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CESARE PAVESE



POESIE VARIE
Parte prima



Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Cesare Pavese

L'uomo e il Poeta
_________

da
http://www.pocherighe.org
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CESARE PAVESE  - POESIE VARIE - Parte prima










































FINE
Parte prima
Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri, gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità.
E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente, noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e anelo di possesso. Lo spirito umano – che Pavese chiama “spirito non santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio, quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di
lettura e scrittura che pervadono le numerosissime pagine che Pavese ha scritto e che a noi tocca leggere, fare nostre e non dimenticare.
Umiltà e contemplazione sono due parole ricorrenti nell’opera di Pavese - e forse sono le più inascoltate dai suoi lettori (perchè sono da lui solo suggerite, mai imposte, pur in quella sua caparbia coscienza che “repetita iuvant”). Ecco direi che sono piene di umiltà e di pura contemplazione Paesi tuoi o La luna e i falò, Il Compagno, La spiaggia, La bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del disamore e Lavorare stanca o I dialoghi con Leucò o La casa in collina e perfino Tra donne sole, ma anche i suoi racconti, i saggi, gli articoli e quella sua meravigliosa corrispondenza piena di umore, di forza e di intelligenza, rapida a volte, a volte frettolosa, a volte lentissima ed esauriente, mai sciatta o imprecisa.
L’umiltà Pavese la raggiunge attraverso il realismo con cui guarda se stesso e gli altri: è l’umiltà che nasce dall’ovvia evidenza del limite della persona umana. E, come succede a tutti, all’umiltà anche Pavese vi arriva per mezzo di umiliazioni non cercate. L’esperienza dell’umiliazione ci può sembrare quasi esagerata in lui, appunto un eccesso, un po’ come se ci trovassimo di fronte a un Jacopone da Todi del Nord, che parla in quel suo privato e speciale dialetto però del secolo ventesimo. Scrive Pavese a Billi Fantini: “Si convinca che fuori dei libri scritti, io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo” (20 luglio 1950). C’è una certa sottilissima ironia, propria di Pavese, ma c’è anche tanta profonda serietà in queste parole e non certo è a caso che va a un ricordo biblico, precisamente a Geremia nel capitolo 2, quando Dio si rivolge al profeta chiamandolo appunto “vermiciattolo”.
Se l’umiltà gli è costata cara, non è stato più a buon mercato che ha raggiunto quella capacità di contemplazione pura che stupisce e lo rende unico. Scrive a Piero Calamandrei il 21 agosto 1950: “Quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunce nella mia vita che oggi ne sono tramortito”.
E vorrei a questo punto suggerire una domanda: in che modo dobbiamo leggere tutte queste sue pagine, così dense, mai fatue, di una poesia che quando non toglie il fiato spezza comunque il cuore? Cerco di rispondere, partendo da come l’ho letto e lo leggo io, cioè dalla mia esperienza diretta.
Per leggere bene questi che lui definisce “i miei libretti”, dobbiamo metterci nella stessa umiltà e nella stessa contemplazione con cui lui parla e scrive, osserva e trascrive, sente e trasmette: mi sembra che sia questa la chiave di lettura più sanamente generatrice per accogliere quel cavallo di razza che è stato Pavese, per farcelo “conoscere” in una più giusta e più esaustiva dimensione. Umiltà e contemplazione sono due virtù (cioè due forze), come abbiamo visto, che non sono facili da raggiungere e che costano care. Lui scrive il nome di queste due virtù (col dolore, con l’erudizione, con la curiosità, con la sua durezza, senza peli sulla lingua, ma mai con malvagità) su una specie di gigante lavagna, per così spingerci a farle nostre e a lasciar perdere quell’illusorio viottolo dell’equilibrio che vorremmo percorre, e indurci invece a cambiare strada. Pavese ci obbliga quasi, con la violenza propria dei timidi, a prendere la nostra croce umana e a camminare a piedi nudi verso sù, per una viuzza seminascosta, acciottolata e ripida, da cui vedremo un panormana che è anticipo di verità. E in mezzo alla vigna o mangiando ciliegie davanti alla notte, Pavese si offre come una primizia dell’uomo del secolo ventesimo che percorre questa viuzza in salita, dove ogni passo si nutre di una sempre più intima e inesorabile passione per il vero.
Dopo una settimana di intenso lavoro, di incontri, di poche ore di sonno, arriva finalmente il sabato pomeriggio, per riposare, magari di fronte al mare o a una bella collina o una serie di orti coltivati a verzura e colorati di fiori: qui, in questo silenzio che accompagna il riposo, ognuno di noi ce la fa sicuramente a leggere l’abitabile Pratolini, quello “schietto narratore” (3 ottobre del 44) che era il Boiardo, o si può leggere Boccaccio, l’Ariosto, persino Tolstoi (tanto odiato da Pavese) o quell’adolescente di Svevo (come lui lo definiva). Ma sicuramente nessuno ce la fa a leggere Pavese, a meno che non decida di rinunciare al riposo e rimettersi al lavoro.
Per poter entrare nella profondità e ampiezza di domande e di contraddizioni che Pavese offre, il nostro spirito non può essere in riposo: dev’ essere vigile, sveglio, pronto alla lotta. Ci si annoia subito con Pavese, se non ci si impegna sul serio ad ascoltarlo e a lottare con lui o contro di lui. Pavese è solo per lettori vigilanti, disposti a non lasciarsi soffocare dalla realtà che questo inusuale scrittore ci racconta senza difese e senza reti protettive. Insomma, Pavese è per lettori che vogliano diventare lettori di razza.
Pavese va letto lentamente: non è cibo da buffet o da fast food. Va letto piano piano anche quando – come succede soprattutto nelle sue poesie – uno vorrebbe mangiarsele tutte d’un fiato. Ma se si vince l’ imprudente tentazione di leggerlo in fretta e ci si dona all’arte della lenta lettura e dell’ascolto puro, ecco che a poco a poco il palato diventa regale e si può
assaporare tutta la ricchezza di un gusto mai provato prima, ci si nutre di un miele a volte dolcissimo a volte molto amaro, sempre in grado di suscitare domande ed emozioni importantissime e inevitabili. Con Pavese, dunque, s’impara a leggere lentamente e così, invece di mangiarli o metterli via, ci lasceremo interrogare dai suoi libri, e sarà un’esperienza di grande maturazione umana e letteraria.
Quando aveva solo diciottanni, in una lettera al suo amico Mario Sturani, Pavese indica qual è il vero motivo per cui scrive. Lo dice in uno dei suoi primi tentativi di poesia, non certo riuscito però chiarissimo: “Logoro, disilluso, disperato/ di mai riuscire a suscitare nell’anima/degli uomini una vampa di passione/con un’arte ben mia, così vivo/triste nei lunghi giorni...eppure a tratti/mi sento traboccare di una vita/ caldissima, potente, che se mai/ riuscissi a esprimere, sarebbe colma/ tutta la mia esistenza!”
Sotto la lamina del sottile gelido inverno del suo temperamento piemontese, c’è dunque un’anima che vibra intensamente e noi dobbiamo prendere in mano queste braci, se vogliamo incontrare quella scintilla che purifica ogni banalità.
Abbiamo detto che il primo passo è leggerlo lentamente per incontrare qualcosa che va al di là di quella barriera che Pavese frappone tra lui e noi – nonostante tutte le confidenze di cui pure è capace. Incontrare la porticina scavata in questo muro e trapassarla, entrando così in quell’inusuale suo lucidissimo sguardo sul mondo, è un passo non facile ma ne vale la pena: basta solo deciderlo e poi camminare. Dobbiamo dimenticarci di noi stessi che stiamo leggendo Pavese. Dobbiamo dimenticarci dell’autore e di tutto quello che di lui abbiamo ascoltato o sentito dire. Dobbiamo fare una sola cosa: lasciarci amare da quelle poesie,
da quei racconti, da quelle lettere, da quegli articoli, da quei saggi e da quelle novelle: perché Pavese è vivo e con lui dobbiamo instaurare un dialogo degno di un interlocutore che non spreca parole, che non riempie pagine a casaccio e che non intende ingannarci. Lo so che non è facile lasciarsi amare così, e d’altra parte lasciarsi amare è ancor più difficile che amare, e forse è per questo che Pavese, nel nostro mondo un po’ volgare, un po’ fatuo e un po’ distratto – che tanto assomiglia al rospo che si gonfia di vanità per due nozioni di psicologia imparate sulle riviste di moda o dagli oroscopi gratuiti – è notissimo di nome e sconosciuto di fatto. Ma io insisto nel dire che vale la pena trapassare quella soglia ed entrare direttamente in un dialogo personalissimo con lui, perché se di una cosa sono sicura è che, leggendo bene Pavese, uno diventa più uomo. Per questo, è sempre piuttosto deludente e a volte fa rabbia e a volte fa pena e sempre risulta ingiusto quello che tanti ne han fatto e ne fanno di lui: un personaggio di cui si raccontano, con piacere o con dolore, con malizia o compagnoneria, le più tristi banalità o i più privati presunti segreti.
Non voglio dire che di Pavese si siano scritte o dette cose solo superficiali o inutili: anzi. Molti lo hanno amato, come “lo scrittore” che ha avuto il coraggio di dire tutto di se stesso, attraverso il diario e le lettere, e che ha avuto la debolezza di non prendere in mano il fucile al tempo della battaglia e di aver ammazzato se stesso invece che altri, ma in troppi sono caduti nella trappola di ridurlo in fin dei conti a un oggetto di pettegolezzo, proprio come lui chiedeva di non fare, ben sapendo che di pettegolezzi s’immiserisce tutta l’umanità.
E– detto tutto questo – aggiungo che Pavese non è per me né un idolo né un personaggio mitico. E’ un grandissimo scrittore già classico, un punto di non ritorno per la letteratura italiana ed è, ripeto, un cavallo di
razza, e va letto come lui stesso ci invita a fare con ogni libro che ci troviamo tra le mani.
Cito da un articolo di Pavese pubblicato su “L’Unità” di Torino il 20 giugno del 1945:
“Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della nostra pigrizia. In questo, l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, di inconsapevole forza – la sola che valga – che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta.” Poi continua così: “E questo vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato.”
Se leggiamo Pavese con questa umile forza di chi non è uno scriba, cioé un sapientone già avvezzo ai libri, di chi non lo scruta al di qua dalla sottile lamina di metallo di cui parlavamo prima, i suoi libri ci serviranno, dunque, per imparare ad amare gli uomini. Perché, se amiamo i libri e non amiamo gli uomini, lui dice, siamo “fatui o dannati”, due parole molto forti che certamente dirige a se stesso, per quel senso di niente che aveva di sè, come spesso succede alle anime davvero grandi.
Di Pavese bisognerebbe leggere tutto e avere una mente come quella di Pico della Mirandola, per ricordare ogni parola e citare tutto a memoria. Ma questo purtroppo è per me impossibile. Mi limito dunque a cogliere alcuni punti in quel mare di materiale che ci ha lasciato e che è passibile
appunto di varie ipotesi di lettura. Io ne ho sempre scelta una, sopratuttutto perchè ho avuto in sorte di leggerlo per la prima volta in un tempo in cui non c’erano né Google né Wikipedia né l’ossessione delle biografie e di lui quindi sapevo solo che si era suicidato, perchè me l’aveva detto mia sorella maggiore e non ricordavo bene se poi a suicidarsi fosse stato lui o Luigi Tenco, perchè ero ancora poco più che una bambina. Per me c’erano sole le sue parole, quello che leggevo di nascosto appunto dallo sguardo vigile di mia sorella e sentivo che lui doveva aver sudato per scrivere così, in un mitico nuovo raccontare, né potevo riconoscere in quelle righe, che mi tenevano incatenata a lui, alcun cenno biografico. Con stupore, incontravo un uomo che mi parlava e cercavo di immaginare che volto avesse, se era bello o brutto, alto o basso, magro o grasso. E procedendo nella lettura mi dimenticavo poi di queste curiosità futili, perché trovavo un uomo che mi apriva la mente, che mi puliva da tante adolescenzialità, che mi faceva respirare a un ritmo diverso da come respiravo quando ancora non lo conoscevo e, insieme a tutto questo, debbo riconoscerlo, trovavo un uomo che mi faceva molta soggezione, perché decisamente era troppo intelligente e troppo colto. Nessuna caduta sentimentale, nessuna asprezza fuori luogo: quel raccontare fin nel dettaglio e pur sempre inesauriente, così che uno potesse metterci dentro il proprio personale lavoro, la propria personale creazione e poi quelle domande, sul tempo, la storia, il destino; duemila anni di convivenza tra la cultura greca e la cultura cristiana, il senza tempo dell’uomo, quell’eterno selvaggio che sacrifica al dio sconociuto una primizia, per garantire il buon raccolto, erano condensati in libretti che parlavano un linguaggio tutto suo, preso dai classici e dai campi. E poi quello sguardo che mi insegnava come guardare un fiume, un vigneto, un sentiero in collina, una catapecchia, una
finestra, una notte; che mi insegnava a riconoscere la pioggia e a sapere che nella mente degli altri è sempre in atto un dialogo interiore che li isola e al contempo li accomuna. Che mi faceva capire che il lavoro è un dovere che si paga caro. Che anche le parole hanno scritto “più in là”, come dice Montale. Ah, tutto questo mi è entrato nelle vene, ha liberato la mia mente, ha riempito di carità (che non è l’elemosina) quel mondo di gente che buttava via la vita, quando non se la toglieva, perchè il dio restava sconosciuto.
In Pavese inoltre trovavo un punto molto alto e nello stesso tempo molto profondo che me lo faceva amare e preferire a tanti altri scrittori che pure mi appassionavano e di cui divoravo – sempre di nascosto - i romanzi che mia sorella teneva chiusi a chiave in una vetrinetta.
E per cercare di trasmettervi questo punto molto alto e molto profondo per me, uso il metodo del confronto, che è un’astuzia che uso sempre quando cerco di esprimere qualcosa che mi risulta complicato esprimere.
Scrive Pavese nel suo diario del 26 di marzo del 1938: “Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci crede: è naturale. E forse è questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.” Parla dell’amore per una donna come sapete, ma c’è un più in là, che noi tutti avvertiamo come assenza di quell’Assoluto che avrebbe potuto sanare
ogni cellula del suo corpo. E’ lui a dirlo in alcune pagine del suo diario del 1944, annata che lui stesso definisce “strana, ricca. Cominciata e finita con Dio” e poi aggiunge parlando a se stesso: “potrebbe essere la più importante che hai vissuto”. Cito sono un frammento brevissimo: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione...Si arriva ad augurarsi il dolore” (1 febbraio). E il 2 dicembre: “Di nuovo l’esperienza che si desidera il dolore per avvicinarsi a Dio”.
Non sono dunque suo nucleo di fondo e centrale i dolori psicologici né sono le mancanze affettive quelle che si nascondono dietro le lucide creazioni di questi due geni della sofferenza che furono Bloy e Pavese: è qualcosa che ha a che vedere con l’eterno, e con una vita più forte del vivere stesso, cioè con l’Assoluto. I due scrittori lo esprimono in forme molto diverse, entrambi comunque frutto di un paziente lavoro di identità tra ciò che vedono e ciò che sentono e di adeguazione della loro parola all’orecchio di chi li ascolterà con attenzione. E’ il loro un dolore che normalmente li sorprende, non lo vorrebbero, non cercano se non dopo una lunga formazione ad esso, contro cui spesso combattono, che li lascia soli con un desiderio molto puro di abbraccio della verità, evento che non può venire nè dall’abbraccio della donna nè dal successo.
E questo loro dolore, con cui io mi scontravo essendo molto giovane e abbastanza superficiale, sentivo però che mi commuoveva profondamente anche perchè era difficile ammetterlo ma riconoscevo che, se mi fosse stato dato di conoscere personalmente Pavese o Bloy, non avrei saputo in alcun modo camminare al loro livello. A me Pavese al massimo avrebbe potuto dire quello che scrisse a Pierina, quella ragazza di Bocca di Magra che
troviamo nelle sue lettere: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due, che le mie stesse parole mi ritornano in bocca e mi feriscono” (agosto del 50). Mentre invece, Jeanne Molbek, la giovane che si prese cura di Bloy, che lo amò e lo sposò, se non ebbe certo vita facile, era però anche lei di tempra eccezionale come il suo sposo e non c’era fra loro sproporzione.
Nello stesso tempo, quel dolore che trovavo identico nel religiosissimo Bloy e nel presuntamente ateo Pavese, aprivano a me un orizzonte nuovo sul divino, che poi era anche per me l’unica cosa che importasse veramente. Cominciavo a conoscere un’esperienza molto diversa dalla mia, che avevo in dio un amico sempre feldele e che mi dava sempre ragione (come direbbe Simone de Beauvoir): vedevo cioè che dio – così lo chiamiamo per tradizione; d’altra parte è un nome comune, non un nome proprio – abita dentro l’uomo, se entri in te lo trovi, ma non sempre, non per tutti è un dio che consola o che ti dà sempre ragione. E mi piaceva moltissimo che Pavese, come del resto Bloy, non avessero mai tentato, come fecero invece gli amici di Giobbe, di “giustificare” questo Dio che a volte non consola, che a volte sembra distantissimo e ingiusto, che sempre sembra anche voler riaffermare la sua alterità rispetto all’uomo, pur quando gli concede la vicinanza del dialogo. Né Bloy né Pavese hanno mai cercato – parafrasando il poeta messicano Julio Hubard – di “salvare colui che ci salva”. Ad alcuni, questo dio sembra infatti riservare un cammino del tutto speciale e particolarmente doloroso, inesplicabile con il racconto di pur drammatici eventi esterni. E Pavese si trovò ad accettare già in giovanissima età (e cito parole sue) di “fare lo scoglio non più l’onda”. Quello di Bloy era consumare la propria vita perchè altri avessero lo Spirito, che per lui era santo. Pur detto con parole differenti, identico era il compito di due scrittori tanto diversi e pur con tanti punti ideali di contatto.
Pavese era un uomo buono: la sua non violenza è tutta qui. Leggiamo nel diario del 27 maggio del 47: “Una persona che ti ripugni, va sopportata. Dopo un po’ viene fuori – infallibile – qualcosa di non comune, di vero”.
Anche per me questo è un modo vero, per tutti possibile, di fare qualcosa per cambiare il mondo.
Terra rossa terra nera

Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi ?
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione ?
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d'agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.

Tu sei come una terra

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C'è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t'ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell'estate.



Anche tu sei collina

Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C'è una terra che tace
e non è terra tua.
C'è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.

È una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
È una terra cattiva ?
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.

Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un'ombra di luna.

Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l'infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.





Hai viso di terra scolpita,

Hai viso di terra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l'alba è silenzio.

E sei come le voci
della terra ? l'urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo ? le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.

Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov'è entrato una volta
ch'era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come al cortile antico
dove s'apriva l'alba.
Tu non sai le colline

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l'arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

Sempre vieni dal mare

Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
empre hai occhi segreti
d'acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.

Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all'urto
ha gustato la morte
la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s'odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose ?
combatteremo sempre.

==>SEGUE



Di salmastro e di terra

Di salmastro e di terra
è il tuo sguardo. Un giorno
hai stillato di mare.
Ci sono state piante
al tuo fianco, calde,
sanno ancora di te.
L'agave e l'oleandro.
Tutto chiudi negli occhi.
Di salmastro e di terra
hai le vene, il fiato.
Bava di vento caldo,
ombre di solleone ?
tutto chiudi in te.
Sei la voce roca
della campagna, il grido
della quaglia nascosta,
il tepore del sasso.
La campagna è fatica,
la campagna è dolore
Con la notte il gesto
del contadino tace.
Sei la grande fatica
e la notte che sazia.

Come la roccia e l'erba,
come terra, sei chiusa;
ti sbatti come il mare.
La parola non c'è
che ti può possedere
o fermare. Cogli
come la terra gli urti,
e ne fai vita, fiato
che carezza, silenzio.
Sei riarsa come il mare,
come un frutto di scoglio,
e non dici parole
e nessuno ti parla.

Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all'urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
non è morte vera.
Tu non sei piú. Le braccia
si dibattono invano.

Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.




E allora noi vili

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ?
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ?
? non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.


Sei la terra e la morte.

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che piú di te
sia remota dall'alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l'hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l'acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull'acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

To C. from C.

Tu,
screziato sorriso
su nevi gelate -
vento di Marzo,
balletto di rami
spuntati sulla neve,
gemendo e ardendo,
i tuoi piccoli "oh!" -
daina dalle membra bianche,
graziosa,
potessi io sapere
ancora
la grazia volteggiante
di tutti i tuoi giorni,
la trina di spuma
di tutte le tue vie -
domani è gelato
giù nella pianura -
tu, screziato sorriso,
tu, risata ardente.

In the morning you always come back

Lo spiraglio dell'alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell'alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell'alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre ?
sei la vita, il risveglio.

Stella sperduta
nella luce dell'alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro ?
è finita la notte.

Sei la luce e il mattino.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.


Hai un sangue, un respiro.

Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano ?
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano ?
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte ?
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.

Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.

Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell'aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.
La casa

L'uomo solo ascolta la voce calma
con lo sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul volto, un respiro amico
che risale, incredibile, dal tempo andato.

L'uomo solo ascolta la voce antica
che i suoi padri, nei tempi, hanno udita,
chiara e raccolta, una voce che come il verde
degli stagni e dei colli incupisce a sera.

L'uomo solo conosce una voce d'ombra,
carezzante, che sgorga nei toni calmi
di una polla segreta: la beve intento,
occhi chiusi, e non pare che l'abbia accanto.

È la voce che un giorno ha fermato il padre
di suo padre, e ciascuno del sangue morto.
Una voce di donna che suona segreta
sulla soglia di casa, al cadere del buio.

You, wind of March

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda ?
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
? anemone o nube ?
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi piú non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.

==>SEGUE
.Tra la vita e la morte
la speranza taceva.
Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo sono
un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d'aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.

Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose ?
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell'attesa di te.
È il mattino, è l'aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.
La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero

DOVE SEI TU, LUCE, È IL MATTINO

I mattini passano chiari
e deserti. Cosí i tuoi occhi
s'aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d'immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)

==>SEGUE



come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.

Passerò per Piazza di Spagna

Sarà un cielo chiaro.
S'apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell'aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S'aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l'acqua nelle fontane ?
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l'odore della pietra e dell'aria
mattutina. S'aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.

Sarai tu ? ferma e chiara.
The night you slept

Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange muta,
dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia ?
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t'implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.

La notte soffre e anela l'alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c'è chi come te attende l'alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l'alba.

The cats will know

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l'alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole ?
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
==>SEGUE


I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l'alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi piú non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell'alba,
viso di primavera.

Esterno
Quel ragazzo scomparso al mattino non torna.
Ha lasciato la pala, ancora fredda, all'uncino
era l'alba nessuno ha voluto seguirlo:
si è buttato su certe colline. Un ragazzo
dell'età che comincia a staccare bestemmie,
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata
di febbraio, ogni tronco del colore del sangue
aggrumato. Nessuno sentiva nell'aria
il tepore futuro.
Il mattino è trascorso
e la fabbrica libera donne e operai.
Nel bel sole qualcuno il lavoro riprende
tra mezz'ora si stende a mangiare affamato.
Ma c'è un umido dolce che morde nel sangue
e alla terra dà brividi verdi. Si fuma
e si vede che il cielo è sereno, e lontano.
le colline sono viola. Varrebbe la pena
di restarsene lunghi per terra nel sole.
Ma a buon conto si mangia. Chi sa se ha mangiato
quel ragazzo testardo ? Dice un secco operaio
che va bene, la schiena si rompe al lavoro
ma a mangiare si mangia. Si fuma persino.
L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente.

Son le bestie che sentono il tempo e il ragazzo
l'ha sentito dall'alba. E ci sono dei cani
che finiscono marci in un fosso : la terra
prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce
  dentro un fosso, affamato ? E' scappato nell'alba
senza fare discorsi con quattro bestemmie,
alto il naso nell'aria.
Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato



Una stagione

Questa donna una volta era fatta di carne
fresca e solida: quando portava un bambino,
si teneva nascosta e intristiva da sola.
Non amava mostrarsi sformata per strada.
Le altre volte (era giovane e senza volerlo
fece molti bambini) passava per strada
con un passo sicuro e sapeva godersi gli istanti.

I vestiti diventano vento le sere di marzo
e si stringono e tremano intorno alle donne che passano.
Il suo corpo di donna muoveva sicuro nel vento
che svaniva lasciandolo saldo. non ebbe altro bene
che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi figliuoli.

Nelle sere di vento si spande un sentore di linfe,
il sentore che aveva da giovane il corpo
tra le vesti superflue. un sapore di terra bagnata,
che ogni marzo ritorna. anche dove in città non c’è viali
e non giunge col sole il respiro del vento,
il suo corpo viveva, esalando di succhi
in fermento, tra i muri di pietra. col tempo, anche lei,
che ha nutrito altri corpi, si è rotta e piegata.
Non è bello guardarla, ha perduto ogni forza;
ma, dei molti, una figlia ritorna a passare
per le strade, la sera, e ostentare nel vento
sotto gli alberi, solido e fresco, il suo corpo che vive.
E c’è un figlio che gira e sa stare da solo
e si sa divertire da solo. ma guarda nei vetri,
compiaciuto del modo che tiene a braccetto
la compagna. gli piace, d’un gioco di muscoli,
accostarsela mentre rilutta e baciarla sul colle.
Sopratutto gli piace, poi che ha generato
su quel corpo, lasciarlo intristire e tornare a se stesso.
Un amplesso lo fa solamente sorridere e un figlio
lo farebbe indignare. Lo sa la ragazza, che attende,
e prepara se stessa a nascondere il ventre sformato
e si gode con lui, compiacente, e gli ammira la forza
di quel corpo che serve per compiere tante altre cose.
La Nube (da I dialoghi con Leucò)

LA NUBE C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire.

ISSIONE Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora.

LA NUBE C’è una legge Issione che prima non c’era. Le nubi le aduna una mano più forte.

ISSIONE Qui non arriva nessuna mano. Tu stessa, adesso che è sereno, ridi. E quando il cielo si oscura e urla il vento, che importa la mano che ci batte come gocciole? Accadeva già ai tempi che non c’era padrone. Nulla è mutato sopra i monti. Noi siamo avvezzi a tutto questo.

LA NUBE Molte cose sono mutate sui monti. Lo sa il Pelio, lo sa l’Ossa e l’Olimpo. Lo sanno monti più selvaggi ancora.

ISSIONE E che cosa è mutato, Nefele, sui monti?

LA NUBE Né il sole né l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.

ISSIONE Quale legge?

LA NUBE Già lo sai. La tua sorte, il limite…

ISSIONE La mia sorte l'ho in pugno, Nefele. Che cosa è mutato? Questi nuovi padroni posson forse impedirmi di scagliare un macigno per gioco? o di scendere nella pianura e spezzare la schiena a un nemico? Saranno loro più terribili della stanchezza e della morte?

LA NUBE Non è questo, Issione. Tutto ciò lo puoi fare e altro ancora. Ma non puoi più mischiarti a noialtre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dee della terra. E' mutato il destino.

ISSIONE Non puoi più... Che vuol dire, Nefele?

LA NUBE Vuol dire che, volendo far questo, faresti invece delle cose terribili. Come chi, per carezzare un compagno, lo strozzasse o ne venisse strozzato.


==>SEGUE
ISSIONE Non capisco. Non verrai più sulla montagna? Hai paura di me?

LA NUBE Verrò sulla montagna e dovunque. Tu non puoi farmi nulla, Issione. Non puoi far nulla contro l'acqua e contro il vento. Ma devi chinare la testa. Solamente così salverai la tua sorte.

ISSIONE Tu hai paura, Nefele.

LA NUBE Ho paura. Ho veduto le cime dei monti. Ma non per me, Issione. Io non posso patire. Ho paura per voi che non siete che uomini. Questi monti che un tempo correvate da padroni, queste creature nostre e tue generate in libertà, ora tremano a un cenno. Siamo tutti asserviti a una mano più forte. I figli dell'acqua e del vento, i centauri, si nascondono in fondo alle forre. Sanno di essere mostri.

ISSIONE Chi lo dice?

LA NUBE Non sfidare la mano, Issione. E' la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte, ch'era il vostro g, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?

ISSIONE Me l'hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.

LA NUBE Tu giochi e non conosci gli immortali.

ISSIONE Vorrei conoscerli, Nefele.

LA NUBE Issione, tu credi che sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi - tutto a loro contenta o dispiace.  E se tu li disgusti - se per errore li disturbi nel loro Olimpo - ti piombano addosso, e ti dànno la morte - quella morte che loro conoscono, ch'è un amaro sapore che dura e si sente.

ISSIONE Dunque si può ancora morire.

LA NUBE No, Issione. Faranno di te come un'ombra, ma un'ombra che rivuole la vita e non muore mai più.

==>SEGUE
ISSIONE Tu li hai veduti questi dèi?

LA NUBE Li ho veduti... O Issione, non sai quel che chiedi.

ISSIONE Anch'io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.

LA NUBE Lo sapevo. La tua sorte è segnata. Chi hai visto?

ISSIONE Come posso saperlo? Era un giovane, che traversava la foresta a piedi nudi. Mi passò accanto e non mi disse una parola. Poi davanti a una rupe scomparve. Lo cercai a lungo per chiedergli chi era - lo stupore mi aveva inchiodato. Sembrava fatto della stessa carne tua.

LA NUBE Hai veduto lui solo?

ISSIONE Poi in sogno l'ho rivisto con le dee. E mi parve di stare con loro, di parlare e di ridere con loro. E mi dicevano le cose che tu dici, ma senza paura, senza tremare come te. Parlammo insieme del destino e della morte. Parlammo dell'Olimpo, ridemmo dei ridicoli mostri...

LA NUBE O Issione, Issione, la tua sorte è segnata. Adesso sai cos'è mutato sopra i monti. E anche tu sei mutato. E credi di essere qualcosa più di un uomo.

ISSIONE Ti dico, Nefele, che tu sei come loro. Perché, almeno in sogno, non dovrebbero piacermi?

LA NUBE Folle, non puoi fermarti ai sogni. Salirai fino a loro. Farai qualcosa di terribile. Poi verrà quella morte.

ISSIONE Dimmi i nomi di tutte le dee.

LA NUBE Lo vedi che il sogno non ti basta già più? E che credi al tuo sogno come fosse reale? Io ti supplico, Issione, non salire alla vetta. Pensa ai mostri e ai castighi. Altro da loro non può uscire.

ISSIONE Ho fatto ancora un altro sogno questa notte. C'eri anche tu, Nefele. Combattevamo coi Centauri. Avevo un figlio ch'era il figlio di una dea, non so quale. E mi pareva quel giovane che traversò la foresta. Era più forte anche di me, Nefele. I centauri fuggirono, e la montagna fu nostra. Tu ridevi, Nefele. Vedi che anche nel sogno, la mia sorte è accettabile.

LA NUBE La tua sorte è segnata. Non si sollevano impunemente gli occhi a una dea.

ISSIONE Nemmeno a quella della quercia, la signora delle cime?

LA NUBE L'una o l'altra, Issione, non importa. Ma non temere. Starò con te fino alla fine.
Parole del politico

Si passava sul presto al mercato dei pesci
a lavarci lo sguardo: ce n'era d'argento,

di vermigli, di verdi, colore del mare'
Al confronto col mare tutto scaglie d'argento
la vincevano i pesci. Si pensava al ritorno

Belle fino le donne dall'anfora in capo,
ulivigna, foggiata sulla forma dei franchi
mollemente: ciascuno Pensava alie donne,
come parlano, ridono, camminano in strada
Ridevamo, ciascuno. Pioveva sul mare

Per le vigne nascoste negli anfratti di terra
I'acqua macera foglie e racimoli' II cielo
si colora di nuvole scarse, arrossate
di piacere e di sole. Suila terra sapori
e colori nel cielo. Nessuno con noi

Si pensava al ritorno, come dopo una notte
tutta quanta di veglia, si pensa al mattino
Si godeva il coiore dei pesci e l'umore
delle frutta, vivaci nel tanfo del mare'
Ubriachi eravamo, nel ritorno imminente

Il figlio della vedova

Può accadere ogni cosa nella bruna osteria,
può accadere che fuori sia un cielo di stelle,
al di là della nebbia autunnale e del mosto.
Può accadere che cantino dalla collina
le arrbchite canzoni sulle aie deserte
e che torni improvvsa sotto il cielo d'allora
la donnetta seduta in attesa del giorno.

Tornerebbero intorno alla donna i villani
dalle scarne parole, in attesa del sole
e del pallido cenno di lei, rimboccati
fino al gomito, chini a fissare la terra.
Alla voce del grillo si unirebbe il frastuono
della cote sul ferro e un piu rauco sospiro.
Tacerebbero il vento e i brusii della notte.
La donnetta seduta parlerebbe con ira.

==>SEGUE

Lavorando i villani ricurvi lontano,
la don netta è rimasta sull'aia e li segue
con lo sguardo, poggiata allo stipite, affranta
dal gran ventre maturo. Sul volto consunto
ha un amaro sorriso impaziente, e una voce
che non giunge ai villani le solleva la gola.
Batte il sole sull' aia e sugli occhi arrossati
ammiccanti. Una nube purpurea vela la stoppia
seminata di gialli covoni. La donna
sulla tomba  del grano, e dovranno lottare
a ridurre anche quello in letame, bruciando.
Perché il sole e la pioggia proteggono solo le erbacce
e la brina, toccato che ha il grano, non torna.

Una generazione

Un ragazzo veniva a giocare nei prati
dove adesso s'allungano i corsi.! Trovava nei prati
ragazzotti anche scalzi e saltava di gioia.
Era bello scalzarsi nell'erba con loro.
Una sera di luci lontane echeggiavano spari,
in città, e sopra il vento giungeva pauroso
un clamore interrotto. Tacevano tutti.
Le colline sgranavano punti di luce
sulle coste, avviati dal vento. La notte
che oscurava finiva per spegnere tutto
e nel sonno duravano solo freschezze di vento.

(Domattina i ragazzi ritornano in giro
e nessuno ricorda il clamore. In prigione
c'è operai silenziosi e qualcuno è già morto.
Nelle strade han coperto le macchie di sangue.
La città di lontano si sveglia nel sole
e la gente esce fuori. Si guardano in faccia).
I ragazzi pensavano al buio dei prati.
.........
La città ci piaceva di giorno: la sera, tacere
e guardare le luci in distanza e ascoltare i clamori.
Vanno ancora ragazzi a giocare nei prati
dove giungono i corsi. E la notte è la stessa.
A passarci si sente l'odore dell'erba.
In prigione ci sono gli stessi. E ci sono le donne
come allora, che fanno bambini e non dicono nulla.



Se trovassi un amico

" Le colline e le rive del Po sono un giallo bruciato
e noi siamo quassù a maturarci nel sole.
Mi racconta costei - come fossi un amico.
«Da domani abbandono Torino e non torno mai più.
Sono stanca di vivere tutta la vita in prigione ».
Si respira un sentore di terra e, di là dalle piante,
a Torino, a quest'ora lavorano tutti in prigione.

Il quartiere, il paese, la città, la strada
«Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola
senza piangere e senza pensare alla gente che vive.
Là mi caccio  un grembiale e mi sfogo  in cattive risposte
ai parenti e per tutto l'inverno non esco mai più».

Nei paesi novembre è un bel mese dell'anno:
c'è le foglie colore di terra e le nebbie al mattino,
poi c'è il sole che rompe  le nebbie. Lo dico tra me
e respiro l'odore di freddo che ha il sole al mattino.

«Me ne vado perché è troppo bella Torino a quest'ora:
a me piace girarci e vedere la gente
e mi tocca star chiusa finch'è tutto buio
e la sera soffrire da sola»! Mi vuole vicino
come fossi un amico: quest'oggi ha saltato  l'ufficio
per trovare un amico. «Ma posso star sola cosi?

Giorno e notte -l'ufficio - le scale - la stanza da letto
se alla sera esco a fare due passi non so dove andare
e ritorno cattiva e al mattino non voglio più alzarmi.
Tanto bella sarebbe Torino - poterla godere
solamente poter respirate». Le piazze e le strade
han lo stesso profumo di tiepido sole
che c'è qui tra le piante.  Ritorni al paese..
Ma Torino è il più bello di tutti i paesi.

«Se trovassi un amico quest'oggi, starei sempre qui ».
Sotto gli alberi della stazione
Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest'ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l'erba.

Gella sa che ua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti,
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile  rinchiuso
tra muraglie, e la gente s'affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezza di giovani, schietti  nel passo e nel riso padrone.

Gella è stufa  di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli, che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell'erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l'erba, perché da trent'anni
l'ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.

Anche Gella vorrebbe restarsene, sola nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell'erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c'è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi  i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada  notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride ai pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta . Finché le colline e le vigne
.non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov'erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.





Il tempo passa

Quel vecchione, una volta, seduto sull'erba,
aspettava che il figlio tornasse col pollo
mal strozzato, e gli dava due schiaffi. Per strada

camminavano all'alba su quelle colline -
gli spiegava che il pollo si strozza con l'unghia -
tra le dita -del pollice, senza rumore.
Nel crepuscolo fresco marciavano sotto le piante
imbottiti di frutta e il ragazzo portava
sulle spalle una zucca giallastra. Il vecchione diceva
che la roba nei campi è di chi ne ha bisogno
tant'è vero che al chiuso non viene. Guardarsi d'attorno
bene prima, e poi scegliere calmi la vite più nera
e sedersele all'ombra e non muovere fin che si è pieni.
C'è chi mangia dei polli in città. Per le vie
non si trovano i polli. Si trova il vecchiotto
tutto ciò ch'è rimasto dell'altro vecchione
che, seduto su un angolo, guarda i passanti
e, chi vuole, gli getta due s01di. Non apre la bocca
il vecchiotto: a dir sempre una cosa, vien sete,
e in città non si trova le botti che versano,
né in ottobre né mai...
Il vecchi otto , ragazzo, beveva tranquillo;
ora, solo annusando, gli balla la barba:
fin che ficca il bastone tra i piedi a uno sbronzo
che va in terra. Lo aiuta a rialzarsi, gli vuota le tasche
(qualche volta allo sbronzo è avanzato qualcosa),
e alle due lo buttano fuori anche lui
dalla tampa fumosa, che canta, che sgrida
e che vuole la zucca e distendersi sotto la vite.





Due sigarette

Ogni notte è la liberazione. Si guarda i riflessi
dell'asfalto sui corsi che si aprono lucidi al vento.
Ogni rado passante ha una faccia e una storia.
Ma a quest'ora non c'è più stanchezza: i lampioni a migliaia
sono tutti per chi si sofferma a sfregare un cerino.
La fiammella si spegne sul volto alla donna
che mi ha chiesto un cerino. Si spegne nel vento
e la donna delusa ne chiede un secondo
che si spegne: la donna ora ride sommessa.
Qui possiamo parlare a voce alta e gridare,
chè nessuno ci sente. Leviamo gli sguardi
alle tante finestre - occhi spenti che dormono
e attendiamo. La donna si stringe le spalle
e si lagna che ha perso la sciarpa a colori
che la notte faceva da stufa. Ma basta appoggiarci
contro l'angolo e il vento non è più che un soffio.
Sull'asfalto consunto c'è già un mozzicone.
Questa sciarpa veniva da Rio, ma dice la donna
che è contenta d'averla perduta, perchè mi ha incontrato.
Se la sciarpa veniva da Rio, è passata di notte
sull'oceano inondato di luce dal gran transatlantico.
Certo, notti di vento. E' il regalo di un suo marinaio.
Non c'è più il marinaio. La donna bisbiglia
che, se salgo con lei, me ne mostra il ritratto
ricciolino e abbronzato. Viaggiava su sporchi vapori
e puliva le macchine: io sono più bello.
Sull'asfalto c'è due mozziconi. Guardiamo nel cielo:
la finestra là in alto - mi addita la donna - la nostra.
Ma lassù non c'è stufa. La notte, i vapori sperduti
hanno pochi fanali o soltanto le stelle.
Traversiamo l'asfalto a braccetto, giocando a scaldarci.
Fumatori di carta

Mi ha condotto a sentir la sua banda. Si siede in un angolo
e imbocca il clarino. Comincia un baccano d'inferno.
Fuori, un vento fu!ioso e gli schiaffi, tra i lampi,
della pioggia fan ìi che la luce vien tolta,
ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
dànno dentro stravolte, a suonare a memoria
un ballabile. Energico, il povero amico
tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
rompe il chiasso sonoro, s'inoltra, si sfoga
come un'anima sola, in un secco silenzio.

Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
contadine le mani che stringono i tasti,
e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
Miserabile sangue fiaccato, estenuato
dalle troppe fatiche, si sente muggire
nelle note e l'amico li guida a fatica,
lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
a menare una pialla, a strapparsi la vita.

Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent' anni.
Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
Venne anch'egli a Torino, cercando una vita,
e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare

nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
sulla propria fatica la fame degli altri,
e trovò dappertutto ingiustizie.. Tentò darsi pace
camminando, assonnato, le vie interminabili
nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
e sapeva cos'era lavoro. Accettava il lavoro :
come un duro destino dell'uomo. Ma tutti gli uomini
lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.
Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
ne era tutta coperta.. Sentivano in sé
tanta disperazione da vincere il mondo.

==>SEGUE
Suona secco stasera, malgrado la banda
che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
della pioggia e alla luce. La faccia severa
fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
col fratello, più triste di lui di dieci anni ,
vegliavamo a una luce mancante. Il fratello studiava
su un inutile tornio costrutto da lui.
E il mio povero amico accusava il destino
che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
a nutrire due vecchi, non chiesti.

D'un tratto gridò
che non era il destino se il mondo soffriva,
se la luce del sole strappava bestemmie:
era l'uomo, colpevole. Almeno potercene andare
far la libera fame, rispondere no.
a una vita che adopera amore e pietà,
la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.
Il vino triste

La fatica è sedersi senza farsi notare.
Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate
e ritorna la voglia di pensarci da solo.
Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii,
ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo
esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro
(l'uomo solo non può non pensare al lavoro)
ridiventa l'antico destino che è bello soffrire
per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano
a mezz'aria, dolenti, come fossero ciechi.

Se quest'uomo si rialza e va a casa a dormire,
pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque
può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi.
Può sbucare una donna e distendersi in strada,
bella e giovane, sotto un alt'uomo, gemendo
come un tempo una donna gemeva con lui.
Ma quest'uomo non vede. Va a casa a dormire
e la vita non è che un ronzio di silenzio.

A spogliarlo, quest'uomo, si trovano membra sfinite
e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe
che in quest'uomo trascorrono tiepide vene
dove un tempo la vita bruciava? Nessuno
crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze
su quel corpo e baciato quel corpo, che trema,
e bagnato di lacrime, adesso che l'uomo
giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.

Crepuscolo di sabbiatori del Po in una casa in cima a una collina

I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti:
quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente.
E già quasi notte: Isolati, si fermano:
si dibatte e sussulta la vanga sott'acqua.
D'ora in ora, altre barche sono state fin qui.
I barconi nel buio discendono grevi di sabbia,
senza dare una scossa, radenti: ogni uomo è seduto
a una punta e un granello di fuoco gli brucia alla bocca
Ogni paio di braccia strascina il suo remo,
un tepore discende alle gambe fiaccate
e lontano s'accendono i lumi.
...In distanza, sul fiume, scintillano i lumi
di Torino. Due o tre sabbiatori hanno acceso
sulla prua il fanale, ma il fiume è deserto.

Il mio sogno

Il mio sogno è di vivere fino a trent'anni
in una casa in cima a una collina
ben battuta dal vento, e accudire soltanto ..
alle piante selvatiche spuntate lassù.

Estate

C'è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell'erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un'erba che so,
con un tonfo. Cosí trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d'aria
e il prodigio sei tu. C'è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.

Incontro

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.

L'ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschìa d'estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò
come uscisse da queste collina

e, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
==>SEGUE
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell'infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino, Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l'alba su queste colline.

L'ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.

Il ragazzo che era in me

Va' a sapere perché fossi là quella sera nei prati.
Forse mi ero lasciato cadere stremato di sole,
e fingevo l'indiano ferito. Il ragazzo a quei tempi
scollinava da solo cercando bisonti
e tirava le frecce dipinte e vibrava la lancia.
Quella sera ero tutto tatuato a colori di guerra.
Ora, l'aria era fresca e la medica pure
vellutata profonda, spruzzata dei fiori
rossogrigi e le nuvole e il cielo
s'accendevano in mezzo agli steli. Il ragazzo riverso
che alla villa sentiva lodarlo, fissava quel cielo.
Ma il tramonto stordiva. Era meglio socchiudere gli occhi
e godere l'abbraccio dell'erba. Avvolgeva come acqua.
Ad un tratto mi giunse una voce arrochita dal sole:
il padrone del prato, un nemico di casa,
che fermato a vedere la pozza dov'ero sommerso
mi conobbe per quel della villa e mi disse irritato
di guastar roba mia, che potevo, e lavarmi la faccia.
Saltai mezzo dall'erba. E rimasi, poggiato le mani,
a fissare tremando quel volto offuscato.
Oh la bella occasione di dare una freccia nel petto di un uomo!
Se il ragazzo non ebbe il coraggio, m'illudo a pensare
che sia stato per l'aria di duro comando che aveva quell'uomo.
lo che anche oggi mi illudo di agire impassibile e saldo
me ne andai quella sera in silenzio e stringevo le frecce
borbottando, gridando parole d'eroe moribondo.
Forse fu avvilimento dinanzi allo sguardo pesante
di chi avrebbe potuto picchiarmi. O piuttosto vergogna
come quando si passa ridendo dinanzi a un facchino.
Ma ho il terrore che fosse paura. Fuggire, fuggii.
E, la notte, le lacrime e i morsi al guanciale
mi lasciarono in bocca sapore di sangue.
L'uomo è morto. La medica è stata diverta, erpicata
ma mi vedo chiarissimo il prato dinanzi
e, curioso, cammino e mi parlo, impassibile
come l'uomo alto e cotto dal sole parlò quella sera.
Maternità

Questo è un uomo che ha fatto tre figli: un gran corpo
poderoso, che basta a se stesso; a vederlo passare
uno pensa che i figli han la stessa statura.
Dalle membra del padre (la donna non conta)
debbon esser usciti, già fatti, tre giovani
come lui. Ma comunque sia il corpo dei tre,
alle membra del padre non manca una briciola
né uno scatto: si sono staccati da lui
camminandogli accanto.
La donna c'è stata,
una donna di solido corpo, che ha sparso
su ogni figlio del sangue e sul terzo c'è morta.
Pare strano ai tre giovani vivere senza la donna
che nessuno conosce e li ha fatti, ciascuno, a fatica
annientandosi in loro. La donna era giovane
e rideva e parlava, ma è un gioco rischioso
prender parte alla vita. È così che la donna
c'è restata in silenzio, fissando stravolta il suo uomo.
I tre figli hanno un modo di alzare le spalle
che quell'uomo conosce. Nessuno di loro
sa di avere negli occhi e nel corpo una vita
che a suo tempo era piena e saziava quell'uomo.
Ma, a vedere piegarsi un suo giovane all'orlo del fiume
e tuffarsi, quell'uomo non ritrova più il guizzo
delle membra di lei dentro l'acqua, e la gioia
dei due corpi sommersi. Non ritrova più i figli
se li guarda per strada e confronta con sé.
Quanto tempo è che ha fatto dei figli? I tre giovani
vanno invece spavaldi e qualcuno per sbaglio
s'è già fatto un figliolo, senza farsi la donna.




La puttana contadina

La muraglia di fronte che accieca il cortile
ha sovente un riflesso di sole bambino
che ricorda la stalla. E la camera sfatta
e deserta al mattino quando il corpo si sveglia,
sa l'odore del primo profumo inesperto.
Fino il corpo, intrecciato al lenzuolo, è lo stesso
dei primi anni, che il cuore balzava scoprendo.

Ci si sveglia deserte al richiamo inoltrato
del mattino e riemerge nella greve penombra
l'abbandono di un altro risveglio: la talla
dell'infanzia e la greve stanchezza del sole
caloroso sugli usci indolenti. Un profumo
impregnava leggero il sudore consueto
dei capelli, e le bestie annusavano. Il corpo
si godeva furtivo la carezza del sole
insinuante e pacata come fosse un contatto.

L'abbandono del letto attutisce le membra
stese giovani e tozze, come ancora bambine.
La bambina inesperta annusava il sentore
del tabacco e del fieno e tremava al contatto
fuggitivo dell'uomo: le piaceva giocare.
Qualche volta giocava distesa con l'uomo
dentro il fieno, ma l'uomo non fiutava i capelli:
le cercava nel fieno le membra contratte,
le fiaccava, schiacciandole come fosse suo padre.
Il profumo eran fiori pestati sui sassi.

Molte volte ritorna nel lento risveglio
quel disfatto sapore di fiori lontani
e di stalla e di sole. Non c'è uomo che sappia
la sottile carezza di quell'acre ricordo.
Non c'è uomo che veda oltre il corpo disteso
quell'infanzia trascorsa nell'ansia inesperta.







Sogno

Ride ancora il tuo corpo all'acuta carezza
della mano o dell'aria, e ritrova nell'aria
qualche volta altri corpi? Ne ritornano tanti
da un tremore dei sangue, da un nulla. Anche il corpo
che si stese al tuo fianco, ti ricerca in quel nulla.

Era un gioco leggero pensare che un giorno
la carezza dell'aria sarebbe riemersa
improvviso ricordo nel nulla. Il tuo corpo
si sarebbe svegliato un mattino, amoroso
del suo stesso tepore, sotto l'alba deserta.
Un acuto ricordo ti avrebbe percorsa
e un acuto sorriso. Quell'alba non torna?

Si sarebbe premuta al tuo corpo nell'aria
quella fresca carezza, nell'intimo sangue,
e tu avresti saputo che il tiepido istante
rispondeva nell'alba a un tremore diverso,
un tremore dal nulla. L'avresti saputo
come un giorno lontano sapevi che un corpo
era steso al tuo fianco.

Dormivi leggera
sotto un'aria ridente di labili corpi,
amorosa di un nulla. E l'acuto sorriso
ti percorse sbarrandoti gli occhi stupiti.
Non è più ritornata, dal nulla, quell'alba?


Paternità

Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l'aveva nel sangue
e l'ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s'affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C'è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l'attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.

Canzone

Le nuvole sono legate alla terra ed al vento.
Fin che ci saran nuvole sopra Torino
sarà bella la vita. Sollevo la testa
e un gran gioco si svolge lassù sotto il sole.
Masse bianche durissime e il vento vi circola
tutto azzurro - talvolta le disfa
e ne fa grandi veli impregnati di luce.

Sopra i tetti, a migliaia le nuvole bianche
copron tutto, la folla, le pietre e il frastuono.
Molte volte levandomi ho visto le nuvole
trasparire nell'acqua limpida di un catino.
Anche gli alberi uniscono il cielo alla terra.

==>SEGUE


Le città sterminate somiglian foreste
dove il cielo compare su su, tra le vie.
Come gli alberi vivi sul Po, nei torrenti
così vivono i mucchi di case nel sole.

Anche gli alberi soffrono e muoiono sotto le nubi
l'uomo sanguina e muore, - ma canta la gioia
tra la terra ed il cielo, la gran meraviglia
di città e di foreste. Avrò tempo domani
a rinchiudermi e stringere i denti. Ora tutta la vita
son le nubi e le piante e le vie, perdute nel cielo.

Gente non convinta

Questa pioggia che cade per piazze e per strade,
e in caserma e in collina, va tutta sprecata.
Domattina le piante saranno lavate,
lungo i viali, e il cortile in caserma bel molle,
da sfangarci al ginocchio: i lavori che fanno in città
sembran tutti quest'acqua che cade sui tetti.

Fuori, piova nel buio per tutte le strade,
finirà che domani per terra c'è l'erba.

Si è veduto stasera venire giù l'acqua
per i fossi, in collina, e la terra ingiallita
dalle foglie e dal fango. Ma, sopra il sentore
della terra, uno sterile tanfo di fiori
che succhiavano l'acqua, e tra i fiori, le ville
che grondavano pioggia. Soltanto dall'altro versante,
arrivare sul vento un sentore di vigna.

Fuori, piova nel buio per piazze e per strade,
non importa: c'è un vino che viene a scaldarci
di un calore che ancora domani sapremo cos'è.

C'è un odore di pietra nel vento bagnato,
e per terra, soltanto rotaie. Le donne che passano
le conosce nessuno. Le donne in città
sono sempre diverse e non servono a niente.
Nel casino, là sì che gli odori son buoni
e le donne son brave. Ma vivono come in caserma
anche loro e il lavoro che fanno è una stupidità.

Non importa. le donne verranno a scaldarci
di un calore che ancora domani sapremo cos'è.




Poetica

Il ragazzo s'è accorto che l'albero vive.
Se le tenere foglie si schiudono a forza
una luce, rompendo spietate, la dura corteccia
deve troppo soffrire. Pure vive in silenzio.
Tutto il mondo è coperto di piante che soffrono
nella luce, e non s'ode nemmeno un sospiro.
E' una tenera luce. Il ragazzo non sa
donde venga, è già sera; ma ogni tronco rileva
sopra un magico fondo. Dopo un attimo è buio.

Il ragazzo - qualcuno rimane ragazzo
troppo tempo - che aveva paura dei buio,
va per strada e non bada alle case imbrunite
nel crepuscolo. Piega la testa in ascolto
di un ricordo remoto. Nelle strade deserte
come piazze, s'accumula un grave silenzio.
Il passante potrebbe esser solo in un bosco,
dove gli alberi fossero enormi. La luce
con un brivido corre i lampioni. Le case abbagliate
traspaiono nel vapore azzurrino,
e il ragazzo alza gli occhi. Quel silenzio remoto
che stringeva il respiro al passante, è fiorito
nella luce improvvisa. Sono gli alberi antichi
del ragazzo. E la luce è l'incanto d'allora.

E comincia, nel diafano cerchio, qualcuno
a passare in silenzio. Per la strada nessuno
mai rivela la pena che gli morde la vita.
Vanno svelti, ciascuno come assorto nel passo,
e grandi ombre barcollano. Hanno visi solcati
e le occhiaie dolenti, ma nessuno si lagna.
Tutta quanta la notte, nella luce azzurrina,
vanno come in un bosco, tra le case infinite




L'amico che dorme

Che diremo stanotte all'amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l'amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell'antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un'anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.

Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell'ansia dell'alba,
che verrà d'improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L'inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.

La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l'amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell'antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un'anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.

Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell'ansia dell'alba,
che verrà d'improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L'inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.


I Mari del Sud

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino..."
mi ha detto " ...ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode,
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.

Vent'anni è stato in giro per il mondo.
Se n'andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne,
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
ma gli uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

==>SEGUE

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotto la testa
a un rivale e sono stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così".
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che avevo certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma uscì ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
"Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza".

Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
scrivo sul manifesto: - Santo Stefano

==>SEGUE
è sempre stato il primo nelle feste
della valle di Belbo - e che la dicano
quei di Canelli". Poi riprende l'erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me le accenna talvolte.
Ma quando gli dico
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
Creazione

Sono vivo e ho sorpreso nell'alba le stelle.
La compagna continua a dormire e non sa.
Dormon tutti, i compagni. La chiara giornata
mi sta innanzi più netta dei volti sommersi.

Passa un vecchio in distanza, che va a lavorare
o a godere il mattino. Non siamo diversi,
tutti e due respiriamo lo stesso chiarore
e fumiamo tranquilli a ingannare la fame.
Anche il corpo del vecchio dev'essere
schietto e vibrante dovrebbe esser
nudo davanti al mattino.

Stamattina la vita ci scorre sull'acqua
e nel sole: c'è intorno il fulgore dell'acqua
sempre giovane, i corpi di tutti saranno scoperti.
Ci sarà il grande sole e l'asprezza del largo
e la rude stanchezza che abbatte nel sole
e l'immobilità. Ci sarà la compagna un segreto
di corpi. Ciascuno darà una sua voce.

Non c'è voce che rompe il silenzio dell'acqua
sotto l'alba. E nemmeno qualcosa trasale
sotto il cielo. C'è solo un tepore che scioglie le stelle.
Fa tremare sentire il mattino che vibra
tutto vergine, quasi nessuno di noi fosse sveglio.