CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS



I.
Voi, che sparsi ascoltato in rozzi accenti
I pregi eccelsi della Donna mia,
Non istupite, se tra questi fia
Cosa ch’avanzi ’l creder delle genti

Poichè, sebbene per laudarla i’ tenti
Le penne alzar per ogni alpestre via,
Quel, che meglio però dir si devria,
Riman coperto alle terrene menti.

Nè sia chi dall’esterno mio dolore,
Onde in pianti mi strugge a poco a poco,
Misuri la pietà dentro al suo core

Perché, quantunque in ogni tempo e loco
Far mostra i’ soglia del mio grande ardore,
Assai maggior, ch’i’ non dispiego, è ’l foco.

II.
Candido in Cielo, e di be’ raggi adorno
Splendeva il Sole oltre l’usato stile,
E vestivas’il colle e il prato umile
D’ogni fior più leggiadro intorno intorno

Qual su’ rami d’un faggio, e qual d’un orno,
Ogni augel più canoro e più gentile
S’udia cantar, sicchè ’l più oscuro e vile
Facea col canto a Filomena scorno

Per le frondi degli alberi battea
Zefiro l’ali, e ogni ruscel più mondo
Saltellando tra’ sassi al mar correa;

E con più dolce volto e più giocondo
Ridea Cupido o l’amorosa Dea
Il dì che nacque la mia Donna al Mondo.

III.
Il dì che nacque la mia Donna al Mondo,
Dal lavoro immortal stupida sorse
La Madre delle cose, e ’l guardo torse
A mirar lo spettacolo giocondo.

Indi, volgendo il grave ciglio a tondo,
Fisò le luci nell’età trascorse
Di poi sorpresa, e di se stessa in forse,
Fin del suo centro le calò nel fondo.

Poi disse: E qual sì nobile fattura
Dell’antiche bellezze e delle nove
Gl’illustri pregi alteramente oscura?

E di qual parte sì gran Donna move,
Che coll’alta beltà vince Natura?
Se nel Ciel non è fatta, i’ non so dove.




IV.
Donna, se tu scorgessi il grande ardore
Che nel mio sen per tua beltà s’apprese,
Ben diresti che tal mai non accese
In cor gentil d’innamorato Amore.

Qui star vedresti quel divin Signore
Temperando gli strali ond’ei m’offese,
Ed a’colpi di lui senza difese
Servir d’incude il mio medesmo core;

E vedresti siccome mi divora
Dolcemente del petto in ogni loco
La bella fiamma che vi cresce ognora;

E tutti i miei pensieri a poco a poco,
Come fanciulli timidetti ancora,
Scaldars’intorno a sì leggiadro foco.

V.
O pellegrin, che non vedesti mai
La Donna mia, deh su vieni a vedella;
Ch’io ti giuro che mai altra più bella
Nel tuo lungo girar vista non hai.

D’esser uomo non più ti penserai
Poichè sii giunto alla presenza d’ella
Tanto al su’ aspetto e tanto a la favella
Dolce in seno piacer ti sentirai.

Vien’, chè nulla varrammi aver parlato,
Quando tu nel bel guardo e nel bel riso
Mille cose più grandi avrai mirato.

Vieni; e in partir da quel benigno viso,
Se mai cércati alcun dove se’ stato,
Tu rispondigli tosto : In Paradiso.

VI.
Spesso mi torna il dolce tempo a mente,
Quando, seduto con la Donna mia,
Io le narrava dolorosamente
La pena del mio core intensa e ria.

Ella, bussando gli occhi dolcemente,
Il volto d’un rossor dolce copria,
E per le labbra a consolarmi intento,
A’ dolcissimi accenti il varco apria

E tanta gioia avea nel seno accolta,
Ch’all’udir lo parole alme e gioconde,
L’alma se n’ giva pellegrina e sciolta.

Or nullo, fuorchè i sassi, i tronchi e l’onde,
Il mio sì lungo sospirare ascolta;
E a consolarmi, oimè, chi mi risponde?

Giuseppe Parini - Alcune poesie di Ripano Eupilino


















VII.
Udrammi dunque Amor tristi o dogliosi
Condur sempre in lamenti e giorni ed anni,
Senza volger giammai gli occhi pietosi
A mirar le mio pene ed i miei danni?

Dunque in vedere da’ pensier tiranni
Girsen tant’altri alfin vittorïosi,
Io solo in mezzo a’ disperati affanni
Invidiando andrò gli altrui riposi?

Ma stolto! a che le volontarie offese
I’ vo piangendo, a quegli amati guai,
Onde l’alma non mai volle disciorse?

E quante volte la Ragion cortese,
Per sottrarmene pur la man mi porse,
Io strinsi le catene, e la scacciai?

VIII.
Dunque, Manzon, scorgesti i vaghi rai,
E ’l bel volto, e la man bianca o gentile,
Cui riveder col suo perverso utile
A me ’l fiero destin non lascia mai?

Oh te beato se comprender sai
Quanto piacere a null’altro simile
Vien dal mirar Donna sì altera e umile,
Ch’uom può trar fuore da’più tristi guai!

Perchè allora ’l mio cor tu non avesti;
Chè più nove bellezze in volto a lei
Colla scorta d’Amor vedute avresti!

Anzi perchè cangiarme i’ non potei
Tutto in te stesso; e quel che tu godesti
Io medesimo, e più, goduto avrei!

IX.
E pur te’ n riedi già, dolce pensiero,
Dal vago aspetto del divin mio sole;
E ’l volto mi descrivi e le parole
Dolci e leggiadre, ond’io pur ardo e spero.

Deh pietoso mi di’ per qual sentiero
Sì breve alla mia Donna ognor tu vole
Ch’anch’io ve’ gir là ’ve quell’alte e sole
Bellezze un giorno prigionier mi fêro.

Anzi teco verrò; nè del desio
Temi, che penna men veloce e snella
M’abbia punto a tardar dal volo mio;

Però che Amor coll’aurea sua facella
D’ogni peso terren purgommi; ond’io
Quale accesa mi muovo agil fiammella.

X.
Ecco ’l grand’arco in alto e la saetta
Dell’antico Signor, che mi spaventa;
E, come l’alma il suo poter ne senta,
Tutta stammi dubbiosa in sen ristretta.

Ahi che ’l crudo Tiranno aspra vendetta
Fa dell’essermi sciolto, e mi tormenta!
Nè sol di rilegarmi or si contenta,
Ma in prigion mi rinchiude anco più stretta:

E lontan dal bel cibo, ond’io vivrei,
Vuol, per somma fierezza e crudeltate,
Ch’io finisca per fame i giorni miei.

Oh te felice te cento fïate,
Tirsi, che presso alla tua Donna sei,
E viver puoi delle sembianze amate!

XI.
Quando fia mai quel dì che tu ti sciolga,
I’ dico all’alma, da un sì basso affetto?
Oh qual viltate, ch’ad amar si volga
L’alma, cosa immortal, mortale obbietto!

Ella risponde : Allor fia ch’io disciolga
Il bel nodo, ch’è intorno a me ristretto,
Quando ’l Signor dell’Universo accolga
Niun’amore in vêr me dentro al suo petto

Poichè, com’ei con immortal desio
Ama me, ch’appo lui son ombra vile,
Sì rivolto a un bel corpo è l’amor mio.

E s’egli in me vil creatura umile
Ama d’un Dio l’immago, in quello anch’io
Amo l’idea d’un’alma alta e gentile.

XII.
Qual dolce spiritello entro alle dita,
Amarilli gentil, nascose avete,
Che tanta, oppor ch’al suon voi le movete,
Gioia versa ne’ cori alma e gradita?

Certo Amor, e non altri, è che v’incita
La mano, in cui tanto piacer chiudete;
Ond’ella poi, senza trovar mai quiete,
Così lieve passeggia e sì spedita.

Sì certo, è Amor, che in un con voi pur tocca
L’ebano che col fil d’or si connette;
Poichè divino è ’l suon ch’indi trabocca:

E mentre avvien che l’armonia ci allette,
Ei dall’avorio della man ne scocca
Le invisibili sue crude saette.

XIII.
Filli, qualor con un bel nastro appeso
Lo strumento gentil dal sen vi pende,
E la candida man, ch’or sale, or scende,
Il suon tragge dal fil tremulo e teso,

D’esser mi par sovra le stelle asceso,
Lo cui girar tant’armonia comprende,
O che qui dove il vostro suon ne accende
Sia di là qualche spirto a noi disceso.

E sì cred’io; poichè, non men che ’l suono,
Celeste avete anco il sembiante, in cui
Quel bel foco riluce, ond’arso i’ sono.

Ed oh beato ben saría colui
Che di vosco finire avesse in dono
A sì dolce concento i giorni sui!

XIV.
Fra gl’impeti d’Amore e di Fortuna,
Or da quella balzato, or da quest’onda,
Non ch’io mai giunga ad afferrar la sponda,
Pur non veggio un chiaror di speme alcuna.

Ma irato maggiormente il Ciel s’imbruna,
E la tempesta sovra me più inonda;
Sicch’io non trovo parte ove m’asconda
Dal gran furor che intorno a me s’aduna.

S’i’ n’esco mai, di Libertate al tempio
Le rotte spoglie vo’ sacrare, e voglio
Ch’ello ad ogni mortal servan d’esempio :

E s’alcuno fia poi di tanto orgoglio
Che si fidi ad un mar sì crudo ed empio,
Deh sommergasi, o rompa in uno scoglio!

XV.
Ecco Bromio, pastori, ecco Lieo
Col tirso in mano, e co’ fanciulli accanto;
Udite il suon medesmo, udite il canto,
Col qual giri in Tebe il grande ingresso ei feo.

Ecco Sileno, che di vin s’empieo
L’irsuta barba e ’l setoloso manto,
E percotendo va di tanto in tanto
L’asin, che sol di sua vecchiezza è reo.

Tirsi, quel bel monton che t’addit’io
Presso quell’elce, con un colpo atterra,
Indi sacralo allegro al grasso Dio :

E tu, Damon, che se’ robusto, afferra
Sileno e l’asinel, pigro e restio;
Chè va ’l cavallo e ’l cavaliere a terra.

XVII.
Poichè ciascun vendemmiator si sente,
Mentre toglie alla vite i pondi suoi,
Tra gli scherzi e le risa, inni altamente
Cantare al Domator de’ liti Eoi,

Togli, Graspin, la cesta ed il tagliente
Picciolo ferro adunco, e andiam pur noi
Tra le viti colà; ma tieni a mente
Di non tanto mangiar, se bêr tu vuoi.

Vedi come quel tralcio il palo fasci?
Quivi con Filli a sgrappolar ti metti,
Dove l’uva mi par legata a fasci.

Ma non far poi, che sì colei t’alletti
Co’ cenni, o col gracchiar, che tu ne lasci
Sotto l’avare frasche i grappoletti.





                                            
XIX.
Sì vaga pianta e sì gentile avea
Con mie lunghe fatiche a tal ridutta,
Che le sue fronde invidïar parea
Ogni arboscello, anzi la selva tutta :

Nè più di Borea o d’Aquilon temea
Contra i be’ rami suoi l’orrida lutta;
Ma lieto alla sua dolce ombra sedea
Pur cogliendone alfin le prime frutta.

Quando Giove improvviso ecco disserra
Fulmine, che col colpo i rami adorni
In uno, e me con lo spavento, atterra.

Or giace il parto di sì lunghi giorni;
Ed io stommi guardando in su la terra,
Ch’alcun germoglio a pullular ritorni.

XX.
Quella pianta gentil, ch’avea battuta
Con le folgori Giove in sul terreno,
Così rapidamente era cresciuta
Chi’ i’ n’avea colmo di dolcezza il seno.

Ma ’l mio compagno agricoltor veduta
Non prima l’ebbe, che, d’invidia pieno,
Sentì pungersi il cor d’aspra feruta,
Sol volendo indiviso arbor sì ameno.

Con ascosa pertanto ignobil arte
I be’frutti m’invola, e pien di duolo
Me ’l tronco ad adorar lascia in disparte.

Torna, o Giove, a cacciar l’arbore al suolo
Chè, chi niun vuol de’suoi piaceri a parte,
Ben non metta costui di goder solo.

XXI.
Pendi, mia cetra umíl, da questo salce
Senza man che ti svegli, e senza corde;
Poichè a calmar le cure inique e sorde
Il tuo tenero suon punto non valce.

Già presso è Morte coll’orribil falce,
E ’l Veglio, che le cose atterra e morde;
Nè avvien, bench’ i’col mio gridar gli assorda,
Ch’ognun di loro non mi segua e incalce.

Miser n’andrò fra gli amorosi mirti,
E risonar farovvi ogni pendice,
Mescendo il pianto mio con gli altri spirti.

E tu ti rimarrai, se tanto lice,
Tra’ Pastor d’este selve incolti ed irti
D’una picciol conforto ombra infelice.

XXII.
Accendi il foco, Elpin, mentr’io mi bendo
De le candide fascie il crine e ’l petto;
E non temer del mio cangiato aspetto,
Or che ’l magico Nume in sen comprendo.

Ecco la mano alla sacr’ara io stendo,
E ’l vergin zolfo in su la fiamma getto,
E tre grani d’incenso indi vi metto,
Il suono alzando de’ miei versi orrendo.

Già dall’acceso altar par che si sciolga
Il fumo inverso il Ciel salendo, e parmi
Che ’l Ciel commosso le mie preci accolga.

Or quella fiera, che non vuol mirarmi
Per continuo pregare, a me si volga
Almen per forza de’ possenti carmi.

XXIII.
I’muoio alfine, alfine, o cruda Eumolpi,
Su quest’umide reti entro a la barca,
Giacer mi vedi, e te non fia ch’io incolpi,
Che d’un freddo sospir mi se’ancor parca.

Non temer più del mio tridente i colpi,
Squamoso gregge: alfin colui se ’n varca
Ad altro lito, che di tenie e polpi
Ogni nassa traea dall’onda carca.

Toglietevi, o compagni, or le mie canne
(Ah mille volte le lor cime a voi
Veder curve sia dato!) o le mie reti.

Questo legnetto sol meco verranne,
Per varcare, atra Stige, i gorghi tuoi,
Quando Caronte a un sì infelice il vieti.

XXIV.
Lungo ’l Sagrin, mentre i pastor le gote
Gonfiando van su le ineguali canne,
Amico, i’so ch’assai più dolce andranno
Lor suon congiunto a le tue dolci note.

E intanto che ’l commosso aere percote
L’opposte rupi, da le sue capanne
Ogni Ninfa silvestre a udir verranne
Tuo canto, che le fère addolcir puote.

Oh te felice, al quale il destro Fato
Tant’ozio dona, e a rustical concento
Dentro al paterno suol vivi beato!

Ahi me non già!, Infin ch’a forza intento
A sè mi tenga il dubitoso piato
Che nel Fôro usar suol garrulo e lento.




XXV.
Da questo cerchio, che sul lito io segno
Colla verga tremenda, e in cui ti metto,
Non partirti, o Damone, e tienti in petto
Le sillabe possenti ch’io t’insegno.

Ecco son già presenti, a un picciol segno
Della mia man, Tesifone ed Aletto,
E d’Ecate triforme il vario aspetto,
E gli altri Numi dello Stigio Regno.

Ecco io gl’invoco: O degli oscuri e bui
Fiumi d’Averno abitatrice schiera,
Damone ascolta, o me in vece di lui.

Fa’, per la forza della mia preghiera,
Che la Donna, ch’un tempo amò costui,
A poco a poco ai distrugga e pèra.



XXVI.
Tirsi, non te ’l diss’io, ch’all’aere fosco
Noi l’aremmo trovata? or vedi come
L’infame Strega con le sciolte chiome
Va dell’erbe cogliendo intorno al bosco.

Tirsi, certo ella è dessa; i’ la conosco :
Ecco m’ascondo, o chiamo lei per nome :
Vedi, vedi, coum’ella si dischiome,
Come spiri dagli occhi acceso tosco!

Ahi ch’ella udimmi! ahi già, n’ha scorti! or senti
Ch’all’orrende bestemmie ha sciolto il freno :
Ah noi meschini, ahi sventurati armenti!

Deh tre volte sputiamci, o Tirsi, in seno;
Che se ’l gregge da lei ci viene or spento,
Ah, Tirsi, ah noi possiam salvarci almeno!

XXVII.
Sciogli, Fillide, il crin, e meco t’ungi
D’esto liquor, che nelle man ti spargo;
Poi quest’osso più stretto a quel più largo,
Che d’uomo son, con le verbene aggiungi.

Indi accendi l’altar, dal rio non lungi
Che lento va tra l’uno e l’altro margo;
E mentre io d’acqua il sacro altar cospargo,
A questa cerea immago il cor tu pungi.

Ecco l’ombre d’Averno al sacro loco
Vengon scotendo l’atre faci; o ’l sole
Per lo fumo s’oscura a poco a poco.

Tu non temer; ma di’ queste parole:
La pace che tra loro han l’acqua e ’l foco
Abbian gli amanti ancor Licida e Iole.

XVI.
Questo biondo covon, di bica or tolto,
Penda innanzi al tu’ altar, Santa Vacuna :
Poichè felicemente oggi raccolto
Dal campo abbiam le spighe ad una ad una.

Ecco che noi giacciam col sen disciolto
Or che s’alza la Notte umida e bruna :
Tu ’l sudore ne tergi, e intorno al volto
Colla dolce quïete i sogni aduna.

Tai cose i mietitor da le fatiche
Del dì tornati, poichè ’l sol cadea,
Dicevano sdraiati in su le biche :

E in tanto il bue, che ’l dì trainato avea,
In disparte, pascevasi di spiche,
E lo stanco drappel non v’attendea.





XXVIII.
Già s’odon per lo Cielo alti rimbombi
Dei fulmini sonanti, e vanno preste
L’oscure nubi a radunar tempeste :
Volgete, amiche, pur, volgete i rombi.

Tu dispògliati, o Nisa, infine ai lombi,
Siccome i’ faccio ancor, d’ogni tua veste:
E mentre i’ parlo alle ner’ombre e meste,
Volgete, amiche, pur, volgete i rombi.

Ecco cercan ricovro che gli scampi,
Greggi e pastor sotto le querce antiche,
E paventan le Ninfe i tuoni e i lampi.

L’uve di Tirsi, e di Damon le spiche,
Son péste e tronche per le vigne e i campi
Fermate pur, fermate i rombi, amiche.



XXIX.
Colei, Damon, colei, che più d’un angue
Intorno al crine scapigliato intesse,
E con note, ora chiare ed or sommesse,
Può trar fuor de la tomba un corpo esangue;

Colei, ch’ugne di caldo e vivo sangue
L’uova di rospo ancor fumanti e spesse,
E una penna funèbre aggiunge ad esse
D’una strige che ancor palpita e langue;

Costei, l’erbe che in Colco ed in Campagna
Circe oprâro e Medea, con l’ossa incende
Di bocca tolte a una digiuna cagna;

E con queste il mio gregge infermo rende,
Sicch’errando se ’n va per la campagna,
Nè d’erba nè di rio vaghezza prende.

XXX.
Nè d’erba nè di rio vaghezza prende
Il mio gregge svenuto, e si rimbosca;
E par che ’l suo pastor più non conosca,
Tanto nè i cenni nè le grida intende.

Or su le balze perigliose ascendo,
Or entra in tana insidïosa e fosca,
E giurerei che più non riconosca
Qual de l’erbette giova e quale offende.

Lasso! ben il diss’io quel dì che alzarse
Vidi l’infame Strega, alta sei spanne
Da terra con lo chiome orride e sparse;

Ch’ella mandò fuor de le sozze canne
Terribil voce, e allor la Luna sparse
Raggio di sangue in vêr le mie capanne.




XXXI.
Deposta un giorno l’orrida facella,
E quell’arco crudel che i petti schiaccia,
Prese Amore in ispalla una bisaccia,
E un pugnitoio in cambio di quadrella :

E posta sotto il giogo una vitella,
O un giovenco che fosse, o due, li caccia
Per lo incolto tarren con una faccia
D’un villan che si stizza ed arrovella.

Quasi ’l bellico a’ Numi si sconficca,
D’Amor ridendo, che l’aratro muove
E la semenza per le zolle ficca.

Qnand’ e’, rivolto al Ciel, grida: Ser Giove,
O fa’di messe questa terra ricca,
O ch’io di nuovo ti converto in bove!

XXXII.
Io di Lidia il gran Re non mi rammento,
Ma spregiator di ricche gemme e d’ori
Della mia sorte umíl vivo contento,
E non invidio a’ Re gli ampii tesori.

Sol concesso a me sia la guancia e ’l mento
Cosparger d’odoriferi liquori,
Ed allo specchio d’un bel fonte intento
Cingere il crin di porporini fiori.

L’oggi m’importa, e l’avvenir non curo :
Perciò questi miei dì labili, o tu
Bacco, fien tuoi; ch’a te bevendo il giuro,

Prima ch’un qualche mal mi dica : Orsù,
Anacreonte, andiamo al regno scuro :
Getta ’l bicchier; non hassi a bever più!




XXXIII.
S’io mi credessi che con or la Morte
Si potesse tener lontan da noi,
Vorrei ben dall’Occaso a’ liti Eoi
Ir cercandomi ognor più amica sorte.

E quand’ella picchiasse alle mie porte,
Le direi: Piglia, e va’ pe’ fatti tuoi.
Ma se fuggir non posso i colpi suoi,
A ché piangendo far l’ore più corte?

Dunque, poichè così fatal destino
io non posso evitar, mia cura sia
Conversar cogli amici, e ber del vino;

O su le piume colla Donna mia
Passar scherzando i dì felici, infino
Che la Parca ne sciolga ingorda e ria.




XXXIV.
Se di Bacco il liquor nel mio cervello.
Coll’ammirabil suo poter penètra,
Ogni cura se ’n va noiosa e tetra;
Già mi par d’esser ricco e d’esser bello :

E vo cantando or questo carme or quello,
Or sedendo su l’erba, or s’una pietra,
E col pensier calco la Terra e l’etra,
Dominando il destin secondo e ’l fello.

Stia fra l’arma a pugnar pure il guerriero,
Ch’io sol questo desio nel cor mi porto,
Di contender tra ’l fiasco e tra ’l bicchiere.

Dammi la tazza pur, fanciullo accorto;
Poichè involto in un dolce almo piacere
Meglio è certo giacere ebbro, che morto.










XXXV.
Rondinella garruletta,
Se non taci, un giorno affè
Io vo’ far sopra di te
Un’asprissima vendetta.

Vo’ pigliarti stretta stretta,
E legarti per un piè;
Poi far quel che Tereo fe’
Con codesta tua linguetta.

L’alba in ciel non anco appare,
Che con querula favella
Tu ne vieni a risvegliare.

Or che dorme la mia bella,
Guarda ben, non la destare,
Garruletta Rondinella.

XXXVI.
Per molte genti e molti mar condotto,
O mio germano, finalmente io sono
A quest’esequie miserande addotto,
Per far l’ultimo a te funebre dono.

E poichè te medesmo a me non buono
Destino ahi tolse, e ’l tuo bel stame ha rotto
Indegnamente, oimè, vo’ dir qui prono
Su la tacita polve un vano motto.

Questi doni però tu accogli intanto,
Che ne’ funèbri sacrificii offrio
De’ maggiori il costume antico e santo.

Questi accogli pur tu; ch’assai del mio
Sono grondanti ancor fraterno pianto;
E addio per sempre, o mio germano, addio.




XXXVII.
O del vetro più chiaro, ameno fonte,
Degno di dolce vin, cinto di fiori
Domane avrai un caprettin, cui fuori
Spuntan le prime corna in su la fronte.

Indarno ci mostra le sue voglie pronte
Or a l’aspre tenzoni, or agli amori;
Poichè avverrà che i gelidi liquori
Del suo sangue vermiglio esso t’impronte.

Te l’ore atroci dell’ardente Cane
Non san toccar; tu doni a’ tauri, lassi
D’arare, amabil fresco, e al vago armento.

Però tra l’altre andrai chiare fontane;
Ch’io l’elce canterò, ch’ombreggia i sassi
Cavi, onde scorre il tuo loquace argento.

XXXVIII.
Là dove Pindo al ciel tanto s’innalza,
Che le due corna infra le nubi asconde,
E giù per quello van di balza in balza
Con dolce mormorio le placid’onde;

I’ fui, Manzoni, e le fiorite sponde
Osai calcar, dove succinta e scalza
Erra la schiera ognor de le gioconde
Figlie di Giove, carolando, e balza.

E visto appena, elle mi fûro accanto,
Di te chiedendo; e di quell’onda lieve
Una bell’aureo vaso attinse intanto;

Indi : Questo a lui porgi, e d’ogni greve
Morbo il sollevi, e lo risvegli al canto.
Disse, e me ’l porse colla man di neve.

XXXIX.
Manzon, s’io vedrò mai l’aspro flagello
Dell’irata fortuna un dì posarse,
E ’l cielo, che sinor nuvolo apparse,
Tornar sopra di me sereno e bello;

Udraimi acceso di furor novello
Versi cantar, e al canto mio placarle
Ogni fera crudele, e cheti starse
I fiumi, e a me condurse ogni arboscello.

Ridi ? non sai quanto Anfïon poteo
Su le pietre Tebane, e quanto impero
Nelle selve di Tracia usava Orfeo?

Ah così s’ammollisca il destin fiero;
Chè quanto il Trace e quel Teban già feo,
Di far tanto, e più ancora, i’ non dispero.




XL.
Per l’aspro calle ond’a Parnaso uom giunge
Io mossi ’l piede insin da’ più verd’anni,
E già contando i miei sì lunghi affanni
Fra me diceva : Or non puot’esser lunge,

Ma, Fortunata, ahi che ’l tuo vol raggiunge
Il lento passo mio co’ presti vanni;
E lungi ancor da que’ beati scanni
Lo tuo sommo valor m’insulta e punge!

Or vanne lieta pur, ché ’n su la via
Attendon le Sorelle alme e divine
La tua venuta assai più che la mia.

Quivi non aspettar ch’io giunga al fine
Del mio cammin, sì ratto: assai mi fia,
Quando neve mi copra il fosco crine.

XLI.
O Sonno placido, che con liev’orme
Vai per le tenebre movendo l’ali,
E intorno a i miseri lassi mortali
Giri coll’agili tue varie forme;

Là dove Fillide secura dorme
Stesa su candidi molli guanciali
Vanno, e un’imagine carca di mali
In mente pignile trista e deforme.

Tanto a me simili quell’ombra inventa,
E al color pallido che in me si spande,
Ch’ella, destandosi, pietà ne senta.

Se tu concedimi favor sì grande,
Con man vo’ porgerti tacita e lenta
Due di papaveri fresche ghirlande.

SUL TESTO



Do per intiero Alcune poesie di Ripano Eupilino; Londra, MDCCLII, presso Giacomo Tomson (in realtà, Milano, Bianchi); in 16°, pagg. CXXIV, più sei del frontespizio e dell’avvertenza A’ leggitori, e due in fine con l’Errata-corrige e la dichiarazione: « Tutte l’espressioni, che a qualunque orecchio più delicato possano sonar male, si attribuiscano alla libertà della Poesia, sia Amorosa che Satirica, Berniesca o di qual’altra specie essa sia », ecc. Che Ripano sia anagramma di PARINO,e che Eupilino rimandi al suo luogo di nascita, sull’Eupili, o lago di Pusiano, è palese e notissimo.
Si avverta che in tutti gli esemplari del libretto, e sono parecchi, da me esaminati, fra le pagg. XXII e XXIII si trova un foglio di due pagine numerate XXii e XXiii (cioè, secondo l’intenzione dello stampatore, XX bis e XX ter) coi sonetti I’ muoio alfine e Lungo ’l Sagrin, e in calce ad essi i richiami Lun- e Non; il quale ultimo non ha corrispondenza, nè col sonetto successivo, come dovrebbe, nè con gli altri seguenti. Ciò fa presumere la soppressione di due sonetti, di che si ha conferma esaminando il breve margine del detto foglio fra le pagg. XXVI e XXVII, resto di una pagina tagliata nella quale doveva trovarsi un sonetto in corrispondenza con il richiamo Non della pag. XXiii.
Numero i componimenti con cifre romane, che, anche per ciò e per distendersi alcuni componimenti in più pagine, non corrispondono a quelle della stampa. Questa nelle note chiamo R.
Secondo criterii generali, rispetto la grafia e l’interpunzione del testo, ma non sì da non togliere la virgola innanzi alla congiunzione e e al pronome che, dove ciò non sia che mero uso grafico; da non ritoccare pel senso, in alcuni pochi luoghi, l’interpunzione; da non togliere maiuscole veramente superflue; da risolvere in doppio i l’ j; e da rinunziare a qualche segno o sostituzione di lettera che agevoli la lettura (p. es. sputiamci invece di sputanci, in XXIV, 12; sarem invece di saren, in LXIV,11). Le correzioni dell’Errata-corrige introduco, naturalmente, nel testo.

A’ LEGGITORI.

Io parrò forse troppo arrischiato mandando al Pubblico questa piccola parte delle mie Rime in tempo che, essendo ogni maniera di letteratura al suo colmo venuta, ogni leggier macchia che in un libro si trovi vien da giudiziosi uomini conosciuta e ripresa. Ma chiunque vorrà pôr mente al fine ch’io mi son proposto e alla cautela da me usata pubblicandole, credo che non potrà di soverchia arditezza o temerità ragionevolmente accusarmi. Perciocchè nè sciocca pompa di comparir tra’ saggi nè vano disio di lode nè verun altro mio consimil pensiere mi ha confortato a dar fuori questo picciol libretto; ma puramente una cotal mia vaghezza, di saper dal Pubblico, siccome io penso, giusto e sincero estimator dell’opere altrui, quale io sia per riuscir nel poetico mestiere, mi ha stimolato a far ciò. Perocchè, leggendo gli amatori degli ameni studii queste Poesie, e ora per l’un capo biasimandole cortesemente, e ora per l’altro graziosamente commendandole, e le lodi o i biasimi loro pervenendomi all’orecchio, io potrò, ove gli uni all’altre sopravanzino, lo incominciato cammin tralasciare, e dare alle Muse un eterno addio, e ove al contrario questi meno soperchiati da quelle, animarmi a salir con più vigore il sacro giogo e procacciarmi qualche fronda di lauro in Parnaso. Per tal motivo in ho voluto scêrre, da’ miei poetici lavori, varii di vario argomento e di varie spezie; acciocchè, veggendoli, il Pubblico mi sappia poi dire a qual maniera di comporre io debba appigliarmi, e quale intralasciare. Voi ci troverete addunque nel presente volumetto componimenti e sacri e morali e amorosi e pastorali e pescatorii e piacevoli e satirici e di molte altre guise, i quali, ove di poco valor fossero, colla loro varietà almeno sarannovi di noia minore. La qual noia medesima io mi sono studiato a mio poter di tôr via, con lo scêrre sì poco numero di componimenti, non volendo colla moltitudine de’ miei pessimi versi il secolo nostro incomodare. Senzachè io non sento poi così bassamente di me medesimo, che non confidi poterci essere in questo libro parecchi lavori che, qual colla limatezza, alcuno colla novità, tale coll’evidenza, e tal altro col particolare e nuovo suo gusto, in vece di noia, diletto vi porgeranno. Il che quantunque sia per negarmisi da certi matti abbaiatori che o per astio o per altra cotal loro passione vorranno che io non ci abbia nulla di buono; spero che voi, onesti e discreti lettori, confesserete esser vero, siccome alla prova potete conoscer leggendo. Al quale effetto io, senza più aggiugner, vi lascio. State sani.

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XLII.
Endecasillabi, cui porgerete
Col vostro tenero suono conforto?
Al mio certissimo Manzon, che smorto
Mirate e languido gir presso a Lete.

Su richiamatelo, su lo scuotete,
Prima che l’abbiano le cure assorto
Questi è quel giovine saggio ed accorto,
Che delle lettere giunge alle mete.

Alla sua cetera vid’io sovente
Tendere i satiri l’orecchie acute,
E le selvatiche vergini attente.

Endecasillabi, dunque le argute
Corde svegliategli, se di repente
Cose udir piacevi dal ciel venute.

XVIII.
Ahi quante, ahi quante di pietate ignudi
Fan prede i lupi de le fresche agnelle;
Sicchè non val ch’a vigilar su quelle
Il povero pastor fatichi e sudi!

Questa felice è ben, che i denti crudi
De le belve non teme ingorde e felle;
Poichè dal branco de le pecorelle,
Almo Pastor, la togli, e la rinchiudi.

Qui, non la guasteran fàscini o incanti :
Ma vedrai come bella e senza scabbia
Di più candide lane ognor s’ammanti :

E fia che ’l lupo indarno giri, ed abbia
In fine a starsi all’ovil chiuso innanti,
Alto ululando per disdegno e rabbia.










XLIII.
Oimè che turbine rivoltuoso
Di cure asprissime mi turba il sen !
Porgimi, o Fillide, di vin spumoso
Un orcio, o un cintolo, ma che sia pien.

Quest’è ’l dolcissimo caro e gioioso
Ai cor dei miseri contravelen :
Per questo a ridere torna giocoso
L’imbriachissimo vecchio Silen.

Chi fu che ’l barbaro fiero dolor
Frenò dell’esule vergine a Nasso,
Se non quest’unico dolce liquor?

Chi fia che reggaci sul fianco lasso,
Fugando il gelido senile onor,
Presso a quell’ultimo dolente passo?

XLIV.
Col guardo i’ vo su per l’aereo calle
Fra le nubi cercando, e tra i pianeti,
E veggio d’ogni stella entro a’ secreti
Lati Dio, ch’ora quiete, or moto dàlle.

Scendo di poi su le nevose spalle
De’ monti, ed essi guai freschi arïeti
Veggio esultar di lui superbi e lieti,
Ch’abita ogni antro loro, ogni lor valle.

Cerco la Terra tutta, e l’onda, e fuore
Caccio lo sguardo ancor, ch’appena il regga,
E veggio come, in quell’immenso orrore,

Solo non già, ma con se stesso ci segga.
Torno coll’occhio alfin dentro al mio core;
E solo nel mio cor par che no ’l vegga.

XLV.
Carca di merci prezïose e rare,
Coll’aure amiche intorno, agile e presta
Girsen vid’io senza curar tempesta
Una nave superba in mezzo al mare.

E per l'onde vicine al lito, chiare,
Col remo, il qual di faticar non resta,
Di due tavole appena insiem contesta
Un’umile barchetta i’ vidi andare.

Sorse vento improvviso, e l’una tosto
Alla ripa vicina in braccio corse,
E ’l legno altier cadde tra l'onde assorto.

Così ’l miser, diss’io, ch’al basso è posto
Presto si salva; a chi più in alto sorse,
Miracol è se può ritrarsi al porto.

XLVI.
Su queste pallid’ossa, e già da cento
Anni sepolte in quest’oscuro avello,
Qual già lusse color vermiglio e bello,
Ch’or sciolto in polve se ne porta il vento?

Qui, superbe fanciulle, il guardo intento
Filate a rimirar l’aspro flagello
Che fa ’l Tempo e la Parca intorno a quello
Splendor cui tanto commendar vi sento.

Ecco i candidi avorii, ecco le rose,
Che sì pregiano in voi gli stolti amanti,
Misero avanzo di beltà famose.

Anzi quaggiù voi vi specchiate innanti,
Folli, cui ’l vero un cieco Amor nascose,
Quel che riman di tanti pregi e tanti.

XLVII.
Poichè dal braccio del Signor guidate
Fuor dell’Egitto uscir l’Ebraiche genti,
Fuggì timido il Mare, e le frementi
Onde volse il Giordan là ’v’eran nate.

E qual, veggendo lo caprette amate,
Fanno i capri lascivi ed insolenti,
Saltâro i monti, e i colli soggiacenti,
Come i saturi agnei per l’erbe usate.

Perchè fuggisti, o Mare, e tu, Giordano,
Perchè indietro tornasti? O colli, o monti,
Qual vi mosse a saltare impeto strano?

E monti e colli e flutti, umili e pronti
Chinârsi a lui, che col poter sovrano
Fa, di selci e di rupi, e stagni e fonti.

XLVIII.
Filli, questo splendor, che con tant’arte
Fregi e nodrisci, leggier fumo ed ombra
È certamente, cui Morte disgombra
O van gli anni struggendo a parte a parte.

Volgi le greche e le latine carte
Ove di gran beltà Donna le ingombra,
E scorgerai come la Terra sgombra
Ne fu ben tosto, e l’arse membra sparte.

Ov’è l’Egizia che cotanto piacque
Al Roman Duce? Ov’è colei che mosse
Argo tutta a seguirla in mezzo all’acque?

Anzi chi ’l corpo sol, chi le nud’osse,
Chi la tomba m’addita, ov’ella giacque,
Poichè ’l filo di lei breve troncosse ?

XLIX.
Gira l’alta Donzella, e in mille nodi
Tesse i teneri balli, e, più ch’ai vasti
Musici cori, attende alle sue lodi
Ond’avvien ch’ad ogn’altra ella sovrasti.

E in tanto il Re, preso ai soavi modi
Cui non è sì gran core il qual contrasti,
Dice: Chiedi a me quel di che più godi,
Benchè mezzo il mio Regno anco non basti.

Ella : Se tanto di tua grazia abbondo,
Dammi, disse, Giovanni. E tosto un riso
Fe’ sul volto apparir vago e giocondo.

Già non rise il Signor, dal duol conquiso:
Pur : Si faccia, rispose. Ahi Mondo, ahi Mondo,
Quanta legge t’impone un dolce viso!



L.
Chi è costui, che nell’umíl suo letto
Steso passa dal Mondo, e par che rida?
Egli è quell’Uom sì giusto e a Dio diletto,
Del Divino Figliuol custodia e guida.

Chi son que’ duo, cui con sì dolce affetto
Par che ’l guardo languente ancor divida?
L’uno è lo Dio, cui fu per padre eletto,
E l’altra è la sua sposa onesta e fida.

E come mai fra così dolci aspetti
Osa Morte pôr piè franca ed ardita,
Ond’uom sì grande al suo poter soggetti?

Stolto, che pensi? di niun stral fornita
Non è la Parca, onde costui saetti;
Ma un’estasi d’amor lo trae di vita.

LI.
Che val, ch’entro a’ gemmati aurei palagi
Per le splendide sale uomo s’inoltre,
E coperto di bisso e d’aurea coltre
Su le morbide piume il corpo adagi?

Che val, ch’ognor fuggendo i rei disagi
Viva contento a regia mensa, ed oltre
Ad umano dover non mai si spoltre
Dalla gola e dal sonno empii e malvagi?

Se Morte alfin nel più bel corso arresta
Ogni dolce piacer, volgendo i passi
L’alma verso Acheronte ignuda e mesta?

Ed ivi a pochi giorni in cener vassi
Il cadaver superbo; e non ci resta
Che l’onor vano degli scritti sassi?







LII.
Egli è pur vero, Elpin, ch’altra donzella
Vie più vaga di Nice Iddio far puote:
Dunque perchè in lei posi, ed altre ignote
Beltà non cerchi assai miglior di quella?

E poichè vista o nell’idea tua snella
Donna pinto hai di più vermiglie gote,
Di più begli occhi, e più soavi note,
Vuo’ tu dir che costei sia la più bella?

No certamente; chè la man di Dio
Non s’abbrevia giammai; e in infinito
Meta non troveresti al tuo disio.

Dunque s’esser non puote un bel compíto,
Di cui l’alma gentil solo ha desio,
In Dio lo cerca, ove ogni bel sta unito.

LIII.
Qual fu? qual fu la scellerata mano
Che le sacre di Pindo alme parole
Ardì di violare, e ’l dritto e sano
Pensier volgere in torte insulse fole?

Chi fu colui che ’l calamo profano
Osò condurre in su l’elette e sole
Pure voci del bel fiume toscano,
D’onde tanto piacer scorrer ne suole?

O Muse, voi, che le Sorelle audaci
Cangiaste in piche, a che stavate intente,
Quando costui venne a turbar vostr’acque?

E tu, Febo, il gran telo ove ai giacque,
Che le zanne confisse un dì mordaci
Al figlinol della Terra empio serpente?

LIV.
Io son nato in Parnaso, e l’alme Suore
Tutte furon presenti al nascer mio;
E mi lavâro in quel famoso rio,
Mercé solo del quale altri non muore.

Però mi scalda al divin furore,
Sobben giovine d’anni ancor son io,
Che d’Icaro non temo il caso rio,
Mentre compro co’ versi eterno onore.

So che turba di sciocchi invida e bieca
Ognor mi guarda, e con grida e lamenti
sì bel valore a troppo ardir mi reca.

Ma non perciò mio corso avvien ch’allenti
Nè l’età verde alcun timor m’arreca;
Ch’anco Alcide fanciul vinse i serpenti.