Analizziamo la complessa figura di Luigi Siciliani (Ciro, 1881 - Roma, 1925) ripercorrendo tutto il lungo ed accidentato itinerario della produzione poetica, narrativa e saggistica del poeta e scrittore calabrese, collocato opportunamente tra classicità e decadentismo.
Poeta dalla vena limpida e cristallina, che risentì della sua eccezionale cultura umanistica, amico e ammiratore di Giovanni Pascoli e di Gabriele D'Annunzio, il Siciliani dette alla poesia italiana, nel primo ventennio del Novecento, ben otto volumi di lirica; fu anche discreto romanziere, critico, filologo e squisito traduttore dalle letterature classiche, dall'inglese, dal portoghese. Dopo aver acquisito, mentre era attivo, una certa rinomanza nazionale, ha subito dopo la morte (1925), un costante disconoscimento della sua opera di poeta, di narratore, di saggista, cadendo sempre più nel “Iimbo della dimenticanza”.
Non sono pochi, né di poco conto, gli autori calabresi che operarono tra Otto e Novecento, e che, noti e discussi, nel bene e nel male, negli anni in cui vissero, sono stati, lentamente, quasi in punta di piedi, se non del tutto dimenticati , colpevolmente negletti. Penso all’apporto dato all’attività letteraria non solo calabrese e meridionale, ma nazionale, da operatori culturali come Francesco Acri, Filippo Greco, Domenico Milelli, Diego Vitrioli, Giuseppe Casalinuovo, Antonino Anile, Franco Berardelli, Luigi Siciliani. Sono autori che oggi possono essere rivisitati, se non riscoperti, ‘ con occhio chiaro e con affetto puro ’, per restituirli nella loro effettiva dimensione artistica e culturale, essendo ormai ben lontani dagli umori e dai malumori che li accompagnarono negli anni in cui videro la luce le loro opere ed espletarono il loro ruolo culturale e civile. Non è operazione impossibile, anche se non sempre é facile reperire le loro opere, ferme alla prima data di stampa, e il materiale d’archivio che li riguarda. E impresa che i giovani studiosi, che sono tanti e validi - calabresi e non - incoraggiati dalle istituzioni universitarie e da mecenati lungimiranti, dovrebbero affrontare col rigore storico e ‘scientifico’ che oggi si richiede.
Siciliani é una personalità di difficile definizione come uomo e come letterato. Alla ricerca costante e affannosa di successi nelle lettere e nella politica, lasciata giovanissimo la sua Cirò per proseguire gli studi a Roma nel collegio ‘Nazzareno’, diretto dai Padri Scolopi, di cui era rettore Luigi Pietrobono, si ritrovò tra i rampolli della Roma aristocratica che certamente influirono non poco a rendere ancora più avvertita la sua congenita nobiltà di sangue. In questo senso, non ebbe alcun effetto sulla sua indole inquieta e pungente la parola mite e umanissima del Pietrobono, che lo iniziò agli studi pascoliani, procurandogli anche l’amicizia col poeta di San Mauro, testimoniata dalla fitta corrispondenza e dai non rari incontri. Aristocratico dei sentimenti e della cultura, Siciliani nutrì un disprezzo radicale per il ‘ gran pubblico ’, incapace d’intendere i suoi ideali e la sua poesia, le sue fantasie e le sue speranze politiche e civili di fermo impegno nazionalista. Consapevole della propria superiorità, quasi novello Leopardi ( Le ricordanze, vv. 29-37 ) - senza naturalmente alcuna eco della tragedia interiore del Recanatese —, nell’Avvertenza alla silloge Corona (1907), dichiara di non averla composta per il "gran pubblico": " Io so che questo non capisce la poesia, sia perché non la sente, sia perché non riesce a comprenderne il linguaggio: l ’ammira bensì o la disprezza per posa o per moda ", E’ l’ alter ego Giovanni Francica, esaltandosi nel godimento della solitudine, immerso nel sovrumano silenzio della natura,
Stava per ore e ore, quando era l’estate, a contemplare di giorno il mare e di notte lo stellato con quella indolenza che é propria degli uomini del Mezzogiorno ( ... ), e che " se amava la terra di una passione che alle volte aveva del morboso, non amava affatto i suoi compaesani ( . . . ); chiuso nell’orgoglio del suo sapere li disprezzava tutti."
E quanto meno anacronistico appariva, già ai suoi giorni, il suo ‘ credo ’ politico-culturale, col quale chiude il volume I volti del nemico (1918):
Credo nell’eternità di Roma ( ... ); credo che l’Impero Romano vive immortale (. . .); credo che non esiste civiltà superiore alla latina (. . .); credo che questa guerra europea è la lotta tra le nazioni che hanno accettato i principi della civiltà latina e coloro che li hanno rinnegati ( ... ); credo che Roma ha posto i canoni di una vita etica tra le genti ( ... ); credo che il mondo sia innanzitutto un fenomeno etico ( . . . ); credo che il fatto compiuto non è il fondamento del diritto ( .,. ); spero nella liberta dei popoli ( ... ); spero, in un remoto avvenire, nella liberta di ogni uomo.
"Assillato da un ardente desiderio di gloria ed amareggiato dal mancato riconoscimento, da parte della critica, del valore della sua opera poetica", Siciliani gode a incidere di sè stesso le qualità del ribelle egocentrico, dall’indole indomita e sprezzante, controfigura in miniatura dell’Inimitabile, del D’Annunzio, che lui riteneva "il principe degli Ulissidi”. Ma, come per il Carducci e per il Pascoli, anche il suo amore per il D’Annunzio e più presunto che reale. Anche questi erano autori che leggeva, e interpretava, ad usum delphini, indifferente alla loro complessità, di ciò che effettivamente riuscivano a proiettare, con la loro opera, nel futuro. Al contrario di come voleva apparire, nascondeva, sostanzialmente, un animo tenero e generoso, di un candore che non gli acconsentiva di scernere tra la sincerità e l’ipocrisia espresse dalla galassia di quanti gli corrispondevano, e che, con giudizi ambigui sulla sua opera creativa, si accattivavano la simpatia del pubblicista o del deputato e sottosegretario alle Antichità e Belle Arti. Le eccezioni sono rappresentate, e documentate dagli scambi epistolari, dal Pascoli, dal D’Annunzio, dalla Negri, dal Borgese, sopra tutti da Pietrobono, da Cecchi, da Moretti, da Gozzano, da Sem Benelli.
Non lo abbandonerà mai il ‘male di vivere’, il tarlo della solitudine che trovava il terreno fertile nel disprezzo per il presente nel quale non si ritrovava e non si riconosceva. Ma come poteva comprenderlo con gli occhi sempre volti all’indietro come gli indovini di Dante, lui che, testardamente, ‘ tenne fede ai nostri padri, antichi ’ ( Poesie per ridere: Il Natale di un poeta classico, v. 26 )? La cui ‘aspirazione estrema’ era quella di ‘essere io/ godere di me stesso in libertà’ ( Per consolare l’anima mia: Malinconia metafisica, vv. ll - 12 )? E canta l’inno al solipsismo di evidente matrice dannunziana, senza averne la tempra del D’Annunzio. D’altronde, come scrive il suo lettore più attento, Ennio Bonea, Siciliani rimane “una scontrosa personalità di studioso invaghito, sin dall’adolescenza, della classicità al punto da non riuscire ad intendere la cultura contemporanea che, a sua volta, lo considerò un estraneo". Suggestionato dalla triade Carducci - Pascoli - D’Annunzio per quanto riguarda il culto del mondo classico, per lui gli ‘ismi’ contemporanei, le categorie, sono inutili e dannosi. Comunque, non opportuni ad alcuna corrente letteraria. Incrollabile nel mito dell’antichità, rifiuta di cogliere le urgenze del nuovo che lievitavano il pensiero e l’opera poetica del Pascoli da Myricae (1891) ai Nuovi Poemetti (1904), né gli umori positivi e rinnovatori che fermentavano, ad esempio, la cultura milanese degli anni del suo soggiorno nella città lombarda, tra il 1907 e il 1912, a cominciare da Lucini. Liguori evidenzia, e documenta, i rapporti reciproci di stima e di amicizia con i protagonisti di quei retroterra culturali, da quelli romani a quelli milanesi, all’ambiente della rivista fiorentina ‘ Cronache Letterarie ’, fondata da Vincenzo Morello (Rastignac). Non solo. Malgrado le prese di posizione quasi perentorie del Siciliani rispetto al mondo classico, unico faro di luce per la civiltà umana, Liguori riesce a collocare bene anche la sua opera poetica e narrativa tra ‘classicità’ e ‘decadentismo’. Con una lettura non prevenuta della sua varia ed eterogenea opera poetica, da Sogni pagani (1906) a L’altare del Fauno (1923), Liguori accerta la presenza, sempre originalmente filtrata, mai ecletticamente modulata, non solo di momenti significativi del Carducci, del Pascoli e del D‘Annunzio ‘ scudieri dei classici ’, ma non poche ‘ scintille ’ marinettiane. Quando, poi, riesce ad abbassare la voce e quasi ad ascoltarla dentro di sé, si ritrova fraterno al Gozzano e, più, a Marino Moretti. In tali passaggi, come avverte Liguori, si manifesta "artista moderno, capace di ascoltare il breve respiro del sentimento, il profondo palpito della passione, d’investigare e rappresentare in modo chiaro i turbamenti, le ansie, le gioie e i pianti più segreti dell’ amore”. Ne é esempio emblematico — che la presenza dell’afflato leopardiano di Amore e morte e il ritmo neocrepuscolare di Consolazione del Poema paradisiaco (1891) dannunziano, rendono più gradevole - il sonetto L’ultima donna, compreso nelle Rime della lontananza (1906).
La fonte dell’ispirazione del Siciliani, e che rimane certamente la parte più viva, più fresca, più ‘ moderna ’ del suo canto, è la presenza plastica del ‘ paesaggio ’ fatto ritratto dell’animo, in particolare quello calabrese della sua Cirò e del suo Jonio, come nel compiuto, e accattivante, Idillio della raccolta Corona (1907), anno dell`uscita anche della gozzaniana La via del rifugio. E’ la Calabria maliarda e amara colta "nelle sue bellezze naturali, nei panorami bellissimi e nelle zone aride e deserte". Non e più la Calabria eroica, amata e temuta, della Magna Grecia, cantata nei Sogni pagani (1906), ma l’‘arida nutrix’, la matrigna che “costringe i suoi figli ad allontanarsi e non riesce a soddisfare neppure i bisogni di quelli che restano". A lei intitola la quarta raccolta di versi, recuperando lo stilema oraziano di Carminum , I, XXII, 15. Meritano attenta rilettura le liriche Calabria, Dal Jonio, Falda silvana, Paesaggio silano, e della silloge Per consolare l ’anima mia (1920), Pausa e Invocazione a Pan, nei cui versi torniti "esula dal mondo contemporaneo e si trasferisce idealmente nel mondo classico", e, "nella dimensione pagano - antica", " il suo spirito agitato si acquieta e trova finalmente la sua pace"." In questo suo paradiso perduto rivive miti ed eroi della Magna Grecia, intrisi pur sempre della mai sopita tristezza per bellezze ed ideali che non torneranno più. In tale atmosfera mentale e sentimentale canta, in Sogni pagani (1906), i miti esaltanti di Proserpina che vive e soffre ciò che costituiva il senso della sua vita e che é andato perduto per sempre; di Antigone, nella quale il poeta " rimpiange, con un senso acuto di pessimismo desolato, la bellezza ‘consumata invano’ della bella fanciulla, figlia di Edipo “; di Cassandra, nella quale rivive il dramma della figlia di Priamo, dotata di facoltà profetiche, ma destinata a non essere creduta.
Nei versi ‘ barbari ’ Il ritorno, che chiudono la raccolta Per consolare l’anima mia, uscita nel 1920, quattro anni prima della morte, Siciliani evoca, con teneri accenti, il tempo della fanciullezza, incidendo di sé un ritratto insieme fisico e d’animo: ‘Piccolo, rude, irrequieto (...). Ero un fanciullo rissoso, dai cento tumulti, iracondo’. Fattosi adulto, la sua indole non soltanto non mutò, ma, deluso dagli aventi storici, dagli ideali politici, dal vedersi misconosciuto come poeta, divenne più insofferente e alieno da ogni ritegno. In ciò aveva avuto un maestro nel venerato Pascoli, che, al contrario della sua poetica, che s’ispira al ‘fanciullino’ e al ‘mistero’ che circonda l’universo mondo, nelle lettere a lui indirizzate si scopre di una incredibile acredine. Ad esempio, in una lettera del 16 settembre 1906, da Barga, si riferisce a Prezzolini e a Papini, che non avevano accolto benevolmente Odi e inni (1906), definendoli "due infami beceri fiorentini", "scellerati linguacciuti", "giovani vecchiastri"; e in una, da Bologna, datata; 5 febbraio 1907, giudica Benedetto Croce "goffo e secco giudice togato che applica senz’altro il codice ( ... ). Il male é che il codice lo ha fatto lui!" Siciliani non solo lo segue su quella strada, ma si rivela ancora più astioso non soltanto nei riguardi di Prezzolini, ma di un suo docente, lo storico Julius Beloch. In Canfiteor, articolo apparso ne ‘ Il Nuovo Giornale’ di Firenze del 20 marzo 1911, compreso in Studi e saggi (1913), definisce Prezzolini "l’uomo più petulante e più noioso della nostra letteratura”, "botoletto ringhioso”; Papini, "scimmia feroce" di una "mediocrità animale" e di altrettanta "povertà intellettuale"; Beloch, "ridicolo storico, "uno dei cento e mille rappresentanti della pseudoscienza tedesca per l’asservimento delle altre nazioni”. Giudizi biliosi, che non gli furono mai perdonati, e che scavarono ancora più fieramente il senso della sua solitudine interiore e del suo isolamento sociale, soprattutto come operatore culturale. Persuaso, anche per queste tristi vicissitudini, che la vita e ‘foglia che va col vento, ombra vana/ che si discioglie in pianto al più lieve urto/ dei venti; quando cozzano nel cielo’ ( Per consolare l ’anima mia: Invocazione a Pan, vv. 23-25), poteva lenire la disperata solitudine interiore soltanto la dolcezza del ‘suo cielo nativo’ , la ‘ felicita di ritrovare l’aria/ che aveva respirato fanciullo’ ( Per consolare l’anima mia: Pausa, vv. 4-5 ), la sua ‘culla antica’ ( ivi: Invocazione a Pan, v. 1).
A parte le riserve sulla sua incapacità di cogliere il senso della storia del primo ventennio del ‘900 e le conseguenti ragioni dell’eclettismo delle sue amicizie e inimicizie, letterarie e politiche; le stroncature di Pancrazi, di Lucini, e gli apprezzamenti diplomaticamente prudenti di Cecchi, di Donadoni, della Negri, di Borgese, di Pastonchi, ecc ., che segnano le ragioni della sua scomparsa dalla storia letteraria del nostro Novecento, meritano un’attenta rivisitazione le prose del Giovanni Francica. Il giudizio che rimane, e che, a mio parere, va ripreso e approfondito, e quello di un lettore certo non facile come Renato Serra. Scrisse ne Le lettere (1914): Siciliani ha una certa forza severa, senza sapore letterario vero e proprio; con delle asprezze e delle stonature che meravigliano in un amico dei classici: dei quali tuttavia il beneficio si sente nella semplificazione dello stile, che gli ha permesso di scrivere un romanzo robusto.19 Liguori dedica un intero capitolo alle prose epico – lirico - memorialistiche di Giovanni Francica. Ritengo che sia riuscito a chiarire bene il senso della ‘robustezza’ assegnatale da Renato Serra. "Anche se riesce difficile - scrive Liguori - inquadrarlo pienamente nel filone della narrativa di ascendenza verghiana, rimane sostanzialmente un romanzo di vita provinciale e, come tale, ci offre un quadro realistico della vita sociale calabrese nei primi decenni del Novecento". “Vita sociale" rappresentata efficacemente in tutte le sue sfaccettature, con la scrupolosa descrizione delle più varie e significative manifestazioni individuali e sociali, collettive e private, di usi, tradizioni, costumi , con una tenuta di racconto, nei momenti meno tardoromantici e provinciali, originale e non effimera. La monogralia di Liguori non manca di indagare altri aspetti della molteplice attività letteraria di Luigi Siciliani, finora poco studiati, da quella di scrittore di novelle a quella di traduttore, da quella di saggista e critico letterario a quella di pubblico oratore e conferenziere. Liguori illustra con dovizia di particolari sia le cinque prose narrative, pubblicate nel 1920 sul periodico Racconta novelle, diretto da Enrico Cavacchioli, sia le opere di traduzione dalle letterature amiche ( Poeti Erotici dell’Antologia Palatina, i Baci di Giovanni Secondo) e moderne ( Poeti inglesi moderni, Lettere di una monaca portoghese), ed anche i diversi volumi di critica e di saggistica, come Studi e Saggi (1913) e I volti del nemico (1918), e i Discorsi tenuti dal Siciliani nel periodo in cui ricopriva la carica di sottosegretario alle Belle Arti, dandoci una lettura completa di tutta la produzione letteraria dello scrittore cirotano.
Rileggendo le opere poetiche e letterarie di Luigi Siciliani torna alla memoria, ammonitore, l’epigramma che Marziale dedicò al senatore e console Lucio Sestilio Avito, suo amico e protettore, epigramma che ovrebbe tenere bene a mente ogni serio operatore della penna:
Sunt bona, sunt quaedam mediocria, sunt mala plura
quae legis hic: aliter non fit, Avite, liber.
Occorre, pertanto, individuare quanto di buono c`é nell’opera poetica e narrativa di Luigi Siciliani e rimetterla nel circuito della civiltà letteraria calabrese e nazionale.
Assisi, giugno 2011.
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