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Il sogno


Pur nel sonno almen talora
vien colei, che m'innamora,
le mie pene a consolar.
Rendi Amor, se giusto sei,
più veraci i sogni miei,
o non farmi risvegliar.
Di solitaria fonte
sul margo assiso al primo albore, o Fille,
sognai d'esser con te. Sognai, ma in guisa
che sognar non credei. Garrir gli augelli,
frangersi l'acque e susurrar le foglie
pareami udir. De' tuoi begli occhi al lume,
come suol per costume,
fra' suoi palpiti usati era il cor mio.
Sol nel vederti, oh Dio!
pietosa a me, qual non ti vidi mai,
di sognar qualche volta io dubitai.
Quai voci udii! Che dolci nomi ottenni,
cara, da' labbri tuoi! Quali in quei molli
tremuli rai teneri sensi io lessi!
Ah se mirar potessi
quanto splendan più belle
fra i lampi di pietà le tue pupille,
mai più crudel non mi saresti, o Fille
Qual io divenni allora,

       


quel che allora io pensai, ciò che allor dissi,
ridir non so. So che sul vivo latte
della tua mano io mille baci impressi;
tu d'un vago rossor tingesti il volto.
Quando improvviso ascolto
d'un cespuglio vicin scuoter le fronde:
mi volgo, e mezzo ascoso
scopro il rival Fileno,
che d'invido veleno
livido in faccia i furti miei rimira.
Fra la sorpresa e l'ira
avvampai, mi riscossi in un momento,
e fu breve anche in sogno il mio contento.
Partì con l'ombra, è ver,
l'inganno ed il piacer;
ma la mia fiamma, oh Dio!
idolo del cor mio,
con l'ombra non partì.
Se mai per un momento
sognando io son felice,
poi cresce il mio tormento,
quando ritorna il dì.

La deliziosa imperial residenza di Schönbrunn
Come, Euterpe, al tuo Fedele
come mai la cetra usata,
polverosa, abbandonata
or di nuovo ardisci offrir?

Ch'io la tratti ah speri in vano:
pronta or più non è la mano
a rispondere al desir.

Tempo fu che l'aure intorno
risonar facesti ardita,
non dal Nume mal gradita
che ti accolse, e ti nutrì:
or a lui sarebbe ingrato
rauco suon che, mal temprato,
più non è qual era un dì.

Di Belfonte il gran recinto
tu da me vuoi che s'onori,
che d'eccelsi Abitatori
scopre il genio, ed il poter:
io cantarlo! Ah no, perdono:
i miei pari atti non sono
tanto peso a sostener.

Se in mirar mi trema il core
sol qual sia l'esterno aspetto,
quanto d'aria il regio tetto,
quanto ingombri di terren;
se innoltrarsi osasse il piede
nell'interna augusta sede,
che farebbe il core in sen?

Là la mente creatrice
tutto il grande, e tutto il bello

Pietro Metastasio     -     POESIE



della squadra, e del pennello
ingegnosa radunò.
L'arricchì regia larghezza;
ma il saper della ricchezza
ogni vanto superò.

I ricetti luminosi
passa quindi, e di', se puoi,
quanto s'offra agli occhi tuoi
di delizia, e di stupor.
Di', se a prova in altra parte,
come qui, natura, ed arte
quanto può mostrasse ancor.

Vasto pian, terren sublime,
chiare fonti, e selve amene,
vie distinte in varie scene
ben può quindi ognun scoprir:
ma non già facondia alcuna
le bellezze ad una ad una
ne saprà giammai ridir.

Ti farà stupida, e muta
l'immortal mole eminente,
ch'alto in faccia al Sol cadente
regio cenno sollevò:
non formar voci saprai,
ma in te stessa ammirerai
chi tant'opra immaginò.

Là, marmorea emula loggia
in altezza ai gioghi alpini,
d'onde agli Ungari confini
giunge il guardo ammirator,
fa corona all'ampia fronte
del frondoso aprico monte,
degno ben di tanto onor.

Corron là di balza in balza
da recondite sorgenti
acque impide, e ridenti
vasto pelago a formar:
dal poter d'arte sagace
tutto il pian che a lor soggiace
destinate a rallegrar.

Scossa poi dal tuo stupore
se di là volgi le ciglia,
d'una in altra meraviglia
porterai dubbiosa il piè:
nè saprai se questa, o quella
di più rara, o di più bella
debba il vento aver da te.

Se le chiare aperte vie
d'ordinate annose piante,
dove stanca il passo errante
il sorpreso passaggier:
dove l'occhio adombra, e in vano
cerca il termine lontano



su le tracce del pensier.

O se l'altre opache, e brune,
dove ogni arbore sublime
curva docile le cime,
e fa scudo ai rai del Sol:
ove scherzan delle fronde,
quando l'aura le confonde,
l'ombre tremule nel suol.

Se i festivi laberinti
del Meandro imitatori,
dove il piè va in lieti errori
libertà cercando in van:
spesso riede ov'era, e spesso
par che giunga al varco appresso
quando più ne va lontan.

Se in recessi angusti e soli,
cui la selva asconde, e a cui
poco esposto al guardo altrui
guida il comodo sentier:
ove han grato asilo ombroso
la stanchezza col riposo,
l'innocenza col piacer.

Qual sarà la tua dubbiezza
nel veder che in faccia al verno
qui ha Pomona autunno eterno,
ha qui Flora eterno april:




che qui mostra industre cura
quanto sa produr natura
di più caro, e più gentil.

Qui non sol de' nostri lidi
vedrai pesci, augelli, e fiere
fender l'acque, errare e schiere
nel bel carcere real;
ma più d'un calcare il suolo,
girne a nuoto, alzarsi a volo,
che straniero ebbe il natal.

Qui da ignoti augei canori,
ch'altro ciel nutrir solea,
imparò l'Eco europea
nuovi carmi a replicar:
pesci qui di strane sponde
le lor vennero in quest'onde
auree squame ad ostentar.

Varie diere, e in varie guise
tutte armate, o pinte il tergo
tributarie a questo albergo
l'Asia, e l'Africa mandò:
che de' pregi, ond'è fecondo
e l'antico e il nuovo mondo,
queste piagge a gara ornò.

Fin dell'arsa Taprobana
questa or gode aura felice

la gran belva adoratrice
della Dea del primo ciel:
e di Sirio il raggio ammira,
che, il furor temprando e l'ira,
tanto meno è qui crudel.

Bella Euterpe, ah speri in vano
che sian scorte ai miei pensieri
quei portenti o finti, o veri
che la Grecia celebrò:
niun di quelli, o Musa amica,
ch'esaltò la fama antica,
dirsi a questo egual non può.

Non d'Alcinoo i bei soggiorni,
gran soggetto a illustri penne,
dove naufrago pervenne
l'Itacense pellegrin:
non di lei l'opre ammirate
che dell'Asia in su l'Eufrate
seppe reggere il destin.

Delle Esperidi Sorelle
non le piante onuste d'oro,
che guardò sul lido Moro
l'incantato difensor:
non qual altro i pregi agguaglia
delle Tempe di Tessaglia
dove Apollo errò pastor.

No: mancava in altre sponde
quella Dea che regna in queste,
e le adorna, e le riveste
di splendore, e maestà:
quella Dea ch'ogni alma incanta,
quella Dea di cui si vanta
a ragion la nostra età.

Ma tu ridi ai dubbj miei?
so perché: stupisci, o Musa,
ch'io mi scusi, e nella scusa
già m'affretti ad ubbidir.
Ah quell'impeto impensato,
che apre il labbro al canto usato,
175è costume, e non ardir.

Di quell'Astro è solit'opra
che qui fausto è sempre a noi,
che i benigni influssi suoi
mai non seppe a noi negar:
che valore all'alma inspira,
che la muta annosa lira
e di nuovo risonar.
______________________________________
La gelosia
Perdono, amata Nice,
bella Nice, perdono. A torto, è vero,
dissi che infida sei:
detesto i miei sospetti, i dubbi miei.
Mai più della tua fede,




mai più non temerò. Per que' bei labbri
lo giuro, o mio tesoro,
in cui del mio destin le leggi adoro.

Bei labbri, che Amore
formò per suo nido,
non ho più timore,
vi credo, mi fido:
giuraste d'amarmi;
mi basta così.
Se torno a lagnarmi
che Nice m'offenda,
per me più non splenda
la luce del dì.

Son reo, non mi difendo:
puniscimi, se vuoi. Pur qualche scusa
merita il mio timor. Tirsi t'adora;
io lo so, tu lo sai. Seco in disparte
ragionando ti trovo: al venir mio
tu vermiglia diventi,
ei pallido si fa; confusi entrambi
mendicate gli accenti; egli furtivo
ti guarda, e tu sorridi . . . Ah quel sorriso,
quel rossore improvviso
so che vuol dir! La prima volta appunto
ch'io d'amor ti parlai, così arrossisti
sorridesti così, Nice crudele.
Ed io mi lagno a torto?

E tu non mi tradisci? Infida! ingrata!
barbara! . . . Aimè! Giurai fidarmi, ed ecco
ritorno a dubitar. Pietà, mio bene,
son folle: in van giurai; ma pensa al fine
che amor mi rende insano,
che il primo non son io che giuri in vano.

Giura il nocchier, che al mare
non presterà più fede,
ma, se tranquillo il vede,
corre di nuovo al mar.
Di non trattar più l'armi
giura il guerrier tal volta,
ma, se una tromba ascolta
già non si sa frenar.

La libertà
Grazie agl'inganni tuoi,
al fin respiro, o Nice,
al fin d'un infelice
ebber gli dei pietà:

sento da' lacci suoi,
sento che l'alma è sciolta;
non sogno questa volta,
non sogno libertà.

Mancò l'antico ardore,
e son tranquillo a segno,
che in me non trova sdegno

per mascherarsi amor.

Non cangio più colore
quando il tuo nome ascolto;
quando ti miro in volto
più non mi batte il cor.

Sogno, ma te non miro
sempre ne' sogni miei;
mi desto, e tu non sei
il primo mio pensier.

Lungi da te m'aggiro
senza bramarti mai;
son teco, e non mi fai
né pena, né piacer.

Di tua beltà ragiono,
né intenerir mi sento;
i torti miei rammento,
e non mi so sdegnar.

Confuso più non sono
quando mi vieni appresso;
col mio rivale istesso
posso di te parlar.

Volgimi il guardo altero,
parlami in volto umano;
il tuo disprezzo è vano,
è vano il tuo favor;




che più l'usato impero
quei labbri in me non hanno;
quegli occhi più non sanno
la via di questo cor.

Quel, che or m'alletta, o spiace.
se lieto o mesto or sono,
già non è più tuo dono,
già colpa tua non è:

che senza te mi piace
la selva, il colle, il prato;
ogni soggiorno ingrato
m'annoia ancor con te.

Odi, s'io son sincero;
ancor mi sembri bella,
ma non mi sembri quella,
che paragon non ha.

E (non t'offenda il vero)
nel tuo leggiadro aspetto
or vedo alcun difetto,
che mi parea beltà.

Quando lo stral spezzai,
(confesso il mio rossore)
spezzar m'intesi il core,
mi parve di morir.

Ma per uscir di guai,
per non vedersi oppresso,
per racquistar se stesso
tutto si può soffrir.

Nel visco, in cui s'avvenne
quell'augellin talora,
lascia le penne ancora,
ma torna in libertà:

poi le perdute penne
in pochi dì rinnova,
cauto divien per prova
né più tradir si fa.

So che non credi estinto
in me l'incendio antico,
perché sì spesso il dico,
perché tacer non so:

quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
per cui ciascun ragiona
de' rischi che passò.

Dopo il crudel cimento
narra i passati sdegni,
di sue ferite i segni
mostra il guerrier così.

Mostra così contento
schiavo, che uscì di pena,
la barbara catena,
che strascinava un dì.

Parlo, ma sol parlando
me soddisfar procuro;
parlo, ma nulla io curo
che tu mi presti fé

parlo, ma non dimando
se approvi i detti miei,
né se tranquilla sei
nel ragionar di me.

Io lascio un'incostante;
tu perdi un cor sincero;
non so di noi primiero
chi s'abbia a consolar.

So che un sì fido amante
non troverà più Nice;
che un'altra ingannatrice
è facile a trovar.
_________________________
La partenza

Ecco quel fiero istante;
Nice, mia Nice, addio.
Come vivrò, ben mio,
così lontan da te?




Io vivrò sempre in pene,
io non avrò più bene;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Soffri che in traccia almeno
di mia perduta pace
venga il pensier seguace
su l'orme del tuo piè.

Sempre nel tuo cammino,
sempre m'avrai vicino;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Io fra remote sponde
mesto volgendo i passi,
andrò chiedendo ai sassi,
la ninfa mia dov'è?

Dall'una all'altra aurora
te andrò chiamando ognora,
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Io rivedrò sovente
le amene piagge, o Nice,
dove vivea felice,
quando vivea con te.

A me saran tormento
cento memorie e cento;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Ecco, dirò, quel fonte,
dove avvampò di sdegno,
ma poi di pace in pegno
la bella man mi diè.

Qui si vivea di speme;
là si languiva insieme;
e tu, chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Quanti vedrai giungendo
al nuovo tuo soggiorno,
quanti venirti intorno
a offrirti amore e fé!

Oh Dio! chi sa fra tanti
teneri omaggi e pianti,
oh Dio! chi sa se mai
ti sovverrai di me!

Pensa qual dolce strale,
cara, mi lasci in seno:
pensa che amò Fileno
senza sperar mercé:

pensa, mia vita, a questo
barbaro addio funesto;
pensa... Ah chi sa se mai
ti sovverrai di me!
_______________________
La pesca

Già la notte s'avvicina:
vieni, o Nice, amato bene,
della placida marina
le fresch'aure a respirar.
Non sa dir che sia diletto
chi non posa in queste arene
or che un lento zefiretto
dolcemente increspa il mar.
Lascia una volta, o Nice,
lascia le tue capanne. Unico albergo
non è già del piacere
la selvaggia dimora;
hanno quest'onde i lor diletti ancora.
Qui, se spiega la notte il fosco velo,
nel mare emulo al cielo
più lucide, più belle
moltiplicar le stelle,
e per l'onda vedrai gelida e bruna
rompere i raggi e scintillar la luna.
Il giorno al suon d'una ritorta conca,
che nulla cede alle incerate avene,
se non vuoi le mie pene,




di Teti e Galatea, di Glauce e Dori
ti canterò gli amori.
Tu dal mar scorgerai sul vicin prato
pascer le molli erbette
e le tue care agnellette,
non offese dal sol fra ramo e ramo:
e con la canna e l'amo
i pesci intanto insidiar potrai;
e sarà la mia Nice
pastorella in un punto e pescatrice.
Non più fra' sassi algosi
staranno i pesci ascosi;
tutti per l'onda amara,
tutti verranno a gara
fra' lacci del mio ben
E l'umidette figlie
de' tremuli cristalli
di pallide conchiglie,
di lucidi coralli
le colmeranno il sen.
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La tempesta

No, non turbarti, o Nice; io non ritorno
a parlarti d'amor. So che ti spiace;
basta così. Vedi che il ciel minaccia
improvvisa tempesta: alle capanne
se vuoi ridurre il gregge, io vengo solo


ad offrir l'opra mia. Che! Non paventi?
Osserva che a momenti
tutto s'oscura il ciel, che il vento in giro
la polve innalza e le cadute foglie.
Al fremer della selva, al volo incerto
degli augelli smarriti, a queste rare,
che ci cadon sul volto, umide stille,
Nice, io preveggo... Ah non tel dissi, O Nice?
ecco il lampo, ecco il tuono. Or che farai?
Vieni, senti; ove vai? Non è più tempo
di pensare alla greggia. In questo speco
riparati frattanto; io sarò teco.

Ma tu tremi, o mio tesoro!
Ma tu palpiti, cor mio!
Non temer; con te son io,
né d'amor ti parlerò.
Mentre folgori e baleni,
sarò teco, amata Nice;
quando il ciel si rassereni,
Nice ingrata, io partirò.

Siedi, sicura sei. Nel sen di questa
concava rupe in fin ad or giammai
fulmine non percosse,
lampo non penetrò. L'adombra intorno
folta selva d'allori
che prescrive del Ciel limiti all'ira.
Siedi, bell'idol mio, siedi e respira.
Ma tu pure al mio fianco timorosa

ti stringi, e, come io voglia
fuggir da te, per trattenermi annodi
fra le tue la mia man? Rovini il cielo,
non dubitar, non partirò. Bramai
sempre un sì dolce istante. Ah così fosse
frutto dell'amor tuo, non del timore!
Ah lascia, o Nice, ah lascia
lusingarmene almen. Chi sa? Mi amasti
sempre forse fin or. Fu il tuo rigore
modestia, e non disprezzo; e forse questo
eccessivo spavento
è pretesto all'amor. Parla, che dici?
M'appongo al ver? Tu non rispondi? Abbassi
vergognosa lo sguardo!
Arrossisci? Sorridi? Intendo, intendo.
Non parlar, mia speranza;
quel riso, quel rossor dice abbastanza.

E pur fra le tempeste
la calma ritrovai.
Ah non ritorni mai,
mai più sereno il dì!
Questo de' giorni miei,
questo è il più chiaro giorno
Viver così vorrei,
vorrei morir così.
___________________________

Critica


Il Metastasio fu un temperamento idilliaco, scarso di volontà, amante del viver quieto, ordinato, alieno da odio e invidia, equilibrato e sostanzialmente ottimista. Pertanto il mondo tranquillo e decoroso, idilliaco e galante dell’Arcadia e le facili e superficiali commozioni sentimentali della vita mondana del ‘700 trovarono in lui l’espressione più felice e genuina. Fu l’unico poeta di fama a livello internazionale che abbia avuto l’Italia nel Settecento. Mozart lo idolatrava, Vincenzo Monti gli dedicò la “Giunone placata”, Ludovico Muratori il “Rerum italicarum scriptores”, perfino lo scorbutico Baretti, per potergli tributare un elogio, scrisse che Metastasio non aveva nulla a che fare con l’Arcadia. Tanta ammirazione non era del tutto infondata. Metastasio ebbe come nessuno il senso musicale del verso. Fu lui l’inventore e l’insuperato maestro del “bel canto” italiano che avrebbe di lì a poco conquistato il mondo.
La sua canzonetta “A Nice” e quella “La partenza” sono le cose migliori della lirica arcadica.
Poeta di profonda cultura e gusto scrisse, su ordinazione di Diderot, il saggio sul teatro greco per l’Enciclopedia, rivelando un acume critico nettamente in anticipo sui tempi.
Vernon Lee lo paragonò a Racine e in effetti nel melodramma, egli toccò il punto più alto. Per il dramma invece gli mancava la passione perché probabilmente egli stesso, come uomo, non ne provò alcuna. Gli eroi delle sue opere sono galanti e piangono più di quanto non soffrano; le sue delicate eroine sfiorano la tragedia ma poi riescono a cadere nel patetico.
I suoi melodrammi più famosi, oltre alla “Didone”, sono il “Siroe”, il “Catone in Utica”, l’ Artaserse, l’ Olimpiade, la “Clemenza di Tito”, e l’Attilio Regolo che è il più solenne dei suoi melodrammi eroici, sebbene lo stesso protagonista non sfugga al carattere manierato che hanno tutti gli eroi dei drammi metastasiani.
Delle sue opere (ventisei melodrammi, sette commedie, cinque azioni sacre, cantate , poesie, serenate) furono pubblicate una quarantina di edizioni. Ma il successo che aveva avuto nel suo tempo non durò. Il Romanticismo, che fu un fremito di passioni, non poteva capire Metastasio, e non poteva amarlo. La critica fino a Croce e Carducci fu inesorabile. De Sanctis e Martini furono più indulgenti. La poesia forse gli deve poco ma musicisti come Cimarosa, Paisiello, Mozart e Rossini gli debbono molto.




Sogni e favole io fingo

Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
io lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.
Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,
piú saggio io sono? È l'agitato ingegno
forse allor piú tranquillo? O forse parte
da piú salda cagion l'amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch'io trovi riposo in sen del Vero.
_____________________________
Sopra il Santissimo Natale

Già porta il sol dall'oceano fuore
Il suo splendore; e va spargendo intorno
Novello giorno di letizia ornato
Più dell'usato.
Scuotono i pini dall'antica chioma
L'orrida soma, che gli tiene oppressi,
E i monti anch'essi l'agghiacciate fronti
Sciolgono in fonti.
La valle e'l prato in quelle parti e in queste
L'erbe riveste, e di fiorita spoglia
Lieta germoglia, che da sciolta neve

Vita riceve.
E pure il verno or or del pigro gelo
II bianco velo avea per tutto steso,
E d'ira acceso Borea, ove correa,
Nembi movea.
Ah ben conosco ormai l'alta cagione,
Che sì dispone gli elementi tutti.
Non più di lutti e doglie il nostro petto
Sarà ricetto.
Nato sei tu, che con eterne leggi
II moto règgi alle celesti sfere
E alle nere tempeste il freno e ai venti
Stringi ed allenti.
Nato sei tu, dalla cui mente immensa
Pende l'essenza e 'l corso delle cose,
Che sono ombrose agli occhi de'mortali
Deboli e frali.
Quello tu sei, che agli elementi diede
Natura e sede, e gli compose in pace;
Talchè del sol la face, un tempo oscura,
Sorgesse pura.
Tu alla terra ed all'acqua il basso loco,
E desti al fuoco più sublime sfera,
E la sincera e pura aria dappresso
Ponesti ad esso.
Quello sei tu, che creò l'uom primiero,
Che'l gran d'impero disprezzando, morse
II pomo, e corse in braccio al suo periglio
Senza consiglio.

Tu per corregger l'uman germe immondo,
Festi del Mondo un elemento solo,
Sì che alcun suolo non rimase asciutto
Dall' ampio flutto,
Quando salì di Proteo il gregge fido
Su 'l caro nido degli eterei augelli,
E i daini snelli, non trovando sponda,
Notar sull'onda.
Or che d'alta pietà per noi si muove,
In forme nuove ad emendar ci viene,
Non con le pene già dovute a noi
Dai sdegni suoi;
Ma pigliando in sè stesso i proprj affanni,
Per torci a' danni delle colpe gravi,
E acciò si lavi un infinito male
Con pena eguale.
Ei mirò noi, come sdruscito legno
Fra I' aspro sdegno d' Aquilone e Noto,
Che per l'ignoto pelago fremendo,
Fan suono orrendo.
E come dopo un' orrida procella
Amica stella a' naviganti appare,
Che quieta il mare, e col suo lume fido
Gli adduce al lido;
Tale il suo ajuto e 'l chiaro esempio sorge,
Che l'alme scorge a godimento eterno,
Che mai per verno, o per estivo ardore
Languisce o muore.
Or gli alti colli abbasseran le cime,




E l'ime valli sorgeran fastose,
E diverran le vie scabrose e strane
Facili e piane.
Il superbo, che vil sè stesso rende,
Perchè dipende dall' ossequio altrui,
I fasti sui lasciando al Nume vero
Volga il pensiero.
E allor gli fia quella virtù concessa,
Che da sè stessa trae sommo piacere,
Non dall'altere pompe e dagli onori
Di gemme e d'ori.
Or che l'Autore della pace è nato,
In ogni lato si diffonde lieta,
E tutte accheta le feroci genti,
Di sdegni ardenti.
Talchè il furor dell'aquile latine,
Ch'aspre ruine ragunava intorno,
E sempre adorno di novello acquisto
Scorrer fu visto
Traendo dietro de' romani segni
Provincie e regni debellati e vinti,
E i Regi avvinti agli trionfi suoi
Da' lidi eoi,
L'armi depone, ed in aratri duri
Cangia le scuri sanguinose e fiere,
E le guerriere spade e i fasci ostili
In falci umili.
_____________________________
Vecchiaia

Chiamo ogni giorno ai consueti uffici
le castalidi dee: ma più non hanno
cura di me le sacre mie nutrici.
In van tempro la cetra, in van m'affanno,
ché ritrosi adattarsi i detti miei
all'armoniche leggi or più non sanno.
Qual ne sia la cagione io non saprei:
so che poco or mi val quanto adunai
da' Toschi, da' Latini e dagli Achei.
Forse è vizio del clima, a' pigri rai
del vicino Orion: forse l'ingegno
cangiò natura, e intorpidisce ormai.
_____________________________
L'origine delle leggi

Quando ancor non ardiva il pino audace,
Grave di merci, dispiegare il volo
Sul mobil dorso d'Ocean fallace,

Era alle genti noto un lido solo,
Nè certo segno i campi distinguea,
Nè curvo aratro rivolgeva il suolo.

Per gli antri, e per le selve ognun traea
Allor la vita, nè fra seta, o lane
Le sue ruvide membra raccogliea.

Che non temeano ancor le membra umane
Il duro ghiaccio degli alpestri monti,


Nè i raggi, che cadean dal Sirio cane.

La pioggia, e 'l sol su le rugose fronti
Battean sovente, ma 'l disagio istesso
Gli rendeva a soffrir stabili, e pronti.

A ciascun senza tema era concesso
Del medesimo tronco il cibo corre,
Ed estinguer la sete al fonte appresso.

Avvenne poi, che desiando porre
Due sul frutto vicin l'adunca mano,
L'uno all'altro tentar la preda torre.

E quindi accesi di furore insano,
Con l'unghie pria si laceraro il volto,
Poi con l'armi irrigar di sangue il piano.

Indi più d'un si vide insieme accolto
Solo per tema del potere altrui,
Cui fiero sdegno il freno avea disciolto.

Poi, per aprir ciascuno i sensi sui,
Con la lingua accennava il suo parere,
Che fu il modo primiero offerto a lui.

Perchè sente ciascuno il suo potere,
Come il picciol fanciullo appena è nato,
Ne dimostra col dito il suo volere.

Scherza il torello alla sua madre a lato,
Ed appena spuntarsi il corno sente,






Che a cozzar dallo sdegno è già portato.

Ed adulto l'augello immantinente
Se stesso affida ad inesperti vanni,
Ove il poter natura a lui consente.

Poi volendo del ciel fuggire i danni,
Varie pelli alle membra s'adattorno;
Indi tessean di lane i rozzi panni.

E ciascun componendo il suo soggiorno,
Per sicurezza i lor tugurj uniti
Cinser di fosse, e di muraglie intorno.

Ma perchè varie idee, varj appetiti
Volgono l'uom, perciò sempre fra loro
Erano semi di discordie, e liti.

Onde, per ritrovar pace, e ristoro,
Fu d'uopo esser soggetti a patti tali,
Che del comun volere immago foro.

Così le varie menti de' mortali
Dall'utile comun prendendo norma,
Resero tutti i lor desiri eguali

Che in van tenta ridursi a certa forma
Corpo civil, se sol de' propri affetti
Ogni stolto pensier seguita l'orma.

Anzi anch'a' dotti, e nobili intelletti
Tant'è più necessario il giusto freno,

Quant'han di variar maggiori oggetti.

Il saggio vive sol libero appieno,
Perchè del bene oprare il seme eterno
Dell'infinito trae dal vasto seno.

Egli discerne col suo lume interno,
Che da una sola idea sorge, e dipende
Delle create cose il gran governo.

Il dotto è quel, che solo a gloria attende;
Qual è colui, che di Febeo furore
Tra l'alme Muse la sua mente accende.

Ma il saggio è quel, che mai non cangia il core,
E sempre gode una tranquilla pace
In questo brieve trapassar dell'ore.

Egli è sol, ch'alle leggi non soggiace,
Perchè sol con le leggi egli conviene,
E di quelle è compagno, e non seguace.

Ei le sue voglie a suo piacer trattiene,
E sciolto vola da mortale impero,
A cui legati ambizion ci tiene.

Egli è, che conducendo il suo pensiero
Per lo cammin delle passate cose,
Mira delle future il corso intero.

Egli in se stesso ha sue ricchezze ascose,
Nè mai per voglia di grandezza umana,

Di se la guida alla fortuna espose.

Ed egli è, che con mente accorta e sana
Le leggi incontra, e con la propria vita
Ogn'ingiuria da quelle anche allontana.

Come Socrate il saggio ognor n'addita,
Che per non violar le leggi sante
Sparger si contentò l'anima ardita.

Ei fu, che avendo i cari amici avante,
Del suo giorno vital nel punto estremo,
Disse con voce debile, e tremante:

Amici, il mio morire io già non temo:
Perocchè quanto accorcio il viver mio
Tanto allo spirto di prigione io scemo.

E questa mortal vita non desio,
Acciocchè l'alma del suo fango pura
Ritorni lieta allo splendor natio.

Che in questa spoglia, che 'l goder ci fura,
Colui la propria vita ha più disteso,
Che non dai giorni il viver suo misura,

Ma da quel, che conobbe, ed ha compreso.

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