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IL SOGNO DI SCIPIONE



Argomento

A pochi può essere ignoto Publio Cornelio Scipione, il distruttor di Cartagine. Fu egli nipote per adozione dell'altro che l'avea resa tributaria di Roma (e che noi, a distinzione del nostro, chiameremo sempre col solo prenome di Publio), ed era figliuolo di quell'Emilia da cui Perseo, il Re di Macedonia, fu già condotto in trionfo. Unì il nostro Eroe così mirabilmente in sé stesso le virtù dell'avo e del padre, che il più eloquente Romano volle perpetuarne la memoria nel celebre sogno da lui felicemente inventato, e il quale ha servito di scorta al presente drammatico componimento.

Scipione dormendo, la Costanza e la
Fortuna.

Fortuna
Vieni e siegui i miei passi,
O gran figlio d'Emilio.

Costanza
I passi miei
Vieni e siegui, o Scipion.



Scipione
Chi è mai l'audace
Che turba il mio riposo?

Fortuna
Io son.

Costanza
Son io:
E sdegnar non ti dei.

Fortuna
Volgiti a me.

Costanza
Guardami in volto.

Scipione
Oh Dèi
Quale abisso di luce!
Quale ignota armonia! quali sembianze
Son queste mai sì luminose e liete!
E in qual parte mi trovo? e voi chi siete?

Costanza
Nutrice degli Eroi..

Fortuna
Dispensatrice,
Di tutto il ben che l'universo aduna.


Costanza
Scipio, io son la Costanza.

Fortuna
Io la Fortuna.

Scipione
E da me che si vuol?

Costanza
Ch'una fra noi
Nel cammin della vita
Tu per compagna elegga.

Fortuna
Entrambe offriamo,
Di renderti felice.

Costanza
E decider tu dei
Se a me più credi, o se più credi a lei.

Scipione
Io? Ma, Dèe... che dirò?

Fortuna
Dubiti!

Costanza
Incerto
Un momento esser puoi!




Pietro Metastasio   -   Dramma:IL SOGNO DI SCIPIONE



Fortuna
Ti porgo il crine
E a me non t'abbandoni?

Costanza
Odi il mio nome,
Né vieni a me?

Fortuna
Parla.

Costanza
Risolvi

Scipione
E come?
Se volete ch'io parli,
Se risolver degg'io, lasciate all'alma
Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa.
Ditemi, dove son, chi qua mi trasse,
Se vero è quel ch'io veggio,
Se sogno, se son desto, o se vaneggio.
Risolver non osa
Confusa la mente,
Che oppressa si sente
Da tanto Stupor.
Delira dubbiosa,
Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia




Fra' moti del cor.

Costanza
Giusta è la tua richiesta:
a parte, a parte
Chiedi pur e saprai,
Quanto brami saper.

Fortuna
Sì; ma sian brevi,
Scipio, le tue richieste. Intollerante
Di riposo son io. Loco, ed aspetto
Andar sempre cangiando è mio diletto.
Lieve son al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace;
Or m'adiro, e in un momento
Or mi torno a serenar.
Sollevar le moli oppresse
Pria m'alletta, e poi mi piace
D'atterrar le moli istesse,
Che ho sudato a sollevar.

Scipione
Dunque ove son? La Reggia
Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi
Al sonno abbandonai,
Certo questa non è.

Costanza
No. Lungi assai

È l'Africa da noi. Sei nell'immenso
Tempio del ciel.

Fortuna
Non lo conosci a tante,
Che ti splendono intorno,
Lucidissime stelle? a quel che ascolti
Insolito concento
Delle mobili sfere? a quel che vedi
Di lucido zaffiro
Orbe maggior, che le rapisce in giro?

Scipione
E chi mai tra le sfere, o Dèe, produce
Un concento sì armonico e sonoro?

Costanza
L'istessa, ch'è fra loro,
Di moto e di misura
Proporzionata ineguaglianza. Insieme
Urtansi nel girar; rende ciascuna
Suon dall'altro distinto;
E si forma di tutti un suon concorde.
Varie così le corde
Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa
E l'orecchio, e la man l'acuto e 'l grave,
Che dan, percosse, un'armonia soave.
Questo mirabil nodo,
Questa ragione arcana
Che i dissimili accorda,





Proporzion s'appella, ordine e norma
Universal delle create cose.
Questa è quel che nascose,
D'alto saper misterioso raggio,
Entro i numeri suoi di Samo il saggio.

Scipione
Ma un'armonia sì grande
Perché non giunge a noi? Perché non l'ode
Chi vive là nella terrestre sede?

Costanza
Troppo il poter de' vostri sensi eccede.
Ciglio che al sol si gira
Non vede il sol che mira,
Confuso in quell'istesso
Eccesso di splendor.
Chi là del Nil cadente
Vive alle sponde appresso
Lo strepito non sente
Del rovinoso umor.

Scipione
E quali abitatori...

Fortuna
Assai chiedesti:
Eleggi al fin.

Scipione
Soffri un istante. E quali


Abitatori han queste sedi eterne?

Costanza
Ne han molti, e varie in varie parti.

Scipione
In questa,
Ove noi siam, che si raccoglie mai?

Fortuna
Guarda sol chi s'appressa, e lo saprai.

Publio, coro d'Eroi, indi Emilio e detti.

Coro
Germe di cento Eroi
Di Roma onor primiero,
Vieni, che in ciel straniero
Il nome tuo non è.
Mille trovar tu puoi
Orme degli avi tuoi
Nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè.

Scipione
Numi! è vero o m'inganno? Il mio grand'Avo,
Il domator dell'African rubello
Quegli non è?

Publio
Non dubitar, son quello.



Scipione
Gelo d'orror! Dunque gli estinti?

Publio
Estinto,
Scipio, io non son.

Scipione
Ma in cenere disciolto
Tra le funebri faci,
Gran tempo è già, Roma ti pianse.

Publio
Ah taci:
Poco sei noto a te.
Dunque tu credi
Che quella man, quel volto
Quelle fragili membra onde vai cinto
Siano Scipione? Ah non è ver. Son queste
Solo una veste tua. Quel che le avviva,
Puro raggio immortal, che non ha parti,
E scioglier non si può; che vuol, che intende,
Che rammenta, che pensa,
Che non perde con gli anni il suo vigore,
Quello, quello è Scipione: e quel non muore.
Troppo iniquo il destino
Sarìa della virtù, s'oltre la tomba
Nulla di noi restasse; e s'altri beni
Non si fosser di quei,
Che in terra per lo più toccano a' rei.





No, Scipion: la perfetta
D' ogni cagion Prima Cagione ingiusta
Esser così non può. V'è dopo il rogo
V'è mercé da sperar. Quelle che vedi
Lucide eterne sedi
Serbansi al merto; e la più bella è questa.
In cui vive con me qualunque in terra
La patria amò, qualunque offrì pietoso
Al pubblico riposo i giorni sui,
Chi sparse il sangue a benefizio altrui.
Se vuoi, che te raccolgano
Questi soggiorni un dì,
Degli avi tuoi rammentati,
Non ti scordar di me.
Mai non cessò di vivere
Chi come noi morì:
Non meritò di nascere,
Chi vive sol per sé.

Scipione
Se qui vivon gli Eroi...

Fortuna
Se paga ancora
La tua brama non è, Scipio, è già stanca
La tolleranza mia. Decidí...

Costanza
Eh lascia
Ch'ei chieda a voglia sua. Ciò ch'egli apprende,

Atto lo rende a giudicar fra noi.

Scipione
Se qui vivon gli Eroi
Che alla patria giovar, tra queste sedi
Perché non miro il genitor guerriero?

Publio
L'hai su gli occhi, e nol vedi?

Scipione
È vero, è vero.
Perdona, errai, gran genitor; ma colpa
Delle attonite ciglia
È il mio tardo veder, non della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente.
Ah sei tu! Già ritrovo
L'antica in quella fronte
Paterna maestà. Già nel mirarti
Risento i moti al core
Di rispetto e d'amore. Oh fausti
Numi!
Oh caro padre! oh lieto dì! Ma come
Sì tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante
Sereno è ben, ma non commosso. Ah dunque
Non provi in rivedermi
Contento eguale al mio!

Emilio
Figlio, il contento



Fra noi serba nel cielo altro tenore.
Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore.

Scipione
Son fuor di me. Tutto quassù m'è nuovo
Tutto stupir mi fa.

Emilio
Depor non puoi
Le false idee che ti formasti in terra,
E ne stai sì lontano. Abbassa il ciglio;
Vedi laggiù d'impure nebbie avvolto
Quel picciol globo, anzi quel punto?

Scipione
Oh stelle!
È la terra?

Emilio
Il dicesti.

Scipione
E tanti mari,
E tanti fiumi, e tante selve, e tante
Vastissime provincie, opposti regni,
Popoli differenti? e il Tebro? e Roma?

Emilio
Tutto è chiuso in quel punto.






Scipione
Ah padre amato,
Che picciolo, che vano,
Che misero teatro ha il fasto umano!

Emilio
Oh se di quel teatro
Potessi, o figlio, esaminar gli attori;
Se le follie, gli errori,
I sogni lor veder potessi, e quale
Di riso per lo più degna cagion
Gli agita, gli scompone,
Gli rallegra, gli affligge, o gl'innamora,
Quanto più vil ti sembrerebbe ancora!
Voi colaggiù ridete
D'un fanciullin che piange,
Ché la cagion vedete
Del folle suo dolor.
Quassù di voi si ride
Ché dell'età sul fine
Tutti canuti il crine,
Siete fanciulli ancor.

Scipione
Publio, padre, ah lasciate,
Ch'io rimanga con voi. Lieto abbandono
Quel soggiorno laggiù troppo infelice.

Fortuna
Ancor non è permesso.


Costanza
Ancor non lice.

Publio
Molto a viver ti resta.

Scipione
Io vissi assai;
Basta, basta per me.

Emilio
Sì, ma non basta
A' disegni del Fato, al ben di Roma
Al mondo, al Ciel.

Publio
Molto facesti e molto
Di più si vuol da te: senza mistero
Non vai, Scipione, altero
E degli aviti, e de' paterni allori:
I gloriosi tuoi primi sudori
Per le campagne ibere
A caso non spargesti, e non a caso
Porti quel nome in fronte,
Che all'Africa è fatale. A me fu dato
Il soggiogar sì gran nemica, e tocca
Il distruggerla a te. Va, ma prepara
Non meno alle sventure,
Che a' trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L'istessa è la virtù. L'agita, vero,


Il nemico destin, ma non l'opprime;
E quando è men felice, è più sublime.
Quercia annosa su l'erte pendici
Fra 'l contrasto de' venti nemici
Più sicura, più salda si fa.
Ché se 'l verno le chiome le sfronda,
Più nel suolo col piè si profonda;
Forza acquista, se perde beltà.

Scipione
Giacché al voler de' Fati
L'opporsi è vano, ubbidirò.

Costanza
Scipione,
Or di scegliere è tempo.

Fortuna
Istrutto or sei;
Puoi giudicar fra noi.

Scipione
Publio, si vuole
Ch'una di queste Dèe...

Publio
Tutto m'è noto.
Eleggi a voglia tua.

Scipione
Deh mi consiglia,
.




Gran genitor

Emilio
Ti usurperebbe, o figlio
La gloria della scelta il mio consiglio.

Fortuna
Se brami esser felice,
Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t'offro il crin.

Scipione
Ma tu che tanto
Importuna mi sei, dì: qual ragione
Tuo seguace mi vuol? Perché degg'io
Sceglier più te che l'altra?

Fortuna
E che farai, s'io non secondo amica
L'imprese tue? Sai quel ch'io posso? Io sono
D'ogni mal, d'ogni bene
L'arbitra colaggiù. Questa è la mano
Che sparge a suo talento e gioie e pene,
Ed oltraggi ed onori,
E miserie e tesori. Io son colei,
Che fabbrica, che strugge,
Che rinnova gl'imperi. Io, se mi piace,
In soglio una capanna, io quando voglio,
Cangio in capanna un soglio. A me soggetti
Sono i turbini in cielo,


Son le tempeste in mar. Delle battaglie
Io regolo il destin. Se fausta io sono,
Dalle perdite istesse
Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro
Svelgo di man gli allori
Sul compir la vittoria ai vincitori.
Che più? dal regno mio
Non va esente il valore,
Non la virtù; ché, quando vuol la Sorte
Sembra forte il più vil, vile il più forte:
E a dispetto d'Atrea
La colpa è giusta, e l'innocenza è rea.
A chi serena io miro
Chiaro è di notte il cielo;
Torna per lui nel gelo
La terra a germogliar.
Ma se a taluno io giro
Torbido il guardo e fosco
Fronde gli niega il bosco,
Onde non trova in mar.

Scipione
E a sì enorme possanza
Chi s'opponga non v'è?

Costanza
Sì, la Costanza.
Io, Scipio, io sol prescrivo
Limiti, e leggi al suo temuto impero.

Dove son io, non giunge
L'instabile a regnar; ché in faccia mia
Non han luce i suoi doni,
Né orror le sue minacce. È ver che oltraggio
Soffron talor da lei
Il valor, la virtù; ma le bell'opre
Vindice de' miei torti, il tempo scopre.
Son io, non è costei,
Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi
La tua Roma lo sa. Crolla ristretta
Da Brenno, è ver, la libertà latina
Nell'angusto Tarpeo; ma non ruina.
Dell'Aufido alle sponde
Si vede, è ver, miseramente intorno
Tutta perir la gioventù guerriera
Il console roman; ma non dispera.
Annibale s'affretta
Di Roma ad ottenere l'ultimo vanto,
E co' vessilli suoi quasi l'adombra
Ma trova in Roma intanto
Prezzo il terren, che il vincitore ingombra.
Son mie prove sì belle e a queste prove
Non resiste Fortuna. Ella si stanca;
E al fin cangiando aspetto,
Mia suddita diventa a suo dispetto.
Biancheggia in mar lo scoglio,
Par che vacilli, e pare
Che lo sommerga il mare
Fatto maggior di sé.




Ma dura a tanto orgoglio
Quel combattuto sasso;
E 'l mar tranquillo e basso
Poi gli lambisce il piè.

Scipione
Non più. Bella Costanza
Guidami dove vuoi.
D'altri non curo;
Eccomi tuo seguace.

Fortuna
E i doni miei?

Scipione
Non bramo e non ricuso.

Fortuna
E il mio furore?

Scipione
Non sfido e non pavento.

Fortuna
Invan potresti,
Scipio, pentirti un dì. Guardami in viso:
Pensaci, e poi decidi.

Scipione
Ho già deciso.
Dì che sei l'arbitra


Del mondo intero,
Ma non pretendere
Perciò l'impero
D'un'alma intrepida,
D'un nobil cor.
Te vili adorino,
Nume tiranno,
Quei che non prezzano,
Quei che non hanno
Che il basso merito
Del tuo favor.

Fortuna
E v'è mortal che ardisca
Negarmi i voti suoi? che il favor mio
Non procuri ottener?

Scipione
Sì, vi sono io.

Fortuna
E ben provami avversa. Olà, venite
Orribili disastri, atre sventure,
Ministre del mio sdegno:
Quell'audace opprimete; io vel consegno.

Scipione
Stelle! che fia! qual sanguinosa luce!
Che nembi! che tempeste!
Che tenebre son queste!

Ah qual rimbomba
Per le sconvolte sfere
Terribile fragor! Cento saette
Mi striscian fra le chiome; e par che tutto
Vada sossopra il ciel. No, non pavento,
Empia Fortuna: invan minacci; invano
Perfida, ingiusta Dea... Ma chi mi scuote?
Con chi parlo? ove son? di Massinissa
Questo è pure il soggiorno. E Publio? e il padre?
E gli astri? e il ciel? Tutto sparì. Fu sogno
Tutto ciò ch'io mirai? No, la Costanza
Sogno non fu: meco rimase. Io sento
Il Nume suo, che mi riempie il petto.
V'intendo, amici dèi: l'augurio accetto.

Licenza
Non è Scipio, o signore, (ah chi potrebbe
Mentir dinanzi a te!), non è l'oggetto
Scipio de' versi miei: di te ragiono,
Quando parlo di lui. Quel nome illustre
È un vel, di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore.
Ma Scipio esalta il labbro
E Girolamo il core.
Ah perché cercar degg'io
Fra gli avanzi dell'oblìo
Ciò che in te ne dona il ciel!
Di virtù chi prove chiede,



Critica


Nei drammi di Metastasio, di argomento vario, c' equilibrio fra musica e poesia secondo la riforma iniziata da Apostolo Zeno, creatore di un tono nuovo, il melodrammatico, che diventa una maniera originale di sentimento e di lirica, o meglio è il vagheggiamento musicale del sentimento, il quale, come osserva il Momigliano, si muta in motivo di canto. C'è come una voluttà nel penare, un palpito sommesso, il dolce strazio, la languida aspirazione, che talvolta digrada nel ridicolo per l'esilità e la volubilità dei sentimenti dei personaggi. Nella sua costituzione estrinseca, il melodramma è composto di tre atti, i personaggi parlano in versi sciolti o in serie di endecasillabi e di settenari liberamente rimati; ma quando devono esprimere l'impeto della passione oppure qualche massima, allora parlano in strofette agili, che prendono il nome di ariette. Numerosi sono i melodrammi del Metastasio: Didone abbandonata, del 1724, che gli diede il primo risonante successo, in quanto la protagonista viene immaginata come creatura veramente umana presa fra la coscienza del potere e la debolezza della passione d'amore; Siroe (1727), di argomento persiano, in cui è messo in evidenza il contrasto tra la passione amorosa e il retto dovere; Catone in Utica (1728), il nobile romano simbolo della libertà, per non perdere la quale si suicida (il racconto della sua tragica fine viene fatto sulle scene da Marzia, moglie di Catone); Ezio, del 1728, personaggio eroico nella sua magnanimità che ispirerà a Giuseppe Verdi l'omonimo personaggio dell' Attila; Alessandro nelle Indie (1729); Semiramide (1729); Artaserse (1730), molto elogiato dal Carducci "per l'invenzione ricca di situazioni e contrasti veramente drammatici"; Adriano in Siria (1732) Demetrio (1731), che provocò tale commozione che l'autore disse di aver veduto "pianger gli orsi". Seguono Issipile (1732), dramma eloquente per la dimostrazione della pietà filiale e che tratta della congiura delle donne di Lemno contro gli uomini; Olimpiade, le cui fonti di ispirazione sono l' Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini, dramma di "una perfezione inarrivata ed inarrivabile" (Carducci); Demofoonte (1733), dove si svolge il contrasto tra gli affetti di padre e di sposo; La clemenza di Tito (1734), in cui si esaltano le doti di generosità e bontà del grande imperatore, dramma molto ammirato da Voltaire. In Achille in Sciro (1736), scritto in soli 18 giorni, è efficacemente rappresentata la sete di gloria di Achille in lotta con l'amore; in Ciro riconosciuto (1736) e Temistocle (1736), risuona un forte sentimento patrio; in Zenobia (1740) s'alterna amore con clemenza o rigida virtù; Attilio Regolo (173-840), fu considerata una tragedia di una solennità quasi religiosa, e al Carducci parve dotata "di una eloquenza drammatica". Metastasio compose poi Antigone (1744); Ipermestra; Il re pastore (1751); L'eroe cinese (1752); Nitteti (1756); Il trionfo di Clelia (1762); Romolo ed Ersilia (1765); Il Ruggiero ovvero L'eroica ingratitudine (1771); Siface (1771?). Questi drammi non sono nè lavori pseudoclassici alla moda, come quelli del Voltaire, nè eclettiche imitazioni classiche, come quelle dell'Alfieri; sono una manifestazione spontanea, creata dalle necessità artistiche di tutta una nazione e dai suggerimenti irresistibili di un'arte grande e viva. Tanti motivi psicologici e pittoreschi, tanti atteggiamenti artistici così largamente imitati dimostrano, secondo il Momigliano, che il Metastasio fu l'interprete di stati d'animo diffusi e il creatore di un nuovo linguaggio poetico. I suoi melodrammi hanno tutti per argomento una volontà eroica, il loro tema sembra tragico o eroico, il modo di sentirlo è del tutto sentimentale: "E' pena troppo barbara / sentirsi, oh Dio, morir / E non poter mai dir: / Morir mi sento! / V'è nel lagnarsi e piangere, / v'è un'ombra di piacer; / ma struggersi e tacer / tutto è tormento" (Antigone , atto I, scena XI). Ecco tutta la poesia del Metastasio, la quale comporta talvolta il pericolo della degradazione del sentimentale per certa esilità e volubilità dei sentimenti e anche il pericolo del falso tragico; c' da aggiungere il ricorso alle "ariette", che sono la sintesi di tutta la poesia melodrammatica e l'immortale creazione del Metastasio: sono una breve melodia in cui si concentra il suo piccolo mondo di tenerezza, di abbandono, di capriccio, di grazia, anche il suo mondo di piccole, modeste verità psicologiche e morali, soprattutto di psicologia e di morale amorosa; c'è un'anima musicale che serpeggia attraverso le pagine del melodramma, che si alza, si effonde, trionfa nelle ariette: le note insistono, ritornano, si spengono fornendo l'espressione di una grazia sentimentale.



L'ode in quelli, in te le vede:
E l'orecchio ognor del guardo
E più tardo e men fedel.

Coro
Cento vuolte con lieto sembiante,
Prence eccelso, dall'onde marine
Torni l'alba d'un dì sì seren.
E rispetti la diva incostante
Quella mitra che porti sul crine
L'alma grande che chiudi nel sen.

ed. Alauzet, 1814 Firenze – Collezione Francesco Paolo Frontini
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina