguilla il Sol, ma non spuntò già fuori,
prigionier fra le nubi, anzi sepolto;
onde bendati di funesto velo
parean vedovo il Mondo e cieco il Cielo.
14
Ed ecco a consolar le doglie amare
che le fan de’ begli occhi umidi i lampi,
vengon Febo dal ciel, Teti dal mare,
Bacco da’ colli e Cerere da’ campi,
e con detti soavi, onde già pare
che di pietà ciascun di lor n’avampi,
si sforzan d’addolcir quell’aspra pena
che’l cor le strugge in lagrimosa vena.
15
Scalza ne vien colei che di Triqueta
l’isola regge e quasi è tutta ignuda,
senon ch’un drappo d’amariglia seta
cela quanto convien che celi e chiuda.
In cima al capo e’nsu la fronte lieta,
ch’ha le luci infocate e sempre suda,
serpe un serto di spiche e, in mezzo a loro,
fabricato torreggia un castel d’oro.
16
Piante d’argento e fronte ha di zaffiro
la dea di quell’umor che manca e cresce.
Cinge fregiata di ceruleo giro
scagliosa spoglia d’iperboreo pesce.
L’ondosa chioma poi d’ostri di Tiro
e di ciottoli e conche intreccia e mesce.
Il cristallino sen, che stilla gelo,
copre di talco un trasparente velo.
17
Non ha di piuma il mento ancor vestito
Cinzio e di schietto minio infiamma il volto.
Gli circonda il bel crin lauro fiorito,
il crine in bionda zazzera disciolto,
di fila d’oro il ricco manto ordito,
di raggi d’oro un cerchio in fronte accolto.
Con la manca sostien gemmata cetra
e gli pende dal tergo aurea faretra.
18
Nel viso di Lieo ride dipinto
di fresca rosa un giovenil vermiglio.
Tien nela destra il tirso e d’edre avinto
e d’uve il crin che gli fann’ombra al ciglio.
Di caspia tigre attraversato e cinto,
che di fin oro ha l’un e l’altro artiglio,
porta il bel fianco e l’omero celeste,
rancio coturno il bianco piè gli veste.
19
Or mentre tutti in una loggia ombrosa
in cerchio assisi a trattener si stanno,
dela diva piangente e sospirosa
cercan di mitigar l’interno affanno,
e’ntenti ad acquetar l’alma dogliosa
con le miglior ragion che trovar sanno,
nel caso acerbo del fanciullo morto
tentano di recarle alcun conforto.
20
Fatto ala mesta guancia ella del braccio
s’avea colonna e dela palma letto
e, con varie vicende, or foco, or ghiaccio,
or nel cor l’alternava, or nel’aspetto.
Romper parea volesse al’alma il laccio,
sì profondi sospir traea del petto,
quando Apollo il primiero a lei rivolse
gli occhi e la lingua ed a parlar la sciolse.
21
Quantunque fusse il gran pastor d’Ameto
colui che spinse a tribularla il figlio,
onde di tanto mal contento e lieto
del’effetto godea del suo consiglio,
coprendo nondimen l’odio secreto
con finto zelo d’un affabil ciglio,
come i grandi tra lor sogliono spesso,
venne con gli altri a consolarla anch’esso.
22
La cagion dela rissa e del dispetto,
onde la dea gli diventò nemica,
nota è pur troppo e, quelch’altrove ho detto,
uopo qui non mi par che si ridica.
Vols’ei però, celando altro nel petto,
dissimular la nemicizia antica
e, quasi scaltro adulator di corte,
compianger del garzon seco la morte.
23
– S’è vero (egli dicea) che nel tormento
spesso è gran refrigerio aver compagni,
ascolta i casi miei ch’ogni momento
pianger devrei vie più che tu non piagni.
Forse, se la cagion del mio lamento
vuoi contraporre a quella onde ti lagni,
veggendo che’l mio mal fu maggior tanto,
darai pace al dolore o tregua al pianto.
24
Lasso! qual uomo in terra, in ciel qual dio,
fu mai di me più sventurato amante?
Di Dafni non dirò che non morio,
ma vive ancor tra le mie sacre piante,
né parlerò di Ciparisso mio,
che volse per follia morirmi avante;
conterò solo il mai da me commesso,
ch’omicida crudel fui di mestesso.
25
Io stesso, ahi quale allor sospinse e mosse
la sciocca destra mia sinistra sorte?
con questa man che l’idol mio percosse
fui ministro d’un scempio orrendo e forte.
E bench’errore involontario fosse
e senza colpa il colpo ond’ebbe morte,
tanto fu di pietà più degno il caso
ch’addusse ala mia luce eterno occaso.
26
Una volta, dal ciel mentre la quarta
rota girando, ingiù lo sguardo affiso
tra i verdi colli dell’antica Sparta,
veggio un fanciullo insu l’erbetta assiso.
Scultore in marmo o ver pittore in carta
di formar non si vanti un sì bel viso.
S’avesse la beltà corpo mortale,
credo che la beltà sarebbe tale.
27
Chi vuol l’oro ritrar de’ crespi crini
dale Grazie filato e dagli Amori,
chi dele molli guance i duo giardini
dove nel maggior verno han vita i fiori,
chi dele dolci labra, i cui rubini
chiudon cerchi di perle, i bei tesori,
chi degli occhi ridenti il chiaro lume,
spiegar l’inesplicabile presume.
28
Giacinto insomma è tal, così s’appella,
che di grazia e vaghezza ogni altro avanza,
senon quanto gli fa l’età novella
superbo alquanto il gesto e la sembianza
e l’andar d’arco armato e di quadrella
al’orgoglio del cor cresce baldanza,
ond’è terror de’ mostri e dele belve
e piacer dele ninfe e dele selve.
29
L’alta bellezza del garzone altero
subito, apena vista, il cor mi tolse;
mercé del figlio tuo, ch’iniquo e fiero
sempre, non so perché, meco la volse
e per mostrarsi più perfetto arciero
tanto alfin m’appostò che pur mi colse.
Ma benché d’altri strali ei mi ferisse,
questo fu il più crudel che mi trafisse.
30
Per quest’amor ch’odiar mi fè mestesso
e per cui non avrò mai l’occhio asciutto,
io mi scordai del lauro e del cipresso,
piante per me funebri e senza frutto.
Leucotoe che languir mi fè sì spesso,
di mente per costui m’uscì deltutto;
Clizia, da cui già tanto amato fui,
a me volgeasi ed io volgeami a lui.
31
Per meglio vagheggiar quegli occhi cari
che m’abbagliaro e m’ingombrar di gelo,
sprezzai di Delfo gli odorati altari,
né più curai le vittime di Delo,
e’l fren de’ miei destrier fulgidi e chiari
lasciando l’Ore a governare in cielo,
rapito a forza da’ desiri accesi
corsi al’esca del bello e’n terra scesi.
32
E come già per pascolar gli armenti
venni d’Anfriso ad abitar le sponde
e’l biondo crin, che di fiammelle ardenti
era cinto lassù, cinsi di fronde,
così, per far quest’occhi almen contenti,
volsi d’Eurota ancor frequentar l’onde
e quanto foco la mia sfera serra
portai tutto nel cor scendendo in terra.
33
Un sole, o chi mel crede? un altro sole
ch’avea duo soli in fronte io trovai quivi,
e vie più che’l mio lume in ciel non suole
raggi vibrava sfavillanti e vivi.
Insieme ne schermian le valli sole
dagli ardori amorosi e dagli estivi
e ne vider sovente in bei soggiorni
dissipar l’ore e lacerare i giorni.
34
Più d’una volta al giovane fu dato
ad un de’ cigni miei montar su’l dorso.
Più d’una volta del cavallo alato
premer il tergo e moderare il morso;
e non sol di Laconia, ov’era nato,
l’ampie contrade visitar nel corso,
ma talora arrivar lieve e sublime
del bel Parnaso ale spedite cime.
35
Io solea spesse volte andarne seco
del verde monte infra i più chiusi allori
e quivi, al’ombra del mio sacro speco,
tra le dotte fontane, in grembo ai fiori,
gran trastullo ei prendea di cantar meco
del nostro Giove i fanciulleschi amori
ed io, postogli in mano il mio stromento,
gl’insegnava a formar dolce concento.
36
Talora a tender l’arco ed a scoccarlo,
bench’assai ne sapesse il giovinetto,
io m’ingegnava meglio ammaestrarlo
contro le fere in qualche mio boschetto.
Ma fra tutti i piacer di cui ti parlo
il più continuo e principal diletto,
ahi! che solo in parlarne impallidisco,
era il giocar con la racchetta e’l disco.
37
Nela stagion che la cagnuola insana
fa di rabbioso incendio arder l’estade,
quando l’agricoltor con la villana
stassi nell’aia a spigolar le biade,
nel’ora che quaggiù dala sovrana
parte del cielo a filo il raggio cade
e l’ombra che dal’indice discende
dritto ala sesta linea il tratto stende,
38
n’andammo un dì, finché’l mio carro il segno
gisse a toccar dele diurne mete,
nel trincotto fatal giocando un pegno,
altre cacce a pigliar con altra rete;
con quella rete ch’entro il curvo legno
tesse in spessi cancelli attorte sete
e, dale tese e ben tirate fila,
fa percossa lontan balzar la pila.
39
Trattiensi in prima a palleggiar un poco,
indi meco s’accorda ala partita
e, mutando lo scherzo in vero gioco,
proposto il premio, ala tenzon m’invita.
Incominciava ad avampar di foco
la guancia intanto accesa e colorita
e le sue vive e fervide faville
a seminar di rugiadose stille;
40
onde, deposto un suo leggier farsetto
di molle seta e tinta in ostro fino,
indosso si lasciò, semplice e schietto,
sol del’ultima spoglia il bianco lino
e mi scoprì del dilicato petto
il polito candore alabastrino;
ma del mio core assai più forte e greve
crescea la fiamma in risguardar la neve.
41
Le botte del suo braccio erano tali
che quant’ei n’aumentava o scarse o piene,
tant’erano al mio cor piaghe mortali,
tante al’anima mia dure catene.
E ben da tender lacci e scoccar strali
per legar e ferir con doppie pene,
nele luci tenea serene e liete
vie più che nela man l’arco e la rete.
42
La rete che di corde ha la trecciera
batte la pelle che di vento è pregna
e con la gamba e con la man leggiera
di seguirla e raccorla ognun s’ingegna.
Qual destra è dele due più destra arciera
vince e’l numero conta e’l loco segna.
S’avien che non l’investa o che la faccia
nela fune incontrar, perde la caccia.
43
Somiglia il gioco, ond’io con lui combatto,
di due mastri da scherma accorto assalto.
Or va per dritto, or di rovescio il tratto,
or di posta or di balzo, or basso or alto.
Or il colpo, che vien rapido e ratto,
s’incontra in aria ed or s’aspetta il salto,
or si trincia la palla ed or caduta
tra gli angoli del muro è ribattuta.
44
Or quinci or quindi, ed or veloce or piano
l’enfiato cuoio si saetta e scocca.
Per lo tetto talor vola lontano,
talor rade la corda e non la tocca
e, regolato da maestra mano,
né serpe per lo suol né si rimbocca.
Tosto ch’urtato vien da quella banda
si rimette da questa e si rimanda.
45
Quasi in duello singolar di Marte
l’un e l’altro la destra a tempo move.
L’un e l’altro egualmente aggiunge al’arte
astuzie e finte inaspettate e nove,
sich’accenna talvolta in una parte
e poi riesce al’improviso altrove
con tanta leggiadria che mai non falla
la flagellata e travagliata palla.
46
Già segnate ha due cacce ognun di noi,
onde, stando delpar, si cangia sito
finch’abbia il gioco alfin per l’un de’ doi
la vittoria o la perdita finito.
Ciascun si studia co’ vantaggi suoi
schivar il fallo e guadagnar l’invito
ed a ben adoprar cauto procede
in un tempo con l’occhio il pugno e’l piede.
47
Più volte e più da quella parte e questa
gimmo e tornammo alla medesma guisa,
onde tra noi la palma in dubbio resta
a lance egual sospesa ed indivisa;
quand’ecco il crudo disco, oimé! s’appresta
a far che sia la pugna alfin decisa
ch’è di metallo ben massiccio e tondo
quasi un paleo di smisurato pondo.
48
Toglie il figlio d’Amicla il vasto peso
che prima in alto poggia e poi ruina
ed, ogni sforzo ala gran prova inteso,
l’un e l’altro ginocchio allarga e china.
L’alza a fatica, alfin poiché l’ha preso,
con piè ben fermo e faccia al ciel supina,
le braccia allenta e’l turbine veloce
segue con la persona e con la voce.
49
Io, che veggio il suo lancio andarne a voto,
che poco insu si leva e si dilunga
e che fatto più lubrico dal moto
gli cade a piè pria ch’a mezz’aria giunga,
mi provo anch’io, ma nol sollevo e roto,
benché del premio alto desir mi punga,
prima che’l guardi e’l tocchi, acciocché’l gitto
essendo il cuneo egual, vada più dritto.
50
Poiché dintorno ho ben squadrato il giro,
tutto più volte lo misuro e libro
e per far meglio e trar più lunge il tiro,
la man su per l’arena io frego e cribro;
volgo in alto la fronte e’l ciel rimiro
e su le membra mi bilancio e vibro,
perché vo’ che con scoppio e con rimbombo
saglia ale nubi e poi trabocchi a piombo.
51
Sovra la mole del volubil ferro
m’inchino ed a scagliarlo alfin m’accingo,
infra la base e’l cuspite l’afferro
e fortemente ad ambe man lo stringo,
con gran prestezza il pugno indi disserro
e quel colpo funesto avento e spingo,
che, finché stian del ciel salde le tempre,
ha memorando e lagrimabil sempre.
52
Zefiro, il peggior vento e’l più fellone
di quanti Eolo ne tien nel’antro orrendo,
era in amar anch’egli il bel garzone
già mio rivale e ne languiva ardendo;
ma sprezzato da lui per mia cagione,
sé schernir, me gradir sempre veggendo,
sì fiera gelosia nel petto accolse
che intutto in odio il prim’amor rivolse.
53
E stando il nostro gioco ivi a vedere
su dal’alto Taigeta, il vicin monte,
mosso ad invidia del’altrui piacere
godea di fargli sol dispetti ed onte.
Or gli facea di testa i fior cadere,
or i capei gli scompigliava in fronte.
Talor la veste gli traea con rabbia
e talor gli spargea gli occhi di sabbia.
54
È ben ver che talvolta in mezzo al’ira,
benché crucciosa oltre suo stile e cruda,
lo spirito malvagio arde e sospira
in risguardando il bianco sen che suda
e, mentre freme intorno e si raggira
avido di baciar la neve ignuda,
dolce il lusinga e da’ bei membri amati
mitiga il gran calor con freschi fiati.
55
Ma visto il tempo acconcio ala vendetta,
cangia in soffio crudel l’aura soave,
siché di là, dove la mano il getta,
torce a forza e distorna il bronzo grave
e, più leggier che fulmine o saetta,
ch’alcun riparo al’impeto non have,
con tanta furia per traverso il lancia
che va dritto a ferirlo insu la guancia.
56
Sovra la manca guancia, ove tremante
palpita il polso entro la tempia cava,
il globo impetuoso e fulminante
percosse la beltà ch’io tanto amava.
Cade alo sconcio colpo e’l bel sembiante
scolora e sozzamente il macchia e lava
perché tosto ne spiccia insu l’arena
di tepid’ostro una vermiglia vena.
57
Qual papavere suol da falce o vento
tronco il gambo, languir pallido e chino,
tal’era apunto; il solito ornamento
sparia dal volto e lo splendor divino.
Moria nel labro il bacio e giacea spento
in sepolcro di squallido rubino.
Gli occhi, già dele Grazie alberghi fidi,
rimanean cave fosse e voti nidi.
58
Tosto che quel bel viso io vidi tinto
del sangue, oimé, dela crudel ferita,
corsi a recarmi in braccio il mio Giacinto
per dar con erbe ala gran piaga aita.
Ma poich’ogni opra alfin nel corpo estinto
fu vana a richiamar l’alma fuggita,
piansi così che dele stelle il duce
parea fonte di pianto e non di luce.
59
Giuro per la beltà che sì mi piacque
e che portò d’ogni altra in terra il vanto,
che quando il mio Fetonte ucciso giacque
non mi dolsi così né piansi tanto.
E ben giusta cagione allor mi nacque
di sentir maggior duol, far maggior pianto,
ch’assai più forte e più mortale ardore
di quelch’accese il mondo arse il mio core.
60
Pindo sel sa s’io più cantai né risi,
sasselo il coro mio pudico e saggio.
Seben su’l carro d’or poscia m’assisi,
rotai gelato e ruginoso il raggio;
e passando di là, dove l’uccisi,
nel mio sublime e sferico viaggio,
sempre cinto di nubi atre e maligne
sovra i campi versai piogge sanguigne.
61
Volsi per gloria sua, per mio conforto
lasciarne in terra una memoria bella.
Cangiai del gioco lo steccato in orto,
in aragna mutai la reticella
e feci un nobil fior dal corpo morto
pullular in virtù dela mia stella,
che con note di sangue ha su le foglie
scritte le sue sventure e le mie doglie.
62
Produssi ancor su le vicine rive
gemma di qualità simile al fiore,
in cui pur di Giacinto il nome vive
e di porpora e d’or serba il colore
e la forza del fulmine prescrive
e la peste discaccia e’l mal del core.
Ride ne’ dì ridenti e, per costume,
quand’io mi turbo in ciel, turba il suo lume. –
63
Qui conchiuse il parlar lo dio lucente
quando colui ch’a premer l’uve insegna
– Questa (ricominciò) che veramente
merita gran pietà sciagura indegna
risovenir mi fa d’un accidente
peggior d’ogni altro che nel mondo avegna,
loqual, finché su i poli il ciel si giri,
sempre m’apporterà pianti e sospiri.
64
E sicome nel caso acerbo e reo
non fur men gravi le ruine e i danni,
così non men d’Apollo ha Bassareo
dura cagion di dolorosi affanni;
perché nel’infortunio, onde cadeo
misero, insu l’april de’ più verd’anni,
sicome anco in beltà non ne fu vinto,
così non cede Pampino a Giacinto.
65
Pampino, o bella dea, che sovra l’erme
rive già nacque del mio bel Pattolo,
fu dela stirpe degli Amori un germe,
fior di vera bellezza in terra solo.
Se non andasse ignudo e fusse inerme,
porria rassomigliarlo il tuo figliolo.
S’egli non avea gli occhi ed avea l’ale,
potea parer Amor nato mortale.
66
La bella fronte gli adornò Natura
di gentil maestà, d’aria celeste.
Dolce color di fragola matura
gli facea rosseggiar le guance oneste.
Nela bocca ridea la grana pura
tra schiette perle in doppio fil conteste;
né quivi avea la rosa purpurina
prodotta ancor la sua dorata spina.
67
La notte tenebrosa, il ciel turbato
si rischiarava de’ begli occhi al lume.
Il vago piede imporporava il prato,
la bianca mano innargentava il fiume.
Qualor liev’aura con soave fiato
confondendogli il crin, scotea le piume,
parea sparso su’l collo il bel tesoro
sovra un colle d’avorio un bosco d’oro.
68
«Che veggio oimé! (diss’io quando ferito
fui pria dalo splendor del chiaro raggio)
chi è costui? di qual contrada uscito?
Deh qual seme il produsse? o qual legnaggio?
Non già, benché tra selve ei sia nutrito,
di ninfa il partorì ventre selvaggio.
No no, non nacque mai nel terren nostro
dela schiatta de’ fauni un sì bel mostro.
69
Esser non può giamai che beltà tanta
di così rozza origine proceda.
Mercurio è certo ala sembianza santa
o più tosto Imeneo, quant’io mi creda.
Ma dove son del’una e l’altra pianta
i pennuti talari? ov’è la teda?
poich’ha il crin d’oro, esser dee forse Apollo
senza faretra e senza cetra al collo.
70
O se il giudicio mio non è fallace,
se non m’ingannan le fattezze rare,
sarà, benché non porti arco né face,
il figlio di colei che nacque in mare;
ma, scusimi la dea, sia con sua pace,
io dirò ch’impossibile mi pare
che membra sì gentili e sì leggiadre
deggian Marte o Vulcano aver per padre.
71
Dimmi, vago fanciul, dimmi chi sei?
Tua progenie dichiara e tua fortuna.
Sì sì, so che m’appongo e’l giurerei,
certo del Sol ti generò la Luna,
perch’assai ti vegg’io simile a lei
quand’è serena e senza nube alcuna,
e tal ti mostra ancor la fronte adorna
di due sì belle e giovinette corna.
72
Or, qualunque tu sia, bench’io sia dio,
per te mia deitate il ciel disprezza,
e te mortal far possessor vogl’io
di quanta ho colassù gloria e grandezza;
peroché se celeste è il sangue mio,
celeste è ancor la tua somma bellezza.
Privo di tanto ben, rifiuto e sdegno
l’eterne gioie del beato regno.
73
Non curo senza te, da te diviso,
su le stelle abitar nume immortale,
perch’essilio mi fora il paradiso
e lontan dala luce ombra infernale.
Più d’un sol guardo tuo, più d’un sorriso
che del divino nettare mi cale.
Abbiami, o siasi in cielo o siasi altrove,
purché Pampino m’ami, in odio Giove».
74
Mentr’io così parlava, ei dela loda
superbiva ridente e baldanzoso
e, dimenando la lasciva coda,
dava segno che’l cor n’era gioioso.
Or chi sarà che con pietà non m’oda?
o qual fia che non pianga occhio pietoso,
mentr’io racconto, ahi sfortunato! altrui
le delizie e i piacer ch’ebbi con lui?
75
Quando il meriggio col flagello ardente
sferza rabbioso la campagna aprica,
ne raccogliea, ne nascondea sovente
tra l’ombre dense una selvetta antica
e scorgeane amboduo piacevolmente
il corpo essercitar con la fatica,
lanciando il tirso over la pietra in alto
ala lotta, ala danza, al corso, al salto.
76
Né palme o lauri eran le spoglie e i pregi
dela vittoria ai duo felici atleti,
ma ghirlande e sampogne e di bei fregi
ricchi coturni e zani e dardi e reti;
ed oltre questi ancor, quantunque egregi,
altri premi più dolci e più secreti.
Le pugne eran senz’ire e senza offese
ed era arbitro Amor dele contese.
77
Quelle bellezze rustiche ed incolte,
quelle sue chiome scarmigliate e sparte,
assai più mi piacean di molte e molte
che polir suol lo studio, adornar l’arte.
Gli orsacchini cacciava anco ale volte
e i leoncini in questa e’n quella parte;
ed io per le foreste e per le tane
gli porgea l’arco e gli menava il cane.
78
Talor nel’onde placide e tranquille
seco scendea del fiume amico e fido
e lavandoci insieme, alte faville
traea dal freddo umor l’arcier di Gnido.
Di gigli e rose e mille fiori e mille
si fregiava la ripa intorno al lido
e facea con fresch’erba in largo giro
corona di smeraldo al suo zaffiro.
79
Gli aspri egipani e i ruvidi sileni
rompeano anch’essi il cristallino gelo.
S’attuffavan nel gorgo i fauni osceni
col capo al’acqua e con le piante al cielo
e scoprivan di fuor, curvando i seni,
de’ rozzi dorsi il rabbuffato pelo,
poi de’ pesci dorati insu le sponde
traean le prede dale lucid’onde.
80
Altri lungo il bel rio ch’entro le vene
preziose ricchezze avea celate
e diffondea su le purpuree arene
seminatrici d’oro acque gemmate,
le rilucenti pietre, ond’eran piene,
iva scegliendo e le conchiglie aurate;
ed io sempre ala pesca, al nuoto, al bagno
del vezzoso fanciullo era compagno.
81
Per qualunque di Lidia estrania riva
sempre il seguia con piè spedito e presto.
Se cantava talor, lieto io l’udiva,
se poi taceasi, io n’era afflitto e mesto.
La notte in odio avea che mi rapiva
quel sol, senza il cui lume or cieco resto.
Così passai, mentr’ebbi i fati amici,
col satiretto mio l’ore felici.
82
Ma volse il ciel che da me lunge un giorno
su’l tergo, oimé! d’un fiero tauro ascese;
di verdi foglie un guernimento adorno
per lo petto e per l’omero gli stese;
legato in fronte al’un e l’altro corno
un fiocco di papaveri gli appese;
ed ala bocca per frenarlo al corso
di pieghevol corimbo ei fece il morso.
83
Sovra la groppa di viole e rose
fabricogli le barde e le girelle.
Poi su le spalle floride e frondose,
com’ai destrier s’adattano le selle,
gli rassettò dintorno e gli compose
la sua dipinta e variata pelle;
e’nsieme attorto con purpureo nastro
si fè di giunchi e ferule un vincastro.
84
Poiché’l toro crudel, ch’orsi e leoni
vinse di rabbia, acconcio ebbe in tai guise,
prese a montarlo e’nsu i fioriti arcioni
selvaggio cavalier, lieto s’assise,
ed a disdosso e senza staffe o sproni
a governarlo intrepido si mise.
Così per balze alpestri e per vie torte
sferzava il suo uccisor verso la morte.
85
Finché si fu nel prato apien pasciuto
e nel ruscello abbeverato intanto,
come intelletto e senno avesse avuto
o stato fusse al suo pastore a canto,
soffrendo il peso, l’animal cornuto
cavalcar, maneggiar lasciossi alquanto,
onde Pampino mio parea per l’erba
altra Europa più bella e più superba.
86
Ma perché forse troppo egli sen gisse
di tanta gloria e di tal soma altero,
o perch’invida il vide e sen’afflisse
Cinzia ch’ha de’ giovenchi il sommo impero
e con acuto stimolo il trafisse,
di mansueto ei diventò sì fiero,
ch’incominciò per discoscesi calli
a saltar fossi ed a trascorrer valli.
87
Per l’erte cime dela rupe alpina
impetuosamente i guadi passa,
e con corna traverse e fronte china,
elci e roveri urtando, il capo abbassa
e porta nel’andar tanta ruina
che pietre spezza ed arbori fracassa.
Fiamme dagli occhi torvi aventa e scocca
ed orrendi bramiti ha nella bocca.
88
Vede il garzon ch’indomita e feroce
la bestia a traboccar va per la balza
e con la man si sforza e con la voce
di placar quel furor; ma più l’incalza,
ché rinforza sbuffando il piè veloce,
apre le nari e l’irta corda inalza,
torce lo sguardo e, con oblique rote,
la schiena incurva e la cervice scote.
89
«Dove, dove ten corri? arresta i passi
toro perverso, inessorabil toro.
Non vedi oimé! che tra quest’aspri sassi
miseramente e senza colpa io moro?
Non far non far, che lacerata io lassi,
tra pruni e sterpi, questa chioma d’oro,
questa, ch’al mio fedel cotanto piace
e so ch’è del suo cor nodo tenace.
90
Io t’adornai le corna e di bei fiori
le mani a coronarti ebbi sì pronte
e tu, nel fior de’ giorni miei migliori,
precipitar mi vuoi da questo monte.
Vedi che son anch’io simile ai tori?
come la tua, falcata è la mia fronte;
sei pur ministro a coltivar la spica
dela dea che di Bacco è tanto amica.
91
Ma se di me, che troppo incauto fui,
pietà non hai, né curi un nume santo,
portami almeno al mio signor, da cui
forse avrò dopo morte onor di pianto.
Forma umana favella e narra a lui
l’empia mia sorte e miserabil tanto
e che più duolmi esser da lui diviso
che qui restar sì crudelmente ucciso».
92
Questi esprimer piangendo ultimi accenti
gli udir le ninfe de’ vicini colli,
le ninfe ch’a me poi meste e dolenti
vennerlo a referir con gli occhi molli.
Ma l’orgoglioso bue, che d’ire ardenti
avea gli spirti infuriati e folli,
non curando i suoi preghi o le mie doglie,
trasselo alfine ove lasciò le spoglie.
93
Scotendo il dorso con terribil crollo,
poscia ch’ebbe un gran salto in aria preso,
da sé lunge lo spinse, indi lasciollo
sovra il duro terren battuto e steso,
onde su le vertigini del collo
cadendo del bel corpo il grave peso,
fiaccò la nuca e’n guisa il capo infranse
che la rigida selce anco ne pianse.
94
Lasso! con quai querele e quali accuse
io maledissi allor le stelle tutte?
Pensate voi, poiché le luci ei chiuse,
se rimaser le mie di pianto asciutte.
Piansi e, d’ambrosia dolcemente infuse
le fredde membra e di bel sangue brutte,
così stracciato in braccio io mel’accolsi
e del suo fato e più del mio mi dolsi.
95
«Dimmi Pampino mio, deh! dimmi or quale
t’uccise empio e crudel mostro iracondo,
per dar a Bacco tuo doglia immortale,
ch’esser solea per te sempre giocondo?
Se forse ti sbranò crudo cinghiale,
la ria progenie estirperò dal mondo,
senza lasciarne pur di tanto stuolo
ale saette di Diana un solo.
96
Se tigre accesa d’ira, ebra d’orgoglio,
del’amato mio ben fu l’omicida,
or or dal carro mio scacciar la voglio,
come rubella, al suo signore infida.
Se fier leone mi diè questo cordoglio,
a quanti in grembo l’Africa n’annida,
morte darò, né fia pur ch’ai leoni
dela gran madre Cibele perdoni.
97
Ma se perfido toro e maledetto
de’ tuoi dì non maturi il filo ha mozzo
e con gloria sen va, come m’han detto,
del tuo sangue gentil macchiato e sozzo,
di mostrargli ben tosto io ti prometto
quanto il mio del suo corno ha miglior cozzo;
o il mio tirso farà ch’a lasciar abbia
sovra il tumulo tuo l’ultima rabbia.
98
Perché non seppi che calcar le spalle
bramavi pur d’un tauro iniquo e reo?
chi destrier generosi e le cavalle
dal’armento pisano e dal’eleo
e da’ presepi antichi e dale stalle
t’avrei recati del gran monte ideo;
patria del bel fanciul, da Giove accorto
sottratto ala cagion che mi t’ha morto.
99
Se stati i miei pensier fusser presaghi
che per un vano e giovenil piacere
erano i tuoi desir cupidi e vaghi
d’essercitar cavalli o domar fere,
t’avrei dato di Rea sferzar i draghi,
t’avrei dato affrenar le mie pantere,
fatto dela sua stessa aurea quadriga
t’avrebbe Apollo, a mia richiesta, auriga.
100
Ahi! l’orco sordo, ond’altri unqua non riede,
mai non si placa e suo rigor non frange,
né mai rende Pluton le tolte prede
per ricco dono di chi prega e piange;
che s’accettar volesse aurea mercede,
quant’oro accoglie e quante gemme il Gange,
quante ricchezze han gl’Indi e gli Eritrei,
in cambio del mio Pampino darei.
101
Deh! che’l poter morir caro mi fora
per unirmi al mio ben nel cieco regno.
Ma tu, spietato sol, che chiara ancora
porti la luce tua di segno in segno,
perché di far col tauro, oimé! dimora
negli alberghi del ciel non prendi a sdegno,
poich’ha sepolto un tauro empio d’inferno
un sì bel sole in occidente eterno?
102
Fuggano i fauni la funesta sponda,
piangan le ninfe la crudel fortuna,
scolorisca ogni fior, secchi ogni fronda,
copra l’infausto ciel nebbia importuna,
rompa l’urna il Sangario e l’acqua bionda
del mio Pattolo omai diventi bruna,
abborra Dioneo con le baccanti
le liete mense e gli organi sonanti.»
103
Così doleami e’l rozzo stuol caprigno
seguiva, alto ululando, i miei lamenti.
Giaceva il busto squallido e sanguigno,
ma scintillavan pur gli occhi ridenti.
Ancora il volto amabile e benigno
rose fresche nutriva e fiamme ardenti,
né dale labra smorte e scolorite
eran l’afflitte Grazie ancor partite.
104
Quand’ecco Atropo grida: «Il sommo Giove
più non vuol, Bacco, omai che ti quereli.
Il fato al pianger tuo con grazie nove
dal’usato tenor distorna i cieli,
e’l gran decreto a cancellar si move
dele Parche implacabili e crudeli
onde, malgrado dele stelle ree,
non passerà’l tuo amor l’acque letee.
105
Vive Pampino vive e benché sembri
spento de’ suoi begli occhi il lume chiaro,
vedrai tosto cangiati i vaghi membri
nel buon licor ch’altrui sarà sì caro.
Ti diè, so che con duol tene rimembri,
morendo aspra cagion di pianto amaro,
per dar al mondo tutto, orch’egli è morto,
cagion poi di letizia e di conforto».
106
Disse, e miracol novo allor m’apparse,
prese altra forma il giovane infelice.
Il cadavere essangue abbarbicarse
vidi ratto nel suol con la radice
e, fatto lungo stipite, consparse
vari rampolli poi dala cervice.
Le braccia germogliar tralci novelli,
divenner foglie i panni, uve i capelli.
107
Serpe la nova pianta e i rami ombrosi
piegando intorno l’incurvate cime,
serbano ancor ritorti e flessuosi
l’antica effigie dele corna prime.
Mutasi in vino il sangue e sanguinosi
gli acini sono, onde’l licor s’esprime
e quella spoglia, ch’insensata e priva
era intutto di vita, in vite viva.
108
Tosto ch’io vidi il trasformato busto
vestir del vago autunno i verdi onori
e i tronchi ignudi del vicino arbusto
dela pompa arricchir de’ suoi tesori,
venni in desio d’assaporar col gusto
de’ bei racemi i generosi umori
e dal’estinto autor de’ miei tormenti
colsi i maturi grappoli pendenti.
109
Premuto il dolce frutto infra le mani,
stille n’uscir melate e rugiadose
e scaturir dal gonfio seno i grani
acqua odorata e di color di rose.
Raccolser meco stupidi i silvani
quelle porpore belle e preziose
e con le labra e con le man vermiglie
del prodigio essaltar le meraviglie.
110
Ed io quando di manna umidi e gravi
schiacciai col dente i turgidi rubini
e vie più dolci li trovai che i favi,
di pampini fregiar mi volsi i crini;
ed, «o Pampino (dissi) ancor soavi
sono i costumi tuoi più che divini;
fatto il bel corpo tuo frondoso e verde
le sue prime dolcezze ancor non perde.
111
Certo tu vivi e per pietà l’inferno
rivocò la sentenza aspra e severa,
né veder ti lasciò nel basso Averno
l’occhio fatal dela crudel Megera.
Non diè la terra al suo ornamento eterno
tomba commune ala vulgare schiera,
ma vergognossi, a cose vili avezza,
di nascondere in sen tanta bellezza.
112
Il mio gran padre in arboscel ferace
cangiato t’ha per onorare il figlio
e del volto, che già fu sì vivace,
ti lascia ancora il bel color vermiglio
e fa che’l succo tuo dolce e mordace
tranquilli il petto e rassereni il ciglio
e sgombri dal pensier le nebbie oscure
dele noiose ed importune cure.
113
O delizia del mondo e de’ mortali,
o del nettar celeste essempio in terra,
spiritosa bevanda, oblio de’ mali
e pace de’ dolor ch’altrui fan guerra,
quai fur mai forze o quai virtuti eguali
al’invitto valor che’n te si serra?
Ogni altro frutto omai per te s’aborra,
né teco in pregio altr’arbore concorra.
114
Qual più famosa pianta in selva alberga
convien che ceda al tuo ben nato stelo
e che, qual serva tua, curvi le terga
sotto quel peso ch’è sì caro al cielo.
Non fia giamai ch’a tanta gloria s’erga
il fico, il pruno, il melagrano, il melo;
la palma istessa ancor, che qual reina
sovra l’altre trionfa, a te s’inchina.
115
Ed a ragion la prima laude avrai
da fauni, da pastori e da bifolci,
perché l’altre non dan, come tu dai,
diletti al senso sì soavi e dolci.
Tu più d’ogni altra agli egri spirti assai
porgi ristoro e’l cor rallegri e molci;
languiscon di te privi e balli e canti,
né son mai senza te mense festanti.
116
Or non cur’io, purché tu meco viva,
che sacra a Giove sia la quercia antica;
il ricco pioppo ad Ercole s’ascriva,
di Febo il dotto lauro esser si dica;
abbia Minerva pur la verde oliva,
abbia Cerere pur la bionda spica,
la bella rosa a Citerea si dia,
sola di Bacco tuo la vite sia».
117
Tacqui ciò detto e ben capace fossa
cavar feci nel sasso e ben agiata
e’l fresco fior dela vendemmia rossa
riporvi dala rustica brigata,
onde da sé, non pesta e non percossa,
uscì la prima lagrima rosata.
Poi cominciai nell’apprestato bagno
col torchio a premer l’uve e col calcagno.
118
Ferve già l’opra e già viene a carpirsi
il nuovo parto de’ viticci opachi.
I coribanti insani e gli agatirsi
van quinci e quindi e i satiri imbriachi.
Chi sfronda i rami per ghirlande ordirsi,
chi svelle i raspi e chi ne spicca i vachi,
chi n’empie il grembo da quel lato e questo,
chi n’attende a colmar fescina o cesto.
119
Altri, come talor nel’aia stanno
dele biade sgusciate i monti integri,
nel cavo vaso raccogliendo vanno
i grani in mucchi e scegliono i più negri.
Altri, portando i palmiti che fanno
oltremodo brillar gli spirti allegri,
vien la gravida già madre del vino
con risi e canti a scaricar nel tino.
120
Parte poiché fornito ha di comporre
il cumul tutto, onde la cava è piena,
l’uva che, già calcata, in rivi scorre
a vicenda co’ piè sviscera e svena.
Già spiccia il vino e già comincia a sciorre
i suoi vivi torrenti in larga vena
e fa bollir la violata spuma,
da cui grato vapore essala e fuma.
121
Mugghia la turba intorno ale bell’onde
che’l purpureo ruscel pertutto versa;
nel canal che ne piove e si diffonde
quei tien la man, questi la bocca immersa;
quei dele dolci stille e rubiconde
tutta ha dentro e di fuor la gola aspersa;
questi dapoi che’l ciottolo n’ha pieno,
v’attuffa il volto e sen’innaffia il seno.
122
Chi stringe con le dita entro la tazza,
di lieti fiori incoronata, il grappo;
chi di libarlo apena si sollazza
col sommo labro e chi tracanna il nappo.
Quel furor dolce e quella gioia pazza
fa che non curi alcun lino né drappo,
onde fan rosseggiar l’uve bevute
l’ispide barbe e le mascelle irsute.
123
Alcun ven’ha che la vital rugiada
con un corno di bue per bere attigne
e, gustata che l’ha, tanto gli aggrada
la sostanza del ciel data ale vigne,
che forza è poi che titubando cada
con luci enfiate e torbide e sanguigne
e, vinto da colui che mutò forma,
ebro vaneggi o tramortito dorma. –
124
Non ebbe forza l’inventor del mosto
di più dir altro ai circostanti numi,
che l’amara memoria inondar tosto
gli fè le guance di duo caldi fiumi,
onde il sembiante in grave atto composto,
tacendo s’asciugò gli umidi lumi;
e poich’egli deltutto ebbe taciuto,
così parlò la socera di Pluto:
125
– Ne’ vostri casi, o Dei, non vi consolo,
che di pianto son degni e di cordoglio;
ma chi langue d’amor non è mai solo:
anch’io d’Iasio rammentar mi soglio;
taccio quanto soffersi affanno e duolo,
ché l’antiche follie narrar non voglio;
narrerò d’un garzon tragedia tale
ch’io piansi più l’altrui che’l proprio male.
126
Né trovar si poria chi farne fede
meglio di me, che’l vidi, unqua potesse,
perch’ove bagna ala mia reggia il piede
l’onda di Scilla, il caso empio successe.
Videlo ancor costei che tra noi siede
e’l vider seco le sue ninfe istesse
e v’accorse pietosa e sene dolse
e tra le braccia il misero raccolse.
127
Aci il gentile, un pastorel sicano,
fu già di Galatea l’unico foco,
Galatea bella che seguita invano
era da Polifemo in ciascun loco.
Appo lui, quasi stilla al’oceano
era ogni altra bellezza o nulla o poco.
Onde ciascuna ninfa empiea d’amore
e ciascun uom d’invidia e di stupore.
128
Cedano i duo che qui lodato han tanto
di Semele il figliuolo e di Latona
o qual maggior beltà celebra il canto
dele dotte sorelle in Elicona.
Il suo puro candor toglieva il vanto
ale bianche colombe di Dodona;
il suo dolce rossor faceva oltraggio
ai color del’aurora, ai fior di maggio.
129
Una collina che risponde al mare
Vertunno con Nettuno accoppia e mesce.
Per entro l’onde sue tranquille e chiare,
publico albergo al mal difeso pesce,
un pavimento lucido traspare,
loqual vaghezza al vago sito accresce,
di nicchi fini e di lapilli tersi,
tutti smaltati di color diversi.
130
Là’ve dal’erba tremula indistinto
agitato dal flutto il giunco pende,
di vario musco il margine dipinto
molle di fresca arena un letto stende,
sì d’alti sassi incoronato e cinto
che soffio d’aquilon mai non l’offende.
Sol placid’aura intorno al curvo grembo
gl’increspa l’orlo e gl’innargenta il lembo.
131
Tinta d’azzurro nele ripe estreme
par la verdura e l’acqua è verdeggiante.
Ragionar ponno e salutarsi insieme
il cultor quinci e quindi e’l navigante.
Mentre l’un rade il lido e l’altro il preme
han communi tra lor l’alghe e le piante.
L’un può col remo cor l’uve dal tralce,
l’altro i coralli mieter con la falce.
132
Qui solea Galatea, lasciando il ballo
del’altre ninfe e dele dee marine,
dal tergo d’un leggier pescecavallo
su l’asciutto smontar del bel confine.
Ed Aci dele membra di cristallo,
molli di perle ed umide di brine,
con mille caldi sospiretti e mille
gli rasciugava le cadenti stille.
133
Un giorno uscita pur, come solia,
a scherzar per le liquide campagne,
venne il suo amor per la cerulea via
separata a trovar dale compagne
e, discesa ove fa l’isola mia
un promontorio sol di tre montagne,
senza sospetto alcun d’insidia altrui
stavasi sola a trattener con lui.
134
Di duo pendenti d’indici zaffiri
gli avea guernito il destro orecchio e’l manco
e circondato con minuti giri
di tre linee di perle il collo bianco.
Teneagli con sorrisi e con sospiri
l’una mano ala guancia e l’altra al fianco
e, dolce a sé stringendolo, nutriva
dentro il gelido sen la fiamma viva.
135
E, baciandol, dicea: «Chi fia che sciolga
giamai questo, o mio ben, caro legame?
Pria che si rompa o ch’altri a me ti tolga,
vo’ che si rompa il mio perpetuo stame;
frema, scoppi, se sa, s’adiri e dolga
il terror di Sicilia, il mostro infame,
di cui più fiera e spaventosa belva
non vive in tana e non alberga in selva».
136
Fatto qui pausa ai vezzi e, senon tronche,
lentate le dolcissime catene,
segnavan con le pietre e con le conche
dele gioie la somma e dele pene.
Su lo scoglio scolpian per le spelonche,
per la riva scrivean sovra al’arene,
suggellando i caratteri co’ baci,
Aci di Galatea, Galatea d’Aci.
137
Or, mentre incauti e senza alcun pensiero,
stanno in tal guisa a trastullarsi i due,
ecco viene il ciclopo orrido e fiero
a pascolar le pecorelle sue.
Sotto la manca ascella un cuoio intero
per zanio tien di ricucito bue.
Ben si scorge il crudel, quand’egli giunge,
isoleggiar su l’isola da lunge.
138
Non di lieve siringa o di sambuca,
ma di massicci abeti ha cento canne,
cento buche ogni canna ed ogni buca,
misurato il suo giro, è cento spanne.
Questa suol, quand’avien ch’ei riconduca
la greggia al’erba fuor, porsi ale zanne
ed accordar con cento fiati e cento
de’ diseguali calami il concento.
139
«Ti reco, o Galatea, da quelle rupi
due pargolette e leggiadrette damme,
purché gli ardor ti piaccia interni e cupi
alquanto mitigar dele mie fiamme.
A te le dono e le sottrassi ai lupi
che le toglieano ale materne mamme;
ma te, lupa crudel, non fia ch’io scolpi,
ch’assai peggio il mio cor divori e spolpi.
140
Non mi sprezzar, perch’io di questa roccia
abiti l’aspra e ruvida latebra,
né perché’l lume mio, ch’a goccia a goccia
per te si stilla, appanni una palpebra.
Non mi schernir, né far che sì mi noccia
l’orgoglio onde ten vai tumida ed ebra.
S’io sempre a tuoi m’inchino e m’inginocchio
aborrir tu non devi il mio grand’occhio.
141
Bench’abbia un occhio solo, io non son orbo,
il mio sguardo e di lince e non di talpe;
ben ti scoprì l’altr’ier presso quel sorbo
il busto mio, ch’avanza Olimpo e Calpe,
col fanciul ch’io farò pasto del corbo,
ad onta mia scherzar sotto quest’alpe.
Ma s’altra volta il colgo, il mal fia doppio:
io ten farò sentir tosto lo scoppio».
142
Così cantava e volea più dir forse
col guardo sempre intento ala marina,
quand’egli a caso inver la falda il torse
che terminava la gran balza alpina
e dela coppia misera s’accorse,
laqual non prevedea tanta ruina
e, d’amor tutta cieca e tutta ardente,
al periglio vicin non ponea mente.
143
«Ah! che ben ti vegg’io (colmo d’orgoglio)
non fuggir Galatea (disse il gigante);
ti veggio e la vendetta omai non voglio
più differir di tante ingiurie e tante;
e vendicarmi vo’ con questo scoglio
ch’è del tuo duro cor vero sembiante
e la luce per te non troppo allegra
segnar di questo dì con pietra negra».
144
Detto e fatto, in un punto ecco un fracasso,
ond’intorno il ciel freme e’l mar rimbomba
e d’alto inun precipitato a basso
mezzo il gran monte impetuoso piomba.
Sovra il miser garzon ruina il sasso
e gli porta in un punto e morte e tomba;
sotto la rupe che’l percote e pesta,
fulminato e sepolto insieme resta.
145
Io non so qual affetto al’improviso
più nel cor dela ninfa allor s’avanzi;
l’ira contro il fellon, ch’abbia reciso
il bel nodo ch’Amor strinse pur dianzi,
o la pietà del giovinetto ucciso
loqual sì bello ancor le giace innanzi,
che non con altri forse atti e pallori,
se potesser morir, morrian gli Amori.
146
«Dunque per te (prorompe alfin gridando)
il fior d’ogni mio ben langue distrutto,
perfido lestrigon, mostro essecrando,
portento di natura immondo e brutto?
Così grazia e mercé s’impetra amando?
così s’ottien dele fatiche il frutto?
Non credo no, né fia mai ver, ch’un core
rozzo e villano ingentilisca amore.
147
Ma che? Ben pagherai d’un tanto torto
la pena in breve, di quel lume privo,
che quel terreno sol, ch’oggi m’hai morto
indegno fu di rimirar già vivo.
Benché’l tuo sdegno insano e poco accorto
util gli fu per essergli nocivo.
D’uccider ti credesti Acide mio
e t’avedrai che d’uom l’hai fatto dio».
148
Sì dice, indi quel corpo amato e bello
ch’incapace è di vita e di salute,
trasforma in chiaro e limpido ruscello
con la divina sua fatal virtute;
e poich’ha del gentil fiume novello
con le lagrime sue l’acque accresciute,
il salso inun col dolce umor confonde
e rimescola insieme onde con onde.
149
Udiste, o dei, del fiero il crudo sdegno,
non già quanto a seguir n’ebbe dapoi.
Io’l so, che’l vidi, e parmi ancor ben degno
da ricordarsi e raccontarsi a voi.
Io’l vidi e’l so, però che’l vago ingegno,
intento ad osservar negli atti suoi
ciò che disse e che fè, ciò che gli avenne,
più salda impression mai non ritenne.
150
Così vedrete alfin che pur il colse
la bestemmia fatal di Galatea,
onde quant’egli errò, tanto si dolse
perdendo il sol, la forma e la sua dea.
La giusta legge del destin non volse
ch’impunita n’andasse opra sì rea.
Sovente vendicar le cose belle,
come simili a lor, soglion le stelle.
151
Quando del colpo iniquo ed inumano
gonfiando, insuperbito, i suoi furori,
d’aver morto il rival di propria mano
vantava seco i trionfali onori
e credea follemente, il mostro insano,
dela ninfa gentil goder gli amori,
permise il ciel che di lontan venisse
ad ingannarlo, ad acciecarlo Ulisse.
152
Giacea, sicome sempre avea per uso
in fondo al’antro suo scabroso e vecchio.
Aveagli il vel dela gran luce chiuso
un grave oblio dal’un al’altro orecchio,
quando tra’l vino e’l sonno ebro e confuso,
il terso dela fronte unico specchio
con doglia incomparabile repente
fuor del concavo suo sveller si sente.
153
Non farian tal romor l’eterne rote
se cadesse del ciel l’immensa mole
o fusse pur, sicome esser non pote,
dal’epiciclo suo schiantato il sole,
con quale strido e strepito si scote,
con qual furia il crudel s’arrabbia e dole,
mentr’il guerrier nel ciglio il pal gli ficca
e’nsu’l bel del dormir l’occhio ne spicca.
154
Quasi fin nel cervel la rigid’asta
del’acuto tizzon dentro gli caccia
e dela gemma sua vivace e vasta
impoverisce la terribil faccia.
Quei con la fronte sanguinosa e guasta
pasimando distende ambe le braccia,
poi si leva e tenton va con la mano,
ma l’aria stringe e lui ricerca invano.
155
Ricerca il feritor, né sa, né vede
dove né come al suo furor si fura.
Al’avanzo de’ miseri ne chiede
che tien sepolti entro la grotta oscura,
ma la voce tremante indietro riede
ed è tolta a ciascun dala paura;
il tuon del grido, il picchio dela clava,
tutta fa risentir l’ombrosa cava.
156
Aprendo l’uscio alfin del cavo speco,
si terge il sangue onde la fronte è sozza
e, quando al chiaro sol si trova cieco,
molti di quella turba uccide e strozza.
Smembra i compagni del facondo greco,
come leon faria lepre o camozza.
Parte al sasso n’aventa e non indugia
ch’un ne sbrana, un ne scanna, un ne trangugia.
157
Perduto il dì, ch’a lui per sempre annotta,
battesi ad ambe man l’estinto lume,
e dala piaga dela fronte rotta
fa di sangue sgorgar torbido fiume;
fuor dele labra, per l’opaca grotta,
stilla bave sanguigne e nere schiume
e nel fango del suolo e nela polve
sestesso immerge e bruttamente involve.
158
Del crin che, rabbuffato e non tonduto,
con lunghe ciocche insu le spalle pende,
del mento inculto, squallido e barbuto
da cui ben folto il pelo al petto scende,
del petto istesso, il cui pelame irsuto
rigido tutto e setoloso il rende,
gli aghi pungenti e l’irte lane e grosse
per ira e per dolor si straccia a scosse.
159
Vuol pur trovar, per vendicar l’offesa,
chi gli serrò la lucida finestra.
Su l’entrata s’asside aspra e scoscesa
che fa spiraglio ala spelonca alpestra.
Sotto la mazza attraversata e stesa
uscir fa la sua greggia e con la destra,
mentre la chiusa sbarra inalza ed apre,
di corno in corno annovera le capre.
160
Ma come saprà mai dove si celi
uom sì cauto, sì scaltro e sì sagace?
chi può pensar ch’un vello asconda e veli
l’insidioso ingannator fugace?
Monton s’infinge e mente i cozzi e i beli,
gli palpa il tergo e quei camina e tace.
Così coverto di lanosa pelle
gli si sottragge e passa infra l’agnelle.
161
Or poscia che non sol l’occhio gli ha tolto
col tronco arsiccio il peregrino argivo,
ma dal’infame arena il legno sciolto
già dala cruda man campato è vivo,
furia, ondeggia, vaneggia e, come stolto
non men di senno che di luce privo,
languendo a un punto e minacciando insieme,
più del mar che’l produsse, orribil freme.
162
Uscito indi del’antro, arbori intere
fiaccò con l’urto e con la man divelse,
né, tra quell’ire sue superbe e fiere,
questo tronco da quel distinse o scelse.
Sbarbò frassini antichi ed elci altere,
spezzò cerri robusti e querce eccelse
e furibondo errò pertutto e forse
cento volte, quel dì, l’isola corse.
163
Cerca e ricerca ove Nessun s’appiatta
ed alza il grido spaventoso e grande.
Ma quel Nessun, che la bell’opra ha fatta,
già per l’acque lontan la vela spande.
Nessun per ogni tana ed ogni fratta
chiama e nessun risponde ale dimande,
fuorché dal cupo sasso i tre fratelli
che batton su l’ancudine i martelli.
164
Vola la nave e, quasi augel del’onde,
batte de’ remi le spedite penne
e ne’ sali spumanti il rostro asconde
sospinta in alto dal’alate antenne.
Su le deserte e solitarie sponde
intanto ei con grand’impeto ne venne,
dove si fu pur finalmente accorto
che partito il navilio era dal porto.
165
Allor sì grossa rupe e sì pesante
spiccò dal fianco al gran monte vicino
e, con braccio feroce e fulminante,
lanciolla dietro al fuggitivo pino,
che, pien di fere e carico di piante
un bosco sostenea su’l tergo alpino,
e seco per lo ciel trattando il vento
trasse col suo pastor tutto un armento.
166
Quasi animato monte imposto a monte,
in cima al’alto ed elevato colle
piantato il crudo in piè, l’orribil fronte
presso le nubi alteramente estolle,
or minacciando al cielo oltraggi ed onte,
or fortuna appellando iniqua e folle,
or bestemmiando in atti orrendi e schifi
il vento, il mar, la vela, il remo e Tifi.
167
Quivi in sì fiere e sì crucciose voci
sue querele spiegò languide e meste
e d’urli sì terribili e feroci
l’aure intronò, le piagge e le foreste,
che seben de’ duo mostri infra le foci
fremea pien di procelle e di tempeste,
giacer parve senz’onda il mar immoto
e tacer euro ed aquilone e noto.
168
Fer tenore e risposta a’ suoi lamenti
le spelonche vicine e’l mar istesso.
Gemer gufi s’udir, fischiar serpenti,
lupi ulular per que’ vallon dapresso.
Corser le ninfe a que’ dogliosi accenti,
Nettuno, il genitor, vi corse anch’esso
e ne piansero in suon flebile e rauco
Tritone e Proteo e Melicerta e Glauco.
169
«Va pur (dicea) va dormi, occhio dolente,
tu, cui tanto è il dormir caro e soave
e fra straniera e traditrice gente
fa pur il sonno tuo profondo e grave.
Va dormi va, ma intanto ampio torrente
d’infruttuose lagrime ti lave.
Occhio sciocco, occhio pigro, occhio gravoso,
come t’ha concio il tuo mortal riposo.
170
Quando più nel’inganno e nel periglio
sguardo devevi aver d’aquila e d’Argo,
allor men cauto il sonnacchioso ciglio
sparger ti piacque d’infernal letargo.
Va dormi va, ma intanto egro e vermiglio
versa di sangue un rio tepido e largo
e questa fosca tua vota caverna
chiudi in sonno perpetuo, in notte eterna.
171
Lasso, più non sperar gli alti splendori
riveder mai dela tua fiamma antica,
né piante verdeggiar, né rider fiori
in valle ombrosa o in collinetta aprica.
Fatta, tua colpa, de’ suoi chiari onori
vedova questa fronte oggi e mendica,
spento del volto mio l’unico raggio,
come farò, se luce altra non aggio?
172
Indarno indarno, o sol, per me rinasci,
poiché m’ingombra sempiterna sera.
Trionfa pur, che negra benda or fasci
del lume mio l’inecclissata sfera,
lieto omai Giove ogni sospetto lasci,
che più non osa il cor, la man non spera,
non spera più con immortal trofeo
l’opra fornir che’ncominciò Tifeo.
173
Alcun più qui dele conteste travi
da lunge il corso o de’ nocchier non spia.
Corran secure pur, corran le navi
per la piana del mar liquida via.
Vengan di merci preziose gravi,
radano a lor piacer la riva mia
e, spiegato per l’onde il volo audace,
senza spavento alcun, passino in pace.
174
Or per trastullo lor, sì com’io fossi
fera che giace incatenata e dorme,
dele grand’unghie mie, de’miei grand’ossi,
del’ampio ciglio e dela bocca informe,
de’ membri tutti smisurati e grossi,
de’ satiri e pastor seguendo l’orme,
verran le ninfe intrepide e secure
a tor con lunghe canne alte misure.
175
Ed io, che già sì grande e sì robusto
non ebbi eguale in paragon di forza,
orché del mio negletto inutil busto
caligine mortal la face ammorza,
mercé di chi v’affisse il remo adusto
e poi fuggì sotto mentita scorza,
mi rimarrò per mio maggior tormento
fischio ala plebe ed agli augei spavento.
176
Deh! quanto fu per me misera l’ora
quando il malnato passaggiero infido
girò la stanca e combattuta prora
a questo mio già dolce antico nido.
Troppo felice lo mio stato fora,
se d’Etna il monte e di Trinacria il lido,
se queste rive un tempo amene e liete
viste mai non avesse il greco abete.
177
È ver che quando il traditor m’assalse
per lasciarmi del’occhio orbato e scemo,
vil omicciuol non osò già, né valse
mover publico assalto a Polifemo;
ma con lusinghe allettatrici e false
tese l’insidia del mio danno estremo
e seppe i suoi pensier perversi e rei
sì ben dissimular, ch’io gli credei.
178
Quanto vaglia il mio braccio e quanto possa
faranne quest’arena eterna fede,
laqual di sangue per gran tratto e d’ossa
rosseggiar tutta e biancheggiar si vede.
Sallo del’antro mio la cupa fossa,
che pien d’umane e di ferine prede,
ha di teschi e di pelli intorno intorno
il negro muro orribilmente adorno.
179
Onde s’allora un picciol cenno, un atto
scorto avess’io del suo villan talento,
pensar si può se strazio egual mai fatto
fu da lupo affamato infra l’armento;
o che questo baston sparse in un tratto
l’ossa n’avrebbe e le minugia al vento,
o ch’avrei forse al’uom malvagio e rio
fatto vivo sepolcro il ventre mio.
180
Nulla curo però quanti soffrire
possa per tal cagione oltraggi e torti,
nulla fra dolorose ombre languire
in un stato peggior di mille morti.
Quelch’ogni pena eccede, ogni martire,
dove speme non è, che mi conforti,
egli è solo il pensar che mi sia tolta
la bella che dal mar forse m’ascolta.
181
M’ascolta forse, e più che mai mi sprezza,
e già vederla ador ador m’aviso,
ch’addita con insolita allegrezza
ale compagne il mio squarciato viso.
Strana miseria mia, dala bellezza,
per cui piango e languisco, esser deriso.
Bellezza, oimé! ch’a desperar m’induce
e priva è di pietà, com’io di luce.
182
Or goda e rida pur, ch’a me s’asconda
per l’altrui fraude eternamente il giorno
e che del lido favola e del’onda
fatto io mi sia per queste spiagge intorno.
Del’una e l’altra mia piaga profonda
poco il danno cur’io, poco lo scorno,
pur che’n riso sel prenda e n’abbia gioco
la soave cagion del mio bel foco».
183
Detto questo, il feroce, inver la costa
dela montagna ripida e sublime
ch’al figlio di Titan già sovraposta
del rubello del ciel le terga opprime,
il passo move e tacito s’accosta
ale più rotte e dirupate cime.
Quivi sovra un scheggion dela pendice
stanco s’asside e, tra sé, pensa e dice:
184
«Villano cavalier che con mentita
spoglia molto conforme al tuo timore
la fronte mia con la crudel ferita
senza luce lasciasti e senza onore,
deh! perché con la vista ancor la vita
non mi togliesti e, inun con l’occhio, il core,
se con gli occhi del cor, di vista privo,
veggio i miei danni e non ho vita e vivo?
185
Io vivo, io veggio e del mio strazio crudo
l’aspra cagion m’è più che mai presente
e mentre un occhio solo in fronte io chiudo,
mille un cauto pensier men’apre in mente,
ch’altro di Galatea novello drudo
seco veder mi fa visibilmente;
il vegg’io ben, seben nottula, e peggio
fuorché’l vedermi cieco altro non veggio.
186
Amor nume possente, amor tiranno
per aggravar de’ miei martir la salma,
quando di me con arte e con inganno
l’assassin scelerato ebbe la palma
pur come ristorar volesse il danno
del’acciecato corpo al’afflitt’alma,
per duol maggior, non per pietà che n’ebbe,
la vista raddoppiò, la luce accrebbe.
187
Ninfa, orch’a me non più visibil sei,
raddoppiar m’udirai l’alto lamento,
che la cagion s’accresce ai pianti miei
e dela gelosia cresce il tormento;
e son nonché de’ salsi umidi dei,
nonché d’ogni augelletto e d’ogni vento,
nonché d’ogni animal del regno ondoso,
degli scogli e del mar fatto geloso.
188
Pesce felice e te vie più felice
pesce ch’hai cento braccia e cento branche,
cui sovente non pur dapresso lice
mirar le membra cristalline e bianche,
ma toccarle talor non si disdice
dal lungo nuoto affaticate e stanche;
le stringi in cento guise, in cento nodi,
e di tal gloria insuperbisci e godi;
189
felice e te, che ripiegata in arco
la coda incurvi e’l tergo ispido e nero
e di ragion talvolta e d’amor carco
fai di testesso a lei nave e destriero.
Poco ad Atlante il suo stellato incarco
invidi tu, di più bel peso altero,
qualor portando i vaghi membri a galla
mordi il suo freno e la sostieni in spalla.
190
Cieco dunque io non son, benché si veggia
l’orbe di questo ciglio orbo rimaso,
che’l chiaro sol che nel mio cor lampeggia,
non tramontò nel miserabil caso
e l’alma innamorata ancor vagheggia
il suo oriente in quest’oscuro occaso
e la beltà, che più di fuor non vede,
a riveder nela memoria riede.
191
Non è questo non è, ch’arde e sfavilla
le celesti varcando oblique vie,
il sol che le folt’ombre apre e tranquilla
dela mia mente e può recarmi il die.
Tu di quest’occhio sol sei la pupilla,
tu sola il sol del’atre notti mie.
S’a me volgi sereno un solo sguardo,
basta ad illuminarmi il foco ond’ardo.
192
Perché più contro il reo la lingua sciolgo,
pur troppo, ahi lasso! in sua ragione accorto?
e qual pro se sdegnoso al ciel mi volgo,
sicom’ei fabro sia del mal ch’io porto?
Contro le stelle invan m’adiro e dolgo
e d’altrui che di me mi lagno a torto,
se di sì fiero caso e sì sinistro
io fui solo l’autor, solo il ministro.
193
Non fu, non fu Nessun che mi costrinse
a gir cieco e tapin, non so se’l sai.
Perfida, quelche la mia luce estinse,
fu lo splendor de’ tuoi lucenti rai.
Né meraviglia fia, se m’arse e vinse,
io meco ben mi meraviglio assai,
come quando talor mirar ti vuole
o non s’acciechi o non s’abbagli il sole.
194
Io, se mi desse il ciel, che’l mio perduto
lume per sorte riacquistar potessi,
né sol quelche mi tolse il greco astuto,
ma come un sol n’avea, mille n’avessi,
e quanti di Giunon l’augello occhiuto
girar ne suol nel’ampia rota impressi,
quanti la Fama e quanti il ciel n’ha seco,
mirando gli occhi tuoi, tornerei cieco.
195
Miser, dunque a ragion m’offusco e caggio
e così va chi sovra sé presume.
Cadde, com’odo, il giovane malsaggio
che troppo alzò le temerarie piume;
cadde chi per lo torto alto viaggio
vols’esser duce del paterno lume;
e quest’altier, ch’al gran motor fè guerra,
qui fulminato ancor giace sotterra.
196
Anco il teban, ch’ambì d’esser eletto
giudice degli Dei, cieco divenne
ed io ch’a più bel sol con stolto affetto
del’audace pensier spiegai le penne,
non mi dorrò, se sì sfrenato oggetto
la mia debile vista non sostenne.
Confesso dele tenebre il martire
esser picciola pena a tanto ardire.
197
S’aggiunse ancora a questo lampo ardente
dura cagion ch’abbacinai la vista:
de’ larghi pianti miei l’onda corrente
che versa tuttavia l’anima trista.
E qual potenzia mai fia sì possente,
qual cerviera virtù fia che resista,
quando insieme accoppiandosi in eccesso
han gli ardori e gli umori un varco istesso?
198
A questa grave e memorabil piaga
medicina non val, cura non giova,
né d’erba per guarirla o d’arte maga
virtù, ch’io creda, in terra oggi si trova.
Tu, che m’apristi il cor, ninfa mia vaga,
tu che ferisci e che risani a prova,
render al’occhio mio la luce puoi
con una sola lagrima de’ tuoi.
199
Folle, come vaneggio! ancor l’insana
voglia a novi ardimenti ergo e sospingo?
ancor, con speme temeraria e vana,
adulando a mestesso il cor lusingo?
E la tigre del mar dolce ed umana
fatta al mio pianto, al mio pregar m’infingo?
chi m’aborrì, mentr’ebbi il lume meco,
oso sperar che m’ami orch’io son cieco?».
200
Qui tacendo sospira, indi dal loco
dove mesto sedea, lento risorge
e’l piè come può meglio, a poco a poco
trae verso il sasso che’nsu’l mar si sporge;
e poiché giunto là, dove il suo foco
arder solea fra l’acque, esser s’accorge,
con più placido volto e più sereno
così rallenta ale parole il freno:
201
«Ma che cieco io mi sia perché sia priva
la fronte mia dell’ornamento usato,
non è però che’n me non splenda e viva
la face ardente del fanciullo alato,
né tu di me devresti esser sì schiva,
né tanto aver il cor crudo e spietato,
anzi mentre mi doglio in tua presenza,
se m’odiasti con l’occhio, amarmi senza.
202
Cieco è l’Erebo ancor, da cui ciascuna
trasse il principio suo creata cosa,
cieca la Morte, cieca è la Fortuna,
possenti dee, cieca la Notte ombrosa.
È cieco il Sonno e, quando il ciel s’imbruna,
pur lieto in grembo a Pasitea riposa;
e pur dele sue fiamme accese il core
ala sua Psiche, ancorché cieco, Amore.
203
Chi sa se’l re del’amoroso regno,
del cui foco il mio cor sì forte avampa,
spingendo di sua man l’acceso legno,
smorzò del’occhio mio la chiara lampa?
Forse ch’a me, com’a fedel più degno,
volse il viso onorar dela sua stampa?
giusta legge stimò forse il protervo
che, s’è cieco il signor, sia cieco il servo?
204
Ma d’altra parte a chi da tante oppresso
gravi cure d’amor si strugge e sface,
che perduto ha col core anco sestesso,
perduto ogni suo bene, ogni sua pace,
poca perdita fia perdere appresso
del sol la luce; e cieco esser mi piace
se quanto al’altrui vista è di diletto,
fora infausto ala mia doglioso oggetto.
205
Non ha per queste rive o tronco o foglia,
non poggio adorno di fioretti e d’erbe
che visibil’imagine di doglia
in sé stampata per mio mal non serbe
e ch’a quest’occhio la cagion non soglia
rappresentar dele mie pene acerbe,
a quest’occhio meschin ch’or chiuso e spento
più non fia spettator del mio tormento.
206
O ch’a quest’aspra rupe io lo girassi
o ch’a questo scosceso arido scoglio,
veder pareami negli alpestri sassi
la durezza del cor per cui mi doglio.
Vedea nel mar, qualor più irato fassi,
il tuo superbo e minaccioso orgoglio
e nel’onde, nel’alghe e nel’arene
il numero vedea dele mie pene.
207
Se d’Alfeo, se d’Oreto o se d’Imera
l’acque per risguardar volgea la fronte,
tosto presente il simulacro m’era
di quelch’io verso inessiccabil fonte;
se la fiamma scorgea torbida e nera,
ch’erutta la voragine del monte,
i miei sospiri fervidi e fumanti
e gli incendi del cor m’erano avanti.
208
Misero, e quante volte i tronchi vidi
stringer le viti e l’edere seguaci?
e le conche tra lor per questi lidi
i nodi raddoppiar saldi e tenaci?
e i solitari mergi entro i lor nidi
darsi e i colombi affettuosi baci?
ed invido fra me dissi sovente:
deh! perché voi felici ed io dolente?
209
Ma che membrar d’altrui, quasi molesta,
ogni gioia amorosa, ogni atto estrano?
Quante volte vid’io testessa in festa
scherzar col vago ed io mi dolsi invano?
sasselo il giusto sasso e sassel questa
del torto mio vendicatrice mano
che, rotto il dolce nodo e sciolto il laccio,
si tel’uccise, e ne piangesti, in braccio.
210
Oltre di ciò non poco io mi consolo
che la mia luce in tenebre si cange,
però, ch’avezzo al pianto e nato al duolo,
altro non so che trar del’occhio un Gange.
Or l’occhio inteso ad un ufficio solo
più non s’occupa in risguardar, ma piange,
e piangerà finché col pianto unita
stillandosi per l’occhio esca la vita.
211
Tempo fu già che l’occhio ebro si volse
ai chiari raggi del suo vivo sole.
Per l’occhio entrò la fiamma, il cor l’accolse
e n’arde ancor, sich’esca altra non vole.
Allor l’occhio fu lieto, il cor si dolse:
ora gioisce il cor, l’occhio si dole.
Dolgasi pur, ragion ben fia, che quanto
v’entrò foco ed ardor, n’esca acqua e pianto.
212
Porgemi ancor la cecità speranza
che forse fuor de’ soliti confini
con minor tema e con maggior baldanza
da oggi avante a me tu t’avicini
e con Dori e Leucotoe in lieta danza
t’udrò talor cantar sovra i delfini
e bench’io viva in tenebre sepolto,
avrà l’orecchio quelch’al’occhio è tolto.
213
Anzi tolto non già, ciò non fia vero:
siami il ciel quanto vuol crudele ed empio,
armisi pur l’ingiurioso arciero
a mio sol danno, a mio perpetuo scempio,
tor non potran dal cupido pensiero
dela cara beltà l’amato essempio;
né tanto è quel dolor che l’alma attrista
quant’è il piacer d’averti amata e vista.
214
Vantaggio dunque ogni mio danno io chiamo,
né più quasi mi cal di luce esterna,
perché quella che tanto io goder bramo
godo assai più con la veduta interna,
laqual fisa nel sol ch’adoro ed amo,
dove dianzi era breve, è fatta eterna,
sol tutta intesa al bel, ch’ella desia,
orch’altro oggetto più non la desvia.
215
Almen non fia che strale in me più scocchi
Amor, né ch’io m’affisi in altri rai,
sich’acceso il mio cor da sì begli occhi
di bellezza minor non arda mai,
anzi se i miei pensier non eran sciocchi,
io stesso il primo dì che ti mirai
ammorzar mi devea questa facella
per giamai non mirar cosa men bella».
216
Tutti questi discorsi al’onde, ai venti
sparge il meschino e l’ode il vento e l’onda,
né v’ha chi per la spiaggia ai mesti accenti,
salvo Ceice ed Alcion, risponda.
Al fin nel fiero cor, dopo i lamenti,
l’ira e’l dispetto oltremisura abonda.
Vuol uccidere sestesso o nel’aperta
gola del mar precipitar dal’erta.
217
La numerosa fistula ch’aggrava
il rozzo fianco ad ambe mani afferra
ed ogni canna sua forata e cava
spezza col dente e poi la scaglia a terra.
Il nodoso troncon, l’immensa clava
che fece a mille fere oltraggio e guerra,
gitta lontano e con le note estreme
in questa guisa si lamenta e geme:
218
«Fido baston, già mio compagno antico,
che mi fosti gran tempo arme e sostegno,
rimanti in pace in questo lido aprico
orch’io peggio che morto, orbo divegno.
Forse ad uso miglior destino amico
ti serba e, volto in remo o in curvo legno,
solcando i campi del gran padre mio
godrai tu la beltà che non god’io.
219
Né più di mazza omai, né di sampogna
gagliarda melodia vo’ che mi vaglia,
né più d’onor, né più d’amor bisogna
che’n sì misero stato unqua mi caglia.
Prenderò di mestesso ira e vergogna,
e se fia mai che la mia greggia assaglia
lupo, che per rubar venga dal bosco
fuggirò brancolando al’antro fosco.
220
Ma che? se per mio scampo io non ti reco
tra fere e mostri e tra dirupi e poggi,
chi guiderà lo sventurato cieco?
dove sarà che le sue membra appoggi?
Buona trave e fedel, vientene meco,
da te l’ultimo ossequio avrò fors’oggi;
se’n vita al tuo signor fosti consorte
ben devi esca al suo rogo esser in morte.
221
Voi senza guardia intorno e senza guida
ven’andrete dispersi, o cari agnelli,
né potrà più la vostra scorta fida
tergervi l’unghie o pettinarvi i velli.
So che, mossi a pietà dele mie strida,
disdegnerete i pascoli e i ruscelli,
mostruosi formando e disusati
gemiti umani invece di belati.
222
A dio, cari molossi e fidi alani,
e voi, mastini miei pronti e leggieri,
del mio pregiato ovil campion sovrani,
forti custodi, intrepidi guerrieri;
non più di greggia omai, non più di cani
al vostro afflitto duce è di mestieri,
né più pastor, né cacciator fia d’uopo
che d’esser pensi il misero ciclopo.
223
Di cani uopo non m’è senon sol quanto
ne sia, novo Atteon, lacero e morto,
o perché nele tenebre e nel pianto
sia, qual cieco, da lor guidato e scorto.
Lascio a te dela caccia il pregio e’l vanto
cagna crudel che’l cor mi sbrani a torto;
lascio in mia vece pascolar contento
il felice pastor del salso armento.
224
Vienne vienne, o crudel, tu’l corpo lasso
e la tremula man reggi e conduci;
tu s’hai tanta pietà, da questo sasso
il piè vagante a precipizio adduci.
O perch’io non ricaggia a ciascun passo,
scopri il seren dele divine luci,
che, sicome ancor cieco io ben discerno,
possente fora a rischiarar l’inferno.
225
Tu quella che il ciel crudo oggi gli nega
deh! porgi, o ninfa, al desperato aita,
rigida ninfa, avara a chi ti prega
dela morte non men che dela vita.
Ahi che costei non m’ode e non si piega
perché la pena mia resti infinita,
perché mi sia d’ogni miseria in fondo
morte la vita e vivo inferno il mondo.
226
Or tu che miri il mio destin perverso,
fabro Vulcan, dale sulfuree porte,
se di chi diè le tempre al’universo
il fulmine temprar t’è dato in sorte,
prima ch’io sia dal pelago sommerso,
pria ch’io di propria man mi dia la morte
fingi di provarn’un per questo cielo
e quelche’l duol non può, faccia il tuo telo.
227
Ma ben cieco m’ha fatto e stolto insieme
il dolor che travolge i miei desiri.
Di morir bramo e non sperando ho speme
di finir, con la morte, i gran martiri.
Mi rifiuta Pluton, forse che teme
il troppo fiero ardor de’ miei sospiri,
perché sa ben ch’appo’l mio incendio grave
è la fiamma infernal fresca e soave.
228
Pietoso oimé! sol per mio mal diviene
il crudo re de’ regni oscuri e bassi,
né vuol che quinci ale tartaree arene
con la grand’ombra mia morendo io passi,
che se dannata a quell’eterne pene
il pallido Acheronte oggi varcassi,
avrian veggendo in me maggior tormenti
qualche conforto le perdute genti.
229
Teme non forse il tenebroso inferno
queste tenebre mie rendan più fosco.
Teme non forse al mio furore eterno
raddoppi il can la rabbia e l’idra il tosco.
Teme non cresca al mio gran pianto Averno
e de’ mirti amorosi inondi il bosco.
Teme non beva in Lete un dolce oblio
sich’io più non rimembri il dolor mio».
230
Così diss’egli e diè sì gran muggiti
e tanti mandò fuor torbidi fumi,
che lasciò per gran pezza impalliditi
i chiari aspetti de’ celesti lumi.
Cadde il remo a Caronte e sbigottiti
fuggiro i mostri ai più profondi fiumi.
Stupir le Furie e del sovran tonante
ebbe novo timor l’arso gigante.
231
Fu quello il primo dì che tra gli abissi
vide Cocito aperto il monte Etneo.
Il gran Peloro in cento lati aprissi
e Pachinno si scosse e Lilibeo.
Fremer Cariddi e latrar Scilla udissi,
con Aretusa si restrinse Alfeo
e lungo spazio ancor poich’egli tacque,
tremaro i lidi e rimbombaron l’acque.
232
Pianse Nettuno, il padre, e’l crudo fato
mosse a pietà di quella ria sventura,
onde in un monticel fu trasformato
loqual ritiene ancor l’alta statura.
Mongibel fu poi detto e’n tale stato
nutrisce ancor nel sen la fiera arsura,
né cessa pien di furiosi incendi
d’essalar tuttavia sospiri orrendi.–
233
Poich’ha raccolto ala favella il freno
la dea feconda che perdé la figlia,
quella ch’alberga al’Oceano in seno,
in cotal guisa il ragionar ripiglia.
– Che torni in terra alfin ciò ch’è terreno,
esser certo non dee gran meraviglia:
morte al corso mortal termine pose,
ultima linea del’umane cose.
234
Chi lagrimar non vuol né vuol dolersi,
ad oggetti immortali alzi il desio,
ch’i dolci frutti suoi tien sempre aspersi
d’amarissimo tosco il mondo rio.
Di questo ho tanti essempi e sì diversi,
che più che l’onde son del regno mio.
Se fia ch’a dirne alcun la lingua io sciolga,
non so ben qual mi lasci o qual mi tolga.
235
Tacerò, memorabili fra tutti,
Calamo e Carpo, gl’infortuni vostri?
Che non pur non lasciar con occhi asciutti
alcuno abitator de’ regni nostri,
ma dier materia entro i miei salsi flutti
d’amaro pianto ai più spietati mostri;
e fer per gran pietà de’ lor cordogli
singhiozzar l’onde e lagrimar gli scogli.
236
Su per l’oblique e tortuose rive
del bel Meandro e tra’ suoi guadi aprici
passavan lieti le cald’ore estive
di pari età duo fanciulletti amici.
Simil beltà non si racconta o scrive,
ch’altrui desser giamai stelle felici.
Lasciato avrian per lor l’Alba Orione
e la diva di Delo Endimione.
237
Daché la bella coppia al mondo nacque,
mentre crescendo entrambo ivano al paro
tanto il genio del’uno al’altro piacque,
che’n perpetua amistà l’alme legaro.
Scherzavan dunque infra l’arene e l’acque
del fiume che scorrea tranquillo e chiaro,
attraversando con suoi giri ondosi,
quasi serpe d’argento, i prati erbosi.
238
Piantato avean nel verde margo un legno
e quivi appesa una ghirlanda in cima,
proposta in premio a qual de’ duo quel segno
giunto fusse, nuotando, a toccar prima.
Sforzavasi ciascun con ogni ingegno
d’acquistar vincitor la spoglia opima
e’n così fatti lor giochi e trastulli
travagliavano aprova i duo fanciulli.
239
Sfavillan l’acque, assai più belle e chiare
fatte dalo splendor che le percote
in quella guisa che fiammeggia il mare
al folgorar dele lucenti rote,
quando l’aurora che’n levante appare
dal vel purpureo le rugiade scote
e’l sol che giovinetto esce di Gange
col gran carro di foco il flutto frange.
240
Carpo nel nuoto essercitato e dotto
molto non è, ma Calamo gli è scorta
ed or col tergo, or con la man di sotto
agevolmente lo sostiene e porta.
Talor poscia ch’alquanto ei l’ha condotto
per mezzo l’acqua flessuosa e torta,
dilungandosi ad arte innanzi passa,
indi l’aspetta ed arrivar si lassa.
241
Con tardo moto, a bello studio, e lento,
bramoso d’esser pur vinto e precorso,
pian pian rompendo lo spumoso argento
per la liquida via trattiene il corso.
Ma per poter trovarsi in un momento,
qualora uopo ne fia, presto al soccorso
del caro emulo suo che gli è davante
con la provida man segue le piante.
242
Il giovinetto, che’l compagno vede
indietro rimaner quasi perdente,
tolto il vantaggio allor che gli concede,
scorre l’umido arringo arditamente
e va, mentre rapir la palma crede,
dove l’impeto il trae dela corrente.
Già già stende la man superba e lieta,
tanto è vicina la prefissa meta.
243
Ma pria ch’a torre il bel trofeo la sporga,
ecco fiero e crudel turbo che spira
e là’ve il rio volubile s’ingorga
soffiando a forza, lo respinge e gira
e senza che di ciò l’altro s’accorga,
l’onda l’assorbe e nela ghiaia il tira,
ratto così che Calamo l’ha scorto
sommerger no, ma già sommerso e morto.
244
Che sospiri, che pianti e che querele
sparse il meschin sul doloroso lito,
quando chiaro conobbe il suo fedele
esser dala vorace onda inghiottito?
«Fiume ingrato (dicea), fiume crudele
che m’hai repente ogni mio ben rapito,
questa da te riceve empia mercede
chi tanta gloria e tant’onor ti diede?
245
L’Ermo, il Pattolo e qual per gemme ed oro
più famoso tra gli altri il mondo apprezza,
perdeano appo’l tuo pregio i pregi loro,
ch’eri ben possessor d’altra ricchezza.
Quelch’ha titol di re, corna di toro,
mercé di quella estinta alta bellezza,
bench’illustre corona abbia d’elettro,
ti reveriva e ti cedea lo scettro.
246
Ma tu per far più ricco anco il tuo fonte
trangugiarlo volesti, avaro fiume,
che se nel grembo il Po tenne Fetonte,
tu raccogli altro sole ed altro lume.
Lasso, che’l sol, seben dal’orizzonte
cader quando tramonta ha per costume,
più chiaro poscia insu’l mattin risorge,
ma’l mio Carpo apparir più non si scorge.
247
Qual invidia al bel furto oimé! vi spinse
Naiadi quanto belle, inique e rie?
ditemi chi d’amor la luce estinse?
chi svelse il fior dele speranze mie?
Deh, se mai di pietà forza vi strinse,
ite, cercate altrove onde più pie;
di qua fuggite ove morendo giacque
l’esca dele mie fiamme in seno al’acque.
248
Lasciate questi ov’albergar solete,
del crudo padre mio fondi omicidi,
né più di que’ cristalli empi bevete
ch’a sì rara beltà fur tanto infidi.
Abbracciatemi intanto e raccogliete
le tronche chiome mie tra’ vostri lidi;
e pria ch’io caggia al’avid’acque in preda,
l’ultima grazia almen mi si conceda.
249
Sia sepolcro immortal l’urna paterna
al’una e l’altra spoglia insieme unita,
dove a neri caratteri si scerna
questa memoria in ogni età scolpita:
Arser delpari in una fiamma eterna
Calamo e Carpo e vissero una vita.
Ebbero alfin, né spense l’acqua il foco,
una morte commun, commune un loco».
250
Così dice e per gli occhi intanto versa
fiume ch’al fiume umor novello aggiunge,
poi tace e con la fronte ingiù conversa
traboccando dal margo al fondo giunge.
Riman la coppia misera sommersa,
felice in ciò, che pur si ricongiunge
e’nsieme ottien nel’ultimo sospiro
morte d’argento e tomba di zaffiro.
251
Lavaro col licor gelido e molle
il freddo corpo le sorelle meste.
Rifiutò’l peso il genitor, né volle
tra le sue ricettarlo onde funeste;
ma poiché vide alfine il garzon folle
da forza oppresso di destin celeste,
lo strinse in braccio e, con amaro lutto,
cangiò Calamo in canna e Carpo in frutto.
252
Or passare in silenzio io deggio forse
di Leandro infelice il caso mesto,
loqual tanta pietate al’onde porse
che ne piangono ancora Abido e Sesto?
Spettacol mai più crudo il ciel non scorse
torto il mar non fè mai maggior di questo;
e bench’esser pietoso il mar non soglia,
l’uccise nondimen contro sua voglia.
253
Già di quel foco il garzonetto acceso
che la face d’amor gli sparse in seno,
avea più giorni impaziente atteso
e l’ingordo desio tenuto a freno,
tra lunghe cure ad aspettar sospeso
che fusse il mar tranquillo, il ciel sereno,
per poter senza intoppo e senza impaccio
ricondursi nuotando ad Ero in braccio.
254
Ai suoi fervidi ardori erano d’Ero
le bellezze oltrabelle esca soave,
onde spesso solea pronto e leggiero
fatto a sestesso e navigante e nave,
l’angustie attraversar di quel sentiero
che tra l’Asia e l’Europa è porta e chiave
e la sua donna a riveder veniva
sconosciuto e notturno al’altra riva.
255
Non sì veloce di difficil arco
al bersaglio volando esce saetta,
né barbaro giamai sì lieve e scarco
dale mosse ala meta il corso affretta,
com’ei passando a nuoto il picciol varco
per tragittarsi ove’l suo cor l’aspetta,
vassene e prende ogni procella a gioco,
per mezzo l’acqua a ritrovare il foco.
256
Dolce gli è la fatica e la dimora,
grata la notte ed importuno il giorno
e costretto a partirsi, odia l’aurora
che sollecita è troppo a far ritorno.
Partito apena poi di ciascun’ora
conta i momenti e gira gli occhi intorno,
tornar vorrebbe alla magion felice
e sospira l’indugio e tra sé dice:
257
«Son forse per gli sferici sentieri
rotti i cerchi del ciel sempre rotante?
son del rettor del dì zoppi i destrieri?
chiodato è il carro suo lieve e volante?
Chi del vecchio che vanni ha sì leggeri,
chiuse ha tra ceppi le spedite piante?
Che fan l’ancelle sue rapide e preste
che non dan fretta al passaggier celeste?
258
Tu, che non men del tempo, Amor, hai l’ali
e sei del sol vie più possente dio,
pungi i pigri corsier con gli aurei strali,
ch’ogni minuto è secolo al desio.
Pur ch’abbia fin co’ turbini infernali
questo divorzio e quest’essilio mio,
con far veloci i giorni e l’ore corte
bramo a mestesso accelerar la morte.»
259
Così languisce e sette volte il sole
ne’ lidi iberi ha già tuffato il raggio
e, circondando la terrena mole,
altrettante è tornato al gran viaggio
daché piangendo il giovane si dole
contro il ciel, contro il mar del grave oltraggio,
che vede in nebbia e’n pioggia e’n fiamma e’n gelo
turbato il mare e nubiloso il cielo.
260
Preme la sponda e’nsu lo scoglio ascende
che la vergin sommersa ancora infama,
la crudeltà del pelago riprende,
le stelle inique, iniqui i venti chiama
ed accusa Nettun che gli contende
la vista di colei che cotant’ama;
né potendo appagar gli occhi e i desiri
co’ pensier la corteggia e co’ sospiri.
261
Tutto soletto insu la ripa assiso
vagheggia di lontan gli amati lidi
e, rivolgendo al’alta torre il viso,
co’ muggiti del mar confonde i gridi.
«Perché color, (dicea) che non diviso
congiunge Amor, Fortuna empia dividi?
Perché non lasci in sì leali amori
i corpi unir come s’uniro i cori?
262
Ben raccoglier devria sol una terra
due alme che son anco una sol’alma.
Finir devria la procellosa guerra
e i travagli del mar compor la calma.
Chi mi vieta il passaggio? e chi mi serra
in parte onde nocchier legno non spalma?
Qual’invidia del ciel per intervallo
un muro tra noi posto ha di cristallo?
263
Che peggio far mi puoi? qual ria sventura
fu giamai ch’agguagliasse il mio tormento?
Sì lungo tempo una procella dura
in un sì variabile elemento?
L’istabiltà del mar cangia natura,
perde per me sua leggerezza il vento.
Quelche non ebbe mai fermezza avante,
trovo sol per mio mal fatto costante.
264
Ahi, quando fia che tanta rabbia cessi
sich’io per queste ingorde onde fallaci
furtivo amante a depredar m’appressi
dela mia dea gli abbracciamenti e i baci?
Que’ baci, oimé, che far porian gl’istessi
numi celesti divenir rapaci;
ben degni ch’altri per dubbiosa strada
di là dal mare a conquistargli vada.
265
Barbaro spirto, che di neve sparto
del gelato Gelone i monti agghiacci
e qualor furiando esci del’arto
gonfi il mar, crolli il suolo e’l ciel minacci,
sola cagion perch’io di qua non parto,
soffio crudel, che dal mio ben mi scacci,
perché turbando questi ondosi regni
così cruccioso incontr’a me ti sdegni?
266
Ingrato invido vento, or che faresti,
s’amor fusse al tuo core ignoto affetto?
non negherai ch’ancorché freddo, avesti
dela fiamma d’Atene acceso il petto.
Quando il bel foco tuo rapir volesti,
chi turbò la tua gioia e’l tuo diletto?
chi tra le dolci allor prede amorose
per mezzo l’aria al volo tuo s’oppose?
267
Deh! placa il tuo rigor, deh! prego, omai
più moderato e mansueto spira.
Sostien ch’io vada e poi perché più mai
non possa indi partir, sfoga pur l’ira.
O se del mio dolor pietà non hai,
portami a quella onde’l mio cor sospira;
poscia di là partendo ov’ella alberga,
fa pur che nel ritorno io mi sommerga».
268
Queste voci il meschin, pregando invano,
sparge inutili al’aria e senza effetti,
perch’Austro sordo ed Aquilone insano
ne portan via, rimormorando, i detti.
Volumi d’onde per l’instabil piano
s’urtan l’un l’altro in minacciosi aspetti,
onde l’ali di Dedalo desia
per trattar l’aure ed accorciar la via.
269
Già l’Ellesponto e l’emisperio tutto
copre la notte, orrenda oltre l’usanza.
Cresce l’ira di Borea e pur del flutto
l’implacabile orgoglio ognor s’avanza.
Egli allor più non vuol su’l lido asciutto
la speme trattener con la tardanza;
e, punto dalo stral che lo percote,
più sofferir quel differir non pote.
270
Lo stral, che’l cieco arcier nel cor gli aventa,
gli è sprone al fianco, ond’a partir s’accinge.
Tre volte del gran gorgo i guadi tenta
e tre le spoglie si dispoglia e scinge;
tre volte poi nel’onda entrar paventa
e tre del’onda l’impeto respinge.
Così d’esporsi in dubbio al gran periglio,
non sa ne’ casi suoi prender consiglio.
271
Ma su la vetta intanto ecco ha veduta
la fiaccola d’amor ch’a sé l’invita,
onde rinfranca la virtù perduta
e nel rischio mortal la rende ardita.
In lei ferma lo sguardo e la saluta
come nunzia fedel dela sua vita
e, contemplando quella fiamma aurata,
così scioglie la lingua innamorata:
272
«Ecco ne vegno, o luminosa, o fida
scorta a miei dolci errori, ecco ne vegno.
Non più temo il furor d’Euro omicida,
non più del crudo mar curo lo sdegno.
Tu sol per queste tenebre mi guida
mentre m’appresto ad ubbidire al segno,
seben mi favoreggia e mi conduce
altra stella, altra lampa ed altra luce.
273
Ancorch’io per la tua lucida traccia
segua quel sol che solo è mio conforto,
son dal lume però dela sua faccia
più che dal tuo splendor per l’ombre scorto.
Gli occhi suoi sono il polo e le sue braccia
sono il mio dolce e desiato porto;
Arianna, Calisto, Elice, Arturo
non rischiarano tanto il cielo oscuro.
274
Non vanti no l’ambizioso Egitto
il suo lucente e celebrato faro,
ch’assai più da naufragio il core afflitto
assecura quel raggio ardente e chiaro
e quantunque talor ne sia trafitto,
il languir m’è soave, il duol m’è caro.
Sarei con esso di passar ardito
l’onda di Flegetonte e di Cocito».
275
Tali accenti dogliosi ha sparsi apena,
dispersi inun con le speranze a voto,
che tutto ignudo insu la molle arena
depon le vesti e s’apparecchia al nuoto;
e, dando spirto al cor, sforzo ala lena,
la fuga al corso ed ale membra il moto,
là dove fanno i flutti aspra battaglia
con audacia infelice alfin si scaglia.
276
Sdegnasi forte il mio marito altero
ch’ei lo disprezzi e tanto ardir gli spiace,
onde col re ch’ha sovra i venti impero
fa lega per punir l’insania audace:
loqual, disciolto il suo drappel guerriero,
per far guerra maggior fa seco pace,
e l’un e l’altro indomito tiranno
con congiura crudel s’arma a suo danno.
277
Noto ne vien dal’austro e’l sen di brine
carco, l’ali d’umor, d’orror la fronte
e stillante di piogge il mento e’l crine,
spezza le nubi e fa del cielo un fonte.
Vien dal nevoso e gelido confine
Borea di Scizia e fa del mare un monte,
indi il ragguaglia e i mobili cristalli
spiana in campagne, poi gli abbassa in valli.
278
Sorge da’ Nabatei contro costoro
il torbid’Euro e l’oriente scote
né men superbo e rigido di loro
con orribil fragor l’onde percote.
Ma con più torvo aspetto il crudo Coro
leva dal’ocean gonfie le gote.
Piove tonando e folgorando fiocca
l’irsuta barba e la tremenda bocca.
279
Da tai nemici combattuto il mare,
con tumido bollor rauco stridendo,
mar più non già, ma diventato pare
di caligini e d’urli inferno orrendo.
È nero il ciel, ma fiammeggianti e chiare
le saette ch’ognor scendon cadendo,
fanno per l’aria più che pece bruna
dele stelle l’ufficio e dela luna.
280
Nubi di foco gravide e di gelo,
portate a forza da feroci venti,
scoppiando partoriscono dal cielo
lampi sanguigni e fulmini serpenti
e mandan giù dal tenebroso velo
un diluvio di laghi e di torrenti.
Aver sembra ogni nube ed ogni nembo
i fiumi no, ma tutti i mari in grembo.
281
Per lo stretto canal che’n sì gran zuffa
incapace di sé, si frange e freme,
va brancolando e si contorce e sbuffa
il nuotator ch’al cominciar non teme.
In sestesso si libra, indi s’attuffa
e le braccia e le gambe agita insieme;
l’acque batte e ribatte e dala faccia,
col soffio e con la man, lunge le scaccia.
282
Serpe alo striscio, al volo augel somiglia,
battello ai remi e corridore al morso.
Or l’ascelle agilmente a meraviglia
dilata e stende, or le ripiega al corso,
or sospeso l’andar, riposo piglia
e volge verso il mar supino il dorso,
or sorge e zappa il flutto ed anelante
rompe la via co’ calci e con le piante.
283
Scorrendo va con smisurati balzi
l’impetuose e formidabil onde,
la cui piena possente or fa che s’alzi
presso ale nubi, or tutto ingiù l’asconde.
Ei dele braccia ignude e de’ piè scalzi
con spesso dimenar l’ordin confonde
e, benché sia nel nuoto abile e destro,
non gli giova del’arte esser maestro.
284
Ben conosce il suo stato e sa che’n breve
al petto lasso è per mancar la forza,
perché del salso umor gran copia beve
e’l vigor abbattuto invan rinforza.
Omai de’ membri a galla il peso greve
sostener più non val, seben si sforza,
e lo spirto languente il corpo infermo
move a gran pena e non può far più schermo.
285
Mentre che co’ marittimi furori
giostra e cerca al morir refugio e scampo,
l’alto fanal che tra gli ombrosi orrori
mostra il camin di quel volubil campo,
ratto sparisce e i vigilanti ardori
soffiato estingue del notturno lampo,
ond’ei smarrito e desperato e cieco
del suo fiero destin si lagna seco.
286
E di fiati rabbiosi ecco veloce
novo groppo l’assale e lo circonda
e’n un punto medesmo insu la foce
per lo mezzo si rompe un arco d’onda,
che soffogando il gemito e la voce,
dentro quel cupo baratro l’affonda.
Due volte a piombo il trae l’onda vorace,
sorge due volte ed ala terza giace.
287
Ma pria che’ntutto abbandonato e stanco
tra que’ globi spumosi involto pera,
mentre mira il ciel buio e che vien manco
del’amato balcon l’aurea lumiera,
traendo pur del’affannato fianco
il debil grido, esprime umil preghiera
e manda fiochi e fievoli e dolenti
a te, madre d’Amor, questi lamenti:
288
«Diva, che nata sei di queste spume,
deh raffrena il furor del’onde irate
e, poich’è spento il già cortese lume
ch’a quelle mi scorgea rive beate,
al suo svanir, del tuo benigno nume
e la luce supplisca e la pietade:
non voler consentir ch’uccidan l’acque
un servo di colei che di lor nacque.
289
Ma se’l mio duro fin scritto è nel fato,
se’n quest’onde morir pur mi conviene,
fa ch’almen sia’l cadavere portato
innanzi ala cagion dele mie pene;
a quel terren felice e fortunato,
a quelle dolci un tempo amiche arene,
onde mi dian col pianto alcun ristoro
quegli occhi per cui vissi e per cui moro».
290
Di quest’estremo dir languido e mozzo
incerto il suono ed indistinto udissi,
e sepolto con l’ultimo singhiozzo
restò nel mar che’nfin dal centro aprissi.
Il mare in vista spaventoso e sozzo
le fauci aprì de’ suoi cerulei abissi
e, spalancando la profonda gola,
il corpo tracannò con la parola.
291
Or chi può d’Ero sua narrar la doglia?
come strecciossi il crin stracciossi il volto,
quando dala finestra inver la soglia
lo sguardo al nuovo giorno ebbe rivolto
e vide ai rai del sol la fredda spoglia
del suo bel sole estinto ed insepolto?
Gittossi in mar la misera fanciulla
e sepoltura sua fu la tua culla.
292
D’amorosa pietà colmi i delfini
lo sventurato accompagnar fur visti.
I mergi, degli scogli cittadini,
con gridi il circondar flebili e tristi.
Gli fer l’essequie i popoli marini
di nereidi e tritoni uniti e misti,
ed io lo trasformai nel fior d’un’erba
che di Leandro ancora il nome serba.
293
Ahi ma perché non narro e dove lasso
d’Achille mio lo sfortunato fine?
L’istorie altrui racconto e taccio e passo
le mie proprie sventure e le ruine.
Scoglio sì duro e di sì rozzo sasso
non ricettano in sen l’onde marine
che, quando ebb’io quel mesto annunzio udito,
non si fusse a’ miei pianti intenerito.
294
Tutti voi vi lagnate afflitti dei,
tanto d’un van piacer può la membranza;
se pianger voless’io quanto devrei,
com’avrian mai quest’occhi acque a bastanza?
Tanto han vantaggio ai vostri i dolor miei,
quanto natura ha più ch’amor possanza,
perch’al’amor con cui s’amano i figli,
amor altro non è che s’assomigli.
295
Giove il gran padre tuo, madre d’Amore,
ebbe un tempo di me l’anima accesa,
ma del destino udito il fier tenore
e dele Parche la sentenza intesa,
perché figlio di lui molto maggiore
generarne temea, lasciò l’impresa,
e così Peleo a cotai nozze eletto,
principe di Tessaglia, ebbe il mio letto.
296
Tra molti miei di qualità mortale
simili al genitor pegni produtti,
che’n vece di purgar la parte frale
restar dal foco in cenere distrutti,
l’ultimo che campò l’incendio e’l male
fu più vago e gentil degli altri tutti;
di crin dorato e d’una tal bellezza
che nel’aria feroce avea dolcezza.
297
Ma l’oracol di Temi, il cui consiglio
è decreto fatal, m’atterrì forte.
Predisse ch’onor sommo a questo figlio
e somma gloria promettea la sorte,
ma che sul fior degli anni alto periglio
gli minacciava a tradigion la morte
pugnando in guerra, e di cotal tenzone
devea beltà di donna esser cagione.
298
Io per assecurar l’amato infante
e da spade e da lance e da saette,
nel’onda l’attuffai che fiammeggiante
le rive innaffia al gran Pluton soggette;
e quivi, senon sol sotto le piante,
ch’io tenni per le man sospese e strette,
del corpo in guisa gli affatai le tempre
ch’ei ne fu poscia impenetrabil sempre.
299
Ciò fatto, io lo condussi al buon Chirone
che di Filira nacque e di Saturno,
colui ch’or fregia al’orrida stagione
di sette e sette stelle il ciel notturno.
Or questi ad allevar prese il garzone
in solitario albergo e taciturno,
là dove Pelio di tremende belve
le sue spelonche ombrose empie e le selve.
300
Né d’alimento dilicato e molle
nutrillo in languid’ozio e’n vil piacere;
latte di rigid’orse, aspre midolle
di leoni il pasceano e d’altre fere.
Effeminarlo in quell’età non volle
tra delizie soavi e lusinghiere,
ma gli facea per la montagna alpestra
spedire il piede, essercitar la destra.
301
Or levretta, or cerbiatto, or cavriolo
gl’insegnava a pigliar per la foresta
e quando il mio magnanimo figliolo
ne riportava o quella preda o questa,
il fido suo governator non solo
il ricevea con allegrezza e festa,
ma con gran lodi ed accoglienze amiche
il premio gli porgea dele fatiche.
302
Di miel, di poma o pur d’uva matura
gli apprestava al ritorno il grembo pieno
e, per farglisi egual nela statura,
le ginocchia piegava insu’l terreno
e chino e basso con paterna cura
queste cose gli offria dentro il suo seno;
e’l giovane prendea standogli alpari
dal cortese custode i doni cari.
303
Ma se talor per caso in lui scorgea
immodesto costume, atto villano,
severissimamente il correggea
col ciglio, con la lingua e con la mano.
Ed ei, terror de’ gran guerrier, temea
del vecchio inerme un cenno, un guardo estrano
e quella destra, che poi vinse Ettorre,
ala verga temuta iva a supporre.
304
Oltre il cacciar, nel’armonia sonora
il discreto centauro ivi l’instrusse.
Dele piante e de’ semplici talora
a dimostrargli la virtù s’indusse.
Volse ala scherma ammaestrarlo ancora
acchiocch’esperto in armeggiar poi fusse;
spesso fattol montar sul proprio dorso,
l’addestrava al maneggio e spesso al corso.
305
Mentre sotto tal guardia e’n tale scola
l’alto fanciul la disciplina apprende,
la temeraria vela ecco che vola
e’l mio liquido sen per mezzo fende;
ecco Paride tuo ch’ad Argo invola
la bella, ond’Ilio alte ruine attende,
dico colei che fu già da testessa
del’aureo pomo in premio a lui promessa.
306
Tornommi allora il gran presagio a mente,
onde volsi impedir che non venisse;
e Proteo il confermò, ché parimente,
quando il vide passar, gran mal predisse.
Tor dunque l’esca a quell’incendio ardente
e l’origin troncar di tante risse
che rapir mi devean l’unica prole,
io m’ingegnai con opre e con parole.
307
Vommene ratto ove’l mio sposo alberga
e’l prendo a supplicar che mi conceda
ch’io quel navilio in mar rompa e disperga,
usurpator dela mal tolta preda,
e che col falso adultero sommerga
la rea del bianco augel figlia e di Leda,
ma sì duro ritrovo il molle Dio,
ch’essaudir nega intutto il pregar mio.
308
Poscia ch’io son dal re del’acque esclusa
che violar non può la legge eterna,
né vuole al fato opporsi e gir ricusa
contro l’alto motor che’l ciel governa,
torno, sotto color di nova scusa,
del tessalico monte ala caverna;
quindi a Chirone il caro allievo io tolgo
e poi subito a Sciro il piè rivolgo.
309
Al re di Sciro il diedi e sotto panni
finti nascosto di real donzella,
il pargoletto eroe passò qualch’anni
in compagnia di Deidamia la bella,
a cui scoprendo poi gli occulti inganni
che la froda chiudea dela gonnella,
per certezza del ver seco si giacque,
onde il famoso Pirro al mondo nacque.
310
La tromba intanto del troiano Marte
suona pertutto e l’universo fiede
e’l giovane fatal van con grand’arte
cercando intorno Ulisse e Diomede;
e poich’investigata hanno ogni parte,
giungon ala magion di Licomede.
Quivi presentan poi diversi doni
al’ancelle di corte i duo baroni.
311
La turba dele vergini le voglie
volge de’ bassi oggetti al’esca vile
e qual cembalo, o tirso, o qual si toglie
gemmato cinto o lucido monile;
Pelide sol celato in altre spoglie
dissimular non può l’esser virile
e, disprezzando ciò ch’a donna aggrada,
tosto al’elmo s’aventa ed ala spada.
312
L’astuto esplorator che’l ferro terso
avea tra gli altri arnesi a studio posto,
con un scaltro sorriso a lui converso,
del mentito vestir s’accorse tosto;
onde di quella larva il vel disperso,
l’abito feminile alfin deposto,
incitato ad armarsi, al campo greco
con faconde ragioni il trasse seco.
313
L’alte prodezze sue, l’opre lodate,
di cui la fama infin al ciel rimbomba,
taccio, perché saranno in altra etate
nobil suggetto ala meonia tromba;
onde del’ossa illustri ed onorate
solo il mirar la gloriosa tomba
invidi farà poi di tanti pregi
stupire i duci e sospirare i regi.
314
Que’ valorosi e generosi gesti,
materia degna di sì chiari carmi,
sicome a tutti voi già manifesti,
d’ingrandir con encomi uopo non parmi.
Testimoni chiam’io, numi celesti,
voistessi sol di quant’ei fè nel’armi
poich’alcun, che presente or qui m’ascolta,
in quell’assedio ancor sudò talvolta.
315
Sasselo il mio Nettun che l’alte mura
penò molto a guardar ch’ei prima eresse.
Apollo nostro il sa, che con sciagura
di contagio mortal gli Argivi oppresse.
E’l sai ben tu, che spesso di paura
tremasti già ch’Enea non uccidesse;
né quella guerra fu men dele stille
sparsa del sangue tuo che del mio Achille.
316
L’ingiustissima offesa io non ridico,
né voglio altrui rimproverar quel torto,
con quanta fellonia dal fier nemico,
con qual perfido aiuto ei mi fu morto
per non crescer nov’odio al’odio antico,
dove il mio intento è di recar conforto.
Non so però da quale invidia mossa,
l’ira in petto divin cotanto possa.
317
De’ corsieri immortali altero tanto
nulla gli valse il governar le briglie.
Non gli giovò d’aver tra gli altri vanto
d’unico operator di meraviglie,
né che l’onde per lui Scamandro e Xanto
portasser del troian sangue vermiglie,
impediti a passar nel’oceano
da’ corpi uccisi sol per la sua mano.
318
Dopo l’aver lasciata al campo acheo
del’amato Patroclo alta vendetta,
quando a Briseida sua, dolce trofeo
di sudor tanti, esser congiunto aspetta,
ecco uscir d’arco dispietato e reo
avelenata e barbara saetta,
che mentr’ei stassi inginocchion nel tempio
colpo in lui scocca insidioso ed empio.
319
In quella parte inferior del piede,
che nel suolo stampar suol le vestigia,
quella ch’ai ferri, ale ferite cede
perché tocca non è dal’acqua stigia,
l’assal di furto e di lontano il fiede
con stral pungente il rio pastor di Frigia,
lassa! e veder mi fa spenta e sparita
la mia speranza inun con la sua vita.
320
E veggio a un tempo la vermiglia vesta
d’orribil ostro e sanguinoso immonda,
quella, che di mia man fu già contesta
dele più fine porpore del’onda,
la guancia impallidir, cader la testa,
per la polve strisciar la chioma bionda
begli occhi languir, cui gelid’ombra
di mortal nebbia eternamente ingombra.
321
O splendor de’ Pelasghi, o del troiano
valor flagello e del’orgoglio ostile,
s’era ne’ fati che cader per mano
devessi effeminata e non virile,
per mano, oimé! di tal che di lontano
valse solo a ferir la plebe vile,
quanto miglior almeno il morir t’era
ucciso dal’amazzona guerriera?
322
Soverchio è raccontar l’angosce interne
onde in quel punto addolorata io fui;
oltre ch’a dir le lagrime materne
così facil non è come l’altrui.
Ben per queste d’umor fontane eterne
tutto il mar distillar deggio per lui
e per lui giusto è ben che tanto io pianga
che nulla in lor d’umidità rimanga.
323
Devrei quanti ricetta entro il suo seno
il profondo ocean torrenti e fiumi,
tutti ne’ tristi miei raccorre apieno
già dela cara luce orbati lumi;
né so come disciolto al’onde il freno,
tra tempeste di duol non mi consumi,
e quante ha perle in conche ogni sua riva
non distempri per essi in pioggia viva.
324
Ma che giovar poriano i pianti amari,
s’irrevocabil perdita è la mia?
Nel mal ch’è certo e che non ha ripari,
il non cercar rimedio il meglio fia.
Tra brutto e bel, tra nobili e vulgari
differenza non fa la falce ria.
Tronca il fil del pastore e del monarca
col ferro istesso una medesma parca.
325
Strana legge di fato e di natura,
che del’umane tempre il fragil misto
congiunta abbia al natal la sepoltura
e svanisca qual fiore apena visto.
Pur col nov’anno il fiore e la verdura
dele bellezze sue fa novo acquisto;
ma l’uom poiché la vita un tratto perde,
non rinasce più mai, né si rinverde. –
326
Così Teti ragiona e la dea bella
le dolci stille, onde le guance asperge,
poiché vede ch’alcun più non favella,
con un candido vel s’asciuga e terge;
indi il bel volto e l’una e l’altra stella,
che tenea chine al suol, solleva ed erge
ed ala voce inferma ed impedita
da sospir, da singulti, apre l’uscita:
327
– Dolci gli essempi e dolci e belle invero
son le ragion (diss’ella), alme immortali,
con cui cercate agevole e leggiero
rendermi il fascio di sì gravi mali.
Ma di temprar in vece il dolor fiero,
voi l’inasprite con pungenti strali,
che’l rimembrar de’ vostri antichi danni
raddoppia forza ai miei presenti affanni.
328
Lassa, non più del ciel chiaro pianeta,
non più son io d’Amor madre gioconda,
non sarò più la dea ridente e lieta
ma di doglie e di pianti idra feconda.
Questo mio cinto, ch’ogni sdegno acqueta,
vo’ che si cangi in vipera iraconda.
Vo’ che di rose in vece il biondo crine
mi vengano a cerchiar triboli e spine.
329
Diverranno i bei mirti, i vaghi fiori
neri cipressi omai, stecchi pungenti.
Le Grazie amorosette e i grati Amori,
Furie crudeli ed orridi serpenti.
Cornici infauste e nunzie di dolori,
le semplici colombe ed innocenti.
Simile ai corvi vestirà ciascuno
de’ miei candidi cigni abito bruno.
330
Deh! perché dala man di Radamanto
ricomprar non poss’io l’amato amore?
Che’l core e l’alma io pagherei col pianto
quando non fusser suoi l’anima e’l core.
Perché non pote almeno impetrar tanto
dal destin rigoroso il mio dolore?
ché, se’n terra tra fior giace il bel velo,
tra le stelle lo spirto abiti in cielo?
331
Ah che mentr’ei laggiù langue in martiri,
io non godrò lassù diletto interno.
Saran fiamme tartaree i miei sospiri,
la mia misera vita un vero inferno.
Fia Flegetonte il foco de’ desiri,
sarà Cocito il mio gran pianto eterno
e perché’n questo abisso io mi consumi
mancherà Lete sol tra gli altri fiumi.
332
No no, non fia giamai ch’onda d’oblio
spenga fiamma sì bella e sì gradita,
né lascerò con tutto il dolor mio
d’adorarla sepolta e’ncenerita.
E poiché’l ciel non vole e non poss’io
risuscitarlo e rendergli la vita,
col rogo e col sepolcro almen sia giusto
consolar l’ombra ed onorare il busto.
333
Non può, qualora avien che morte sciolga
il vital nodo agli uomini infelici,
mostrar maggior d’amor segno e di doglia
la vera fè de’ più perfetti amici,
ch’accompagnando la caduca spoglia
con sacre pompe e con pietosi uffici,
con l’onor del’essequie e dela fossa
dar quiete alo spirto, albergo al’ossa.
334
Peso dunque di voi sarà ben degno
meco impiegarvi a fabricar l’avello
e tal sia dela fabrica il disegno
qual conviensi a coprir corpo sì bello;
e poiché la man vostra e’l vostro ingegno
data avrà questa gloria alo scarpello,
con pomposo apparato a lento passo
visitar meco il fortunato sasso. –
335
Tace ciò detto e serz’altra dimora
al’opra egregia alto principio dassi.
Prende a toccar le dolci corde allora
Apollo e sforza a seguitarlo i sassi,
che tratti già dal’armonia sonora,
danno spirito al moto e moto ai passi;
corron veloci ala divina cetra
la frigia selce e l’africana pietra,
336
e di Sparta e di Paro il marmo corre.
O miracol di suon, forza di versi,
onde si vede in un balen raccorre
gran quantità di porfidi diversi
e, mentre viensi il cumulo a comporre,
s’incominciano a far politi e tersi.
Già cento fabri a prova e cento mastri
segan diaspri, affinano alabastri.
337
Mercurio allor dala seconda sfera
per dar effetto a’ suoi pensier leggiadri,
del’Arti belle vi menò la schiera,
del’Industria gentil nutrici e madri.
Vennevi ancor del ciel l’alta ingegnera,
de’ modelli maestra e degli squadri,
Pallade dico; ad opra sì sollenne
da Mercurio chiamata, anch’ella venne.
338
Taccian di Caria i celebri obelischi,
cedan di Menfi altera i monumenti,
che ne’ secoli antichi ai regi prischi
per memoria drizzar barbare genti.
Di color verdi e rossi, azzurri e mischi
sì varie son le gemme e sì lucenti,
tai son del’artificio i bei lavori
che rendon grati i funerali orrori.
339
Sovr’otto alte colonne e sotto un cerchio
ripiegato in mezz’arco, un’arca giace,
che la statua d’Amor tien nel coverchio
piangente e’n atto d’ammorzar la face.
Nulla di scarso e nulla ha di soverchio
per esser d’un cadavere capace;
ed è di pietra lucida ma bruna,
semplice, schietta e senza macchia alcuna.
340
Di qua di là la machina funesta
ha d’una e d’altra parte un nicchio voto.
La Morte in quella e la Fortuna in questa
scolpite son, ch’aver sembrano il moto.
Nel’altro spazio inferior che resta
altri duo n’ha; nel’uno espressa è Cloto,
Cloto che piagne e l’orride sorelle
par che’n troncando un fil, piangano anch’elle.
341
Dincontro a queste havvi le Grazie incise,
che volte a risguardar le dee crudeli,
dale vedove chiome al suol recise
straccian, dolenti, le ghirlande e i veli.
Lo scultor che l’ha finte in cotai guise,
fa che ciascuna pianga e si quereli
e per farle spirar dona e comparte
del’istessa Natura il fiato al’Arte.
342
Vago festone ale cornici altere
tesse serpendo intorno intorno un fregio
e v’ha di cani sculti e v’ha di fere,
di dardi e lasse un magistero egregio.
In cima al’arco Adon si può vedere
sovr’aureo trono e di mirabil pregio;
una gloria d’Amori alto il sostenta
ed al vivo l’effigie il rappresenta.
343
Posa il piè nela base e dele braccia
curvo insu l’anca l’un tien la figura,
l’altro appoggia alo spiedo ed ha da caccia
l’arco ala spalla, il corno ala cintura.
E ben tal nel sembiante e nela faccia
del gentil simulacro è la scultura
che, dal parlar in fore, ond’egli è privo,
nulla quasi ha del finto e tutto è vivo.
344
Presso ala pianta, apiè del’alta cassa,
tutto del bel garzone in doppio ovato
di mezzo intaglio e di scultura bassa
il natal con la morte è rilevato.
Quinci Mirra si vede afflitta e lassa
frondoso divenir legno odorato
e dopo lungo affanno alfin sofferto
il fanciullo sbucciar dal tronco aperto.
345
Quindi si mira il fior d’ogni beltade
quando dal fier cinghial morto rimane
e come dale zanne aspre e spietate
ucciso resta ancor l’amato cane.
Né del’istesso can l’ossa onorate
hanno molto a giacer da lui lontano,
ch’a piè di quel, ch’è sacro al suo signore,
ottiene anch’egli un tumulo minore.
346
In cotal forma illustremente adorno
dela gran tomba è il bel lavor scolpito
e’l drappello del ciel la notte e’l giorno
travaglia accioche’n breve ei sia compito.
Ammaestra i maestri e cura intorno
che sia l’ordin divin ben esseguito
con l’artefice dotto di Cillene
l’architettrice vergine d’Atene.
347
Prima che dale man celesti e sante
fusse in colmo fornita opra sì bella,
nove volte lucifero in levante
precorse al gran camin l’alba novella
e mutato destriero anco altrettante
guidò notturno la più bassa stella.
Comparso il nono sol, comparve intutto
l’edificio superbo apien costrutto.
348
Nel’ultimo mattin di tutti i nove
per celebrar l’essequie al caro estinto,
la figliuola mestissima di Giove
sorge col crin confuso e’l sen discinto
e con gli amici dei vassene dove
giace ancora il suo ben di sangue tinto,
ed ha l’urne degli occhi omai sì vote,
che geme sì, ma lagrimar non pote.
349
Come di pietra alabastrina e tersa
statua gentil, che liquidi tesori
di vivo argento in vaga conca versa,
s’avien ch’adusta sia da fieri ardori
o che sieno talor da man perversa
rotti i canali ai cristallini umori,
seccasi e nega al’orticel che langue,
tronca le vene, il suo ceruleo sangue,
350
così costei, che’n caldo umor la vita
benché immortale, ha distillata tutta,
non piagne più, ma resta instupidita,
nel’eccesso del duol fontana asciutta,
onde la bella guancia impallidita
discolora i suoi fior, quasi distrutta.
Non però già, sebene il pianto manca,
d’addolorarla il suo dolor si stanca.
351
Or perché’l corpo del garzon defunto
fin ne’ più chiusi penetrali interni
già tutto olezza imbalsamato ed unto
de’ preziosi aromati materni,
mentr’al mortorio in un medesmo punto
apparecchian la pompa i numi eterni,
con la ruina dela selva impone
la pira accumularsi al morto Adone.
352
Vansi a troncar dela foresta annosa
le piante già per lunga età vetuste.
Cominciasi a sfrondar la chioma ombrosa,
tremano le radici aspre e robuste.
Scote la vecchia rovere nodosa
di rozze ghiande le gran braccia onuste
e percossa dal ferro e dala mano,
si distacca dal ceppo e cade al piano.
353
L’elce superba e’l platano sublime
trabocca e’l faggio verde e l’orno nero;
inchina il dritto abete al suol le cime
e precipita a terra il pino altero;
ala scure, che’l fiede e che l’opprime,
cede abbattuto il frassino guerriero
e corron col mortifero cipresso
anco il cedro e l’alloro un fato istesso.
354
Fuggon le fere da’ covili usati,
abbandonan gli augei timidi i nidi;
abbracciano partendo i tronchi amati
le ninfe allieve con lamenti e stridi
ed ululando i satiri scacciati
lasciano a forza i lor ricovri fidi,
si straccia Pale i crin lunghi e canuti
e piagne il buon Silvan gli ozi perduti.
355
Geme la terra intorno e’l bosco ch’era
sì ricco dianzi di verdure e d’ombre,
impoverito di sua pompa altera,
concede altrui le vie libere e sgombre,
e rischiarando la caligin nera,
orché raro arboscello ha che l’adombre,
senza invidia del prato e fuor del’uso
scopre agli occhi del sole il grembo chiuso.
356
Intanto pria ch’a sepelir si porti,
il letto si compon lugubre e mesto.
L’infima parte ha sovra rami attorti
di verdi strami un piumacciuol contesto.
Di sovra tien de’ più bei fior degli orti
molle orditura il talamo funesto.
L’ordin supremo è poi di gemme e d’ori
e di glebe d’incenso e d’altri odori.
357
La coltra che’l ricopre è così grande,
che’ntorno giù dal letticciuol trabocca
e da capo e da piedi e dale bande
con le falde cadenti il terren tocca,
e d’un bruno broccato, il qual si spande
sovra tela d’argento e si disfiocca,
e d’un fregio di perle ad or commiste
riccamato ha il gran lembo a quattro liste.
358
Son del’istesso i morbidi origlieri,
dove il morto fanciul la testa appoggia,
han pur di fosca seta i fiocchi neri
e son trapunti ala medesma foggia.
Sparsa insu’l volto i faretrati arcieri
gli hanno di rose una vermiglia pioggia
e gli ha la piaga del costato orrenda
fasciata Amor con la sua propria benda.
359
Ed ecco il rame giù curvo, forato
con lugubre muggito alto risona
e che’ncominci l’ordine schierato
del’essequie a partirsi il segno dona;
primiero il vecchio Astreo vien col senato
tra i ministri maggior dela corona;
e tra costor Sidonio armato viene
e con Dorisbe in nera veste Argene.
360
Sei quadriglie d’araldi e di trombetti
ivano innanzi al’orrido feretro,
a cui di cavalier fra gli altri eletti,
due lunghe file poi ne venian dietro.
Quei sovra ubini e questi insu giannetti
di pel conforme al’armi oscuro e tetro
e rauchi e fiochi e languidi e soavi
sospiravano i fiati ai bronzi cavi.
361
In alicorni a leggier morso avinti
ben cento coppie in armeggiar maestre,
con poppe ignude ed abiti succinti
d’amazzoni seguian la turba equestre;
non già dardi dorati, archi dipinti,
ma brunite zagaglie arman le destre,
le fosche chiome innanellate al’aure,
vergini brune e giovinette maure.
362
Bianche altrettante poi seguon le negre
a suon di sordi timpani e taballi,
piene d’incenso in testa han conche integre
ed urne in man di limpidi cristalli;
veston gonne sguernite e poco allegre
e son cervi frenati i lor cavalli,
di gramaglie coverti ed ogni corno
d’aride fronde e scolorite adorno.
363
Succedean dela corte di Canopo,
attraversati di sanguigna banda,
gli scudieri davante, i paggi dopo,
e di notturni fior cingean ghirlanda
di quel color che’l torrido etiopo
dala fervida zona a noi gli manda.
Cotte avean di cottone ala moresca
tutti di pari età giovane e fresca.
364
Purpureo carro alfin, ch’a biga a biga
su rote d’oro e d’ebeno conteste
traean venti elefanti in doppia riga,
le due donne portava afflitte e meste.
Sovrasiede a ciascuno un nano auriga
e su’l capo ha ciascun piume funeste,
umidi gli occhi e pallidi i sembianti
e tenebrosi e lagrimosi i manti.
365
L’illustrator degl’intelletti saggi,
l’eterno tesorier del’aurea luce,
senza fronde ale tempie e senza raggi
succede a questi e’l popol suo conduce.
Cingonlo quinci e quindi ancelle e paggi
come signor d’ogni altro lume e duce.
Le Stagioni co’ Mesi, il Tempo e l’Anno
e la Notte col Dì dietro gli vanno.
366
Su la mole portatile d’un monte
vien quei che’n Delo e’n Delfo ha la sua reggia
e di bei lauri insu la doppia fronte
di quel finto Parnaso ombra verdeggia.
Quivi per arte è fabricato un fonte,
loqual d’argento e di cristallo ondeggia;
e presso l’onde assai simile al vero
v’ha di rilievo il volator destriero.
367
Non consentì la Poesia che fusse
priva di lei la compagnia sollenne,
e tutta seco la famiglia addusse
fuor la Comedia sol che non vi venne;
e tutti neri gli abiti costrusse,
i cigni istessi nere ebber le penne,
le bianche penne co’ purpurei rostri
tutte eran tinte de’ più puri inchiostri.
368
Con occhi molli e languidi e dimessi
le Muse afflitte e con turbata faccia,
cinte il crin di mortelle e di cipressi,
una gran lira d’or tirano a braccia.
Seguon d’absinzio incoronati anch’essi
cento poeti la medesma traccia
e di dogliose e querule elegie
fanno pertutto risonar le vie.
369
Mercurio col drappel delo dio biondo
volse ch’anco il suo stuolo unito andasse,
e’n simil modo un numero facondo
d’altrettanti oratori in schiera trasse
e vi raccolse di quant’Arti ha il mondo
liberali e meccaniche ogni classe,
che di Minerva con ossequio sacro
precedeano e seguiano il simulacro.
370
L’imago ancor, qual l’adorò già Roma,
tra mille palme di smeraldo e d’oro
v’era dela Virtù, cinta la chioma
di verde oliva e d’immortale alloro.
Reggeano altre insu’l tergo immensa soma
un caduceo di sovruman lavoro,
tutto d’argento smisurato ed alto,
salvo le serpi sol ch’eran di smalto.
371
Dopo costor, con lo squadron di Teti
tabernacoli argentei e cristallini
portano statue orribili di ceti,
foche, pistri, balene, orche e delfini
e, chiusi in grosse gabbie e’n doppie reti,
gran capidogli e gran vecchi marini.
Havvi rosmari ignoti agli occhi nostri,
ippopotami immensi ed altri mostri.
372
Da volubili ordigni indi son tratte
per meraviglia d’ineffabil arte
navi e galee con somma industria fatte
che le vele han d’argento e d’or le sarte.
Ignude il sen più candido che latte,
vengon nereidi con le trecce sparte,
e vibran con le man lucide e bianche
arbori di corallo a cento branche.
373
La dea del mar tra ninfe e tra garzoni
sovra un carro di chiocciole procede,
quei forma han di sirene e di tritoni,
questa ha di verde limo algosa sede;
e van facendo strepitosi suoni
mentre, con lento andar, muovono il piede
e tra battute e ribattute conche
fan le voci languir tremule e tronche.
374
Segue colei che’l dono altrui dispensa
con larga man dele granite ariste.
Van di spiche dorate in copia immensa
spargendo nembi le sue ninfe triste.
Conducon parte in spaziosa mensa
varie vivande accumulate e miste;
quanto apporta la terra e l’aria e’l mare,
quanto il foco condisce, entro v’appare.
375
Reca del’abondanza il fertil corno
un’altra parte e di fin or costrutto
ch’ha di biade mature il grembo adorno
e di semi fecondi è colmo tutto.
Squadra gli va di contadini intorno
con armi proprie a coltivar quel frutto,
vomeri e zappe e falci e cribri e pale,
con quanto dela messe al’opra vale.
376
Accompagnan di Cerere gli adusti
dal sol ardente e rustici cultori
i custodi de’ prati e degli arbusti,
Pomona con Vertun, Zefir con Clori;
ed han canestri d’auree poma onusti
e versan pieni calati di fiori;
ed a queste ed a quelli il crin circonda
di Ciparisso la funerea fronda.
377
Trae poscia del licor che brilla e fuma
la gente sua lo dio giocondo e fresco;
giovani scelti di novella piuma
portano avante la credenza e’l desco;
ciascuno ha in man d’un bel rubin che spuma
vasel d’oro distinto e d’arabesco;
e per tutto il camino a quando a quando
vanno a prova bevendo e propinando.
378
Di verde mitra adorno havvi Filisco,
sacerdote di Libero e poeta,
con tutto quello stuol che’l secol prisco
appellò Mimallonide e Maceta.
Qual di smilace il crin, qual di lentisco
cerchia, deposta ogni sembianza lieta;
e van tutti vibrando orribilmente
chi coltello, chi tirso e chi serpente.
379
Un plaustro a quattro ruote e sì leggiadre
ch’invidia fanno al carro del’Aurora,
Nisa conduce in mezzo a queste squadre,
nutrice di colui che Tebe adora;
e’l letto genial dove la madre
giacque col gran motor, conduce ancora
e del medesmo la corona porta
di viti e d’edre in bianche fasce attorta.
380
Cinquanta dopo questa ebri sileni
sovr’asinelli mansueti e pigri
cantando tuttavia versi epileni,
gran cuoia gonfie in braccio hanno di tigri
e versando ne’ calici che pieni
tengono in man di bianchi umori e nigri,
dagli otri il vin, che si diffonde e cade,
di dolci stille ingemmano le strade.
381
Sovra un bel soglio d’or preme Lieo
la fera ch’idolatra è dela luna.
Laconico è il vestir d’ostro eritreo,
il cui vermiglio la viola imbruna.
Intagliata nel seggio è di Penteo
la dolorosa e tragica fortuna.
Un satirin, che siede a piè del trono,
gonfia un corno caprin con rauco suono.
382
Piangendo anch’ei del genitor Dionigi,
cinto di menta il gran capo vermiglio,
senza la falce in man, segue i vestigi
il suo barbuto, il suo membruto figlio.
Cavalca un animal pur di que’ bigi
con lunghe orecchie e tien dimesso il ciglio,
va con le vene al collo enfiate e grosse,
col naso acceso e con le luci rosse.
383
Tinti d’ebuli e mori i volti informi,
dopo’l cultor degli orti lampsacei
armenti di bicorni e di biformi,
gregge di semicapri e semidei,
satiri, fauni ed altri a lor conformi
numi esclusi dal ciel rozzi e plebei,
sospingon, da cent’argani tirato,
un immenso colosso e smisurato.
384
Forma ha d’immenso e giganteo colosso
d’oricalco dorato un itifallo,
cento cubiti lungo e venti grosso
sì che stride, al gran peso, il piedestallo,
e nel mezzo del vertice che rosso
innestato il rubino ha su’l metallo,
sì chiara scintillar stella si scorge
che lucifero par quando in ciel sorge.
385
Non vide Roma infra le sue colonne
mai miracolo egual piantato e dritto,
né tra quante più vaste edificonne
piramide maggior celebra Egitto.
Va dele verginelle e dele donne
di Citera e di Gnido il coro afflitto
e, cantando per via meste canzoni,
l’incorona di serti e di festoni.
386
Passò poi dela dea che’n Cipro impera
tutto il corteggio e con diversi incarchi;
di cento sagittari armata schiera
veniva innanzi con turcassi ed archi,
di brocchieri lunati ala leggiera
e di lievi loriche adorni e carchi,
senz’elmi in testa e con corone aurate
e l’armi erano azzurre e d’or fregiate.
387
Secondavano i primi anco altri cento
gravi le destre di spadoni e d’azze,
ch’avean di puro e ben forbito argento
le celate, le targhe e le corazze.
Seguiva alfin per terzo un reggimento
d’aste ferrate e di ferrate mazze
e vario di color dal’altre truppe
neri gli arnesi avea, nere le giuppe.
388
Al tergo di costor cento arieti
con cento tauri di color simili
moveano il passo tardi e mansueti
con teste chine e con cervici umili.
Aveano indosso serici tapeti,
aurei frontali intorno, aurei monili,
d’appio secco le corna inghirlandati
e di vermiglio vel gli occhi bendati.
389
I sacerdoti ancor son altrettanti
di coltella forniti e di securi,
con cui, di forma e d’abito eleganti
cento donzelli, ch’hanno i volti oscuri,
spiche di nardo, foglie d’amaranti
e calami di casia eletti e puri
portan con lento piè premendo il calle
dentro vasi gemmati insu le spalle.
390
Fanciulle arrecan poi candide e bionde
di lagrime di mirra altre vasella
e sostien del licor, ch’entro s’asconde,
mille dramme di peso ogni donzella.
E non men che i primier, son le seconde
guernite di livrea splendida e bella;
vermiglia han quelli infin a’ piè la veste,
scorciate in bianca tunica van queste.
391
Un’altra legion pur di pedoni
segue, e son tutti inermi e tutti astati.
Qui Nubi e Garamanti e Nasamoni,
ed altri negri in Etiopia nati
van con denti d’avorio e con tronconi
d’ebano in man, di porpora addobbati.
Vibran molti di lor ricchi incensieri,
molti sostengon d’or lampe e doppieri.
392
Seben non venne a que’ pomposi uffici,
per le note cagion, la Dea di Cinto,
non però cacciatori e cacciatrici
lasciaro già d’accompagnar l’estinto.
Chi trae per man dale rifee pendici
pardo leggiadro a ricca corda avinto;
chi dale rupi dela caspia foce
tigre o pantera indomita e feroce.
393
Chi fier leon dal’africana arena,
chi superbo cervier dal bosco trace,
chi l’orso bianco di Russia vi mena,
chi di Scizia il crudel grifo rapace.
Chi d’Ircania o d’Epiro ala catena
conduce alano altier, molosso audace,
chi con bracco o levrier tratto ala lassa
odi Caria o di Creta in mostra passa.
394
Havvi di falconieri altri drapelli
con giraffe e cameli e dromedari,
ch’entro eburnee prigion some d’augelli
portan su’l dorso peregrini e rari,
quanti l’indico ciel n’abbia più belli;
tutti di piuma differenti e vari
e volar d’or in or ne lascian molti
sol co’ piedi legati, il resto sciolti.
395
Ecco la bara alfin, che ben composte
con vari emblemi intorno ha varie imprese
e d’armati guerrier tiene ale coste
di qua di là due maniche distese
e con mirabil ordine disposte
lumiere illustri in ogni parte accese
e de’ torchi lucenti anco la cera
simile in tutto al paramento, è nera.
396
Le ninfe di Ciprigna e le donzelle
circondan quinci e quindi il cadaletto
e sostengon tra via le braccia belle,
ch’accennan di cader, del giovinetto.
Havvi anco altri valletti ed altre ancelle
che, dolenti nel core e nell’aspetto,
la cuccia, de’ bei membri orrido albergo,
peso dolce e leggier, portan su’l tergo.
397
Ultima a tutti, in neri panni avolta,
Venere bella il funeral conchiude
e, con viso graffiato e chioma sciolta,
dele stelle si lagna invide e crude,
battendosi con mano anco talvolta
il bianco petto e le mammelle ignude.
Turba di serve ha dietro e d’ambo i lati
la fida guardia degli arcieri alati.
398
Giunta ove’l bel cadavere disegna
in preda dar dela funebre arsura
e dov’è già, d’un tanto dono indegna,
edificata la catasta oscura,
fa Citerea depor sovra le legna
il letto a piè del’alta sepoltura,
indi supposta la facella a l’esca
fa che, desto dal soffio, il rogo cresca.
399
Già su le prime fronde apena appresi
si dilatan gli incendi in un momento.
Sonan le gemme de’ fregiati arnesi
e suda l’oro e si disfà l’argento;
stillan succhi d’Arabia i rami accesi
che già gl’impingua l’odorato unguento;
stride scoppiando in liquefarsi al foco
il nardo, il costo, il cinnamomo e’l croco.
400
Più nobil fiamma in terra unqua non arse,
né cener mai più ricco si compose.
Chi di candido latte urne vi sparse
e chi di negro vin tazze spumose.
Altri le mani ancor non avea scarse
di biondo mele e di più rare cose.
Altri del sangue degli uccisi armenti
abbeverava le faville ardenti.
401
Versanvi e lacci e reti ed archi e strali
volando intorno i lagrimosi Amori;
le vaghe penne svellonsi dal’ali
e le fan cibo de’ voraci ardori;
le tre d’Eunomia ancor figlie immortali
vi gittan dentro i lor monili e i fiori;
Vener le trecce d’or troncar si volle
ed ale fiamme in vittima donolle.
402
Indi il bel rogo ancor, secondo il rito,
prende da manca a circondar tre volte,
ed inchinando il busto incenerito
le bellezze saluta in aria sciolte.
Ma poiché già Vulcan langue sopito
e l’ossa amate ha in polvere rivolte,
di propria mano il cenere rimaso
raccoglie e serra entro’l marmoreo vaso.
403
Serrato il vaso, in cui chiudeasi quanto
natura e’l ciel di bello unqua crearo,
Amor che stava in flebil atto a canto
quasi custode al cimiterio caro,
cercava pur d’intenerir col pianto
l’aspro rigor di quel sepolcro avaro,
e con la punta del dorato strale
vi scolpì sovra un epitafio tale:
404
«O peregrin che passi, arresta il passo
al marmo, se non hai di marmo il core.
Giace sepolto Adone in questo sasso
e giace seco incenerito Amore.
Nel cener freddo e nel sepolcro basso
spento il lume è però, non già l’ardore.
E che sia ver, tocca la pietra un poco
che senz’altro focil n’uscirà foco».
405
Vi fu sospeso in un gran fascio involto
l’arco insieme con l’asta e con l’altr’armi
e’l dente dela fera anco raccolto
restò trofeo di que’ medesmi marmi;
fu poi con simil cura il can sepolto
e Febo aggiunse agli altri onori i carmi,
che su l’avel del’animal trafitto
la memoria lasciò di questo scritto:
406
«Qui sta Saetta, il can, la cui bravura
le fere spaventò non solo in terra,
ma quasi a quelle ancor pose paura
che’l zodiaco nel ciel raccoglie e serra.
Pluton, per far la sua magion secura
in guardia del’inferno il tien sotterra,
che poich’Ercol discese in quella corte,
fidar non vuole a Cerbero le porte».
407
Poscia che’l nobil marmo in cotal guisa
ha già d’Adon le ceneri coverte,
la mesta dea, là’v’è la pietra incisa
del deposito caro, il piè converte;
e stata alquanto immobilmente fisa
con gli occhi in alto e con le braccia aperte,
trangosciando più volte, alfin si scote
e rompe il suo tacer con queste note:
408
–Dolci, mentre al ciel piacque, amate spoglie,
già dolci un tempo or quant’amate amare,
poiché negano l’acque a tante doglie
fatte le luci mie di pianto avare,
prendete questi fiori e queste foglie,
ultimi doni ale reliquie care
e’n vece dele lagrime dolenti
gradite questi baci e questi accenti.
409
S’invido fato, avaro ciel mi toglie
distemprar gli occhi in lagrimoso mare,
di questa tomba le funeste soglie
non mi torrà con gemiti baciare.
Se colei ch’ogni fior recide e coglie,
reciso ha il fior dele bellezze rare,
lo spirto almen, ch’ascolta i miei lamenti,
gradisca questi baci e questi accenti.
410
L’urna gentil che le bell’ossa accoglie,
sarà dei voti miei perpetuo altare;
l’alte faville del’accese voglie,
là dove il cor sacrificato appare,
il foco de’ sospir, che l’alma scioglie,
saran fiaccole e fiamme ardenti e chiare.
Ombra felice, se mi scorgi e senti,
gradisci questi baci e questi accenti. –
411
Qui tace e chiede del suo core il core
e gli è recato al primo cenno avante.
Ell’avea già, quando il sabeo licore
le viscere condì del caro amante,
sterpato e svelto infin dal centro fore
del bel fianco sparato il cor tremante;
indi il serbò tra preziose tempre
di celesti profumi intatto sempre.
412
Tolto in mano quel cor, gli occhi v’affisse
e contemplollo con pietoso affetto
ed: – O del più bel foco (indi gli disse)
e del più puro ardor nobil ricetto,
che d’aver riscaldato unqua s’udisse
in cielo o in terra innamorato petto,
così fuor di quel sen, ch’era tuo seggio,
lacerato ed aperto oimé! ti veggio?
413
Forse mostrar mi vuoi che non contento
del’amor che vivendo in te bolliva,
dopo’l cener gelato e’l rogo spento
serbi ancor la tua fiamma accesa e viva.
Ahi ben il veggio, anzi in mestessa il sento,
che, benché del mio ben vedova e priva,
ancor estinto de’begli occhi il lampo,
in pari incendio immortalmente avampo.
414
Or con qual degno onor, fuorché di baci
sodisfar posso ad oblighi sì cari?
ond’avrò per lavarti acque vivaci,
secca la vena de’ miei pianti amari?
chi mi darà le luminose faci,
spenta la luce di que’ lumi chiari?
fuor del bel volto, ove saranno i fiori?
senza i fiati soavi, ove gli odori?
415
Deh che farò? Per quanto almen mi lice
io voglio al mondo pur con qualche segno
lasciar del nostro amor poco felice
grata memoria ed onorato pegno.
S’agli altri dei ciò far non si disdice,
s’altro mortal fu di tal grazia degno,
per qual cagion non potrò farlo anch’io?
o perché non l’avrà l’idolo mio?
416
Farò dunque al mio ben l’istesso onore
che fece Apollo al suo fanciullo ucciso,
che non fu certo il mio gentile ardore
di Giacinto men bel né di Narciso.
E poich’ei fu d’ogni bellezza il fiore
e di fiori ebbe adorno il seno e’l viso
e mi fu tolto insu l’età fiorita,
vo’ che, cangiato in fior, ritorni in vita.
417
Tra i fiori, o fiore, il primo pregio avrai,
torrai lo scettro ala mia rosa ancora;
vinti saran da te quanti giamai
Clori in terra ne sparse, in ciel l’Aurora;
ornamento immortal de’ miei rosai,
perpetuo onor dela vezzosa Flora,
nova pompa del prato e del terreno,
novo fregio al mio crine ed al mio seno.
418
Farò sempre di più che d’anno in anno
dela parca malgrado e dela sorte,
si rinovelli col mio duro affanno
la rimembranza di sì cruda morte,
e i miei devoti ad imitar verranno
con sollenne dolor piangendo forte,
come fec’io quando il mio ben perdei,
la trista pompa de’ lamenti miei.
419
Questo fiume vicin che già si tinse
del nobil sangue del buon re ciprigno,
nel giorno istesso che’l cinghial l’estinse,
col corno rotto correrà sanguigno.
Questo medesmo mar, che’l lido cinse,
dove l’oppresse il rio destin maligno,
nutrirà pesce tal nel grembo interno
che riterrà d’Adone il nome eterno. –
420
Poiché così parlò, di nettar fino
pien di tanta virtù quel core asperse,
che tosto per miracolo divino
forma cangiando, in un bel fior s’aperse
e nel centro il piantò del suo giardino
tra mille d’altri fior schiere diverse.
Purpureo è il fiore ed anemone è detto,
breve, come fu breve il suo diletto.
421
Rivolta poscia al fido stuolo amico
de’ servi Amori e de’ compagni divi:
– Fu sempre (ripigliò) costume antico
d’onorar morti quei che s’amar vivi.
Osservasti ben tu l’uso ch’io dico
accoppiando al dolor giochi festivi,
Bacco, quand’empia morte Ofelte uccise;
così fece il mio figlio al padre Anchise.
422
Questo rito seguir dunque m’aggrada
nele sacre d’Adon pompe funeste;
io vo’ ch’ogni anno in questa mia contrada
s’abbiano a celebrar tragiche feste
e vo’ che vi concorra e che vi vada
spettatrice non sol turba celeste,
ma del mar, dela terra e del’abisso;
e di tre dì lo spazio abbian prefisso. –
423
Così ragiona e l’immortal brigata
il pietoso pensier commenda e loda,
onde il gran banditor del’ambasciata,
l’autor del’eloquenza e dela froda,
su’l capo impon la cappellina alata,
alate al piè le talloniere annoda,
né pur gli dei del ciel convoca e cita
ma quanti il mondo n’ha, tutti gl’invita.
424
E per posar nele cerulee piume
già varca intanto il sol l’onde marine,
e già si lava entro le salse spume
l’umida fronte e’l polveroso crine.
Vedesi tinto il ciel d’ombra e di lume
nel tenebroso e lucido confine
e’n sé far mezzo chiara e mezzo oscura
dela notte e del giorno una mistura.
La Fortuna (canto I - 170 ottave)
Amore vuole vendicarsi di sua madre Venere che l'ha picchiato e Apollo gli consiglia di farla innamorare di Adone, dunque fa in modo che il giovane arrivi a Cipro, dimora della dea, e qui Clizio (in realtà figura del poeta Gianvincenzo Imperiale) lo accoglie e canta un elogio della vita bucolica.

Il Palagio d'Amore (canto II - 179 ottave)
Davanti al palazzo di Amore e Venere, immaginato come un edificio con quattro torri ai lati ed una centrale, alla presenza di un albero particolare Clizio racconta al giovane Adone il giudizio di Paride.

L'Innamoramento (canto III - 175 ottave)
Venere incontra Adone e, colpita dalla freccia di Amore, si innamora del giovane; lo osserva mentre dorme e lo sveglia con un bacio, quindi si fa medicare il piede ferito da una rosa. Così anche Adone s'infatua della dea.

La Novelletta (canto IV - 293 ottave)
All'interno del palazzo Amore racconta ad Adone la storia dei suoi amori con Psiche.

La Tragedia (canto V - 151 ottave)
Mercurio racconta cinque storie tragiche di giovani che amarono delle divinità (Narciso, Ganimede, Ciparisso, Ila, Ati). Adone è esortato da Venere a rinunciare alla caccia e, dopo aver visitato il palazzo, assiste alla rappresentazione della tragedia di Atteone su un meraviglioso palcoscenico rotante.

Il Giardino del Piacere (canto VI - 206 ottave)
I due amanti visitano i giardini della vista e dell'odorato: il primo permette all'autore una descrizione dell'occhio, di una galleria di pitture e la narrazione della storia del pavone, il secondo invece la descrizione del naso, dell'orto dei profumi e della vita di Amore.

Le Delizie (canto VII - 250 ottave)
Si visitano i giardini dell'udito, con la descrizione dell'orecchio, di un'uccelliera e del giardino della musica, e poi del gusto, con la descrizione dell'orto fruttifero, della bocca, e di due vasi rappresentanti la nascita di Venere e Amore. Il tutto si conclude da Momo, che racconta il tradimento di Venere con Marte, e da Talia che canta un inno d'amore.

I Trastulli (canto VIII - 149 ottave)
Giunti nel giardino del tatto, Venere e Adone vengono uniti in matrimonio da Mercurio. Consumato il matrimonio in una piccola stanza, proseguono con diletto la loro vita matrimoniale.

La Fontana d'Apollo (canto IX - 200 ottave)
Passando dai piaceri dei sensi a quelli dell'intelletto, Adone e Venere, sempre accompagnati da Mercurio, visitano la meravigliosa fontana d'Apollo che si trova nell'isola della poesia e Fileno, che altri non è che lo stesso Marino, racconta la sua vita passando poi in rassegna i mecenati dell'Italia e della Francia, i poeti greci, latini e italiani.

Le Maraviglie (canto X - 287 ottave)
Sotto la guida di Mercurio i due sposi passano a visitare i tre cieli tolemaici iniziando dalla Luna dove il dio accompagnatore, prendendo spunto dalle macchie che si vedono, tesse le lodi di Galileo. Sulla luna visitano la grotta della Natura e l'isola dei sogni. Ascendono in seguito al cielo di Mercurio dove vanno a visitare il museo degli inventori e quello dell'Arte. Si recano anche nella biblioteca dell'universo e nella sala del mappamondo dove è possibile conoscere le guerre del futuro.

Le Bellezze (canto XI - 214 ottave)
Raggiunto il cielo di Venere vedono passare in rassegna le donne più celebri del futuro. Adone vuole intanto conoscere da Mercurio il suo oroscopo e apprende che è negativo. Venere, che intanto ha lanciato frasi di sdegno contro l'astrologia, desidera ritornare sulla terra anche perché è gelosa nel vedere tante bellezze.

La Fuga (canto XII - 292 ottave)
Gelosia avvisa Marte della vita felice della coppia e questi dalla sua reggia (descritta) si precipita a Cipro. Venere fa fuggire Adone, dandogli un anello contro cui non valgono incanti e che lo manterrà fedele. Una ninfa conduce Adone alla dimora sotterranea della maga Falsirena. Questa tende insidie amorose al giovinetto che, sempre fedele a Venere, tenta la fuga ed è imprigionato.

La Prigione (canto XIII - 266 ottave)
Gli è sottratto l’anello fatato, ma gli appare Mercurio e gli spiega le insidie che ancora lo aspettano. Trasformato per sbaglio dalla stessa Falsirena in pappagallo, può volare via dalla prigione. In questa forma si sottrae, grazie a Mercurio, ad un agguato di Vulcano e assiste agli amori di Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna nel regno sotterraneo di Falsirena per recuperare la forma prima e il suo anello, ma contro il monito del suo consigliere sottrae a Falsirena anche le armi di Meleagro, che portano morte.

Gli Errori (canto XIV - 407 ottave)
Tornato sulla terra si traveste da donna per far perdere le sue tracce, ma incappa nelle trame di due opposte bande di briganti, concupito, in quanto donna, da più parti. Se ne libera grazie a una romanzesca serie di equivoci e di ammazzamenti ma è poi coinvolto nel non meno complesso romanzo amoroso di Sidonio e Dorisbe.

Il Ritorno (canto XV - 237 ottave)
Ritrova Venere sotto specie di zingara che gli legge la mano: nuova occasione per metterlo in guardia contro i pericoli della caccia. I due tornano agli amori. Per distrarlo dalla noia incipiente Venere propone una partita a scacchi Adone vince, anche se con la frode, e si guadagna così il regno di Cipro: premio che accetta, ma potere che non intende esercitare.

La Corona (canto XVI - 269 ottave)
Adone partecipa al concorso di bellezza attraverso il quale si intende eleggere il re di Cipro. Pur vincendo la prova perde il pegno della vittoria, che gli è conferita solo dopo una serie di riconoscimenti. Venere subito lo distoglie dal regno a favore dei soliti trastulli.

La Dipartita (canto XVII - 186 ottave)
Venere deve essere presente alle feste che si danno a Citera in suo onore. Adone le strappa la concessione di poter cacciare nel parco di Diana. Durante il viaggio Venere tenta inutilmente di far conferire l’immortalità ad Adone.

La Morte (canto XVIII - 253 ottave)
Su delazione di Aurilla, strumento di Falsirena, Marte tende ad Adone un agguato nel parco, coadiuvato da Diana: irritano un cinghiale contro Adone. Questi lo affronta con le armi di Meleagro, fatali a chi le porta, e per di più colpisce la belva con una freccia di Cupido, infondendogli furia amorosa. Un vento che scopre la coscia di Adone eccita la fiera al bacio e all’amoroso assalto in cui gli morde l’anca. Venere avvisata accorre e assiste alla morte del suo amato, piangendolo a lungo. Si cerca e si processa il cinghiale, che viene assolto, intese le ragioni amorose che l’hanno mosso.

La Sepoltura (canto XIX - 424 ottave)
Quattro divinità accorrono a consolare Venere con racconti di sei dolorosi casi mitici analoghi al suo: Apollo narra di Giacinto, Bacco di Pampino, Cerere di Aci, Galatea e Polifemo, Teti di Calamo e Carpo, di Leandro, di Achille. Si celebrano i funerali. Venere trasforma il cuore di Adone in anemone e indice tre giorni di giochi in onore del defunto.

Gli Spettacoli (canto XX - 515 ottave)
Gli dèi accorrono ai giochi. Il primo giorno è dedicato alle gare di tiro all’arco e di danza; il secondo alla lotta e alla scherma; il terzo alla giostra, cui partecipa la nobiltà italiana e straniera e in cui Fiammadoro e Austria (Francia e Spagna) dopo la contesa sono uniti da Venere. Lo scudo istoriato ottenuto in premio da Fiammadoro rappresenta le guerre di religione in Francia, spiegate da Apollo e fedelmente trascritte da Fileno (Marino).

RIASSUNTI