Dai Cavalli bianchi a Poemi:
le opere giovanili
Dopo aver concluso controvoglia il ciclo di studi alla Reale Scuola Superiore di Commercio di Ca’ Foscari e aver ottenuto il diploma, il diciottenne Aldo Giurlani – allontanandosi dal parere dei genitori, i quali vorrebbero che egli approfondisse le discipline economiche e commerciali – decide di assecondare la propria vocazione artistica iscrivendosi alla Reale Scuola di Recitazione Tommaso Salvini, diretta da Luigi Rasi (tra i suoi compagni di corso vi sono, tra gli altri, Gabriellino D’Annunzio e Marino Moretti, che diventerà suo grande amico). Dopo aver recitato nella rappresentazione del Ventaglio di Carlo Goldoni – dove interpreta il barone del Cedro nel saggio di fine anno della scuola – e in quella del dramma di Ferdinando Martini Il peggio passo è quello dell’uscio, nell’aprile 1906 abbandona definitivamente il teatro per dedicarsi a tempo pieno alla poesia. Nel frattempo il giovane si abbona alla biblioteca del Gabinetto G.P. Vieusseux e affronta da autodidatta le sue «prime vere letture» che, pur sostenute senza un ordine logico/cronologico, gli consentono di venire a contatto con i filosofi che hanno dominato il pensiero della seconda metà dell’Ottocento, con le immense strutture architettoniche dei romanzi di quel secolo e con quelle meno solide – concentrate sulla dimensione psicologica dei personaggi piuttosto che sulla loro funzione narrativa all’interno della storia – dei primi anni del Novecento, e infine con i grandi poeti italiani ed europei, dai quali assimila «quella musica (in particolare Pascoli) che è riconoscibile come costante “rumore di fondo” all’interno delle sue raccolte giovanili». La rinuncia al palcoscenico non ha una spiegazione razionale.
Il debutto letterario risale al dicembre 1905, quando lo scrittore pubblica a proprie spese – presso lo stampatore fiorentino G. Spinelli & C. – la raccolta di poesie I cavalli bianchi. In copertina compare per la prima volta il nome Aldo Palazzeschi, pseudonimo che accompagnerà il poeta durante l’intero arco della sua carriera artistica e che verrà adottato in tutti i lavori successivi. L’opera presenta venticinque componimenti – tutti scritti in versi liberi – imperniati su una spiccata eufonia e su un lirismo cadenzato che con la sua periodicità ripropone nelle diverse poesie medesimi stilemi e modelli ritmico-musicali: questo effetto formale – che in qualche modo richiama alla memoria i refrain dei grandi poemi epici, dall’omerico «Troia dalle belle mura» all’«aoi» ripetuto al termine di ogni lassa nella Chanson de Roland – parte dal mito per arrivare alla fiaba. Dimensione fiabesca che viene peraltro confermata dal contenuto dei testi.
Interessante notare come il componimento Ara, Mara, Amara introduca nella poetica palazzeschiana l’immagine dalla forte connotazione icastico-simbolica delle tre vecchie – immagine che ricorrerà più volte nelle opere seriori e che assumerà una precisa dimensione narrativa nei romanzi Il Codice di Perelà e Sorelle Materassi, in cui troviamo rispettivamente la triade senescente Pena-Rete-Lama e Teresa Materassi-Carolina Materassi-
Niobe: «In fondo a la china / fra gli alti cipressi / v’è un piccolo prato. / Si stanno in quell’ombra / tre vecchie giocando coi dadi. / Non alzan la testa un istante, / non cambian di posto un sol giorno. / Su l’erba in ginocchio / si stanno in quell’ombra giocando».
Con il suo esordio poetico il ventenne Aldo non solo riesce a «svuotare di senso i versi della tradizione dannunziana e carducciana, ridotta ad assurda onomatopea», ma dà vita a un’opera in grado di emanciparsi dai modelli crepuscolari che caratterizzeranno gli autori della sua generazione («il registro simbolico di I cavalli bianchi, Lanterna, Poemi, presenta una ossatura di figure, oggetti e simboli per nulla rinvianti ad alcun discorso fondato sul segno “impressionista” della memoria o sul disagio esistenziale, tipico della comunicazione crepuscolare» ). Anche la scelta del verso libero appare ai lettori contemporanei «così totale da restare un caso quasi unico in quegli anni». Fin dalla sua prima pubblicazione, dunque, Palazzeschi è innovatore sia nei confronti della tradizione sia nei confronti del nuovo, andando così ad arricchire ulteriormente con i suoi contributi il già ricco panorama letterario italiano d’inizio secolo, i cui protagonisti nell’arco di un quindicennio – indicativamente dal 1905 al 1920 – costringono la “passatista” letteratura nazionale non solo a farsi finalmente contemporanea alle letterature degli altri paesi occidentali, ma addirittura avanguardista rispetto a loro, tanto da comunicare un senso di confusione e di smarrimento a molti lettori della Penisola, i quali educati a modelli letterari e culturali fortemente vincolanti non riescono a comprendere questo salto improvviso di due generazioni (forse di più) e lo interpretano in chiave negativa: «Non si può apprezzare ciò che non si capisce: l’incomprensibilità provoca frustrazione, quindi induce un moto di deprezzamento. Quando il testo frappone una resistenza eccessiva all’intelligenza del lettore, la percezione estetica non viene attivata».
Salto in avanti che tuttavia viene recepito, apprezzato e messo a frutto oltre i confini del Belpaese: in Svizzera dal movimento Dada, la cui irriverente risata atta a sbeffeggiare le istituzioni è anche un’eco degli scritti palazzeschiani che si prendono gioco dei troppi “professori” pieni di cultura ma chiusi mentalmente nell’accettare la novità; in Francia dal Surrealismo fondato da André Breton, il quale dichiarerà più volte che i padri della rivoluzione artistica, metafisica e non, del Novecento sono stati i fratelli De Chirico, Giorgio e Andrea (quest’ultimo noto con il nome d’arte Alberto Savinio); in Germania dall’Espressionismo, le cui descrizioni adottano le tecniche – che verranno definite appunto “espressioniste”: zumate, “fermo immagine” e isolamento dal contesto di un particolare raccapricciante del volto o del corpo, distorsione del punto di vista, esasperazione della banalità quotidiana fino al raggiungimento del grottesco, «violenta intrusione della prospettiva soggettiva in quella oggettiva della narrazione» – già sperimentate da Marinetti e, in maniera più radicale, da Alberto Savinio e Federigo Tozzi; in Gran Bretagna dal Modernismo.
Dunque le più importanti avanguardie artistico-letterarie europee incominciano a prendere coscienza e a dettare le nuove norme in fatto di poetica solamente una decina d’anni dopo la pubblicazione del manifesto marinettiano che annuncia al mondo la nascita del Futurismo, avanguardia tutta italiana anelante la distruzione più che la costruzione, per lo meno nel primo periodo della sua attività. E non è un caso forse che Dadaismo Surrealismo Espressionismo e Modernismo incomincino a svilupparsi verso la fine del cosiddetto “periodo eroico” del Futurismo (1909-1918), nascendo in qualche modo sulle ceneri di un movimento talmente radicale da aver bruciato tutto e tutti – compreso se stesso – nello spazio di un decennio. Da qui in poi l’Italia, il paese dal quale è partita l’onda del cambiamento, rimane ai margini delle correnti avanguardiste europee, raggiungendo i risultati più apprezzabili con autori che operano al di fuori dei movimenti. Le cause di tale ritorno all’ordine e alla rassicurante tradizione sono di carattere storico più che artistico-letterario: con l’ascesa al potere di Benito Mussolini prende piede quello che Spinazzola ha definito
il «conformismo regressivo imposto dal regime fascista». Importante a proposito leggere quanto lo stesso Spinazzola ci dice di Milano, città simbolo del Futurismo e a lungo sede degli innovativi fermenti culturali italiani.
Nel febbraio 1907 esce la seconda raccolta poetica, Lanterna, pubblicata a Firenze presso lo Stabilimento Tipografico Aldino di Lorenzo Franceschini. Anche questo volume, come il precedente, viene stampato a spese dell’autore. Pur rimanendo nell’ambito del verso libero, i quindici componimenti sono caratterizzati da una forte prevalenza di senari – semplici e doppi – e novenari, spesso alternati tra loro. Le poesie, mediamente di lunghezza maggiore rispetto ai Cavalli bianchi, abbandonano quella che Sergio Corazzini ha chiamato «melodica cantilena che non mai degenera in tedio» e danno vita a una melodia meno circolare: manca la ripetizione eufonica che riporta la mente nel mito e viene meno anche l’atmosfera onirico-fiabesca: «Dalla rarefazione vagamente cimiteriale dei Cavalli bianchi si passa con Lanterna all’affollamento degli oggetti, al compiacimento ornamentale, che risente di un gusto liberty ormai vicino al kitsch e ancora di lontani, sfiorati, archetipi novellistici». I versi perdono parte del primo lirismo e si fanno più narrativi e teatrali. La raccolta comprende anche la prima poesia di Palazzeschi composta interamente da dialoghi: si tratta di Rosario, componimento in cui l’autore dà vita a un’ironica e surreale scenetta condita qua e là da gocce di nonsense («Non vale / per male uguale / salire con ale.»; «Chi vuole Cucù? / Cucù non c’è più! / Cucurucucù.»; «Rerè mio Rerè! / Più bello chi è? / Rerè mio Rerè!»).
In comune con I cavalli bianchi vi sono l’occultamento dell’io, che «non si colloca né dentro né fuori dei complessi luoghi di reclusione che costruisce, o meglio, è insieme dentro e fuori, si dissocia in ambigua ambiguità», e la sostanziale serietà delle poesie: «Con Lanterna siamo ancora su un versante serio e non giocoso, in linea con l’esordio». Nel 1908, di nuovo presso lo Stabilimento Tipografico Aldino, Palazzeschi pubblica la sua prima opera in prosa, :riflessi. Si tratta di un romanzo epistolare alquanto insolito: «A un primo tempo serio segue una coda comica: il contrasto tra le parti permette al nuovo gioco della parodia e della dissacrazione di investire retrospettivamente la prima parte, rovesciando la materia tragico-patetica del romanzo».
I due punti che precedono il titolo collegano il romanzo alla poesia Gioco proibito, presente in Lanterna. Il componimento in questione, infatti, riporta per ben due volte il sostantivo in fine di verso (qui con l’iniziale maiuscola) preceduto dal segno di interpunzione: «Un raggio vien fuori dal mezzo di luce giallastra: / sul raggio soltanto rimangono lievi impalpabili / impronte sfumate di luci, di nebbie: Riflessi.», vv. 7-9; «Vi passan leggere davanti / le impronte sfumate di luci, di nebbie: Riflessi.», vv. 30-31. I due punti rimandano dunque al passato: a un pensiero in nuce già espresso che ora riappare alla memoria confuso e necessita di parafrasi, a una luce la cui fonte è nascosta e non è possibile osservarla se non attraverso il suo riflesso. E da lì – dai “riflessi” – il lettore dovrà partire per incominciare un nuovo viaggio di formazione e di esplorazione interiore, un’approfondita analisi al microscopio della propria anima grazie alle potenti lenti messe a disposizione dall’autore. Al «gioco dei “riflessi” […] interno al testo, con parallelismi tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi», corrisponde un «gioco dei “riflessi” […] esterno al testo, sì da rinviare al rapporto speculare personaggio-autore». La scrittura, ancora lontana dalle sperimentazioni linguistiche e stilistiche che domineranno Il Codice di Perelà, rivela una sensibilità malinconica e disincantata che tocca le corde del cuore e fa rientrare il romanzo in quella parentesi letteraria che Massimo Bontempelli definirà «l’ultima e la più folgorante espressione del romanticismo». Sarà lo stesso Palazzeschi, mezzo secolo dopo, a presentare ai suoi lettori il libro, rivisitato dall’autore e pubblicato in una nuova edizione con il titolo Allegoria di Novembre.
La poca esperienza dello scrittore nel campo della prosa narrativa non gli impedisce di sperimentare nuovi modelli: il romanzo parte dalla «koiné della narrativa coeva […] per liberarsene. Dalle sembianze di un dannunziano eroe di provincia scivola fuori un antieroe nuovo, proiettato verso la modernità novecentesca».
Alla fine dell’aprile 1909 esce Poemi, la terza raccolta di poesie, stampata nuovamente da Lorenzo Franceschini a spese dell’autore. Apre il libro Chi sono?, poesia indipendente dal resto dell’opera, la quale per questo motivo «viene isolata come una sezione autonoma» dall’autore: questo componimento risulta essere di grande importanza «non solo perché riepiloga e fissa la poetica del giovane Aldo, ma perché per la prima volta esibisce senza restrizioni, in prima persona, l’io dell’autore».
A differenza delle prime raccolte, il volume è suddiviso in sezioni, ognuna delle quali è preceduta da un titolo e racchiude al proprio interno un gruppo di componimenti omogenei da un punto di vista tematico-stilistico. La prima delle sei sezioni viene chiamata dall’autore «Piccoli paesi e paesi in grande», titolo a chiasmo – figura retorica non adottata con frequenza da Palazzeschi – che anticipa quattro componimenti assai ritmati di descrizioni paesaggistiche: tra questi il celeberrimo Rio Bo, dove il poeta incomincia a farsi gioco dei professori e delle grammatiche («Microscopico paese, è vero, / paese da nulla, ma però, / c’è sempre di sopra una stella, / … »,42 vv. 6-8), e il geometrico I prati di Gesù, dove ricompare la figura simbolica delle tre vecchie («Nel mezzo, situate / pure in forma di triangolo, tre vecchie, / filano immobili / canapa candida.», vv. 4-7). Segue un gruppo di poesie descrittive impregnato di un forte lirismo racchiuso sotto il titolo «Marine». La terza sezione – «Ritratti» – comprende nove presentazioni di altrettanti personaggi dai tratti marcatamente favolistici: il poeta alterna in modo non regolare i nomi propri (Lord Mailor, Regina Paolina, Regina Carmela, Regina Carlotta, Corinna Spiga) alle descrizioni definite (Lo sconosciuto, La matrigna, Il principe scomparso, La principessa bianca), dando vita a una galleria di volti e di voci – più della metà delle poesie contengono dialoghi – confusi, sfumati nei contorni irreali della magia («Sul trono, di dietro alla testa le sta, / diletto compagno, il bianco paone / con l’ala spiegata, le irradia la chioma corvina, / aureola di purità, / il sole che scalda Regina Paolina» ). Dopo i «Ritratti» arrivano le «Caricature», brevi componimenti di tre versi ciascuno i quali focalizzano l’attenzione sulle particolarità di alcuni personaggi – personaggi che assumono, anche grazie all’uso frequente della rima baciata e dell’ottonario, tinte intensamente comiche, financo grottesche: «con un collo secco secco, / con un naso lungo lungo, / un cappello come un fungo.»; «con due occhini piccolini piccolini, / due minuscoli arricciati baffettini, / quando ride gli si vedon due dentini.» La penultima sezione – «Tele dispari» – indaga sul rapporto che viene a crearsi tra l’uomo e l’ambiente circostante; protagonista di questo gruppo di poesie è l’ambiente stesso, visto e presentato attraverso gli edifici che lo abitano: l’uomo risulta paradossalmente prigioniero delle proprie costruzioni, le quali scandiscono i ritmi della vita quotidiana («ciascuna campana dà un tocco. / Si chiudono insieme d’un tratto / le uguali finestre del borgo, / e restan serrate / infine al tramonto seguente.») e vincolano i movimenti, arrivando perfino a imprigionare i sentimenti e omologare gli stati d’animo («Non un gesto di lamento, / non un guardo di sconforto, / e son nientedimeno che settecento, / rinserrate là dentro.»). Chiudono il volume le poesie raccolte sotto il titolo «La casa Le cose Le anime Gli animali Il mio passatempo», tra cui spiccano La fontana malata, audace sperimentazione onomatopeica che verrà esaltata da Marinetti, e La finestra terrena, dove il poeta si guarda intorno e descrive quello che vede in una sorta di embrionale flusso di coscienza. Poemi può così essere considerata la conclusione di un percorso, di un lungo cammino incominciato quattro anni prima con I cavalli bianchi, e ci consente di valutare in maniera organica i primi lavori in versi del poeta toscano.
Nei Cavalli bianchi Palazzeschi ha cercato di rappresentare oggetti e fantasie del suo “romanzo familiare” in modo straniato, impersonale, mentre in Lanterna questa posizione è stata incrinata dai segni di un tenue coinvolgimento emotivo, in qualche caso ironico, con la “storia” dei suoi personaggi. In Poemi si compie definitivamente questo passaggio che è appena abbozzato dalla seconda raccolta. Il punto di vista dell’autore, prima esterno e separato dalla materia trattata, diventa ora interno, dando forma e vita a un autentico personaggio, il “poeta”, dotato di una propria autocoscienza, che tende a coincidere con quella dell’autore. Il componimento Chi sono? è l’autoritrattoprogramma (l’identikit) di questa nuova figura del repertorio trasformistico palazzeschiano.
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