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ANGELO POLIZIANO


FABULA DI ORFEO
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Angelo Poliziano
Fabula di Orfeo
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ANGELO POLIZIANO  - FABULA DI ORFEO

FINE

La Fabula di Orfeo, nota anche come L'Orfeo è un'opera teatrale scritta dall'umanista Angelo Poliziano tra il 1478 e il 1483.

- Storia
La datazione è incerta, forse l'opera fu scritta quando il poeta abbandonò Firenze per un contrasto con Clarice Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico, riguardo all'educazione del figlio Piero. Probabilmente Poliziano si recò nell'Italia settentrionale, perché alcuni termini usati nell'opera sono di origine lombardo-veneta. La Fabula di Orfeo è la prima opera teatrale di tema profano e racconta il mito di Orfeo, seguendo le opere di Virgilio (Georgiche) e di Ovidio (Le metamorfosi).
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- L'opera e la trama
Il poeta tracio Orfeo è disperato per la morte della sua amata Euridice e decide di recarsi nell'Ade. Lì il suo canto impietosisce Plutone e Proserpina, cosicché gli viene concesso di poter riavere la sua donna, però nel tragitto dal mondo infernale al mondo terreno non deve voltarsi indietro. Il poeta, credendo di essere giunto sulla terra, si volta e perde così Euridice. Il mito poi racconta anche la morte del poeta, il quale viene ucciso dalle Baccanti, le sacerdotesse di Dioniso, che lacerano il suo corpo. La testa del poeta, staccata dal collo e gettata nel fiume dell'Ebro, rimane a galla e mentre viene trasportata dalla corrente continua a cantare ed a invocare Euridice. Questo mito fu letto da Dante nel Convivio in chiave allegorica e anche nel XIV secolo umanisti come Ficino ritenevano che questa storia rappresentasse la capacità della poesia di resistere alla violenza umana. Poliziano, diversamente, conclude la sua rappresentazione con il coro delle Menadi che trionfano per il loro crimine. Dunque è probabile, grazie a uno studio di Vittore Branca, che il poeta di Montepulciano non credesse che la poesia e la bellezza vincano la violenza. Infatti Firenze, culla della poesia nel XIV secolo, fu sconvolta dalla violenza iniziata con gli avvenimenti legati alla congiura dei Pazzi del 1478 e di conseguenza Poliziano riteneva la teoria degli umanisti solo un'illusione.

- Commento
Sul mito classico di Orfeo ed Euridice, caro a tutta la cultura umanistica e in particolare al neoplatonismo fiorentino, il Poliziano non innesta sostanziali novità. La vicenda porta così in primo piano la morte di Euridice – vittima del morso letale di un serpente in cui la donna si imbatte per sfuggire alle insidie del pastore Aristeo – il dolore di Orfeo e la sua discesa agli Inferi, dove riesce ad ottenere la liberazione dell’amata, a patto che non si volti a guardarla prima di aver raggiunto il mondo dei vivi. Il mancato rispetto, da parte del cantore, di questa condizione – straordinario exemplum di curiositas, desiderio e debolezza del genere umano – comporta il ritono definitivo di Euridice nell’Ade. Orfeo, disperato, si ripromette di volgere il proprio amore solo ai fanciulli, non potendo amare altra donna. Ma in agguato subentrano le Baccanti che, adirate da ciò, lacerano in mille pezzi il corpo di Orfeo e intonano un canto carnascialesco in onore di Bacco, su cui si chiude la rappresentazione.

Come anche nelle rappresentazione sacre, la Favola d’Orfeo non possiede un reale movimento drammatico. Scritta in un lasso di tempo brevissimo (un paio di giorni!) in ottave, l’operetta di Angelo Poliziano è un succedersi di scene dall’impianto abbastanza semplice: momenti idillici, pastorali, comici e realistici si alternano fino a formare un intreccio vigoroso, che scorre tuttavia con rapidità.

Il sogno umanistico di equilibrio tra bellezza, poesia e storia sembra trovare un attimo di incertezza nello scatenamento dionisiaco delle Baccanti, trionfo di quelle forze irrazionali che sembrano costituire una minaccia per l’impalcatura razionale dell’Umanesimo.

La Fabula, molto apprezzata dai contemporanei, ha poi dovuto subire le censure della Controriforma soprattutto sul tema finale dell’amore pederasta, per poi conoscere una costante fortuna e un’ottima considerazione all’interno del corpus delle opere di uno dei più grandi cultori della forma che l’Umanesimo abbia partorito.

- Approfondimento
Alla favola di Poliziano si ispirano anche il poeta Ottavio Rinuccini (1562 -1621) e il musicista Iacopo Peri (1561 – 1633) con la loro Euridice. In loro l’idea di unire la musica e il dramma, secondo quanto si presumeva accadesse nella tragedia greca. L’opera di Rinuccini,  pur riprendendo Poliziano, si conclude in un finale totalmente diverso, dove si ha il riscatto dall’inferno di Euridice, che vivrà poi felice con il suo Orfeo. In realtà, Rinuccini, più che rendere drammatica la favola, sembra semplicemente raccontarla. Il linguaggio poetico preannuncia quello che sarà proprio dell’Arcadia, colorito e vezzoso. Il dramma inizia con la celebrazione delle nozze di Orfeo ed Euridice, e la presenza di altri personaggi tra cui Dafne, che racconta la morte di Euridice avvenuta per il morso di un serpente, Arcetro, che narra della terribile angoscia di Orfeo, Aminta, che annuncia al popolo il prodigio avvenuto e la riconquistata felicità dei due sposi. Non pare però che le sostituzioni operate da Rinuccini abbiano portato un contributo originale all’antico testo. L’Euridice viene eseguita a Palazzo Pitti il 6 ottobre del 1600 per le celebrazioni di Maria De’ Medici e di Enrico VI di Francia. Nella prefazione a Le musiche sopra a Euridice, Jacopo Peri mette a fuoco alcuni punti già trattati nel musicare la sua Dafne: l’aspirazione ad un canto parlante, che si collocasse a metà strada tra voce cantata e voce parlata, sia per aspetto ritmico che per intervalli, dato dalla registrazione amplificata dai vari profili sonori di un individuo, via via assunti dalla voce in preda a questa o quella emozione. Per il compositore che intonava versi, risultava indispensabile una preventiva valutazione metrica del testo poetico, in modo da attribuire valore appropriato alle sillabe: quelle accentate erano considerate lunghe, e brevi quelle atone. Particolare attenzione doveva essere posta anche nell’evitare la dilatazione di queste ultime, con inopportuni vocalizzi (passaggi), cercando di sottolineare la preminenza strutturale delle altre, magari abbinandole a consonanze con il basso continuo, come si poteva leggere anche nelle riflessioni teoriche del Peri. Una monodia recitativa originata da un’intenzione di massima aderenza al profilo metrico e appoggiata alla non periodicità dei versi sciolti, nel tentativo di proporsi come una amplificazione del parlato. La sua declamazione rallentata nel canto gli conferiva una pompa e un’enfasi che dilatavano il tempo reale necessario al disbrigo della componente verbale. Dal punto di vista musicale, un effetto analogo lo sortiva ogni momentaneo abbandono del canto a voce sola in favore di episodi a più voci.

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DEDICA


ANGELO POLIZIANO
A MESSER CARLO CANALE SUO SALUTE

Solevano i Lacedemonii, umanissimo messer Carlo mio, quando alcuno loro figliuolo nasceva o di qualche membro impedito o delle forze debile, quello esponere subitamente, né permettere che in vita fussi riservato, giudicando tale stirpa indegna di Lacedemonia. Così desideravo ancora io che la fabula di Orfeo, la quale a requisizione del nostro reverendissimo Cardinale Mantuano, in tempo di dua giorni, intra continui tumulti, in stilo vulgare perché dagli spettatori meglio fusse intesa avevo composta, fussi di subito, non altrimenti che esso Orfeo, lacerata: cognoscendo questa mia figliuola essere di qualità da far più tosto al suo padre vergogna che onore, e più tosto atta a dargli maninconia che allegrezza. Ma vedendo che e voi e alcuni altri troppo di me amanti, contro alla mia volontà in vita la ritenete, conviene ancora a me avere più rispetto allo amor paterno e alla voluntà vostra che al mio ragionevole instituto. Avete però una giusta escusazione della voluntà vostra, perché essendo così nata sotto lo auspizio di sì clemente Signore, merita essere esenta da la comun legge. Viva adunque, poi che a voi così piace; ma bene vi protesto che tale pietà è una espressa crudelità, e di questo mio iudizio desidero ne sia questa epistola testimonio. E voi che sapete la necessità della mia obedienza e l’angustia del tempo, vi priego che con la vostra autorità resistiate a qualunche volessi la imperfezione di tale figliuola al padre attribuire. VALE.











Personaggi


Mercurio
Un Pastore schiavone
Mopso, pastor vecchio
Aristeo, pastor giovane
Tyrsi, servo
Orpheo
Pluto
Proserpina
Euridice
Una Furia
Una Baccante
Coro delle Baccanti











MERCURIO annunziatore della festa:

Silenzio. Udite. E’ fu già un pastore
figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo.
Costui amò con sì sfrenato ardore
Euridice, che moglie fu di Orfeo,
che sequendola un giorno per amore
fu cagion del suo caso acerbo e reo:
perché, fuggendo lei vicina all’acque,
una biscia la punse; e morta giacque.

Orfeo cantando all’Inferno la tolse,
ma non poté servar la legge data,
ché ‘l poverel tra via drieto si volse
sì che di nuovo ella gli fu rubata:
però ma’ più amar donna non volse,
e dalle donne gli fu morte data.

Séguita un pastore schiavone:

State tenta, bragata! Bono argurio,
ché di cievol in terra vien Marcurio.

MOPSO pastor vecchio:

Hai tu veduto un mio vitelin bianco,
ch’ha una macchia nera in sulla fronte
e duo piè rossi et un ginocchio e ‘l fianco?








ARISTEO pastor giovane:

Caro mio Mopso, a piè di questo fonte
non son venuti questa mane armenti,
ma senti’ ben mugghiar là drieto al monte.
Va’, Tirsi, e guarda un poco se tu ‘l senti.
Tu, Mopso, intanto ti starai qui meco,
ch’i’ vo’ ch’ascolti alquanto i mie lamenti.
Ier vidi sotto quello ombroso speco
una ninfa più bella che Dïana,
ch’un giovane amatore avea seco.
Com’io vidi sua vista più che umana,
subito mi si scosse il cor nel petto
e mie mente d’amor divenne insana:
tal ch’io non sento, Mopso, più diletto
ma sempre piango, e ‘l cibo non mi piace,
e senza mai dormir son stato in letto.

MOPSO:

Aristeo mio, questa amorosa face
se di spegnerla tosto non fai pruova,
presto vedrai turbata ogni tua pace.
Sappi ch’amor non m’è già cosa nuova;
so come mal, quand’è vecchio, si regge:
rimedia tosto, or che ‘l rimedio giova.
Se tu pigli, Aristeo, suo dure legge,
e’ t’uscirà del capo e sciami et orti
e vite e biade e paschi e mandre e gregge.







Canzona

Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vuole.
La bella ninfa è sorda al mio lamento
e ‘l suon di nostra fistula non cura:
di ciò si lagna el mio cornuto armento,
né vuol bagnare il grifo in acqua pura;
non vuol toccar la tenera verdura,
tanto del suo pastor gl’incresce e dole.
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vuole.

Ben si cura l’armento del pastore:
la ninfa non si cura dell’amante,
la bella ninfa che di sasso ha ‘l core,
anzi di ferro, anzi l’ha di diamante.
Ella fugge da me sempre davante
com’agnella dal lupo fuggir suole.

Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vuole.

Digli, zampogna mia, come via fugge
cogli anni insieme suo bellezza snella
e digli come ‘l tempo ne distrugge,
né l’età persa mai si rinnovella:
digli che sappi usar suo forma bella,
ché sempremai non son rose e vïole.

Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vuole.

Portate, venti, questi dolci versi
drento all’orecchie della donna mia:
dite quanto io per lei lacrime versi
e la pregate che crudel non sia;
dite che la mie vita fugge via
e si consuma come brina al sole.

Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vuole.



ARISTEO:

Mopso, tu parli queste cose a’ morti:
sì che non spender meco tal parole,
acciò che ‘l vento via non se le porti.
Aristeo ama e disamar non vuole,
né guarir cerca di sì dolce doglie:
quel loda Amor che di lui ben si duole.
Ma se punto ti cal delle mie voglie,
deh, tra’ fuor della tasca la zampogna,
e canteren sotto l’ombrose foglie:
ch’i’ so che la mia ninfa el canto agogna.








MOPSO:

El non è tanto el mormorio piacevole
delle fresche acque che d’un sasso piombano,
né quando soffia un ventolino agevole
fra le cime de’ pini e quelle trombano,
quanto le rime tue son sollazzevole,
le rime tue che per tutto rimbombano:
s’ella l’ode, verrà com’una cucciola.
Ma ecco Tirsi che del monte sdrucciola.

Ch’è del vitello? ha’lo tu ritrovato?

TIRSI:

Sì, così gli avessi io el collo mozzo!
ché poco men che non m’ha sbudellato,
sì corse per volermi dar di cozzo.
Pur l’ho poi nella mandria ravïato,
ma ben so dirti che gli ha pieno il gozzo:
i’ ti so dir che gli ha stivata l’epa
in un campo di gran, tanto che crepa.

Ma io ho vista una gentil donzella
che va cogliendo fiori intorno al monte.
I’ non credo che Vener sia più bella,
più dolce in atto o più superba in fronte:
e parla e canta in sì dolce favella
che i fiumi isvolgerebbe inverso il fonte;
di neve e rose ha ‘l volto e d’or la testa,
tutta soletta e sotto bianca vesta.









ARISTEO:

Rimanti, Mopso, ch’i’ la vo’ seguire,
perché l’è quella di chi io t’ho parlato.

MOPSO:

Guarda, Aristeo, che ‘l troppo grande ardire
non ti conduca in qualche tristo lato.

ARISTEO:

O mi convien questo giorno morire,
o tentar quanta forza abbia ‘l mie fato.
Rimanti, Mopso, intorno a questo fonte,
ch’i’ vogl’ire a trovalla sopra ‘l monte.

MOPSO

O Tirsi, che ti par del tuo car sire?
Vedi tu quanto d’ogni senso è fore!
Tu gli potresti pur tal volta dire
quanta vergogna gli fa questo amore.

TIRSI:

O Mopso, al servo sta bene ubidire,
e matto è chi comanda al suo signore.
Io so che gli è più saggio assai che noi:
a me basta guardar le vacche e ‘ buoi.








ARISTEO ad Euridice:

Non mi fuggir, donzella,
ch’i’ ti son tanto amico
e che più t’amo che la vita e ‘l core.
Ascolta, o ninfa bella,
ascolta quel ch’i’ dico;
non fuggir, nympha, chi ti porta amore.
Non son qui lupo o orso,
ma son tuo amatore:
dunque rafrena il tuo volante corso.
Poi che el pregar non vale
e tu via ti dilegui,
e’ convien ch’io ti segui.
Porgimi, Amor, porgimi or le tue ale!

Seguitando Aristeo Euridice, ella si fugge drento alla selva, dove punta dal serpente grida, e simile Aristeo

Segue poi un pastore ad Orfeo così:

Crudel novella ti rapporto, Orfeo:
che tuo ninfa bellissima è defunta.
Ella fuggiva l’amante Aristeo,
ma quando fu sovra la riva giunta,
da un serpente venenoso e reo
ch’era fra l’erb’e’ fior, nel piè fu punta:
e fu tanto possente e crudo el morso
ch’ad un tratto finì la vita e ‘l corso.






ORFEO:

Dunque piangiamo, o sconsolata lira,
ché più non si convien l’usato canto.
Piangiam, mentre che ‘l ciel ne’ poli agira,
e Filomela ceda al nostro pianto.
O cielo, o terra, o mare! o sorte dira!
Come potrò soffrir mai dolor tanto?
Euridice mia bella, o vita mia,
sanza te non convien che ‘n vita stia.

Andar convienmi alle tartaree porte
e provar se là giù merzé s’empetra.
Forse che svolgeren la dura sorte
co’ lacrimosi versi, o dolce cetra;
forse ne diverrà pietosa Morte,
ché già cantando abbiam mosso una pietra,
la cervia e ‘l tigre insieme avemo accolti
e tirate le selve, e ‘ fiumi svolti.

Pietà! Pietà! del misero amatore
pietà vi prenda, o spiriti infernali.
Qua giù m’ha scorto solamente Amore,
volato son qua giù colle sue ali.
Posa, Cerbero, posa il tuo furore,
ché quando intenderai tutti e mie mali,
non solamente tu piangerai meco,
ma qualunque è qua giù nel mondo cieco.

Non bisogna per me, Furie, mugghiare,
non bisogna arricciar tanti serpenti:
se voi sapessi le mie doglie amare,
faresti compagnia a’ mie lamenti.
Lasciate questo miserel passare
c’ha ‘l ciel nimico e tutti gli elementi,
che vien per impetrar merzé da Morte:
dunque gli aprite le ferrate porte.


   


PLUTO:

Chi è costui che con suo dolce nota
muove l’abisso, e con l’ornata cetra?
l’ veggo fissa d’Issïon la rota,
Sisifo assiso sopra la sua petra
e le Belide star con l’urna vota,
né più l’acqua di Tantalo s’arretra;
e veggo Cerber con tre bocche intento
e le Furie aquietate al pio lamento.

ORFEO:

O regnator di tutte quelle genti
c’hanno perduto la superna luce,
al qual discende ciò che gli elementi,
ciò che natura sotto ‘l ciel produce,
udite la cagion de’ mie’ lamenti.
Pietoso Amor de’ nostri passi è duce:
non per Cerber legar fei questa via,
ma solamente per la donna mia.

Una serpe tra’ fior nascosa e l’erba
mi tolse la mia donna, anzi il mio core:
ond’io meno la vita in pena acerba,
né posso più resistere al dolore.
Ma se memoria alcuna in voi si serba
del vostro celebrato antico amore,
se la vecchia rapina a mente avete,
Euridice mie bella mi rendete.

Ogni cosa nel fine a voi ritorna,
ogni cosa mortale a voi ricade:
quanto cerchia la luna con suo corna
convien ch’arrivi alle vostre contrade.
Chi più chi men tra’ superi soggiorna,
ognun convien ch’arrivi a queste strade;
quest’è de’ nostri passi estremo segno:
poi tenete di noi più longo regno.

==>SEGUE


Così la ninfa mia per voi si serba
quando suo morte gli darà natura.
Or la tenera vite e l’uva acerba
tagliata avete colla falce dura.
Chi è che mieta la semente in erba
e non aspetti che la sie matura?
Dunque rendete a me la mia speranza:
i’ non vel chieggio in don, quest’è prestanza.

Io ve ne priego pelle turbide acque
della palude Stigia e d’Acheronte;
pel Caos onde tutto el mondo nacque
e pel sonante ardor di Flegetonte;
pel pomo ch’a te già, regina, piacque
quando lasciasti pria nostro orizonte.
E se pur me la nieghi iniqua sorte,
io non vo’ su tornar, ma chieggio morte.

PROSERPINA:

Io non credetti, o dolce mie consorte,
che Pietà mai venisse in questo regno:
or la veggio regnare in nostra corte
et io sento di lei tutto ‘l cor pregno;
né solo i tormentati, ma la Morte
veggio che piange del suo caso indegno:
dunque tua dura legge a lui pieghi,
pel canto, pell’amor, pe’ giusti prieghi.

PLUTO:

Io te la rendo, ma con queste leggi:
che la ti segua per la ceca via,
ma che tu mai la suo faccia non veggi
finché tra’ vivi pervenuta sia;
dunque el tuo gran disire, Orfeo, correggi,
se non, che tolta subito ti fia.
I’ son contento che a sì dolce plettro
s’inchini la potenza del mio scettro.
    





Orfeo vien cantando alcuni versi lieti e volgesi.
EURIDICE parla:

Oimè, che ‘l troppo amore
n’ha disfatti ambendua.
Ecco ch’i’ ti son tolta a gran furore,
né sono ormai più tua.
Ben tendo a te le braccia, ma non vale,
ché ‘ndrieto son tirata. Orfeo mie, vale!

ORFEO:

Oimè, se’ mi tu tolta,
Euridice mie bella? O mie furore,
o duro fato, o ciel nimico, o Morte!
O troppo sventurato el nostro amore!
Ma pure un’altra volta
convien ch’i’ torni alla plutonia corte.

UNA FURIA:
Più non venire avanti, anzi ‘l piè ferma
e di te stesso omai teco ti dole:
vane son tuo parole,
vano el pianto e ‘l dolor. Tuo legge è ferma.

ORFEO:

Qual sarà mai sì miserabil canto
che pareggi il dolor del mie gran danno?
O come potrò mai lacrimar tanto
ch’i’ sempre pianga el mio mortale affanno?
Starommi mesto e sconsolato in pianto
per fin ch’e cieli in vita mi terranno:
e poi che sì crudele è mia fortuna,
già mai non voglio amar più donna alcuna.

==>SEGUE


    





Da qui innanzi vo’ cor e fior novelli,
la primavera del sesso migliore,
quando son tutti leggiadretti e snelli:
quest’è più dolce e più soave amore.
Non sie chi mai di donna mi favelli,
po’ che mort’è colei ch’ebbe ‘l mio core;
chi vuol commerzio aver co’ mie sermoni
di feminile amor non mi ragioni.

Quant’è misero l’uom che cangia voglia
per donna o mai per lei s’allegra o dole,
o qual per lei di libertà si spoglia
o crede a suo’ sembianti, a suo parole!
Ché sempre è più leggier ch’al vento foglia
e mille volte el dì vuole e disvole;
segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde,
e vanne e vien come alla riva l’onde.

Fanne di questo Giove intera fede,
che dal dolce amoroso nodo avinto
si gode in cielo il suo bel Ganimede;
e Febo in terra si godea Iacinto;
a questo santo amore Ercole cede
che vinse il mondo e dal bello Ila è vinto:
conforto e maritati a far divorzio,
e ciascun fugga el feminil consorzio.

UNA BACCANTE:

Ecco quel che l’amor nostro disprezza!
O, o, sorelle! O, o, diamoli morte!
Tu scaglia il tirso; e tu quel ramo spezza;
tu piglia o sasso o fuoco e gitta forte;
tu corri e quella pianta là scavezza.
O, o, facciam che pena el tristo porte!
O, o, caviangli il cor del petto fora!
Mora lo scelerato, mora! mora!







Torna la BACCANTE colla testa di Orfeo e dice:

O, o, ! O, o, ! mort’è lo scelerato!
Euoè! Bacco Bacco, i’ ti ringrazio!
Per tutto ‘l bosco l’abbiamo stracciato,
tal ch’ogni sterpo è del suo sangue sazio.
L’abbiamo a membro a membro lacerato
in molti pezzi con crudele strazio.
Or vadi e biasimi la teda legittima!
Euoè Bacco! accetta questa vittima!

EL CORO DELLA BACCANTE:

Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!

Chi vuol bevere, chi vuol bevere,
venga a bevere, venga qui.
Voi ‘mbottate come pevere:
i’ vo’ bevere ancor mi!
Gli è del vino ancor per ti,
lascia bevere inprima a me.

Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!

Io ho vòto già il mio corno:
damm’un po’ ‘l bottazzo qua!
Questo monte gira intorno,
e ‘l cervello a spasso va.
Ognun corra ‘n za e in là
come vede fare a me.

Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!

==>SEGUE


I’ mi moro già di sonno:
son io ebria, o sì o no?
Star più ritte in piè non ponno:
voi siate ebrie, ch’io lo so!
Ognun facci come io fo:
ognun succi come me!

Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!

Ognun cridi: Bacco, Bacco!
e pur cacci del vin giù.
Po’ co’ suoni faren fiacco:
bevi tu, e tu, e tu!
I’ non posso ballar più.
Ognun gridi: euoè!

Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!


APPENDICE

I
(dopo v. 140)

ORFEO, cantando sopra il monte in su la lira e seguenti versi latini, li quali a proposito di messer Baccio Ugolino, attore de ditta persona d‘Orfeo, sono in onore del Cardinale Mantuano, fu interrotto da uno pastore nunciatore della morte de Euridice:

O meos longum modulata lusus
quos amor primam docuit iuventam,
flecte nunc mecum numeros novumque
dic, lyra, carmen:
non quod hirsutos agat huc leones;
sed quod et frontem domini serenet,
et levet curas, penitusque doctas
mulceat aures.
Vindicat nostros sibi iure cantus
qui colit vates citharamque princeps;
ille cui sacro rutilus refulget
crine galerus;
ille cui flagrans triplici corona
cinget auratam diadema frontem.
Fallor? an vati bonus haec canenti
dictat Apollo?
Phoebe, quae dictas rata fac, precamur!
Dignus est nostrae dominus Thaliae,
cui celer versa fluat Hermus uni
aureus urna;
cui tuas mittat, Cytherea, conchas
conscius primi Phaetontis Indus;
ipsa cui dives properet beatum
Copia cornu.
Quippe non gazam pavidus repostam
servat, Aeaeo similis draconi:
sed vigil Famam secat, ac peremni
imminet aevo.
Ipsa Phoebeae vacat aula turbae
dulcior blandis Heliconis umbris:
et vocans doctos patet ampla toto
ianua poste.

==>SEGUE
   

Sic refert magnae titulis superbum
stemma Gonzagae recidiva virtus,
gaudet et fastos superare avitos
aemulus haeres.
Scilicet stirpem generosa suco
poma commendant; timidumque nunquam
vulturem foeto Iovis acer ales
extudit ovo.
Curre iam toto violentus amne,
o sacris Minci celebrate Musis!
Ecce Moecenas tibi nunc Maroque
contigit uni!
Iamque vicinas tibi subdat undas
vel Padus multo resonans olore,
quamlibet flentes animosus alnos
astraque iactet.
Candidas ergo volucres notarat
Mantuam condens Tiberinus Ocnus,
nempe quem Parcae docuit benignae
conscia mater.

II
(dopo v. 188)

minos a Plutone:

Costui vien contro le legge de’ Fati
che non mandan qua giù carne non morta.
Forsi, o Pluton, che con latenti aguati
per tòrti il regno qualche inganno porta.
Gli altri, che similmente sono intrati
come costui la irremeabil porta,
sempre ci furno con tua vergogna e danno:
sii cauto, o Pluton, qui cova inganno.

III
(dopo v. 244)

ORFEO ritorna, redenta Euridice, cantando certi versi alegri che sono de Ovidio accommodati al proposito:

Ite triumphales circum mea tempora lauri!
Vicimus: Euridice reddita vita mihi est.
Haec est praecipuo victoria digna triumpho:
huc ades, o cura parte triumphe mea.

==>SEGUE

   
Lettera di Angelo Poliziano a Lorenzo dei Medici
Particolare di un affresco
del Ghirlandaio