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Giacomo Leopardi - PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA



















































































Paralipomeni della Batracomiomachia





composti da Leopardi tra il 1831 e il 1837. Si tratta di un poemetto satirico suddiviso in 8 canti, che - come dice il titolo - si propone di costituire una continuazione ("paralipomeni") della Batracomiomachia (ovvero Battaglia delle rane e dei topi) attribuita ad Omero. La struttura narrativa del poemetto è la seguente: i topi, che nella Batracomiomachia erano stati sconfittì dall'intervento dei granchi, alleati delle rane, si riuniscono ed eleggono come proprio capo provvisorio Rubatocchi (canto I). Al conte Leccafondi, ambasciatore dei topi presso il nemico, Brancaforte, il comandante dei granchi, rende note le condizioni di pace: eleggere un re legittimista e accettare un presidio militare di granchi (canto Il). Rubatocchi, rientrato a Topaia, capitale del regno, rinuncia al potere e favorisce l'elezione dì un governo costituzionale che ha come capo Rodipane (canto III). Il conte Leccafondi, nobile progressista, è nominato consigliere del re. Ma i granchi si oppongono alla creazione di un governo costituzionale a Topaia (canto IV). l granchi impongono a Rodipane di rifiutare la costituzione. Al suo rifiuto si riaprono le ostilità: ma l'esercito dei topi, appena vede il nemico fugge a precipizio; solo Rubatocchi lo fronteggia e muore da valoroso (canto V). I granchi aboliscono la costituzione e instaurano a Topaia un governo poliziesco sotto il loro diretto controllo. Fioriscono allora fra ì topi sette di congiurati che però si limitano a parlare vanamente di indipendenza e di libertà, senza l'intenzione di passare veramente all'azione. Leccafondi viene inviato in esilio. In una delle sue peregrinazioni conosce Dèdalo, che gli si offre come alleato (canto VI). Dèdalo e Leccafondi, munitisi di un paio di ali, volano al regno delI'Oltretornba dei topi, dove dovranno essere messi a conoscenza delle sorti future dei topi (canto VII). Il conte Leccafondi, giunto nel regno dei morti, narra le ultime vicende del suo popolo ai topi defunti e domanda loro se egli con i suoi fedeli potrà liberare la patria dalla dominazione dei granchi: la risposta è una sorta di risata. Egli chiede allora come è possibile riuscire nell'intento. In risposta i defunti lo invitano a rivolgersi per consiglio al generale Assaggiatore. Leccafondi rientra in patria, ma il narratore afferma di non sapere quale risposta ebbe Leccafondi da Assaggiatore perché a questo punto sì interrompe l'antico manoscritto che egli ha fin qui seguito (canto VIII). La vicenda fantastica dei topi e dei granchi e delle disavventure del regno di Topaia ha come principale riferimento storico la situazione italiana di primo Ottocento, tra Restaurazione, tentativi insurrezionali e costituzionali (i moti del 1820-21 e del 1831), e dibattiti politici. I granchi sono gli austriaci, i topi gli italiani, Leccafondi rappresenta il liberalismo moderato, le congiure dei topi la carboneria e via dicendo (non ci sono però riferimenti diretti a persone specifiche). L'interpretazione del poemetto è complessa, ma globalmente si può dire che i principali obiettivi polemici del Leopardi sul piano politico e ideologico sono: l'oscurantismo dei reazionari (per cui vi sono toni di autentico sdegno); i tentativi insurrezionali (ad esempio per la sfiducia nelle attese di un intervento straniero); il costituzionalismo (giudicato altrove come «un male indispensabile per rimediare o impedire un maggior male» ma pur sempre «un'istituzione innaturale»); il liberalismo moderato incarnato da Leccafondi (specie per «quella forma mentis ottimistica, fideistica, mitizzante che ostacola una chiara presa di coscienza della dura realtà politica e della tragica situazione esistenziale dell'uomo» e infine, soprattutto, la filosofia spiritualistica accolta dai circoli liberali toscani e napoletani con cui era venuto a contatto.



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CANTO PRIMO

Poi che da' granchi a rintegrar venuti
Delle ranocchie le fugate squadre,
Che non gli aveano ancor mai conosciuti,
Come volle colui ch'a tutti è padre,
Del topo vincitor furo abbattuti
Gli ordini, e volte invan l'opre leggiadre,
Sparse l'aste pel campo e le berrette
E le code topesche e le basette;
Sanguinosi fuggian per ogni villa
I topi galoppando in su la sera,
Tal che veduto avresti anzi la squilla
Tutta farsi di lor la piaggia nera:
Quale spesso in parete, ove più brilla
Del Sol d'autunno la dorata sfera,
Vedi un nugol di mosche atro, importuno,
Il bel raggio del ciel velare a bruno.
Come l'oste papal cui l'alemanno
Colli il Franco a ferir guidava il volto,
Da Faenza, onde pria videro il panno
Delle insegne francesi all'aria sciolto,
Mosso il tallon, dopo infinito affanno,
Prima il fiato in Ancona ebbe raccolto;
Cui precedeva in fervide, volanti
Rote il Colli, gridando, avanti avanti;
O come dianzi la fiamminga gente,
Che Napoli infelice avea schernita,
Viste l'armi d'Olanda, immantinente
La via ricominciò ch'avea fornita,
Né fermo prima il piè, che finalmente
Giunse invocata la francese aita;
Tale i topi al destin, di valle in valle,
Per più di cento miglia offrir le spalle.
Passata era la notte, e il dì secondo
Già l'aria incominciava a farsi oscura,
Quando un guerrier chiamato il Miratondo,
A fuggir si trovò per un'altura;

Ed o fosse ardimento, ovver ch'al mondo
Vinta dalla stanchezza è la paura,
Fermossi; e di spiar vago per uso,
Primo del gener suo rivolse il muso.
E ritto in su due piè con gli occhi intenti,
Mirando quanto si potea lontano,
Di qua, di là, da tutti quattro i venti,
Cercò l'acqua e la terra, il monte e il piano,
Spiò le selve, i laghi e le correnti,
Le distese campagne e l'oceano;
Né vide altro stranier, se non farfalle
E molte vespe errar giù per la valle.
Granchi non vide già, né granchiolini,
Né d'armi ostili indizio in alcun lato.
Soli di verso il campo i vespertini
Fiati venian movendo i rami e il prato,
Soavemente susurrando, e i crini
Fra gli orecchi molcendo al buon soldato.
Era il ciel senza nubi, e rubiconda
La parte occidentale, e il mar senz'onda.
Rinvigorir sentissi, ed all'aspetto
Di sì queta beltà l'alma riprese
Il Miratondo. E poi che con effetto,
Quattro volte a girar per lo paese
Le pupille tornando, ogni sospetto
Intempestivo e vano esser comprese,
Osò gridare a' suoi compagni eroi:
Sì gran fede prestava agli occhi suoi.
Non con tanta allegrezza i diecimila
Cui lor propria virtù d'Europa ai liti
Riconducea, dall'armi e dalle fila
Del re persian per tanta terra usciti,
La voce udìr, che via di fila in fila
S'accrescea, di color che pria saliti
Onde il mar si scopria, qual chi mirare
Crede suo scampo, gridar, mare mare,
Con quanta i topi, omai ridotti al fine
Per fatica e per tema, udiro il grido

Del buono esplorator, cui le marine
Caverne rimuggìr con tutto il lido:
Ch'era d'intorno intorno ogni confine
Ove il guardo aggiungea, tranquillo e fido;
Che raccorsi e far alto, e che dal monte
Di novo convenia mostrar la fronte.
Altri in sul poggio, ed altri appiè dell'erta,
Convenner da più bande i fuggitivi,
Cui la tema, in un dì, per via deserta,
Mille piagge avea mostro e mille rivi;
Smarriti ancora, e con la mente incerta,
E dal corso spossati e semivivi;
E incominciàr tra loro a far consiglio
Del bisogno presente e del periglio.
Già la stella di Venere apparia
Dinanzi all'altre stelle ed alla luna:
Tacea tutta la piaggia, e non s'udia
Se non il mormorar d'una laguna,
E la zanzara stridula, ch'uscia
Di mezzo la foresta all'aria bruna:
D'espero dolce la serena imago
Vezzosamente rilucea nel lago.
Taceano i topi ancor, quasi temendo
I granchi risvegliar, benché lontani,
E chetamente andavan discorrendo
Con la coda in gran parte e con le mani,
Maravigliando pur di quell'orrendo
Esercito di bruti ingordi e strani,
E partito cercando a ciascheduna
Necessità della comun fortuna.
Morto nella battaglia era, siccome
Nel poema d'Omero avete letto,
Mangiaprosciutti, il qual, credo, per nome
Mangiaprosciutti primo un dì fu detto;
Intendo il re de' topi; ed alle some
Del regno sostener nessuno eletto
Avea morendo, e non lasciato erede
Cui dovesser gli Dei la regia sede.

Ben di lui rimaneva una figliuola,
Leccamacine detta, a Rodipane
Sposata, e madre a quello onde ancor vola
Cotanta fama per le bocche umane,
Rubabriciole il bel, dalla cui sola
Morte il foco scoppiò fra topi e rane:
Tutto ciò similmente o già sapete,
O con agio in Omero il leggerete.
Ma un tedesco filologo, di quelli
Che mostran che il legnaggio e l'idioma
Tedesco e il greco un dì furon fratelli,
Anzi un solo in principio, e che fu Roma
Germanica città, con molti e belli
Ragionamenti e con un bel diploma
Prova che lunga pezza era già valica
Che fra' topi vigea la legge salica.
Che non provan sistemi e congetture
E teorie dell'alemanna gente?
Per lor, non tanto nelle cose oscure
L'un dì tutto sappiam, l'altro niente,
Ma nelle chiare ancor dubbi e paure
E caligin si crea continuamente:
Pur manifesto si conosce in tutto
Che di seme tedesco il mondo è frutto.
Dunque primieramente in provvedere
A se di novo capo in quelle strette
Porre ogni lor pensier le afflitte schiere
Per lo scampo comun furon costrette:
Dura necessità, ch'uomini e fere
Per salute a servaggio sottomette,
E della vita in prezzo il mondo priva
Del maggior ben per cui la vita è viva.
Stabile elezion per or non piacque
Far; né potean; ma differire a quando
In Topaia tornati, ove già nacque
La più parte di lor, la tema in bando
Avrian cacciata, e le ranocchie e l'acque
E seco il granchio barbaro e nefando,

Né credean ciò lontan lunga stagione,
Avrian posto in eterna obblivione.
Intanto il campo stesso, e la fortuna
Commetter del ritorno, e dei presenti
Consigli e fatti dar l'arbitrio ad una
Militar potestà furon contenti.
Così quando del mar la vista imbruna,
Popol battuto da contrarii venti
Segue l'acuto grido onde sua legge
Dà colui che nel rischio il pin corregge.
Scelto fu Rubatocchi a cui l'impero
Si desse allor di mille topi e mille:
Rubatocchi, che fu, come d'Omero
Sona la tromba, di quel campo Achille.
Lungamente per lui sul lago intero
Versàr vedove rane amare stille;
E fama è che insin oggi appo i ranocchi
Terribile a nomar sia Rubatocchi.
Né Rubatocchi chiameria la madre
Il ranocchin per certo al nascimento,
Come Annibale, Arminio odi leggiadre
Voci qui gir chiamando ogni momento:
Così di nazion quello che padre
È d'ogni laude, altero sentimento
Colpa o destin, che molta gloria vinse,
Già trecent'anni, in questa terra estinse.
Mancan Giulii e Pompei, mancan Cammilli
E Germanici e Pii, sotto il cui nome
Faccia ai nati colei che partorilli
A tanta nobiltà, lavar le chiome?
A veder se alcun dì valore instilli
In lor la rimembranza, e se mai dome
Sien basse voglie e voluttà dal riso
Che un gran nome suol far di fango intriso?
Intanto a studio là nel Trasimeno
Estranio peregrin lava le membra,
Perché la strage nostra onde fu pieno
Quel flutto, con piacer seco rimembra:

La qual, se al ver si guarda, nondimeno
Zama e Cartago consolar non sembra:
E notar nel Metauro anco potria
Quegli e Spoleto salutar per via.
Se questo modo, ond'hanno altri conforto,
Piacesse a noi di seguitar per gioco,
In molte acque potremmo ire a diporto,
E di più selve riscaldarci al foco,
Ed in più campi dall'occaso all'orto
Potremmo, andando, ristorarci un poco,
E tra via rimembrar più d'un alloro
E nelle nostre e nelle terre loro.
Tant'odio il petto agli stranieri incende
Del nome italian, che di quel danno
Onde nessuna gloria in lor discende,
Sol perché nostro fu, lieti si fanno.
Molte genti provàr dure vicende,
E prave diventàr per lungo affanno;
Ma nessuna ad esempio esser dimostra
Di tant'odio potria come la nostra.
E questo avvien perché quantunque doma,
Serva, lacera segga in isventura,
Ancor per forza italian si noma
Quanto ha più grande la mortal natura;
Ancor la gloria dell'eterna Roma
Risplende sì, che tutte l'altre oscura;
E la stampa d'Italia, invan superba
Con noi l'Europa, in ogni parte serba.
Né Roma pur, ma col mental suo lume
Italia inerme, e con la sua dottrina,
Vinse poi la barbarie, e in bel costume
Un'altra volta ritornò regina;
E del goffo stranier, ch'oggi presume
Lei dispregiar, come la sorte inchina,
Rise gran tempo, ed infelici esigli
L'altre sedi parer vide a' suoi figli.
Senton gli estrani, ogni memoria un nulla
Esser a quella ond'è l'Italia erede;

Sentono, ogni lor patria esser fanciulla
Verso colei ch'ogni grandezza eccede;
E veggon ben che se strozzate in culla
Non fosser quante doti il ciel concede,
Se fosse Italia ancor per poco sciolta,
Regina torneria la terza volta.
Indi l'odio implacato, indi la rabbia,
E l'ironico riso ond'altri offende
Lei che fra ceppi, assisa in su la sabbia,
Con lingua né con man più si difende.
E chi maggior pietà mostra che n'abbia,
E di speme fra noi gl'ignari accende,
Prima il Giudeo tornar vorrebbe in vita
Ch'all'italico onor prestare aita.
Di Roma là sotto l'eccelse moli,
Pigmeo, la fronte spensierata alzando,
Percote i monumenti al mondo soli
Con sua verghetta, il corpo dondolando;
E con suoi motti par che si consoli,
La rimembranza del servir cacciando.
Ed è ragion ch'a una grandezza tale
L'inimicizia altrui segua immortale.
Ma Rubatocchi, poi che della cura
Gravato fu delle compagne genti,
Fece il campo afforzar, perché sicura
Da inopinati assalti e da spaventi
Fosse la notte; e poi di nutritura
Giovare ai corpi tremuli e languenti.
Facil negozio fu questo secondo,
Perché topi a nutrir tutto è fecondo.
Poscia mestier gli parve all'odiato
Esercito spedir subito un messo,
A dimandar perché, non provocato,
Contra lor nella zuffa s'era messo;
Se ignaro delle rane, o collegato,
Se per error, se per volere espresso;
Se gir oltre o tornar nella sua terra,
Se volesse da' topi o pace o guerra.

Era nel campo il conte Leccafondi,
Signor di Pesafumo e Stacciavento;
Topo raro a' suoi dì, che di profondi
Pensieri e di dottrina era un portento:
Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi,
E giornali leggea più di dugento;
Al cui studio in sua patria aveva eretto,
Siccom'oggi diciamo, un gabinetto.
Gabinetto di pubblica lettura,
Con legge tal, che da giornali in fuore,
Libro non s'accogliesse in quelle mura,
Che di due fogli al più fosse maggiore;
Perché credea che sopra tal misura
Stender non si potesse uno scrittore
Appropriato ai bisogni universali
Politici, economici e morali.
Pur dagli amici in parte, e dalle stesse
Proprie avvertenze a poco a poco indotto,
Anche al romanzo storico concesse
Albergar coi giornali, e che per otto
Volumi o dieci camminar potesse;
E in fin, come dimostro è da quel dotto
Scrittor che sopra in testimonio invoco,
Alla tedesca poesia diè loco.
La qual d'antichità supera alquanto
Le semitiche varie e la sanscrita,
E parve al conte aver per proprio vanto
Sola il buon gusto ricondurre in vita,
Contro il fallace oraziano canto,
A studio, per uscir della via trita,
Dando tonni al poder, montoni al mare;
Gran fatica, e di menti al mondo rare.
D'arti tedesche ancor fu innamorato,
E chiamavale a se con gran mercede:
Perché, giusta l'autor sopra citato,
Non eran gli obelischi ancora in piede,
Né piramide il capo avea levato,
Quando l'arti in Germania avean lor sede,

Ove il senso del bello esser più fino
Veggiam, che fu nel Greco o nel Latino.
La biblioteca ch'ebbe, era guernita
Di libri di bellissima sembianza,
Legati a foggia varia, e sì squisita,
Con oro, nastri ed ogni circostanza,
Ch'a saldar della veste la partita
Quattro corpi non erano abbastanza.
Ed era ben ragion, che in quella parte
Stava l'utilità, non nelle carte.
Lascio il museo, l'archivio, e delle fiere
Il serbatoio, e l'orto delle piante,
E il portico, nel quale era a vedere,
Con baffi enormi e coda di gigante,
La statua colossal di Lucerniere,
Antico topolin filosofante,
E dello stesso una pittura a fresco,
Pur di scalpello e di pennel tedesco.
Fu di sua specie il conte assai pensoso,
Filosofo morale, e filotopo;
E natura lodò che il suo famoso
Poter mostri quaggiù formando il topo;
Di cui l'opre, l'ingegno e il glorioso
Stato ammirava; e predicea che dopo
Non molto lunga età, saria matura
L'alta sorte che a lui dava natura.
Però mai sempre a cor fugli il perenne
Progresso del topesco intendimento,
Che aspettar sopra tutto dalle penne
Ratte de' giornalisti era contento:
E profittare a quel sempre sostenne
Ipotesi, sistemi e sentimento;
E spegnere o turbar la conoscenza
Analisi, ragione e sperienza.
Buon topo d'altra parte, e da qualunque
Filosofale ipocrisia lontano,
E schietto in somma e veritier, quantunque
Ne' maneggi nutrito, e cortigiano;

Popolar per affetto, e da chiunque
Trattabil sempre, e, se dir lice, umano;
Poco d'oro, e d'onor molto curante,
E generoso, e della patria amante.
Questi al re de' ranocchi, ambasciatore
Del proprio re, s'era condotto, avanti
Che tra' due regni il militar furore
Gli amichevoli nodi avesse infranti:
E com'arse la guerra, appo il signore
Suo ritornato, dimorò tra fanti,
E sotto tende, insin che tutto il campo
Dal correr presto procacciò lo scampo.
Ora ai compagni, ricercando a quale
Fosse in nome comun l'uffizio imposto,
Che del campo de' granchi al Generale
Gisse oratore, e che per gli altri tosto
D'ovviar s'ingegnasse a novo male,
Nessun per senno e per virtù disposto
Parve a ciò più del conte; il qual di stima
Tenuto era da tutti in su la cima.
Così da quelle schiere, a prova eretto
L'un piè di quei dinanzi, all'uso antico,
Fu, per parer di ciascheduno, eletto
Messagger dell'esercito al nemico.
Né ricusò l'uffizio, ancor ch'astretto
Quindi a gran rischio: in campo ostil, mendico
D'ogni difesa, andar fra sconoscenti
D'ogni modo e ragion dell'altre genti.
E sebben lassa la persona, e molto
Di posa avea mestier, non però volle
Punto indugiarsi al dipartir: ma colto
Brevissimo sopor su l'erba molle,
Sorse a notte profonda, e seco tolto
Pochi servi de' suoi, tacito il colle
Lasciando tutto, e sonnolento, scese,
E per l'erma campagna il cammin prese.

CANTO SECONDO

Più che mezze oramai l'ore notturne
Eran passate, e il corso all'oceano
Inchinavan pudiche e taciturne
Le stelle, ardendo in sul deserto piano.
Deserto al topo in ver, ma le diurne
Cure sopian da presso e da lontano
Per boschi, per cespugli ed arboscelli
Molte fere terrestri e molti uccelli.
E biancheggiar tra il verde all'aria bruna,
Or ne' campi remoti, or su la via,
Or sovra colli qua e là più d'una
Casa d'agricoltor si discopria;
E di cani un latrar da ciascheduna
Per li silenzi ad or ad or s'udia,
E rovistar negli orti; e nelle stalle
Sonar legami e scalpitar cavalle.
Trottava il conte al periglioso andare
Affrettando co' suoi le quattro piante,
A piedi intendo dir, che cavalcare
Privilegio è dell'uomo, il qual di tante
Bestie che il suol produce e l'aria e il mare,
Sol per propria natura è cavalcante,
Come, per conseguenza ragionevole,
Solo ancor per natura è carrozzevole.
Era maggio, che amor con vita infonde,
E il cuculo cantar s'udia lontano,
Misterioso augel, che per profonde
Selve sospira in suon presso che umano,
E qual notturno spirto erra e confonde
Il pastor che inseguirlo anela invano,
Né dura il cantar suo, che in primavera
Nasce e il trova l'ardor venuto a sera.
Come ad Ulisse ed al crudel Tidide,
Quando ai novi troiani alloggiamenti
Ivan per l'ombre della notte infide,
Rischi cercando e insoliti accidenti,

Parve l'augel che si dimena e stride,
Segno, gracchiando, di felici eventi
Arrecar da Minerva, al cui soccorso
L'uno e l'altro, invocando, era ricorso;
Non altrimenti il topo, il qual solea
Voci e segni osservar con molta cura,
Non so già da qual nume o da qual dea
Topo o topessa o di simil natura,
Sperò certo, e mestier gliene facea
Per sollevare il cor dalla paura,
Che il cuculo, che i topi han per divino,
nunzio venisse di non reo destino.
Ma già dietro boschetti e collicelli
Antica e stanca in ciel salia la luna,
E su gli erbosi dorsi e i ramuscelli
Spargea luce manchevole e digiuna,
Né manifeste l'ombre a questi e quelli
Dava, né ben distinte ad una ad una;
Le stelle nondimen tutte copria,
E desiata al peregrin venia.
Pur, come ai topi il lume è poco accetto,
Di lei non molto rallegrossi il conte,
Il qual trottando a piè, siccome ho detto,
Ripetea per la Valle e per lo monte
L'orme che dianzi, di fuggir costretto,
Impresse avea con zampe assai più pronte,
E molti il luogo or danni ora spaventi
Di quella fuga gli rendea presenti.
Ma pietà sopra tutto e disconforto
Moveagli, a ciascun passo in sul cammino,
O poco indi lontan, vedere o morto
O moribondo qualche topolino,
Alcun da piaghe ed alcun altro scorto
Dalla stanchezza al suo mortal destino,
A cui con lo splendor languido e scemo
Parea la luna far l'onore estremo.
Così, muto, volgendo entro la testa
Profondi filosofici pensieri,

E chiamando e sperando alla funesta
Discordia delle stirpi e degl'imperi
Medicina efficace intera e presta
Dai giornalisti d'ambo gli emisferi,
Tanto andò, che la notte a poco a poco
Cedendo, al tempo mattutin diè loco.
Tutti desti cantando erano i galli
Per le campagne, e gli augelletti ancora
Ricominciando insiem gli usati balli
Su per li prati al mormorar dell'ora,
E porporina i sempiterni calli
Apparecchiava al dì la fresca aurora,
Né potea molto star che all'orizzonte
Levasse il re degli anni alta la fronte;
Quando da un poggio il topo rimirando
Non molto avanti in giù nella pianura,
Vide quel che sebbene iva cercando,
Voluto avria che fosse ancor futura
La vista sua, ch'or tutto l'altro in bando
Parve porre dal cor che la paura.
Non sol per se, ma parte e maggiormente
Perché pria del creduto era presente.
Vide il campo de' granchi, il qual fugate
Ch'ebbe de' topi le vincenti schiere,
Ver Topaia là dove indirizzate
S'eran le fuggitive al suo parere,
Deliberossi, andando a gran giornate,
Dietro quelle condurre armi e bandiere;
E seguitando lor, men d'una notte
Distava ond'esse il corso avea condotte.
Tremava il conte, e già voltato il dosso
Aveano i servi alla terribil vista,
E muro non avria, non vallo o fosso
Tenuto quella gente ignava e trista;
Ma il conte sempre all'onor proprio mosso,
Come fortezza per pudor s'acquista,
Fatto core egli pria, sopra si spinse
Gridando ai servi, ed a tornar gli strinse.

E visto verdeggiar poco lontano
Un uliveto, entràr subito in quello,
E del verde perpetuo con mano
O con la bocca colto un ramicello,
E sceso ciaschedun con esso al piano,
Sentendo un gelo andar per ogni vello,
E digrignando per paura i denti,
Vennero agl'inimici alloggiamenti.
Non se n'erano appena i granchi accorti,
Quando lor furo addosso, e con gli ulivi
Stessi, senza guardar dritti né torti,
Voleangli ad ogni patto ingoiar vivi,
O gli avrian per lo men subito morti.
Se in difesa de' miseri e cattivi
Non giungeva il parlar, che con eterna
Possanza il mondo a suo piacer governa.
Perché, quantunque barbaro e selvaggio
Dei granchi il favellar, non fu celato
Al conte, ch'oltre al far più d'un viaggio.
Sendo per diplomatico educato,
Com'or si dice, aveva ogni linguaggio
Per istudio e per pratica imparato,
E i dialetti ancor di tutti quanti,
Tal ch'era nelle lingue un Mezzofanti.
Dunque con parolette e con ragioni
A molcer cominciò quei ferrei petti,
Che da compagni mai né da padroni
Appreso non avean sì dolci detti,
Né sapean ch'altra gente i propri suoni
Parlar potesse dei lor patrii tetti,
E si pensaro andar sotto l'arnese
Di topo un granchiolin del lor paese.
Per questo e per veder che radicati
Leccafondi in sul naso avea gli occhiali,
Arme che in guerra mai non furo usati
Né gli uomini portar né gli animali,
Propria insegna ed onor di letterati
Essendo dal principio, onde ai mortali

Più d'iride o d'olivo o d'altro segno
Di pace e sicurtà son certo pegno,
Dal sangue per allor di quegli estrani
Di doversi astener determinaro;
E legati così come di cani
O di qualche animal feroce o raro
Non fecer mai pastori o cerretani,
A sghembo, all'uso lor, gli strascinaro
Al General di quei marmorei lanzi,
Gente nemica al camminare innanzi.
Brancaforte quel granchio era nomato.
Scortese a un tempo e di servile aspetto;
Dal qual veduto il conte e dimandato
Chi fosse, onde venuto, a quale effetto,
Rispose che venuto era legato
Del proprio campo, e ben legato e stretto
Era più che mestier non gli facea,
Ma scherzi non sostien l'alta epopea.
E seguitò che s'altri il disciogliesse,
Mostrerebbe il mandato e le patenti.
Per questo il General non gli concesse
Ch'a strigarlo imprendessero i sergenti,
E perché legger mai non gli successe,
Eran gli scritti a lui non pertinenti,
Ma chiese da chi date ed in qual nome
Assunte avesse l'oratorie some.
E quel dicendo che de' topi il regno,
Per esser nella guerra il re defunto,
E non restar di lui successor degno,
Deliberato avria sopra tal punto
Popolarmente, e che di fede il segno
Rubatocchi al mandato aveva aggiunto,
Il qual per duce, e lui per messaggero
Scelto aveva a suffragi il campo intero;
Gelò sotto la crosta a tal favella,
Popol, suffragi, elezioni udendo,
Il casto lanzo, al par di verginella
A cui con labbro abbominoso orrendo

Le orecchie tenerissime flagella
Fango intorno e corrotte aure spargendo,
Oste impudico o carrozzier. Si tinge
Ella ed imbianca, e in se tutta si stringe.
E disse al conte: Per guardar ch'io faccia,
Legittimo potere io qui non trovo.
Da molti eletto, acciò che il resto io taccia,
Ricever per legato io non approvo.
Poscia com'un che dal veder discaccia
Scandalo o mostro obbrobrioso e novo.
Tor si fe' quindi i topi, ed in catene
Chiuder sotterra e custodir ben bene.
Fatto questo, mandò significando
Al proprio re per la più corta via
L'impensata occorrenza, e supplicando
Che comandasse quel che gli aggradia.
Era quel re, per quanto investigando
Ritrovo, un della terza dinastia
Detta de' Senzacapi, e in su quel trono
Sedea di nome tal decimonono.
Rispose adunque il re, che nello stato
Della sedia vacante era l'eletto
Del campo ad accettar come legato;
Tosto quel regno o volontario o stretto
Creasse altro signor; nessun trattato
Egli giammai, se non con tal precetto,
Conchiudesse con lor; d'ogni altro punto
Facesse quel che gli era prima ingiunto.
Questo comando al General pervenne
Là 've lui ritrovato aveva il conte,
Perché quivi aspettando egli sostenne
Quel che ordinasse del poter la fonte,
Al cui voler, com'ei l'avviso ottenne,
L'opere seguitàr concordi e pronte;
Trasse i cattivi di sotterra e sciolse,
E sciolto il conte in sua presenza accolse.
Il qual, ricerco, espose al Generale
Di sua venuta le ragioni e il fine,

Chiedendo qual destin, qual forza o quale
Violazion di stato o di confine,
Qual danno della roba o personale,
Qual patto o lega, o qual errore alfine
Avesse ai topi sprovveduti e stanchi
Tratto in sul capo il tempestar de' granchi.
Sputò, mirossi intorno e si compose
Il General dell'incrostata gente;
E con montana gravita rispose
In questa forma, ovver poco altramente:
Signor topo, di tutte quelle cose
Che tu dimandi, non sappiam niente,
Ma i granchi, dando alle ranocchie aiuto,
Per servar l'equilibrio han combattuto.
Che vuol dir questo? ripigliava il conte:
L'acque forse del lago o del pantano,
O del fosso o del fiume o della fonte
Perder lo stato ed inondare il piano,
O venir manco, o ritornare al monte,
O patir altro più dannoso e strano
Sospettavate, in caso che la schiatta
Delle rane da noi fosse disfatta?
Non equilibrio d'acqua ma di terra,
Rispose il granchio, è di pugnar cagione,
E il dritto della pace e della guerra
Che spiegherò per via d'un paragone.
Il mondo inter con quanti egli rinserra
Dei pensar che somigli a un bilancione,
Non con un guscio o due, ma con un branco
Rispondenti fra lor, più grandi e manco.
Ciaschedun guscio un'animal raccetta,
Che vuol dir della terra un potentato.
In questo un topo, in quello una civetta,
In quell'altro un ranocchio è collocato,
Qui dentro un granchio, e quivi una cutretta
L'uno animal con l'altro equilibrato,
In guisa tal che con diversi pesi
Fanno equilibrio insiem tutti i paesi.

Or quando un animal divien più grosso
D'altrui roba o di sua che non soleva,
E un altro a caso o pur da lui percosso
Dimagra sì che in alto si solleva,
Convien subito al primo essere addosso,
Dico a colui che la sua parte aggreva,
E tagliandoli i piè, la coda o l'ali,
Far le bilance ritornare uguali.
Queste membra tagliate a quei son porte
Che dimagrando scemo era di peso,
O le si mangia un animal più forte,
Ch'a un altro ancor non sia buon contrappeso,
O che, mangiate, ne divien di sorte
Che può star su due gusci a un tempo steso,
E l'equilibrio mantenervi salvo
Quinci col deretan quindi con l'alvo.
Date sien queste cose e non concesse,
Rispose al granchio il conte Leccafondi,
Ma qual nume ordinò che presedesse
All'equilibrio general de' mondi
La nazion de' granchi e ch'attendesse
A guardar se più larghi o se più tondi
Fosser che non dovean topi o ranocchi
Per trar loro o le polpe o il naso o gli occhi?
Noi, disse il General, siam birri appunto
D'Europa e boia e professiam quest'arte.
Nota, saggio lettor, ch'io non so punto
Se d'Europa dicesse o d'altra parte,
Perché, confesso il ver, mai non son giunto
Per molto rivoltar le antiche carte
A discoprir la regione e il clima
Dove i casi seguìr ch'io pongo in rima.
Ma detto ho dell'Europa seguitando
Del parlar nostro la comune usanza;
Ora al parlar del granchio ritornando,
In nostra guardia, aggiunse, è la costanza
Degli animai nell'esser primo, e quando
Di novità s'accorge o discrepanza

Dove che sia, là corre il granchio armato
E ritorna le cose al primo stato.
Chi tal carco vi diè? richiese il conte:
La crosta, disse, di che siam vestiti,
E l'esser senza né cervel né fronte,
Sicuri, invariabili, impietriti
Quanto il corallo ed il cristal di monte
Per durezza famosi in tutti i liti:
Questo ci fa colonne e fondamenti
Della stabilità dell'altre genti.
Or lasciam le ragioni e le parole,
Soggiunse l'altro, e discendiamo ai fatti.
Da' topi il re de' granchi oggi che vuole?
Vuole ancor guerra e strage, a tutti i patti?
O consente egli pur, com'altri suole,
Che qui d'accordo e d'amistà si tratti?
E quale, in caso tal, condizione
D'accordo e d'amistà ci si propone?
Sputò di nuovo e posesi in assetto
Il General de' granchi, e così disse:
Dalla tua razza immantinente eletto
Sia novello signor. Guerre né risse
Aver con le ranocchie a lui disdetto
Per sempre sia. Le sorti a color fisse
Saran dal nostro, a cui ricever piacque
Nella tutela sua lor terre ed acque.
Un presidio in Topaia alloggerete
Di trentamila granchi, ed in lor cura
Il castello con l'altro riporrete,
S'altro v'ha di munito entro le mura.
Da mangiare e da ber giusta la sete
Con quanto è di bisogno a lor natura
E doppia paga avran per ciascun giorno
Da voi, finché tra voi faran soggiorno.
Dicendo il conte allor che non aveva
Poter da' suoi d'acconsentire a tanto,
E che tregua fermar si richiedeva
Per poter quelli ragguagliare intanto,

Rispose il General che concedeva
Tempo quindici dì, né dal suo canto
Moveria l'oste; e quel passato invano,
Ver Topaia verrebbe armata mano.
Così di Leccafondi e del guerriero
Brancaforte il colloquio si disciolse:
E senza indugio alcuno il messaggero
De' topi a ritornar l'animo volse,
All'uso della tregua ogni pensiero
Avendo inteso; e tosto i suoi raccolse.
Nel partir poche rane ebbe vedute
Per negozi nel campo allor venute.
Le riconobbe, che nel lor paese
Contezza ebbe di lor quando oratore
Là ritrovossi, ed or da quelle intese
L'amorevole studio e il gran favore
Che prestava ai ranocchi a loro spese
Il re de' granchi, il qual sotto colore
Di protegger da' topi amico stato,
Ogni cosa in sua forza avea recato.
E che d'oro giammai sazio non era,
Né si dava al re lor veruno ascolto.
Pietà ne prese il conte, e con sincera
Loquela i patrii dei ringraziò molto,
Che dell'altrui protezion men fera
Calamità su i topi avean rivolto.
Poi dalle rane accommiatato, il calle
Libero prese, e il campo ebbe alle spalle.

CANTO TERZO

Intanto Rubatocchi avea ridotte
Le sue schiere in Topaia a salvamento,
Dove per più d'un giorno e d'una notte
Misto fu gran dolor con gran contento.
Chi gode in riveder, chi con dirotte
Lacrime chiama il suo fratello spento,
Altri il padre o il marito, altri la prole,
Altri del regno e dell'onor si dole.
Era Topaia, acciò che la figura
E il sito della terra io vi descriva,
Tutta con ammirabile struttura
Murata dentro d'una roccia viva,
La qual era per arte o per natura
Cavata sì che una capace riva
Al Sol per sempre ed alle stelle ascosta
Nell'utero tenea come riposta.
Ricordivi a ciascun se la montagna
Che d'Asdrubale il nome anche ritiene,
Là 've Livio e Neron per la campagna
Sparser dell'Affrican l'armi e la spene,
Varcaste per la strada ove compagna
L'eterea luce al viator non viene,
Sotterranea, sonora, onde a grand'arte
Schiuso è il monte dall'una all'altra parte:
O se a Napoli presso, ove la tomba
Pon di Virgilio un'amorosa fede,
Vedeste il varco che del tuon rimbomba
Spesso che dal Vesuvio intorno fiede,
Colà dove all'entrar subito piomba
Notte in sul capo al passegger che vede
Quasi un punto lontan d'un lume incerto
L'altra bocca onde poi riede all'aperto:
E queste avrete immagini bastanti
Del loco ove Topaia era fondata,
La qual per quattro bocche a quattro canti
Della montagna posta avea l'entrata,

Cui turando con arte a tutti quanti
Chiusa non sol ma rimanea celata,
In guisa tal che la città di fuore
Accusar non potea se non l'odore.
Dentro palagi e fabbriche reali
Sorgean di molto buona architettura,
Collegi senza fine ed ospedali
Vòti sempre, ma grandi oltre misura,
Statue, colonne ed archi trionfali,
E monumenti alfin d'ogni natura.
Sopra un masso ritondo era il castello
Forte di sito a maraviglia e bello.
Come chi d'Apennin varcato il dorso
Presso Fuligno, per la culta valle
Cui rompe il monte di Spoleto il corso
Prende l'aperto e dilettoso calle,
Se il guardo lieto in su la manca scorso
Leva d'un sasso alle scoscese spalle,
Bianco, nudato d'ogni fior, d'ogni erba,
Vede cosa onde poi memoria serba,
Di Trevi la città, che con iscena
D'aerei tetti la ventosa cima
Tien sì che a cerchio con l'estrema schiena
Degli estremi edifizi il piè s'adima;
Pur siede in vista limpida e serena
E quasi incanto il viator l'estima,
Brillan templi e palagi al chiaro giorno,
E sfavillan finestre intorno intorno;
Cotal, ma privo del diurno lume
Veduto avreste quel di ch'io favello,
Del polito macigno in sul cacume
Fondato solidissimo castello.
Ch'al margine affacciato oltre il costume
Quasi precipitar parea con quello.
Da un lato sol per un'angusta via
Con ansia e con sudor vi si salia.
Luce ai topi non molto esser mestieri
Vede ciascun di noi nella sua stanza,

Che chiusi negli armadi e nei panieri
Fare ogni lor faccenda han per usanza,
E spente le lucerne e i candelieri
Vengon poi fuor la notte alla lor danza.
Pur se luce colà si richiedea
Talor, con faci ognun si provvedea.
D'Ercolano così sotto Resina,
Che d'ignobili case e di taverne
Copre la nobilissima ruina,
Al tremolar di pallide lucerne
Scende a veder la gente pellegrina
Le membra afflitte e pur di fama eterne,
Magioni e scene e templi e colonnati
Allo splendor del giorno ancor negati.
Certo se un suol germanico o britanno
Queste ruine nostre ricoprisse,
Di faci a visitar l'antico danno
Più non bisogneria ch'uom si servisse,
E d'ogni spesa in onta e d'ogni affanno
Pompei, ch'ad ugual sorte il fato addisse,
All'aspetto del Sol tornata ancora
Tutta, e non pur sì poca parte fora.
Vergogna sempiterna e vitupero,
D'Italia non dirò, ma di chi prezza
Disonesto tesor più che il mistero
Dell'aurea antichità porre in chiarezza,
E riscossa di terra allo straniero,
Mostrare ancor l'italica grandezza.
Lor sia data dal ciel giusta mercede,
Se pur ciò non indarno al ciel si chiede.
E mercé s'abbia non di riso e d'ira,
Di ch'ebbe sempre assai, ma d'altri danni
L'ipocrita canaglia, onde sospira
L'Europa tutta invan tanti e tanti anni
I papiri ove cauta ella delira,
Scacciando ognun, su i mercenari scanni;
Razza a cagion di cui mi dorrebb'anco
Se boia e forche ci venisser manco.

Tornando ai topi, a cui dagli scaffali
Di questi furbi agevole è il ritorno,
Vincea Topaia allor le principali
Città dal tramontano al mezzogiorno,
O rare assai fra quelle aveva uguali,
Proprio de' topi e natural soggiorno,
Là dove consistea massimamente
Il regno e il fior della topesca gente.
Perché lunge di là stabil dimora
Avean pochi o nessun di lor legnaggio,
Salvo in colonie, ove soleano allora
Finir le genti or questo or quel viaggio.
Ciò ben sapete lungo tempo ancora
Più d'un popolo usò civile e saggio:
Chiudea sola una cerchia un regno intero,
Che per colonie distendea l'impero.
Potete immaginar quale infinita
Turba albergò Topaia entro sue mura.
Di Statistica ancor non s'era udita
La parola a quei dì per isventura,
Ma di più milioni aver compita
Color la quantità s'ha per sicura
Sentenza, e con Topaia oggi si noma
Ninive e Babilonia e Menfi e Roma.
Tornato dunque, come sopra ho detto,
L'esercito de' topi alla cittade,
E cessato il picchiar le palme e il petto
Pei caffè, per le case e per le strade,
Cedendo all'amor patrio ogni altro affetto,
Od al timor, come più spesso accade,
Del ritorno a cercar del messaggero
Fu volto con le lingue ogni pensiero.
Perché parea che nel saper l'intento
Degl'inimici consistesse il tutto,
E fosse senza tal conoscimento
Ogni consiglio a caso e senza frutto,
Né trattar del durabil reggimento
Del regno aver potesse alcun costrutto,

Se la tempesta pria non si quetasse
Ch'ogni estremo parea che minacciasse.
Ma per quei giorni sospirata invano
La tornata del conte alla sua terra,
Il qual, venuto a fera gente in mano,
Regii cenni attendea prigion sotterra,
Crescendo dell'ignoto e del lontano
L'ansia e la tema, ed a patir la guerra
Parendo pur, se guerra anco s'avesse,
Che lo stato ordinar si richiedesse;
Giudicò Rubatocchi e i principali
Della città con lui, di non frapporre
Più tempo, né dar loco a novi mali,
Ma prestamente il popolo raccorre,
E le gravi materie e capitali
Del reggimento in pubblico proporre,
Sì ch'ai rischi di fuor tornando l'oste
Dentro le cose pria fosser composte.
Ben avria Rubatocchi, e per le molte
Parentele sue nobili e potenti,
E perché de' soldati in lui rivolte
Con amor da gran tempo eran le menti,
E per quel braccio che dal mondo tolte
Cotante avea delle nemiche genti,
Potuto ritener quel già sovrano
Poter che il fato gli avea posto in mano.
E spontanei non pochi a lui venendo
Capi dell'armi e principi e baroni,
Confortandolo giano ed offerendo
Se pronti a sostener le sue ragioni.
Ma ributtò l'eroe con istupendo
Valor le vili altrui persuasioni,
E il dar forma allo stato e il proprio impero
Nell'arbitrio comun rimise intero.
Degno perciò d'eterna lode, al quale
Non ha l'antica e la moderna istoria
Altro da somigliar non ch'altro uguale,
Quanto or so rinvenir con la memoria,

Fuor tre d'inclita fama ed immortale,
Timoleon corintio ed Andrea Doria,
In sul fianco di qua dall'oceano,
E Washington dal lato americano.
Dei quali per pudor, per leggiadria
Vera di fatti e probità d'ingegno,
Negar non vo né vo tacer che sia
Quantunque italian Doria il men degno,
Ma perfetta bontà non consentia
Quel secolo infelice, ov'ebbe regno
Ferocia con arcano avvolgimento,
E viltà di pensier con ardimento.
Deserto è la sua storia, ove nessuno
D'incorrotta virtude atto si scopre,
Cagion che sopra ogni altra a ciascheduno
Fa grato il riandar successi ed opre;
Tedio il resto ed obblio, salvo quest'uno
Sol degli eroici fatti alfin ricopre,
Del cui santo splendor non è beato
Il deserto ch'io dico in alcun lato.
Maraviglia è colà che s'appresenti
Maurizio di Sassonia alla tua vista,
Che con mille vergogne e tradimenti
Gran parte a' suoi di libertade acquista,
Egmont, Orange, a lor grandezza intenti
Lor patria liberando oppressa e trista,
E quel miglior che invia con braccio forte
Il primo duca di Firenze a morte.
Né loco d'ammirar vi si ritrova,
Se d'ammirar colui non vi par degno,
Che redando grandezze antiche innova,
Non già virtudi, e che di tanto regno
Se minor dimostrando in ogni prova,
Par che mirar non sappia ad alcun segno,
Cittadi alternamente acquista e perde,
E il fior d'Europa in Affrica disperde.
Non di cor generoso e non abbietto,
Non infedel né pio, crudo né mite,

Non dell'iniquo amante e non del retto,
Or servate promesse ed or tradite,
Al grande, al bel non mai volto l'affetto,
Non agevoli imprese e non ardite,
Due prenci imprigionati in suo potere
Né liberi sa far, né ritenere.
Alfin di tanto suon, tanta possanza
Nessuno effetto riuscir si vede,
Anzi il gran fascio che sue forze avanza
Gitta egli stesso e volontario cede,
La cui mole che invan passò l'usanza
Divide e perde infra più d'uno erede;
Poi chiuso in monacali abiti involto
Gode prima che morto esser sepolto.
O costanza, o valor de' prischi tempi!
Far gran cose di nulla era vostr'arte,
Nulla far di gran cose età di scempi
Apprese da quel dì che il nostro marte
Costantin, pari ai più nefandi esempi,
Donò col nostro scettro ad altra parte.
Tal differenza insiem han del romano
Vero imperio gli effetti, e del germano.
Non d'onore appo noi, ma d'odio e sdegno
Han gara i sommi di quel secol bruno.
Né facilmente a chi dovuto il regno
Dell'odio sia giudicherebbe alcuno,
Se tu, portento di superbia e pegno
D'ira del ciel, non superassi ognuno,
O secondo Filippo, austriaca pianta,
Di cui Satan maestro ancor si vanta.
Tant'odio quanto è sul tuo capo accolto
De' tuoi pari di tempo e de' nepoti,
Altro mai non portò vivo o sepolto,
O ne' prossimi giorni o ne' remoti.
Tu nominato ogni benigno volto
Innaspri ed ogni cor placido scoti,
Stupendo in ricercar nell'ira umana
La più vivace ed intima fontana.

Dopo te quel grandissimo incorono
Duca d'Alba che quasi emulo ardisce
Contender teco, e il general perdono,
Tutti escludendo, ai Batavi bandisce.
Nobile esempio e salutar, che al trono
De' successori tuoi tanto aggradisce,
A cui d'Olanda il novo sdegno e il tanto
Valor si debbe ed il tuo giogo infranto.
Ma di troppo gran tratto allontanato
Son da Topaia, e là ritorno in fretta,
Dove accolto, o lettori, in sul mercato
Un infinito popolo m'aspetta,
Che un infinito cicalar di stato
Ode o presume udir, loda o rigetta,
E si consiglia o consigliarsi crede,
E fa leggi o di farle ha certa fede.
Chi dir potria le pratiche, i maneggi,
Le discordie, il romor, le fazioni
Che soglion accader quando le greggi
Procedono a sì fatte elezioni,
Per empier qual si sia specie di seggi,
Non che sforniti rifornire i troni?
Tutto ciò fra coloro intervenia,
E da me volentier si passa via.
E la conclusion sola toccando,
Dico che dopo un tenzonare eterno
All'alba ed alle squille, or disputando
Dello stato di fuori, or dell'interno,
Novella monarchia fu per comando
Del popol destinata al lor governo:
Una di quelle che temprate in parte
Son da statuti che si chiaman carte.
Se d'Inghilterra più s'assomigliasse
Allo statuto o costituzione,
Com'oggi il nominiamo, o s'accostasse
A quel di Francia o d'altra nazione,
Con parlamenti o corti alte o pur basse,
Di pubblica o di regia elezione,

Doppio o semplice alfin, come in Ispagna,
Lo statuto de' topi o carta magna,
Da tutto quel che degli antichi ho letto
Dintorno a ciò, raccor non si potria.
Questo solo affermar senza sospetto
D'ignoranza si può né di bugia,
Essere stato il prence allora eletto
Da' topi, e la novella signoria,
Quel che, se in verso non istesse male,
Avrei chiamato costituzionale.
Deputato a regnar fu Rodipane,
Genero al morto re Mangiaprosciutti.
Così quando Priamo alle troiane
Genti e di sua radice i tanti frutti
Mancàr, fuggendo a regioni estrane
Sotto il genero Enea convenner tutti:
Perché di regno alfin sola ci piace
La famiglia real creder capace.
E quella estinta, i prossimi di sangue
E poscia ad uno ad un gli altri parenti
Cerchiam di grado in grado insin che langue
Il regio umor negli ultimi attenenti.
Né questo in pace sol, ma quando esangue
Il regno è omai per aspri trattamenti,
Allor per aspra e sanguinosa via
Ricorre in armi a nova dinastia.
E quando per qualunque altra occorrenza
Mutando stato il pristino disgombra,
Di qualche pianta di real semenza
Sempre s'accoglie desioso all'ombra.
Qual pargoletto che rimasto senza
La gonna che il sostiene e che l'adombra,
Dopo breve ondeggiar tosto col piede,
Gridando, e con la man sopra vi riede.
O come ardita e fervida cavalla
Che di mano al cocchier per gioco uscita,
A gran salti ritorna alla sua stalla,
Dove sferza, e baston forse, l'invita;


O come augello il vol subito avvalla
Dalle altezze negate alla sua vita,
Ed alla fida gabbia ove soggiorna
Dagli anni acerbi, volontario torna.
Re cortese, per altro, amante e buono
Veggo questo in antico esser tenuto,
Memore ognor di quanto appiè del trono
Soggetto infra soggetti era vissuto:
Al popol in comun per lo cui dono,
E non del cielo, al regno era venuto,
Riconoscente; e non de' mali ignaro
Di questo o quel, né di soccorso avaro.
E lo statuto o patto che accettato
Dai cittadini avea con giuramento,
Trovo che incontro allo straniero armato
Difese con sincero intendimento,
Né perché loco gliene fosse dato,
Di restarsene sciolto ebbe talento.
Di questo, poi che la credenza eccede,
Interpongo l'altrui, non la mia fede.





CANTO QUARTO

Maraviglia talor per avventura,
Leggitori onorandi e leggitrici,
Cagionato v'avrà questa lettura.
E come son degli uomini i giudici
Facili per usanza e per natura,
Forse, benché benevoli ed amici,
Più d'un pensiero in mente avrete accolto,
Ch'essere io deggia o menzognero o stolto,
Perché le cose del topesco regno,
Che son per vetustà da noi lontane
Tanto che come appar da più d'un segno,

Agguaglian le antichissime indiane,
I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno,
E l'infime faccende e le sovrane,
Quasi ieri o l'altr'ier fossero state,
Simili a queste nostre ho figurate.
Ma con la maraviglia ogni sospetto
Come una nebbia vi torrà di mente
Il legger, s'anco non avete letto,
Quel che i savi han trovato ultimamente,
Speculando col semplice intelletto
Sopra la sorte dell'umana gente,
Che d'Europa il civil presente stato
Debbe ancor primitivo esser chiamato.
E che quei che selvaggi il volgo appella
Che nei più caldi e nei più freddi liti
Ignudi al sole, al vento, alla procella,
E sol di tetto natural forniti,
Contenti son da poi che la mammella
Lasciàr, d'erbe e di vermi esser nutriti,
Temon l'aure, le frondi, e che disciolta
Dal Sol non caggia la celeste volta;
Non vita naturale e primitiva
Menan, come fin qui furon creduti,
Ma per corruzion sì difettiva,
Da una perfetta civiltà caduti,
Nella qual come in propria ed in nativa
I padri de' lor padri eran vissuti:
Perché stato sì reo, come il selvaggio,
Estimar natural non è da saggio:
Non potendo mai star che la natura,
Che al ben degli animali è sempre intenta,
E più dell'uom che principal fattura
Esser di quella par che si consenta
Da tutti noi, sì povera e sì dura
Vita ove pur pensando ei si sgomenta,
Come propria e richiesta e conformata
Abbia al genere uman determinata.
Né manco sembra che possibil sia

Che lo stato dell'uom vero e perfetto
Sia posto in capo di sì lunga via
Quanta a farsi civile appar costretto
Il gener nostro a misurare in pria,
U' son cent'anni un dì quanto all'effetto:
Sì lento è il suo cammin per quelle strade
Che il conducon dal bosco a civiltade.
Perché ingiusto e crudel sarebbe stato,
Né per modo nessun conveniente,
Che all'infelicità predestinato,
Non per suo vizio o colpa anzi innocente,
Per ordin primo e natural suo fato
Fosse un numero tal d'umana gente,
Quanta nascer convenne, e che morisse
Prima che a civiltà si pervenisse.
Resta che il viver zotico e ferino
Corruzion si creda e non natura,
E che ingiuria facendo al suo destino
Caggia quivi il mortal da grande altura,
Dico dal civil grado, ove il divino
Senno avea di locarlo avuto cura:
Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio,
Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.
Questa conclusion che ancor che bella
Parravvi alquanto inusitata e strana,
Non d'altronde provien se non da quella
Forma di ragionar diritta e sana
Ch'a priori in iscola ancora s'appella,
Appo cui ciascun'altra oggi par vana,
La qual per certo alcun principio pone,
E tutto l'altro a quel piega e compone.
Per certo si suppon che intenta sia
Natura sempre al ben degli animali,
E che gli ami di cor come la pia
Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali:
E vedendosi al tutto acerba e ria
La vita esser che al bosco hanno i mortali,
Per forza si conchiude in buon latino

Che la città fu pria del cittadino.
Se libere le menti e preparate
Fossero a ciò che i fatti e la ragione
Sapessero insegnar, non inchinate
A questa più che a quella opinione,
Se natura chiamar d'ogni pietate
E di qual s'è cortese affezione
Sapesser priva, e de' suoi figli antica
E capital carnefice e nemica;
O se piuttosto ad ogni fin rivolta,
Che al nostro che diciamo o bene o male;
E confessar che de' suoi fini è tolta
La vista al riguardar nostro mortale,
Anzi il saper se non da fini sciolta
Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale;
Diremmo ancor con ciascun'altra etade
Che il cittadin fu pria della cittade.
Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che l'uomo è risoluto
Di creder circa a qualsivoglia parte,
Come meglio alla fin l'è conceduto,
Le ragioni assegnando empie le carte
O le orecchie talor per instituto,
Con più d'ingegno o men, giusta il potere
Che il maestro o l'autor si trova avere.
Quella filosofia dico che impera
Nel secol nostro senza guerra alcuna,
E che con guerra più o men leggera
Ebbe negli altri non minor fortuna,
Fuor nel prossimo a questo, ove se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo
Onde tosto inchinar l'è forza al basso.
In quell'età, d'un'aspra guerra in onta,
Altra filosofia regnar fu vista,
A cui dinanzi valorosa e pronta
L'età nostra arretrossi appena avvista
Di ciò che più le spiace e che più monta,

Esser quella in sostanza amara e trista;
Non che i principii in lei né le premesse
Mostrar false da se ben ben sapesse.
Ma false o vere, ma disformi o belle
Esser queste si fosse o no mostrato,
Le conseguenze lor non eran quelle
Che l'uom d'aver per ferme ha decretato,
E che per ferme avrà fin che le stelle
D'orto in occaso andran pel cerchio usato:
Perché tal fede in tali o veri o sogni
Per sua quiete par che gli bisogni.
Ed ancor più, perché da lunga pezza
È la sua mente a cotal fede usata,
Ed ogni fede a che sia quella avvezza
Prodotta par da coscienza innata:
Che come suol con grande agevolezza
l'usanza con natura esser cangiata,
Così vien facilmente alle persone
Presa l'usanza lor per la ragione.
Ed imparar cred'io che le più volte
Altro non sia, se ben vi si guardasse,
Che un avvedersi di credenze stolte
Che per lungo portar l'alma contrasse,
E del fanciullo racquistar con molte
Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse;
Il qual già più di noi non sa né vede,
Ma di veder né di saper non crede.
Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero
Assurdo giudichiam tosto in effetto,
Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero
Esser potrebbe al fral nostro intelletto:
E mistero gridiam, perch'a mistero
Riesce ancor qualunque uman concetto,
Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello
Vogliam foggiarci come a noi par bello.
Or, leggitori miei, scendendo al punto
Al qual per lunga e tortuosa via
Sempre pure intendendo, ecco son giunto,

Potete ormai veder che non per mia
Frode o sciocchezza avvien che tali appunto
Si pingan nella vostra fantasia
De' topi gli antichissimi parenti
Quali i popoli son che abbiam presenti:
Ma procede da ciò, che il nostro stato
Antico è veramente e primitivo
Non degli uomini sol, ma in ogni lato
D'ogni animal che in aria o in terra è vivo.
Perché ingiusto saria che condannato
Fosse di sua natura a un viver privo
Quasi d'ogni contento e pien di mali
L'interminato stuol degli animali.
Per tanto in civiltà, data secondo
Il grado naturale a ciascheduna,
Tutte le specie lor vennero al mondo,
E tutte poscia da cotal fortuna
Per lor proprio fallir caddero in fondo,
E infelici son or; né causa alcuna
Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo
Il qual bene al bisogno avea provvisto.
E se colma d'angoscia e di paura
Del topolin la vita ci apparisce,
Il qual mirando mai non s'assicura,
Fugge e per ogni crollo inorridisce,
Corruzion si creda e non natura
La miseria che il topo oggi patisce,
A cui forse il menàr quei casi in parte
Che seguitando narran queste carte.
E la dispersion della sua schiatta
Ebbe forse d'allor cominciamento,
La qual raminga in su la terra è fatta.
Perduto il primo e proprio alloggiamento.
Come il popol giudeo, che mal s'adatta
Esule, sparso, a cento sedi, e cento,
E di Solima il tempio e le campagne
Di Palestina si rammenta e piagne.
Ma il novello signor giurato ch'ebbe

Servar esso e gli eredi eterno il patto,
Incoronato fu come si debbe,
E il manto si vestì di pel di gatto,
E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe,
Nella cui punta il mondo era ritratto,
Perché credeva allor del mondo intero
La specie soricina aver l'impero.
Dato alla plebe fu cacio con polta,
E vin vecchio gittàr molte fontane,
Gridando ella per tutto allegra e folta
Viva la carta e viva Rodipane,
Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta
Carta per tutto ripeteva e pane,
Cose al governo delle culte genti,
Chi le sa ministrar, sufficienti.
Re de' topi costui con nuovo nome,
O suo trovato fosse o de' soggetti.
S'intitolò, non di Topaia, come
Propriamente in addietro s'eran detti
I portatori di quell'auree some.
Cosa molto a notar, che negli effetti
Differisce d'assai, benché non paia,
S'alcun sia re de' topi o di Topaia.
La noto ancor, però che facilmente
Nella cronologia non poco errato
Potrebbe andar chi non ponesse mente
A questo metafisico trovato,
E creder che costui primieramente
Rodipan fra quei re fosse nomato,
Quando un Rodipan terzo avanti a questo
Da libri e da monete è manifesto,
Primo fra' re de' topi, ma contando
Quei di Topaia ancor, s'io bene estimo,
Fu quarto Rodipan. Questo ignorando
Può la cronologia da sommo ad imo
Andar sossopra. A ciò dunque ovviando
Notate che costui Rodipan primo,
E il notin gli eruditi e i filotopi,

Fra i re de' topi fu, non fra i re topi.
Non era il festeggiar finito ancora
Quando giunse dal campo il messaggero,
Non aspettato ormai, che la dimora
Sua lunga aveane sgombro ogni pensiero;
Né desiato più, che insino allora
Soleano i sogni più gradir che il vero.
Sogni eran gli ozi brevi e l'allegria,
Ver ciò che il conte a rapportar venia.
Immantinente poi che divulgato
Fu per fama in Topaia il suo ritorno,
Interrotto il concorso ed acchetato
Il giulivo romor fu d'ogni intorno.
Tristo annunzio parea quel che bramato
E sospirato avean pur l'altro giorno,
Perché già per obblio fatte sicure
Destava l'alme ai dubbi ed alle cure.
Prestamente il legato a Rodipane
L'umor del granchio e l'aspre leggi espose,
E nel maggior consiglio la dimane
Per mandato del re l'affar propose.
Parver l'esposte leggi inique e strane,
Fatti sopra vi fur comenti e chiose,
Alfin per pace aver dentro e di fuore
A tutto consentir parve il migliore.
Tornò nel campo ai rigidi contratti
Il conte con famigli e con arnesi,
E l'accordo fermò secondo i patti
Che già per le mie rime avete intesi.
Soscriver non sapea, né legger gli atti
Il granchio, arti discare a' suoi paesi;
Ma lesse e confermò con la sua mano
Un ranocchio che allor gli era scrivano.
Ratto uno stuol di trentamila lanzi
Ver Topaia lietissimo si mosse,
A doppie paghe e più che doppi pranzi,
Benché rato l'accordo ancor non fosse,
E nella terra entrò, dietro e dinanzi

Schernito per le vie con le più grosse
Beffe che immaginar sapea ciascuno,
Non s'avvedendo quelli in modo alcuno.
Nel superbo castel furo introdotti,
Dove l'insegna lor piantata, e sciolta,
Poser mano a votar paiuoli e botti,
E sperar pace i topi un'altra volta.
Lieti i giorni tornàr, liete le notti,
Ch'ambo sovente illuminar con molta
Spesa fece il comun per l'allegria
Dell'acquistata nuova monarchia.
Ma quel che più rileva, a far lo stato
Prospero quanto più far si potesse
Del popolo in comune e del privato
Fama è che cordialmente il re si desse.
Il qual subito poi che ritornato
Fu Leccafondi, consiglier lo elesse,
Ministro dell'interno e principale
Strumento dell'impero in generale.
Questi a rimover l'ombra ed all'aumento
Di civiltà rivolse ogni sua cura,
Sapendo che con altro fondamento
Prosperità di regni in piè non dura,
E che civile e saggia, il suo contento
La plebe stessa ed il suo ben procura
Meglio d'ogni altro, né favor né dono,
Fuor ch'esser franca, l'è mestier dal trono.
E bramò che sapesse il popol tutto
Leggere e computar per disciplina
Stimando ciò, cred'io, maggior costrutto,
Che non d'Enrico quarto la gallina.
Quindi nella città fe' da per tutto
Tante scole ordinar, che la mattina
Piazze, portici e vie per molti dì
Non d'altro risonàr che d'a b c.
Crescer più d'una cattedra o lettura
Anco gli piacque a ciaschedun liceo,
Con più dote che mai per avventura

Non ebbe professor benché baggeo.
Dritto del topo, dritto di natura,
Ed ogni dritto antegiustinianeo,
E fuvvi col civil, col criminale
Esposto il dritto costituzionale.
E già per la fidanza ond'è cagione
All'alme un convenevol reggimento,
D'industria a rifiorir la nazione
Cominciava con presto accrescimento.
Compagnie di ricchissime persone
Cercar da grandi spese emolumento,
D'orti, bagni, ginnasi e ciascun giorno
Vedevi il loco novamente adorno.
Vendite nuove ed utili officine
Similmente ogni dì si vedean porre,
Merci del loco e merci pellegrine
In copia grande ai passeggeri esporre,
Stranie commodità far cittadine,
Nuovi teatri il popolo raccorre,
Qui strade a raccorciar la plebe intenta,
Là d'un palagio a por le fondamenta.
Concorde intanto la città con bianchi
Voti il convegno ricevuto avea,
E che di quello dal signor de' granchi
Fosse fatto altrettanto s'attendea.
Andando e ritornando eran già stanchi
Più messi, e nulla ancor si conchiudea,
Tanto che in fin dei principali in petto
Nascea, benché confuso, alcun sospetto.
Senzacapo re granchio il più superbo
De' prenci di quel tempo era tenuto,
Nemico ostinatissimo ed acerbo
Del nome sol di carta o di statuto,
Che il poter ch'era in lui senza riserbo
Partir con Giove indegno avria creduto.
Se carta alcun sognò dentro il suo regno
Egli in punirlo esercitò l'ingegno.
E cura avea che veramente fosse

Con perfetto rigor la pena inflitta,
Né dalle genti per pietà commosse
Qualche parte di lei fosse relitta,
E il numero e il tenor delle percosse
Ricordava e la verga a ciò prescritta.
Buon sonator per altro anzi divino
La corte il dichiarò di violino.
Questi poiché con involute e vaghe
Risposte ebbe gran tempo ascoso il vero,
Al capitan di quei che doppie paghe
Già da' topi esigean senza mistero
Ammessi senza pugna e senza piaghe,
Mandò, quando gli parve, un suo corriero.
Avea quel capitan fra i parlatori
Della gente de' granchi i primi onori.
Forte nei detti sì che per la forte
Loquela il dimandar Boccaferrata.
Il qual venuto alle reali porte
Chiese udienza insolita e privata.
Ed intromesso, fe', come di corte,
Riverenza per granchio assai garbata:
Poi disse quel che riposato alquanto
Racconterò, lettor, nell'altro canto.




CANTO QUINTO

Signor, disse, che tale esser chiamato
Dei pel sangue che porti entro le vene,
Il qual certo sappiam che derivato
Da sorgente real ne' tuoi perviene
E perché di sposar fosti degnato,
Colei che sola in vita ancor mantiene,
Caduti tutti gli altri augusti frutti,
La famiglia del re Mangiaprosciutti;
Degno quant'altro alcun di regio trono

T'estima il signor mio per ogni punto,
Ma il sentiero, a dir ver, crede non buono
Per cui lo scettro ad impugnar sei giunto.
Tai che a poter ben darlo atti non sono,
T'hanno ai ben meritati onori assunto.
Ma re fare o disfar, come ben sai,
Altro ch'a' re non s'appartenne mai.
Se vedovo per morte il seggio resta
Che legittimamente era tenuto,
Né la succession sia manifesta
Per discendenza o regio altro statuto,
Né men per testamento in quella o in questa
Forma dal morto re sia provveduto,
Spontaneamente al derelitto regno
S'adopran gli altri re di por sostegno.
O un successore è dato a quella sede
Che sia da lor concordemente eletto,
O partono essi re pieni di fede
L'orbo stato fra lor con pari affetto,
O chi primo il può far primo succede
Per lo più chi più forte è con effetto,
Cause genealogiche allegando,
E per lo più con l'arme autenticando.
Re novo, di lor man pesato e scosso,
Dare i sudditi a se mai non fur visti,
Né fora assurdo al mio parer men grosso
Che se qualche lavor de' nostri artisti,
Come orologio da portare indosso
O cosa tal che per danar s'acquisti,
Il compratore elegger si vedesse,
Che lei portare e posseder potesse.
Negli scettri non han ragione o voto
I popoli nessuno o ne' diademi,
Ch'essi non fer, ma Dio, siccome è noto.
Anzi s'anco talvolta in casi estremi
Resta il soglio deserto non che vòto
Per popolari fremiti e per semi
D'ire o per non so qual malinconia,

Onde spenta riman la monarchia,
Al popol che di lei fu distruttore
Cercan rimedio ancor l'altre corone,
E legittimo far quel mal umore
Quasi e rettificar l'intenzione
Destinato da lor novo signore
Dando a quel con le triste o con le buone,
Né sopportan giammai che da se stesso
Costituirsi un re gli sia conesso.
Che se pur fu da Brancaforte ingiunto
A' tuoi di provveder d'un re novello,
Non volea questo dir ch'eletto a punto
Fosse il creato re questo né quello,
Ma non altro dar lor se non l'assunto
Che i più capaci del real mantello
Proponessero a' piè de' potentati,
Che gli avriano a bell'agio esaminati.
Or dunque avendo alla virtù rispetto,
Signor, che manifesta in te dimora,
E sopra tutto a quei che prima ho detto
Pregi onde teco il gener tuo s'onora,
Non della elezion solo il difetto
Supplire ed emendar, ma vuole ancora
La maestà del mio padrone un segno
Darti dell'amor suo forse più degno.
Perché non pur con suo real diploma
Che valevol fia sempre ancor che tardo,
E di color che collegati ei noma
Che il daran prontamente a suo riguardo,
Riponendoti il serto in su la chioma
Legittimo farà quel ch'è bastardo,
Che legittimità, cosa volante,
Vien dal cielo o vi riede in un istante:
Ma il poco onesto e non portabil patto
Che il popolo a ricever ti costrinse,
A cui ben vede il mio signor che un atto
Discorde assai dal tuo voler t'avvinse,
Sconcio a dir vero e tal che quasi affatto

La maestà di questo trono estinse,
A potere annullar de' topi in onta
Compagnia t'offerisce utile e pronta.
Non solo i nostri trentamila forti
Che nel suo nome tengono il castello
Alla bell'opra ti saran consorti
Di render lustro al tuo real cappello,
Ma cinquecentomila che ne' porti
De' ranocchi hanno stanza, io vo dir quello
Esercito già noto a voi che sotto
Brancaforte in quei lochi or s'è ridotto,
E che per volontà del signor nostro
Così fermato in prossime contrade
Aspetta per veder nel regno vostro
Che movimento o cosa nova accade,
Tosto che un cenno tuo gli sarà mostro,
Il cammin prenderà della cittade,
Dove i topi o ravvisti o con lor danno
A servir prestamente torneranno.
Fatto questo, il diploma a te spedito
Sarà, di quel tenor che si conviene.
E un patto fra' due re fia stabilito
Quale ambedue giudicherete bene.
Ma troppo oggi, saria diminuito
L'onor che fra' re tutti il mio ritiene
Se un accordo da lui si confermasse
Che con suddita plebe altri contrasse.
Né certo ei sosterrà che d'aver fatto
Onta agli scettri il popol tuo si vanti,
E che che avvenga, il disdicevol patto
Che tutti offender sembra i dominanti
Combatterà finché sarà disfatto,
Tornando la città qual era innanti.
Questa presso che ostil conclusione
Ebbe del capitan l'orazione.
Rispose Rodipan, che udir solea
Che stil de' granchi era cangiare aspetto
Secondo i tempi, e che di ciò vedea

Chiara testimonianza or per effetto,
Essendo certo che richiesto avea
Senzacapo che un re subito eletto
Fosse da' topi allor che avea temenza
D'altra più scandalosa esperienza.
Che stato franco avessero anteposto
A monarchia di qualsivoglia sorte,
E che l'esempio loro avesse posto
Desiderio in altrui d'un'ugual sorte,
La qual sospizion come più tosto
S'avea tolto dal cor, di Brancaforte
Condannava i trattati, e i chiari detti
Torceva a inopinabili concetti.
Privo l'accordo del real suggello
Né re de' topi alcun riconosciuto
A se poco gravar, ma che il castello
Con maraviglia grande avria veduto
Da genti granchie ritener, che in quello
Entrar per solo accordo avean potuto,
Se non sapesse ai popoli presenti
Esser negati i dritti delle genti.
Anzi i dritti comuni e di natura:
Perché frode, perfidia e qual si sia
Pretta solenne autentica impostura
È cosa verso lor lecita e pia,
E quelli soppiantar può con sicura
Mente ogni estrania o patria monarchia,
Che popolo e nessun tornan tutt'uno,
Se intier l'ammazzi, non ammazzi alcuno.
Quanto al proposto affar, che interrogato
Capo per capo avria la nazione,
Non essendo in sua man circa lo stato
Prender da se deliberazione,
E che quel che da lei fosse ordinato
Faria come per propria elezione,
Caro avendo osservar, poi che giurollo,
Lo statuto. E ciò detto, accommiatollo.
L'altra mattina al general consiglio

Il tutto riferì personalmente,
E la grandezza del comun periglio
Espose e ragionò distesamente,
E trovar qualche via, qualche consiglio,
Qualche provvision conveniente
Spesse volte inculcò, quasi sapesse
Egli una via, ma dir non la volesse.
Arse d'ira ogni petto, arse ogni sguardo,
E come per l'aperta ingiuria suole
Che negl'imi precordii anche il codardo
Fere là dove certo il ferir dole,
Parve ancora al più vile esser gagliardo
Vera vendetta a far non di parole.
Guerra scelta da tutti e risoluto
Fu da tutti morir per lo statuto.
Commendò Rodipan questo concorde
Voler del popol suo con molte lodi,
Morte imprecando a quelle bestie sorde
Dell'intelletto e pur destre alle frodi;
Purché, disse, nessun da se discorde
Segua il parlar, non poi gli atti de' prodi:
E soldatesche ed armi e l'altre cose
Spettanti a guerra ad apprestar si pose.
Di suo vero od al ver più somigliante
Sentir, del quale ogni scrittore è muto,
Dirovvi il parer mio da mal pensante
Qual da non molto in qua son divenuto,
Che per indole prima io rette e sante
Le volontà gran tempo avea creduto,
Né d'appormi così m'accadde mai,
Né di fallar poi che il contrario usai.
Dico che Rodipan di porre sciolta
La causa sua dalla comun de' topi
In man de' granchi, avea per cosa stolta,
Veduto, si può dir, con gli occhi propi
Tanta perfidia in quelle genti accolta,
Quanta sparsa è dagl'Indi agli Etiopi,
E potendo pensar che dopo il patto


Similmente lui stesso avrian disfatto.
Ma desiato avria che lo spavento
Della guerra de' granchi avesse indotto
Il popolo a volere esser contento
Che il seggio dato a lui non fosse rotto,
Sì che spargendo volontario al vento
La fragil carta, senza più far motto,
Fosse stato a veder se mai piacesse
Al re granchio adempir le sue promesse.
Così re senza guerra e senza patto
Forse trovato in breve ei si saria,
Da doppio impaccio sciolto in un sol tratto
E radicata ben la dinastia,
Né questo per alcun suo tristo fatto,
Per tradimento o per baratteria,
Né violato avendo in alcun lato
Il giuramento alla città giurato.
Queste cose, cred'io, tra se volgendo
Meno eroica la plebe avria voluta.
Per congetture mie queste vi vendo,
Che in ciò la storia, come ho detto, è muta.
Se vi paresser frasche, non intendo
Tor fama alla virtù sua conosciuta.
Visto il voler de' suoi, per lo migliore
La guerra apparecchiò con grande ardore.
Guerra tonar per tutte le concioni
Udito avreste tutti gli oratori,
Leonidi, Temistocli e Cimoni,
Muzi Scevola, Fabi dittatori,
Deci, Aristidi, Codri e Scipioni,
E somiglianti eroi de' lor maggiori
Iterar ne' consigli e tutto il giorno
Per le bocche del volgo andare attorno.
Guerra sonar canzoni e canzoncine
Che il popolo a cantar prendea diletto,
Guerra ripeter tutte le officine
Ciascuna al modo suo col proprio effetto.
Lampeggiavan per tutte le fucine

Lancioni, armi del capo, armi del petto,
E sonore minacce in tutti i canti
S'udiano, e d'amor patrio ardori e vanti.
Primo fatto di guerra, a tal fatica
Movendo Rubatocchi i cittadini,
Fu di torri e steccati alla nemica
Gente su del castel tutti i confini
Chiuder donde colei giù dall'aprica
Vetta precipitar sopra i vicini
Poteva ad ogn'istante, e nella terra
Improvvisa portar tempesta e guerra.
Poi dubitato fu se al maggior nerbo
De' granchi che verrebbe ormai di fuore
Come torrente rapido e superbo
Opporsi a mezza via fosse il migliore,
Ovver nella città con buon riserbo
Schernir, chiuse le porte, il lor furore.
Questo ai vecchi piacea, ma parve quello
Ai damerini della patria bello.
Come Aiace quel dì che di tenebre
Cinte da Giove fur le greche schiere,
Che di servar Patroclo alla funebre
Cura fean battagliando ogni potere,
Al nume supplicò che alle palpebre
Dei figli degli Achei desse il vedere,
Riconducesse il dì, poi se volesse
Nell'aperto splendor li distruggesse;
Così quei prodi il popolar consiglio
Pregàr che la virtù delle lor destre
Risplender manifesta ad ogni ciglio
Potesse in parte lucida e campestre,
Né celato restasse il lor periglio
Nel buio sen di quella grotta alpestre.
Vinse l'alta sentenza, e per partito
Fuori il granchio affrontar fu stabilito.
E già dai regni a rimembrar beati
Degli amici ranocchi che per forza
Gli aveano insino allor bene albergati

Movevan quei dalla petrosa scorza
Brancaforte co' suoi fidi soldati,
Per quel voler ch'ogni volere sforza
Del lor padrone e re che di gir tosto
Sopra Topaia aveva al duce imposto.
Dall'altra parte orrenda ne' sembianti
Da Topaia movea la cittadina
Falange che di numero di fanti
A un milione e mezzo era vicina.
Serse in Europa non passò con tanti
Quando varcata a piè fu la marina.
Coperto era sì lunge ogni sentiero
Che la veduta si perdea nel nero.
Venuti erano al loco ove diè fine
Alla fuga degli altri il Miratondo,
Loco per praticelli e per colline
E per quiete amabile e giocondo.
Era il tempo che l'ore mattutine
Cedono al mezzodì le vie del mondo,
Quando assai di lontan parve rimpetto
All'esercito alzarsi un nugoletto.
Un nugoletto il qual di mano in mano
Con prestezza mirabile crescea
Tanto che tutto ricoprire il piano
Dover fra poco e intenebrar parea,
Come nebbia talor cui di lontano
Fiume o palude in bassa valle crea,
Che per soffio procede e la sua notte
Campi e villaggi a mano a mano inghiotte.
Conobber facilmente i principali
Quel di che il bianco nugolo era segno,
Che dai passi nascea degli animali
Che venieno avversari al misto regno.
Però tempo ben parve ai generali
Di mostrar la virtù del loro ingegno,
E qui fermato il piè, le ardite schiere
A battaglia ordinàr con gran sapere.
Al lago che di sopra io ricordai,

Ch'or limpido e brillando al chiaro giorno
Spargea del Sol meridiano i rai,
Appoggiàr delle squadre il destro corno,
L'altro al poggio che innanzi anco narrai
Alto ed eretto, e quanti erano intorno
Lochi angusti e boscosi ed eminenti
Tutti fero occupar dalle lor genti.
Già per mezzo all'instabil polverio
Si discernea de' granchi il popol duro,
Che quetamente e senza romorio
Nella sua gravita venia sicuro.
Alzi qui la materia il canto mio
E chiaro il renda se fu prima oscuro,
Qui volentieri invocherei la musa
Se non che l'invocarla or più non s'usa.
Eran le due falangi a fronte a fronte
Già dispiegate ed a pugnar vicine,
Quando da tutto il pian, da tutto il monte
Diersi a fuggir le genti soricine.
Come non so, ma né ruscel né fonte
Balza né selva al corso lor diè fine.
Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi
Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.
Fuggiro al par del vento, al par del lampo
Fin dove narra la mia storia appresso.
Solo di tutti in sul deserto campo
Rubatocchi restò come cipresso
Diritto, immoto, di cercar suo scampo
Non estimando a cittadin concesso
Dopo l'atto de' suoi, dopo lo scorno
Di che principio ai topi era quel giorno.
In lui rivolta la nemica gente
Sentì del braccio suo l'erculea possa.
A salvarla da quel non fu possente
La crosta ancor che dura ancor che grossa.
Spezzavala cadendo ogni fendente
Di quella spada, e scricchiolar fea l'ossa,
E troncava le branche e di mal viva

E di gelida turba il suol copriva.
Così pugnando sol contro infiniti
Durò finché il veder non venne manco.
Poi che il Sol fu disceso ad altri liti,
Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,
E di punte acerbissime feriti
E laceri in più parti il petto e il fianco,
Lo scudo ove una selva orrida e fitta
D'aste e d'armi diverse era confitta,
Regger più non potendo, ove più folti
Gl'inimici sentia, scagliò lontano.
Storpiati e pesti ne restaron molti,
Altri schiacciati insucidaro il piano.
Poscia gli estremi spiriti raccolti,
Pugnando mai non riposò la mano
Finché densato della notte il velo,
Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: né da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda.
Ahi ma dove sei tu? sognata o finta
Sempre? vera nessun giammai ti vide?
O fosti già coi topi a un tempo estinta,
Né più fra noi la tua beltà sorride?
Ahi se d'allor non fosti invan dipinta,
Né con Teseo peristi o con Alcide,
Certo d'allora in qua fu ciascun giorno
Più raro il tuo sorriso e meno adorno.


CANTO SESTO

Meta al fuggir le inviolate schiere
Di Topaia ingombràr le quattro porte.
Non che ferir, potute anco vedere
Non ben le avea de' granchi il popol forte.
Cesar che vide e vinse, al mio parere,
Men formidabil fu di Brancaforte,
Al qual senza veder fu co' suoi fanti
Agevole a fugar tre volte tanti.
Tornata l'oste a' babbi intera e sana,
Se a qualcuno il fuggir non fu mortale,
Chiuse le porte fur della lor tana
Con diligenza alla paura uguale.
E per entrarvi lungamente vana
Stata ogni opra saria d'ogni animale,
Sì che molti anni in questo avria consunto
Brancaforte che là tosto fu giunto,
Se non era che quei che per nefando
Inganno del castello eran signori,
E ch'or più faci al vento sollevando
Sedean lassù nell'alto esploratori,
Visto il popolo attorno ir trepitando
E dentro ritornar quelli di fuori,
Indovinàr quel ch'era, e fatti arditi
I serragli sforzar mal custoditi.
E con sangue e terror corsa la terra
Aprir le porte alla compagna gente,
Che qual tigre dal carcer si disserra,
O da ramo si scaglia atro serpente,
Precipitaron dentro, e senza guerra
Tutto il loco ebber pieno immantinente.
Il rubare, il guastar d'una nemica
Vincitrice canaglia il cor vi dica.
Più giorni a militar forma d'impero
L'acquistata città fu sottoposta,
Brancaforte imperando, anzi nel vero
Quel ranocchin ch'egli avea seco a posta

A ciò che l'alfabetico mistero
Gli rivelasse in parte i dì di posta,
E sempre che bisogno era dell'arte
D'intendere o parlar per via di carte.
Tosto ogni atto, ogn'indizio, insegna o motto
Di mista monarchia fu sparso al vento,
Raso, abbattuto, trasformato o rotto.
Chi statuto nomava o parlamento
In carcere dai lanzi era condotto,
Che del parlar de' topi un solo accento
Più là non intendendo, in tal famiglia
Di parole eran dotti a maraviglia.
Leccafondi che noto era per vero
Amor di patria e del civil progresso,
Non sol privato fu del ministero
E del poter che il re gli avea concesso,
Ma dalla corte e dai maneggi intero
Bando sostenne per volere espresso
Di Senzacapo, e i giorni e le stagioni
A passar cominciò fra gli spioni.
Rodipan mi cred'io che volentieri
Precipitato i granchi avrian dal trono.
Ma trovar non potendo di leggeri
Chi per sangue a regnar fosse sì buono,
Spesi d'intorno a ciò molti pensieri,
Parve al re vincitor dargli perdono,
E re chiamarlo senza altro contratto,
Se per dritto non era almen per fatto.
Ma con nome e color d'ambasciatore
Inviogli il baron Camminatorto,
Faccendier grande e gran raggiratore
E in ogni opra di re dotto ed accorto,
Che per arte e per forza ebbe valore
Di prestamente far che per conforto
Suo si reggesse il regno, e ramo o foglia
Non si movesse in quel contro sua voglia.
Chiuso per suo comando il gabinetto,
Chiuse le scole fur che stabilito

Aveva il conte, come sopra ho detto,
E d'esser ne' caratteri erudito
Fu, com'ei volle, al popolo interdetto,
Se di licenza special munito
A ciò non fosse ognun: perché i re granchi
D'oppugnar l'abbiccì non fur mai stanchi.
Quindi i reami lor veracemente
Fur del mondo di sopra i regni bui.
Ed era ben ragion, che chiaramente
Dovean veder che la superbia in cui
La lor sopra ogni casa era eminente
Non altro avea che l'ignoranza altrui
Dove covar: che dal disprezzo, sgombra
Che fosse questa, non aveano altr'ombra.
Lascio molti e molti altri ordinamenti
Del saggio nunzio, e sol dirò che segno
Della bontà de' suoi provvedimenti
Fu l'industria languir per tutto il regno,
Crescer le usure, impoverir le genti,
Nascondersi dal Sol qualunque ingegno,
Sciocchi o ribaldi conosciuti e chiari
Cercar soli e trattar civili affari.
Il popolo avvilito e pien di spie
Di costumi ogni dì farsi peggiore,
Ricorrere agl'inganni, alle bugie,
Sfrontato divenendo e traditore,
Mal sicure da' ladri esser le vie
Per tutta la città non che di fuore;
L'or fuggendo e la fede entrar le liti,
Ed ir grassi i forensi ed infiniti.
Subito poi che l'orator fu giunto
Cui de' topi il governo era commesso
Dal re de' granchi, a Brancaforte ingiunto
Fu di partir co' suoi. Ma dallo stesso
Cresciuto insino a centomila appunto
Fu lo stuolo in castel male intromesso,
Il resto a trionfar di topi e rane
Tornò con Brancaforte alle sue tane.

Allor nacque fra' topi una follia
Degna di riso più che di pietade,
Una setta che andava e che venia
Congiurando a grand'agio per le strade,
Ragionando con forza e leggiadria
D'amor patrio, d'onor, di libertade,
Fermo ciascun, se si venisse all'atto,
Di fuggir come dianzi avevan fatto,
E certo quanto a se che pur col dito
Lanzi ei non toccheria né con la coda.
Pure a futuri eccidi amaro invito
O ricevere o dar con faccia soda
Massime all'età verde era gradito,
Perché di congiurar correa la moda,
E disegnar pericoli e sconquasso
Della città serviva lor di spasso.
Il pelame del muso e le basette
Nutrian folte e prolisse oltre misura,
Sperando, perché il pelo ardir promette,
D'avere, almeno ai topi, a far paura.
Pensosi in su i caffè, con le gazzette
Fra man, parlando della lor congiura,
Mostraronsi ogni giorno, e poi le sere
Cantando arie sospette ivano a schiere.
Al tutto si ridea Camminatorto
Di sì fatte commedie, e volentieri
Ai topi permettea questo conforto,
Che con saputa sua senza misteri,
Lui decretando or preso, or esser morto,
Gli congiurasser contro i lustri interi:
Ma non sostenne poi che capo e fonte
Di queste trame divenisse il conte.
Al quale i giovinastri andando in frotte
Offrian se per la patria a morir presti;
E disgombro giammai né dì né notte
Non era il tetto suo d'alcun di questi.
Egli, perché le genti ancorché dotte
E sagge e d'opre e di voleri onesti,

Di comandare altrui sempre son vaghe,
E più se in tempo alcun di ciò fur paghe;
Anche dal patrio nome e da quel vero
Amor sospinto ond'ei fu sempre specchio,
Inducevasi a dar, se non intero
Il sentimento, almen grato l'orecchio
Al dolce suon che lui nel ministero,
E che la patria ritornar nel vecchio
Onore e grado si venia vantando,
E con la speme il cor solleticando.
L'ambasciador, quantunque delle pie
Voglie del conte ancor poco temesse,
Pur com'era mestier che molte spie
Con buone paghe intorno gli tenesse,
Rivolger quei danari ad altre vie,
E torsi quella noia un giorno elesse,
E gentilmente e in forma di consiglio
Costrinse il conte a girsene in esiglio.
Peregrin per la terra il chiaro topo
Vide popoli assai, stati e costumi;
A quante bestie narrò poscia Esopo
Si condusse varcando or mari or fiumi,
Con gli occhi intenti sempre ad uno scopo
D'augumentar come si dice i lumi
Alle sue genti, e se gli fosse dato
Trovar soccorso al lor dolente stato.
Com'esule e com'un ch'era discaro
Al re granchio, al baron Camminatorto,
E ch'alfabeto e popolo avea caro,
Molte corti il guardàr con occhio torto.
Più d'un altro con lui fu meno avaro,
Più d'un ministro e re largo conforto
Gli porse di promesse, ed ei contento
Il cammin proseguia con questo vento.
Una notte d'autunno, andando ei molto
Di notte, come i topi han per costume,
Un temporal sopra il suo capo accolto
Oscurò delle stelle ogni barlume,

Gelato un nembo in turbine convolto
Colmò le piagge d'arenose spume,
Ed ai campi adeguò così la via,
Che seguirla impossibil divenia.
Il vento con furor precipitando
Schiantava i rami e gli arbori svellea,
E tratto tratto il fulmine piombando
Vicine rupi e querce scoscendea
Con altissimo suon, cui rimbombando
Ogni giogo, ogni valle rispondea,
E con tale un fulgor che tutto il loco
Parea subitamente empier di foco.
Non valse al conte aver la vista acuta,
E nel buio veder le cose appunto,
Che la strada assai presto ebbe perduta,
E dai seguaci si trovò disgiunto.
Per la campagna un lago or divenuta
Notava o sdrucciolava a ciascun punto.
Più volte d'affogar corse periglio,
E levò supplicando all'etra il ciglio.
Il vento ad or ad or mutando lato
Più volte indietro e innanzi il risospinse,
Talora il capovolse e nel gelato
Umor la coda e il dorso e il crin gli tinse,
E più volte a dir ver quell'apparato
Di tremende minacce il cor gli strinse,
Che di rado il timor, ma lo spavento
Vince spesso de' saggi il sentimento.
Cani pecore e buoi che sparsi al piano
O su pe' monti si trovàr di fuore,
Dalle correnti subite lontano
Ruzzolando fur tratti a gran furore
Insino ai fiumi, insino all'oceano,
Orbo lasciando il povero pastore.
Fortuna e delle membra il picciol pondo
Scamparo il conte dal rotare al fondo.
Già ristato era il nembo, ed alle oscure
Nubi affacciarsi or l'una or l'altra stella

Quasi timide ancora e mal sicure
Ed umide parean dalla procella.
Ma sommerse le valli e le pianure
Erano intorno, e come navicella
Vota fra l'onde, senza alcuna via
Il topo or qua or là notando gia.
E in suo cor sottentrata allo spavento
Era l'angoscia del presente stato.
Senza de' lochi aver conoscimento,
Solo e già stanco, e tutto era bagnato.
Messo s'era da borea un picciol vento
Freddo, di punte e di coltella armato,
Che dovunque, spirando, il percotea,
Pungere al vivo e cincischiar parea.
Sì che se alcun forame o s'alcun tetto
Non ritrovasse a fuggir l'acqua e il gelo,
E la notte passar senza ricetto
Dovesse, che salita a mezzo il cielo
Non era ancor, sentiva egli in effetto
Che innanzi l'alba lascerebbe il pelo.
Ciò pensando, e mutando ognor cammino,
Vide molto di lungi un lumicino,
Che tra le siepi e gli arbori stillanti
Or gli appariva ed or parea fuggito.
Ma s'accorse egli ben passando avanti
Che immobile era quello e stabilito,
E di propor quel segno ai passi erranti,
O piuttosto al notar, prese partito:
E così fatto più d'un miglio a guazzo,
Si ritrovò dinanzi ad un palazzo.
Grande era questo e bello a dismisura,
Con logge intorno intorno e con veroni,
Davanti al qual s'udian per l'aria oscura
Piover due fonti con perenni suoni.
Vide il topo la mole e la figura
Questa aver che dell'uomo han le magioni.
Dal lume il qual d'una finestra uscia
Ch'abitata ella fosse anco apparia.

Però di fuor con cura e con fatica
Cercolla il topo stanco in ogni canto,
Per veder di trovar nova od antica
Fessura ov'ei posar potesse alquanto,
Non molto essendo alla sua specie amica
La nostra insin dalla stagion ch'io canto.
Ma per molto adoprarsi una fessura
Né un buco non trovò per quelle mura.
Strano questo vi par, ma certo il fato
Intento il conducea là dove udrete.
Che vedendosi omai la morte allato,
Che il Cesari chiamò mandar pel prete,
E sentendosi il conte esser dannato
D'ogni male a morir fuorché di sete
Se fuor durasse, di cangiar periglio,
D'osare e di picchiar prese consiglio.
E tratto all'uscio e tolto un sassolino,
Dievvi de' colpi a suo poter più d'uno.
Subito da un balcon fe' capolino
Un uom guardando, ma non vide alcuno.
Troppo quel che picchiava era piccino,
Né facil da veder per l'aer bruno.
Risospinse le imposte, e poco stante
Ecco tenue picchiar siccome avante.
Qui trasse fuori una lucerna accesa
L'abitator del solitario ostello,
E sporse il capo, e con la vista intesa
Mirando inverso l'uscio, innanzi a quello
Vide il topo che pur con la distesa
Zampa facea del sassolin martello.
Crederete che fuor mettesse il gatto,
Ma disceso ad aprir fu quegli a un tratto
E il pellegrin con modo assai cortese
Introdusse in dorati appartamenti,
Parlando della specie e del paese
Dei topi i veri e naturali accenti.
E vedutol così male in arnese,
E dal freddo di fuor battere i denti,

Ad un bagno il menò dove lavollo
Dalla mota egli stesso e riscaldollo.
Fatto questo, di noci e fichi secchi
Un pasto gli arrecò di regal sorte,
Formaggio parmegian, ma di quei vecchi,
Fette di lardo e confetture e torte,
Tutto di tal sapor che paglia e stecchi
Parve al conte ogni pasto avuto in corte.
Cenato ch'ebbe, il dimandò del nome
E quivi donde capitasse, e come.
A dire incominciò, siccome Enea
Nelle libiche sale, il peregrino.
Al dirimpetto l'altro gli sedea
Sur una scranna, ed ei sul tavolino
Con due zampe atteggiando, e gli pendea
Segno d'onor dal collo un cordoncino,
Che salvo egli a fatica avea dai flutti,
Dato dal morto re Mangiaprosciutti.
E dal principio il seme e i genitori
E l'esser suo narrò succintamente.
Poi discendendo ai sostenuti onori
Fecesi a ragionar della sua gente,
Narrò le rane ed i civili umori,
La carta e il granchio iniquo e prepotente,
Le due fughe narrò chinando il ciglio,
E le congiure, ed il non degno esiglio.
E conchiudendo, siccom'era usato,
Raccontò le speranze e le promesse
Che da più d'un possibile alleato
Raccolte avea autentiche ed espresse,
E l'ospite pregò che avesse dato
Soccorso anch'egli ai topi ove potesse.
Rari veleni d'erbe attive e pronte
Quegli offerì, ma ricusolli il conte.
Dicendo, ch'oltre al non poter sì fatto
Rimedio porsi agevolmente in opra,
A quell'intento saria vano affatto
Ch'egli ad ogni altro fin ponea di sopra,

Che il popol suo d'onor fosse rifatto,
Dal qual va lunge un ch'arti prave adopra.
Lodò l'altro i suoi detti e gli promesse
Che innanzi che dal sonno egli sorgesse,
Pensato avrebbe al caso intentamente
Per trovar, se potea, qualche partito.
Già l'aere s'imbiancava in oriente
E di più stelle il raggio era sparito,
E il seren puro tutto e tralucente
Promettea ch'un bel dì fora seguito.
Quasi sgombro dall'acque era il terreno,
E il soffio boreal venuto meno.
L'ospite ad un veron condusse il conte
Mostrando il tempo placido e tranquillo.
Sola i silenzi l'una e l'altra fonte
Rompea da presso, e da lontano il grillo.
Qualche raro balen di sopra il monte
Il nembo rammentava a chi soffrillo.
Poscia a un letto il guidò ben preparato,
E da lui per allor prese commiato.




CANTO SETTIMO

D'aggiunger mi scordai nell'altro canto
Che il topo ancor l'incognito richiese
Del nome e dello stato, e come tanto
Fosse ad un topo pellegrin cortese,
E da che libri ovver per quale incanto
Le soricine voci avesse apprese.
Parte l'altro gli disse, e il rimanente
Voler dir più con agio il dì seguente.
Dedalo egli ebbe nome, e fu per l'arte
Simile a quel che fece il laberinto.
Che il medesimo fosse antiche carte
Mostran la fama aver narrato o finto.

Se la ragion de' tempi in due li parte,
Non vo d'anacronismo esser convinto.
Gli anni non so di Creta o di Minosse:
Il Niebuhr li diria se vivo fosse.
Antichissima, come è manifesto,
Fu del nostro l'età. Però dichiaro,
Lettori e leggitrici, anzi protesto
Che il Dedalo per fama oggi sì chiaro
Forse e probabilmente non fu questo
Del quale a ragionarvi io mi preparo;
Ma più moderno io non saprei dir quanto:
Ed in via senza più torna il mio canto.
Quel Dedalo che al topo albergo diede.
Fu di ricca e gentil condizione
Da quei che il generàr lasciato erede,
E noiato non so per qual ragione
Degli uomini che pur, chi dritto vede,
In general son ottime persone,
Ridotto s'era solitario in villa
A condur vita libera e tranquilla.
Questi adunque, poiché più di quattr'ore
Alto il sole ebbe visto, al pellegrino
Che dall'alba dormia con gran sapore
Recò che molto innanzi era il mattino,
E levato il condusse ove in colore
Vario splendea tra l'oro il marrocchino,
Nello studio cioè, che intorno intorno
Era di libri preziosi adorno.
Ivi gli fe' veder molti volumi
D'autori topi antichi e di recenti:
I Delirii del gran Fiutaprofumi,
La Trappola, tragedia in atti venti,
Topaia innanzi l'uso de' salumi,
Gli Atti dell'Accademia de' Dormienti,
L'Amico de' famelici, ed un cantico
Per nascita reale in foglio atlantico.
La grammatica inoltre e il dizionario
Mostrogli della topica favella,

E più d'un altro libro necessario
A drittamente esercitarsi in quella,
Che con l'uso de' verbi alquanto vario
Alle lingue schiavone era sorella.
Indi fattol sedere, anch'ei s'assise,
Ed in un lungo ragionar si mise.
E disse com'ancor presso al confine
Di pubertà quel nido avendo eletto,
Di fisiche e meccaniche dottrine
Preso aveva in quegli ozi un gran diletto,
Tal che diverse cose e peregrine
Avea per mezzo lor poste ad effetto,
E correndo di poi molti paesi,
Molti novi trovati aveva appresi.
E sommamente divenuto esperto
Della storia che detta è naturale,
Ben già fin dal principio essendo certo
Dello stato civil d'ogni animale,
Gl'idiomi di molti avea scoperto
Quale ascoltando intentamente e quale
Per volumi trovati: ond'esso a quante
Bestie per caso gli venian davante,
Come a simili suoi, come a consorti,
Sempre in ciò che poteva era cortese.
Ma dopo aver così di molte sorti
E città d'animai le lingue apprese,
E quinci de' più frali e de' più forti
Le più riposte qualitadi intese,
Un desiderio in cor gli era spuntato
Che l'avea per molti anni esercitato.
Un desiderio di dovere, andando
Per tutto l'orbe, a qualche segno esterno,
Come il nostro scoprirò altri cercando,
Degli animali ritrovar l'inferno,
Cioè quel loco ove al morir passando
Vivesse l'io degli animali eterno,
Il qual ch'eterno fosse al par del nostro
Dal comun senso gli parea dimostro.

Perché, dicea, chiunque gli occhi al sole
Chiudere, o rinnegar la coscienza,
Ed a se stesso in se mentir non vuole,
Certo esser dee che dalla intelligenza
De' bruti a quella dell'umana prole
È qual da meno a più la differenza,
Non di genere tal che se rigetta
La materia un di lor, l'altro l'ammetta.
Che certo s'estimar materia frale
Dalla retta ragion mi si consente
L'io del topo, del can, d'altro mortale,
Che senta e pensi manifestamente,
Perché non possa il nostro esser cotale
Non veggo: e se non pensa in ver né sente
Il topo o il can, di dubitar concesso
M'è del sentire e del pensar mio stesso.
Così dicea. Ma che l'uman cervello
Ciò che d'aver per fermo ha stabilito
Creda talmente che dal creder quello
Nol rimova ragion forza o partito,
Due cose, parmi, che accoppiare è bello,
Mostran quant'altra mai quasi scolpito:
L'una, che poi che senza dubbio alcuno
Di Copernico il dogma approva ognuno,
Non però fermi e persuasi manco
Sono i popoli tutti e son le scole
Che l'uomo, in somma, senza uguali al fianco
Segga signor della creata mole,
Né con modo men lepido o men franco
Si ripetono ancor le antiche fole,
Che fan dell'esser nostro e de' costumi
Per nostro amor partecipare i numi.
L'altra, che quei che dell'umana mente
L'arcana essenza a ricercar procede,
La question delle bestie interamente
Lasciar da banda per lo più si vede
Quasi aliena alla sua con impudente
Dissimulazione e mala fede,

E conchiuder la sua per modo tale
Ch'all'altra assurdo sia, nulla gli cale.
Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso
I topi anche moderni io pongo avanti.
A Dedalo torniamo ed all'intenso
Desio che il mosse a ricercar per quanti
Climi ha la terra e l'oceano immenso,
Come fer poscia i cavalieri erranti
Delle amate lor donne, in qual dimora
Le bestie morte fosser vive ancora.
Trovollo alfin veracemente e molte
Vide con gli occhi propri alme di bruti
Ignude, io dico da quei corpi sciolte
Che quassù per velami aveano avuti,
Se bene in quelli ancor pareano involte,
Come, non saprei dir, ma chi veduti
Spiriti ed alme ignude ha di presenza,
Sa che sempre di corpi hanno apparenza.
Dunque menarlo all'immortal soggiorno
De' topi estinti offerse al peregrino
Dedalo, accio che consultarli intorno
A Topaia potesse ed al destino:
Perché sappiam che chiusi gli occhi al giorno
Diventa ogni mortal quasi indovino,
E qual che fosse pria, dotto e prudente
Si rende sì che avanza ogni vivente.
Strana questa in principio e fera impresa
Al conte e piena di terror parea.
Non avean fatta simile discesa
Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea,
Che vantàr poscia, e forse l'arte appresa
Da topi o talpe alcun di loro avea.
Dedalo l'ammonì che denno i forti
Poco temere i vivi e nulla i morti.
E inanimito ed all'impresa indotto
Avendol facilmente, e confortato
D'alcun de' cibi di che il topo è ghiotto,
D'alucce armogli l'uno e l'altro lato.

Più non so dir, l'istoria non fa motto
Di quello onde l'ordigno era formato,
Non degl'ingegni e non dell'artifizio
Per la virtù del qual facea l'uffizio.
Palesemente dimostrò l'effetto
Che queste d'ali inusitate some
Di quell'altre non ebbero il difetto
Ond'Icaro volando al mar diè nome:
Di quelle, sia per incidenza detto,
Che venner men dal caldo io non so come,
Poiché nell'alta region del cielo
Non suole il caldo soverchiar ma il gelo.
Dedalo, io dico il nostro, ale si pose
Accomodate alla statura umana,
Dubitar non convien di queste cose
Perocché sien di specie alquanto strana.
Udiam fra molte che l'età nascose
La macchina vantar del padre Lana,
E il globo aerostatico ottien fede
Non per udir ma perocché si vede.
Così d'ali ambedue vestito il dosso,
Su pe' terrazzi del romito ostello
Il novo carco in pria tentato e scosso,
Preser le vie che proprie ebbe l'uccello.
Parea Dedalo appunto un uccel grosso,
L'altro al suo lato appunto un pipistrello;
Volàr per tratto immenso ed infiniti
Vider gioghi dall'alto e mari e liti.
Vider città di cui non pur l'aspetto,
Ma la memoria ancor copron le zolle,
E vider campo o fitta selva o letto
D'acque palustri limaccioso e molle
Ove ad altre città fu luogo eletto
Di poi, ch'anco fioriro, anco atterrolle
Il tempo, ed or del loro stato avanza
Peritura del par la rinomanza.
Non era Troia allor, non eran quelle
Ch'al terren l'adeguaro Argo e Micene,

Non le rivali due, d'onor sorelle,
Di fortuna non già, Sparta e Messene;
Né quell'altra era ancor che poi le stelle
Dovea stancar con la sua fama Atene,
Vòto era il porto, e dove or peregrina
La gente al tronco Partenon s'inchina.
Presso al Gange ed all'Indo eccelse mura
E popoli appariano a mano a mano.
Pagodi nella Cina, ed alla pura
Luce del Sol da presso e da lontano
Canali rifulgean, sopra misura
Vari di corso per lo verde piano,
Che di città lietissimo e di gente,
Di commerci e di danze era frequente.
La torre di Babel di sterminata
Ombra stampava la deserta landa;
E la terra premean dall'acque nata.
Le piramidi in questa o in quella banda.
Poco Italia a quel tempo era abitata,
Italia ch'al finir dell'ammiranda
Antichità per anni ultima viene,
E primi per virtù gli onori ottiene.
Sparsa era tutta di vulcani ardenti,
E incenerita in questo lato e in quello.
Fumavan gli Apennini allor frequenti
Come or fuman Vesuvio e Mongibello,
E di liquide pietre ignei torrenti
Al mar tosco ed all'Adria eran flagello;
Fumavan l'Alpi, e la nevosa schiena
Solcavan fiamme ed infocata arena.
Non era ai due volanti peregrini
Possibile drizzar tant'alto i vanni,
Che non ceneri pur ma sassolini
Non percotesser lor le membra e i panni:
Tali in sembianza di smodati pini
Sorgean diluvi inver gli eterni scanni
Da eccelsissimi gioghi, alto d'intorno
A terra e mare intenebrando il giorno.

Tonare i monti e rintronar s'udiva
Or l'illirica spiaggia ed or la sarda.
Né già, come al presente, era festiva
La veneta pianura e la lombarda,
Né tanti laghi allor né con sua riva
Il Lario l'abbellia né quel di Garda,
Nuda era e senza amenità nessuna
E per lave indurate orrida e bruna.
Sovra i colli ove Roma oggi dimora
Solitario pascea qualche destriero,
Errando al Sol tersissimo che indora
Quel loco al mondo sopra tutti altero.
Non conduceva ancor l'ardita prora
Per le fauci scillee smorto nocchiero,
Che di Calabria per terrestre via
Nel suol trinacrio il passegger venia.
Dall'altra parte aggiunto al gaditano
Era il lido ove poi Cartago nacque:
E già si discoprian di mano in mano
Fenicii legni qua e là per l'acque.
Anche apparia di fuor su l'oceano
Quella che poi sommersa entro vi giacque,
Atlantide chiamata, immensa terra
Di cui leggera fama or parla ed erra.
Per lei più facil varco aveasi allora
Ai lidi là di quell'altro emisfero
Che per l'artiche nevi e per l'aurora
Polar che avvampa in ciel maligno e nero,
Né di perigli pien così com'ora
Dritto fendendo l'oceano intero.
Di lei fra gli altri ragionò Platone,
E il viaggio del topo è testimone.
Per ogni dove andar bestie giganti
O posar si vedean su la verdura,
Maggiori assai degl'indici elefanti,
E di qual bestia enorme è di statura.
Parean dall'alto collinette erranti
O sorgenti di mezzo alla pianura.

Di sì fatti animai son le semente,
Come sapete, da gran tempo spente.
Reliquie lor le scole ed i musei
Soglion l'ossa serbar disotterrate.
Riconosciuta ancor da' nostri augei
L'umile roccia fu che la cittate
Copria de' topi, e quattro volte e sei
L'esule volator pien di pietate
La rimirò dall'alto e sospirando
Si volse indietro e si lagnò del bando.
Alfin dopo volare e veder tanto
Che con lingua seguir non si potria,
Scoprì la coppia della quale io canto
Un mar che senza termini apparia.
Forse fu quel cui della pace il vanto
Alcun che poi solcollo attribuia,
Detto da molti ancor meridiano,
Sopra tutti latissimo oceano.
Nel mezzo della lucida pianura
Videro un segno d'una macchia bruna,
Qual pare a riguardar, ma meno oscura
Questa o quell'ombra in su l'argentea luna.
E là drizzando il vol nell'aria pura
Che percotea del mar l'ampia laguna,
Videro immota e, come dir, confitta
Una nebbia stagnar putrida e fitta.
Qual di passeri un groppo o di pernici
Che s'atterri a beccar su qualche villa
Pare al pastor che su per le pendici
Pasce le capre al Sol quando più brilla,
Cotal dall'alto ai due volanti amici
Parve quella ch'eterna ivi distilla
Nebbia anzi notte, nella quale involta
Un'isola o piuttosto era sepolta.
Altissima in sul mar da tutti i lati
Quest'isola sorgea con tali sponde,
E scogli intorno a lor sì dirupati,
E voragini tante e sì profonde

Ove con tal furor, con tai latrati
Davano e sparse rimbalzavan l'onde,
Che di pure appressarsi a quella stanza
Mai notator né legno ebbe speranza.
Sola potea la region del vento
Dare al sordido lido alcuna via.
Ma gli augelli scacciava uno spavento
Ed un fetor che dalla nebbia uscia.
Pure ai nostri non fur d'impedimento
Queste cose, il cui volo ivi finia,
Che quel funereo padiglione eterno
Copria de' bruti il generale inferno.
Colà rompendo la selvaggia notte
Gli stanchi volatori abbassar l'ale
E quella terra calpestar che inghiotte
Puro e semplice l'io d'ogni animale,
E posersi a seder su le dirotte
Ripe ove il piè non porse altro mortale,
Levando gli occhi alla feral montagna
Che il mezzo empiea dell'arida campagna.
D'un metallo immortal massiccio e grave
Quel monte il dosso nuvoloso ergea,
Nero assai più che per versate lave
Non par da presso la montagna etnea,
Tornito e liscio e fra quell'ombre cave
Un monumento sepolcral parea:
Tali alcun sogno a noi per avventura
Spettacoli creò fuor di natura.
Girava il monte più di cento miglia
E per tutto il suo giro alle radici
Eran bocche diverse a maraviglia
Di grandezza tra lor ma non d'uffici.
Degli estinti animali ogni famiglia
Dalle balene ai piccoli lombrici,
Alle pulci, agl'insetti onde ogni umore
Han pieno altri animai dentro e di fuore,
Microscopici o in tutto anche nascosti
All'occhio uman quanto si voglia armato

Ha quivi la sua bocca. E son disposti
Quei fori sì che de' maggiori allato
I minori per ordine son posti.
Della maggior balena e smisurato
È il primo, e digradando a mano a mano
L'occhio s'aguzza in su gli estremi invano.
Porte son questi d'altrettanti inferni
Che ad altrettanti generi di bruti
Son ricetti durabili ed eterni
Dell'anime che i corpi hanno perduti.
Quivi però da tutti i lidi esterni
Venian radendo l'aria intenti e muti
Spirti d'ogni maniera, e quella bocca
Prendea ciascun ch'alla sua specie tocca.
Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli,
Ostriche, seppie, muggini ed ombrine,
Oche, struzzi, pavoni e pappagalli,
Vipere e bacherozzi e chioccioline,
Forme affollate per gli aerei calli
Empiean del tetro loco ogni confine,
Volando, perché il volo anche è virtude
Propria dell'alme di lor membra ignude.
Ben quivi discernean Dedalo e il conte
Queste forme che al Sol non avean viste,
Bench'alle spalle ai fianchi ed alla fronte
Sempre al lor volo assai ne fur commiste,
Che d'ogni valle, o poggio, o selva, o fonte
Van per l'alto ad ogni ora anime triste,
Verso quel loco che l'eterna sorte
Lor seggio destinò dopo la morte.
Ma come solamente all'aure oscure
Del suo foco la lucciola si tinge,
E spariscono al Sol quelle figure
Che la lanterna magica dipinge,
Così le menti assottigliate e pure
Di quel vel che vivendo le costringe
Sparir naturalmente al troppo lume,
Né parer che nell'ombra han per costume.

E di qui forse avvien che le sepolte
Genti di notte comparir son use,
E che dal giorno, fuor che rade volte,
Soglion le visioni essere escluse.
Vuole alcun che le umane alme disciolte
In un di questi inferni anco sien chiuse,
Posto là come gli altri in quella sede
Che la grandezza in ordine richiede.
E che Virgilio e tutti quei che diero
All'uman seme un eremo in disparte
favoleggiasser seguitando Omero,
E lo stil proprio de' poeti e l'arte,
Essendo del mortal genere in vero
Più feconda che l'uom la maggior parte.
Io di questo per me non mi frammetto:
Però l'istoria a seguitar m'affretto.




CANTO OTTAVO

La ragion perché i morti ebber sotterra
L'albergo lor non m'è del tutto nota.
Dei corpi intendo ben, perch'alla terra
Riede la spoglia esanime ed immota;
Ma lo spirto immortal ch'indi si sferra
Non so ben perché al fondo anche percota.
Pur s'altre autorità non fosser pronte,
Ciò la leggenda attesteria del conte.
Attonito a mirar lunga fiata
La novità dell'infernal soggiorno
Stette il buon Leccafondi, e dell'andata
La cagione obbliava ed il ritorno.
Ma Dedalo il riscosse, e rigirata
Ch'ebbero in parte la montagna intorno,
La bocca ritrovàr là dove a torme
De' topi estinti concorrean le forme.

Ivi dinanzi all'inamabil soglia
Dipartirsi convenne ai due viventi,
Per non poter, benché n'avesse voglia,
Dedalo penetrar fra' topi spenti,
Non sol vivendo, ma né men se spoglia
Anima andasse fra le morte genti:
Che non cape pur mezza in quella porta
La figura dell'uom viva né morta.
Maggiori inferni e dalla sua statura
Ben visitati avea l'uom forte e saggio,
E vedutili, fuor nella misura,
Conformi esser tra lor, di quel viaggio
Predetta aveva al topo ogni avventura,
Ch'or gli ridisse, e fecegli coraggio,
E messol dentro al sempiterno orrore,
Ad aspettarlo si fermò di fuore.
Io vidi in Roma su le liete scene
Che il nome appresso il volgo han di Fiano,
In una grotta ove sonar catene
S'ode e un lamento pauroso e strano,
Discender Cassandrin dalle serene
Aure per forza con un lume in mano,
Che con tremule note in senso audace
Parlando, spegne per tremar la face.
Poco altrimenti all'infernal discesa
Posesi di Topaia il cavaliere,
Salvo che non avea lucerna accesa,
Ch'ai topi per veder non è mestiere;
Né minacciando gia, che in quella impresa
Vedeva il minacciar nulla valere,
E pur volendo, credo che a gran pena
Bastata a questo gli saria la lena.
Tacito discendeva in compagnia
Di molte larve i sotterranei fondi.
Senza precipitar quivi la via
Mena ai più ciechi abissi e più profondi.
Can Cerbero latrar non vi s'udia,
Sferze fischiar né rettili iracondi,

Non si vedevan barche e non paludi,
Né spiriti aspettar sull'erba ignudi.
Senza custode alcuno era l'entrata
Ed aperta la via perpetuamente,
Che da persone vive esser tentata
La non può mai che malagevolmente,
E per l'uso de' morti apparecchiata
Fu dal principio suo naturalmente,
Onde non è ragion farvisi altrui
Ostacolò al calar ne' regni bui.
E dell'uscir di là nessun desio
Provano i morti, se ben hanno il come;
Che spiccato che fu de' topi l'io,
Non si rappicca alle corporee some,
E ritornando dall'eterno obblio,
Sanno ben che rizzar farian le chiome;
E fuggiti da ognuno e maledetti
Sarian per giunta da' parenti stretti.
Premii né pene non trovò nel regno
De' morti il conte, ovver di ciò non danno
Le sue storie antichissime alcun segno,
E maraviglia in questo a me non fanno,
Che i morti aver quel ch'alla vita è degno,
Piacere eterno ovvero eterno affanno,
Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,
Non che il prisco Israele, il dotto Omero.
Sapete che se in lui fu lungamente
Creduta ritrovar questa dottrina,
Avvenne ciò perché l'umana mente,
Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina
Veri non crede sol ma d'ogni gente
Natii, quantunque antica o pellegrina.
Dianzi in Omero errar di ciò la fama
Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.
Né mai selvaggio alcun di premii o pene
Destinate agli spenti ebbe sentore,
Né già dopo il morir delle terrene
Membra l'alme credé viver di fuore.

Ma palpitare ancor le fredde vene,
E in somma non morir colui che more.
Perch'un rozzo del tutto e quasi infante
La morte a concepir non è bastante.
Però questa caduca e corporale
Vita, non altra, e il breve uman viaggio
In modi e luoghi incogniti immortale
Dopo il fato durar crede il selvaggio
E lo stato i sepolti anco aver tale,
Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
Tali i bisogni e non in parte alcuna
Gli esercizi mutati o la fortuna.
Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia
Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
Chiude le donne e i servi acciò non toglia
Il sepolcro al defunto i suoi contenti,
Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
Arte ch'egli adoprasse appartenenti,
Massime se il destin gli avea prescritto
Che con la man si procacciasse il vitto.
E questo è quello universal consenso
Che in testimon della futura vita
Con eloquenza e con sapere immenso
Da dottori gravissimi si cita,
D'ogni popol più rozzo e più milenso,
D'ogni mente infingarda e inerudita:
Il non poter nell'orba fantasia
La morte immaginar che cosa sia.
Son laggiù nel profondo immense file
Di seggi ove non può lima o scarpello,
Seggono i morti in ciaschedun sedile
Con le mani appoggiate a un bastoncello,
Confusi insiem l'ignobile e il gentile
Come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
Da più novi occupata è la seguente.
Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
Se visto avete mai qualche pittura

Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
O statua antica in qualche sepoltura
Gotica, come dice il volgo indotto,
Di quelle che a mirar fanno paura,
Con le facce allungate e sonnolenti
E l'altre membra pendule e cadenti,
Pensate che tal forma han per l'appunto
L'anime colaggiù nell'altro mondo,
E tali le trovò poi che fu giunto
Il topo nostro eroe nel più profondo.
Tremato sempre avea fino a quel punto
Per la discesa, il ver non vi nascondo,
Ma come vide quel funereo coro
Per poco non restò morto con loro.
Forse con tal, non già con tanto orrore
Visto avete in sua carne ed in suoi panni
Federico secondo imperatore
In Palermo giacer da secent'anni
Senza naso né labbra, e di colore
Quale il tempo può far con lunghi danni,
Ma col brando alla cinta e incoronato,
E con l'imago della terra allato.
Poscia che dal terror con gran fatica
A poco a poco ritornato il conte
Oso fu di mirar la schiera antica
Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
Cercando se fra lor persona amica
Riconoscesse alle fattezze conte,
Gran tempo andò con le pupille errando
Di contanti nessun raffigurando.
Sì mutato d'ognuno era il sembiante,
E sì tra lor conformi apparian tutti,
Che a gran pena gli venne in sul davante
Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,
Rubatocchi e poche altre anime sante
Di cari amici suoi testè distrutti:
A cui principalmente il sermon volto
Narrò perché a cercarli avesse tolto.

Ma gli convenne incominciar dal primo
Assalto che dai granchi ebbero i suoi,
Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo
Essendo quel che occorso era da poi.
Ben ciascun giorno dal terrestre limo
Discendon topi al mondo degli eroi,
Ma non fan motto, che alla gente morta
Questa vita di qua niente importa.
Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto,
La tregua, il novo prence e lo statuto,
Il brutto inganno dei nemici, e il brutto
Galoppar dell'esercito barbuto,
Addimandò se la vergogna e il lutto
Ove il popol de' topi era caduto
Sgombro sarebbe per la man de' molti
Collegati da lui testè raccolti.
Non è l'estinto un animal risivo,
Anzi negata gli è per legge eterna
La virtù per la quale è dato al vivo
Che una sciocchezza insolita discerna,
Sfogar con un sonoro e convulsivo
Atto un prurito della parte interna.
Però, del conte la dimanda udita,
Non risero i passati all'altra vita.
Ma primamente allor su per la notte
Perpetua si diffuse un suon giocondo,
Che di secolo in secolo alle grotte
Più remote pervenne insino al fondo.
I destini tremàr non forse rotte
Fosser le leggi imposte all'altro mondo,
E non potente l'accigliato Eliso,
Udito il conte, a ritenere il riso.
Il conte, ancor che la paura avesse
De' suoi pensieri il principal governo,
Visto poco mancar che non ridesse
Di se l'antico tempo ed il moderno,
E tutto per tener le non concesse
Risa sudando travagliar l'inferno,

Arrossito saria, se col rossore
Mostrasse il topo il vergognar di fuore.
E confuso e di cor tutto smarrito,
Con voce il più che si poteva umile,
E in atto ancor dimesso e sbigottito,
Mutando al dimandar figura e stile,
Interrogò gli spirti a qual partito
Appigliar si dovesse un cor gentile
Per far dell'ignominia ov'era involta
La sua stirpe de' topi andar disciolta.
Come un liuto rugginoso e duro
Che sia molti anni già muto rimaso,
Risponde con un suon fioco ed oscuro
A chi lo tenta o lo percota a caso,
Tal con un profferir torbo ed impuro
Che fean mezzo le labbra e mezzo il naso,
Rompendo del tacer l'abito antico
Risposer l'ombre a quel del mondo aprico.
E gli ordinàr che riveduto il sole
Di penetrar fra' suoi trovasse via,
Che poi ch'entrar della terrestre mole
Potea nel cupo, anche colà potria.
Ivi in pensieri, in opre ed in parole
Seguisse quel che mostro gli saria
Per lavar di sua gente il disonore
Dal general di nome Assaggiatore.
Era questi un guerrier canuto e prode
Che per senno e virtù pregiato e culto
D'un vano perigliar la vana lode
Fuggia, vivendo a più potere occulto,
Trattar le ciance come cose sode
A genti di cervel non bene adulto
Lasciando, e sotto non superbo tetto
Schifando del servaggio il grave aspetto.
Infermo egli a giacer s'era trovato
Quando il granchio alle spalle ebbero i suoi,
Ed a congiure sceniche invitato
Chiusi sempre gli orecchi avea di poi,

Onde cattivo cittadin chiamato
Era talor dai fuggitivi eroi,
Ed ei, tranquillo in sua virtù, la poco
Saggia natura altrui prendeva in gioco.
Tale oracolo avuto alle superne
Contrade i passi ritorceva il conte,
Scritto portando delle valli inferne
Lo spavento negli atti e nella fronte.
Qual di Trofonio già nelle caverne
Agli arcani di Stige e d'Acheronte
Ammesso il volgo, in su l'aperta riva
Pallido e trasformato indi reddiva.
Presso alla soglia dell'avaro speco
Dedalo ritrovò che l'attendeva,
E poi ch'alquanto ragionando seco
Di quel che dentro là veduto aveva,
Riposato si fu sotto quel cieco
Vel di nebbia che mai non si solleva,
Rassettatesi l'ali in su la schiena
Con lui di novo abbandonò l'arena.
Riviver parve al semivivo, uscito
Che fu del buio a riveder le stelle.
Era notte e splendean per l'infinito
Ocean le volubili facelle,
Leggermente quel mar che non ha lito
Sferzavan l'auree fuggitive e snelle,
E s'andava a quel suono accompagnando
Il rombo che color facean volando.
Rapido sì che non cedeva al vento
Ver Topaia drizzàr subito il volo,
Portando l'occhio per seguire intento
I due lumi ch'ha sempre il nostro polo.
D'isole sparso il liquido elemento
Scoprian passando, e su l'oscuro suolo
Volare allocchi, e più d'un pipistrello
Che al topo s'accostò come fratello.
Valiche l'acque, valicàr gran tratto
Di terra ferma ed altro mar di poi,

E così come prima avevan fatto
La parte rivarcàr che abitiam noi.
Già di rincontro a lor nasceva e ratto
Si spandeva il mattin sui monti eoi,
Quando là di Topaia accanto al sasso
Chinàr Dedalo e il conte i vanni al basso.
Quivi non visti rintegràr le dome
Forze con bacche e con silvestri ghiande.
Poscia Dedalo, avuta io non so come
Una pelle di granchio in quelle bande,
L'altro coprì delle nemiche some
Tal che parve di poi tra le nefande
Bestie un granchio più ver che appresso i Franchi
Non paion delle donne i petti e i fianchi.
Alfin del conte alle onorate imprese
Fausto evento pregando e fortunato
L'ospite e duce e consiglier cortese,
Partendosi, da lui prese commiato.
Piangeva il topo, e con le braccia stese
Cor gli giurava eternamente grato.
Quei l'abbracciò come poteva, e solo
Poi verso il nido suo riprese il volo.
L'esule a rientrar nella dolente
Città non fe' dimora, e poi che l'ebbe
Con gli occhi intorno affettuosamente
Ricorsa, e con gli orecchi avido bebbe
Le patrie voci, a quel che alla sua gente
Udito avea che lume esser potrebbe,
Senza punto indugiarsi andò diritto,
Dico al guerrier di cui più sopra è scritto.
A conoscer si diede, e qual desire
Il movesse a venir fece palese.
Quegli onorollo assai, ma nulla udire
Volle di trame o di civili imprese.
Cercollo il conte orando ammorbidire,
Ma tacque il volo e l'infernal paese,
Perché temé da quel guerrier canuto
Per visionario e sciocco esser tenuto.

Più volte l'instancabile oratore
Or solo ed or con altra compagnia
Tornato era agli assalti, ed a quel core
Aperta non s'aveva alcuna via.
Ultimamente un dì che Assaggiatore
Con più giovani allato egli assalia,
Quei ragionò tra lor nella maniera
Che di qui recitar creduto io m'era.
Perché, se ben le antiche pergamene
Dietro le quali ho fino a qui condotta
La storia mia qui mancano, e se bene
Per tal modo la via m'era interrotta,
La leggenda che in quella si contiene
Altrove in qual si fosse lingua dotta
Sperai compiuta ritrovar: ma vòto
Ritornommi il pensiero e contro il voto
Questa in lingua sanscrita e tibetana
Indostanica, pahli e giapponese,
Arabica, rabbinica, persiana,
Etiopica, tartara e cinese,
Siriaca, caldaica, egiziana,
Mesogotica, sassone e gallese,
Finnica, serviana e dalmatina,
Valacca, provenzal, greca e latina,
Celata in molte biblioteche e molte
Di levante si trova e di ponente,
Che vidi io stesso o che per me rivolte
fur da più d'un amico intelligente.
Ma di tali scritture ivi sepolte
Nessuna al caso mio valse niente,
Che non v'ha testo alcun della leggenda
Ove più che nel nostro ella si stenda.
Però con gran dolor son qui costretto
Troncando abbandonar l'istoria mia,
Tutti mancando in fin, siccome ho detto,
I testi, qual che la cagion si sia:
Come viaggiator, cui per difetto
Di cavalli o di rote all'osteria

Paralipomeni della Batracomiomachia vennero
I
Restar sia forza, o qual nocchiero intento
Al corso suo, cui venga meno il vento.
Voi, leggitori miei, l'involontario
Mancamento imputar non mi dovete.
Se mai perfetto in qualche leggendario
Troverò quel che in parte inteso avete,
Al narrato dinanzi un corollario
Aggiungerò, se ancor legger vorrete.
Paghi del buon desio restate intanto,
E finiscasi qui l'ottavo canto.