CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
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LUIGI SICILIANI



CANTI PAGANI
e altre poesie classiche









RIME DELLA LONTANANZA
(1906)




VINTO

I.

O combattuta immagine d'amore,
se, immota dentro me, sempre mi tenti,
forse non è per lei che anela e veglia,
chiusa nel suo silenzio adamantino?
Non è per quel suo nero occhio, che triste
mi cerca e sfugge, ma nel lampo sùbito
rivela come una segreta angoscia
ed una forza che non piega ancora?

II.

Come perennemente alla fontana
con la sua lenta musica dolente
l'onda si versa e torna a rifluire;
così nel cuore sempre al suo pensiero
sgorga un pianto nascosto, da cui sorge
e si diffonde un senso di dolcezza.


BALLATA MINIMA

Ombroso il bosco e solitario il luogo.

Vane parole fuggono di bocca:
lo sanno i cuori, e battono vicini;
lo sa la bianca mano che mi tocca;
lo sanno gli occhi, pur se stanno chini.
O dolci nostri baci mattutini,
in quel silente solitario luogo!
  
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
LUIGI SICILIANI

POETA E SCRITTORE
TRA CLASSICITA’ E DECADENTISMO
_________

di
Pasquale Tuscano
__________________

IN UN GIARDINO

È limpida la notte,
e l'aria tutta piena d'un odore
soave di ligustri.
Silenzioso vado pel giardino
quasi deserto, dove tante volte
t'ho visto nella gioia e nel dolore;
ma presso non mi sei,
né ti sento vicina, né ti parlo.
Ieri piangevo: tu mi stavi a fianco,
e la tua voce mi cercava il cuore.
Oggi tu soffri, ed io
non posso riguardarti gli occhi belli,
né stringerti le mani,
né pianamente carezzarti il volto,
per poi sentirmi, a un tratto,
avvinto dalle tue piccole braccia.

CONSIGLIO

Non si compiace l'amore di piccole stanze, di vie
donde confuso sale strepito di viventi.

Vuole l'amore sorriso di limpidi cieli, romori
di leni fonti in fuga su verdeggianti prati,

dove fioriscon narcisi e cantano lodole in alto,
quando la primavera torna benigna in terra.

OBLII

Quando è triste l'ora, e il mondo non ha più valore
per gli occhi disillusi, per le mie labbra amare,

se mi sorridi lieta, e l'anima pura mi porgi
nelle rosate labbra, dal desiderio vinta,

l'anima tua mi bevo, e un tacito gaudio trascorre
per le mie vene tutte dai baci tuoi beate.







DELIRI

Oh spasimo, vedere la tua bocca
e non potervi mordere gridando!
aver gli occhi velati e non potere
serrata tra le braccia rattenerti!
Mi sei presente un attimo! un baleno!
poi ti disperdi, come nebbia vana.
Ed io vorrei gettarmi sulla via,
esser percosso dai tuoi piedi brevi;
ma rattenerti ancora qualche istante,
consolarti se piangi, o riversare
l'émpito sopra te dell'amarezza,
che m'avvelena ogni ora, ogni minuto.
Oh, maledetto il giorno in cui mi parve
lieve cosa l'amore e dolce e cara!
Ora sento ch'è un male, un male atroce
che preclude le fonti della gioia.

IL CANCELLO

È sera. L'ombra sopra le vie cade
serena, come un male inesorato;
e insieme con le cose essa ci invade,
languida come i sogni del passato.

Noi lenti andiamo per le vuote strade
su cui scende il silenzio inanimato:
siamo una cosa labile, che rade
gli atrii luminosi all'abitato.

A un tratto ri soffermi ad un cancello
chiuso di ferro: l'edera si stende
ampia ai suoi lati; a grappoli fiorisce

lungo le mura un glicine: «Qui attende,
tu dici, invano un dolce nido bello
la nostra giovanezza che sfiorisce».
.



CORONA
(1907)


DIFFER QUAERELAS

Tempo da stare vicini concede assai breve a noi il fato,
violenza d'amore breve anche più lo rende.

Dunque con vari lamenti con pianti con lunghe querele
di non turbare io prego l'ora che fugge via.

Doma lo spirto inquieto che con pensieri ti affligge,
la cui segreta tela dentro di te nascondi.

Baciami e godi. Poi quando di nuovo saremo disgiunti
(o dolorosa vita, o sempre aperta piaga!)

affiderai sulla carta, che t'è messaggera silente,
il tuo dolore, ed io mediterò la morte.


MODERAZIONE

Te desiderio non vinca di donne dai riccioli bruni
né dai capelli biondi, quando le vedi a cento.

Moltiplicata la tua potenza non chiedere ai numi,
per abbracciarne mille, senza saziarti mai.

Grande amerezza s'asconde nei dolci complessi d'amore,
e quando il corpo è sazio l'anima trista geme.

Quando ti passan davanti agli occhi le donne qual fiori
che primavera sparse per i virenti campi,

rendine grazia agli iddii che immagini t'offron sì varie,
e te le portan via prima che te ne stanchi.

Tali davanti al mare in calma gl'innumeri flutti
sorgere io vidi azzurri, e dileguare pronti.




A UN EFEBO

Dolce a me, efebo, la luce di questa giornata di sole,
mentre che fra la verzura col passo tuo ritmico avanzi!
Sulla fronte ondeggiando discendon pel candido collo
questi tuoi riccioli neri; la bocca ti s'apre ad un riso
sano, che mi dimostra l'eguali due file di denti.
Lampi tu mandi dagli occhi che ignorano vili lascivie,
mentre che a riguardarti beato ri seguo da presso,
rado parlando, vinto dall'armonia dei tuoi detti.
Questo è l'amor che non duole, a cui non segue il connubio,
che d'ammirarti come una statua vivente s'appaga.



AVIDITÀ

Mentre ch'a un placido sonno le languide membra abbandono
da voluttà domato tra le tue bianche braccia,

duri tu, desta, al mio fianco, non vinta da alcuna stanchezza,
e con pietoso sguardo me lentamente scruti.

Tale una coppa io vidi d'artefice insigne aretino
dove un amante posa e del posar si bea,

tale Marte divino raffigurò Botticelli,
né dei possenti amplessi Venere sazia giace.

Ma non sereno io riposo vicino alle ignude tue membra,
una vergogna acuta turba a me il sonno e scuote;

onde ridesto m'affretto le belle fatiche a compire,
perchè tu possa alfine sazia dormirmi in seno.


AL PROPRIO CUORE

Troppo bruciasti! consunse a te la rea vampa i midolli,
e l'ossa inaridite son qual lieve polvere.

Troppo piangesti! con gli occhi hai sparso rugiada perenne,
hai tu formato un rivo salso col pianto tuo.

D'ardere e piangere dunque qual fiero diletto ti prese?
O cuore stanco, alfine temi la morte tua!

Non ricercare di nuovo il tuo danno, ti basti una volta
aver passato i duri scogli delle sirene.

SAPIENZA

Turpe nei congressi e breve si gode diletto,
e tedio assale quando l'opera sia fornita.

Non come bestie dunque da pazza libidine vinti,
irrompendo pronti, il cieco ardor spegniamo

ma, lentamente indugiando, pasciamoci a lungo di baci:
niuna fatica, niuna vergogna è in questo

questo piacque piace e piacerà lungamente
questo mai non manca ed incomincia sempre

UN DESIDERIO

Oh! diventassi la rosa purpurea che con le tue mani
graziosamente adatti sopra il tuo bianco seno.

LA SPERANZA

Unica tra i mortali restò la celeste Speranza:
noi disertando, gli altri sono all'Olimpo ascesi.



ARIDA NUTRIX
(1909)

MORTICINO

Come è triste, bambino, restare tu solo per sempre
dentro una piccola bara sotto la terra ch'è nera;
l'ossa piccine piccine e quelle teneri carni
colorate di rosa disfare per sempre là dentro!
Per la ripida strada che guida alla nuova tua casa
lenta va la bara: ti portano i cari amici,
cari paterni amici, pe' quali dovevi serbare
tutti i tuoi primi sorrisi e tutti i tuoi primi corrucci.
Suona la musica lieta, secondo l'avito costume:
parla taluno, qualche donna sorride tra i veli.
Anche l'autunno ride dal cielo purissimo effuso.
Né qui nulla di quanto perisce sapevi, o bambino,
né qui nulla di quanto vive per certo io conobbi.

NOSTALGIA

Un pianto triste piange nel mio cuore.
Maggio mi porta una tristezza nuova:
un desiderio di non so qual piano,
un desiderio di non so qual monte,
di cui la solitudine mi giova,
d'ogni vivente fatto sì lontano
di quanto al mare l'acqua dalla fonte.
Sono le voglie mie qui tutte pronte
per quel silente luogo che ho nel cuore.

COME NUBI

Notte d'ottobre, fresca ancor di pioggia,
mentre le nubi pendono sul mare
come colli ricurvi, e sopra d'esse
splende la luna pallida per nebbie!
E sembrano le nubi sopra il mare
isolette divise dalla luce,
arcipelago vano sopra il mare.
Tali le cose della nostra vita,
piccole, lievi, sopra immensi abissi.

CONVALESCENZA

Non ho febbre. Miglioro. Un tenue odore
spande per la mia stanza un mazzolino
lasciato dalla piccola sorella.
È l'ora del meriggio. Il mare è in calma
per la finestra aperta odo il suo canto
e ne respiro il fresco odor salino.
Passa lontano qualche vela bianca.
Ed io penso alla vita che ritorna,
e tremo e spero. Vedo un bianco viso
con occhi che mi risero vicino,
non so se di malizia o di piacere,
in altri tempi, fuggiti, lontani.





LA FONTE

Una fontana nascosta dentro il profondo d'un bosco
so, dove cresce l'edera folta intorno;
quando s'accosta alcuno, ne svolano mille farfalle
notturne con dipinte l'ali di rosso e bruno.
Sopra s'addensan le querce dal cupo dentato fogliame,
donde sempre suona vario d'alati un canto.
Sulla fonte reclino il volto e m'ardono gli occhi,
che cercano insaziati quanto ho smarrito altrove.
Ecco ch'io scorgo nell'acqua cento volti già noti:
sono le mie speranze, pallide nella fonte.
Vogliono perdersi, via svanire per sempre con l'acque.
Or s'indugiano ancora, tenuemente tremano;
esse aspettano ch'io precipiti dentro le fredde
correnti: al mio cadere pronte dilegueranno.






DAL IONIO

Odor di mare, strepito di flutti,
muta quiete dentro la mia casa, mentre Seléne abbevera
di sonno ogni cosa: le stoppie quasi chiare,
i cardi polverosi, i grandi ulivi
da cui risuona qualche strido acuto
di civetta, l'alato della notte.
Non voce d'uomo, solo a tratti iroso
un abbaiare pavido di cani.
È bello il mare, e bello è quel pallore
sparso dall'ampio cielo sulla terra.
Forse non ci fu mai nel mondo il male;
forse non seppi mai l'ira, la bianca
paura del destino cieco. Io giunsi
con le triremi alate in questo suolo.
Domani coi compagni reverenti
sgozzeremo un negra agnella a questa
che mi addusse benevola tempesta.




POESIE PER RIDERE
(1909)

IL NATALE DI UN POETA CLASSICO

Die alte frivole Generation
Verröchelt; ein neues Bestreben,
Ein Katzenfrühling der Poesie,
Regt sich in Kunst und Leben.
Heine – Letzte Gedichte.
Parla il poeta:

Sono solo! terribilmente solo!
Come pesa quest'aria
grigia e questo cielo
bieco e livido!
Che movimento per le strade! è festa.
Dice una mamma ben vestita a un bimbo
vestito bene, innanzi a una vetrina:
«Vuoi tutti quei giocattoli? Domani».
Domani il bimbo non ricorderà.
Potessi anch'io non ricordare più!
La vita mi ha mentito
come la madre mente a quel fanciullo.
Finire così male, così solo,
dopo avere innalzato
templi di marmo candido, sognato
primavere d'amore, orge di luce!
È una cosa terribile trovarmi
ora smarrito in mezzo ad una via,
peggio di un mendicante.

Questo chiede,
stende la mano,
ottiene qualche cosa;
ed io che chiedo?
«In carità, comprate
quel mio libro: vedrete
che tenni fede ai nostri padri antichi».
Da ridere! che importa a lor dei padri
o delle madri di mill'anni fa,
o di tremila?
Bubbole! panzane!

==>SEGUE

Guarda quante salsicce e quanti polli,
oche, tacchini ed anatre: è la festa
oggi de' salumai.
Esser poeta? Una gran bella cosa
per chi non ha bisogno, o si contenta
della statua e la lapide quando sarà crepato!
Vedi, l'alloro l'hanno i fruttivendoli
in copia grande sulle porte e anche
i salumai, per coronar prosciutti.
Fatti porco, ch'è meglio.
Se non a fogli, ti divoreranno,
sicuramente, a fette.
DICHIARAZIONE VILLANA
Parla un uomo qualunque:

Nel solco d'odore che lasci,
passando attraverso la via
ebbra, stupita, smarrita
ti segue l'anima mia.
D'ogni lussuria sei esperta
e corrotta sei oltre ogni segno;
hai spezzato ogni ritegno,
sei passata dall'incesto
a innaturali amori.
Quelle tue labbra sottili
quando al sorriso le affili
tagliano: sono perverse,
esperte a mentire e blandire
dovunque, comunque.
Hai gli occhi neri
che par celino misteri
inesplorati, profondi;
e nulla tu nascondi,
nell'incanto che diffondi
se non la tua curiosità crudele!
Altro so. Che mi vale,
se il desiderio innanzi a te m'assale
e mi sferza la carne
e mi tormenta e grida
e mi domanda d'esser saziato?
Il tuo occhio mi punge,
il tuo riso mi sfida;
ma l'ondeggiare della vestimenta
suscitato dal tuo passo sapiente
batte in me come il vento nella vela,
fa di me la sua preda, e mi trascina.
Un desiderio solo mi congiunge
tutti i pensieri, e lega
tutti i miei sensi.
S'io rattengo la voce per la via,
se la lingua non prega,
è per l'émpito grande che la preme
che folle folle folle! a te mi spinge;
sì che ogni frusto di mia carne geme,
o donna impenetrabile e perversa,
cui l'anima mia turpe cerca e teme,
come un'antica sfinge.






IL DOMATORE

Parla l'Ettore d'Omero:

Ettore io sono che di nuovo ha preso
umana forma,
Ettore domatore di cavalli!
Ma il fato or mi condanna
a domare muletti
ed asini selvaggi.
E l'arte antica contro il vile armento
or non mi basta più: cento flagelli
ho rotto sulle terga e sulle groppe
durissime, ma senza trarne frutto.
E mi son volto ad un incantatore,
a un uomo esperto in magiche parole.
Egli mi ha consigliato
di cessare i flagelli,
e per domarli di gridare a loro:
«Cavalli, degni di corona olimpica
di gloriose palme vincitori,
Ettore, senza voi, sarebbe nulla».
Ed ho ubbidito; ed ecco uno di ragli
inno sublime s'è levato al cielo
e di rudi nitriti sinfonia.
Ed un asino enorme ancor mi grida:
«Ettore, veramente
cavalli siamo noi».




IL RACCONTO D'UN ESTETA

Parla egli stesso:

Era nel tempo della gran calura...
Quel suo corpo divino io già più volte
veduto aveva dalla mia finestra
nudo dinanzi al mare, mentre il vento
le rigonfiava e le sbalzava in alto
i bianchi lini, quando si svestiva,
o quando, tolto il camice stillante
tutto d'umor marino, si tergeva.
Era un grido d'ebbrezza da ogni fibra
dell'esser mio partito nel vederla;
il mio sangue cantava, ed il mio cuore
balzava come l'acqua sotto il vento.

Splendevano le stelle sopra il mare
in compagnia della calante luna,
qualche cane abbaiava, ed io furtivo,
lasciata la mia casa, alla sua porta
lieve bussai tre tocchi e intesi voce
mezzo assonnata replicare: «È lui:
aprigli». E venne la mezzana e aprì
e l'uscio dietro a me richiuse e stette
fermata a guardia sopra il limitare.

Una lucerna fumida pendeva
dalla nera parete, a fare l'ombra
negli angoli più cupa: al rozzo letto,
alle povere coltri m'appressai,
mentre ella mi guardava curiosa.
«Spegni, disse, la fiamma». Io non risposi.
D'un balzo le gettai le coltri all'aria,
ed ella ignuda innanzi a me comparve
e maraviglia mi fermò la voce.
«Spegni», gemette e si coperse gli occhi.
Ma io rimasi ancora fermo, immoto
a contemplarla pure qualche istante,
bellissima, in perfetta fioritura.
Poi spensi, e seco giacqui e dissi meco:
«Come l'umana età presto trapassa!
Tra qualche anno sarà quasi invecchiata:
il suo stento la coprirà di rughe».

==>SEGUE

E godetti terribilmente, come
spinto dall'ansia dell'ora fugace,
incalzato dal passo della morte.



CANTI PERFETTI
(1911)




JOHN KEATS
A UN'URNA GRECA

Amica inviolata della pace,
Del tardo tempo e del silenzio alunna,
Narratrice silvestre che si piace
Di raccontare favole fiorite,
Dolci ad udire più del nostro canto;
Qual leggenda di foglie incoronata
È dalle forme tue qui figurata
Di celesti o mortali, o d'amendue
In Tempe o per le valli dell'Arcadia?
Che uomini e che numi sono questi?
Quali fanciulle repugnanti? E quale
Inseguimento folle? Quale fuga?
Che cembali e zampogne?
Quale selvaggia gioia?

Dolci le melodie sono ad udire,
Ma queste, che non odo, son più dolci;
Date il suono, zampogne,
Or dunque voi di mute melodie,
Non pel mortale orecchio,
Ma per l'anime care!
O bella gioventù, di sotto ai rami
Tralasciare non puoi
Le canzoni gioconde;
E tu, ardito amatore,
Mai non potrai baciare
La gola a cui t'appressi;
Ma non di ciò sentir devi dolore,
Ché non cadrà appassita
La tua beatitudine: vivrai
Amandola così, sempre fiorita.

Rami felici, ché non getterete
Le vostre foglie a terra, e non direte
A Primavera addio!
O musico felice, infaticato,
Che intoni canti eternamente nuovi;
È più felice amore, più felice!
Fervido sempre e pronto alla tua gioia,
Sempre anelante e giovane per sempre;

==>SEGUE

Lontano d'ogni passione umana
Che lascia il cuore sazio ed attristato,
Arsa la fronte ed arida la bocca.

Chi sono questi accorenti al sacrificio?
Misterioso sacerdote, a quale
Adduci verde altare la giovenca,
Che mugghia verso il cielo, incoronata
Per i setosi fianchi di ghirlande?
Qual piccola città lungo le sponde
Di fiume o mare, o quale borgo stretto
Intorno alla sua acròpoli silente,
il popol vuota nella pia mattina?
O piccola città, tacite sempre
Staranno le tue strade, e neppur uno
A dire tornerà che ti desola.

Attica forma! Compostezza bella!
Giovani e verginette sostentate
Solo di bianco marmo;
Tra rami di foresta, erba premuta;
Silenziosa forma! ci tormenti
Come l'eternità, tu, Pastorale
Gelida! Quando il tempo avrà travolto
Questa generazione, resterai,
In mezzo ad altre pene che le nostre,
Sempre amica per l'uomo, a cui tu dici:
«Bellezza e verità sono una cosa».
Questo è quanto sappiamo sulla terra
E questo è tutto che sapere importa.

Da Lamia, Isabella,
The Eve of St. Agnes and other Poems, 1820.








ROBERT BROWNING
ORA

Da tutta la tua vita prendi e dammi
Solo un momento. E tutto il tuo passato
E tutto il tuo futuro
(Così soltanto ignori
E fai perfetto il dono!)
Condensando in un'estasi furente
Che ne arricchisca la perfezione,
Pensiero e sentimento, anima e senso,
Infondi in un momento
Che alla fine mi doni,
Per una volta almeno,
Te intorno me e te sotto di me
E te sopra di me; di me, sicuro
Che, nonostante l'avvenire e il tempo
Di già trascorso, m'ami in un istante
C'ha la profondità della tua vita.
Quanto potrà durare
Quest'attimo di sosta? Ahi, dolce amica,
È un eterno momento esso, e non piú,
Quando tocchiamo il fondo del delirio,
Mentr'ardono le gote
E s'aprono le braccia
E si cercan le labbra
E si cercan le labbra ad occhi chiusi.

Da Asolando, 1889.







A C. SWINBURNE
da ANACTORIA

Fatta s'è amara per l'amore tuo
In me la vita: l'occhio tuo m'acceca.
Le tue trecce mi bruciano, il sospiro
Tuo mi si insinua con un molle suono
Dentro l'anima e il corpo, mi rafforza
Il sangue e fa sovrabbondar le vene.
Non sospirare, non parlare e non
Respirare; ma fa che si consumi
La vita, e pensa: questo non è morte.
Vorrei che il mare entrambe ricoperto
Ci avesse, o, il fuoco (non lo temi certo
Tu che non temi il desiderio mio!)
Consunto avesse a noi le carni e l'ossa,
Lasciando al vento come foglie morte
Le ceneri di entrambe. Io sento il tuo
Sangue contro il mio sangue: e la mia pena
È la tua pena, e il labbro è contro il labbro,
E la vena pare urgere la vena.
Lascia che il frutto prema il frutto e il fiore
S'appoggi al fiore e il seno accenda il seno
Sì che ad un tempo l'una bruci l'altra.


LA PASSEGGIATA

Parla uno scapolo poco intraprendente:

Sempre e ancora aduggiato,
e spasimante di vederne tante,
e di non possederne neppure una!
Guarda le popolane
dalle carni ripiene e l'andatura
salda, senza cappello,
a due a due,
che ridon forte
facendo mostra della dentatura
sana;
le piccole borghesi con quegli occhi
pieni di desideri insoddisfatti,
davanti alle vetrine
dei gioiellieri.
Belle guance rosate
in quei visi sfilati
di signorina,
in quelle guance piene di signora!
Guarda le aristocratiche, più snelle
dei giunchi e delle canne,
con quel corpo così vestito bene,
che pare un ritmo d'onde.
Le passeggere!
E quest'altra che fugge via, al trotto
della pariglia saura,
e ti lascia l'immagine precisa
della bellezza!
e quell'altra che corre più fugace
nella tozza automobile laccata,
e ti lascia l'immagine indistinta
della bellezza!
Ha gli occhi azzurri?
È bruna? è bionda?
Chi lo sa? Sembra bella ed è sparita.
Disperazione!
Tu hai per consolarti
là! quella meretrice che t'ammicca
famelica e malsana.









IL TEMPO NON S'AFFRETTA.....

Quando ti spio sul volto
l'orme della vecchiezza
che ti segna le gote e ti distrugge,
scorrendo pianamente,
tacita come l'ombra sul quadrante,
sospiro e dico: – Il tempo non s'affretta,
ma giunge lentamente. –

Quando ti spio nel cuore
i mucidi grovigli
dei boccioli troncati e dei virgulti
un tempo freschi e aulenti,
lasciati in te dai mille sogni morti,
sospiro e dico: – Il tempo non s'affretta,
ma giunge lentamente. –

E quando nel mio volto e nel mio cuore
guardo i solchi dolenti
che implacabilmente tu riapri,
gettandovi una sterile semenza
d'amore avvelenato,
sospiro e dico: – Il tempo non s'affretta,
ma giunge lentamente! –




SIMILITUDINE

L'anima mia somiglia una palude immonda:
sopra vi piange e geme sempre un gelido vento
qualche filare d'alberi scapitozzato e stento,
percosso dalle folgori, i lati ne circonda.

E le amicizie spente e gli amori appassiti
e i pesanti tesori del destino gravoso
marciscono nel fondo lutulento, melmoso,
di tra il terriccio nero e i fiori imputriditi.

E nulla mai ne turba la pace sepolcrale:
non fremito vi corre, non raggio vi si effonde,
né al pari di stellante ninfea dalle profonde
acque la ricordanza tacitamente sale.




BARCAROLA

Appassire ho visto a sera
molti petali di rosa:
gitta pronto la tua rete
se vuoi colma trarla a riva.
Come l'onda sopra il fiume
passa il tempo e non ritorna!
voga, amore, quando è tempo!
Voga, amore......






I BACI
da Giovanni Secondo










LA BONTÀ DEI BACI

Quando tu mi recingi con le molli
braccia, e premi su me col desioso
volto, ignudi il bel collo e il colmo seno,
lenta agli omeri miei abbandonata,
le tue labbra affigendo sulle mie;
quando provochi e poi rimorsa gemi,
o la tremula lingua pronta vibri,
la mia querela a te suggendo trai,
diffondendo così quel fiato aulente,
molle, ch'è nutrimento mio, Neera,
o bevendoti l'anima che langue
arsa da un indomabile calore,
la ristori con l'aura d'un tuo bacio;
dico allora: Certo è l'Amore un dio
sommo; e niuno lo può mai superare,
tranne te, tranne te, Neera mia!






ALLA BELLEZZA

Chi ti contempla, o splendida Bellezza,
e chi rapito sente alla tua voce
scorrere nelle vene il tuo veloce
fuoco di giovinezza,

se rendere non sa con la parola
un raggio solo della tua gran luce
e alla tristezza il suo pensier conduce
e al lume tuo s'invola,

t'offende, o pura gioia degli sguardi,
o Beatrice di chi intento ascolta:
fonte limpida, tu versi la molta
linfa a chi beva o guardi.




ILIADE

Alto risuona del femineo grido,
dopo l'urlo di guerra, la prostrata
città di Priamo: il corpo inerme guata
d'Ettore ucciso Achille sopra il lido.

Andromaca rinfaccia al dio malfido
la cara giovinezza vedovata,
e piange sulla testa inanellata
dell'orfano Astianatte il dolce nido

della sua patria, preda degli Achei:
l'antica Ecuba presso le risponde;
brutta di polve il vecchio re le chiome.

Ma col dolore dei pensieri miei
il gemito di questi si confonde,
né muta specie, perché muta nome.




LETE

O dolce fiume, dammi tu l'oblio!
è partita per sempre oggi una cara
immagine che amai; spenta è la chiara
lampa del viver mio.

O dolce fiume, voglio in te scordare!
l'onda tua fredda mi renda la pace!
ogni amorosa immagine fallace
voglio dimenticare.

O dolce fiume, chi ti beve ignora
la sua tristezza vigile per sempre:
tu lo rafforzi di sì nuove tempre
che nulla l'addolora.

O dolce fiume, guarda! novamente
l'antico mio dolor s'è ridestato
e gli risplende, fiso nell'agguato,
l'occhio cupo lucente.


VENERE

Sull'ampio grido della guerra umana
e sul riso fiorente del mortale
labbro levata, contro te non vale
la nostra forza, Venere sovrana.

Chi negli occhi t'affisa s'allontana
e batte come forte aquila l'ale
sopra la terra: né mai più l'assale
del tristo mondo la tristezza vana.

Ride, per te, nei mille suoi colori
trasfigurata questa terra breve
sopra cui l'uomo misero cammina:

una sola armonia di tutti i fiori
in un sereno contemplarti beve
chi la sua vita al lume tuo destina.
LUIGI SICILIANI - Canti Pagani e altre poesie classiche





L'OLEANDRO

La campagna ora è tutta arsa. Non soffia
il buon levante o l'umido scirocco
sotto l'azzurro immobile del cielo
sopra le cilestrine onde del mare.
E l'ulivo matura lentamente,
come nei cuori umani la saggezza,
lungo le strade dove galoppando
in mezzo a scabri ciottoli il cavallo
solleva l'acre polvere che imbianca
le già pallide fronde. I campi aprichi,
umidi e verdeggianti nell'inverno,
e in primavera mobili di messi,
ora sono induriti, aridi, pieni
di spaccature: vi cammina avara
in nere file la formica, o salta
la cavalletta stridula. Ma pure
sotto le rupi sgretolate, a cui
fanno sostegno tortili radici,
un rivoletto scorre tra le pietre,
fa lievi gorghi, e piccolo schiumeggia.
E frondeggiano lungo il tortuoso
corso cespugli avvelenati, e in cima
portano un fiore di fiamma, il fiore amaro
che sembra rosa e non odora, e sembra
alloro, ma non cinge alcuna fronte
in premio della sua dura vigilia,
l'oleandro silvestre, il fiore ch'amo,
il rosso fiore dell'aridità.



L'AMORE OLTRE LA MORTE
(1912)






LE FIGURE DEI BACI

Quali a me siano baci graditi di più non so dire:
s'umide son le labbra, umide mi piacciono.

Ma anche agli aridi baci non mancano certo di pregio;
spesso da loro emana, giunge un calore all'ossa.

Anche è bello gli occhi splendenti coprire di baci,
conciliando questa causa dei nostri mali,

o sopra tutte le guance diffonderli o sopra il collo
o per le bianche spalle o per il niveo seno

e con lividi tutte le guance ed il collo segnare
con le nivee spalle con il seno candido,

o con labbra insistenti la tremula lingua succhiare,
per le due bocche unite mescolando l'anime

e finalmente l'una nel corpo dell'altra effondendo,
quando stancato langua il moribondo amore.

Breve e lungo piace e lento e tenace a me il bacio
sia che a me tu, luce, sia che a te io lo doni.

Ma non mi rendere il bacio mai come prima l'ho dato:
scherziamo entrambi sempre in variati modi.

Chi mutando le dolci figure per il primo fallisca
questa con sommessi occhi egli ascolti legge:

che altrettanti baci, da solo, egli dia al vincitore
quanti ne demmo entrambi e negli stessi modi.











PIÙ DEL BACIO

A che m'offri le ardenti tue labbrucce?
No, non voglio baciarti! no, crudele!
sei del marmo più dura tu, Neera.
Tanto in pregio terrò cotesti baci
che non menano a nulla? E sempre in vano,
mentre il rigido nervo dentro pulsa
percotendo le nostre vestimenta,
frusterò l'anelante desiderio
che mi brucia le vene e mi distrugge?
Fuggi? No; deh, rimani! e quegli occhietti
non negarmi e quel labbro porporino!
Sí, baciare ti voglio; molle sei,
quanto piuma di cigno delicata.





PER CONSOLARE L'ANIMA MIA
(1920)


ACQUAFORTE

Passa una fanciulletta. È svelta e piena:
si sente, nel vederla,
che la sua carne deve essere soda,
buona a palparla, buona per segnarla
con i denti, in un morso lungo, a fondo.

E negli uomini in mezzo a cui s'avanza
ribolle la lussuria:
prorompe sconciamente, o si contiene.
E in uno, ecco, è parola
lubrìca, che la investe
di subito rossore,
ed in un altro è desiderio muto
di carezze, represso,
e non detto neppure con lo sguardo;
ma sanguinoso, dentro, sanguinoso.

Ella, sorride; e passa.


MATURITÀ

Donna dai trenta ai quarant'anni: fiore
che s'apre tutto e dà tutto il profumo,
pensando che la morte s'avvicina,
certa ch'è una menzogna ogni altra cosa!

Carne compatta, carne esercitata
nelle carezze, resistente al gioco,
– e insaziata, perché sa che presto
il godimento non sarà che vizio,
e l'amore parrà lampada spenta, –
abile come muscolo di atleta
nell'offrire la presa e nel resistere,
guida maestra d'ogni desiderio.

Paesaggio estivo, visto per un'ora
sola con gli occhi, e non scordato più.



ANACREONTICA MODERNA

Cantarti, Amore? Tu non sei fanciullo
dagli occhi ignari sul cui capo io possa
distendere la mano per solcare
le sue morbide chiome, mentre il viso
scherzosamente mi nasconde in seno,
mentre per gioco sfugge, e poi si volge
e mi tende le braccia e a sé m'avvince
in una stretta tiepida e soave.
Tu non mi piangi disperatamente
più tra le braccia, e poi sollevi il volto,
con improvviso giubilo, ridendo!
Amore, tu sei fatto adolescente;
sei corrotto e viziato. Io non potrei
più cantarti con gioia. Tu non hai
più alcuna purità nei tuoi pensieri:
e non m'offri tu più gigli, ma acanti.

Ti guardo bene in volto. Rassomigli
nel tuo pallore a un ubbriaco ancora
stordito per il vino che ha bevuto
la vigilia nell'orgia fragorosa.
Ilare più non sei; non sei giocondo;
non trascorri sui prati in folle gioia
beandoti del sole e delle foglie,
degli arbusti e dei fiori. Non sorridi,
se scopri qualche strana coccinella,
o se ti s'apre innanzi una vanessa.
Se un frullo d'ali passa tra le fronde,
tu più non alzi gli occhi luminosi.
Hai smarrito l'ingenuità divina
che ti rese sì bello al mio pensiero:
come potrei cantarti, adolescente,
se il bistro già ti segna le palpèbre?











RISPOSTE

Ch'io ricordi quell'ora? quel minuto?
quelle promesse? Non ho cosa alcuna
da ricordare. In pace è il cimitero
e i morti vi riposano tranquilli
sotto le pietre, senza più respiro,
immobili: da tempo! E molti d'essi
già son disfatti, per l'eternità.

Tu li rimpiangi? A che? Nulla più sentono!
E tanti n'ho sepolto! e non ho visto
mai nessuno risorgere. Nessuno.

Soffri? Lo so. Lo sento. È perchè porti
tutti i tuoi morti dentro te: per questo!
Ti gravano; e t'opprimono. Fa cuore.
Fa come ho fatto: seppellisci i morti.




EROTICI
(1921)

FILODEMO
AMORE DI PERDIZIONE

Quante volte a abbracciare Cidílla mi reco, o di giorno,
o verso lei movendo ardimentoso a notte,
che mi taglio la via sopra un precipizio conosco,
e che gioco a dadi sopra il mio stesso capo.
Ma che m'importa? Quando Eros il temerario ci guida
dove egli vuole, l'ombra della paura ignora.

MARCO ARGENTARIO
MELÍSSA

Tutto, Melíssa, fai come ape che godi dei fiori;
bene io lo so; nel cuore, donna, lo porto scritto.
Anche miele distilli dal labbro, se dolce mi baci;
ma, quando vuoi, ferisci con pungiglione iniquo.

RUFINO
INSAZIABILITÀ

Spesso, Fiorella, ho agognato d'averti una notte, d'amore
in florida manìa l'anima ricolmando.
Ora che ignuda d'accanto mi stai con le dolci tue membra,
sonnacchioso io giaccio, vinto dalla fatica.
Anima misera, ch'hai? Risvegliati! non ti stancare!
Invano anelerai questa più-che-fortuna!






DIOSCORIDE
BEATITUDINI

Dori, la clunirosata, avendo io colcato sul letto,
immortale fui tra sempiterni fiori.
Ché, stringendomi ella in mezzo ai suoi piedi stupendi,
di Cipride lo stadio corse senza allentarli.
Languida mi guardava nell'agitarsi, con occhi
foschi, tremolanti come le foglie al vento,
sino a che il bianco seme fu sparso da entrambi; ed allora
con le membra sciolte Dori stancata giacque.

DIONISIO SOFISTA
UN DUBBIO

Rose tu hai, e hai grazia rosata; ma, dimmi, che vendi?
te stessa o le rose? o queste e quelle insieme?

ASCLEPIADE
UN CONSIGLIO SAPIENTE

Verginità risparmi? che giova? alla casa dell'Ade
quando, o fanciulla, giunga, non troverai più amanti
Per i viventi son fatti i doni di Cipride bella;
cenere ed ossa noi, vergine, all'Acheronte.

MELEAGRO
METAMORFOSI

Ospite, se tu vedi Callístion ignuda, dirai
tramutata la doppia lettera siracossia.






POSIDIPPO
LO SPRONE DI LYSÌDICA

Cipri, Lysìdica a te offerse l'equestre suo sprone,
stimolo d'oro ai piedi delle sue belle gambe,
con cui molto il cavallo supino agitò, ma non mai
agilmente trottando s'insanguinò le cosce:
atta pur senza sprone la corsa a fornire: e per questo
l'arma d'oro appese alle tue porte in mezzo.

PAOLO SILENZIARIO
VOLUTTÀ DELLA COLPA

Nascondiamoci i baci e di Cipri la cara fatica
molto contesa, e molto, Ròdope, dilettosa.
Dolce è, celati, sfuggire ai custodi dal vigile sguardo:
hanno i furtivi letti, più dei palesi, miele.

IRENEO REFERENDARIO
LA FELICITÀ

Ròdope orgogliosa, ai dardi di Cipri cedendo,
tu, gettato via l'arrogante orgoglio,
ecco, m'hai preso in braccio su questo tuo letto; ed avvinto
giaccio, né brama alcuna di libertà più sento.
Solo è bene allorquando con l'anima i corpi confusi,
l'onda dell'amore mescono abbondanti.

DIOFANE MIRINEO
DEFINIZIONE D'AMORE

Ladro tre volte può chiamarsi Amore:
non dorme, è violento, fa rapina.
L'ALTARE DEL FAUNO
(1923)



UNA RIFLESSIONE

Misero vario gioco di sorte è la vita dell'uomo
tra povertà e ricchezza sempre vagante incerta:
Quelli che giacciono in basso qual palla rimbalzano in alto;
altri, su dalle nubi, sono gettati all'Ade.

LA FINE

Tutti dalla morte noi siamo insidiati, nutriti
come un porcino armento, senza ragione uccisi.

SOLITUDINE

Voi, piissime Ninfe, che alberi e rupi abitate,
date ad ognuno liete ciò che in silenzio chiede.
Procacciate ristoro all'afflitto, saggezza al dubbiante,
concedete all'amante ch'egli il suo bene trovi;
ché vi diedero i numi quel che negarono all'uomo,
a chi si fida di voi consolazione e aiuto.

UN NEOCLASSICO

Amo la classicità d'un amore ch'è senza confine.
Sono geloso. Ho in odio chi sa latino e greco.
Analizziamo la complessa figura di Luigi Siciliani (Ciro, 1881 - Roma, 1925) ripercorrendo tutto il lungo ed accidentato itinerario della produzione poetica, narrativa e saggistica del poeta e scrittore calabrese, collocato opportunamente tra classicità e decadentismo.
Poeta dalla vena limpida e cristallina, che risentì della sua eccezionale cultura umanistica, amico e ammiratore di Giovanni Pascoli e di Gabriele D'Annunzio, il Siciliani dette alla poesia italiana, nel primo ventennio del Novecento, ben otto volumi di lirica; fu anche discreto romanziere, critico, filologo e squisito traduttore dalle letterature classiche, dall'inglese, dal portoghese. Dopo aver acquisito, mentre era attivo, una certa rinomanza nazionale, ha subito dopo la morte (1925), un costante disconoscimento della sua opera di poeta, di narratore, di saggista, cadendo sempre più nel “Iimbo della dimenticanza”.

Non sono pochi, né di poco conto, gli autori calabresi che operarono tra Otto e Novecento, e che, noti e discussi, nel bene e nel male, negli anni in cui vissero, sono stati, lentamente, quasi in punta di piedi, se non del tutto dimenticati , colpevolmente negletti. Penso all’apporto dato all’attività letteraria non solo calabrese e meridionale, ma nazionale, da operatori culturali come Francesco Acri, Filippo Greco, Domenico Milelli, Diego Vitrioli, Giuseppe Casalinuovo, Antonino Anile, Franco Berardelli, Luigi Siciliani. Sono autori che oggi possono essere rivisitati, se non riscoperti, ‘ con occhio chiaro e con affetto puro ’, per restituirli nella loro effettiva dimensione artistica e culturale, essendo ormai ben lontani dagli umori e dai malumori che li accompagnarono negli anni in cui videro la luce le loro opere ed espletarono il loro ruolo culturale e civile. Non è operazione impossibile, anche se non sempre é facile reperire le loro opere, ferme alla prima data di stampa, e il materiale d’archivio che li riguarda. E impresa che i giovani studiosi, che sono tanti e validi - calabresi e non - incoraggiati dalle istituzioni universitarie e da mecenati lungimiranti, dovrebbero affrontare col rigore storico e ‘scientifico’ che oggi si richiede.
Siciliani é una personalità di difficile definizione come uomo e come letterato. Alla ricerca costante e affannosa di successi nelle lettere e nella politica, lasciata giovanissimo la sua Cirò per proseguire gli studi a Roma nel collegio ‘Nazzareno’, diretto dai Padri Scolopi, di cui era rettore Luigi Pietrobono, si ritrovò tra i rampolli della Roma aristocratica che certamente influirono non poco a rendere ancora più avvertita la sua congenita nobiltà di sangue. In questo senso, non ebbe alcun effetto sulla sua indole inquieta e pungente la parola mite e umanissima del Pietrobono, che lo iniziò agli studi pascoliani, procurandogli anche l’amicizia col poeta di San Mauro, testimoniata dalla fitta corrispondenza e dai non rari incontri. Aristocratico dei sentimenti e della cultura, Siciliani nutrì un disprezzo radicale per il ‘ gran pubblico ’, incapace d’intendere i suoi ideali e la sua poesia, le sue fantasie e le sue speranze politiche e civili di fermo impegno nazionalista. Consapevole della propria superiorità, quasi novello Leopardi ( Le ricordanze, vv. 29-37 ) - senza naturalmente alcuna eco della tragedia interiore del Recanatese —, nell’Avvertenza alla silloge Corona (1907), dichiara di non averla composta per il "gran pubblico": " Io so che questo non capisce la poesia, sia perché non la sente, sia perché non riesce a comprenderne il linguaggio: l ’ammira bensì o la disprezza per posa o per moda ", E’ l’ alter ego Giovanni Francica, esaltandosi nel godimento della solitudine, immerso nel sovrumano silenzio della natura,
Stava per ore e ore, quando era l’estate, a contemplare di giorno il mare e di notte lo stellato con quella indolenza che é propria degli uomini del Mezzogiorno ( ... ), e che " se amava la terra di una passione che alle volte aveva del morboso, non amava affatto i suoi compaesani ( . . . ); chiuso nell’orgoglio del suo sapere li disprezzava tutti."
E quanto meno anacronistico appariva, già ai suoi giorni, il suo ‘ credo ’ politico-culturale, col quale chiude il volume I volti del nemico (1918):
Credo nell’eternità di Roma ( ... ); credo che l’Impero Romano vive immortale (. . .); credo che non esiste civiltà superiore alla latina (. . .); credo che questa guerra europea è la lotta tra le nazioni che hanno accettato i principi della civiltà latina e coloro che li hanno rinnegati ( ... ); credo che Roma ha posto i canoni di una vita etica tra le genti ( ... ); credo che il mondo sia innanzitutto un fenomeno etico ( . . . ); credo che il fatto compiuto non è il fondamento del diritto ( .,. ); spero nella liberta dei popoli ( ... ); spero, in un remoto avvenire, nella liberta di ogni uomo.
"Assillato da un ardente desiderio di gloria ed amareggiato dal mancato riconoscimento, da parte della critica, del valore della sua opera poetica", Siciliani gode a incidere di sè stesso le qualità del ribelle egocentrico, dall’indole indomita e sprezzante, controfigura in miniatura dell’Inimitabile, del D’Annunzio, che lui riteneva "il principe degli Ulissidi”. Ma, come per il Carducci e per il Pascoli, anche il suo amore per il D’Annunzio e più presunto che reale. Anche questi erano autori che leggeva, e interpretava, ad usum delphini, indifferente alla loro complessità, di ciò che effettivamente riuscivano a proiettare, con la loro opera, nel futuro. Al contrario di come voleva apparire, nascondeva, sostanzialmente, un animo tenero e generoso, di un candore che non gli acconsentiva di scernere tra la sincerità e l’ipocrisia espresse dalla galassia di quanti gli corrispondevano, e che, con giudizi ambigui sulla sua opera creativa, si accattivavano la simpatia del pubblicista o del deputato e sottosegretario alle Antichità e Belle Arti. Le eccezioni sono rappresentate, e documentate dagli scambi epistolari, dal Pascoli, dal D’Annunzio, dalla Negri, dal Borgese, sopra tutti da Pietrobono, da Cecchi, da Moretti, da Gozzano, da Sem Benelli.
Non lo abbandonerà mai il ‘male di vivere’, il tarlo della solitudine che trovava il terreno fertile nel disprezzo per il presente nel quale non si ritrovava e non si riconosceva. Ma come poteva comprenderlo con gli occhi sempre volti all’indietro come gli indovini di Dante, lui che, testardamente, ‘ tenne fede ai nostri padri, antichi ’ ( Poesie per ridere: Il Natale di un poeta classico, v. 26 )? La cui ‘aspirazione estrema’ era quella di ‘essere io/ godere di me stesso in libertà’ ( Per consolare l’anima mia: Malinconia metafisica, vv. ll - 12 )? E canta l’inno al solipsismo di evidente matrice dannunziana, senza averne la tempra del D’Annunzio. D’altronde, come scrive il suo lettore più attento, Ennio Bonea, Siciliani rimane “una scontrosa personalità di studioso invaghito, sin dall’adolescenza, della classicità al punto da non riuscire ad intendere la cultura contemporanea che, a sua volta, lo considerò un estraneo". Suggestionato dalla triade Carducci - Pascoli - D’Annunzio per quanto riguarda il culto del mondo classico, per lui gli ‘ismi’ contemporanei, le categorie, sono inutili e dannosi. Comunque, non opportuni ad alcuna corrente letteraria. Incrollabile nel mito dell’antichità, rifiuta di cogliere le urgenze del nuovo che lievitavano il pensiero e l’opera poetica del Pascoli da Myricae (1891) ai Nuovi Poemetti (1904), né gli umori positivi e rinnovatori che fermentavano, ad esempio, la cultura milanese degli anni del suo soggiorno nella città lombarda, tra il 1907 e il 1912, a cominciare da Lucini. Liguori evidenzia, e documenta, i rapporti reciproci di stima e di amicizia con i protagonisti di quei retroterra culturali, da quelli romani a quelli milanesi, all’ambiente della rivista fiorentina ‘ Cronache Letterarie ’, fondata da Vincenzo Morello (Rastignac). Non solo. Malgrado le prese di posizione quasi perentorie del Siciliani rispetto al mondo classico, unico faro di luce per la civiltà umana, Liguori riesce a collocare bene anche la sua opera poetica e narrativa tra ‘classicità’ e ‘decadentismo’. Con una lettura non prevenuta della sua varia ed eterogenea opera poetica, da Sogni pagani (1906) a L’altare del Fauno (1923), Liguori accerta la presenza, sempre originalmente filtrata, mai ecletticamente modulata, non solo di momenti significativi del Carducci, del Pascoli e del D‘Annunzio ‘ scudieri dei classici ’, ma non poche ‘ scintille ’ marinettiane. Quando, poi, riesce ad abbassare la voce e quasi ad ascoltarla dentro di sé, si ritrova fraterno al Gozzano e, più, a Marino Moretti. In tali passaggi, come avverte Liguori, si manifesta "artista moderno, capace di ascoltare il breve respiro del sentimento, il profondo palpito della passione, d’investigare e rappresentare in modo chiaro i turbamenti, le ansie, le gioie e i pianti più segreti dell’ amore”. Ne é esempio emblematico — che la presenza dell’afflato leopardiano di Amore e morte e il ritmo neocrepuscolare di Consolazione del Poema paradisiaco (1891) dannunziano, rendono più gradevole - il sonetto L’ultima donna, compreso nelle Rime della lontananza (1906).
La fonte dell’ispirazione del Siciliani, e che rimane certamente la parte più viva, più fresca, più ‘ moderna ’ del suo canto, è la presenza plastica del ‘ paesaggio ’ fatto ritratto dell’animo, in particolare quello calabrese della sua Cirò e del suo Jonio, come nel compiuto, e accattivante, Idillio della raccolta Corona (1907), anno dell`uscita anche della gozzaniana La via del rifugio. E’ la Calabria maliarda e amara colta "nelle sue bellezze naturali, nei panorami bellissimi e nelle zone aride e deserte". Non e più la Calabria eroica, amata e temuta, della Magna Grecia, cantata nei Sogni pagani (1906), ma l’‘arida nutrix’, la matrigna che “costringe i suoi figli ad allontanarsi e non riesce a soddisfare neppure i bisogni di quelli che restano". A lei intitola la quarta raccolta di versi, recuperando lo stilema oraziano di Carminum , I, XXII, 15. Meritano attenta rilettura le liriche Calabria, Dal Jonio, Falda silvana, Paesaggio silano, e della silloge Per consolare l ’anima mia (1920), Pausa e Invocazione a Pan, nei cui versi torniti "esula dal mondo contemporaneo e si trasferisce idealmente nel mondo classico", e, "nella dimensione pagano - antica", " il suo spirito agitato si acquieta e trova finalmente la sua pace"." In questo suo paradiso perduto rivive miti ed eroi della Magna Grecia, intrisi pur sempre della mai sopita tristezza per bellezze ed ideali che non torneranno più. In tale atmosfera mentale e sentimentale canta, in Sogni pagani (1906), i miti esaltanti di Proserpina che vive e soffre ciò che costituiva il senso della sua vita e che é andato perduto per sempre; di Antigone, nella quale il poeta " rimpiange, con un senso acuto di pessimismo desolato, la bellezza ‘consumata invano’ della bella fanciulla, figlia di Edipo “; di Cassandra, nella quale rivive il dramma della figlia di Priamo, dotata di facoltà profetiche, ma destinata a non essere creduta.
Nei versi ‘ barbari ’ Il ritorno, che chiudono la raccolta Per consolare l’anima mia, uscita nel 1920, quattro anni prima della morte, Siciliani evoca, con teneri accenti, il tempo della fanciullezza, incidendo di sé un ritratto insieme fisico e d’animo: ‘Piccolo, rude, irrequieto (...). Ero un fanciullo rissoso, dai cento tumulti, iracondo’. Fattosi adulto, la sua indole non soltanto non mutò, ma, deluso dagli aventi storici, dagli ideali politici, dal vedersi misconosciuto come poeta, divenne più insofferente e alieno da ogni ritegno. In ciò aveva avuto un maestro nel venerato Pascoli, che, al contrario della sua poetica, che s’ispira al ‘fanciullino’ e al ‘mistero’ che circonda l’universo mondo, nelle lettere a lui indirizzate si scopre di una incredibile acredine. Ad esempio, in una lettera del 16 settembre 1906, da Barga, si riferisce a Prezzolini e a Papini, che non avevano accolto benevolmente Odi e inni (1906), definendoli "due infami beceri fiorentini", "scellerati linguacciuti", "giovani vecchiastri"; e in una, da Bologna, datata; 5 febbraio 1907, giudica Benedetto Croce "goffo e secco giudice togato che applica senz’altro il codice ( ... ). Il male é che il codice lo ha fatto lui!" Siciliani non solo lo segue su quella strada, ma si rivela ancora più astioso non soltanto nei riguardi di Prezzolini, ma di un suo docente, lo storico Julius Beloch. In Canfiteor, articolo apparso ne ‘ Il Nuovo Giornale’ di Firenze del 20 marzo 1911, compreso in Studi e saggi (1913), definisce Prezzolini "l’uomo più petulante e più noioso della nostra letteratura”, "botoletto ringhioso”; Papini, "scimmia feroce" di una "mediocrità animale" e di altrettanta "povertà intellettuale"; Beloch, "ridicolo storico, "uno dei cento e mille rappresentanti della pseudoscienza tedesca per l’asservimento delle altre nazioni”. Giudizi biliosi, che non gli furono mai perdonati, e che scavarono ancora più fieramente il senso della sua solitudine interiore e del suo isolamento sociale, soprattutto come operatore culturale. Persuaso, anche per queste tristi vicissitudini, che la vita e ‘foglia che va col vento, ombra vana/ che si discioglie in pianto al più lieve urto/ dei venti; quando cozzano nel cielo’ ( Per consolare l ’anima mia: Invocazione a Pan, vv. 23-25), poteva lenire la disperata solitudine interiore soltanto la dolcezza del ‘suo cielo nativo’ , la ‘ felicita di ritrovare l’aria/ che aveva respirato fanciullo’ ( Per consolare l’anima mia: Pausa, vv. 4-5 ), la sua ‘culla antica’ ( ivi: Invocazione a Pan, v. 1).
A parte le riserve sulla sua incapacità di cogliere il senso della storia del primo ventennio del ‘900 e le conseguenti ragioni dell’eclettismo delle sue amicizie e inimicizie, letterarie e politiche; le stroncature di Pancrazi, di Lucini, e gli apprezzamenti diplomaticamente prudenti di Cecchi, di Donadoni, della Negri, di Borgese, di Pastonchi, ecc ., che segnano le ragioni della sua scomparsa dalla storia letteraria del nostro Novecento, meritano un’attenta rivisitazione le prose del Giovanni Francica. Il giudizio che rimane, e che, a mio parere, va ripreso e approfondito, e quello di un lettore certo non facile come Renato Serra. Scrisse ne Le lettere (1914): Siciliani ha una certa forza severa, senza sapore letterario vero e proprio; con delle asprezze e delle stonature che meravigliano in un amico dei classici: dei quali tuttavia il beneficio si sente nella semplificazione dello stile, che gli ha permesso di scrivere un romanzo robusto.19 Liguori dedica un intero capitolo alle prose epico – lirico - memorialistiche di Giovanni Francica. Ritengo che sia riuscito a chiarire bene il senso della ‘robustezza’ assegnatale da Renato Serra. "Anche se riesce difficile - scrive Liguori - inquadrarlo pienamente nel filone della narrativa di ascendenza verghiana, rimane sostanzialmente un romanzo di vita provinciale e, come tale, ci offre un quadro realistico della vita sociale calabrese nei primi decenni del Novecento". “Vita sociale" rappresentata efficacemente in tutte le sue sfaccettature, con la scrupolosa descrizione delle più varie e significative manifestazioni individuali e sociali, collettive e private, di usi, tradizioni, costumi , con una tenuta di racconto, nei momenti meno tardoromantici e provinciali, originale e non effimera. La monogralia di Liguori non manca di indagare altri aspetti della molteplice attività letteraria di Luigi Siciliani, finora poco studiati, da quella di scrittore di novelle a quella di traduttore, da quella di saggista e critico letterario a quella di pubblico oratore e conferenziere. Liguori illustra con dovizia di particolari sia le cinque prose narrative, pubblicate nel 1920 sul periodico Racconta novelle, diretto da Enrico Cavacchioli, sia le opere di traduzione dalle letterature amiche ( Poeti Erotici dell’Antologia Palatina, i Baci di Giovanni Secondo) e moderne ( Poeti inglesi moderni, Lettere di una monaca portoghese), ed anche i diversi volumi di critica e di saggistica, come Studi e Saggi (1913) e I volti del nemico (1918), e i Discorsi tenuti dal Siciliani nel periodo in cui ricopriva la carica di sottosegretario alle Belle Arti, dandoci una lettura completa di tutta la produzione letteraria dello scrittore cirotano.
Rileggendo le opere poetiche e letterarie di Luigi Siciliani torna alla memoria, ammonitore, l’epigramma che Marziale dedicò al senatore e console Lucio Sestilio Avito, suo amico e protettore, epigramma che ovrebbe tenere bene a mente ogni serio operatore della penna:
Sunt bona, sunt quaedam mediocria, sunt mala plura
quae legis hic: aliter non fit, Avite, liber.
Occorre, pertanto, individuare quanto di buono c`é nell’opera poetica e narrativa di Luigi Siciliani e rimetterla nel circuito della civiltà letteraria calabrese e nazionale.

Assisi, giugno 2011.
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SOGNI PAGANI (1906)

SGOMENTO

Il tempo fugge, e la speranza è morta.

A una a una ho visto allontanare
ogni bellezza che mi rise agli occhi:
noia, ove guardo, e pianto oggi m'appare.
Sulla mia vita sembra che trabocchi,
quasi la soglia di vecchiezza io tocchi,
un grande fiume che fredde acque porta.

LA BALLATA DEL ROVO

Mi pensi tu, lontana?
mi piange il cuore d'un suo pianto nuovo.

Se tu qui fossi, tutto il mio dolore
vanirebbe leggero,
fiso il mio sguardo agli occhi tuoi fidati:
ma tu soffri lontana il tuo dolore,
ed io qui nulla spero.
I lieti giorni sono dileguati;
crebbe per gli ampi prati,
già coperti di fiori, e punge, il rovo.

L'ISOLA DEI SOGNI

Sparsa è la pace su dai cieli immensi
sopra la terra; il mare
immobile ed azzurro intorno ride
all'incanto magnifico lunare.

Penso un palagio e un'isola lontana
sopra l'acque sperduti,
dove non giunge alcuna voce umana.
Noi soli, stretti e muti,
respiriamo gli odori, che venuti
col soffio d'oltremare
sono: fragranze intorno di rosai
e di sirene un placido cantare.

LA BALLATA DELL'OMBRA

Dolce è la notte, piena
d'ombra, come il mio cuore.

Io ripenso l'antico mio pensiero:
«È inutile la vita.
Mi pare di toccare il buono e il vero;
poi, tenebra infinita.
Sempre così». Ma ardita
non è la mano: ho gioia del dolore.

LE ROSE

Ho tante rose! tante! Volevo di petali bianchi
quest'oggi al tuo venir oh! ricoprirti tutta.

Amo le rose bianche: ripenso il tuo pallido volto,
quando del lor profumo piena è la stanza intorno.

Pendono dalle coppe le tenui odorate corolle;
lento, di tempo in tempo, cade qualche petalo.

E sfioriranno tutte, senza che tu l'abbia viste:
lentamente, solo, io le vedrò sfiorire.

STANCHEZZA


Nulla mi tenta. Io sono un'ombra antica,
sperduta dalla sua patria lontano.
Sulle bighe veloci avrei raccolto
molta polvere olimpica; scotendo
d'un balzo i freni, avrei con un sorriso
evitato la meta antica e salda
cui si fransero i cocchi, e scalpitò
la veemenza dei destrieri alati.
Porto negli occhi il mio destino antico.
Mi cinge il freddo in questa terra vana:
ridi alla morte, se tu m'ami, meco!
VENERE E LE ROSE

Si ravviava le chiome, asciugando i capelli bagnati
Venere un giorno; intorno cantano a lei le Grazie.

Satiri al canto s'affrettan, al canto s'affrettano Ninfe:
dietro le siepi quiete bevono i dolci canti.

Pure qualche impudente osò discoprirsi a Dione;
vede lei mentre molce con dotta mano il volto.

Arrosì pudibonda, le corse il rossore pel viso
e le occupò le gote una grata porpora.

Poi si fuggì tra le rose, si rifugiò tra i rosai;
quivi nascosta molli spira dal volto i crochi.

Mentre respira e sparge i crochi e di porpora splende
la dedalea terra coglie i divini fiati.

Quinci i fiori ne han tratto il loro purpureo colore;
la rosa, prima bianca, ora è fatta porpora.

Queste cogliete, di queste adornatevi, o giovinette;
la rugiada di Pesto splenda a voi tra le chiome:

spargete alla dea le sue rose di primavera e d'estate,
spirino i templi rose, voi respirate rose.


LODE DELL'IPPOPOTAMO

Parla un padre di famiglia:

Essere qualche enorme pachiderma?
Ci pensi tu? Con una pelle dura
donde tornino i colpi di rimbalzo?
Esser felice, anche se non c'è sole;
e camminare lento,
da eccellente poltrone?
Avere gli occhi grandi e diguazzare
nel fiume o nel pantano
con somma indifferenza?
Essere un ippopotamo!

Amano gl'ippopotami?
Sicuro! ma con calma maestosa:
ci vanno adagio e non s'arrischian molto.
Essere un ippopotamo, che gioia!
E quando nasce un ippopotamino
l'ippopotamo padre se la ride:
ci son tanti canneti lungo i fiumi
per farsi un covo! il figlio troverà.

Aver per moglie un'ippopotamessa
ch'è svestita egualmente
in acqua e sulla riva
in casa e fuori,
senza pudori!

Essere un ippopotamo
è la felicità.


L'ANNEGATA

Parla il poeta:

La stanza mortuaria, finalmente!
Star due giorni nel fiume,
benchè sia giugno, è troppo!
Sei grassa, o giovinetta! Che contrasto
con quel vecchio stecchito ch'hai vicino!
Tu dentro l'acqua, l'altro dentro il letto
dell'ospedale, morti,
per posare vicino sui graticci,
qui, finalmente.
Tutto il viso hai chiazzato e sei rigonfia,
non per niente sei stata tanto in guazzo!
Sei bella ancora, per qualche ora, e poi
sarai della putredine, col vecchio.
Vicino alla finestra scorre il fiume
tranquillamente. Non fu certo lui
che t'uccise. Chi fu? Come saperlo?
Sei senza voce.
T'hanno arrestato oggi l'innamorato:
dicono che fu lui che ti sospinse.
C'è chi pensa che tu bevuto avessi,
e sei caduta,
per bere ancora, non più vino, acqua.
Quando il respiro ti veniva meno,
e ti sentivi oppressa, ed annaspavi
in vano con le mani per salvarti,
che pensavi? Vedevi dalla sponda
movere i barcaioli degli asfittici
ad aiutarti?
Oh, non saper nuotare!
Qui sta tutto il problema: galleggiare.
Se tu avessi saputo!
Luigi Siciliani a Milano nel 1913
con la moglie Ermelinda e il figlio Ferdinando
P. B. SHELLEY
ALLA LUNA

Pallida per la stanchezza
Sei tu, che in cielo ascendi e in terra guardi,
Errando in salvatichezza,
Tra stelle d'altro genere non tardi,
E sempre muti, occhio senza gioia,
Ch'oggetto di costanza mai non trova.

Dai Postumous Poems, 1824.


E. A. POE
UN SOGNO IN UN SOGNO

Ricevi questo bacio sulla fronte
E lascia che partendo almeno io dica
Che tu non t'ingannavi nel pensare
Tutte le mie giornate essere un sogno.
Poiché se la speranza è via fuggita,
In un giorno o una notte,
In una visione od in nessuna,
Meno forse per questo essa è fuggita?
Tutto ciò che vediamo e che sembriamo
Sogno in un sogno è solo.
È come s'io mi stia solo al muggito
D'una riva dall'onde tormentata
E stringa nella mano
Grani di bionda arena.
Ahi, quanto pochi! eppure dalle dita
Lentamente sfuggenti nell'abisso,
Mentre ch'io spargo pianto sopra pianto!
Stringere non li posso
D'una più forte stretta,
Dall'onde dispietate
Non salvarne uno solo?
Tutto ciò che vediamo e che sembriamo
Sogno in un sogno è solo?

1849.
1923 - Luigi Siciliani tra Benito Mussolini e Margherita Sarfatti
presenzia a una manifestazione ufficiale
come Sottosegretario delle Belle Arti.
FINE