CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Untitled





























































EUGENIO MONTALE



LE OCCASIONI



Batté più volte sordo sulla tavola,
sui vetri ribatté chiusi dal vento,
e da sé ritrovò la via dell’aria,
si perse nelle tenebre. Dal porto
di Vernazza le luci erano a tratti
scancellate dal crescere dell’onde
invisibili al fondo della notte.

Poi tornò la farfalla dentro il nicchio
che chiudeva la lampada, discese
sui giornali del tavolo, scrollò
pazza aliando le carte –
e fu per sempre
con le cose che chiudono in un giro

sicuro come il giorno, e la memoria
in sé le cresce, sole vive d’una
vita che disparì sotterra: insieme
coi volti familiari che oggi sperde
non più il sonno ma un’altra noia; accanto
ai muri antichi, ai lidi, alla tartana
che imbarcava
tronchi di pino a riva ad ogni mese,
al segno del torrente che discende
ancora al mare e la sua via si scava.








II. BUFFALO

Un dolce inferno a raffiche addensava
nell’ansa risonante di megafoni
turbe d’ogni colore. Si vuotavano
a fiotti nella sera gli autocarri.
Vaporava fumosa una calura
sul golfo brulicante; in basso un arco
lucido figurava una corrente
e la folla era pronta al varco. Un negro
sonnecchiava in un fascio luminoso
che tagliava la tenebra; da un palco
attendevano donne ilari e molli
l’approdo d’una zattera. Mi dissi:
Buffalo! – e il nome agì.
Precipitavo
nel limbo dove assordano le voci
del sangue e i guizzi incendiano la vista
come lampi di specchi.
Udii gli schianti secchi, vidi attorno
curve schiene striate mulinanti
nella pista.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Eugenio Montale

L'uomo e il Poeta
_________

da
Wikimedia
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- Ossi di Seppia

Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l'affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l'uomo, che con l'età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina" manzoniana.
La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un'epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta della vita e dell'uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l'attesa di un miracolo.
L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da "reclusione" interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo.
Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia.

- Le occasioni

In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall'abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali.
La memoria è sollecitata da alcune "occasioni" di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove "Beatrici" a cui il poeta affida la propria speranza.
La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un'idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell'amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà. Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale.
In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l'idea della morte, l'impossibilità di dare una spiegazione valida all'esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto).

- La bufera e altro

Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti.

- Xenia e Satura

Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo "per dire tutto" (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata "Mosca" per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell'antica Grecia erano i doni fatti all'ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro - scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell'edizione Mondadori - Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell'impennata lirica e insieme la "prosa" che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»

- La poetica e il pensiero

Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un "quaderno" di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiungono gli articoli della collaborazione al Corriere della sera. Il quadro è perfettamente coerente con l'esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia.
La poesia è per Montale principalmente strumento e testimonianza dell'indagine sulla condizione esistenziale dell'uomo moderno, in cerca di un assoluto che è però inconoscibile. Tale concezione poetica – approfondita negli anni della maturità, ma mai rinnegata – non attribuisce alla poesia uno specifico ruolo di elevazione spirituale; anzi, Montale al suo lettore dice di "non chiedere la parola", non "domandare" la "formula" che possa aprire nuovi mondi. Il poeta può solo dire "ciò che non siamo": è la negatività esistenziale vissuta dall'uomo novecentesco dilaniato dal divenire storico.
A differenza delle "illuminazioni" ungarettiane, Montale fa un ampio uso di idee, di emozioni e di sensazioni più indefinite. Egli cerca infatti una soluzione simbolica (il "correlativo oggettivo", contemporaneamente adottato da Thomas Stearns Eliot) in cui la realtà dell'esperienza diventa una testimonianza di vita. Proprio in alcune di queste immagini il poeta crede di trovare una risposta, una soluzione al problema del "male di vivere": ad esempio, il mare (in Ossi di seppia) o alcune figure di donne che sono state importanti nella sua vita.
La poesia di Montale assume dunque il valore di testimonianza e un preciso significato morale: Montale esalta lo stoicismo etico di chi compie in qualsiasi situazione storica e politica il proprio dovere. Rispetto a questa visione, la poesia si pone per Montale come espressione profonda e personale della propria ricerca di dignità e del tentativo più alto di comunicare fra gli uomini. L'opera di Montale è, infatti, sempre sorretta da un'intima esigenza di moralità, ma priva di qualunque intenzione moralistica: il poeta non si propone come guida spirituale o morale per gli altri; attraverso la poesia egli tenta di esprimere la necessità dell'individuo di vivere nel mondo accogliendo con dignità la propria fragilità, incompiutezza, debolezza.
Montale non credeva all'esistenza di «leggi immutabili e fisse» che regolassero l'esistenza dell'uomo e della natura; da qui deriva la sua coerente sfiducia in qualsiasi teoria filosofica, religiosa, ideologica che avesse la pretesa di dare un inquadramento generale e definitivo, la sua diffidenza verso coloro che proclamavano fedi sicure. Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l'individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell'esistenza.
Alcuni caratteri fondamentali del linguaggio poetico montaliano sono i simboli: nella poesia di Montale compaiono oggetti che tornano e rimbalzano da un testo all'altro e assumono il valore di simboli della condizione umana, segnata, secondo il poeta, dal malessere esistenziale, e dall'attesa di un avvenimento, un miracolo, che riscatti questa condizione rivelando il senso e il significato della vita. In Ossi di seppia il muro è il simbolo negativo di uno stato di chiusura e oppressione, mentre i simboli positivi che alludono alle possibilità di evasione, di fuga e di libertà, sono l'anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete. Nelle raccolte successive il panorama culturale, sentimentale e ideologico cambia, e quindi risulta nuova anche la simbologia. Per esempio nella seconda raccolta, Le occasioni, diventa centrale la figura di Clizia, il nome letterario che allude alla giovane ebrea-americana Irma Brandeis, (italianista ed intellettuale) amata da Montale, che assume una funzione "angelico-salvifica" e dalla quale è possibile aspettare il miracolo da cui dipende ogni residua possibilità di salvezza esistenziale.
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III. KEEPSAKE

Fanfan ritorna vincitore; Molly
si vende all’asta: frigge un riflettore.
Surcouf percorre a grandi passi il cassero,
Gaspard conta denari nel suo buco.
Nel pomeriggio limpido è discesa
la neve, la Cicala torna al nido.
Fatinitza agonizza in una piega
di memoria, di Tonio resta un grido.
Falsi spagnoli giocano al castello
i Briganti; ma squilla in una tasca
la sveglia spaventosa.
Il Marchese del Grillo è rispedito
nella strada; infelice Zeffirino
torna commesso; s’alza lo Speziale
e i fulminanti sparano sull’impiantito.
I Moschettieri lasciano il convento,
Van Schlisch corre in arcioni, Takimini
si sventola, la Bambola è caricata.
(Imary torna nel suo appartamento).
Larivaudière magnetico, Pitou
giacciono di traverso. Venerdì
sogna l’isole verdi e non danza più.



IV. LINDAU

La rondine vi porta
fili d’erba, non vuole che la vita passi.
Ma tra gli argini, a notte, l’acqua morta
logora i sassi.
Sotto le torce fumicose sbanda
sempre qualche ombra sulle prode vuote.
Nel cerchio della piazza una sarabanda
s’agita al mugghio dei battelli a ruote.










V. BAGNI DI LUCCA

Fra il tonfo dei marroni
e il gemito del torrente
che uniscono i loro suoni
èsita il cuore.

Precoce inverno che borea
abbrividisce. M’affaccio
sul ciglio che scioglie l’albore
del giorno nel ghiaccio.

Marmi, rameggi –
e ad uno scrollo giù
foglie a èlice, a freccia,
nel fossato.

Passa l’ultima greggia nella nebbia
del suo fiato.











VI. CAVE D’AUTUNNO

su cui discende la primavera lunare
e nimba di candore ogni frastaglio,
schianti di pigne, abbaglio
di reti stese e schegge,

ritornerà ritornerà sul gelo
la bontà d’una mano,
varcherà il cielo lontano
la ciurma luminosa che ci saccheggia.




VII. ALTRO EFFETTO DI LUNA

La trama del carrubo che si profila
nuda contro l’azzurro sonnolento,
il suono delle voci, la trafila
delle dita d’argento sulle soglie,

la piuma che s’invischia, un trepestìo
sul molo che si scioglie
e la feluca già ripiega il volo
con le vele dimesse come spoglie.








VIII. VERSO VIENNA

Il convento barocco
di schiuma e di biscotto
adombrava uno scorcio d’acque lente
e tavole imbandite, qua e là sparse
di foglie e zenzero.

Emerse un nuotatore, sgrondò sotto
una nube di moscerini,
chiese del nostro viaggio,
parlò a lungo del suo d’oltre confine.

Additò il ponte in faccia che si passa
(informò) con un soldo di pedaggio.
Salutò con la mano, sprofondò,
fu la corrente stessa...
Ed al suo posto,
battistrada balzò da una rimessa
un bassotto festoso che latrava,

fraterna unica voce dentro l’afa.

IX. CARNEVALE DI GERTI

Se la ruota s’impiglia nel groviglio
delle stelle filanti ed il cavallo
s’impenna tra la calca, se ti nevica
sui capelli e le mani un lungo brivido
d’iridi trascorrenti o alzano i bimbi
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio ed i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume,
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d’aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia – hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l’anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani:
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero alle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh il tuo Carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l’urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l’ora
che il Gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È Carnevale
o il Dicembre s’indugia ancora? Penso
che se tu muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori...).

==>SEGUE



E il Natale verrà e il giorno dell’Anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi, e questo Carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all’aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d’argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile,
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato
pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all’esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s’aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco,
quella che additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.









X. VERSO CAPUA

... rotto il colmo sull’ansa, con un salto,
il Volturno calò, giallo, la sua
piena tra gli scopeti, la disperse
nelle crete. Laggiù si profilava
mobile sulle siepi un postiglione, 5
e apparì su cavalli,
in una scia di polvere e sonagli.
Si arrestò pochi istanti, l’equipaggio
dava scosse, d’attorno volitavano
farfalle minutissime. Un furtivo 10
raggio incendiò di colpo il sughereto
scotennato, a fatica ripartiva
la vettura: e tu in fondo che agitavi
lungamente una sciarpa, la bandiera
stellata!, e il fiume ingordo s’insabbiava.










XI. A LIUBA CHE PARTE

Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia, splendido
lare della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi 5
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?,
sovrasta i ciechi tempi come il flutto
arca leggera – e basta al tuo riscatto.







XII. BIBE A PONTE ALL’ASSE

Bibe, ospite lieve, la bruna tua reginetta di Saba
mesce sorrisi e Rùfina di quattordici gradi.

Si vede in basso rilucere la terra fra gli àceri radi
e un bimbo curva la canna sul gomito della Greve.






XIII. DORA MARKUS

I.
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!








II.
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.

È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino...
Ma è tardi, sempre più tardi.













XIV. ALLA MANIERA DI FILIPPO DE PISIS
NELL’INVIARGLI QUESTO LIBRO

... l’Arno balsamo fino
LAPO GIANNI

Una botta di stocco nel zig zag
del beccaccino –
e si librano piume su uno scrìmolo.

(Poi discendono là, fra sgorbiature
di rami, al freddo balsamo del fiume).








XV. NEL PARCO DI CASERTA

Dove il cigno crudele
si liscia e si contorce,
sul pelo dello stagno, tra il fogliame,
si risveglia una sfera, dieci sfere,
una torcia dal fondo, dieci torce,

– e un sole si bilancia
a stento nella prim’aria,
su domi verdicupi e globi a sghembo
d’araucaria,

che scioglie come liane
braccia di pietra, allaccia
senza tregua chi passa
e ne sfila dal punto più remoto
radici e stame.

Le nòcche delle Madri s’inaspriscono,
cercano il vuoto.










XVI. ACCELERATO

Fu così, com’è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com’è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l’assalto
ai salici reclini –
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d’azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell’infanzia
oltre il futuro –
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde –
fu così,
rispondi?



II. MOTTETTI

Sobre el volcán la flor.
G.A. BÉCQUER





I.
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.

II.
Molti anni, e uno più duro sopra il lago
straniero su cui ardono i tramonti.
Poi scendesti dai monti a riportarmi
San Giorgio e il Drago.
Imprimerli potessi sul palvese
che s’agita alla frusta del grecale
in cuore... E per te scendere in un gorgo
di fedeltà, immortale.





















III.
Brina sui vetri; uniti
sempre e sempre in disparte
gl’infermi; e sopra i tavoli
i lunghi soliloqui sulle carte.

Fu il tuo esilio. Ripenso
anche al mio, alla mattina
quando udii tra gli scogli crepitare
la bomba ballerina.

E durarono a lungo i notturni giuochi
di Bengala: come in una festa

È scorsa un’ala rude, t’ha sfiorato le mani,
ma invano: la tua carta non è questa.

IV.
Lontano, ero con te quando tuo padre
entrò nell’ombra e ti lasciò il suo addio.
Che seppi fino allora? Il logorìo
di prima mi salvò solo per questo:

che t’ignoravo e non dovevo: ai colpi
d’oggi lo so, se di laggiù s’inflette
un’ora e mi riporta Cumerlotti
o Anghébeni – tra scoppi di spolette
e i lamenti e l’accorrer delle squadre.










V.
Addii, fischi nel buio, cenni, tosse
e sportelli abbassati. È l’ora. Forse
gli automi hanno ragione. Come appaiono
dai corridoi, murati!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

– Presti anche tu alla fioca
litania del tuo rapido quest’orrida
e fedele cadenza di carioca? –

VI.
La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).












IX.
Il ramarro, se scocca
sotto la grande fersa
dalle stoppie –

la vela, quando fiotta
e s’inabissa al salto
della rocca –

il cannone di mezzodì
più fioco del tuo cuore
e il cronometro se
scatta senza rumore –

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

e poi? Luce di lampo
invano può mutarvi in alcunché
di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.

X.
Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo
batte la coda a torcia sulla scorza.
La mezzaluna scende col suo picco
nel sole che la smorza. È giorno fatto.

A un soffio il pigro fumo trasalisce,
si difende nel punto che ti chiude.
Nulla finisce, o tutto, se tu fólgore
lasci la nube.










XIII.
La gondola che scivola in un forte
bagliore di catrame e di papaveri,
la subdola canzone che s’alzava
da masse di cordame, l’alte porte
rinchiuse su di te e risa di maschere
che fuggivano a frotte –

una sera tra mille e la mia notte
è più profonda! S’agita laggiù
uno smorto groviglio che m’avviva
a stratti e mi fa eguale a quell’assorto
pescatore d’anguille dalla riva.

XIV.
Infuria sale o grandine? Fa strage
di campanule, svelle la cedrina.
Un rintocco subacqueo s’avvicina,
quale tu lo destavi, e s’allontana.

La pianola degl’inferi da sé
accelera i registri, sale nelle
sfere del gelo... – brilla come te
quando fingevi col tuo trillo d’aria
Lakmé nell’Aria delle Campanelle.












XV.
Al primo chiaro, quando
subitaneo un rumore
di ferrovia mi parla
di chiusi uomini in corsa
nel traforo del sasso
illuminato a tagli
da cieli ed acque misti;

al primo buio, quando
il bulino che tarla
la scrivanìa rafforza
il suo fervore e il passo
del guardiano s’accosta:
al chiaro e al buio, soste ancora umane
se tu a intrecciarle col tuo refe insisti.

XVI.
Il fiore che ripete
dall’orlo del burrato
non scordarti di me,
non ha tinte più liete né più chiare
dello spazio gettato tra me e te.

Un cigolìo si sferra, ci discosta,
l’azzurro pervicace non ricompare.
Nell’afa quasi visibile mi riporta all’opposta
tappa, già buia, la funicolare.







XVII.
La rana, prima a ritentar la corda
dallo stagno che affossa
giunchi e nubi, stormire dei carrubi
conserti dove spenge le sue fiaccole
un sole senza caldo, tardo ai fiori
ronzìo di coleotteri che suggono
ancora linfe, ultimi suoni, avara
vita della campagna. Con un soffio
l’ora s’estingue: un cielo di lavagna
si prepara a un irrompere di scarni
cavalli, alle scintille degli zoccoli.

XVIII.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.









XIX.
La canna che dispiuma
mollemente il suo rosso
flabello a primavera;
la rèdola nel fosso, su la nera
correntìa sorvolata di libellule;
e il cane trafelato che rincasa
col suo fardello in bocca,

oggi qui non mi tocca riconoscere;
ma là dove il riverbero più cuoce
e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue
pupille ormai remote, solo due
fasci di luce in croce.
E il tempo passa.

XX.
... ma così sia. Un suono di cornetta
dialoga con gli sciami del querceto.
Nella valva che il vespero riflette
un vulcano dipinto fuma lieto.

La moneta incassata nella lava
brilla anch’essa sul tavolo e trattiene
pochi fogli. La vita che sembrava
vasta è più breve del tuo fazzoletto.






III. TEMPI DI BELLOSGUARDO








I.
Oh come là nella corusca
distesa che s’inarca verso i colli,
il brusìo della sera s’assottiglia
e gli alberi discorrono col trito
mormorio della rena; come limpida
s’inalvea là in decoro
di colonne e di salci ai lati e grandi salti
di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme
che traboccano,
questa vita di tutti non più posseduta
del nostro respiro;
e come si ricrea una luce di zàffiro
per gli uomini
che vivono laggiù: è troppo triste
che tanta pace illumini a spiragli
e tutto ruoti poi con rari guizzi
su l’anse vaporanti, con incroci
di camini, con grida dai giardini
pensili, con sgomenti e lunghe risa
sui tetti ritagliati, tra le quinte
dei frondami ammassati ed una coda
fulgida che trascorra in cielo prima
che il desiderio trovi le parole!










II.
Derelitte sul poggio
fronde della magnolia
verdibrune se il vento
porta dai frigidari
dei pianterreni un travolto
concitamento d’accordi
ed ogni foglia che oscilla
o rilampeggia nel folto
in ogni fibra s’imbeve
di quel saluto, e più ancora
derelitte le fronde
dei vivi che si smarriscono
nel prisma del minuto,
le membra di febbre votate
al moto che si ripete
in circolo breve: sudore
che pulsa, sudore di morte,
atti minuti specchiati,
sempre gli stessi, rifranti
echi del batter che in alto
sfaccetta il sole e la pioggia,
fugace altalena tra vita
che passa e vita che sta,
quassù non c’è scampo: si muore
sapendo o si sceglie la vita
che muta ed ignora: altra morte.

==>SEGUE








E scende la cuna tra logge
ed erme: l’accordo commuove
le lapidi che hanno veduto
le immagini grandi, l’onore,
l’amore inflessibile, il giuoco,
la fedeltà che non muta.
E il gesto rimane: misura
il vuoto, ne sonda il confine:
il gesto ignoto che esprime
se stesso e non altro: passione
di sempre in un sangue e un cervello
irripetuti; e fors’entra
nel chiuso e lo forza con l’esile
sua punta di grimaldello.
















III.
Il rumore degli émbrici distrutti
dalla bufera
nell’aria dilatata che non s’incrina,
l’inclinarsi del pioppo
del Canadà, tricuspide, che vibra
nel giardino a ogni strappo –
e il segno di una vita che assecondi
il marmo a ogni scalino come l’edera
diffida dello slancio solitario
dei ponti che discopro da quest’altura;
d’una clessidra che non sabbia ma opere
misuri e volti umani, piante umane;
d’acque composte sotto padiglioni
e non più irose a ritentar fondali
di pomice, è sparito? Un suono lungo
dànno le terrecotte, i pali appena
difendono le ellissi dei convolvoli,
e le locuste arrancano piovute
sui libri dalle pergole; dura opera,
tessitrici celesti, ch’è interrotta
sul telaio degli uomini. E domani...



IV.

Sap check’d with frost, and lusty leaves quite gone,
Beauty o’ersnow’d and bareness every where.
SHAKESPEARE, Sonnets, V





I. LA CASA DEI DOGANIERI

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.











II. BASSA MAREA

Sere di gridi, quando l’altalena
oscilla nella pergola d’allora
e un oscuro vapore vela appena
la fissità del mare.

Non più quel tempo. Varcano ora il muro
rapidi voli obliqui, la discesa
di tutto non s’arresta e si confonde
sulla proda scoscesa anche lo scoglio
che ti portò primo sull’onde.

Viene col soffio della primavera
un lugubre risucchio
d’assorbite esistenze; e nella sera,
negro vilucchio, solo il tuo ricordo
s’attorce e si difende.

S’alza sulle spallette, sul tunnel più lunge
dove il treno lentissimo s’imbuca.
Una mandria lunare sopraggiunge
poi sui colli, invisibile, e li bruca.











XI.
L’anima che dispensa
furlana e rigodone ad ogni nuova
stagione della strada, s’alimenta
della chiusa passione, la ritrova
a ogni angolo più intensa.

La tua voce è quest’anima diffusa.
Su fili, su ali, al vento, a caso, col
favore della musa o d’un ordegno,
ritorna lieta o triste. Parlo d’altro,
ad altri che t’ignora e il suo disegno
è là che insiste do re la sol sol...

XII.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.










IV. SOTTO LA PIOGGIA

Un murmure; e la tua casa s’appanna
come nella bruma del ricordo –
e lacrima la palma ora che sordo
preme il disfacimento che ritiene
nell’afa delle serre anche le nude
speranze ed il pensiero che rimorde.

‘Por amor de la fiebre’... mi conduce
un vortice con te. Raggia vermiglia
una tenda, una finestra si rinchiude.
Sulla rampa materna ora cammina,
guscio d’uovo che va tra la fanghiglia,
poca vita tra sbatter d’ombra e luce.

Strideva Adiós muchachos, compañeros
de mi vida, il tuo disco dalla corte:
e m’è cara la maschera se ancora
di là dal mulinello della sorte
mi rimane il sobbalzo che riporta
al tuo sentiero.

Seguo i lucidi strosci e in fondo, a nembi,
il fumo strascicato d’una nave.
Si punteggia uno squarcio...
Per te intendo
ciò che osa la cicogna quando alzato
il volo dalla cuspide nebbiosa
rèmiga verso la Città del Capo.








V. PUNTA DEL MESCO

Nel cielo della cava rigato
all’alba dal volo dritto delle pernici
il fumo delle mine s’inteneriva,
saliva lento le pendici a piombo.

Dal rostro del palabotto si capovolsero
le ondine trombettiere silenziose
e affondarono rapide tra le spume
che il tuo passo sfiorava.

Vedo il sentiero che percorsi un giorno
come un cane inquieto; lambe il fiotto,
s’inerpica tra i massi e rado strame
a tratti lo scancella. E tutto è uguale.

Nella ghiaia bagnata s’arrovella
un’eco degli scrosci. Umido brilla
il sole sulle membra affaticate
dei curvi spaccapietre che martellano.

Polene che risalgono e mi portano
qualche cosa di te. Un tràpano incide
il cuore sulla roccia – schianta attorno
più forte un rombo. Brancolo nel fumo,
ma rivedo: ritornano i tuoi rari
gesti e il viso che aggiorna al davanzale, –
mi torna la tua infanzia dilaniata
dagli spari!



VI. COSTA SAN GIORGIO

Un fuoco fatuo impolvera la strada.
Il gasista si cala giù e pedala
rapido con la scala su la spalla.
Risponde un’altra luce e l’ombra attorno
sfarfalla, poi ricade.

Lo so, non s’apre il cerchio
e tutto scende o rapido s’inerpica
tra gli archi. I lunghi mesi
son fuggiti così: ci resta un gelo
fosforico d’insetto nei cunicoli
e un velo scialbo sulla luna.
Un dì
brillava sui cammini del prodigio
El Dorado, e fu lutto fra i tuoi padri.
Ora l’Idolo è qui, sbarrato. Tende
le sue braccia fra i càrpini: l’oscuro
ne scancella lo sguardo. Senza voce,
disfatto dall’arsura, quasi esanime,
l’Idolo è in croce.

La sua presenza si diffonde grave.
Nulla ritorna, tutto non veduto
si riforma nel magico falò.
Non c’è respiro; nulla vale: più
non distacca per noi dall’architrave
della stalla il suo lume, Maritornes.

Tutto è uguale; non ridere: lo so,
lo stridere degli anni fin dal primo,
lamentoso, sui cardini, il mattino
un limbo sulla stupida discesa –
e in fondo il torchio del nemico muto
che preme...
Se una pendola rintocca
dal chiuso porta il tonfo del fantoccio
ch’è abbattuto.












VII. L’ESTATE

L’ombra crociata del gheppio pare ignota
ai giovinetti arbusti quando rade fugace.
E la nube che vede? Ha tante facce
la polla schiusa.

Forse nel guizzo argenteo della trota
controcorrente
torni anche tu al mio piede fanciulla morta
Aretusa.

Ecco l’òmero acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle –

e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna...

Occorrono troppe vite per farne una.













IL BALCONE

Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m’era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco.

Ora a quel vuoto ho congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull’arduo nulla si spunta
l’ansia di attenderti vivo.

La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s’illumina.


I. VECCHI VERSI

Ricordo la farfalla ch’era entrata
dai vetri schiusi nella sera fumida
su la costa raccolta, dilavata
dal trascorrere iroso delle spume.
Muoveva tutta l’aria del crepuscolo a un fioco
occiduo palpebrare della traccia
che divide acqua e terra; ed il punto atono
del faro che baluginava sulla
roccia del Tino, cerula, tre volte
si dilatò e si spense in un altro oro.

Mia madre stava accanto a me seduta
presso il tavolo ingombro dalle carte
da giuoco alzate a due per volta come
attendamenti nani pei soldati
dei nipoti sbandati già dal sonno.
Si schiodava dall’alto impetuoso
un nembo d’aria diaccia, diluviava
sul nido di Corniglia rugginoso.
Poi fu l’oscurità piena, e dal mare
un rombo basso e assiduo come un lungo
regolato concerto, ed il gonfiare
d’un pallore ondulante oltre la siepe
cimata dei pitòsfori. Nel breve
vano della mia stanza, ove la lampada
tremava dentro una ragnata fucsia,
penetrò la farfalla, al paralume
giunse e le conterie che l’avvolgevano
segnando i muri di riflessi ombrati
eguali come fregi si sconvolsero
e sullo scialbo corse alle pareti
un fascio semovente di fili esili.

Era un insetto orribile dal becco
aguzzo, gli occhi avvolti come d’una
rossastra fotosfera, al dosso il teschio
umano; e attorno dava se una mano
tentava di ghermirlo un acre sibilo
che agghiacciava.

==>SEGUE












VII.
Il saliscendi bianco e nero dei
balestrucci dal palo
del telegrafo al mare
non conforta i tuoi crucci su lo scalo
né ti riporta dove più non sei.

Già profuma il sambuco fitto su
lo sterrato; il piovasco si dilegua.
Se il chiarore è una tregua,
la tua cara minaccia la consuma.

VIII.
Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.

Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.





EUGENIO MONTALE  - LE OCCASIONI
III. STANZE

Ricerco invano il punto onde si mosse
il sangue che ti nutre, interminato
respingersi di cerchi oltre lo spazio
breve dei giorni umani,
che ti rese presente in uno strazio
d’agonie che non sai, viva in un putre
padule d’astro inabissato; ed ora
è linfa che disegna le tue mani,
ti batte ai polsi inavvertita e il volto
t’infiamma o discolora.

Pur la rete minuta dei tuoi nervi
rammenta un poco questo suo viaggio
e se gli occhi ti scopro li consuma
un fervore coperto da un passaggio
turbinoso di spuma ch’or s’infitta
ora si frange, e tu lo senti ai rombi
delle tempie vanir nella tua vita
come si rompe a volte nel silenzio
d’una piazza assopita
un volo strepitoso di colombi.

In te converge, ignara, una raggèra
di fili; e certo alcuno d’essi apparve
ad altri: e fu chi abbrividì la sera
percosso da una candida ala in fuga,
e fu chi vide vagabonde larve
dove altri scorse fanciullette a sciami,
o scoperse, qual lampo che dirami,
nel sereno una ruga e l’urto delle
leve del mondo apparse da uno strappo
dell’azzurro l’avvolse, lamentoso.

In te m’appare un’ultima corolla
di cenere leggera che non dura
ma sfioccata precipita. Voluta,
disvoluta è così la tua natura.
Tocchi il segno, travàlichi. Oh il ronzìo
dell’arco ch’è scoccato, il solco che ara
il flutto e si rinchiude! Ed ora sale
l’ultima bolla in su. La dannazione
è forse questa vaneggiante amara
oscurità che scende su chi resta.


VIII. EASTBOURNE

‘Dio salvi il Re’ intonano le trombe
da un padiglione erto su palafitte
che aprono il varco al mare quando sale
a distruggere peste
umide di cavalli nella sabbia
del litorale.

Freddo un vento m’investe
ma un guizzo accende i vetri
e il candore di mica delle rupi
ne risplende.

Bank Holiday... Riporta l’onda lunga
della mia vita
a striscio, troppo dolce sulla china.
Si fa tardi. I fragori si distendono,
si chiudono in sordina.

Vanno su sedie a ruote i mutilati,
li accompagnano cani dagli orecchi
lunghi, bimbi in silenzio o vecchi. (Forse
domani tutto parrà un sogno).
E vieni
tu pure voce prigioniera, sciolta
anima ch’è smarrita,
voce di sangue, persa e restituita
alla mia sera.

Come lucente muove sui suoi spicchi
la porta di un albergo
– risponde un’altra e le rivolge un raggio –
m’agita un carosello che travolge
tutto dentro il suo giro; ed io in ascolto
(‘mia patria!’) riconosco il tuo respiro,
anch’io mi levo e il giorno è troppo folto.

==>SEGUE




Tutto apparirà vano: anche la forza
che nella sua tenace ganga aggrega
i vivi e i morti, gli alberi e gli scogli
e si svolge da te, per te. La festa
non ha pietà. Rimanda
il suo scroscio la banda, si dispiega
nel primo buio una bontà senz’armi.

Vince il male... La ruota non s’arresta.

Anche tu lo sapevi, luce-in-tenebra.

Nella plaga che brucia, dove sei
scomparsa al primo tocco delle campane, solo
rimane l’acre tizzo che già fu
Bank Holiday.










IX. CORRISPONDENZE

Or che in fondo un miraggio
di vapori vacilla e si disperde,
altro annunzia, tra gli alberi, la squilla
del picchio verde.

La mano che raggiunge il sottobosco
e trapunge la trama
del cuore con le punte dello strame,
è quella che matura incubi d’oro
a specchio delle gore
quando il carro sonoro
di Bassareo riporta folli mùgoli
di arieti sulle toppe arse dei colli.

Torni anche tu, pastora senza greggi,
e siedi sul mio sasso?
Ti riconosco; ma non so che leggi
oltre i voli che svariano sul passo.
Lo chiedo invano al piano dove una bruma
èsita tra baleni e spari su sparsi tetti,
alla febbre nascosta dei diretti
nella costa che fuma.



X. BARCHE SULLA MARNA

Felicità del sùghero abbandonato
alla corrente
che stempra attorno i ponti rovesciati
e il plenilunio pallido nel sole:
barche sul fiume, agili nell’estate
e un murmure stagnante di città.
Segui coi remi il prato se il cacciatore
di farfalle vi giunge con la sua rete,
l’alberaia sul muro dove il sangue
del drago si ripete nel cinabro.

Voci sul fiume, scoppi dalle rive,
o ritmico scandire di piroghe
nel vespero che cola
tra le chiome dei noci, ma dov’è
la lenta processione di stagioni
che fu un’alba infinita e senza strade,
dov’è la lunga attesa e qual è il nome
del vuoto che ci invade.

Il sogno è questo: un vasto,
interminato giorno che rifonde
tra gli argini, quasi immobile, il suo bagliore
e ad ogni svolta il buon lavoro dell’uomo,
il domani velato che non fa orrore.
E altro ancora era il sogno, ma il suo riflesso
fermo sull’acqua in fuga, sotto il nido
del pendolino, aereo e inaccessibile,
era silenzio altissimo nel grido
concorde del meriggio ed un mattino
più lungo era la sera, il gran fermento
era grande riposo.

==>SEGUE

Qui... il colore
che resiste è del topo che ha saltato
tra i giunchi o col suo spruzzo di metallo
velenoso, lo storno che sparisce
tra i fumi della riva.
Un altro giorno,
ripeti – o che ripeti? E dove porta
questa bocca che brùlica in un getto
solo?
La sera è questa. Ora possiamo
scendere fino a che s’accenda l’Orsa.
(Barche sulla Marna, domenicali, in corsa
nel dì della tua festa).


XI. ELEGIA DI PICO FARNESE

Le pellegrine in sosta che hanno durato
tutta la notte la loro litania
s’aggiustano gli zendadi sulla testa,
spengono i fuochi, risalgono sui carri.
Nell’alba triste s’affacciano dai loro
sportelli tagliati negli usci i molli soriani
e un cane lionato s’allunga nell’umido orto
tra i frutti caduti all’ombra del melangolo.
Ieri tutto pareva un macero ma stamane
pietre di spugna ritornano alla vita
e il cupo sonno si desta nella cucina,
dal grande camino giungono lieti rumori.
Torna la salmodia appena in volute più lievi,
vento e distanza ne rompono le voci, le ricompongono.

‘Isole del santuario,
viaggi di vascelli sospesi,
alza il sudario,
numera i giorni e i mesi
che restano per finire’.

Strade e scale che salgono a piramide, fitte
d’intagli, ragnateli di sasso dove s’aprono
oscurità animate dagli occhi confidenti
dei maiali, archivolti tinti di verderame,
si svolge a stento il canto dalle ombrelle dei pini,
e indugia affievolito nell’indaco che stilla
su anfratti, tagli, spicchi di muraglie.

‘Grotte dove scalfito
luccica il Pesce, chi sa
quale altro segno si perde,
perché non tutta la vita
è in questo sepolcro verde’.

==>SEGUE



Oh la pigra illusione. Perché attardarsi qui
a questo amore di donne barbute, a un vano farnetico
che il ferraio picano quando batte l’incudine
curvo sul calor bianco da sé scaccia? Ben altro
è l’Amore – e fra gli alberi balena col tuo cruccio
e la tua frangia d’ali, messaggera accigliata!
Se urgi fino al midollo i diòsperi e nell’acque
specchi il piumaggio della tua fronte senza errore
o distruggi le nere cantafavole e vegli
al trapasso dei pochi tra orde d’uomini-capre,

(‘collane di nocciuole,
zucchero filato a mano
sullo spacco del masso
miracolato che porta
le preci in basso, parole
di cera che stilla, parole
che il seme del girasole
se brilla disperde’)

il tuo splendore è aperto. Ma più discreto allora
che dall’androne gelido, il teatro dell’infanzia
da anni abbandonato, dalla soffitta tetra
di vetri e di astrolabi, dopo una lunga attesa
ai balconi dell’edera, un segno ci conduce
alla radura brulla dove per noi qualcuno
tenta una festa di spari. E qui, se appare inudibile
il tuo soccorso, nell’aria prilla il piattello, si rompe
ai nostri colpi! Il giorno non chiede più di una chiave.
È mite il tempo. Il lampo delle tue vesti è sciolto
entro l’umore dell’occhio che rifrange nel suo
cristallo altri colori. Dietro di noi, calmo, ignaro
del mutamento, da lemure ormai rifatto celeste,
il fanciulletto Anacleto ricarica i fucili.



XII. NUOVE STANZE

Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.

La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.

Il mio dubbio d’un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follìa di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo,
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.

Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d’avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d’acciaio.





XIII. IL RITORNO

Bocca di Magra

Ecco bruma e libeccio sulle dune
sabbiose che lingueggiano
e là celato dall’incerto lembo
o alzato dal va-e-vieni delle spume
il barcaiolo Duilio che traversa
in lotta sui suoi remi; ecco il pimento
dei pini che più terso
si dilata tra pioppi e saliceti,
e pompe a vento battere le pale
e il viottolo che segue l’onde dentro
la fiumana terrosa
funghire velenoso d’ovuli; ecco
ancora quelle scale
a chiocciola, slabbrate, che s’avvitano
fin oltre la veranda
in un gelo policromo d’ogive,
eccole che t’ascoltano, le nostre vecchie scale,
e vibrano al ronzìo
allora che dal cofano tu ridésti leggera
voce di sarabanda
o quando Erinni fredde ventano angui
d’inferno e sulle rive una bufera
di strida s’allontana; ed ecco il sole
che chiude la sua corsa, che s’offusca
ai margini del canto – ecco il tuo morso
oscuro di tarantola: son pronto.



XIV. PALIO

La tua fuga non s’è dunque perduta
in un giro di trottola
al margine della strada:
la corsa che dirada
le sue spire fin qui,
nella purpurea buca
dove un tumulto d’anime saluta
le insegne di Liocorno e di Tartuca.

Il lancio dei vessilli non ti muta
nel volto; troppa vampa ha consumati
gl’indizi che scorgesti; ultimi annunzi
quest’odore di ragia e di tempesta
imminente e quel tiepido stillare
delle nubi strappate,
tardo saluto in gloria di una sorte
che sfugge anche al destino. Dalla torre
cade un suono di bronzo: la sfilata
prosegue fra tamburi che ribattono
a gloria di contrade.
È strano: tu
che guardi la sommossa vastità,
i mattoni incupiti, la malcerta
mongolfiera di carta che si spicca
dai fantasmi animati sul quadrante
dell’immenso orologio, l’arpeggiante
volteggio degli sciami e lo stupore
che invade la conchiglia
del Campo, tu ritieni
tra le dita il sigillo imperioso
ch’io credevo smarrito
e la luce di prima si diffonde
sulle teste e le sbianca dei suoi gigli.

==>SEGUE



Torna un’eco di là: ‘c’era una volta...’
(rammenta la preghiera che dal buio
ti giunse una mattina)

‘non un reame, ma l’esile
traccia di filigrana
che senza lasciarvi segno
i nostri passi sfioravano.

Sotto la volta diaccia
grava ora un sonno di sasso,
la voce dalla cantina
nessuno ascolta, o sei te.

La sbarra in croce non scande
la luce per chi s’è smarrito,
la morte non ha altra voce
di quella che spande la vita’,

ma un’altra voce qui fuga l’orrore
del prigione e per lei quel ritornello
non vale il ghirigoro d’aste avvolte
(Oca e Giraffa) che s’incrociano alte
e ricadono in fiamme. Geme il palco
al passaggio dei brocchi salutati
da un urlo solo. È un volo! E tu dimentica!
Dimentica la morte
toto coelo raggiunta e l’ergotante
balbuzie dei dannati! C’era il giorno
dei viventi, lo vedi, e pare immobile
nell’acqua del rubino che si popola
di immagini. Il presente s’allontana
ed il traguardo è là: fuor della selva
dei gonfaloni, su lo scampanìo
del cielo irrefrenato, oltre lo sguardo
dell’uomo – e tu lo fissi. Così alzati,
finché spunti la trottola il suo perno
ma il solco resti inciso. Poi, nient’altro.

XV. NOTIZIE DALL’AMIATA









I.
Il fuoco d’artifizio del maltempo
sarà murmure d’arnie a tarda sera.
La stanza ha travature
tarlate ed un sentore di meloni
penetra dall’assito. Le fumate
morbide che risalgono una valle
d’elfi e di funghi fino al cono diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo di qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio –
e le gabbie coperte, il focolare
dove i marroni esplodono, le vene
di salnitro e di muffa sono il quadro
dove tra poco romperai. La vita
che t’affàbula è ancora troppo breve
se ti contiene! Schiude la tua icona
il fondo luminoso. Fuori piove.






II.
E tu seguissi le fragili architetture
annerite dal tempo e dal carbone,
i cortili quadrati che hanno nel mezzo
il pozzo profondissimo; tu seguissi
il volo infagottato degli uccelli
notturni e in fondo al borro l’allucciolìo
della Galassia, la fascia d’ogni tormento.
Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro
è di chi va solitario e altro non vede
che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe.
Le stelle hanno trapunti troppo sottili,
l’occhio del campanile è fermo sulle due ore,
i rampicanti anch’essi sono un’ascesa
di tenebre ed il loro profumo duole amaro.
Ritorna domani più freddo, vento del nord,
spezza le antiche mani dell’arenaria,
sconvolgi i libri d’ore nei solai,
e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione
del senso che non dispera! Ritorna più forte
vento di settentrione che rendi care
le catene e suggelli le spore del possibile!
Son troppo strette le strade, gli asini neri
che zoccolano in fila dànno scintille,
dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio.
Oh il gocciolìo che scende a rilento
dalle casipole buie, il tempo fatto acqua,
il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento,
il vento che tarda, la morte, la morte che vive!


III.
Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
E. MONTALE
Autoritratto
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
La vicinanza con questo ambiente spinse il poeta ligure a una rilettura molto raffinata dei grandi classici, corroborata dalla vicinanza di grandi esperti (come il giovane ma già autorevolissimo critico Gianfranco Contini, che in quegli anni gettava nuova luce sui poeti delle Origini e sul Dante lirico) o dalla stesura di traduzioni, a volte obbligate da necessità finanziarie, ma utili per la miglior conoscenza di autori come Shakespeare.
Sempre in questo periodo Montale conosce due donne poi ben presenti nella sua poesia, la dantista statunitense Irma Brandeis (la già citata Clizia) e Drusilla Tanz, in seguito sua sposa (la “Mosca” delle ultime raccolte).
È in questi anni che matura una svolta nella poetica montaliana. Se gli Ossi erano ancora un insieme segnato da una classicità chiara, benché ‘paradossale’ nella sua realizzazione, le Occasioni si orientano verso l’oscurità tipicamente otto-novecentesca, che tuttavia risulta molto diversa da quella degli ermetici o di Ungaretti. La difficoltà delle Occasioni non deriva da un simbolismo forzato o addirittura da un surrealismo antirazionale; deriva invece da una condensazione dei passaggi, da un tacere l’elemento generatore della lirica per concentrarsi sui suoi effetti, e insomma su un procedere per metonimie, per dettagli che stanno al posto del tutto, e non per grandi e evidenti metafore come negli Ossi. Si rafforza, in questa seconda raccolta, l’importanza degli oggetti, che però non sono più ricavati principalmente dalla natura (come gli stessi “ossi di seppia”) e caricati poi di una valenza simbolica, ma sono più di frequente frutto di lavoro artigianale o tecnico (gioielli, cronometri, bussole ecc.). In questi passaggi tematici si coglie l’adesione a una poesia di tipo “metafisico”, quella di autori secenteschi come l’inglese John Donne, o anche di Charles Baudelaire, di Robert Browning e di altri moderni: una poesia rivalutata in quel periodo da Eliot, e che non mirava a nascondere la realtà storica e biografica, ma semmai a farne la fonte concreta di una poesia portatrice di un valore universale e non semplice espressione dei sentimenti dell’io. Lo stesso Montale riconosce per sé l’importanza di questa linea metafisica (si veda il significativo saggio Intenzioni, 1946), e fra l’altro valorizza il rapporto fra poesia e prosa - con la seconda grande “semenzaio” per la prima -, procedendo in una direzione opposta a quella della lirica pura e astratta. Le Occasioni mostrano i segni di una personalissima rilettura dell’intera lirica europea: le fonti si moltiplicano e possono presentarsi come arricchimenti colti (l’immagine iniziale de Il ramarro, se scocca rimanda a Dante, ma la coppia finale di aggettivi “ricco e strano” deriva da Shakespeare) o più in generale come allusioni ai grandi modelli stilistici e di pensiero della lirica e in parte della prosa occidentali. La sostenutezza formale degli Ossi risulta qui corroborata da scelte lessicali spesso preziose - ma nello stesso tempo ampie, tanto da poter includere termini come “petroliera” o “telegrafo” -, e soprattutto da una sintassi molto più contratta, sincopata rispetto a quella più esplicita e diretta della prima raccolta. Mai però i testi montaliani risultano volutamente ambigui o irrazionali: un’interpretazione letterale è sempre possibile, ancorché complessa per la condensazione dei contenuti. Fra le novità, spicca l’esaltazione del tema modernistico dell’epifania miracolosa, dell’occasione che porta allo svelamento di una verità oltre le apparenze terrene, che all’io-poeta può manifestarsi grazie all’intervento di Clizia e mediante i tanti “oggetti salvifici” di cui, come si è detto, è costellata la raccolta. A livello strutturale, la seconda raccolta ripete in parte la prima, con una lirica proemiale (lì In limine, qui Il balcone) e quattro sezioni, delle quali le due centrali (Mottetti e Tempi di Bellosguardo) corrispondono idealmente a quella degli Ossi brevi e a Mediterraneo.

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L’epigrammaticità si accompagna però nei Mottetti con una ricercatezza musicale quasi da polifonia antica - il “mottetto” è fra l’altro un tipo di componimento della musica medievale e rinascimentale. Nei Tempi, più che il rapporto diretto con la natura rappresentato dal mare, conta quello con la civiltà umanistica, che ha trasformato e umanizzato la natura delle colline di Firenze. Insomma, se molti dei temi di fondo degli Ossi (in particolare la ricerca di un’uscita dal vuoto esistenziale) si ripropongono nelle Occasioni, essi risultano modificati non solo per l’azione della donna-angelo e dei “fantasmi liberatori”, ma anche per la consapevolezza della necessità di difendere la cultura consegnataci dalla tradizione, che permette di superare le difficoltà della storia. In questo senso, molto riuscite sono alcune grandi liriche della quarta sezione, come Nuove stanze, formidabile poesia allegorica in cui una scacchiera attorno alla quale giocano l’io e la donna amata arriva a significare l’intero corso della storia che si svolge in quegli anni, con allusioni chiare al nazifascismo e alla guerra imminente, e con una chiusa ancora una volta memorabile: “Ma resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi / occhi d’acciaio”.
FINE
Il Montale delle Occasioni di Alberto Casadei

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’alte ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.

(da E.Montale, Le occasioni, 1939-40)

Il componimento che abbiamo appena letto fa parte della sezione dei Mottetti delle Occasioni, la seconda raccolta pubblicata da Montale in prima edizione nel 1939 e poi, con alcuni cambiamenti e qualche aggiunta, nel 1940. Si tratta di un testo molto breve e intenso, come tutti quelli di questa sezione, dedicato alla donna amata, Clizia, rappresentata come un angelo che ha dovuto attraverse tempeste e freddo intenso per arrivare dal poeta. La figura della donna-angelo rimanda addirittura alla lirica stilnovistica, alle rappresentazioni di Guido Guinizelli, e più ancora di Dante con la sua Beatrice nella Vita nova. Ma Clizia non è un angelo perfetto e intoccabile, non rappresenta Dio in terra. Anzi, la sua figura appare nei primi quattro versi addirittura debole, spossata, bisognosa di cura, proprio quella che il poeta le dona sin dall’inizio (“Ti libero la fronte…”). Ma nella seconda quartina il quadro cambia e anche il ruolo della donna. Con un procedimento definito “correlativo oggettivo”, molto usato da Eliot e da altri poeti della prima metà del Novecento, Montale riesce a rappresentare l’atmosfera cupa e minacciosa che avvolge gli uomini, quando ormai tutti considerano una nuova guerra inevitabile e imminente. Solo che della guerra non si parla direttamente, ma ad essa si allude attraverso l’immagine del “nespolo” che allunga la sua “ombra nera” nel riquadro della finestra, mentre il sole stesso non dà più calore. Non viene espresso direttamente un sentimento, e viene invece una descrizione neutra, in questo caso paesaggistica (altre volte di veri e propri oggetti), che però non può non essere interpretata come metafora di una condizione storica e personale. Lo dimostra anche il successivo accenno alle “ombre che scantonano”, ovvero a tutti gli esseri umani ormai impauriti e frettolosi, che non hanno il conforto di una donna la quale è anche un angelo in incognito, debole sì ma capace di confortare con la sua sola presenza. Questa delicata poesia d’amore e insieme di angoscia è uno dei tanti esempi di altissimo valore che potrebbero essere ricavati dalle Occasioni, una raccolta centrale nello sviluppo dell’intera poesia italiana del Novecento. Esaminiamone innanzitutto alcuni presupposti culturali e biografici. Dopo aver pubblicato nel 1925 gli Ossi di seppia, nel ’27 Montale si trasferì dalla Liguria, sfondo evidente della sua prima raccolta, a Firenze, dove entrò in contatto con quasi tutti i più autorevoli critici e scrittori dell’epoca, diventando anche direttore del prestigioso Gabinetto Vieusseux, carica da cui fu poi rimosso per la mancata adesione al partito fascista. Nell’ambiente fiorentino Montale ebbe modo di conoscere direttamente le tendenze in atto nella letteratura italiana e internazionale, grazie all’apertura culturale (benché con i limiti imposti dal regime) tipica di riviste come “Solaria”.

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Eugenio Montale – Ritratto di Filippo de Pisis e Giovanni Comisso
– 1941 – Archivio Bona de Pisis, Torino