CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Giovanni  Pascoli
ODI  E  INNI































































































































Giovanni
Pascoli




IDEOLOGIA E POETICA




periodo in cui alle contraddizioni della società borghese si stava cercando una soluzione nel socialismo emergente, che in Italia si presentava nella variante anarchica, mentre la grande borghesia, alleata con gli agrari del Sud, la cercava in un governo forte e reazionario.
Quando il Pascoli rinuncia alle idee del socialismo anarchico (politicamente impegnato), approda progressivamente alla convinzione che il mondo e la nuova società borghese sono dominati da forze negative troppo superiori per essere vinte. Al massimo -pensa il Pascoli- è possibile attenuare l'impatto di queste forze sugli uomini, mediante una sorta di socialismo umanistico e filantropico (nel senso che tutte le classi sociali devono trovare ai loro conflitti una relativa conciliazione, nella consapevolezza di sentirsi reciprocamente indispensabili), e mediante una sorta di patriottismo-nazionalistico, per il quale le classi oppresse hanno il diritto a un'espansione coloniale verso l'Africa e di conquistare le terre irredente del nord-Italia, al fine di dimostrare le loro grandi capacità lavorative e civilizzatrici: in tal modo il Pascoli sperava di attenuare le forti tensioni sociali che erano scoppiate in tutta la nazione. Il suo discorso La grande proletaria, pronunciato nel 1911, al tempo dell'impresa libica, destò grandi entusiasmi nella stampa e nei teatri. Il Pascoli eredita chiaramente la fine delle illusioni del secondo Ottocento nelle capacità della scienza-tecnica-industrializzazione di superare il dolore, la sofferenza, le contraddizioni degli uomini. Tutte queste cose non hanno tolto ma hanno anche creato nuovi dolori (la scienza -per il Pascoli- è solo servita a togliere le illusioni della religione). Il male, per lui, non è generato dalla natura (che anzi è "madre dolcissima") ma dall'uomo sociale (ritenuto assai diverso dall'uomo primitivo, "buono per natura"). Mentre il positivismo, fiducioso nella scienza, aveva concepito l’inconoscibile come una sorta di territorio ignoto da sottoporre progressivamente a una ricerca condotta col metodo sperimentale, Pascoli ne fa il centro di una sofferta meditazione. La scienza, secondo lui, ha ricondotto la mente dell’uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile, non ha assolutamente donato libertà all’uomo, ma, anzi, la società industriale, valorizzata dal positivismo, soffoca l’uomo, gli nega ogni piacere: viene così definito il "rifiuto della storia" secondo il quale la storia viene contrapposta al mondo campestre delle piccole cose.
Unico rimedio al male consiste infatti nel fuggire tutto ciò che è prodotto di civiltà, rifugiandosi nel puro sentimento, nella solitudine, in un contatto più stretto con la natura, vista esteticamente ma anche come fonte di consolazione, come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato, un'innocenza perduta definitivamente.
La natura è anche un luogo in cui si può meditare sul problema del dolore, della morte, della sofferenza degli uomini in maniera distaccata, cioè senza cercare nel conflitto delle classi una soluzione alle contraddizioni sociali. La meditazione sul dolore e sul mistero di una vita che ci fa nascere felici e ci fa diventare infelici, deve portare l'uomo ad avere pietà del suo simile. Il dolore infatti ha qualcosa di sacro e di necessario e per renderlo più sopportabile occorre la fraternità universale.
Bisogna ancora inserire Pascoli nel generale orientamento del tempo, il decadentismo, che rifiutava la civiltà contemporanea: mentre autori come Huysmans, Wilde, D’Annunzio concretizzano questo rifiuto con il vagheggiamento di un mondo di pura bellezza , Pascoli lo concretizza o con il ripiegamento intimistico, spesso vittimistico, oppure nel vagheggiamento della campagna e delle umili cose, di un paradiso perduto. Nel poeta, inoltre, il rifiuto della storia dà come conseguenza amara la solitudine, l’autocommiserazione, lo smarrimento di chi non riesce a vedere altro che la Terra come un atomo opaco del male. Ne deriva, quindi, la visione di una vita tutta raccolta nell’ambito della famiglia, gelosamente custodita e difesa.
Quella del Pascoli viene chiamata "poetica decadentistica della consolazione". Egli però definì la propria poetica con l'espressione "poetica del fanciullino". Il poeta cioè è un fanciullo che sogna e vede cose che gli altri non vedono né possono vedere, essendo abituati ai nessi logici, razionali delle cose. Il "fanciullino" privilegia l'intuizione alla ragione, il sogno al vero, l'invenzione alla riproduzione, l'arbitrarietà della parola alla normalità comunicativa (grandissimo, in questo senso, fu il contributo stilistico del Pascoli).

LO STILE

Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.

Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).

Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.

La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.

Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.

Figure retoriche: fa grande uso di metafore, analogie, sinestesie, metonimie in linea con lo stile della poesia decadente del periodo

Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.

I TEMI

IL NIDO:
La famiglia viene concepita, da Pascoli, come famiglia d'origine chiusa ed esclusiva che si costituisce come alternativa al matrimonio.
In poesia il tema del nido simboleggia la famiglia e viene visto come un luogo caldo, protettivo e segreto. Tale protezione comporta però l'isolamento dalla realtà: si ha quella che viene definita "chiusura sentimentale". Questa è una situazione psicologica sofferta che lo conduce anche ad esasperare il tema dell'eros che verrà visto in maniera regredita.

I MORTI:
Collegato al tema del nido, ricorrente è il tema dei morti: la vita di Pascoli, infatti, scandita da lutti, ha influito molto sulla sua produzione. Il tema dei morti viene espresso, attraverso la tecnica del correlativo-oggettivo, che consiste nel proiettare i propri stati d'animo su oggetti della realtà che, così, si carica di significati simbolici.
Così avviene in Myricae e nei Canti di Castelvecchio.

LA NATURA E LE PICCOLE COSE:
La Natura è concepita da Pascoli come una presenza misteriosa e complessa che il poeta deve interpretare attivando l'immaginazione e aguzzando i sensi. Inoltre, condividendo le posizioni antipositivistiche e negando l'idea che la scienza abbia portato la felicità, Pascoli crede che la società industriale soffochi l'uomo condizionandolo pesantemente. Per questo contrappone la società alla Natura, agli aspetti semplici e dimessi della campagna. Perciò egli assume uno stato d'animo tipicamente decadente in quanto evade dalla realtà misteriosa e ostile rifugiandosi in luoghi chiusi, circondandosi di piccole e semplici cose rassicuranti e protettive.


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
ODI

LA PICCOZZA

Da me!… Non quando m’avviai trepido
c’era una madre che nel mio zaino
ponesse due pani
per il solitario domani.

Per me non c’era bacio né lagrima,
né caro capo chino su l’omero
a lungo, né voce
pregnante, né segno di croce.

Non c’eri! E niuno vide che lacero
fuggivo gli occhi prossimi, subito,
o madre, accorato
che niuno m’avesse guardato.

Da me, da solo, solo e famelico,
per l’erta mossi rompendo ai triboli
i piedi e la mano,
piangendo, sì forse, ma piano:

piangendo quando copriva il turbine
con il suo pianto grande il mio piccolo,
e quando il mio lutto
spariva nell’ombra del Tutto.

Ascesi senza mano che valida
mi sorreggesse, né orme ch’abili
io nuovo seguissi
su l’orlo d’esanimi abissi.

Ascesi il monte senza lo strepito
delle compagne grida. Silenzio.
Ne’ cupi sconforti
non voce, che voci di morti.



Da me, da solo, solo con l’anima,
con la piccozza d’acciar ceruleo,
su lento, su anelo,
su sempre; spezzandoti, o gelo!

E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito, assiduo;
nel gelo che spezzo,
scavandomi il fine ed il mezzo.

Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per udir crosci di mani, simili
a ghiaia che frangano,
io, io, che sentii la valanga;

ma per restare là dov’è ottimo
restar, sul puro limpido culmine,
o uomini; in alto,
pur umile: è il monte ch’è alto;

ma per restare solo con l’aquile,
ma per morire dove me placido
immerso nell’alga
vermiglia ritrovi chi salga:

e a me lo guidi, con baglior subito,
la mia piccozza d’acciar ceruleo,
che, al suolo a me scorsa,
riflette le stelle dell’Orsa.

LA LODOLA

Vidi sovente in mio cammin le rote
nere del falco meditante il salto
a piombo; e un’eco pure udii di note
lievi, più in alto.


Nell’alto, dove sia libero e solo,
getti non vista dalla via ch’io calco,
lodola, il canto; ben più su d’un volo
nero di falco.

In mio cammino nubi pesar grevi
sentii come su corpo morto velo
funebre; e un’eco pur udii di lievi
note, più in cielo.

Nel cielo, dove sia solo e sincero,
il canto inalzi, ove non è chi rubi,
lodola, il sole; ben più su d’un nero
volo di nubi.

Un inno sempre, un inno, nel cammino
della mia vita, puro agile e forte,
sopra il dolore, più su del destino,
oltre la morte!

A UNA MORTA

O tu che sei tra i vivi
solo perché ti penso;
come se odor d’incenso
fosse il pino che fu;

ma con me vivi, vivi
tu pure un po’: tremando
l’attimo io vedo, quando
non ti penserò più!

Resta di me, pensiero!
Ch’io creda, o Dio! Tuoi servi,
Morte, sian vene e nervi;
pensiero, anima, no!


Maturi lenta come la vergine,
che un dì qualcuno stacca dai rosei
fratelli; e poi liba con lieto
stupore un suo miele segreto.

IL SEPOLCRO

Lasciate il sepolcro alla carie
che roda anche il nome a chi giace;
velato da parïetarie
non resti che… pace…

S’attorcano insieme i vilucchi,
si strascichi il rovo e la vite
salvatica; e il vento v’ammucchi
le foglie marcite.

Un giorno verrà… Ma quel giorno
che strazi di fiori! che strappi
di ricci! che sperpero intorno
di candidi pappi!

Lasciate quell’edera! Ha i capi
fioriti. Fiorisce, fedele,
d’ottobre, e vi vengono l’api
per l’ultimo miele.

Che resti sospesa ai due bracci
di sasso muffito! Oh! non nuoce!
Lasciate che ancora l’abbracci
la vecchia mia croce!

IL VECCHIO

Che fa quel vecchio in cima al colle
tra i raggi dell’aurora?
che s’inginocchia su le zolle,
come uomo pio che adora?


Vanno per l’aria celestina
due nuvolette sole,
sul bianco vecchio che si china
venerabondo al sole.

La brezza in mano a lui tremare
fa un lungo esile stelo.
La terra è come un grande altare
donde egli l’offre al cielo.

E tutto già da monte a valle,
come se un tempio fosse,
risplende… Ma son foglie gialle,
ma son pampane rosse.

E quei due cirri in un sorriso
vanno lassù coi lembi
di rosa e d’oro… Ma l’avviso
sono di piogge e nembi.

E il vecchio porge al sole eterno
l’esile vetta mossa
dal vento… Ma già presso è il verno,
è avanti lui la fossa.

La fossa è avanti lui… Ma esso
vi pianta un arbuscello;
e il lungo verno ch’è già presso,
lo inaffierà bel bello;

e il vento ch’ora lieve lieve
lo fa tremare, un giorno
gli sputerà contro la neve,
gli ruggirà d’intorno,

in vano! e il vecchio, tra qualche anno,
niuno dirà, Lo vidi:
il suo grande albero vedranno
che sarà tutto nidi.


L’AURORA BOREALE

Ai miei primi anni… infermo ero e lontano
da tombe amate… udivo dei compagni
il suon del sonno, uguale e piano,
sommosso da improvvisi lagni;

e, solo, e come chi non sa se giunga
mai, troversava con il mio martirio
io tutta l’oscurità, lunga,
con, sopra, il fisso occhio di Sirio.

E nella notte giovinetto insonne
vidi la luce postuma, lo spettro
dell’alba: tremole colonne
d’opale, ondanti archi d’elettro.

E sotto i flessili archi e tra le frante
colonne vidi rampollare il flutto
d’un’ampia chiarità, cangiante
al palpitare del gran Tutto.

Ti vidi, o giorno che dalla grande Orsa
inopinato esci nel cielo, e trovi
le costellazïoni in corsa
dirette a firmamenti nuovi!

Ti vidi, o giorno che su l’infinita
via delle nebulose ultime e sole
appari. M’apparisti, o vita
che splendi quando è morto il sole.

Un alito era, solo, per il miro
gurge, di luce; un alito disperso
da un solo tacito respiro
e che velava l’universo:

come se fosse, là, per un istante,
immobile sul sonno e su l’oblio
di tutti, nella sua raggiante

con ronzìo lieve, dentro le tenebre
cercandosi: e l’anime ancora,
si cercano, sino all’aurora,

per le ignorate lunghe viottole
del sonno; e al fine si ricongiungono;
e scoppia sul fare del giorno
l’allegro vocìo del ritorno.

LA CUTRETTOLA

Sii maledetto, lugubre bombito,
sparo che i colli franto iterarono,
urtata via via
la loro autunnale agonia;

scoppio donde ora resta una nuvola
grigia che pigra fuma nel vitreo
serale silenzio,
tra i salci colore d’assenzio!

C’era, de’ doppi per la Vigilia
de’ Morti, un vago pendulo palpito
appena: sol oggi
vedevo i castagni già roggi:

quando quel tuono per sempre il gracile
bisbiglio ruppe d’una cutrettola
oh! scesa nel piano
per questa sementa del grano.

Parea dicesse: – L’uomo, che semina,
io l’amo. Buono, con un suo vomere,
egli apre le zolle
scoprendo l’anelide molle.

Non sementina forse è quest’umida
giornata? Or ora goccie di nebbia
piovevano mute
su l’aride foglie cadute.


Ma non un muglio s’ode a cui correre
possa io sui toffi con tremiti agili
e balli, nel solco
che segue alle spalle il bifolco.

O dove è il curvo bifolco? Trepida
schiere ho vedute muovere squallide
in umile cappa
al luogo ov’è un solo che zappa.

Zappa, non ara; zappa e non semina;
talor con uno, pallido pallido
e tacito, appresso;
nell’ombra d’un lungo cipresso…

L’uomo è men lieto della cutrettola:
pensano e vanno, pensano e piangono;
ed oggi più. Certo
n’è causa quel campo deserto.

Oh! là tra i tanti fiori che odorano,
c’è il serpe. Io voglio domani al lugubre
umano aratore,
seguendone il solco «Fa cuore!»

vuo’ dirgli: «è tanto dolce il tuo vivere,
che con la stessa marra a te semini
il grano, ed amico
tu scopri ad un altro il lombrico!…» –

L’ISOLA DEI POETI

Il treno andava. Gli occhi a me la brezza
pungea tra quella ignota ombra lontana;
e m’invadea le vene la dolcezza
antelucana:

e il capo mi si abbandonò. Tra i crolli
del treno allora non udii che un frùscio
uguale: il sonno avea spinto sui molli

cardini l’uscio,

e, di là d’esso, il fragor ferreo parve
piano e lontano. Ed ecco udii, ricordo,
il metro uguale, tra un vocìo di larve,
del tetracordo:

di là dal sonno, alcuno udii narrare
le due Sirene e il loro incantamento,
e la lor voce aerea, di mare
fatta e di vento:

gli udii narrare l’isola del Sole,
là dove mandre e greggie solitarie
pascono, e vanno dietro lor due sole
grandi armentarie,

con grandi pepli… Ed il tinnir cedeva
ad un’arguta melodia di canne:
udii cantare il fumo che si leva
dalle capanne,

le siepi in fiore, i mezzodì d’estate
pieni d’un verso inerte di cicale,
e rombi delle cupe arnie, e ventate
fresche di sale:

e chi cantava forse era un pastore
tutto nascosto tra le verdi fronde:
chiaro latrava un cane tra il fragore
vasto dell’onde.

Ecco e le cetre levano il tintinno
dorico, misto allo squillar del loto
chiarosonante. Ed improvviso un inno
sbalza nel vuoto:

l’aquila è in alto: fulgida nel lume
del sole: preda ha negli artigli: lente
ondoleggiando cadono giù piume

Giace la quercia che in balìa de’ venti
per tanta età su roccia di granito
videro alzarsi immobile le genti.

Le genti, o vecchio grande uomo sparito,
vennero a te, che in terra profondavi
l’opera ed il pensier nell’infinito.

Popoli a te d’eroi vennero, schiavi;
e tu fremesti su le lor catene,
tu così grande come i lor grandi avi.

Ospite ad ogni vero, ad ogni bene,
tu, come ad ogni stormo, ad ogni nido,
quercia vestita d’edera e lichene;

tu, ad ogni sventura ospite fido,
albero antico, dove sei?… Dov’era
sol esso un bosco, non è più che lido.

lido a cui scaglia i flutti la bufera
che già s’appressa: già nel ciel di brage
dai quattro punti l’avvenir s’annera.

Vento di guerra, vortice di strage
corre la terra, e le speranze sante
nel cielo oscuro svolano randage.

E un gran deserto, tutto cose infrante,
sotto la nube che sibila e va,
la terra dove tu stavi gigante,

albero morto della libertà!

BISMARCK

Oh! no: quieto non lo so pensare
tra le quattro assi, l’uomo della guerra.
Egli era il vento; il mondo era il suo mare.


Egli era il vento: e qual sepolcro serra
il vento che vanì con un lamento,
poi che volò su l’onde e su la terra?

Ecco: egli leva dalla bara il lento
suo fasciame dell’ossa; e su le porte
esplora l’aria, corazziere attento,

dalla lunga ombra. A mano a man più forte,
viene un nitrito simile a procella.
Giunge il cavallo, scende giù la morte.

Con suono arido, quasi se ne svella,
scende, e per te tiene il cavallo al morso,
regge la staffa. Corazziere, in sella!

Il senz’indugio, il senza mai rimorso
tu sei. È neve il tuo pensier, sul monte;
e n’ha, qual fiume, il tuo volere il corso.

Tu sei la Forza. Avanti dunque, o conte,
principe, duca, esci dal tuo maniero,
galoppa su la cupa eco del ponte,

corri pel mondo, ancora tuo!… Guerriero
dalla lunga ombra, ferma il tuo cavallo
nel campo, sotto quello stormo nero!

Era una batteria quella od un vallo?
la mischia avvenne tra le arboree felci
o i miti solchi esperti del metallo?

Qual n’era il segno? il vischio reo dell’elci,
l’aquila adunca, il Cristo che perdona?
E furono le spade arma o le selci?

E questa romba è di cannon che tuona,
o d’una mandra che barrisce ancora,
di buoi Lucani? E per una corona


o per un cervo ucciso oggi vapora
quel sangue? E i corvi dalla rauca voce
scavano gli occhi a miei fratelli d’ora

o a vinti, là, gladïatori in croce?

LA FAVOLA DEL DISARMO

Il mandriano dell’Aràm riposa.
È questa l’ora che ciò ch’era in cielo
di nubi fosche, trascolora in rosa:

l’ora, che appressa ciò ch’è lungi: un velo
vela il presente, un raggio è sul passato;
ombra al deserto, luce sul Carmelo:

l’ora, o pastore del deserto ombrato,
che al tuo ricordo appressa ciò ch’è morto,
ed al tuo sonno ciò che non è nato.

Tu dormi: è pace. Ma qual urlo è sorto
rauco dall’ombra? Oh! tu dormi. Le fiere
bevono insieme a non so qual Marmorto;

scesero a bere acqua di pace, a bere
acqua d’oblìo. Perciò non temi: un’onda
sola è comune a tigri ed a pantere.

Bevono: veglia la pupilla tonda,
mentre le lingue rosse come brace
leccano l’acqua che dal muso gronda.

Pastore errante, e tu non vegli: è pace:
ogni belva disarma ora gli unghioni,
disarma l’odio del suo cuor pugnace…

No! veglia veglia! Accendi i fuochi, i buoni
fuochi, in cui grande è l’umile virgulto!
Non senti come un brontolìo di tuoni?


il gonfalone che dal lido estrusco
inalberavi e per i monti enotri,
sui sacri fonti, onde gemea tra il musco
l’acqua negli otri,

mentre sul poggio i vecchi deiformi
stavano, immersi nel silenzio e torvi
guardando in cielo roteare stormi
neri di corvi.

Pendeva un grave gracidar su capi
d’auguri assòrti, e presso l’acque intenta
era al sussurro musico dell’api
qualche Carmenta;

ché allor chiamavi come ancor richiami,
alle tue rosse fragole ed ai bianchi
tuoi fiori, i corvi, a un tempo, e l’api: sciami,
àlbatro, e branchi.

Gente raminga sorveniva, e guerra
era con loro; si sentian mugliare
corni di truce bufalo da terra,
conche dal mare

concave, piene d’iride e del vento
della fortuna. Al lido navi nere
volgean gli aplustri con d’opaco argento
grandi Chimere;

che avean portato al sacro fiume ignoto
un errabondo popolo nettunio
dalla città vanita su nel vuoto
d’un plenilunio.

Le donne, nuove a quei silvestri luoghi,
ora sciogliean le lunghe chiome e il pianto
spesso intonato intorno ad alti roghi
lungo lo Xanto;


ed i lor maschi voi mietean di spada,
àlbatri verdi, e rami e ceree polle
tesseano a farne un fresco di rugiada
feretro molle,

su cui deporre un eroe morto, un fiore,
tra i fiori; e mille, eletti nelle squadre,
lo radduceano ad un buon re pastore,
vecchio, suo padre.

Ed ecco, ai colli giunsero sul grande
Tevere, e il loro calpestìo vicino
fugò cignali che frangean le ghiande
su l’Aventino;

ed ululò dal Pallantèo la coppia
dei fidi cani, a piè della capanna
regia, coperta il culmine di stoppia
bruna e di canna;

e il regio armento sparso tra i cespugli
d’erbe palustri col suo fulvo toro
subitamente risalia con mugli
lunghi dal Foro;

e là, sul monte cui temean le genti
per lampi e voci e per auguste larve,
alta una nera, ad esplorar gli eventi,
aquila apparve.

Volgean la testa al feretro le vacche,
verde, che al morto su la fronte i fiocchi
ponea dei fiori candidi, e le bacche
rosse su gli occhi.

Il tricolore!… E il vecchio Fauno irsuto
del Palatino lo chiamava a nome,
alto piangendo, il primo eroe caduto
delle tre Rome.

GLI EROI DEL SEMPIONE
Sottoterra due vaporïere immote,
divise da una grande porta,
aspettano. Un’ardente ansia le scuote.
Un urlo va per l’aria morta.

Porta di ferro, oggi è il trionfo! Muovi
su gli aspri cardini sonanti!
Apriti, o porta dei millenni nuovi!
O nuovi vincitori, avanti!

Voi per lunghi anni, a un’invisibil guerra
sacrando le rubeste vite,
avanzavate ignudi eroi sotterra
al rombo della dinamite.

Da voi fuggiva a passo a passo il monte
tremando per le cupe mine:
voi tergevate dal sudor la fronte
seduti su le sue rovine.

Erano, là, le tenebre primeve,
il peso bruto, il muto oblio;
qua, il lampo, il soffio, la parola breve:
là era il Caos, qua era Dio.

Riposa, o Dio! Loda le tue giornate
col lieto rimbombar del tuono!
Uomini, è il giorno settimo: guardate
che ciò che voi faceste, è buono!

E riposate! E pace all’arma, o forti,
che al buio sfavillò sul quarzo!
Poi, per rifarla lucida, i vostri orti
coltare voi potrete in marzo.

Ognuno, il vostro: l’orto che vi renda,
su l’ampia tavola di faggio,
l’erbe non compre per la pia merenda
nel giorno di Calendimaggio.
AL SERCHIO

O Serchio nostro, fiume del popolo!
tu vai sereno come un gran popolo,
lasciate le placide cune,
muove all’officina comune;

le molte cune, tremule e garrule
come sorgenti sotto i lor alberi,
lasciate alle floride donne,
cammina al lavoro in colonne;

cammina, ed empie d’un lungo murmure
le vie, per mano tenendo i piccoli
che vanno garrendo alle scuole,
com’anche le lodole, al sole:

al sole! Al sole! Come le lodole
che, avanti ancora l’alba, lo cercano,
che dalla purezza sublime
dei cieli lo vedono prime.

Tu vai; man mano giungi, e con ilare
frastuono inondi l’arduo vestibolo;
poi, ecco, tu frangi le messi,
tu fili, qua torci, là tessi;

là picchi il maglio sopra l’incudine
fornendo il bruno ferro dei vomeri,
sante armi alla sola pia guerra
dei ruvidi eroi della terra;

là crei l’ardente soffio che illumina
qualche castello lungi sul vertice
del monte, per l’acqua che adduce
dalla’alto, rendendogli luce.

Lavoratore lieto, coi giovani
figli, Ania, Lima, Fraga, le Turriti,
gigante con figli giganti,

tra il lungo lavoro tu canti.

Sei l’avvenire. Tra le casipole
bianche, con vive siepi, col proprio
suo caldo ciascuno e suo rezzo,
tu sei la gran vita di mezzo.

Va! Invano, o eterno fiume dei secoli,
l’Oggi, il pigro Oggi, ti dice: – I muscoli
che zappino il nostro, il tuo bene,
per te!ma per me le tue vene! –

Va, va, Domani certo e ceruleo!
Te vidi, quando sceso, negli umili
tuoi giorni di magra, dal monte,
parevi arrossire del ponte:

del ponte grande, tu sottil rivolo,
roseo per una nuvola rosea,
cui chiesero, il giorno, le polle,
che le ravvenasse, e non volle:

tonò su Tiglio, tonò su Perpoli,
velò il meriggio tinnulo all’aride
cicale che tacquero, nera
passò: sorrideva, la sera:

la sera, o Serchio, mentre sul candido
tuo greto fitte squittian le rondini,
dicevi: «Oh! in quest’afa d’estate
le mie spumeggianti cascate!

Né bacio il piede bianco dei gattici,
ma su le ghiaie lucide scivolo,
scansando mulini e gualchiere;
chè ad opra m’ha preso il podere.

Vo mogio mogio: povero a povere
genti discendo, piccolo a piccoli
poderi che sembrano aiuole,

ma che ora inaspriscono al sole.

Son donne e vecchi soli, e mi chiamano
ne’ solchi nuovi, perché v’abbeveri
quel lor sessantino che muore
prim’anche di mettere il fiore.

Ora, un po’ d’acqua chiesi alla Pania,
alle mie buone polle di Gangheri,
per que’ poveretti, che, uguanno
non mesco, non desineranno…»

Chi mai può dirti, fiume che palpiti
come il buon cuore per la buon’opera:
– Perché tu non operi il bene,
mi prendo per me le tue vene –?

O Serchio nostro, fiume del popolo,
io t’udii, forte come un gran popolo
che sopra il conteso avvenire
va, l’ora che volle, ruggire.

Torbido, rapido, irresistibile,
correvi all’ombra di nere nuvole,
portandoti in cima del flutto
le livide folgori e tutto:

tutto! anche quello ch’è tuo, ch’è opera
tua! Ma di tutto, fiume, eri immemore
tu! fuor che di precipitare
laggiù nell’abisso del mare.

A GIUSEPPE GIACOSA

Così! Così! la tua Parella,
la casa tua, la tua Maria...
Così la morte è bella:
non è partire, è non andar più via.

Cantò tutta la notte un coro

mattin tra l’alte erbe guazzate
la via. La menta e il timo
rendean per tutto buon odor d’estate.

E tu restasti. Non si muore
così. Così, mio buon fratello,
si resta. Al tuo gran cuore,
Fermati! forse tu dicesti: È bello!...

L’ANIMA

Nascosta, a noi, l’anima pura,
dal vivere stesso, vive ella?
La luce è che l’oscura?
Ma cadi, o sole, e brilli, o stella?

E simile al sole tu, vita,
più che non riveli, nascondi?
E il raggio tuo ci addita
la terra, ma c’invidia i mondi?

E dopo il fuggevole giorno
dell’unico piccolo sole,
in cui moviamo attorno
con nostre pallide ombre sole,

la notte ci accenderà l’anima
in tanto che il giorno dirupa?
la notte agli occhi umani
innumerevolmente cupa?

Di qua, come radi i viventi
nell’abbarbagliante raggio
passano all’afa, ai venti,
seguendo qualche lor miraggio...

Oh! morte che le anime accendi,
di là, con un tacito anelito,
oh! sempre più risplendi
tu negl’invïolati cieli!


Là stelle si uniscono a stelle:
son grappoli, nuvole, ammassi
di stelle e stelle e stelle,
crescenti ad un sospir che passi.

Là splendono le anime, intatte,
serene, con l’essere immerso
nella goccia di latte
che fluisce per l’universo.

LA SFOGLIATURA

Chi, sfogliatrici, così mesto canto
su lo scurire ad intonar v’invita,
tutte alla tonda accanto
sedute su la verde gita?

Grande è la gita. A tempo, o sfogliatrici,
temprò la pioggia lo stridor di luglio:
spuntarono radici
dal calcio e fecero cespuglio.

A tempo, quando il gambo avea tre foglie,
voi lo roncaste con la corta zappa;
sì che, dalle sue spoglie
di seta, salda esce la rappa.

Bella granita, lunga dritta intera,
v’esce la rappa dalle spoglie nette,
come un bel bimbo a sera
svestito delle sue cioppette.

Cantate dunque, se l’annata è piena,
o sfogliatrici, uno stornello allegro!
Via quella cantilena
e la battaglia del Re negro!

Nell’Agamè, sui morti che piangete,
sono molti anni che si vanga e si ara,
e il rosso tief si miete

pei fitaurari e i barambara.

Le donne, là, dai denti come latte,
cantano anch’esse, in cerchio, su lo strame.
Una nel mezzo batte
sul cupo negarìt di rame.

Cantano il giorno che per borri e valli
seimila vite giovini sul posto
fermò come cavalli
che fiutano il leon nascosto.

Cantano poi la notte lunga, e i fuochi
accesi dal Gundapta a Gunaguna,
e spari e grida, e fiochi
sospiri al lume della luna;

e i Ras che avanti l’uggiolìo crudele
di iene erranti che fuggian la fiamma,
beveano l’idromele
ravvolti nel purpureo sciamma.

O sfogliatrici! Odo un bussare; sento
tra il vostro canto un tonfo lento e strano,
tonfo che porta il vento,
d’un cupo negarìt lontano!

Vi segna il tempo il negarìt tigrigno,
o sfogliatrici! E sul cader del ballo
sento l’hellelta: un rigno
equino, un canto agro di gallo:

di gallo desto sui dormenti, in cima
del tetto; che, quando una stella smuore,
grida la vita; prima
che il sogno sia finito in cuore.

tornerà, quando...

Serba per quando, ciò che ha fermo in cuore,
coi nostri pezzi che al ghebì selvaggio
son come cani, e con il nostro onore
ch’è come paggio...

Serba la tua purpurea barbèra
per quando, un giorno che non è lontano,
tutto ravvolto nella sua bandiera
torni Galliano.

CONVITO D’OMBRE

Quale è quel ronzìo di parole? solo
nella notte, fievole, che rimbomba
come il palpitare d’un oriuolo
dentro una tomba?

Nel deserto splende un convito. Vedi
un gran bianco in mezzo alla notte d’oro?
È il maggiore con i suoi capi, a’ piedi
del sicomoro.

Calmi e gravi parlano, o con le argute
coppe levano un tintinnìo di festa.
Un leone vigila, su le irsute
zampe la testa.

Di memorie parlano, e d’un paese
morto, e d’una terra che fu: che aveva
nome (... il grosso capo di tra le stese
zampe si leva...)

nome Italia! Italia! Fu grande. Or una
gran palude stàgnavi su, tranquilla.
Là, tra sette colli, alla nuova luna
latra una Scilla.


Oh! le bianche fronti una nube adombra:
ma i bicchieri toccano, via! La loro
patria l’hanno dessi! Lo tomba all’ombra
del sicomoro.

IL DOVERE

Udii nel cuore un grido, alto... Nel lume
del sole era silenzio, era soltanto
sempre più forte il murmure d’un fiume:
dell’immortale fiume Xanto.

Vivi di quella sola ansia del luogo
gli eroi pareano, stando già sui cocchi,
e i lor cavalli, torvi sotto il giogo
nell’immobilità degli occhi.

Gli occhi eran volti là nel mezzo al ringhio
del Sauro figlio dell’Arpia Podarghe,
a cui fremeano sopra il bianco cinghio
dei denti le narici larghe.

Parlava, il Sauro. Erano lancie in alto,
in alto sferze tremolando appena:
e il Baio frenando nei garretti il salto
scavava accanto a lui la rena.

Curvo dal cocchio sino al giogo Achille
udia da presso la vocal sua fiera.
Si riflettean tra loro le pupille
di tra la chioma e la criniera.

E la sua fiera gli dicea che infranto
gli era il ritorno. E tutti i cuori invase
l’amor lontano e il subito rimpianto
dei figli e delle eccelse case.

E in cuore alcuno lontanò sul mare,
né più le briglie, ma reggea le scotte,
col vento in poppa, e già vedea brillare

dei fuochi nell’azzurra notte.

Parlava ancora, ma l’Erinni al Sauro
ruppe la voce, che finì in nitrito
quale il nitrito umano d’un centauro
che in guato fu da un dio ferito.

Rispose Achille: e il Sauro a lui la testa
volse e l’orecchio acuto come strale,
come se gli narrasse una tempesta
suo padre, il Vento occidentale.

Lo so, rispose. E un raggio di tramonto
tacitamente per le bronzee file
passò, mentre sonò dall’Ellesponto
un ululato femminile.

Allora il grido sopra l’ululato
levò, che scosse al grande Ilio le porte
e d’uno sbalzo avventò contro il fato
i due cavalli della morte.

NEL CARCERE DI GINEVRA

I
... Dormi, – parlò – figlio dell’uomo ignoto?
dal tuo delitto erri lontanto? hai morso,
per non tornarvi, al dolce fior del loto?

Dormi? Oh! lontano tu sei già trascorso.
Nel sonno oscuro il tuo pensier calpesta
suolo senz’eco e vie senza rimorso.

Non m’odi? Io pendo sopra la tua testa;
busso al tuo cuore taciturno e vuoto.
Sai chi ti chiama? sai chi ti ridesta?

Odimi: sono il padre tuo, l’Ignoto.

perché l’hai tolto a qualche regia scure

il ferro per il tuo pugnal plebeo.
V
Tuo focolare era il dolor del mondo,
o senza tetto! Uscisti: il tuo pugnale
cercò, cercò, con odio vagabondo.

Ma tu dicevi, nell’andar fatale,
vedendo il pianto in ignorate ciglia:
«Tu mi sei sacro per il pane e il sale:

ave, infelice della mia famiglia!
conosco il segno che non si cancella:
va!» ?... No: con l’arma che gocciò vermiglia

passasti il cuore d’una tua sorella!
VI
D’un’infelice!... Oh! la sua reggia? Niuna
la invidïò, che presso il fuoco spento
pure ci avesse un tremolìo di cuna.

Niuna il suo trono invidiò, che il lento
figlio aspettasse, tuttavia, lunghe ore,
nell’abituro battuto dal vento.

Niuna mutato il suo pur mesto cuore
col cuore avrebbe, che tu hai trafitto;
niuna, nel mondo in cui si piange e muore;

fuor che tua madre, dopo il tuo delitto!
VII
Or ella ha pace, e tu non l’hai: ti sento
gemere, o figlio. E sorge una lunga eco
nel cavo sonno al tacito lamento.

Tu non lo sai, quel sangue, più, nel cieco
errare: incontri i sogni che lo sanno;
ed un eterno calpestìo vien teco.


O nell’immoto sonno ombre che vanno!
Io piango, o figlio, sopra il tuo destino;
piango per ciò, che non t’uccideranno,

ti lasceranno vivere Caino!
VIII
Son io che uccisi forse; io che da’ lidi
lontani, senza disserrar le porte,
venni, e ti parlo; e piango, perché vidi.

Vidi dall’alto, vidi dalla morte:
da quel supremo culmine del vero
tra voi non vidi il grande, il ricco, il forte,

re, plebe. Vidi un formicolìo nero
di piccole ombre erranti per le dune,
e ne saliva dentro il cielo austero

un grido d’infelicità comune.
IX
Tutti mortali – oh! tu lo sai! lo vuoi!
c’è, mancando la gran falce, il pugnale
piccolo! oh! sempre si morrà tra voi! –

tutti infelici! Che se c’è chi sale
e chi discende in questo fiottar lieve,
l’acqua ritorna, con la morte, uguale.

E l’odio è stolto, ombre dal volo breve,
tanto se insorga, quanto se incateni:
è la piet. che l’uomo all’uom più deve;

persino ai re; persino a te, Lucheni.

IL NEGRO DI SAINT-PIERRE

I
Io stavo qui nella mia tomba, vivo.
Era gran tempo che ogni giorno, ogni ora,


tra me e me la mia morte morivo.

Oh! il negro avrebbe uccisa anche l’aurora!
perché sapea che l’uomo rosso appunto
al rosseggiar del cielo esce, e lavora.

Tutte le notti sopra lo strapunto...
oh! freddo come il ferro, come il mio
coltello nudo, un uomo nudo e smunto

sentivo accanto a me: l’altro, quel ch’io
avea freddato. E io sbalzavo anelo
dal sonno, ed ecco che quell’altro ero io!

M’aveva, sì, tutto attaccato il gelo
della sua morte. Ed ero vivo, e fissi
tenevo gli occhi al rosseggiar del cielo;

se un fiato, un passo, un moto, un crollo udissi
su la mia testa, uno stridio leggiero
di chiavi, uguale ad un fragor d’abissi...

Oh! tutti i giorni! E tutti i giorni invero
sentivo qualche scossa, qualche rombo,
e tremar volte, e brandir porte... E il nero

della mia pelle si facea di piombo.
II
Un mattino, io credei morto il domani!
Io non sapevo, avvinto alla catena,
che sfregar lento, su e giù, le mani;

dove parea fosforeggiar la vena...
od una macchia. Dalle quattro oscure
pareti io vidi la gran piazza, piena.

Col viso giallo al sole eran figure
nere attorno ad un palco: erano attente
a un uomo assorto nel provar la scure.


di fuoco: altri sepolti, altri distrutti.

Non c’è più sangue, se non arso, in grumi.
Di tanti cuori, batte ancor sol uno.
Non c’è, di bocche, che la tua che fumi.

E la mia. Negro, non c’è più nessuno –.
IV
Parlò con nella gran voce i tripudi
del fuoco interno. E tacque. Io gli occhi affissi,
su, nella taciturna solitudine:

all’alta notte appesi il cuor, se udissi
più voce d’uomo, urlo di fiera, volo
di mosca. Tutto, se tacean gli abissi,

taceva. E il monte riprendea: – Figliuolo,
è morto il mondo, l’uomo, il topo, il ragno,
il tempo, tutto. Siamo in due. Sei solo.

Non c’è più palco, più città, più bagno;
la scure io fusi, io fransi le catene –.
Io risposi: «Oh! se avessi uno a compagno!»

E il monte: – Non hai me? – «Quel dalle vene
vuote, il mio uomo, accetterei pur quello».
E il monte: – Quello, non fui io, sai bene! –

«Oh! basterebbe al negro ora sol quello».
– Ma... stava in te! Se aprivi un po’ le dita... –
«Oh! che il negro non vuole altri che quello!»

– Io do la morte, non ridò la vita –.
«E dà la morte ancora a me!» Ben sai
che pur fo questo, se non mi s’invita;

ma non, per questo, egli vivrà più mai –.
V
Io, sì, vivevo; ma sol io, confuso
del mio strisciare, io solo, ancora; io ero

l’unico verme d’un sepolcro chiuso.

E il sonno della morte era leggiero
agli altri, più che a me la vita. O peso
di due morti, non una, entro il pensiero!

Quello a cui prima il sangue avevo io preso,
era il più queto. Egli tra l’erba folta
fu, prima dell’atroce ora, disteso.

Avrei voluto sussurrargli: «Ascolta:
io t’ho rubato qualche giorno appena!»
Ma sì! per fin la tomba era sepolta!

E la Montagna Calva, con la lena
continua del suo polso indifferente,
sperdeva in aria un alito di rena;

pioveva giù le sue ceneri lente:
male che segue lento la sua sorte,
quand’anche il cuore donde uscì, si pente:

pioveva giù le sue ceneri morte:
male che avanza al triste odio che fu:
male che mena strazio oltre la morte,

quando quel cuore non palpita più.
VI
Diceva: – Avete tra la notte e il vento
un lumicino d’anima che brilla
per gli altri e voi, ma ch’ad un soffio è spento.

Avete, dentro, qualche calda stilla
di sangue, che, per nulla, ecco, agghiacciato
vi serra il cuore e ferma la pupilla.

E prevenite il turbine del fato!?
La vita che spengesti, si freddava,
tu lo vedi, da sé, senza il tuo fiato...



O negro, soffia sopra la mia lava! –

L’AGRIFOGLIO

Sul limitare, tra la casa e l’orto
dove son brulli gli alberi, te voglio,
che vi verdeggi dopo ch’io sia morto,
sempre, agrifoglio.

Lauro spinoso t’ha chiamato il volgo,
che sempre verde t’ammirò sul monte:
oh! cola il sangue se un tuo ramo avvolgo
alla mia fronte!

Tu devi, o lauro, cingere l’esangue
fronte dei morti! E nella nebbia pigra
alle tue bacche del color di sangue,
venga chi migra,

tordo, frosone, zigolo muciatto,
presso la casa ove né suona il tardo
passo del vecchio. E vengavi d’appiatto
l’uomo lombardo,

e del tuo duro legno, alla sua guisa
foggi cucchiari e mestole; il cucchiare
con cui la mamma imbocca il bimbo, assisa
sul limitare.

L’EDERELLA

Prima che pur la primula, che i crochi,
che le viole mammole, fiorisci
tu, qua e là, veronica, coi pochi
petali lisci.

Su le covette, sotto l’olmo e il pioppo,
vai serpeggiando, e sfoggi la tua veste
povera sì, sbiadita sì, ma, troppo,
vedi, celeste.


CRISANTEMI

Dove sono quelle viole? dove
la pendice tutta odorata al sole?
dove, o bianche nuvole erranti, dove
quelle viole?

Quel rosaio dov’era dunque? dove
l’orto chiuso tutto ronzii la sera?
dove, o nero stormo fuggente, dove
dove dov’era?

Nubi vanno, fuggono stormi, foglie
passano in un èmpito, via, di pianto:
tutti i fiori sono ora là: li accoglie
quel camposanto.

Hanno tinte come d’occasi; e hanno
un sentore d’opacità notturna,
lieve; e hanno petali che vedranno,
urna per urna,

tutto il chiuso; bello così da quando
vennevi una, dopo aver colte al sole
tutte, quelle rose, cantarellando,
quelle viole.

A GASPARE FINALI

E teco io sono in questo dì che augusto,
co’ tuoi nepoti, all’ombra del lavoro
tuo, siedi e narri che piantavi arbusto
l’elce, per loro:

l’elce che spande a molto ciel le rame
forti, e nel tronco, ove sarebbe il cuore,
chiude un segreto murmure, uno sciame
d’api canore.


Anch’io son teco. Son partito all’alba
dal mio San Mauro. Sotto la rugiada
era, tra siepi ingombre di vitalba,
bruna la strada.

E nei cantieri ondavano le messi
con, sopra, un volo taciturno e nero
di rondinelle. E c’erano i cipressi
d’un cimitero.

E un primo raggio balenò dal mare
sopra i cipressi: e se n’udìa lontano
un pispillìo d’uccelli, un conversare
d’anime, piano

piano. Io seguiva. Ed era fermo e solo,
che ancor dal cielo non pioveva il caldo,
nella mia strada, udendo l’usignolo
piangere a Gualdo.

A Gualdo, solo e fermo ero, press’una
siepe fiorita, assai grande, assai folta:
c’era al suo piede il resto d’una bruna
croce travolta.

E nella siepe si pasceva un mondo
di coccinelle; e dalla sua fiorita
sorgeva un gaio strepito, un giocondo
rombo di vita.

E io seguiva. O forse non conosco
la mia Romagna, i suoi villaggi, i doppi
delle sue chiese? Non è quello il Bosco
grigio tra i pioppi?

Il Bosco chiaro per l’agreste fiera
di San Lorenzo? di quel dì... Ma sono
con te, Finali, o nostra mente austera,
cuore mio buono!


Beviam la gioia dell’albana bionda
per ciò che più nel forte cuor ti piaccia!
Ma prima, il viso lascia che nasconda
tra le tue braccia.

Messina, 15 maggio 1899.

A RIPOSO

Vada e riposi, dunque: dimentichi
l’erte fatali che fulminavano
la terza Italia, ai dì migliori
montante co’ suoi tre colori.

Addio, sull’alba, trotto di cauti
cavalleggeri; piume, tra gli alberi,
di bersaglieri; addio brigate,
immobili, allineate;

che sui fucili curve, gli zaini
al dosso, avanti guardano, attendono...
oh! il primo, in un fugace alone,
baleno e fragor di cannone!

Al suo Bernezzo, verde di pascoli,
verde di gelsi, torni, ed al tacito
castello, ov’ora, sole e gravi,
bisbigliano l’ombre degli avi.

Tra l’armi avite, scabre di ruggine,
anch’essa antica stia la sua sciabola;
e il suo cavallo pasca lento,
e più non interroghi il vento.

Non lui col noto squillo solleciti
la tromba, o chiami col tonfo quadruplo
e il ringhio, giù di sulla porta,
la silenzïosa sua scorta.



Ma, quando il giorno verrà che vindice
quel tricolore s’alzi e si svincoli,
o esperto di risurrezione,
risorgi! Ed accorri al cannone.

Sonò l’attenti già per la carica...
sprizzan fuor aspre tutte le sciabole.
Cavalli e cavalieri ansando
già fremono in cuore il comando.

Devi, il comando, ruggirlo, o reduce
dalla Campagna Rossa, tu al turbine!
sei tu, sei tu, che atteso hai troppo,
che devi tonare: galoppo –

march’... Ed avanti tutti coll’èmpito
tanti anni dòmo, tutti con l’ululo
tanti anni chiuso in faccia al mondo...
a fondo, ricòrdati, a fondo!

Novembre del 1909.

ALLA COMETA DI HALLEY

I
O tu, stella randagia, astro disperso,
che forse cerchi, nel tuo folle andare,
la porta onde fuggir dall’universo!

Le stelle, quando la tua face appare,
impallidiscono; ansa nei pianeti
l’intimo fuoco, alto s’impenna il mare.

Escono le sibille dai segreti
antri d’Uràno. In riva dei canali
di Marte, in pianto, passano i profeti.

Pieno di pianto è il cielo de’ mortali
figli del Sole; e sangue rosso piove
nella penombra, a man a man che sali,


degli astri attorno al semispento Giove.
II
O tu, ricordi questa terra nera?
Volgono appena otto anni tuoi, da quando
tu lo vedesti, in una cupa sera,

un della Terra. Andava solo, errando,
senza speranza, col bordone in mano,
ma senza meta, dalla patria in bando

e da sé stesso: e nel cammin suo vano
ei s’arrestava, mentre l’ombra queta
calava, udendo un mesto suon lontano.

E dagli abissi uscita allor, Cometa,
tu fiammeggiavi lunga all’orizzonte.
Udiva il suon lontano di compieta,

che par che pianga. E lo toccasti in fronte.
III
Le stelle impallidirono. Non v’era
altro che te nel cupo cielo esangue
che tu sferzavi con la tua criniera.

Tu tra i pianeti e i Soli, eri com’angue
che uccide e passa. A questa nera Terra
dicevi il tristo ribollir del sangue,

l’ombre vaganti, i gridi da sotterra,
tutti gli affanni, tutte le sventure,
tutti i delitti: incendi, stragi, guerra.

All’uomo, dietro le montagne oscure
e gl’irti rocchi, tu mostravi un luogo:
la sua città. Razzavi come scure

e fumigavi lenta come un rogo.

IV
Egli guardò. Non vide che una selva
oscura, e sopra il sonno delle genti
del mondo reo sentì latrar la belva.

Vide l’abisso con racchiusi i venti,
le fiamme e il gelo, e la perpetua romba
delle grandi acque, e lo stridor dei denti.

Udì l’alto silenzio che rimbomba
eternamente; e il lume del sentiero
scòrse, ch’è tra le stelle e la gran tomba.

Egli era il peregrino del Mistero.
E tu la morte gli accennasti, ed esso
la vide, e l’abbracciò col suo pensiero,

e sì l’uccise nel potente amplesso.
V
Ma tu sdegnosa ti spargevi avanti,
torva Cometa, in un diluvio rosso
le miche accese d’altri mondi infranti.

Dante era l’uomo. E tu dicevi: – Io posso
spezzarti, o Terra. E niuno saprà mai
che v’era un globo, ora da me percosso,

nei freddi cieli. Ti disperderai
come una grigia nuvola d’incenso,
o nera Terra! E tu, Ombra, che stai? –

Stava. Egli solo nello spazio immenso
stava a te contro, a guardia degli umani,
astro di morte. – Io mi son un che penso –

egli diceva – e sempre è il mio domani –.
VI
Tu gli solcasti della tua minaccia
la dura fronte; e il pensator terreno

ascoli si è formato fuori del Risorgimento, è  cresciuto  cioè   in  un
Te fece in una rupe d’un’isola,
solingo oh! sì, tacito oh! come,
uno chiamato sempre per numero,
un prigioniero senza nome,

ne’ suoi brevi ozi, quando gli attoniti
occhi velava la sua pena,
e come un lungo serpe all’immemore
dormiva ai piedi la catena.

Oh! aie bianche nel plenilunio,
spiranti vecchio odor di grano!
Oh! rare e grandi fiere del prossimo
villaggio, allor così lontano!

Oh! pioppi ed olmi, donde al crepuscolo
si sfoglia e guarda, e si stornella,
mentre apparisce la prima ed ultima
del cielo, l’aurea stella bella!

Dal raggio rotto tra i ferri il misero
dannato declinava gli occhi,
e te, lavoro solo suo libero,
si rivedeva sui ginocchi;

e riprendeva le paglie e i tenui
tuoi fili ripensando i grilli
del focolare striduli e il fremere
de’ turbinosi verticilli...

Filano. Ancora filano. Filano
ancora, al fuoco, quelle donne,
o ròcca, ad altre ròcche. Le vergini
son ora madri e bianche nonne.

Nessuna l’uomo sa più che ad essere
né esser più l’uomo condanna;
né quella, ch’eri per lei, che inconscia
là fila ad una vecchia canna.
30 luglio 1910.

CHAVEZ

Cercano ancora... Cercano tra i venti
randagi, in mezzo alle selvaggie strette,
su scrosciar di valanghe e di torrenti;

cercano ancora, l’ultime vedette,
rapide trasvolando per le gole,
placide roteando sulle vette,

lungo il confine, immenso azzurro, sole
tra l’aria e il vuoto, tra la terra e il sole.

Hanno sognato forse nella notte!
Battono l’ala contro la parete
dei borri, presso l’orlo delle grotte.

Ad ogni tonfo che l’eco ripete,
sbalzano su, guardando fise in fondo
dei cupi abissi, guardando inquiete

subito in cielo; con orror profondo
solcano a sghembo, spaurite, il Gondo:

hanno esplorato i monti, hanno gridato
alle montagne; con insonne cuore
mirano il cielo immobile e stellato:

palpitano alle raffiche sonore,
tremano d’una nuvola, d’un tuono
ch’a un tratto scoppia e lungamente muore;

posate ognuna sur un irto cono
mirano gli astri, se ne venga un suono...

se ancora appaia, cresca agli occhi, e passi
forte rombando, un essere terreno...
colui che ascende ma strisciando ai sassi,


colui che sogna e non è mai sereno,
colui che pensa, ma non vola, bruto
dannato al suolo dove rode il freno;

che in cielo, un dì, mirabilmente muto
passar fu visto, come Dio, seduto!

un uomo! l’uomo alato! che discese
e che sparì. Dietro le roccie nere,
ei discendea con le grandi ali tese

simile al sole delle fiammee sere,
simile al sole che si trascolora,
quanto al salire, tanto nel cadere.

Ebbe l’occaso; quando avrà l’aurora?...
Cercano, le vedette ultime, ancora.

Aquile, no! Non lo vedrete. Ancora
egli discende e nell’orecchio il gelo
ha di quel soffio e il rombo di quell’ora.

Aquile, no! Non più raffrena anelo
il suo remeggio, più non chiude l’ale
poi ch’una volta le distese in cielo.

Discende ancora con un volo eguale,
discende sempre, calmo ed immortale.

Che forre e gole e vortici e spavento
di precipizi e giganteggiar d’erte
roccie e improvvisi sibili di vento!

O voi delle altitudini deserte,
aquile dei ghiacciai, delle morene,
ei va con l’ale eternamente aperte,

va per le solitudini serene,
fuor della terra, o aquile terrene!


– Chiedi. Ove sono? Ma sei nell’isola –
dalle ondulanti cimbe le vergini
ti sussurravano soavi:
– che in mezzo del mare sognavi;

dove la veste vieta si spogliano
e il fuggitivo sembiante, e lavano
nell’onda azzurra che ti culla
già, l’anima loro fanciulla,

ch’emerge nuda semplice libera,
monda di mali, tersa di lacrime,
sì che nell’isola, per dono
del cielo, risóno chi sono:

fanciulli; eterni fanciulli, ch’amano
quello che andando gli uomini lasciano
cadere, e il mezzo più che il tutto,
e il fiore più tanto che il frutto:

vanno cantando, cantano, ed amano
la dolce vita, ch’ilari donano
al lor amor così novella,
sì pronti, per ciò che sì bella.

Quivi poi l’arme trovano, d’ellera
fiorite, e l’arpe ch’orna il Sol aureo,
tessuto lì tra corda e corda
dal ragno che l’inno ricorda –.

Sciacquava il mare cerulo, assiduo,
sommesso, come cuore; e sul margine,
velato da un oblìo canoro,
splendeano gli asfodeli d’oro.

– O gran fanciullo – ti ripetevano
con dolci intorno voci le vergini,
– è il porto! il porto! il porto! vedi
nei prati gli eroi con gli aedi:


fanciulli eterni! vedi ch’è l’isola
degl’immortali! Va dove dicono
ch’erra la grande ombra d’Achille,
e, rossi, in un nuvolo, i Mille! –

Novembre 1910.

INNI

A GIORGIO NAVARCO ELLENICO

I
Stridé la catena
dell’ancore gravi,
cantò la sirena
su l’agili navi,
fremeva di plauso il Pireo.
Pareva dal colle Eretteo
nell’etere un’ombra sfumare
(di dea?):
su l’asta le ardea
la stella polare.

Già lungi dal lido
muggivano l’onde;
sonava quel grido
qual urto di fronde
nel bosco, ad un ampio alitare.
Tra il cupo tumulto del mare
pareva d’un popolo d’anime,
vano,
quel plauso lontano
da’ mondi lontani.

Allora si volse il navarco,
si volse a quel morto sussurro:
e vide diritta nell’arco

del fulgido azzurro,
coi piedi su l’arce fatata,
col capo nell’ombra serena,
l’imagine astata
di Pallade Athena.
II
E il Mare gli disse: – Chi sei,
navarco? germoglio di dèi?
o, se uomo caduco t’è padre,
qual nome gli dà la tua madre?
Non forse egli è Neocle? Ché, senti:
dormivo cullato dai venti;
né so dove guidi le ignote triere
che sotto le stelle sobbalzano nere.

Stolarco! qual satrapa insidii,
che all’ancora sta co’ suoi Lydii?
qual Ione, sul fil della lama,
le prore nottivaghe chiama?
qual inno v’udranno cantare
nell’alba le rupi sul mare?
qual inno embaterio, cui l’eco risponda,
squillando le tibie tra il rullo dell’onda?

Dovunque tu vada, chiunque tu sia,
va dentro la notte, tu sai la tua via,
all’alba, alla morte, alla gloria: sei re!
Caduta? Servaggio? Fu voce non vera,
fu sogno d’infermi. L’acropoli è intera!
Le navi di Mycale io porto su me! –

AD ANTONIO FRATTI

I
Era sui culmini, o forte,
era l’aurora sul monte,
quando, quel giorno, la fronte

Ché se uno squillo si senta
passar su Romagna la forte,
tutti d’un cuore s’avventano
tumultuando alla morte.
III
Oh! non da Sparta la possa,
né tu la voglia pugnace,
né l’ubbidire che tace
tra sé venerando il destino,
né tu da Sparta l’avesti, o latino,
la clamide rossa.

So che al fuggevole Alfeo,
Sparta, e nei borri d’Itome
rossi passavano, come
ruscelli di sangue, i guerrieri
tuoi, su le tibie intonando embateri
del vecchio Tirteo.

Ma più vivaci, strie lunghe di fuoco,
gittò le sue turbe
fulvo un eroe, perseguendo nel fioco
crepuscolo l’Urbe...
Ciò fu nei tempi che ai monti
stridevano ancor le Chimere,
quando nei foschi tramonti
Centauri calavano a bere...
IV
Altri, altri tempi, che prischi
chiama lo stanco sorriso
nostro! Egli dorme in un’isola,
immemore di cavalcate:
dorme, ed intorno la stridula estate
riempie i lentischi.

Dorme. Ma come, o guerrieri,
come l’udiste la voce
sua, così dolce e feroce,

gridare: «Qui, figli, si muore»?
Fratti, qual vita viveva il tuo cuore
cui oggi fu l’ieri?

Fratti, se morti non erano i morti
per l’alto tuo cuore,
anche tu vivi. Non muoiono i forti
già, come si muore.
Altri si piega e distende,
ma in piedi altri resta e dimora,
come una statua che accende
nel bronzo perenne l’aurora.

PACE!

I
Fratelli, venite, v’imploro,
venite nel funebre chiuso.
L’udite d’un rauco lavoro
l’anelito vasto e confuso?...
Becchini che scavano... È rossa
la luce di fiaccole ch’erra
nell’ombra; e ben grande è la fossa
che s’apre annerando sotterra;
ben molti son là su le bare,
là muti tra il rauco anelare,
che aspettano in fila... Ribelli?
Guardate, o fratelli!

Così pazïenti là, sopra
le bare! che aspettano muti
di scendere, al fin di quell’opra,
là dove non sieno veduti
mai più! Come forti le braccia
pur ieri, e gagliardi i ginocchi!
Ma ieri era in lor la minaccia
tra i denti, la guerra negli occhi,
più nulla nei cuori, più nulla!

nemmeno la povera culla
gemente lontano... Ribelli?
Guardate, o fratelli!

Dietro le palpebre, all’ombra,
dormono gli occhi, che ingombra
l’oblìo, che stupisce il mistero;
ma sul pallore del viso
vigila un fioco sorriso
qual lampada in un cimitero;
ma dalla fila pugnace,
ma dai ribelli (oh! ribelli!)
s’alza un bisbiglio, ch’è grido!
Fratelli!
una parola sorridono:
pace!
II
Chi spira nei giovani fieri
quel soffio di voce sì pia?
nel tremulo vecchio che ieri...
cessò di tremare per via?
nell’umile donna che ancora...
l’aspettano i figli col pane?
nei bimbi... destàti all’aurora
da suon di mortai, di campane,
da grida di festa?... Chi spira,
fratelli, a quel pianto, a quell’ira
quel grido sì fievole e forte?
Fratelli, la Morte.

È fremito pallido e grave
sì come il sussurro soletto
di suora che mormori l’Avemaria
presso un tacito letto;
è romba d’ignote campane
che cullano il mondo che dorme,
lontane nell’aria e sì piane
che appena vi lasciano l’orme;

sciogliete le ignave catene!
Lasciate la morte alla Morte!
Voi stando su l’orride porte
gridate: «Tu sei ció ch’io sono!
fratello, io perdono!»

Astro del fato, cometa
ch’erri nell’ombra inquieta
cercando la fragile terra,
astro, l’arrivi, e pur, muto,
senti che n’esce l’acuto
bramire degli uomini in guerra:
passi in un attimo, o face
dell’infinito; sei lunge;
quando nei ceruli spazi
ti giunge
l’ululo d’odi non sazi:
poi... pace!

MANLIO

I
S’è udito un singulto a Caprera.
Tra i turbini è sola la tomba.
Ma nella notturna bufera
si levano squilli di tromba.

S’è udito a Caprera un singulto
dal cuor della tomba. E dai mari
s’avanza con ampio tumulto
la Tavola rossa dei Pari.

Là, candidi sopra i frangenti, i
cavalli s’impennano ai venti
davanti Caprera.
II
I Mille! I suoi Mille a Caprera!
La tomba circondano gravi.

– Oh!... dove? Nell’Africa nera,
frangendo catene di schiavi?...

O sotto gli olivi di Creta,
cercando le mandre disperse?...
Tra il mare e gli sproni dell’Eta,
nell’ombra dei dardi di Serse?...

Che mai ne rimane sul lido
deserto? qual vindice grido?
qual grande bandiera? –
III
S’è udito un singulto a Caprera.
– In mezzo alla tenebra sola?
sopr’una torpedinïera
pugnace, nell’acque di Pola?...

Su l’Alpi? fanciullo gigante
coi Mille più grandi dei primi?
ponendoti ai piedi di Dante,
vessillo di Calatafimi?...

O alfine con lui rivedeste
la tumultuante Trieste,
fratelli Bandiera? –
IV
Portatelo, o mari, a Caprera.
Se intatto è dal ferro de’ prodi,
oh! creda l’eroe, che non v’era
più ferro nel mondo e più odi!

Oh! creda che sopra la terra
cadesse, com’egli sognava,
di mano alle genti la guerra,
siccome a Caino la clava!

e senta, or che il marmo si schiude,
soffiar su le ceneri nude
la nuova grand’Era!

V
Lasciate il suo sogno a Caprera!
lasciate il suo sogno alla tomba!
Dileguino nella bufera
quei funebri squilli di tromba!

Ch’Ei sogni che l’uomo, più prono,
più forte, per l’umile via,
sì, dice alla Morte, Tuo sono!
non dice alla Morte, Sei mia!

e semina avanti il suo verno,
cadendo sul vomero eterno,
la sua primavera.
VI
O Manlio, che torni a Caprera
da sola una guerra – la vita –
o Manlio, ti prema leggiera
la terra d’Anita e Rosita!

La fossa vicino alle fosse
ti scavino a’ piedi del colle
col rastro col quale Egli mosse
guerriero le placide zolle!

Fioriscano teco i gerani
piantati da quelle sue mani,
venendo la sera!

IL RITORNO DI COLOMBO

I
Terra!... notturna, d’un tratto,
bandì dalle coffe una voce.
Vesti il mantello scarlatto,
solleva il vessillo e la croce,
tu che mettesti la prora
nel pallido occaso, e l’aurora

non sono le tre caravelle!
III
Terra!... – Sì, terra, sì. Tristo
risveglio! Dormivi: da secoli,
o portatore del Cristo,
dormivi; e giungeva a te l’eco
d’armi e di sferze; a te, presso
la tomba, il lor pianto sommesso
piangeano gli schiavi.

Esule cenere muta,
non questo è l’arrivo: è il ritorno!
Dietro la poppa battuta
dall’onde, è la sera d’un giorno...
esule cenere mesta,
del giorno latino! Ed è questa
la terra degli avi,

vecchia! È la notte del giorno
latino; è il fatale ritorno.
Quelle che stanche affaticano i cavi
là, sotto le solite stelle,
sono... d’acciaio?... le solite navi;
non sono le tre caravelle!

ANDRÉE
I
No, no. La voce che giungea per l’aria
fosca, da terra, come gridi umani,
era lo strillo della procellaria,

ch’ama li scogli soli, gli uragani
inascoltati. O forse (era di bimbi
quasi un guaire?), o forse di gabbiani.

Un suono s’alza qua e là di limbi
queruli nell’estrema ombra incaccessa:
sono i gabbiani; dicono. O colimbi


forse? o la skua? Forse la skua. Quand’essa
svola sui ghiacci, esce da mille nidi
un pianto acuto; ché, con lei, s’appressa

la morte. O vani, muti, intimi gridi
tuoi, del tuo cuore...? Udiva anche il gabbiere,
e nell’orecchio del gabbier tu fidi.

Sì: ma fu certo rombo di scogliere,
crollo di rupi, urlo di vento, affanno
d’ancor lontane, pure in via, bufere,

il mare, il cielo, o navichier normanno:
II
non era Andrée. Centauro alla cui corsa
la nube è fango e il vano vento è suolo,
volava Andrée, di là della Grande Orsa.

E l’alche prima videro il suo volo;
poi più nessuno; sì che al fin non c’era
che il suo gran cuore che battea sul polo.

Però ch’ei giunse al lembo della sera,
e su l’immoto culmine polare
stette, come su rupe aquila nera.

Ardea la stella pendula del mare,
lampada eterna, sopra la sua testa,
e pareva nell’alta ombra oscillare.

Vide in suo cuore fissi egli, da questa
onda e da quella d’ogni mar selvaggio,
di tra la calma, di tra la tempesta,

oh! mille e mille e mille occhi, nel raggio
che ardeva a lui sul capo; ed in un punto,
a quelli occhi che vide in un miraggio

subito, immenso, annunzïò: Son giunto!

III
Allor, sott’esso, grave sonò l’inno
degl’iperborei sacri cigni: un lento
interrotto, d’ignote arpe tintinno;

un rintocco lontano, ermo tra il vento,
di campane, un serrarsi arduo di porte
grandi, con chiaro clangere d’argento.

Né mai quel canto risonò più forte
e più soave. Dissero che intorno
sola, pura, infinita era la morte.

E venne, all’uomo alato, odio del giorno
che sorge e cade, venne odio del vano
andare ch’ama il garrulo ritorno.

Egli era in alto, al colmo: era l’umano
fato a’ suoi piedi. Andrée si sentì solo,
si sentì grande, si sentì sovrano,

Dio! Già moriva l’inno dello stuolo
sacro in un canto tremulo di tromba.
Poi fu silenzio. L’astro ardea sul polo,

come solinga lampada di tomba.

AL RE UMBERTO
I
In piedi, sei morto, tra i suoni
dell’inno a cui bene si muore:
in piedi: con palpiti buoni
nel cuore, colpito nel cuore:

tra grida più fiere che squilli,
di Viva! sei morto: ed al vento
tra gli altri cognati vessilli
batteva il vessillo di Trento:


la madre, quel Male ch’è male.

Il Male è sol quello che ride
d’un lugubre riso di folle;
il Male è sol quello che uccide,
che tempra di sangue le zolle,

le zolle che poi gli empiranno
la bocca, al Caino... ed esangue
poi sente in eterno che sanno
l’amaro del sangue.
V
Il Male è più grande di Dio!
Dio scende; ma l’uomo l’infrange;
Dio passa, Dio dice: «Son io
che piango in ogni uomo che piange!»;

ma presso il banchetto di vita
c’è un pianto che ancora non varia,
ma sordo trapassa il levita
vicino al Gesù di Samaria;

ma niuno, nel mondo delle ire,
di fronte al comune destino,
niuno ama piuttosto morire
Gesù, che Longino.
VI
Oh! il Male! bramito di belva
che in fondo al suo essere cupo
ravvisa l’antica sua selva,
ravvisa il nativo dirupo;

e fiuta, la belva; e già crede
che sia l’avvenire che odora
nell’ombra; e d’un lancio si vede
postato all’agguato d’allora;

e l’ali vuol mettere e tenta
l’abisso dei cieli, la fiera;

e mostro, con l’ali, diventa,
Vampiro e Chimera...
VII
Tu Re, non vedesti. Con gli occhi
guizzanti una luce corusca
di lancie d’ulani, con gli occhi
velati dall’ombra di Busca,

con gli occhi sì fieri e sì mesti,
davanti una giovane schiera
d’atleti, tu non la vedesti
la ingorda di sangue Chimera

notturna, che sibila ed alia
venendo e tornando dai morti...
Tu, Re, salutavi l’Italia
de’ liberi e forti:
VIII
l’Italia che vive nel sole,
che vuole i suoi rischi e i suoi vanti,
le marre e le trombe, le scuole
pensose e i cantieri sonanti:

l’Italia che spera, e s’adopra
concorde al suo lucido fine,
che foggia il suo fato, là, sopra
le incudini delle officine:

l’Italia che già si disserra
nel grande avvenire il suo varco,
e avanti, sia pace sia guerra,
San Giorgio o San Marco!
IX
Lui, non lo vedesti: vedevi
le vite d’Italia al lavoro:
un grido, fa quello che devi!
correva sereno tra loro.


Vedevi le inerti paludi
domate da squallidi eroi,
che, come gli eroi su gli scudi,
sul fieno riportano i suoi...

e lungi in un ultimo mare,
sott’aspre costellazïoni,
vedevi tre navi lottare
coi gravi monsoni.
X
Va, giovane Italia: t’aspetta,
ti chiama il tuo fato con voce
d’angoscia. O salute o vendetta,
s’hai l’aquila antica e la croce,

va, portala! L’aquila vede
dall’alto la vasta pianura.
La croce... e tu fanne, alla fede
degli avi, la spada più pura!

Va, memore Italia, tra i primi
tu giunta per ultima. Doma,
costringi, e rialza e redimi!
va, giovane Roma!
XI
Lui... non lo vedesti. O Re forte,
nell’anima calma e serena
nel cuore cui pure la morte
lasciava due palpiti appena,

lui, non lo vedesti; vedevi
lontano lontano, in un mare
di ghiacci, tra pallide nevi,
tra il cenere crepuscolare,

tra sibili sordi di vento,
tra l’ombra e il silenzio, là, solo,
vedevi un piroscafo lento
dirigersi al Polo.

Palpita in alto un’aurora
verde che sfuma e si dora:
sale e fiammeggia; discende,
si rifugia nel mistero...
Come all’accenno d’un dito,
torna, divampa, risplende,
fatüo fuoco infinito
d’infinito cimitero... –
II
Salvi! L’antica bandiera
eccola, o reduci, al vento!
V’è la gramaglia... oh! non v’era
là nel vostro attendamento:
essa non copre e scolora
quel vessillo che piantaste e che là solo,
alla deriva, forse ora
già trema sul Polo...

Giovane duca, tu pensi.
Pensa alle tue visioni!
Pensa ai tuoi pelaghi immensi,
dove alzasti i padiglioni.
Morte e silenzio. Soltanto
si levava da un’incudine, sonoro,
ritmico ed ilare, il canto
del sacro Lavoro.

C’era il Lavoro con voi:
c’era, o pilota d’eroi,
anche la fame, l’insonne
fame, il freddo e la tempesta.
Vieni! C’è fuoco romano
qui tra le rotte colonne.
Scalda l’offesa tua mano
all’eterna ara di Vesta!

III
Voci di là della vita
turbano il sonno latino.
L’anima sorge stupita
dalla pietra del cammino!
Sembra che il campo contuso
sia da magli smisurati e regolari...
È il calpestìo de’ triari
tuoi, Mario, tuoi, Druso.

Strepito d’oltre la morte
rompe la notte latina,
come un precipite e forte
martellare d’officina.
Forse è colui che non dorme
mai, l’eterno Michelangelo che scava
qualche Crepuscolo enorme
da un blocco di lava.

Voi, pionieri, nell’atrio
bianco degli uomini, il patrio
Genio voi certo l’udiste,
tra il silenzio universale,
lungi dai giorni e dall’ore,
solo, né lieto né triste,
affaticarsi al chiarore
d’un’aurora boreale.
IV
O pionieri... Noi siamo
l’opre di tutta la terra,
popolo indomito e gramo,
come schiavi presi in guerra:
muta un’angoscia ci doma,
ché ci raspa sopra il cuore tratto tratto
l’ugna d’un fiero lupatto
tuo, lupa di Roma...


Siamo una cupa masnada
che si rifiuta e si scaccia,
e che riprende la strada
col piccone e la bisaccia;
mentre nel cuore profondo
che riflette nuove nubi e nuove stelle,
passano tre caravelle
che cercano un mondo...

Lo troveremo due volte.
Tu dalle tenebre folte
dove si muove il Gran Carro,
tu ci porti una vittoria.
Eccolo, o duca latino,
eccolo il pane di farro,
pane pel nostro cammino,
gloria! gloria! gloria! gloria!

A UMBERTO CAGNI
I
La nostra bandiera
sta sopra indicibili lande.
Chi l’ha nell’eterno confitta?
chi? Stuolo non molto, sì grande.

E ferro non era
nelle inaccessibili mani:
aurighi d’alivola slitta,
tra un rauco anelare di cani,

parevano un arido volo
di foglie, che piccolo e solo
va con la bufera.
II
Per solidi mari,
gli aurighi, e tra mobili rupi,
l’icòre di numi dal gelo
salvando con pelli di lupi;


V
Né oro e né terra;
non altro che gelo e che gloria.
Né d’altri che dei vincitori
bevesti le vene, o vittoria!

Il forte s’afferra
col forte. Sceglieste il più forte
di tutti, voi, giovani cuori:
perché voi sceglieste la Morte!

Sì, guerra, a chi tutti ci assale,
che fa più mortale il mortale!
Sì, guerra... alla guerra!
VI
Fratelli d’Italia!
là, sola, sui ghiacci, vedete?
nel giorno sì lungo, che l’alba
sementa ed il vespero miete,

fratelli d’Italia,
va; in mezzo alla notte infinita
che nella sua tenebra scialba
non ode un singhiozzo di vita,

va; lenta tra sibili e schianti,
tra vortici e raffiche, avanti,
l’Italia, l’Italia!,
VII
va: tra la raggiera
d’un fuoco che in cielo trascorre,
fratelli del mondo, su l’ultima
pinna dell’ultima torre,

tra l’alba e la sera,
sta il segno che nelle sue tende
gremite di pianti e singulti
l’antico uccisore s’arrende;



ha issato la Terra pugnace,
segnacolo, o gloria!, di pace
la nostra bandiera!

ALLE BATTERIE SICILIANE

I
Oh! fuoco di folgori! schianto
di turbini! morte
di cento e di cento e di cento!
Singulti di sangue! ruggiti di pianto!
spavento
d’abisso!... Tu solo qui, forte?

Nell’alto, nell’alto, nell’alto,
sul sangue che pesti,
tra un morto ed un rantolo, in mezzo
le grida e le salve, la fuga e l’assalto,
sul pezzo,
tu, solo, tu ultimo, resti!

Col cuore che t’esce dal petto,
col cuore che sbalza e ti fugge
in avanti e ti freme
là in mezzo, tu stringi il moschetto
contro un uragano... che rugge
insieme! insieme! insieme! insieme!
II
Poc’anzi... Silenzio! si marcia
su Enda-Chidane.
Nell’ombra dei monti va bruna
la schiera. L’azzurro del cielo si squarcia.
La luna
risplende su l’ambe lontane.

Su su, tra gli abissi e le grotte,
le quattro brigate!
D’un pallido scroscio di piedi,

d’un palpito immenso risuona la notte.
Tu credi,
pastore, a fragore d’acquate.

Serpeggia sui tetri burroni
la fila dei muli tra i massi
del fosco Belàh:
scintillano a tratti i cannoni,
tentennano i cofani ai passi:
si va! si va! si va! si va!
III
I monti son irti di guglie,
piramidi, coni:
son chiuse da roccie le valli.
Avanti! Quei punti là, neri... Pattuglie?
sciacalli?
Quei gridi... Nemici? leoni?

Dal cielo che fulgido guarda
quel muto brusìo,
la Croce del Sud a te brilla...
Oh! non a tua madre che forse con tarda
pupilla
tra gli astri va in cerca di Dio!

Avanti sui neri burroni!
Quaggiù, tutto ignoto; ed ignote
le stelle lassù!
Scintillano a tratti i cannoni,
tentennan gli affusti e le ruote:
mai più! mai più! mai più! mai più!
IV
Su l’alba... In batteria!... Lunge,
negli echi d’Entsàs,
la salva dei Vètterli tuona.
È il Primo, è Turitto, Turitto che giunge,
che suona
la sveglia nel campo dei Ras.


Singulti di sangue! ruggiti di pianto!
spavento
d’abisso!... Tu solo qui, forte?

Qui, solo, artigliere. Qui, donde
già fosti divelta
tu, giovine vita. Qui. Salve!
Non odi qui, vinto, tra suono di ronde e
di salve
le donne trillare l’hellelta.

Non odi qui l’urlo di guerra;
qui l’orda dei Galla non vedi
che viene e t’infrange.
No, reduce! questa è la terra
tua, questo è il tuo mare, ch’ai piedi
tuoi batte e plaude e canta e piange.
VII
Nell’alto! nell’alto! nell’alto!
rimani qui, forte,
tra un morto ed un rantolo, in mezzo
le grida e le salve, la fuga e l’assalto,
sul pezzo
ch’hai tratto con te nella morte,

ch’è salvo, ch’è nostro!... Non quelle
son ambe, di fronte;
ma è la montagna tua bruna:
le pendono sopra le note tue stelle;
la luna
risplende sul grande Aspromonte.

Italia fu primo quel lido.
Dal lido che in faccia ti appare,
l’Italia si noma.
È sacro quel monte, ed un grido
ne suona tra l’ansia del mare...
a Roma! a Roma! a Roma! a Roma!

ALLE «KURSISTKI»

I
Brevichiomate sorelle,
api operaie, già sparve
l’ombra del verno, e già fanno
l’api il lor miele per quelle
ch’oggi son torpide larve,
oggi, ma che voleranno
domani.

L’ultima neve si scioglie,
cadono l’ultime pioggie,
l’ultimo tuono si perde
lungi; e la quercia le foglie
vecchie abbandona, le roggie
foglie, sul tenero verde
dei grani.

E dalla terra fiorita
batte nel cielo un tumulto,
come un grand’urlo di vita
dopo un supremo singulto.
Vive ciò ch’era già morto.
Voci di su la sua tomba
squillano cantano rombano...
Egli è risorto.
II
Noi per la terra cui resta
quella, di tante frontiere,
ch’è tra la terra ed il cielo;
noi vi cerchiamo: è la festa
che noi volemmo vedere:
festa di popoli, sgelo
di cuori.

E vi troviamo, o sorelle,
gravi, di là delle porte

ferree del carcere insonne;
senza più sole né stelle,
senza né vita né morte,
donne d’amore con donne
d’amori.

Ma la gran voce di gloria
giunge là dove perdute,
dopo la vostra vittoria,
siete con donne perdute.
Vive ciò ch’era rimorto!
Voi alle donne tradite
date tre baci, e voi dite:
«Cristo è risorto!»
III
Sacri ad un solo lavoro,
tutti rivolti ad un polo,
noi ci vediamo, o sorelle;
come si vedon tra loro,
sparse in un etere solo,
le lontanissime stelle
del cielo.

Noi vi vediamo serene
muovere al vostro destino,
lungi, tra lancie di sgherri.
Ladri e omicidi in catene
fanno lo stesso cammino
sempre sonante di ferri...
Lo sgelo...

è cominciato. V’attende
l’Obi ed il Lena selvaggio.
Ma, nel passare, a voi scende
l’inno del grande passaggio.
Vive ciò ch’era più morto!
E voi baciate quei ladri
miseri. «O figli di madri,

Tu non sapevi, uccisore,
ch’erano fatte pur come
una tua pura sorella!
tua madre!

Tu non sapevi... ed or taci.
Oh! tu non fosti già tu!
Prendi, uccisore, i tre baci,
e non uccidere più!
Vergini, è il bruto ch’è morto!
E dalla fossa del bruto,
con un supremo saluto,
l’uomo è risorto!

L’ANTICA MADRE
inno degli studenti calabro-siculi di Messina

I
Roma, o fratelli, non era.
Era un’ondosa vallea.
Solo una lupa errabonda
latrava dall’arce Tarpea:
l’ombra vagava su l’onda,
d’un’aquila nera.

Nelle future tre Rome
rauco tuffavasi il laro.
Qui su l’ondivaga prora,
tra il murmure cupo del Faro,
volto il pilota all’aurora,
diceva il tuo nome...

Italia, il tuo nome, ch’è grido
di nembo che scuote le cime!
che vola e s’immilla!
Italia, tu eri in quel lido,
guardata, com’atrio sublime,
dai cani di Scilla.

II
Scesi da un ispido monte,
prima ch’, o Romolo, arassi,
sacri ad un fato novello
movevano immemori i passi,
dietro un lor fulvo vitello,
stellato la fronte:

messe mietuta dal vento,
vite lasciate alla vita,
giovani e vergini caste
movevano ad altra fiorita,
sollecitando con l’aste
l’attonito armento.

E giunsero al mare; e per loro
streperono l’onde interrotte
da un nero colosso.
Dormiva nell’ombra il Peloro;
ma l’Etna solcava la notte
d’un vortice rosso.
III
Gl’Itali stettero, e i bovi
sparsero ai piedi del monte.
Stettero i grandi armentari
con l’isola grande di fronte,
con i profondi due mari,
coi secoli novi.

Videro là, nelle arene
della costiera protesa,
l’orme d’ignoti giganti
che stavano, anch’essi, in attesa:
ed ascoltarono i canti
d’ignote Sirene...

Sicilia, dal mare di rosa
mandavi il giocondo frastuono

di tibie e di lire:
e in mezzo alla romba festosa
giungeva frenetico il suono
dei Vespri avvenire.
IV
– Siculi, dite: che appare,
là, sopra i vostri tuguri?
Una città che nel cielo
s’inalza su candidi muri...
Tremula un cerulo velo
sul placido mare.

Una città di portenti,
edificata di raggi,
tale che facile il nembo
vi passi coi suoi carrïaggi,
tale che basti il suo grembo
per tutte le genti. –

Ed una giovenca ed un toro,
lontano, alle falde d’un colle,
tracciavano un solco;
e tacito a mezzo il lavoro,
guardando le fumide zolle,
sognava il bifolco.
V
– Itali, dite: che appare
là su Cariddi e su Scilla?
Vivido un arco nel cielo
su pallide nuvole brilla...
Tremula un livido velo
sul torbido mare.

Atrio sublime, e profondo,
pieno di lampi e di gridi,
che con la curva dell’arco
congiunge nel cielo i due lidi:
portico immenso che il varco

leva la man dall’opera,
o immortalmente stanco!
scingi il grembiul tuo bianco,
mite schiavo di Dio:

la Porta ancor vaneggi!
Voglion ancor, le greggi
meste, passar di là.
II
O nostro primogenito,
puro tra i bissi puri,
le pietre che tu muri
con la gracile mano,

nel sepolcreto sembrano
chiudere i tuoi fratelli
tutti; con tre suggelli,
tutto il genere umano.

Solo la bianca Morte
chiude così le porte,
che non riaprirà!
III
Oh! le tue mani tremano!
Dove sarai tu, quando
un secol nuovo, orando,
toglierà le tre pietre?

Dove anche noi. Le candide
culle ch’or vanno e stanno
tra un canto pio, saranno
tombe immobili e tetre.

Avanti quella Porta
chiusa non c’è che morta
gente; un’ombrìa che va.

IV
O vecchio, è vecchio, al nascere,
del suo morir futuro
anche il bambino, puro
là tra i puri suoi bissi.

Tutti i fratelli tremano
seguendo te che tremi,
come su gli orli estremi
d’invisibili abissi.

Vecchio che in noi t’immilli,
lasciaci udir gli squilli
dell’immortalità!
V
Di là, di là, risuonano
chiare le argentee trombe
che spezzano le tombe
d’inconcusso granito!

Di là, di là, risuonano
canti or soavi or gravi;
ché c’è di là, con gli avi,
qualche bimbo smarrito!

Tutto il di noi che vive
è ciò che a noi sorvive:
tutto è per noi di là!
VI
Non ci lasciar nell’atrio
del viver nostro, avanti
la Porta chiusa, erranti
come vane parole;

ad aspettar che l’ultima
gelida e fosca aurora
chiuda alle genti ancora
la gran porta del Sole;


quando la Terra nera
girerà vuota, e ch’era
Terra, s’ignorerà.

A VERDI
Per il dì trigesimo dal suo transito

I
Voi che notturni moveste
per le strade ancora ombrate;
ch’or nel vestibolo, al vento
antelucano, aspettate
ch’uno v’apra il monumento
del gran Morto;

voi che da quando le stelle
pendean bianche su le lande,
state: qui, sotto una mole
grave, v’ascosero il Grande;
qui: vedetela nel sole
ch’è già sorto.

Voi che recaste gli aromi,
questa è la tomba, se voi
non cercate che una pietra:
esso, l’aedo d’eroi,
sceso qui con la sua cetra,
non è qui.
II
Come cercate il vivente
qui tra i morti? E pur n’udreste,
s’egli qui fosse, sotterra,
voci sì dolci e sì meste
di saluto a questa terra
della morte!

Ripeterebbe il suo pianto
ch’è il suo canto dell’amore!

c’è una duna?

O nell’Italia non vive
più che un resto di canuti?
Siedono a qualche cipresso,
pensano e pregano muti...
Non un letto con appresso
la sua cuna?

Morto chi suscita i morti,
con un clangor di metallo,
dai silenzi della tomba?...
Egli sul bianco cavallo
corse via con la sua tromba:
non è qui.
V
Morto? Si muore una volta!
So che il Fauno primigenio,
fiero cantava nell’ima
valle, indulgendo al suo genio,
quando rossa era ogni cima,
su, di lava.

Quando l’Italia diserta
fu dal Vandalo e dall’Unno,
ei ripeteva il suo canto,
l’imperituro Vertunno,
mentre Roma a lui daccanto
fumigava...

Su innumerevoli roghi,
sotto infinite rovine,
arso, oppresso, al flutto, al vento...
Oh! chi morì senza fine,
non ha fine, non è spento,
non è qui.

VI
Quanto morì!... La zagaglia
ebbe un giorno alla gorgiera.
Egli, egli stesso, il Ferruccio,
in quella cerula sera,
disse, senza odio né cruccio:
Dài a un morto...

Morto? Né prima né dopo,
mai, Fabrizi Maramaldi!
Cadde il Ferruccio nel sangue,
ma si chiamò Garibaldi,
quando rosso, da quel sangue,
fu in piè sorto.

Voi che notturni moveste,
quando le pallide stelle
rilucean su la rugiada,
egli, l’eterno ribelle,
balzò su con la sua spada,
non è qui.
VII
Dove?... Sull’Alpi d’Italia!
Forse il Vecchio è un giovinetto.
Sale un ghiacciaio; s’arresta
poi ch’una voce gli ha detto,
con un grido di tempesta:
Qui c’è nostro!

Dove?... Sui mari d’Italia!
Forse è un mozzo, ebbro d’aurora.
Punta una nave tra cento:
drizza tra quelle la prora.
Tra le sartie gli urla il vento:
Mare nostro!

Dove?... Nel cielo d’Italia!
Dove?... Chiedetene al Sole!

Qui non c’è che questa pietra.
Stare e posare, non vuole:
balzò su con la sua cetra,
non è qui.
VIII
Forse prepara il cammino
tra la terra e le sue stelle.
Forse, tra il muto lavoro,
guarda le ignote fiammelle,
e già dice: Un dìtra loro
parleranno!

Forse, più grande, già pensa
una grande sua parola,
quella che placa gli ardenti,
quella che i mesti consola,
la parola in cui le genti
s’ameranno!

Voi che sotterra cercate
l’ultimo Grande d’Italia,
– era l’ombra, e il giorno è sorto –
l’ultimo Grande d’Italia,
io vi grido, non è morto,
non è qui!

IL POPE
... da oggi non abbiamo più imperatore...: il sangue
degl’innocenti lo separa dal suo popolo...
Dio vi benedica...
Gapony

I
Piccolo padre, il tuo popolo
piange! prega che tu vada,
tu, sino a lui; ché a lui sbarrano
i cosacchi tuoi la strada.
Piange, e ti supplica: grazia!

Canamus - Alla Giovine Italia
Prefazione



avessero approvato il sognatore della pace, trovandosi poi avanti l’inno alle batterie siciliane ruggirebbero contro il cantore della guerra. E chi si commuove per il re che muore in piedi, non vuole poi sentir parlare di carcere che si schiuda e di catene che si sciolgano: e chi accoglie nel cuore il giuramento dei redivivi nelle parole di Mazzini, respinge e aborre il pane di farro guadagnato dal duca degli Abruzzi. E a cui dispiacque una poesia, una strofa, una parola del libro, tornerà con animo mutato sul tanto che forse gli era piaciuto e che non gli piacerà più. E così dunque dovranno far tutti, e tutti così faranno. Voi, no. A voi può piacere nel tempo stesso la slitta dei cani che va piccola e nera sulla neve, e il pope trasfigurato che passa il fiume vermiglio; voi potete ugualmente amare le brevichiomate vergini che dànno i tre baci della resurrezione ai loro uccisori, e il vecchierello schiavo di Dio che mura le pietre secolari. Nessuno è, spero, intorno a voi e in voi che v’imponga una scelta, di suo gusto, tra le tante cose che voi sentite belle e buone. E così, per ora e, come vi auguro, per sempre, voi potete godere la poesia della vita, perché avete la libertà. Non io godo ora, o giovinetti e fanciulle, nel dar fuori questo libro, sebbene nel farlo a parte a parte anch’io godessi!  Ora, no. Quei tali che ho detto, e che non pretendo mi leggano, sogliono chiedere, non, Chi sei? ma, Che cosa sei? cioè, di qual parte? – Di nessuna: homo sum –. Eppure ci sono certe fatali divisioni per le quali un uomo non può trovarsi di qua e di là, senza essere uomo o doppio o mezzo… per esempio, sei per la fede o per la scienza? Sei, nel gran conflitto economico, col lavoro o col capitale? – Non tengo da quelli che siffatta divisione ammettono come fatale e naturale: tanto posso rispondere. La fede? Ve la chiedono come una cosetta da nulla che a negarla si sia degni del fuoco, che si usava un tempo, o della riprovazione, del ribrezzo, dello schifo universale, come si usa anche adesso. Si appagano che milioni e milioni e milioni di sordomuti intellettuali dicano «Noi crediamo tutto» senza nemmeno udire un articolo di questo tutto; simili al bonomo che si fida, e non vuol vedere la distinta, e paga senz’altro. Godono di tener sotto chiave, come la collana della Tecla, il credo dei loro parrocchiani, che lo ritireranno il giorno del giudizio, e ora non lo vedono più: i loro parrocchiani, che essi dicono semplici di cuore e poveri in spirito. Eh! via! no. L’intelletto deve intervenire in questa virtù che di tutte è la più difficile, sì che i teologi non la concepiscono se non come grazia; deve essere presente di continuo, l’intelletto, se ha da sottomettersi ed assentire. Ora si può fare della fede un segnacolo in vessillo, e si può dire alle genti, che seguano quella bandiera ciecamente, senza chiedere che cosa ella rappresenti? Non si può. L’intelletto, non si deve riporre, quando si tratta di fede, come si fa riporre, quando si tratta di milizia e di battaglia. A dire il vero il più di quelli che seguono quella bandiera, sono più lontani dalla fede che quella bandiera vuol significare, che il più di quelli che si dinegano a seguirla; perché questi hanno vivo nello spirito l’elemento essenziale della fede, cioè l’atto della ragione. Non è impossibile, non è improbabile, non è insolito, che questi, dubitando e indagando, provando e riprovando, arrivino al punto estremo, in cui l’anima offra all’infinito mistero le sue vane ansie, e creda. Ora qual divisione è codesta che si crea nel genere umano, di uomini da una parte, che rispondendo Sì, mostrano di esser per il No, e di uomini dall’altra, la cui negazione può, anzi deve, essere il primo articolo del credo? La lotta? C’è sempre stata la lotta tra chi lavora e chi gode il frutto del lavoro altrui. La storia sembra anzi essere mossa dalla aspirazione di star bene in chi sta male, e di star meglio in chi sta bene. Sembra, non è; o meglio, non è mossa da quella sola energia. Oltre gli uomini occupati continuamente nella rissa della esistenza, vi sono quelli che vi si mettono in mezzo per sedarla. Oltre gli uomini ossessi dal dèmone della cupidigia e della rivalità, vi sono quelli che vogliono gettare dal cuore ogni acre fermento di contesa. Oltre gli uomini che non aspirano se non a star bene o meglio, vi sono quelli che non anealano se non a far bene, a fare, ogni giorno, ogni secolo, ogni millennio, meglio. Sono questi i veri uomini; di questi si compone la vera umanità, sempre, vogliam credere, progrediente nel dissomigliare alle bestie. Or bene, questi con le parole e più coi fatti e, sopra tutto, con l’esempio, hanno sempre cercato di disarmare i rapaci e di aiutare gli oppressi; e sono dunque nella lotta, ma non della lotta. Sono pacieri, non guerrieri. Essi non hanno altro fine, o almeno, quando anche sembri il fine sia diverso o non ne sia alcuno, non ottengono altro effetto, che di promuovere l’umanità del genere umano. Di questi bisogna essere: contro, cioè, la divisione, non o di qua o di là. Ma tristo a chi professa, non dico che adempisca, i principii che io dico! Credereste voi che sia bella la sorte di chi è terzo in una rissa, o sia mezzo tra due eserciti schierati in battaglia? Vedete il caso mio: quelli di cui ho cantata la comunione, mi scomunicano; quelli per cui ho gridato Pace! Mi chiamano chierico. Ebbene? Dicevo a principio, Homo sum, con le parole d’un pagano: dirò in fine, con le parole del vangelo, Ecce Homo! Lo so, lo so, questo è il modo, non di piacere a tutti, ma di non piacere a nessuno! A nessuno? A voi, sì: a voi, giovinetti e fanciulle, a voi, che, di qualunque età siate, o serbate o ricuperate la santa giovinezza, la cara libertà dell’anima! E come vorrei che le mie poesie, oltre che fatte per voi, fossero anche degne di voi! E quante più di numero vorrei che fossero! Io sento di non avervi ancor detto nulla di ciò che avevo per i vostri cuori. E temo di andarmene, volgendomi disperatamente addietro per dirvi ciò che non dissi, e che è, sempre e ancora, il tutto. Bisogna affrettarsi, ora. Gli anni non vengono, ora: vanno. Pochi giorni sono, io, ritornato in questa mia buona madre Bologna, mi trovai d’un subito così ingrossate e moltiplicate nel pensiero le difficoltà d’un assunto, il quale tuttavia io non avevo accettato se non a molto mal in cuore, così d’un tratto impoverite e annichilite le mie attitudini, che invilii tutto e quasi disperai. Mezzo secolo di mia vita era da pochi giorni trascorso; e che cosa avevo fatto sino allora di veramente buono e durevole? E in quelli anni, ormai così pochi, che forse mi avanzavano, necessariamente meno vivi e vitali, che cosa di meglio e di più avrei potuto fare? Tristo e nero, or preceduto e or seguito da un mio fido compagno, un mattino io presi per un’erta solitaria, poco lontano da casa mia. Guardavo i ciottoli. Di lì a poco alzai gli occhi: una grande croce di sasso era avanti a me. E io mi fermai a quella croce che è il grande segnacolo dell’umanità; dell’umanità che tale è in quanto rinunzia in parte o in tutto, a ciò che par la legge di tutte le esistenze; alla lotta, vale a dire, per sé. Mi fermai, e mi volsi. La grande città si stendeva ai piedi di quella croce, e cominciava a due passi di lì; eppure pareva tutta quanta lontana: come se io la vedessi in sogno. Non la vedeva tutta, ma quanto vedeva, era essa, sì che pareva infinita. Una leggiera nebbia ondeggiava su lei, e s’indorava un poco al pallido sole invernale. Si distinguevano le grandi masse dei templi e le alte torri: proprio in faccia a me il sottile stelo dell’Asinella feriva di tra la nebbietta l’aria turchina. Qua e là un fioco e dolce suon di campane pareva la voce della poesia sull’immobilità della storia. E la mia vecchia Bologna mi parlò al cuore e mi parve che dicesse: «non vedi? Sono Bologna. Non ricordi? La tua giovinezza è qui. La tua povera giovinezza che tu non vivesti, io te l’ho serbata. È qui. Ce n’è un po’ da per tutto, nelle vie e nelle piazze, nelle case e nelle chiese, nella vecchia Università, persino a San Giovanni in monte. È qui. Ha fatto bene a venire a riprendere ciò che lasciasti. Coraggio!». Oh! fosse vero, o giovinetti e fanciulle, che io potessi ritrovare le cose perdute! A voi io le renderei; e sarei felice io, del dono più a voi conveniente, che potessi farvi ancora!
Bologna, 12 febbraio del 1906.
.

Ch’io resti col pensiero,
che non si estingua mai!
E sempre in me sarai,
in te sempre sarò.

Ma… Oh! l’eterna doglia
del mio pensiero sperso,
quando nell’Universo
cerchi ciò che non v’è!

quando le braccia voglia
per ricondurti al seno!
la bocca! gli occhi! almeno
perch’io pianga su te!

L’ULTIMO FRUTTO

Io t’amo, o tarda bacca selvatica,
che non maturi se non nell’intima
cucina, pendendo in corimbi
più su delle dita dei bimbi.

Te il più ritroso porta tra gli alberi
familïari, ed ultima, e piccola
ma cara, il villano ti coglie
pensoso al cader delle foglie;

e tu, mentre urlano aspre le raffiche,
ricordi ai bimbi chiusi che ronzano
per casa come api nel bugno,
le rosse ciliegie di giugno.

Rosea ma lazza come la vergine
che sul materno palpito s’educa,
tu ami la casa tranquilla,
tu ami il camino che brilla.


incomprensibilità, Dio!

IL CANE NOTTURNO

Nell’alta notte sento tra i queruli
trilli di grilli, sento tra il murmure
piovoso del Serchio che in piena
trascorre nell’ombra serena,

là nell’oscura valle dov’errano
sole, da niuno viste, le lucciole,
sonare da fratte lontane
velato il latrato d’un cane.

Chi là, passando tardo per tacite
strade, fra nere siepi di bussolo,
con l’eco dei passi, in un’aia
destava quel cane, che abbaia?

Parte? ritorna? Lagrima? dubita?
ha in cuor parole chiuse che batton
col suono d’alterno oriuolo?
ha un’ombra, ch’è sola con solo?

Va! Va! gli dice la voce vigile
sonando irosa di tra le tenebre.
Traspare dagli alberi folti
la casa, che sembra che ascolti…

come tra il sonno, chiuse le palpebre
sue grandi… L’uomo dorme, ed un memore
suo braccio, sul letto di foglie,
sta presso la florida moglie.

E dorme nella zana di vetrici
la bimba, e gli altri piccoli dormono.
S’inseguono al buio con ali
di mosche i loro aliti uguali.

Uguali uguali, passano tornano

sanguinolente:

in alto in alto, sopra i gioghi bianchi
d’Etna, più su de’ piccoli occhi torvi:
nelle bassure crocitano branchi
neri di corvi.

Quel crocitare mi destò. Di fronte
m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa
sorta dal mare! E nell’azzurro un monte:
l’Etna nevosa.

Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove,
pulsa una cetra od empie una zampogna,
e canta e passa… Io era giunto dove
giunge chi sogna;

chi sogna, ed apre bianche vele ai venti
nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora
l’ospite lui ravvisi, dopo venti
secoli, ancora.

LA QUERCIA D’HAWARDEN

Quercia d’Hawarden, dove sei? Te pure,
come le quercie antiche dalle rame
secche, del parco, abbatté giù la scure.

O nidi che celava il tuo fogliame!
O nell’alto pietà stridula e varia
di voli fermi, come d’api a sciame!

O stormi usati che al dorar dell’aria
scendeano in te per celebrar la festa
della lor giovinezza, o centenaria!

O stormi erranti che per l’aria mesta
di nubi ner in te scendean fidenti
a sfidare il fragor della tempesta!


Un bramito, un grugnito ed un singulto
di sangue: voci d’ira irrequïete:
ed ecco arde la rissa, arde il tumulto,

la guerra! Nelle cupe ombre segrete
arde la guerra: l’acqua della gora
non è bastata a tutta quella sete.

Ora, silenzio. Ma tu veglia ancora;
nutrisci il fuoco buono ed infinito;
veglia ed aspetta il raggio dell’aurora!

Qualcuno viene; solo uno: fuggito
o vincitore? Tacquero le iene.
Un urlo tuona; solo, ma ruggito;

ed è sol uno, ma leon, che viene.

AL CORBEZZOLO

O tu che, quando a un alito del cielo
i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti,
tu no, già porti, dalla neve e il gelo
salvi, i tuoi frutti;

e ti dà gioia e ti dà forza al volo
verso la vita ciò che altrui le toglie,
ché metti i fiori quando ogni altro al suolo
getta le foglie;

i bianchi fiori metti quando rosse
hai già le bacche, e ricominci eterno,
quasi per gli altri ma per te non fosse
l’ozio del verno;

o verde albero italico, il tuo maggio
è nella bruma: s’anche tutto muora,
tu il giovanile gonfalon selvaggio
spieghi alla bora:


Porta di ferro, apriti!… Ma lontani,
lavoratori, per la valle
voi siete, la mercede nelle mani
ed il piccone su le spalle.

Le spalle voi volgete oggi al traforo
della montagna di granito…
Oh! non divina sorte del lavoro,
che attrista quando sia compito!

Voi riprendete la perpetua via
da dove, a dove si lavora.
«Quale Ararat, qual Monte Sant’Elia,
compagni, il nostro acciaio vuol ora?

Qual mare, dighe contro cui si franga,
com’uomo contro l’ira sua?
qual lago chiede il rostro della vanga?
qual terra il solco della prua?

Quali altre vie, per ghiacci o per sabbioni,
cerca il vapore, che, nei cupi
silenzi, mostri i rossi occhi ai leoni,
che sperda col suo fischio i lupi?»

Latin sangue, gentil sangue errabondo,
tu sei qual eri nel tuo giorno:
ancora sai tutte le vie del mondo…
non sai più quella del ritorno.

Voi siete ancor le ferree coorti,
voi siete i veliti e triari…
ma i morti d’ora non son più che morti,
intorno per le terre e i mari.

Porta di ferro!… Oh! chiama tu, grande Urbe,
le tue legioni veterane
dalla vittoria! A quelle eroiche turbe
dà gl’inni del trionfo, e il pane.

di trilli arguti e note gravi;
e il plenilunio d’oro
splendé sul letto dove riposavi.

All’alba si diffuse un grande
odor nel portico: il tuo chiostro
fu pieno di ghirlande:
una diceva: al caro pin ch’è nostro.

Un dono era gentil, di villa.
Ognuno volle dar qualcosa.
Cambiarono una stilla
del lor sudore in un bocciol di rosa.

Al Capo le massaie, leste
scendendo al suo passar le scale,
porsero il soldo agreste,
il candido ovo che si dà pel sale.

E tu con tutti loro a schiera
scendesti tra le verdi siepi
alla tua chiesa; e c’era
un odor di sepolcri o di presepi,

e il suono del dolore in pace,
che vuole diventar più tanto,
che s’ama, che si piace,
c’era il singhiozzo che ritrova il pianto.

E tutti in pianto e tutti al pianto
soave delle tue campane,
mossero: andava accanto
ai contadini il loro vecchio cane.

E tu giungesti alle tue genti
già presso al dolce mezzogiorno.
Sotto rosai pendenti
entrasti. I verdi faggi erano intorno.

La falce aperto avea di primo

A CIAPIN

Quella vendemmia ch’hai deposta, senza
libarne, pura, nel cellier di sotto,
tre anni fa, per l’ora che in licenza
venga Pinotto;

quella vendemmia che sgorgò dal cerro
del masso, credo; ch’odïò la fonte;
ch’altra non ebbe tanto del tuo ferro,
ferreo Piemonte;

quella vendemmia che ribollì scossa
tutta da un cupo palpito alla prima
luna di marzo, come l’onda rossa
d’Abba Garima;

e ch’ora tiene nel suo forte vetro,
come in un muto e forte cuor, costretta
l’ira d’allora e il lungo pensier tetro
della vendetta:

Ciapin fedele, frema negli oscuri
vetri segnati dalla cauta cera,
quella vendemmia! resti ancor, maturi
quella barbèra!

Non beva il vino dell’eroe chi chiede
al vin l’oblìo del cuore e delle gambe
tremule! Ei vive: là vagar si vede,
solo, tra l’ambe.

Serbalo il vino dell’eroe che tace
ma vive. Ignote costellazïoni
lui fissano e, con occhi tra le acace
tondi, i leoni.

Serbalo il vino dell’eroe che vuole
quello che vuole, e là resta al comando
suo, donde, certo e allegro come il sole,

II
Son io che uccisi, forse; io non veduto;
sì; io che piango a capo del tuo letto
e che parlo nel tuo carcere muto.

Piangiamo insieme. M’odi? Eri un reietto,
un solitario nella dura via;
andavi senza pane e senza tetto

e senza nome; e della legge pia
non t’accorgesti che per le catene;
e la tua patria t’intimò: Va via!

anche tua madre, Va! ti disse... Ebbene?
III
Eri – suprema gioia – eri innocente!
potevi dir tendendo le tue braccia:
«Voi tristi, io buono; e voi tutto ed io niente!

Perché lo soffro, non perché lo faccia,
conosco il male; e voglio che non resti
del vostro male nel mio cor la traccia:

io v’amo!» Eri innocente, eri dei mesti
di cui far bene è non dover, sì gioia:
eri la dolce vittima; volesti

essere... sciagurato, essere il boia!
IV
Qual tesoro di pianto non deterso
e non veduto, di superbo pianto,
hai con un’ebbra voluttà disperso!

hai rinnegato quel dolor tuo santo,
che venne teco a tanta via, che pure
ti si sarebbe addormentato accanto!

hai disertato dalle tue sventure!
hai voluto tiranno essere e reo!

Tra il ceppo e il filo, sì sottil, no, niente
c’era per anche. E già quel colpo ghiaccio
succhiava il sangue a tutta quella gente.

Ecco... risonar passi, un catenaccio
stridere, aprire un poco l’uscio, a un poco
di luce entrar la lunga ombra d’un braccio...

quando uno scroscio, un lampo udii di fuoco,
un crollare, un girar tutto in un’onda,
gli urli di tutti in un sol urlo fioco

come d’un solo... E, come fosse fionda,
la mia catena mi rotò con sé,
e scagliò. Nella oscurità profonda

intesi: – Negro, lascia fare a me!
III
Io sono, negro, la Montagna Calva,
io sono il caso, io sono il dio più forte,
che gli altri uccide, ma che te, ti salva.

L’ebbero, negro, l’ebbero la morte!
O negro, uccisi il giustizier sul palco,
uccisi il carcerier dietro le porte.

Il cuor t’alia nel petto come un falco
inchiodato. Sta su! Guarda, se vuoi
le genti armate col mio piede io calco.

La tua sentenza... la bruciai co’ tuoi
giudici. Il tuo delitto... io lo soppressi.
Non lo sappiamo ch’io e tu: tra noi.

Non temer più. Perché più non temessi
de’ tuoi nemici, negro, uccisi tutti:
se avevi amici, negro, uccisi anch’essi.

Coi sassi intorno li inseguii: con flutti
di fango, fiati di veleno, fiumi

Per ogni luogo prodighi, per ogni
tempo, te stessa, e chiami a te leggiera
ogni passante per la via, che sogni
la primavera.

Ti guarda e passa. Tu non sei viola!
Di sempre sei! Non hai virtù che piaccia!
La gente passa, e tutti una parola
gettano: Erbaccia!

Tu non odori, o misera, e non frutti;
né buona mai ti si credé, né bella
mai ti si disse, pur tra i piedi a tutti,
sempre, ederella!

LA ROSA DELLE SIEPI
Rosa di macchia, t’amo, e tuo fratello
il biancospino. Per le vie maestre
quando tra i biancospini un arboscello
vedo, silvestre,

tuo, che fiorisce, io penso che tu saggia
sorella allora giunta sia tra il branco
con la merenda, e resti un po’, selvaggia,
nuova, al lor fianco;

resti, ancor molle della tua rugiada,
al polverone, e così faccia tardi
mentre con loro a quella lunga strada
bianca tu guardi;

guardi chi passa nella grande estate:
la bicicletta tinnula, il gran carro
tondo di fieno, bimbi, uccelli, il frate
curvo, il ramarro...

E guardando apri tutti i fiori, e sogni
di quei passanti con lor ombre nere e
lasci distratta qualche foglia ad ogni
fiore cadere.


La notte e il giorno lunghi partitegli
tra lievi sonni, tra piccole opere
voi ora, querule campane,
voi galli dall’aie lontane.

E le semente curi, e le floride
viti rassegni, pampane e grappoli
mirando attento, e poi ritrovi
le fila dei nitidi bovi;

o poti i rari rosai che recano
pii chi le prime rose chi l’ultime,
o leghi i crisantemi e i cespi
de’ glauchi garofani crespi:

e al focolare vecchio dove ardono,
adagio, i ciocchi di vecchie roveri,
attuti, immobile al suo canto,
la doglia dell’omero franto;

o dorma al lene fruscìo del garrulo
rivo, che pure, dopo una torbida
acquata, va col tuon, tra i sassi,
di truppa infinita che passi...

Poi dorma il sonno più forte, l’ultimo:
serenamente; poi ch’egli l’ultimo
dei sonni, forte, non più forte,
lo sa; la conosce la morte:

poi ch’egli cadde già per l’Italia,
poi ch’egli visse tra noi già martire!
Fosse ora morto di ferite,
oh! dava alla Patria due vite!

Due vite hai dato. Due per il giovane
suo tricolore, tu coi cadaveri
già bilanciato sulla fossa
di calce a non farti più ch’ossa!


le mani aperse ed allargò le braccia.

E immobilmente ascese tra il baleno
delle tue scheggie, ascese senza fine,
come in un plenilunïo sereno.

Gli si frangean, col croscio di ruine,
bolidi intorno; in polvere lucente
ridotto il cosmo gli piovea sul crine.

Negli occhi aperti, accese appena e spente,
morian le stelle. E Dante fu nessuno.
Terra non più, Cielo non più, ma il Niente.

Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l’Uno.

Gennaio 1910.

AD UNA RÒCCA

Chi te, non grave scettro, bello, aureo,
diritto, col tuo boccio colmo,
tessé di bionda paglia e di porpora,
nell’aia, all’ombra del grande olmo;

nei mesti giorni, che arrugginiscono
le foglie, e il sole già si vela;
che insegna e fregio fóssi sul candido
corredo e l’odorosa tela?

Nei giorni dolci, che i bovi e gli uomini
e il sole, alfine un po’, riposa;
per esulante vergine, o vergine
giungente nuova all’uscio sposa,

chi te, già prima, solingo e tacito,
traendo la sorrisa bocca,
formò di curve lucide gretole
sul gambo d’avellano, o ròcca?


fuor della terra che notturne a prova
serrate, come preda da voi morsa,
tra i fieri artigli, a che più non si muova;

eppur si muove, e corre, e nella corsa
v’aggira e porta e al sole riconduce;
mentre lontana splende la Grande Orsa,

splende Orione, Aldebaran, Polluce...
Ma ci discende nella pura luce.

Discende? Ascende! Aquile, gli occhi aprite
avvezzi al sole che gli spazi invade,
alle stelle remote ed infinite!

Là, sulle incerte nebulose rade,
là, sull’immensità che gli s’invola
di sotto, là, su l’alto cielo ei cade.

Cade, con la sua grande anima sola
sempre salendo. Ed ora sì, che vola!

Bologna, novembre 1910.

ABBA

T’erano attorno lievi le vergini
sorelle, navicelle che sfiorano
volando questo mar crudele:
ne udivi frusciare le vele;

schioccar le vele bianche, le sartie
ronzar ne udivi lucide, ed esili
lor voci. – O tardamente accorto,
sei giunto – dicevano: – è il porto! –

Udivi queti bisbigli e queruli
lagni interrotti, come di passeri
désti d’un subito nel colmo
dell’umida notte su l’olmo.


volgesti alla luce lontana?
era, tra i cantici della dïana,
l’aurora... o la morte?

Chi discendeva a quell’ora
per le boscaglie di querci
col calpestìo d’un esercito
grande sopra aride frondi?
chi salutarono i rombi profondi?
la morte... o l’aurora?

Ché tu sapevi dal vate Acarnane,
la sorte qual era.
Egli gittò nelle sacre fontane
la pietra sua nera.
Disse: – Adornatevi, eroi;
cingete ai capelli le bende!
ché con l’aurora tra voi
la morte dimane discende –.
II
Ma non venivi, io ricordo,
da Lacedemone cava
tu; né tuoi figli ora lava
l’Eurota sonante di canne,
e non li bea nelle nove capanne
l’arguto eptacordo.

Né tu da Tespie o da Cirra,
né dalla ricca Corinto;
dove l’etère dal cinto
leggiadro hanno i mille lavacri:
mille fanciulle vi bruciano lacrime
bionde di mirra.

Te questo lido mandava, ch’Esperio
fu detto; e la gente
ch’ospite accolse i penati e l’imperio
di Roma morente.

un impazïente nitrito
che trema nel cielo infinito;
un urlo improvviso alle porte,
la voce tua, Morte!

Ella, o da presso ci parli
col rodìo lieve de’ tarli
notturni, o col bronzo dal cielo,
dice: «O mortali! mortali!
ch’al ventilare dell’ali
mie, rabbrividite di gelo:
ciò che un istante in me tace,
tace per sempre. In cammino
per la caligine sola,
Caino,
tu non l’udrai la parola
di pace
III
mai più!» Così dice sommessa,
ma udita: da lei chi lontano?
non vista... Oh! vedetela! è dessa
che brilla su l’ermo vulcano,
che il cielo coi fulmini accende,
che rode all’abisso i pilastri,
che mugge nei mari, che pende
lassù taciturna dagli astri...
Lasciate alla Morte la guerra!
Voi, dite su l’umile terra:
«S’io pur fui cattivo, sii buono
tu dunque! perdono!»

Lasciate alla Morte la messe
degli uomini! O popolo umano,
nei campi che il fato ti elesse,
tu mieti pensoso il tuo grano!
Non sangue, non lagrime! Il sangue
lasciatelo nelle sue vene!
Schiudete la carcere esangue,

seguì la tua scìa!

Guarda: fu ieri: una canna
nuotava sul mare profondo:
oggi si cullano in panna
le navi su l’orlo d’un mondo.
Sorgi, Colombo: l’aurora
nel grande vestibolo indora
la Santa Maria.

Scendi, o venuto col sole,
recando le sacre parole;
lascia la tolda cui lungo la via
brillarono incognite stelle;
vieni... – Oh! non è la tua Santa Maria!
non sono le tre caravelle!...
II
Terra!... Fu lunga la notte,
la notte fu scura e divina;
quando, tirate le scotte,
cantarono salve regina
gli esuli figli dell’Eva,
cui tutto all’intorno diceva:
Domani! Domani!

Sotto le stelle, già rare,
fissavi la tenebra, o Loco!
Su l’anelare del mare
vedevi tu il guizzo d’un fuoco...
Era il tuo mondo che pace
chiedeva agitando una face
con l’onde, sue mani.

Ora, non anche s’è stinta
la tenebra, e di su la Pinta
s’alza la voce... I due generi umani
s’incontrano sotto le stelle...
terra... – Oh! non è, non è più Guanahani!

sul campo; nell’ultima sera
guardando, tra i fremiti lieti,
che cosa, o Re morto? Una schiera
di giovani atleti.
II
Sul campo, sei morto, una mano
levando alla fronte severa,
vedendo da presso e lontano,
vedendo, nell’ultima sera,

nell’ultimo istante, con gli occhi
guizzanti una luce corusca
di lancie d’ulani, con gli occhi
velati dall’ombra di Busca,

vedendo – là tra la minaccia
del nembo luceva una stella –
sei morto vedendoti in faccia
l’Italia novella...
III
Viveva l’Italia novella,
viveva! E tu, Sire canuto,
vedendo ch’ell’era assai bella,
levavi la mano al saluto:

levavi al saluto la mano,
scoprendoti il cuore... Nel cuore
te un uomo – non era un ulano –
trafisse... oh! il Quadrato che muore

per te!... Il gran mare ha il suo fondo:
Re morto, tu eri mortale:
chi grande nel mondo?... Nel mondo,
di grande, c’è il Male!
IV
C’è il Male che piange, che prega,
c’ha freddo, ch’ha fame; e quel Male
che accusa il fratello e rinnega

XII
Va!... all’Ideale la barra!
Va!... all’Ideale ch’è un punto,
ch’è un nulla; e la morte lo sbarra;
ma quando sei giunto... sei giunto!

Va, principe giovane e giovane
Italia! Nel pelago eterno,
va, cerca il tuo Polo; va, trova
nel mondo infinito il tuo perno!

Va, in mezzo alla grigia bufera,
va, dove s’incontra e s’indora
con questa che sembra una sera,
la subita aurora!

AL DUCA DEGLI ABRUZZI
E AI SUOI COMPAGNI

I
Questo è dall’ombre un ritorno!
Dante Alighieri ha sorriso.
Noi sedevamo; ed un giorno
vi pensammo all’improvviso.
L’anime nostre oscillare
sentivamo come l’ago del magnete,
tutte cercando inquiete
la Stella Polare.

– Là... I tre alberi al cielo,
come cipressi da tomba,
puntano. Un mare di gelo
la carena serra, e romba.
Come un addio di lontani,
tra le sartie nella notte ulula il vento.
Mandano un lungo lamento
le mute dei cani.


le pietre miliari,
da lega in un turbine a lega,
contando nel pallido cielo,
passando da un Alfa a un Omèga,

là giunsero; e il duce lor biondo
scagliò contro l’erma del mondo
la lancia d’Autàri.
III
E su l’acrocòro
dell’orbe, dov’egli avea vinto,
eresse una stela; ed il flutto
del mare fu il sasso del plinto.

Non inno di coro.
Non c’era coi taciti Ausòni,
che, in alto, a deriva col Tutto,
le mute Costellazïoni.

Intorno alla stela Boote
guidò lentamente le ruote
de’ plaustri suoi d’oro.
IV
O fulgidi eroi,
ci deste un impero; un impero
che armenti non pasce, che biade
non germina; sterile, è vero;

che, semplici eroi,
quell’oro non ha nelle glebe,
che giova con ferro di spade
cambiare e con sangue di plebe,

e sì, con l’onore. È un deserto!
Ma, popoli, a farlo, il deserto,
non fummo, là, noi!

Ma... Per sezione!... Confuso
s’arresta, s’oppressa,
discende Turitto dal balzo.
Dall’irta zeriba, dal vigile chiuso,
di sbalzo,
ritorna ruggendo l’ambessa.

Ritorna l’ambessa ferito,
ruggendo, e sul grosso ripara
con ululo roco...
Sui monti un sussulto infinito
nereggia di Galla e d’Amhara...
da destra, foco!... foco!... foco!...
V
Cannoni, cannoni del monte,
cannoni che il piombo
scagliate da sopra le nubi,
da picchi dond’aquile s’alzano pronte
con subito
strillo e con subito rombo;

se i lampi la luce, se i tuoni
la voce, se il mai
le roccie, se il sempre i torrenti
vi diedero, e l’impeto avete, o cannoni,
dei venti,
la rigidità de’ ghiacciai;

mitraglia!... Oh!... Che grida la tromba?
alt! Ascari, alt! Fascia gialla,
alt!... Nembo che spazza
via tutto, un galoppo rimbomba,
s’approssima il grido dei Galla:
ammazza!... ammazza!... ammazza! ... ammazza!
VI
Oh! fuoco di folgori! schianto
di turbini! morte
di cento e di cento e di cento!

Cristo è risorto!»
IV
E noi veniamo con voi,
lungi, nell’ultima terra,
oltre inflessibili porte;
e noi veniamo da voi
anche, o sorelle, sotterra,
anche di là della morte e
del nulla.

Polvere e sangue v’ha intrisi
gli aridi riccioli intorno
l’esile fronte stupita.
Sangue e silenzio. Ed i visi
bianchi aspettare il ritorno
sembrano, della lor vita
fanciulla.

Ma nel sepolcro ch’è santo
senza pur croci e corone,
giunge a voi, vergini, il canto
della Risurrezïone.
Vive sol quello ch’è morto!
Nostre compagne sepolte,
noi vi baciamo tre volte:
Cristo è risorto!
V
Su dalle ceneri, o morte
vergini! Chiede il perdono
quei ch’ha percosso ed ucciso,
ebbro del sibilo forte
della sua sferza e del tuono
folgoreggiante d’unisone
squadre.

Eccoli: or sanno il lor cuore!
Eccoli: or sanno il lor nome!
Scendi, o cosacco, di sella.

dischiude ad un mondo! –

E quell’aratore lontano,
levava sul solco quadrato
la stiva ritorta:
per tre grandi passi in sua mano
portava l’aratro del fato,
lasciando una porta.
VI
E la giovenca ed il toro,
nella silvestre colonia,
mossero un mugghio augurale
lasciando la porta Mugonia:
mugghio, onde il colle di Pale
sussultò sonoro.

E su le plaghe latine
rimbombò un tuono. E l’anelo
mugghio dal vomere umano
sembrò seguitasse nel cielo,
sempre più cupo, e già vano,
ma senza più fine...

Pastori, adornate di fronde
gli ovili! Appendete alle volte
corone di croco!
Tre volte scendete nell’onde
dei fiumi! Passate tre volte
le fiamme del fuoco!

LA PORTA SANTA

I
Uomo, che quando fievole
mormori, il mondo t’ode,
pallido eroe, custode
dell’alto atrio di Dio;


Un vincitore ch’è vinto:
altro è la vita? L’amore,
sì, ma dentro un laberinto
senza porte!

Voi che recaste gli aromi,
egli vivrebbe, se fosse
qui pur sotto questa pietra;
ma si levò, si riscosse,
volò via con la sua cetra
non è qui.
III
Morto? Ma udite! Ma udite!
Come impreca! Come implora!
Rugge: qual serpe lo morse?
Geme: qual bacio l’accora?
Ama e soffre; ed altro è forse
mai la vita?

Morto? Ma udite! Ma udite!
Egli prega ora il suo Dio.
Lungi la vita gli scorse,
vuole il suo tetto natìo!
Brama e soffre: ed altro è forse
mai la vita?

Vive, ed è lungi, e ci manda
l’inno dell’anima umana
ch’è in esilio ed in martoro.
Presso un’ignota fiumana
ha sospesa l’arpa d’oro:
non è qui.
IV
Morto? Ma forse l’Italia
dai due mari fu sommersa?
Dove fu l’Etna nevosa,
l’onda ribolle e riversa?
dove stette il Monte Rosa,

P
dà, per i suoi figli, il pane!
no: per i tuoi... che famelici
hai nelle sue tane.

Piccolo padre, al tuo popolo
reca tu ciò che consola!
Passa quel fiume! Il tuo popolo
nel fango è sino alla gola.
Esso verrebbe; ma, piccolo
padre, sai che lo impedisce,
Zar, la tua legge, nagáika,
Zar, a sette strisce.

Protettore! Salvatore!
passa il fiume che rimbomba!
Scendi, o padre e imperatore!
va su l’acque alla sua tomba!
Non sei tu come chi nacque
dallo Spirito, e che può
camminar su le grandi acque?...
Non puoi?... No!
II
L’acque son rapide e torbide,
cupo è il fiume, il fiume è grosso.
Fu per un ferreo diluvio,
per un uragano rosso.
Furono lampi di sciabole,
sibili di sferze, furia
secca di grandine e folgori,
come là in Manciuria...

Ma non si trovano laceri
sotto l’unghia dei cavalli,
i tuoi nemici quei piccoli
tuoi nemici di là, gialli...
Erano figli del piccolo
padre; sono, o Zar, tua cosa!
C’è qualche cosa di vergine...

che fa tutto rosa.

Sangue! Sangue! Sangue! Sangue!
Tu non puoi passare; è troppo!
Quale uragano di sangue,
i tuoi Cosacchi al galoppo!
E poi fuma, bolle... Sciopera
anche tu! nasconditi!
Non puoi, no! Ma là... quel Pope...
Egli, sì!
III
Chi?... Ma lo chiamano piccolo
padre. E parla; altro non vuole.
Corrono le moltitudini
alle sue dolci parole.
Parla; ed al santo tuo Sinodo
dice il tuo Metropolita:
«Egli bandì la bestemmia!
Voi l’avete udita».

E chi è dunque?... Lo seguono
zappatori e duri fabbri.
Tutti l’odono: appendono
il lor ànsito ai suoi labbri
Coi peccatori, coi miseri
che la lebbra hanno del male,
egli nei trivii e quadrivii
mangia il pane e il sale...

Sì, ma passa! Egli sì, passa,
passa a piedi asciutti il fiume.
Il suo piede non abbassa
l’orma su le rosse schiume.
Non a lui volesti andare,
Zar di poca fede: ora è
lui che su l’eterno mare
viene a te!

IV
Dunque chi è, che in un vortice
rosso ti conduce i morti?
Vengono gli uomini pallidi,
tutti nel suo sguardo assòrti:
vengono trasfigurandosi
nella chiarità dell’aria,
vengono donne di Magdala,
donne di Samaria;

vengono i bimbi: sui riccioli
pésti la sua mano posa.
Quale sfiorita di petali,
che la neve tinge in rosa!
Passano il gorgo inguadabile,
sangue dal fonte alla foce...
E chi è dunque? Chi? Guardalo!
Regge la sua croce.

Egli è il Cristo! il Cristo! il Cristo!
Caifa il pallio anco s’è scisso.
Egli è il Cristo! o Zar, il Cristo!
Tu, tu l’hai ricrocifisso.
Lava, lava le tue mani!
Egli a te ritorna; e tu,
o sovrano dei sovrani,
non sei più!

AL DIO TERMINE

Termine buono, ch’ora a due bifolchi
partisci il campo, sì che l’un da mane,
l’altro da sera, affidi il grano ai solchi;

poi l’uno e l’altro viene a te col pane
di sua sementa, e con la pia famiglia
recante i doni, e col tacente cane;


e questi posa sopra te la figlia
ultima, e quegli il dolce figlio primo,
l’un che balbetta, l’altra che bisbiglia;

mentre due galli cantano dal fimo,
dal suo, ciascuno, e ronzano gli sciami
di due regine su lo stesso timo:

Termine forte, e ch’ora due reami
dividi, e segni ai popoli, dove ari
ciascuno e mieta, dove crei, dove ami;

e le lor vite tacito separi,
tumultuanti, come, occulto in fondo,
scoglio da sé fa rifluir due mari;

poi l’uno e l’altro viene a te giocondo,
con gl’inni in cuore, ed offre ogni sua pura
primizia a te, di ciò che dona al mondo:

Termine santo, che noi, stirpe dura
d’agricoltori, col vetusto rito
piantammo a vista dell’età futura;

presso una siepe viva; o tu, che il dito
intendi, il dito che non sa l’oblìo,
verso la nostra siepe di granito;

grida, verso la grande Alpe di Dio,
con la tua voce onde tonò l’inferno:
di là c'è vostro, ma di qua c'è mio!

se, giusta il rito, nascondemmo, al verno
nostro di lunghi secoli, sotterra,
semi onde spunta qualche fiore eterno!

se gli odii antichi, se il livor di guerra
spengemmo in cuore, salutando l’Era
nuova di pace e buon volere in terra!


se qui mandammo anche una primavera
sacra, di giovinette anime, rossa,
sotto una sacra giovine bandiera!

se, giusta il rito, empimmo allor la fossa
del sangue loro! s’Egli, Egli, ondeggiante,
Egli ubbidì, lasciandone qui l’ossa...

per base a te, Termine nostro, Dante!

INNO SECOLARE A MAZZINI

I
I
Cento anni?!... Tu nell’evo eri, degli evi!
come lontano! Chi poté vederti?
Tu, quando niuno ancor vivea, vivevi.

L’Italia era vulcani, era deserti.
Non c’erano i pensosi uomini aneli.
C’erano, sì, le oscure selve inerti.

A quando a quando si movean gli steli,
le foglie, i rami, gli alberi... al passaggio
d’un improvviso spirito dei cieli.

C’erano i fiumi sonnolenti al raggio
del sole, incerti, nell’errare al piano,
dove mai fosse il loro mar selvaggio.

Ed ecco un cupo rimbombar lontano:
la piena! i massi! i morti neri pini!
Sereno al piano, ai monti l’uragano.

Sui monti, in alto, c’eri tu, Mazzini.
II
In alto eri, per tutto eri, ma eri
invisibile. Un ramo di cipresso

avevi in mano, tolto ai cimiteri.

E tu scotevi quella fronda, o Messo
di Dio, chiamando un Popolo non sorto
ancor di terra, all’avvenir promesso.

Erravi al lume del pianeta morto,
tu, pallida ombra. Risplendea silente
ciò ch’era morto a ciò ch’era rimorto.

E tu cercavi il mondo senza gente,
fantasio, lungo gl’inquïeti mari,
sotto lo scheletrito astro del niente.

E l’uno all’altro sorridean gli ossari!
l’astro e l’Italia. – Per chi mai splendiamo? –
E pareano i millenni solitari,

ch’era la luce, e che non era Adamo.
III
E quando fu che venne a te su l’onda
dei mari, l’Altro? Il rosso dell’aurora
apparì sopra la sua testa bionda.

Voi dai due poli vi guardaste. Egli, ora!
disse; tu, sempre! Ed ecco udiste, assòrti,
un infinito murmure. In quell’ora,

s’aprian le tombe e rinasceano i morti.
II
I
E i redivivi congiungean le dita
delle due mani sul lor cuore nuovo,
cui percoteva l’onda della vita:

– Davanti a Dio! Davanti a me, che trovo
qui nel mio cuore, eterne voci vere!
ti trovo in me, fiamma di Dio nel rovo!


per il mio dritto! per il mio dovere!
e per il sangue ch’è nelle mie vene
come la pioggia è nelle nubi nere!

per il vano finora impeto al bene!
per l’ala, o Messo, ch’ora tu gli davi!
per la mia Patria e per le sue catene!

per la grande memoria de’ nostri avi
e per il grande popolo futuro!
vivo tra morti, libero tra schiavi,

per la già nata terza Italia, io giuro... –
II
E nelle tue parole i redivivi
giuravano; e con ferme le pupille
si disperdean per le tre vie dei trivi.

Si disperdeano come le faville
d’un rogo occulto: il rogo in mezzo ai venti,
in mezzo ai flutti, d’un lontano Achille.

Come scheggie d’un grande astro cadenti,
cadean brillando. Al lor vano cadere
vedean notturne la lor via le genti.

– Per il mio dritto! Per il mio dovere! –
E si spengeva il subito baleno
su palchi infami, dentro ree galere.

Cadeano. O sorte degli eroi, dal seno
scesi brillando, del Leone! O sorte
dei fuggenti lo spazio alto e sereno

atomi d’astri! Quella luce è morte.
III
È morte. Ma Chi per la patria muore?...
Quando fu mai che risonò quel canto?
quel canto, là... Chi per la patria muore...


Nel vallon di Rovìto, orrido e santo,
avean cento fucili incontro al cuore.
Quando la morte ne scrosciò di schianto,

ancor s’udì: Non muore mai! Non muore!
III
I
Tu, quando un giorno uscisti dalla nube,
presso l’eterno fuoco eri di Vesta.
Strepeano i litui, alto clangean le tube.

Su la Via Sacra si sentia la pesta
di càlighe. Coorti, legïoni
passavano, le antiche aquile in testa.

E disse alcuno dei centurïoni:
– Pianta l’insegna: ottimo è qui restare –.
Nuovo era solo il rombo dei cannoni.

Ché combatteva la città per l’are
e i fuochi; mentre nella casa pura
offrian suoi doni i cittadini al Lare.

Al senato le leggi erano a cura.
Dicea la plebe nei comizi, Io voglio.
Tutto era antico: ai piedi delle mura

Garibaldi, e Mazzini in Campidoglio.
II
E fu travolta l’ultima coorte
nelle macerie. Ed ecco un soffio d’ale
a gl’invasori spalancò le porte.

– Entrate! – E si mostrò Roma immortale.
Allor allor giungeano, dal Tirreno
gli avvoltoi neri del suo dì lustrale.

Ed era un dì pieno di luce e pieno
di silenzio. Alle schiere taciturne

er voi io canto, o giovinetti e fanciulle: solo per voi. Quali altri seguirebbero, con l’agevole docilità che la poesia richiede, il poeta, sì quando narra la comunione che passa per il viotterello, sì quando descrive Achille e il suo cavallo che si parlano negli occhi? Gli uni si sentono offesi dalle preterie cristiane, gli altri si mostrano uggiti dalle favole pagane. «Altri tempi!» dicono gli uni e gli altri. E mi par di vedere i sogghigni sopra la Porta santa, e ho ancora nell’orecchio gli anatemi a proposito del Pope. E quelli che, leggendo l’inno al puro di sangue figlio dell’eroe,
P
 
pareva un plenilunïo sereno.

C’erano, presso le colonne e le urne,
sotto i grandi archi, a quel passar non nuove
ombre sedute su le selle eburne.

Termine, il nume cui nessun rimuove,
era lassù. Roma era vinta; eppure
si figgeano nell’alta arce di Giove

le sue dodici tavole future.
III
O irremovibile anche tu, Dea lieta!
Dea Gioventù! Là eri con Mameli,
là rimanesti con l’eroe poeta.

Tu sollevato l’hai con te nei cieli
molle di sangue quasi di rugiada;
e nella luce dentro cui lo celi,

brilla ancor la sua lira e la sua spada.
IV
I
O tempo degli eroi, quando la cetra
sfuggìa di mano al suo cantor caduto
e gli fulgeva stelle auree dall’etra!

Muta la constellazïone al muto
cantor fulgeva. Gli occhi avidi verso
il suo tintinno ancor tendeva il bruto.

Più lungi il balteo rifulgea, disperso
nel cadere: tra Sirio e Aldebarano.
L’eroe cadeva in mezzo all’universo.

O sacro tempo degli eroi, lontano
come le stelle! Tu volgevi il viso
al cielo sparso del martirio umano:


lassù cercavi ciò che t’era ucciso,
o Mazzini! la patria, esule errante,
nella Galassia! Come te, lei fiso

guardava un altro, esule anch’esso: Dante...
II
Vedesti Dante uscito dall’abisso,
ch’era già su, che dal superno monte
guardava ciò che dai nostri occhi è scisso.

Anche per Dante, in patria, presso il fonte
del suo battesmo, era la scure e il rogo.
Egli guardava, alta la pura fronte.

Ecco: soave i cuor premeva il giogo
di libertà che più che vita, piace.
L’uomo era giusto e nel natìo suo luogo.

In pro’ del mondo Italia ergea la face,
la non più serva! la non più partita!
Ciò ch’era in cielo, era anche in terra: pace.

Dante nel cielo cui la terra imita,
vedea ghirlande, croci, aquile, scale
d’ascensïone facile infinita...

In alto alto, il gran seggio imperïale,
III
vuoto. – O tu coronato e mitriato
da te su te, vuoto è rimasto il trono,
e rimarrà. La tua parola è il fato.

E io che al fine sol di dire, Io sono,
seguii per l’erte e l’arte vie te duce,
mi prendo il serto di che me corono,

di su l’altare ch’entro me riluce! –

V
I
Così dicevi. Ei ti guatò profondo.
Come salito? amico alle tre dee
scese col Cristo tricolori al mondo?

No. Ma tu, stando tra le donne ebree,
tu lo vedesti il buon Messia passare
sotto gli olivi, in mezzo alle azalèe:

tu lo vedesti errare lungo il mare
di Genesareth: distendea le reti
Simon Bar Iona su le liscie ghiare:

lo udisti, tu, su la montagna: – Lieti
voi siate, quando vi si spregia, opprime,
calunnia; ché così fanno ai profeti.

Con me venite su le pure cime!
Sia la lampada sopra il lampadario!
Edificate la città sublime

sopra la rupe, ancor che sia Calvario! –
II
– Sì – tu dicevi. E ne adoravi le orme,
da lungi. – Non piangete: la fanciulla
– egli diceva – non è morta: dorme –.

E tu: – La tomba è altro che la culla
del cielo? – Ed egli: – O voi di poca fede... –
E tu: – La vita senza fede è il nulla –.

– Opre, voi non avrete la mercede,
qui! Grami, non è il breve oggi che nuoce!
Uomini, solo avrà pace chi crede! –

Ognun prendeva in collo la sua croce
e lo seguiva nel passaggio lento.
Precedeano i fanciulli la sua voce.


Era il passaggio d’un soave vento
sul grano: un infinito tremolìo.
È uomo? È Dio?... Tu mormoravi, attento:

– L’opera umana! ecco il tuo Verbo, o Dio! –
III
E poi lo udisti, cinto di corona
di spine, tra i flagelli e i vilipendi,
e su la croce – Padre! – dir – perdona! –

offrir sé stesso; dire al cielo – Prendi! –
Il suo grido echeggiò nell’Infinito.
Diceva il volgo: – Se sei Dio, discendi! –

È Dio – dicesti – perchè v’è salito! –
VI
I
O pellegrino delle età trascorse
e non perite, e ti fermasti affranto;
e cadde il dì, l’immortal notte sorse.

Con l’eco, in cuore, del passato, e il canto
dell’avvenire, a mezza via restavi,
tra ciò ch’è sacro e ciò che sarà santo.

A mezza via tra i lontanissimi avi,
e i non creati. A mezza via! Tu eri
Dio senza sette e Roma senza schiavi.

Eri l’impero, che disfà gl’imperi;
eri, o pensoso figlio di Maria,
l’unità santa, senza più misteri.

Su te, profeta morto a mezza via,
lucevano le idee, pure alte sole:
la croce, sì, ma del dolor che indìa;

l’aquila, sì, ma che contempla il sole.

II
Eri il sogno, e non fosti!... Uomini, udite!
Di là del mondo Enea vide futuri
sciamar gli sciami delle nostre vite:

chi con la verga degli augusti augùri,
chi con l’olivo delle placide are,
quali con l’aste, quali con le scuri.

Tanto egli vide. Ma poi v’era un mare
porporeggiante: i Cesari; poi file
lunghe di pastorali e di tïare.

E poi v’era... o latin sangue gentile!...
mentre incessante si sentìa, sul fonte
del fiume eterno, quel ronzio d’aprile,

v’era una nube, all’ultimo orizzonte
dell’oltremondo, d’altre vite umane:
e dagli eroi seduti dietro il monte

giunse più forte il canto del Peane.
III
Verranno! Ecco i fanciulli, ecco il lavoro
di tre millenni. O anime serene!
Liberi sono, ed il lor cuore è loro.

Vogliono, attratti verso tutto il bene,
fare e patire ove il dover destini.
Son la giovine italia, essi, che viene...

E solo allora tu sarai, mazzini!

INNO DEGLI EMIGRATI ITALIANI
A DANTE

Esule a cui ciascuno fu crudele;
tu cui da sé la dolce patria scisse
e spinse in mare legno senza vele...


Ma tu scendesti a interrogare Ulisse
il molto errante, il molto pazïente,
e ci dicesti ciò ch’egli ti disse:

– Uomini, non credete all’occidente:
ciò ch’è a voi sera è prima aurora altrui.
Seguite me nel mondo senza gente:
dire, anche morti, gioverà: Vi fui! –

Profeta, e tu, lungo l’Oceano insonne
dicevi ad uno insonne sulle porte
schiuse e vietate: – Non ci son colonne!

Le pose a segno Ercole eroe, che in sorte
ebbe l’eterna Gioventù ribelle.
Le pose il forte: passa oltre il più forte.

Va! Salpa! Issa le vele! Cerca stelle
più nuove, ignoti mari e vie sul rombo
di venti ignoti, e le tre caravelle
ad altre terre adduci ormai, Colombo –.

O timonier d’Italia eterno, Dante!
Sei tu che volgi dove vuoi la prora
sul nostro lungo solco spumeggiante!

Con lui tu fosti: governavi allora
Santa Maria, quando sul limitare
del nuovo Mondo, ella attendea l’aurora.

Prima dell’alba, sul purpureo mare
quasi una grigia nuvola apparì...
«Terra!» gridò la Pinta, ed echeggiare
parve una voce alta infinita: – Sì!

Castelvecchio, 1911.

APPENDICE

IL RITORNO

E prese, con un grande urto dei remi
terra la nave: e gl’incliti Feaci
ne levarono prima alto l’eroe,
e su la rena del sonante mare
lo posero. E dal sonno era domato.
Trassero quindi i tripodi squillanti
e i lebeti di bronzo ed i talenti
d’oro, ed al ceppo del frondoso olivo
li posero in un mucchio. Era nell’ombra
notturna la lor cauta opera e il loro
tacito andare; ma nel cielo apparso
già era il mattutino astro, il più bello
degli astri, e ardeva su l’eroe dormente.
L’eroe dormiva, e non sapea più nulla
dei molti affanni che patì nel cuore;
e dal suo mite sonno era lontano
il fragor di battaglie e di tempeste.
Ma non lontano il murmure d’un fonte,
dell’Aretusa, e non lontano l’antro
delle ninfe e dell’api, ove le ninfe
tessean notturne su’ telai di pietra,
mentre pendean tra l’anfore e i crateri,
grappoli, con ronzii sùbiti, d’api.
E i longi-remi marinai Feaci
salian la nave; indi a gli scalmi in fila
sedean, tornando all’isola felice:
nel tacito crepuscolo cantando
battean co’ remi il violaceo mare;
e dalla spiaggia lontanava il canto
tra l’alternare delle larghe ondate.
Cantavano...

CORO - O gran mare, che là gemi
su la spiaggia che tu baci,

che qui piangi sotto i remi
de’ Feaci;
op oòp... op oòp...
dorme... venne di lontano;
dorme... è stanco; dorme... è vecchio;
piano cantagli all’orecchio,
piano piano
muovi la sua culla...

Tu che piangi là soave
su chi giunge alla sua terra,
che qui dondoli la nave
di chi erra;
op oòp... op oòp...
non gli dir col tuo frastuono
che già fuma un casolare:
buono è il sonno, o insonne mare!
buono! buono!
dolce come il nulla.

Non gli dire, eterno mare,
ch’egli è giunto...
op oòp...
... di lontano
... stanco... vecchio...
piano piano
muovi la sua culla!

Dolce... errare
op...
dolce... il nulla.

E il dolce canto s’annullò nell’aria;
né più cantò che il mare sulla spiaggia
con lo sciacquare dell’eterne ondate.
E presso il cuore d’Odisseo dormente,
gemeva il fonte d’Aretusa, noto
alla sua cara fanciullezza estinta.
E nell’antro sonava il sottil fischio

delle spole immortali, e il lento tonfo
degli immortali pettini: le ninfe
tessean tuttora su’ telai di pietra.
E nell’olivo grande, alto, fronzuto,
errava qualche squittinio d’uccello
che s’era desto; e qualche arguta stilla
gocciava su le nere alghe del lido:
ché la nebbietta, a ritardare il giorno,
dai cupi botri qua e là fumava,
simile a placido alito di sonno.
E l’eroe si svegliò. Sobbalzò tetro
ai primi raggi che di tra la nebbia
uscian, dell’alba; e tutto era mutato;
e tutto gli mostrava altri sembianti:
le lunghe strade ed i tranquilli approdi,
e le rupi scoscese e i casolari
da cui s’alzava, sfaccendando, il fumo.
E i peri e i meli gli fiorian diverso
da quel che, assenti, nella sua memoria,
gli avean per dieci e dieci anni fiorito
perennemente. E non udì nell’antro
stridere lievi i pettini e le spole
delle sue ninfe, ed a’ suoi piedi invano
gli narrava i suoi primi anni Aretusa.
Stette e guardò la patria terra, e disse:

ODISSEO - Ahimè!
Che terra è questa? di qual gente? Oh forse,
che ignora il bene e che gli dei non teme!
Ad altra terra i così pii Feaci
m’hanno condotto, e sì dicean, gl’ingiusti,
di riportarmi ad Itaca serena.
Zeus li punisca! Or dov’io vado? e dove
quelle molte ricchezze ora nascondo?
Ma ch’io le conti, che non forse alcuna
ne portin entro l’incavata nave.

Disse, e contava i tripodi squillanti

e i lebeti di bronzo, ed il molt’oro
e, meraviglie de’ telai, le vesti.
Nulla mancava. Ed ora egli cercava
la patria terra, e la piangeva, errando
lungo la spiaggia del sonante mare.

ODISSEO - O mia culla sorgente dal mare,
mio nido sospeso alla rupe,
te dunque non debbo trovare
mai più?
Pergamo, Pergamo,
ardeva nel cielo corusco.
Là, rosso di sangue, nell’atrio
del re, tra le fiamme, tra gli ululi e i rantoli,
udivo il sussurro del patrio
mio fonte scorrente sul musco.
Sui vortici, gli ululi e i rantoli,
l’idolo d’Elena Argiva!
Ne volsi lo sguardo, ché udiva,
lontano
sì, meno pur d’Elena, un canto
di note parole
tra un murmure vano
di pettini e spole.

Io vidi la casa di Circe
guardata da mansi leoni,
sublime, marmorea, coi troni
d’argento.
Io dissi: O mia casa! O mia casa
che scricchioli al vento!
col logoro tuo limitare,
dov’Argo s’adagia, fiutando nel mare!

La dea della notte,
perché mi cadesse il ritorno
dal cuore,
mi diede un suo manto
tra cui non si muore.

Ma io lo bagnava, ogni giorno,
di pianto.
Mi disse: – Immortale
sarai, se rimani... – Morire!
ma nella mia terra! morire!
vedendone, lungi, le spire
del fumo che sale.

Egli piangeva, e stava ora a lui presso
un’altocinta vergine ricciuta,
che, rosea sorta al rosseggiar del giorno,
alla sempre corrente acqua veniva
della fontana. Ella portava in capo
un suo canestro di dedalei vinchi,
con le vesti de’ floridi fratelli,
belle, e le sue; ché le pendea nel cuore
il dì pensoso delle nozze, quando
e pure vesti ella indossar doveva
e pure a quelli del corteo fornirle.
Stette presso l’ignoto uomo, e gli disse:

VERGINE - Ospite piangi? Gran pietà, chi piange
su l’alba il pianto ch’alla sera è sacro.
Dimmi? Qual suona il nome tuo?

ODISSEO - Nessuno.
Chiedi il mio chiaro nome? Ecco, Nessuno!

VERGINE - Nessuno, e quando qui giungesti, e come?
Giungere a terra che dall’acque è cinta,
non si dà che per nave, a chi non abbia
un remeggio di bianche ali di cigno...

ODISSEO - Tu, anzi, dimmi, né mentirmi accorta,
qual terra è questa, che dall’acque è cinta?
buona non già, né grande: aspra e selvaggia;
deserta, senza voci, odo, di vita.
Diceva, e un improvviso ululo acuto
da boschi e botri si levò, di ninfe;

e dei torrenti risonò lo scroscio.
E il grande olivo, con un frullo lieve,
versò nell’aria un pigolìo d’uccelli.
E uscian dall’antro al nuovo sol ronzando
l’api, volando al murmure del fonte.
E i meli, al mattutino urto del vento,
piovvero i bianchi petali dei fiori.

VERGINE - Itaca...

ODISSEO - Dici? Dici?

VERGINE - Itaca...

ODISSEO - Hai detto...?

VERGINE - Itaca! L’isola mia poverella
ha l’aure limpide, fertili l’acque.
Non infinita... forse, ma bella
per chi vi nacque.

ODISSEO - Itaca?

VERGINE - Ripida, forse; ma s’apre
il croco e l’iride sotto i suoi rovi.
A monte, a valle, belano capre,
mugliano bovi.

ODISSEO - Itaca?

VERGINE - E il fragile grano vi mesce
l’oro alla porpora varia degli orti.
È aspra, dici? Forte: e ci cresce
giovani forti.

ODISSEO - Itaca? E tu volesti ora mentirmi!

VERGINE - Quello che tremola d’alberi,
Nérito è, pieno di timo.
Quando si torna nell’isola,
Nérito corre per primo,

Da questo balcone Giovanni Pascoli respirava la dolce aria dello Stretto di Messina
Insegna Marmorea che ricorda ai passanti che qui a Messina visse Giovanni Pascoli
roseo d’un raggio d’aurora,
verso la pallida prora.

ODISSEO - Quello? ov’erravo da cieco,
ove, seguendo il mio grido,
prendere il garrulo nido
volli dell’Eco?

VERGINE - Quello ov’è tutto quel bianco
d’alberi lunghi e fiorenti...
v’abita un vecchio re stanco,
ch’erra sul lido, tra i venti:
dicono, voglia contare
l’onde del mare...

ODISSEO - Quelli? son gli alberi grandi,
quelli che, padre, mi desti?

VERGINE - Questo, se forse domandi,
fonte, a cui lavo le vesti
ora, per ciò che non sai...
è l’Aretusa...

ODISSEO - Non mai!

Questo? quel fonte sì limpido,
dove scendevo per bere,
stanco di caccia? E nel cerulo
mare, qua bianche, là nere
vele vedevo seduto
presso il suo strepito arguto.

L’acqua del fonte loquace,
l’onda dei mari lontani,
meco parlavano: – È pace
qui! sono dolce! rimani!
– Vieni; qua freme la vita!
Sono infinita!

VERGINE - Ospite, prima ch’io l’intorbi, guarda

se non è dunque limpida quest’acqua!

Al fonte arguto s’appressò l’eroe,
e vide sé nel puro fior dell’acque.
Arida vide la sua cute, vide
grigi i capelli e pieni d’ombra gli occhi;
e la fronte solcata era di rughe,
curvo il dosso, né più molli le membra.
Vide; e rivide ciò che più non era:
sé biondo e snello, coi grandi occhi aperti.
Rivide nella stessa onda, e compianse,
la sua lontana fanciullezza estinta.
Ma la fanciulla già nell’acqua pura
ponea le vesti e le tergea; cantando,
ma d’ora in ora; poi ch’il dì pensoso
delle sue nozze le pendea nel cuore.
E presso la sonante opera accorta
della fanciulla, il reduce Odisseo
tutto conobbe, poi che sé conobbe;
ed alla patria protendea le braccia:

ODISSEO - Io era, io era mutato!
Tu, patria, sei come a quei giorni!
Io sì, mio soave passato,
ritorno; ma tu non ritorni...

VERGINE - Chi su la rama, fiore, ti coglie,
t’ama o non t’ama?
– Dimmelo tu!

ODISSEO - Qualcosa, la nebbia, che muore,
tra gli occhi e le cose che amai
fa ch’ora riveda il mio cuore
ciò ch’ei non riviva più mai...

VERGINE - Fiore, se perdi l’esili foglie,
le metti più?
– Mai più! Mai più!


E le ninfe divine, anime verdi
d’alberi, cristalline anime d’acque,
avean pietà del vecchio eroe, che pianse
quando non vide, e pianse quando vide.

CORO - Coi vecchi nostri canti che sai,
voci di cose piccole e care,
t’addormiremo, vecchio; e potrai
ricominciare.
E quando il mare, nella tua sera,
mesto nell’ombra manda il suo grido,
sciogliere ancora potrai la nera
nave dal lido.
Vedrai le terre de’ tuoi ricordi,
del tuo patire dolce e remoto:
là resta, e il molto dolce là mordi
fiore del loto.
Sarai qui presso. Rotto il tuo remo
sopra il tuo capo stanco sarà.
Sul tuo sepolcro noi canteremo
la tua lontana felicità.

IL SOGNO DI ROSETTA

Rosetta cuce ancora alla finestra,
cuce all’ultimo raggio
del sole, udendo conversar tra loro
con voci dolci e strane
le rondini straniere,
sue compagne dell’albe e delle sere,
sue sole casigliane
nella casetta in capo del villaggio.
E cuce, ché sull’alba di domani
convien ch’alla maestra
riporti il suo cucito,
perché domani è festa;
e tira via costure e soprammani
senza levar la testa dal lavoro.

E giù di fuori è il salutar contento
e il ristare e l’andare e venir lento
di gente che ha finito,
e il rombazzo e il garrito
da un capo all’altro della via maestra
di bimbi su e giù per il villaggio;
dove, all’ultimo raggio,
sol essa ormai lavora
e cuce e cuce ancora alla finestra.

CORO - Uno... due... tre:
spicca un salto, che tocca a te!

Lungo, o Sabato, voi siete!
Tutto il dì su quelle panche!
Vedevamo le comete,
le comete bianche bianche,
che s’alzavano da sé...

Compitavi sopra un ramo,
ce... ce... ce... canipaiola!
come noi che cantavamo
su le panche della scuola,
ci e ce, e ci e ce.

Tutto il giorno abbiamo detto
dentro noi, ma forte forte:
Deh! facciamo un po’ a filetto!
deh! apriteci le porte,
novì novì novè...

Ora a niente si può fare,
ch’è già tardi e il sole cade,
e la lucciola già pare
sopra i grani, per le strade...
lucciola, lucciola, vieni a me!

Rosetta nella dolce ombra che cresce
con quel ronzìo canoro,

di gente e di monelli,
che s’allontana, più non le riesce
di tener gli occhi aperti e di vedere.
E pensa ed abbandona le due mani
stanche sui due ginocchi,
l’una con l’ago e l’altra col lavoro;
e pensa ad uno che da molte sere
passa, e si ferma e canta suoi stornelli;
e non pensa al domani,
non pensa alla maestra;
e vuol godersi avanti alla finestra
aperta un sonno, un cader giù soave
dell’anima e degli occhi
pensando appena, fin che suoni l’Avemaria,
quando a quei tocchi
Rosetta per costume
serra, ed accende il lume.

ROSETTA - Cuci e cuci, si fa sera.
Poverina chi non ha!
Ma il mio cuore vede e spera.
Spera e spera... si fa sera.
Gli vuo’ bene, ma son fiera;
gli vuo’ bene, e non lo sa.
Cuci e cuci, si fa sera.
Se son rose... è primavera;
se vuol bene, tornerà.

L'AVEMARIA - Don... Don... Don...

ROSETTA - Ma convien che mi ricordi,
e che serri la finestra...
suona l’Ave... l’Or di

notte... Che me ne ricordi...
ch’egli passa e canta: Fior di...
di giunchiglia... no, ginestra...

Ch’io la serri e mi ricordi...

passa e canta: Cuor di... Cuor di...
apri apri la finestra...

E dorme già, tranquilla.
La falce della luna
in mezzo all’aria bruna ora sfavilla.

Ai gravi tocchi dell’Avemaria
ora è successo il doppio, un’allegria,
un tintinno, un sussurro,
un dondolar di tutto il cielo azzurro.
Rosetta dorme... ed esce dalla chiesa
tra quel festivo scampanìo che suona
per lei che s’abbandona
sul braccio del suo sposo e suo signore,
del gentil muratore
che sa tanti stornelli, e che l’ha presa.
Escono dalla chiesa
tra un odor di viole
gialle ed un grande abbarbagliar di sole.

LUI - Come sei bella così vestita!
il filugello fila per te!
LEI - Chi lo sapeva, cara mia vita,
che fossi il caro figlio del re?
LUI - Sempre era chiusa la tua finestra...
LEI - E tu passavi...
LUI - Dunque eri desta?
LEI - E tu cantavi, Fior di ginestra...
LUI - Sentivi?
LEI - Il suono d’ogni tua pesta!
LUI - Forse temevi...
LEI - Chi ama, teme.
LUI - Amavi...
LEI - Ed ora m’hai persuasa.
LUI - Non vedo l’ora d’essere insieme
nella mia... dico, tua, nostra casa!

Ci son colonne con le ghirlande

d’oro: in cucina tutti i suoi rami
lustri, puliti: sul letto grande
una coperta, rossa, a fiorami.

Specchi...
LEI - Lontana par già la chiesa...
LUI - Portiere...
LEI - Il doppio par già lontano.
LUI - E per cucire, sappi, t’ho presa
una... una bella macchina a mano.
LEI - E tira il vento, muove le foglie,
e l’aria sente di primavera...
LUI - Vorrei che in casa fossimo, o moglie...
Vorrei che fosse molto più sera...

E nella notte in tanto
già queta e dolce si solleva un canto,
ed entra a lei dalla finestra aperta;
ma ella s’è tirato
dietro il grave e soave uscio del sonno;
sì che l’ode velato,
così tra il sonno, come un’eco incerta:

LEI - S’è fatto sera... s’è fatto tardi...
Non odi il canto dell’usignolo?
Oh! quella siepe...! Lascia che guardi:
chi è che piange là solo solo?...

Ferito... Quante formiche nere!
È lui... N’è tutto nero... Chi fu?
Chi l’ha ferito? Voglio sapere!
tu? tu? ma dunque tu non sei tu...

Rosetta ha tanta pena
che si risveglia e... ode lo stornello
ch’egli ripete, perché nuovo e bello,
nella notte serena.

LUI - Io veglio e canto come l’usignolo
che su la siepe sta fino al mattino;

che canta e veglia solo solo solo,
ché teme esser ferito dallo spino:
veglia, che la formica non lo colga,
e teme che il vilucchio gli si avvolga:
veglia, che la formica non gli dia,
e canta, ahimè! per farsi compagnia.
E Rosetta si leva e con la mano
gli butta un bacio. Forse ella non crede
d’esser veduta, ed egli sì, la vede;
ché aperta è la finestra,
e si vede brillare
sui tetti e sui sentieri
e su la via maestra
la luna che fa lume volentieri,
fa lume a tanti marinai del mare...

DESVPER AN SVRSVM?