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PIER PAOLO PASOLINI


LE CENERI DI GRAMSCI


PARTE II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Pier Paolo Pasolini:

Poeta corsaro e disperato amante del popolo
_________

di
Olivia Trioschi
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PIER PAOLO PASOLINI  - LE CENERI DI GRAMSCI - Parte II






























FINE

Ricordiamo. Giovanotti nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e ardimento, con una gran voglia di saltare, urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi modo - alla vita, alla violenza della vita, si trovavano a Napoli luccicante del mare d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce stentorea e potente del loro capo, negli occhi i suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma - gridava il capo - ormai si tratta di giorni, forse di ore!": grida, sventolio di bandiere, pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero. Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti, generazioni presenti e future, è scritto nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo Pasolini.
    È difficile, forse impossibile, parlare di Pasolini, anche solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere, più prima che poi, contro il fascismo. Per lui fu come un'ossessione perenne, prima sotto la forma del fascismo storico e poi in quella, più velenosa e strisciante, di categoria eterna che riassume in sé il conformismo, il disprezzo per il diverso, l'appiattimento intellettuale, il bla-bla politicante. Tanto vale farlo subito, allora. Tanto più che la coincidenza tra le date è, se non simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno immerso nel secolo", come dirà più tardi in un verso. Bologna, e per estensione l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e Roma sono i tre luoghi della crescita intellettuale, della memoria struggente e della sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale "corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo alla vita nella poesia, nel cercare di mettere tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano di un Narciso - di quelli tante volte cantati e amati - proprio dal sistema contro il quale si era scontrato, da sempre. Perché, tra le altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo: spietatamente lucido, intelligente e diverso. E perciò solitario. Di Pasolini resta molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi: poesie, romanzi, sceneggiature, interventi critici, articoli, saggi.
Ah, il popolo. Cos'è il popolo? Chi è il popolo? Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui, il borghese figlio di borghesi, di antica famiglia ravennate era dolorosamente consapevole di essere per sempre escluso dalla massa dei poveri (eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una "classe"  nel senso politico del termine, riconosceva una forma di vita innocente, incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue prime poesie. Perché va anche detto che Pasolini, variamente definito "provocatore ideologico" piuttosto che "coscienza critica della cultura italiana" - tutto vero, naturalmente - volle essere e fu prima di tutto poeta. Pasolini non era certo tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed eletto, dunque. Indubbiamente, lo è sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da un "disperato amore" (sono sempre parole sue): "Parma, un viale, e il riso di mia madre" è il primo verso di una poesia. Col padre, invece, le cose non andavano proprio così. Presenza intermittente per molti anni a causa delle lunghe campagne militari, impersonava gli occhi del figlio il più cieco conformismo, la totale mancanza di naturalezza e spontaneità (doti che invece riconosceva e amava nella madre). E il fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile, anche se il padre "gongolava" per i successi scolastici del figlio e per la sua evidente e precoce vocazione letteraria.
    La prima raccolta, Poesie a Casarsa, uscì a spese di Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove la famiglia era tornata dopo molti anni di traslochi continui legati ai trasferimenti di caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò l'università, laureandosi in lettere con una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un maestro soprattutto per le scelte linguistiche, fondamentali per entrambi) e divenne amico di Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro visse la grande stagione dell'ermetismo, fondando nel 1941 una rivista dal significativo titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena vent'anni. Le poesie pubblicate erano state scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma più spesso lontano da lì. Casarsa era il paese della madre, e ogni estate Pasolini ci andava a passare l'estate nella "povera villeggiatura presso parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva". Questo come notazione storico-geografica. Nella poesia Casarsa diventò il luogo della purezza, della gioventù bella e accesamente sensuale, del mondo come doveva essere prima che iniziasse la Storia: un mondo deve la natura e l'uomo potevano ancora essere tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del dialetto come lingua d'elezione si imponeva da sola. Fu una scelta emotiva, prima che intellettuale. In seguito Pasolini si accorse che poteva e doveva essere anche un rifiuto della cultura nazional-fascista che imponeva l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. Ma all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante dell'esistenza di una lingua che possedeva riserve intatte di gusto, sapienza, liricità, di contro alla lingua nazionale impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada La parola "rosada" pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".
        Poesie a Casarsa uscì nel totale silenzio della critica, salvo che per una - ma illustrissima - voce: quella di Gianfranco Contini, che recensì il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per le resistenze del regime a dare notorietà a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu per Pasolini un momento di felicità completa: "Chi potrà mai descrivere la mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno". Che differenza con quanto avverrà dopo, quando ogni prova pubblica di Pasolini sarà accompagnata da un coro di recensioni, premi, applausi, insulti, denunce, processi. Il volumetto, dunque, nasce così, come un gioiellino prezioso e nascosto. Prezioso perché tale è la lingua scelta: dialetto, sì, ma raffinato e coltivato come "lingua pura per poesia". Non a caso nella prima pagina si leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta provenzale. Il richiamo a quella lirica ci fornisce un'indicazione importantissima sulle scelte dell'autore: Pasolini non è lontano dalla sua terra (anche se molti di questi versi furono effettivamente scritti a Bologna o altrove, quando più forte si faceva sentire la nostalgia) ma si sente ugualmente esule, tagliato fuori dalla possibilità di attingervi direttamente, di goderla in prima persona come i giovanetti (ideali proiezioni di se stesso) che si muovono leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di un'altra civiltà e di un'altra sensibilità colta, sensuale e decadente. Il sentimento di pienezza e felicità che deriva dalla contemplazione della propria terra è quindi minato alla radice, e perciò le soavi e tenere immagini di cui sono fatte le liriche si concludono spesso con un richiamo alla morte. Il Friuli è evidentemente una terra mitica e il dialetto l'unica chiave possibile per tentare di recuperare quel mito che ha tuttavia in sé, fin dall'inizio, i germi della decadenza e della morte. Come se Pasolini proiettasse sulla terra di sua madre la madre stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere di amore disperato per lei e per la sua infanzia felice. Ma finita, passata per sempre.
         L'8 settembre 1943 Pasolini, militare da appena una settimana, rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e scappò insieme alla madre e al fratello (il padre era prigioniero di guerra in Africa) a Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra e oltre. A chi, in seguito, gli rimproverò di non aver fatto nient'altro che questo contro il fascismo, rispondeva che anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era stata tale da farlo finire in camera di sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine riservata ai giovani del litorale adriatico renitenti alla leva o antifascisti). Ciò nonostante, non poteva restare inattivo almeno dal punto di vista della cultura. Insieme ad alcuni amici pubblicò il quaderno Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua dell'acqua, cioè della sponda destra del Tagliamento) dove la poetica dialettale viene approfondita diventando, ora sì, anche strumento di opposizione al regime e rivendicazione di dignità di lingua: le traduzioni in italiano sono abolite (mentre erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth) vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra quest'esperienza confluì nell'Academiuta di Lenga Furlana, un gruppo di studio che affiancava alle iniziative di tipo culturale (incluse lezioni private gratuite ai figli dei contadini poveri che avevano smesso di andare a scuola) anche precise richieste politiche in merito all'autonomia del Friuli nell'ambito della neonata repubblica. Intanto due morti avevano segnato la vita di Pasolini: quella della nonna materna, le cui fasi dall'agonia alla sepoltura Pasolini accompagnò con una serie di brevi componimenti in italiano (Guardaci timidamente / dal cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi) e, poco dopo, quella del fratello partigiano, ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito, che intendevano allora annettersi il Friuli, massacrarono la brigata Osoppo.
         Pasolini si stava dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo momento, non fu più solo di disperato amore per il Friuli e la sua bella gioventù, non fu più solo rimpianto accorato. Vi entrò il popolo, questa nuova forza, vergine e potente, che sarebbe potuta irrompere nella storia con violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva esserci, una possibilità di riscatto per il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli stracci rossi) che allora venivano sventolate; Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce". Sono queste le componenti del "populismo evangelico" che animerà Pasolini. Una religione-passione, simboleggiata dalla figura del Cristo povero e sofferente e nutrita di simboli arcani, tratti dalla religione pagana e contadina dei suoi friulani ("Verrà il vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con la religione-autorità, fortemente compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e l'attesa della riscossa da parte del popolo, serbatoio di verità. La "scoperta di Marx" è del 1947, contemporanea a una vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la speranza di rinnovamento e giustizia sociale che si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra. Pasolini si impegnò in prima persona, con la passione di sempre, perché quel sogno diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al PCI divenne segretario di sezione, e da quella posizione condusse le molte battaglie dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e per il referendum istituzionale del 1948; quelle antidemocristiane e anticlericali; quelle per l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa. L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il dovere di creare una nuova cultura, una cultura che voleva "trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza" per usare le sue stesse parole. Utopiche, certamente. Come tutte le belle speranze dei bei momenti in cui sembra che tutto possa accadere fuorché una mutazione gattopardesca delle cose, delle persone, delle istituzioni.
    Nell'inverno del '49, scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo. Il periodo friulano era finito". Perché questa fuga a rotta di collo, come un braccato, come un delinquente, proprio in un periodo così pieno di speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per la legge, esattamente questo: un delinquente. In un paese come il nostro, dove il comune senso del pudore, con tutti i suoi necessari corollari di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le sue battaglie e affossato tutte le sue vittime, forse non poteva finire altrimenti che così. Pasolini insegnava allora nella scuola media di un paese vicino a Casarsa. Nell'ottobre del 1949 venne accusato di "corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora della sua omosessualità. Fu una vera bomba, probabilmente montata ad arte e strategicamente strumentalizzata dalla stampa cattolica locale. Fatto sta che il poeta si trovò insultato, accusato, minacciato, espulso dal PCI "per indegnità morale e politica" e, naturalmente, processato; processi dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952 per quella di atti osceni in luogo pubblico (per insufficienza di prove). A Roma Pasolini abitò dapprima nel "ghetto" vicino al Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia, vicino al carcere, nelle borgate lungo la Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni "di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il ritorno del padre. "E mio padre sempre là - continuava il poeta - in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel periodo di "pura lotta" cominciò a sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta, grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta dialettale Vittorio Clemente gli trovò il posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli presentò registi di Cinecittà come Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini collaborò alla preparazione di numerosi film (per La donna del fiume di Soldati scrisse la sceneggiatura, così come per Il prigioniero della montagna, insieme a Bassani; Fellini lo volle come filologo per curare le battute in romanesco delle Notti di Cabiria). Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi) una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo di Officina come luogo di confronto e dibattito sui compiti della letteratura e degli intellettuali, come occasione di verifica ideologica (in un momento delicatissimo per il PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile 1956), è noto. Alla rivista collaborò, entrando poi nel comitato di redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare un nome. Più o meno nello stesso periodo furono pubblicate le poesie e le prose scritte da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi di vita, il romanzo sulla periferia romana e i suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il "caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che vent'anni dopo, con la sua morte.
         Le Poesie a Casarsa, più altre in dialetto, furono riunite nel volume La meglio gioventù e pubblicate nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica. Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci, poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel 1958 (per una serie di motivazioni editoriali e di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica, scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949. Queste due raccolte costituiscono uno snodo fondamentale nella poetica pasoliniana, e pertanto è necessario tenere ben presente le date di composizione e non quelle di pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui si accennava prima, percepito dal poeta con tutti i suoi accesi sensi e al contempo con tutta la sua inquietudine esistenziale; e insieme si trova un cristianesimo primitivo e, per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo è prima di tutto sofferenza della carne, sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso, il cui martirio fa nascere una domanda ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in croce?" Perché "esibire la sua morte?" Bisogna esporsi, dunque. È questo l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo albero di dolore. E questo è il significato del crocefisso: "sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo".  La religione, sia pure quella della tradizione contadina, che aveva animato secoli di feste paesane e liturgie nelle povere chiesette friulane, nelle ingenue e sante preghiere dei poveri, non basta più a Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo, e questa volta sembra dargli una possibilità nuova, concreta. Il marxismo, ora, è la speranza. "Pasolini - scrive Luigi Martellini - percorre razionalmente i sentieri periferici che lo portano istintivamente, e passionalmente, verso la ricerca della giustizia". È questo il passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e Pasolini ne è tanto consapevole che parla, in un verso, di "scandalo del contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra razionale e irrazionale, tra necessità di capire la realtà (quella nuova realtà delle borgate e del sottoproletariato romano in cui Pasolini si trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale di riscatto che non può essere spiegato razionalmente. È la parte centrale delle Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" - Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci; e più avanti: "attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza". Ma anche il marxismo, nella sua applicazione pratica, nella prassi militante dei suoi dirigenti, rivela presto l'incapacità di conoscere la millenaria vita proletaria del popolo; e ciò diventa ancor più evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956, anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo è stato tradito dai "compagni di strada" che chiedono "il mistico rigore di un'azione / sempre pari all'idea"; mentre "è all'errore / che io vi spingo, al religioso / errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il popolo non nel suo cuore / ma nella sua bandiera: dimentichi / che deve in ogni istituzione / sanguinare, perché non torni mito, / continuo il dolore della creazione".
         Negli anni Sessanta Pasolini scrive ancora poesie, molte, che confluiranno nelle raccolte La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge a compimento la crisi poetica di Pasolini, che comincia a preferire nuove forme espressive (il cinema, com'è noto. Il primo film, Accattone, è del 1961).
    Lo dichiara apertamente nel 1967: "non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo più con chi dialogare usando quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie 'confessioni' esistesse. Mi sono dunque accorto che non esiste".
    Cos'era accaduto? La Storia era andata avanti, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini riconosceva e identificava la propria religione. Il popolo era stato "organizzato", imborghesito a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole".
    Anche il miraggio dell'Africa, unica alternativa al disfacimento di cui si sentiva circondato, svanì ben presto. Il vero nemico, invincibile, è la borghesia antropofaga; ed è contro questo Leviatano del XX secolo che si batte negli ultimi anni della sua vita con sempre più numerosi interventi su giornali e riviste, con articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni, con prese di posizione apertamente polemiche: all'indomani degli scontri a Valle Giulia, preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato / appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto così un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione), eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la vostra!". La poesia di Pasolini è ora quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di una scelta precisa: lontani i tempi delle sperimentazioni e delle infinite libertà espressive date dal dialetto, si impone l'urgente necessità di entrare, a partire dal linguaggio, nella realtà storica, per denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo. Comincia la stagione di Pasolini intellettuale "corsaro", pubblico accusatore dei guasti della classe al potere, nella quale individua, facendo nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio delle istituzioni e del paese intero. Stagione breve, tragicamente interrotta in una notte di novembre del 1975. In quella notte, alla periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci", dissero.
  Ricordiamo. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio, guardano passare una bara, alta sulle loro teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa sia, saluta il suo disperato amante.
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Comizio

Qui è più puro, nel suo quieto
terrore - se le sere ormai fonde
tremano agli ultimi brusii, poetici

di mera vita - l'incontro delle gronde
urbane con il buio del cielo.
E muri impalliditi, infeconde
aiuole, magri cornicioni, nel mistero
che li imbeve dal cosmo, familiare
e gaio fondono il loro. Ma stasera

un improvviso rovescio sulle ignare
fantasie del passante frana, e gela
il suo trasporto per le calde, care

pareti sconsacrate...

Non più, come un androne, di passi sonori
perché rari, di voci trasparenti,
perché quiete, tra splendori

d'umile pietra la piazza negli spenti
angoli trasale: né solitarie
frusciano le macchine dei potenti,
sfiorando il fianco del giovane paria
che inebbria coi suoi fischi la città...
Una smorta folla empie l'aria

d'irreali rumori. Un palco sta
su di essa, coperto di bandiere,
del cui bianco il bruno lume fa

un sudario, il verde acceca, annera
il rosso come di vecchio sangue. Arista
o tetro vegetale guizza cerea

nel mezzo la fiammella fascista.

Il dolore, inatteso, mi respinge
indietro, quasi a non voler vedere.
E invece con le lacrime che stingono

intorno il mondo così vivo, a sera
nella piazza, mi sospingo come
disincarnato in mezzo a questa fiera

==>SEGUE



di ombre. E guardo, ascolto. Roma
intorno è  muta: è il silenzio, insieme,
della città e del cielo. Non risuona

voce su queste grida; il caldo seme
che il maggio germoglia pur nel fresco
notturno, un greve e antico gelo preme
sui muri preziosi, fatti mesti
come nei sensi di un fanciullo
angosciato... E più qui crescono

gli urli (e in cuore l'odio), più brullo
si fa intorno il deserto
dove il consueto, pigro sussurro

s'è stasera sperduto...

Ecco chi sono gli esemplari vivi,
vivi, di una parte di noi che, morta,
ci aveva illusi di essere nuovi - privi

d'essa per sempre. E invece, scorta
d'improvviso, in questa lieve piazza
orientale, ecco la sua falange, folta,

urlante - coi segni della razza
che nel popolo è oscura allegria
e in essa triste oscurità - che impazza

cantando la salute. E l'energia
sua non è che debolezza, offesa
sessuale, che non ha altra via

per essere passione, nella mente accesa,
che azioni troppo lecite od illecite:
e qui urla soltanto la borghese

impotenza a trascendere la specie,
la confusione della fede che
l'esalta, e disperatamente cresce

nell'uomo che non sa che luce ha in sé.

Resto in piedi tra questa folla quasi
il gelo, che da Trinità dei Monti,
dai duri vegetali del Pincio, rasi

==>SEGUE


contro le stelle e i chiusi orizzonti
spegne la città - mi spegnesse il petto,
rendendo puro stupore i monchi

sentimenti, pietà, amarezza. Getto
intorno sguardi che non mi sembran miei,
tanto sono diverso. Non é l'aspetto

di gente viva con me, questo, nei
suoi visi c'é un tempo morto che torna
inaspettato, odioso, quasi i bei

giorni della vittoria, i freschi giorni
del popolo, fossero essi, morti.
Per chi é andato avanti, ecco, intorno ,

il passato, i fantasmi, i risorti
istinti. Questi visi giovanili
precocemente vecchi, questi storti

sguardi di gente onesta, queste vili
espressioni di coraggio.La  memoria
era dunque così smorta e sottile

da non ricordarli? Tra i clamori
cammino muto, o forse sono muti
essi, nella tempesta che ho nel cuore.

E nel senso di perdita del proprio
corpo, che dà un'angoscia improvvisa,
in silenzio al fianco mi si scopre

un compagno. Con me, intento e indeciso,
si muove tra la ressa, con me guarda
nei visi questa gente, con me il misero

corpo trascina tra petti che coccarde
colmano di vile orgoglio. Poi su me
posa lo sguardo. Tristemente gli arde

col pudore che ben conosco; ed é
così mio quello sguardo fraterno!
così profondamente familiare, nel

==>SEGUE


pensiero che dà a questi atti senso eterno!
E in questo triste sguardo d'intesa,
per la prima volta, dall'inverno

in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi é vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne
d'odio, la nuova nostra storia: e un'ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne...

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un pò di luce per questo
mondo rinato in un oscuro mattino?


Qui venti affricani l'assolato
    inverno bruciano: nascono
    carnai di fiori, è già estate.
    I ragazzetti dentro tasche
    già impure infilano viziate
    le mani: la loro violenza
    infantile resterà nella nera
    loro bellezza adulta. Esperienza
    è ironica durezza: senza
    rondini, di cani urla la sera.

    O, se rondini volano, alte
    vanno a stridere su tetti
    di grandi case dove l'arte
    straripante dei secoli eletti
    scolora come in vecchie carte:
    e anche il loro garrito,
    se girano in cielo, smuore
    in diversi spazi, in un mitico
    scenario. E su di esso sbiadito
    si schiude un cielo di memorie.

    La jungla delle anime scure
    come la pelle e gli occhi, che
    la moderna vita nutre a dure
    necessità e bassezze, ormai è
    su Roma, la stringe in impure
    confusioni, in ciechi smarrimenti
    di stile, come una piena sale
    oltre i rotti argini: impotente
    la Roma del potere ne sente,
    ancora plebe, l'ansia nazionale.

II
    Ah, rondini, umilissima voce
    dell'umile Italia! Che festa
    alle pasquali fonti, alle foci
     dei fiumi padani, alla mesta
    luce della piazzetta, dei noci,
    dei filari a festoni da gelso
    a gelso, che ai vostri garriti
    verdeggiano più umani! che eccelso
    significato in quel vostro perso
    groviglio, nuovo, di gridi antichi.

    ==>SEGUE

L'Umile Italia

     I
    Qui, nella campagna romana,
    tra le mozze, allegre case arabe
    e i tuguri, la quotidiana
    voce della rondine non cala,
    dal cielo alla contrada umana,
    a stordirla d'animale festa.
    Forse perché già troppo piena
    d'umana festa: né mai mesta
    essa è abbastanza per la fresca
    voce d'una tristezza serena.
    Cupa è qui la tristezza, come
    è leggera la gioia: non ha
    che atti estremi, confusione,
    la violenza: è aridità
    il suo ardore. Invece è la passione
    mite, virile, che rischiara
    il mondo in una luce senza
    impurezze, che al mondo dà le care
    civili piazzette, dove ignare
    rondini scatena l'innocenza.

    Borghi del settentrione, dove
    dal ragazzo con fierezza
    e allegra umiltà nasce il giovane,
    e vive la sua giovinezza
    da vero adulto, benché piova
    il suo occhio chiaro e la sua bionda
    testa luce infantile: ma è
    quell'infanzia solo gioconda
    onestà: egli nella sua fonda
    vita il mondo matura con sé.

    Perciò possono ancora le rondini
    cantarlo, gettandosi lievi
    nelle piazzette dei girotondi,
    dei canti puerili, dove le nevi
    si dissolvono in biancospini,
    più pure, e questi si mutano
    per la dolce foga della semenza
    in rose, in gigli: ché confini
    le stagioni non v'hanno, né incrina
    nuova esistenza l'esistenza.

    ==>SEGUE


È dentro il tempo dato al puro,
    allo struggente passare che
    lanciate con sopita furia
    quei vostri gridi: in sé,
    quieto, li accoglie un già scuro
    cielo primaverile, o un'alba,
    o un lieto mezzogiorno... E passa,
    con lo stupendo tempo che gli alberi
    ingemma e spoglia, le ore scialbe
    accende, raggela i caldi sassi.

    È nel tempo puramente umano,
    accoratamente umano, che
    s'incide il vostro guizzo vano
    di animale dolcezza, è
    – insieme prossimo e lontano –
    nel tempo che non torna, e torna
    sempre sopra il mondo che non ha
    rimpianti, a sprofondar la gorna
    solatia, l'acre aia, l'adorna
    campagna, quasi in perduta età.

    È indifferenza o nostalgia
    il sentimento – anch'esso umano
    e fuggitivo – di chi vi spia,
    in quel meriggio, in quel gramo
    vespro, perse in turchine scie...
    La natura vi dà e la natura
    vi esprime nel cuore che stordite.
    Il tempo che uguale s'infutura
    con sé vi trasporta nell'oscura
    monotonia che rinnova le vite.

    Ah, non è il tempo della storia,
    questo, della vita non perduta,
    non sono questi gli alti, incolori
    luoghi di una patria divenuta
    coscienza oltre la memoria.
    Ma dove meglio riconoscerli
    che in questi antichissimi incanti
    in cui son più vicini? Fossili
    d'un'esistenza che ai commossi
    occhi, non si svela, si canta?

    ==>SEGUE


Dove meglio capire, intera,
    la natura che deve farsi
    nazione, l'mbra che s'avvera
    nella chiarezza? Ah dolci intarsi
    che nella vellutata sera
    della Venezia, della Lombardia,
    – terrorizzata quasi nella
    troppa ebbrezza, nella pazzia
    che troppo la trascina – pia
    la rondine intreccia sulla terra.

    Più è sacro dov'è più animale
    il mondo: ma senza tradire
    la poeticità, l'originaria
    forza, a noi tocca esaurire
    il suo mistero in bene e in male
    umano. Questa è l'Italia, e
    non è questa l'Italia: insieme
    la preistoria e la storia che
    in essa sono convivano, se
    la luce è frutto di un buio seme.

    III
    Imperlate già di nascenti
    stelle, vibrano tra i castagni
    le rondini. Confuse le senti
    lacerare l'aria sugli altagni
    secchi, sui tiepidi spioventi
    della villa, e lo stradone
    cupo nel suo tenero asfalto;
    la famiglia tace, del padrone,
    ma i figli dei mezzadri, come
    nel vecchio mondo gridano alto!

    Come si assiepa il secolare
    loro gridìo di servi indenni
    da bassezza, nella popolare
    dignità dei rustici e solenni
    loro municipi settentrionali...
    Loro è la sera, loro è l'accento
    della campana; s'è il dolce sabato,
    loro è l'allegrezza che il vento
    da orti, aie, osterie, lento
    e quasi religioso, dirada.

    ==>SEGUE


Ecco là, le loro macchie vivide
    di tigli, e in nude prospettive
    i gelseti che i giovinetti
    all'imbrunire sfogliano, e le rive
    dei fossi caldi di saggine.
    Ecco il sambuco, ecco il pioppo
    che sbianca, sulle rosse bambine
    a erba pei conigli, chine
    sotto le campane a doppio.

    Ecco, a inazzurrare la pianura,
    le loro Alpi: cerchio silente
    che se in morene e laghi oscura
    i suoi biancori, e i suoi sgomenti
    vi quieta, quasi impaura
    la sua serenità. Sfuma l'Italia
    negli smorti, eccelsi toni
    di quei nevai: contro cui l'ala
    cieca della rondine esala
    più vera le quotidiane passioni.

    Più vera perché espressa,
    libera: nel suo fragile arco
    non porta il peso dell'ossessa
    rassegnazione – furente marchio
    della servitù e del sesso –
    che il greco meridione fa
    decrepito e increato, sporco
    e splendido. È necessità
    liberarsi soffrendo, ma
    lottando soffrire, la storia.

    È necessità il capire
    e il fare: il credersi volti
    al meglio, presi da un ardire
    sacrilego a scordare i morti,
    a non concedersi respiro
    dietro il rinnovarsi del tempo.
    Eppure qualche cosa è più
    forte del nostro ardore empio
    a maturare nella mente
    a fare della natura virtù.

    ==>SEGUE

E ci trascina indietro, al fresco,
    all'arso tempo, al tempo vano,
    assordato dalle vane feste
    dell'umile gente, al tempo umano,
    al tempo allegramente terrestre,
    al tempo che vive il suo incanto,
    con le rondini, nel solatio
    paese padano, nel fianco
    dei freschi colli, e che di schianto
    voi volgete, rondini, all'addio.

Recit

Com'era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!
Con la mano, ferito, mi facevo specchio

per guardare intorno viali e strade in salita
vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.

Giunsi nella piazza, accaldato e tremante,
ché gelo e sole insieme il quartiere accecante

sbiancavano con muta ed estasiata noia.
Ricco era il quartiere, ma popolana gioia

ne invadeva interrati ed attici con voci
vaghe ma violente, canti lieti e feroci

di garzoni, di serve e di operai perduti
su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.

Come non sentire, con la vita il cuore
essere diverso e uno, essere gelo e sole?

Come non sentire ch'è pura gratitudine
per il mondo anche l'essere umiliati e nudi?

Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l'amico, come incerto...Ah che cieca fretta

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo...

Mi disse ansioso e mite la notizia.
Mai fu più umana, Attilio, l'umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te,
e il primo moto di dolore che

fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.
Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole.

Anzi, l'indorarsi quieto del mezzogiorno
pareva eternare ogni cosa all'intorno.

Rifui solo: seguii con l'occhio l'auto
sparire con lui, nell'aria che ogni smalto

   ==>SEGUE

aveva perso ed era aria, soltanto aria,
l'aria in cui si vive, ignorati ed amari,

ogni giorno, mangiando silenziosi la vita,
sia ripugnante o dolce, lieta o nemica.

Com'era estraneo ora, ogni allegro grido,
per chi, ora, andava lungo un diverso lido.

Il guizzo di rossore che al sole occhieggiava
da una maglia o uno straccio per la sperduta strada,

era sangue colante dal petto ferito
d'un ignaro animale, stanato, inseguito...

Ché intanto il più recente giorno del creato
dorava il quartiere dolcemente gelato

di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo.

Come portando sole la carretta spingeva
l'erbivendolo greve sopra il fango lieve;

radendolo il garzone, con un fischio d'amore
s'alzava sui pedali, cantava: Anema e core...

Tutto Monteverde tremava di martelli
da assolati cantieri ad assolati sterri.

Ma era solo un fervore di gente umiliata:
era solo la pace che una città occupata

spande nella sua luce come un tempo pura,
rassegnata a esser vinta, a brulicare oscura.

Meridionali voci, risa di vecchia gente
hanno allora un clamore che la storia non sente:

dove guizza più vivo uno straccio, uno sguardo
lì più morta al sole la natura riarde.

Ed ecco la mia casa, nella luce marina
di via Fonteiana in cuore alla mattina:

la mia tana, indifesa, cieca di speranza,
dove bruciare l'ultima remora che mi avanza.

Entro e mi rinchiudo, muto e spento come
un impiccato solo col suo corpo e il suo nome.

   ==>SEGUE

E con quanta dolcezza nella mia stanza cola
l'olio dardeggiante dello svenato sole!

Ah, lo so che le cagne, con il loro latrato,
ridestano ignare il Dio dimenticato:

sento come sono, ricordo come fui,
visto dallo sguardo improvviso di Lui.

Ma anche all'uomo più ingenuo nel petto ferito
il sangue si annera, anche all'uomo più mite

nello stupito occhio si annera il dolore.
Più fu un tempo tenero, più s'indurisce il cuore

.............

Ecco lì, dietro il lume fragrante del sole,
tra sterri e impalcature, l'oleato fulgore

d'una periferia nuda come un inferno,
un fiume di terrazze contro lo sfatto schermo

dell'agro nella cui vampa diffusa fiata
tra le gru la Permolio la vampa ranciata;

e infossa il divorato vallo la Ferro-Beton
tra frane di tuguri, qualche marcio frutteto,

e file di cantieri già vecchi nel mattino.
Quasi allegri, è vero, con il loro destino

per vie calde d'asfalto, contro baracche e prati,
garzoni, operai, serve, disoccupati

brulicano al più recente giorno del creato
che dora il quartiere dolcemente gelato

di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo...

E, però, lo so bene!, se smaniano angosciosi
i latrati in quel sole, tra i rioni festosi,

e minacciano morte, sordidamente ossessi
contro chi tradisce perché è diverso, essi,

nell'aria troppo dolce, nell’umana innocenza
non sono che i messi della mia coscienza.
    


Una polemica in versi

Buio è quasi il meriggio nel lucore
del terreo cotto coppedè
e del marmo fascista, già incolore
quasi disusata divisa d'orbace, fez
di cinici antemarcia non più di primo pelo
in una sporca fotografia; è

schermato il sole come da un velo
di grassi, di carta carbone,
di polvere alzata dagli urti sul nero

fondo dei tricicli, dalle gomme
dei filobus che ansando ai semafori
scendono soffici in una pressione

avara, pazzi per mafia
o nevrastenia: e svoltano verdi
per via IV Novembre piatta nell'ala...

È la sera che scende, ancor lontana:
come una tempesta, quando addensa
d'improvviso le nubi, ma le dipana

poi lentamente — della sua violenza
abbandonando in cielo la minaccia.
Scolorato il sole fa più intensa

la sua luce, e ogni strada, ogni piazza
quasi in silenzio brulica al frastuono
d'una gente ch'è solo folla, razza.

" L'ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo" mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto

per dieci anni dentro, cosi chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza — un po' volgare —

una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio

  ==>SEGUE

di poveri arrivati, d'ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari

morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento. Hai
quarant'anni, con sorriso e mosse

— come quelle di chi non spegne mai
il vecchio fuoco — giovanili.
E, spento, regredito ai padri, ti dai

a me, con la confidenza dei febbrili
moti dell'amicizia, e con il calcolo
di chi, inconscio, invano non si umili.

E io... io cedo: posso soltanto
appassionarmi, come sempre: pazzo,
chè dovrei tacere, non offrire il fianco,

non confessare che sono un ragazzo,
ancora, eternamente indifeso;
che non sempre la passione è grazia.

Lo so, spesso ciò che ho avuto ho reso
con un atto che non è diverso
dall'arsione del lampo al magnesio.

Ho fissato col mio occhio inesperto
diventato atrocemente esperto — umile
fotografo che la notte inerte

batte dietro l'immoto miraggio del costume —
gli inutili angoli sperduti
del mondo, con qualche grido, qualche lume,

qualche parola di uomini venduti
nei più scuri mercati della vita.
Ne ho riportato attestati muti

d'allegria in cuore a una città nemica.
Grande, di questa città, è la notte,
e misera: mille fiati di scheletrita

==>SEGUE

luce getta il flash su file dirotte
di gioventù, torrenti di motori,
laghi d'angoli bui tra brulicanti grotte

e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,
ognuno dei mille atti è lo stesso.
Uno, delle mille allegrie, il dolore.

Muti attestati di un popolo oppresso
e non conscio, diviso in scantinati,
tuguri, lotti — proletariato che il sesso

e il terrore tengono attaccato
alle sue strade di fango: ma, per strade
nuove — ancora ignote — a lui segnato

da avidità e cinismo, l'anima invade
la fame della storia. È già vecchio
il piano di lotta di ieri, cade

a pezzi sui muri il più fresco manifesto.
Muta, in una qualunque notte, il congegno
che fa la conoscenza luce dell'oggetto.

E la vita riappare più viva: segno
che qualcosa, in chi la viveva, muore.
Essa è proceduta nel disegno

che non ha fine: ma il vostro dolore
di non esserne più sul primo fronte,
sarebbe più puro, se nell'ora

in cui l'errore, anche se puro, si sconta,
aveste la forza di dirvi colpevoli.
Ma troppo fonda è, in voi, l'impronta

della lotta compiuta, nel grande e breve
decennio: vi siete assuefatti,
voi, servi della giustizia, leve

della speranza, ai necessari atti
che umiliano il cuore e la coscienza.
Al voluto tacere, al calcolato

==>SEGUE

parlare, al denigrare senza
odio, all'esaltare senza amore;
alla brutalità della prudenza

e all'ipocrisia del clamore.
Avete, accecati dal fare, servito
il popolo non nel suo cuore

ma nella sua bandiera: dimentichi
che deve in ogni istituzione
sanguinare, perchè non torni mito,

continuo il dolore della creazione.
Come altri compagni di strada,
il mistico rigore d'un'azione

sempre pari all'idea, non vi chiedo: si paga,
anche questo, con l'aridità. ai è ossesso
dal timore di essere ciò che fu nei gradi

del suo cammino, ciò che espresse
in ingenui ritorni al popolo, in amori
d'inerme umanitario, in regressi

alla carità — non è. È all'errore
che io vi spingo, al religioso
errore... Si riapre, nel rosso sole.

..............

una musica intonata dalle bande
sparse qua e là, luccicando l'ottone
tra magliette e coccarde rosse,

nell'ingorgo del fiume senza nome.
Ed ecco, incerto, un vecchio si leva
dalla testa bianca il berretto,

afferra nella nuova ventata di passione
una bandiera retta sulle spalle
da uno che gli è davanti, al petto

se la stringe, e poi mentre cantano
tutti, affratellati intorno alle gialle
trombe paesane, si pianta

==>SEGUE
sulle vacillanti gambe, e scuote
al tempo la bandiera a lui santa
sopra le teste, cantando con voce

rauca, di povero manovale ubriaco.
Poi il canto, che s'era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio

lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.

Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l'ombra del dubbio

che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell'errore, che spira tanta malinconia

— non l'aria d'autunno, o una sopita
pioggia — sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.



QUADRI FRIULANI

Ti ricordi di quella sera a Ruda?
Quel nostro darsi, insieme, a un gioco
di pura passione, misura della nostra cruda
gioventù, del nostro cuore ancora poco
più che puerile? Era una lotta
bruciante di se stessa, ma il suo fuoco
si spandeva oltre noi, la notte,
ricordi?, ne era tutta piena nel fresco
vuoto, nelle strade percorse da frotte
di braccianti vestiti a festa,
di ragazzi venuti in bicicletta
dai borghi vicini: e la mesta,
quotidiana, cristiana, piazzetta
ne fiottava come in una sagra.
Noi, non popolani, nella stretta
del popolo contadino, della magra
folla paesana, amati quanto
ci ardeva l'amare, feriti dall'agra
notte ch'era loro, del loro stanco
ritorno dai campi nell'odore
di fuoco delle cene... uno a fianco
all'altro gridavamo le parole
che, quasi incomprese, erano promessa
sicura, espresso, rivelato amore.
E poi le canzoni, i poveri bicchieri
di vino sui tavoli dentro la buia
osteria, le chiare facce dei festeggeri
intorno a noi, i loro certi occhi sui
nostri incerti, le scorate armoniche
e la bella bandiera nell'angolo più
in luce dell'umido stanzone.
Ora, lontano, diverso, nel vento quasi
non terrestre che smuovendo l'aria
impura, trae vita da una stasi
mortale delle cose, rivedo i casali,
i campi, la piazzetta di Ruda;
su, le bianche alpi, e giù, lungo i canali,
tra campi di granoturco e vigne, l'umida
luce del mare.

Cos'è questo golpe? Io so
Corriere della Sera, 14 novembre 1974
Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile. Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere. Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.


Le ceneri di Gramsci è un libro di poesie nel quale Pasolini raccoglie in un unico volume 11 poemetti che lo stesso poeta aveva scritto e pubblicato in varie riviste tra il 1951 e il 1956 revisionati e pubblicati nel 1957 nelle edizioni Garzanti.
Gli undici poemetti sono: 1) L’Appennino; 2) Il canto popolare; 3) Picasso; 4) Comizio; 5) L’umile Italia; 6) Quadri friulani; 7) Le ceneri di Gramsci; 8) Recit; 9) Il pianto della scavatrice; 10) Una polemica in versi; 11) La Terra di lavoro.
Pier Paolo Pasolini
con la madre, Susanna Colussi,
in una foto del 1974.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Pier Paolo Pasolini - Corriere della Sera, 14 novembre 1974
1942
Fondazione della rivista Il setaccio - Poesie a Casarsa (primo volume di poesie in dialetto friulano)

1943
Trasloco a Casarsa a causa delle attività belliche a Bologna  - Breve arruolamento fino all’armistizio tra l’Italia e gli Alleati

1944
Insieme alla madre, Pasolini dà gratuitamente lezioni private - Istituzione dell’Academiuta di Lenga Furlana per promuovere la letteratura e cultura friulane - I turcs tal Friùl (I turchi in Friuli: opera teatrale in dialetto friulano)

1945
Tesi di dottorato sul poeta Giovanni Pascoli (lavoro in storia dell’arte sulla pittura italiana contemporanea di Carlo Carrà, Filippo De Pisis e Giorgio Morandi seguito da Roberto Longhi, smarrito in guerra) - Pasolini insegna alla scuola media vicino a Casarsa - Uccisione del fratello Guido durante combattimenti partigiani - Ritorno del padre dalla guerra - Diari (poesia)

1946
I pianti (poesia) - Dov’è la mia patria (poesia)
1947
Attività politica nella regione - Analisi degli scritti di Antonio Gramsci - Adesione al Partito comunista italiano (PCI)

1949
Denuncia per «atti osceni», Perdita del posto d’insegnante - Esclusione dal PCI - Improvviso trasferimento a Roma insieme alla madre

1950
Nuovo inizio difficoltoso a Roma - Spiccato interesse per la vita nei quartieri disagiati (borgate) della città - Pubblicazioni regolari in vari giornali

1951
Il padre raggiunge la famiglia nell’appartamento comune a Roma - Insegnante in una scuola privata a Ciampino vicino a Roma - Pasolini entra in contatto con i ragazzi delle borgate e si lega d’amicizia con i fratelli Citti (Sergio e Franco) - Pasolini collabora a un programma letterario radiofonico

1952
Mandato della casa editrice Guanda per la realizzazione di due antologie - Poesia dialettale del novecento (antologia)
1953
Collaborazione con Bassani alla sceneggiatura di Soldati "La donna del fiume" - Tal còur di un frut (poesia)

1954
Trasloco della famiglia Pasolini nel quartiere Monteverde Nuovo - Dal diario (poesia) - La meglio gioventù (poesia)

1955
La pubblicazione di Ragazzi di vita scatena uno scandalo. Primi processi. - Fondazione della rivista letteraria Officina - Collaborazione alla sceneggiatura del film Il prigioniero della montagna di Luis Trenker - Primi rapporti di amicizia con Elsa Morante e Alberto Moravia - Ragazzi di vita (romanzo) - Canzoniere italiano (antologia)

1956
Fino al 1960: collaborazione a varie sceneggiature (p. es. Le notti di Cabiria di Federico Fellini e La Notte brava di Mauro Bolognini) - Pasolini lascia l’insegnamento

1957
Assegnazione del premio letterario «Premio Viareggio» al volume di poesie Le ceneri di Gramsci - Le ceneri di Gramsci (poesia)
CRONISTORIA DI UNA VITA INTENSA
1962
Riprese di La ricotta - Primo incontro con l’allora quattordicenne Ninetto Davoli, figlio di contadini calabresi - Iniziano un’amicizia e un rapporto d’amore intensi - Collaborazione in quasi tutti i film - Il sogno di una cosa (romanzo) - L’odore dell’India (cronaca di viaggio) - Mamma Roma (sceneggiatura e film) - La Ricotta (film)

1963
Dopo la prima di La Ricotta, lungo e complicato processo che sfocia in una condanna per blasfemia e nella requisizione del film - Ispirandosi alla Divina Commedia di Dante, Pasolini inizia a redigere il romanzo La Divina Mimesis (pubblicato nel 1975) - Trasloco in Via Eufrate nel quartiere di Eur - La rabbia (film) - Comizi d’amore (film) - Plautus, Il vantone (traduzione)

1964
Idea e sceneggiatura del film Il padre selvaggio mai realizzato - Riprese di Il Vangelo secondo Matteo a Matera, Italia meridionale - Il Vangelo secondo Matteo ottiene un grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia. Premio dell’Office Catholique International du Cinéma - Con il saggio Nuove questioni linguistiche Pasolini lancia la sua critica al declino culturale in Italia - Poesie in forma di rosa (poesia) - Sopraluoghi in Palestina (film, prima nel 1965) - Il Vangelo secondo Matteo (sceneggiatura e film)


1965
Intervento di Pasolini sul cinema della poesia in occasione del Festival cinematografico di Pesaro. Pasolini conosce Roland Barthes - Riprese di Uccellacci e uccellini nelle vicinanze di Roma. Collaborazione con il comico Totò - Poesie dimenticate (poesia) - Alì dagli occhi azzurri (prosa) - Pontentissima Signora (canzoni e dialoghi per Laura Betti) - Uccellacci e uccellini (sceneggiatura e film)

1966
Insieme ad Alberto Moravia, Pasolini dirige la rivista letteraria Nuovi Argomenti - Ulcera gastrica. Durante la convalescenza Pasolini si immerge nelle tragedie greche e inizia a comporre lui stesso opere teatrali - Primo viaggio a New York, dove incontra Allen Ginsber . Composizione della poesia Who is me - Ricerca di set adatti in Marocco per la realizzazione di Edipo re - Morte di Totò - La terra vista
dalla luna (cortometraggio)

1967
Riprese di Edipo re nell’Italia settentrionale e in Marocco - Che cosa sono le nuvole? (film) - Edipo re (sceneggiatura e film)


1968
Rubrica settimanale Il Caos nella rivista Tempo - Prima di Teorema alla Biennale di Venezia. Il film viene vietato dal Vaticano per oscenità e in seguito riproposto - Prima di Orgia a Torino - Polemica contro il movimento studentesco con la poesia Il PCI ai giovani!! nella rivista L’Espresso - Teorema (romanzo, sceneggiatura e film) - La sequenza del fiore di carta (film) - Appunti di viaggio per un film sull’India (produzione televisiva) - Orgia (opera teatrale)

1969
Riprese di Medea in Turchia, Toscana e nella laguna di Grado - Nasce l’amicizia con Maria Callas. Serie di ritratti di Maria Callas - Pasolini on Pasolini (interviste) - Porcile (film) - Appunti per un’orestiade africana (film) - Medea (sceneggiatura e film)

1970
Viaggio in Africa con Alberto Moravia, Dacia Maraini e Maria Callas - Acquisto della Torre di Chia, che diventerà il suo luogo di ritiro - Pasolini inizia a lavorare al romanzo Petrolio (pubblicato nel 1992) - Riprese di Il Decameron a Napoli e dintorni - Pasolini riscopre la sua passione per la pittura - Poesie - Il Decameron (film)


1922
Pier Paolo Pasolini, figlio dell’ufficiale di fanteria Carlo Alberto Pasolini e della maestra Susanna Colussi, nasce il 5 marzo a Bologna

1923
Trasferimento della famiglia a Parma - Frequenti traslochi fino al 1936, dovuti alla professione del padre - Vacanze estive a Casarsa della Delizia (Friuli), luogo d’origine della madre

1925
Nascita del fratello Guido a Belluno

1929
All’età di sette anni compone le sue prime poesie

1931
Ammissione al liceo propedeutico a Conegliano, poi a Cremona e Reggio Emilia

1936
Ritorno della famiglia a Bologna. Pasolini frequenta il liceo classico

1939
Esame di maturità a Bologna Studi universitari in storia dell’arte, letteratura e filologia romanza a Bologna
1941
Primi disegni - Progetto di una propria rivista letteraria "Eredi"
1958
Pasolini si lega d’amicizia con Laura Betti - Morte del padre - L’usignolo della Chiesa Cattolica (poesia)

1959
Denuncia in seguito all’epigramma su papa Pio XII nella rivista Officina - Cessazione dei rapporti d’affari con l’editore Bompiani - Una vita violenta (romanzo)

1960
Fino al 1965: rubrica settimanale nella rivista comunista Vie nuove - Vari processi per oscenità nel romanzo Una vita violenta - Stesura della sceneggiatura di Accattone - In inverno, primo viaggio in India con Moravia e Morante - Passione e ideologia (saggi di critica letteraria) - Aischylos, L’orestiade (traduzione)

1961
Viaggi nei Paesi del «terzo mondo» con Alberto Moravia ed Elsa Morante - Pasolini inizia la sua carriera da regista - Il primo film Accattone è accolto positivamente alla Biennale di Venezia - Denuncia per corruzione di minorenni, per lo più senza conseguenze - La religione del mio tempo (poesia) - Accattone (sceneggiatura e film)
1971
Dopo la prima di Il Decameron, denuncie per oscenità - Riprese di I racconti di Canterbury a Essex e Roma - Trasumanar e organizzar (poesia) - I racconti di Canterbury (film) - Appunti per un romanzo dell’immondezza (produzione televisiva, documentario)

1972
Sostegno a un film del gruppo extraparlamentare Lotta Continua (Dodici Dicembre) - Empirismo eretico (saggi)

1973
Numerosi contributi nei quotidiani italiani importanti, come per esempio nel Corriere della Sera, raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane - Pasolini pone fine alla collaborazione con la casa editrice Garzanti (Milano) e si rivolge a Einaudi (Torino) - Matrimonio di Ninetto Davoli - Riprese di Il fiore delle mille e una notte in Etiopia, Persia, Nepal nonché in Jemen settentrionale e meridionale (parte III della Trilogia della vita, dopo Il Deacameron e I racconti di Canterbury, ) - Il fiore delle mille e una notte (film) - Le mura di San’a (documentario) - Calderón (dramma)


1974
Avvio dei progetti cinematografici Porno-theo-kolossal e San Paolo, entrambi mai completati (pubblicazione frammentaria di San Paolo nel 1977)

1975
Riprese di Salò o le 120 giornate di Sodoma a Salò, Bologna, Roma (Cinecittà) - Pasolini si distanzia dalla Trilogia della vita - 2 novembre: il corpo senza vita di Pasolini viene rinvenuto vicino a Ostia - Arresto del presunto assassino, il diciassettenne Giuseppe («Pino») Pelosi - 5 novembre: sepoltura al cimitero di Casarsa - La nuova gioventù (poesia, rielaborazione di La meglio gioventù) - La Divina Mimesis (romanzo) - Scritti corsari (raccolta di saggi) - Salò o le 120 giornate di Sodoma (film)

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Le indicazioni su vita e opera sono state tratte dalla pubblicazione P.P.P – Pasolini und der Tod (P.P.P. – Pasolini e la morte), Monaco, 2005, con gentile autorizzazione degli autori Benjamin Meyer-Krahmer e Bernhart Schwenk.