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Ugo Foscolo     -     Tragedia: TIESTE









































































TRAGEDIA "TIESTE"



Il Tieste è una tragedia composta da Ugo Foscolo probabilmente nel 1795 e revisionata da Melchiorre Cesarotti. Essa venne rappresentata per la prima volta con grande successo al teatro Sant'Angelo di Venezia il 4 gennaio 1797 dalla compagnia di Giuseppe Pellandi. Il testo della tragedia, revisionato e corretto, venne pubblicato nello stesso anno della rappresentazione con una dedica a Vittorio Alfieri e incluso nel X tomo del "Teatro moderno applaudito", una pubblicazione periodica dell'editore Fortunato Stella di Venezia.
La tragedia è composta da versi endecasillabi e divisa in cinque atti rispettando così la tradizione pseudoaristotelica e si svolge nell'arco di una giornata nella reggia di Argo. Al centro della vicenda vi è il drammatico antagonismo del re di Argo, Tieste, e di suo fratello Atreo nei confronti di Erope.


Trama

Atto I
Erope, che ama Tieste ed era gia stata a lui felicemente promessa in sposa, viene costretta dal padre Cleonte a sposare suo fratello, il re Atreo che, a causa della sua invadenza, verrà in seguito mandato a morte. Erope però non è riuscita a vincere la passione per Tieste dal quale ha avuto un bambino, ma Atreo, saputa la cosa e con l'animo pieno di rancore, riesce a sottrarlo alla madre e a consegnarlo ai custodi.
Erope riesce a strappare ai custodi il figlio ma la madre di Atreo e di Tieste, Ippodamia, la convince a consegnarle il bambino con la promessa che lo avrebbe salvato.

Atto II
Intanto Tieste, che era stato mandato in esilio dal fratello, dopo cinque anni ritorna ad Argo spinto dalla falsa notizia che Erope era morta. Giunto ad Argo chiede alla madre di farlo incontrare con Erope. Ippodamia lo nasconde nel tempio dove viene sorpreso da Atreo al quale ella chiede pietà per i due infelici. Il re si dimostra però inesorabile e minaccia di uccidere il bambino che era stato rapito ai custodi.

Atto III
Ippodamia ed Erope convincono Tieste, al quale rivelano la nascita del figlio, a fuggire, ma Atreo sopraggiunge e avendo compreso dal pianto della madre che il fratello è nascosto nella reggia, la fa circondare dai soldati armati.

Atto IV
Erope e Tieste, durante la notte, s'incontrano nel tempio. Tieste vuole uccidere il fratello ma sopraggiunge Atreo che consegna alle guardie i due colpevoli. Ippodamia, saputo quanto successo, accorre ma invano domanda al figlio Atreo qual è la sorte destinata al fratello.

Atto V
Atreo, che è deciso a vendicarsi, chiama al suo cospetto Erope e Tieste il quale dichiara di preferire la morte piuttosto di rinunciare ad Erope. Ippodamia intanto prega disperatamente il crudele figlio di risparmiare Tieste e di avere pietà. Atreo allora finge di esaudirla e abbracciato il fratello gli offre una coppa. Giunta la coppa della riconciliazione, Tieste l'avvicina alle labbra ma si accorge che essa non contiene vino ma il sangue del figlioletto che Atreo ha ucciso e fatto svenare. Allora, in un impeto di dolore e maledicendo il fratello, si uccide. Erope è invasa da tale dolore che cade a terra tramortita.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
TIESTE
Tragedia

Infelix, utcumque ferent ea facta minores;
Vincet amor patriae, laudumque immensa cupido.
(Virg. Aen. Lib. VI).

PERSONAGGI

ATREO  re di Argo

TIESTE  suo fratello

IPPODAMIA  loro madre

EROPE

UN FANCIULLETTO 
figlio di Erope e di Tieste (non parla).

GUARDIE (non parlano)

La scena è in Argo

ATTO PRIMO

SCENA I

Sala reale.

Erope con un Fanciulletto a mano.

Erope -
D'empj rimorsi oggetto, infausto, caro
pegno d'amor, de' miei delitti o negra,
o spaventosa immago!... Oh! vien

abbraciandolo;






pur veggo
in te il conforto mio. Figlio, tu acerbo
finor mi fosti, e forse... Ahi! quanto acerbo
piú mi sarai! -- Ma già su te l'estreme
lagrime spargo. -- O notte, orrida notte
di profanato amor! volgon cinqu'anni,
che ad ogni istante a comparir mi torni
da mie vergogne avvolta; e mi rinfacci
il violato talamo, la fiamma
che accesero le furie, e che m'avvampa
tuttor nel sen, mi rode, e viver fammi
vita d'inferno. O figlio, o di Tieste
sola e trista memoria, io t'amo, e sei
tu di me degno, e dell'infame casa
in cui scorre tuttor sangue di padre.

SCENA II

Ippodamía e detti.

Ippodamía -
Incauta! e a' suoi custodi il fanciulletto
rapire osasti? e del furor d'Atreo
non temi tu? Qui di te vengo in traccia,
qui a ritorti tuo figlio, ed altri atroci
delitti risparmiare a questa reggia
contaminata ahi! troppo.

Erope -
A me dal seno
strappar mio figlio! oh! di Tieste è figlio
questo e di Erope misera: non l'ira
del re tremenda, non di morte l'aspra
minaccia rapiran da disperata
madre l'unico pegno.

Dopo breve silenzio, al Fanciulletto

Ah! vieni al fine:

d'Atreo dalle spietate man ti svelsi,
ma per morir: insiem scorrasi misto
il sangue nostro: a tante stragi queste
s'aggiungan. Nero alto è delitto, il veggo;
ma per noi necessario; ma dai numi
decretato ed accetto. Io... la... tua vita...
all'ombre inferne con la mia consacro.

Impugnando un ferro per uccidere il Fanciulletto

Ippodamía -
(trattenendola) Forsennata! a me il ferro...

Le strappa il ferro e lo ripone

Lutti, colpe
non bastano oggimai? sazia non credi
ancor l'ira del Ciel?

Erope -
Sangue mi grida
il mio rimorso, sangue; e da me il chiede
del padre mio l'ombra tradita. In questa
reggia lo vidi agonizzar: qui 'l nome
proferí di Tieste, e i neri inganni
svela d'Atreo. -- Son io men rea? Ti fui,
padre, causa di mali, ed io fui mezzo
d'iniquità: scritta è vendetta in cielo;
e il Ciel sazio non fia, s'io pria non pero.

Ippodamía -
Qual da' tuoi detti feroce traluce
disperazion? Tal non ti vidi io mai.
Misera! e qual colpa n'hai tu? Rapita
del tuo Tïeste dalle braccia, e indotta
dall'irritata ambizïon del padre
a' voleri d'Atreo, non soffocasti
sin da quel giorno astretta a dover sacro
tue prime fiamme?


Erope -
Ahi! di lusinga questi,
di pietà troppa accenti son. Non vedi
a te dinanzi di Tïeste un figlio,
figlio di me, sposa ad Atreo? -- Me lassa! --
È ver, dal dí che Atreo ruppe que' nodi,
ond'ei mi strinse con Tïeste, e truce
all'amor mio rapimmi, e l'infelice
fratel dannò 'n Micene, onde träesse
oscuri giorni abbandonato e solo,
è ver, di morte affanni, iniqui e incerti
serrai contrasti nel mio sen: ma tutta
ubbidïenza al sire, amore, e fede
apparire tentai. -- Che pro? piú ardea
di me Tïeste: di Micene sua,
tu il sai, lasciò l'esiglio: ansio, furente
un giorno, innanzi ch'io giurassi all'ara
qui...

Ippodamía -
Istoria triste a che rinnovi? Solo
quell'istante per lui, per te fatale
per sempre ei fu: dalla gelosa possa
del re fugato, d'ogni bene in bando
vive. Fu il reo Tïeste; e pena ahi! troppa
sottentrò al suo delitto.

Erope -
Al suo!

Ippodamía -
Delitto
n'hai forse tu? Tuo vano schermo apponsi
a colpa?

Erope -
Al suo delitto! Error comune
comun chiede gastigo: a lui piú ch'altro,

ferro oppor io dovea: non debil mano
di debil donna. -- E ben: io lo mertai
il supplizio, a cui corro, e 'l Ciel lo vuole;

Ippodamía -
Ma il figlio tuo? ma un innocente? Oh numi!
Qual è il delitto suo?

Erope -
Di colpa è questo
frutto esecrando, e di colpa è rampogna.
Ma oimè! non tu, figlio, sol io
la cagione, io ne son... Pure morrommi;
e in mezzo al duol te lascerò? Tu vivi,
e ti segue ognor morte: Atreo non spira,
che per sfamar sua rabbia in te: nel scorno
benchè tu nato, mi sei figlio, e merti
quella pietà che per me cerco. Invano
e doni e pianti avrò d'aspri custodi
a' piedi sparso? -- No, s'io ti dischiusi
dalla ferrea prigion, per morir teco
ti schiusi; per morir...

Ippodamía -
A che tant'ira?
Qual n'hai ragion? D'Atreo, gli è ver, tu soffri
dispregio sí, ma non a tal, che tanto
ti spiri eccesso.

Erope -
Ippodamía, nell'alma
udisti mai rimorsi? Empia, abborrita
passion t'agitò mai? Di madre i palpiti
troppo presaghi, che mio figlio un giorno
vedrommi a' piedi strazïar, e senza
poter prestargli aïta? Ah! tu mal provi
quanto mi lania e mi dispera. Oh truce
pena del mio misfatto! Orror succede

a orror: veggo Tïeste egro ramingo
per le terre non sue, squallido, solo
gir strascinando una vita languente,
de' suoi rimorsi preda: ora l'ascolto
gemebondo invocar Cocito, e 'l giorno
maladir che mi vide: or mi s'affaccia
ombra di morte, e con le mani scarne,
colle livide braccia il crine, il petto
afferrami, distrignemi, e mi grida
All'Averno, All'Averno. -- Ah! sí, ti sieguo,
ombra amata...

Ippodamía -
Che di'? come! tu l'ami
ancor?

Erope -
Io l'amo?... Io lui?... No: quando amai,
sposa non era al re. Misera! Tace
ogni dover, se si rïalza amore
dentro 'l mio petto. -- Or ben; odilo: l'amo;
sí, l'amo: ah non l'amassi, o almen cotanto
non l'abborrissi! chè s'io lo rammento,
l'odio d'Atreo spaventami. Lo scaccio
da' miei pensieri; ei la cagion di tutti
i miei disastri, ei fu: ei mi sorprese:
ei vïolò di suo fratello il sacro
talamo nuzïale... Ah! tutto, tutto
io mi rimembro invano, e invan lo scaccio;
ch'ei qual despota torna, e a' primi ardori,
e ad altre colpe mi sospinge, ed io
fra gli attentati ondeggio e fra i rimorsi.

Ippodamía -
Quanta mi fai pietà! Pur tu dovresti
pietosa esser con me: poichè di grandi
dolor causa mi fosti, e ancor lo sei,
e d'esserlo pur brami? Ancor soppresso,

ancor non hai quell'ardore esecrando,
alta cagion di rancor, di vergogna?
Per te passo miei dí penosi, in grembo
a' sospetti ed affanni.

Erope -
Odiami; degna
sono dell'odio tuo; bersaglio femmi
de' suoi colpi il destino; odiami; io vivo
per piú penar; eseguirai mio fato. --
Ma omai viver non posso; i numi, i numi
col cenno lor mi spingono a' misfatti.
Odi, e poi danna i miei trasporti crudi.
Mentre all'orror di notte ululi, gemiti,
e pianti diffondea su le passate
sventure, su mio figlio, e su... Tïeste,
ecco m'odo tuonar d'alto spavento
voce, e di pianto intorno. A che ti stai?
Grida: s'appressa l'ora, e 'l figlio tuo
pasto sarà de' padri suoi. M'arretro:
T'arma, ferisci; vittima innocente
fia cara al cielo; schiverà delitti. --
E voce fu d'un dio: l'udii pur ora
nella gemente stanza rimbombar.

Ippodamía -
D'accesa fantasia, figlia, son vote
larve, che a' sensi tuoi tuo duol presenta
ad angoscia maggior. Ma, e tu lor badi?
Sta in te, le scaccia.

Erope -
Oh! mal t'apponi. E come
che le scacci vuoi tu? Co' miei rimorsi
deggion esse svanir; co' miei rimorsi
mi seguiran perfino entro il sepolcro. --
Pace una volta, pace. -- Io non lo merto
perdon, nè il chieggo: ma perchè d'Atreo

non scoppia il sanguinoso rancor cupo
a giusta pena? A che mi serba? -- Ahi! forse
all'inteso presagio.

Ippodamía -
E che? d'Atreo
qual mai tema n'hai piú?

Erope -
Non è ancor caldo
il ferro, ond'ei sotto amistà mi spense
il genitor? non odi aspre parole
di menzogna e rimbrotto? irati sguardi
non vedi in fiel cospersi?... Obbrobrïoso
ripudio?... atre rattenute minacce?...
il suo cor?... tutto, tutto?

Ippodamía -
I tuoi timori
fanti veder piú che non è. Ma, il credi,
altri oggimai pensier...

Erope -
E quai pensieri,
tranne quei di vendetta? Io non mi lagno
di sue rampogne; giuste son, le fuggo,
ed a tacite lagrime le sconto.
Ma a che di questo misero, di questo
innocente fanciul, figlio, che un giorno
odierà i suoi natali, i giorni in fosca
prigion rinserra? A che mai farne? Il credi:
Ippodamía, fuor che di sangue, Atreo
altro non ha pensier.

Ippodamía -
Madre gli sono,
nè vuoi ch'io lo conosca? A fondo io leggo,
Erope, nel suo cor. T'accerta, ad altro,

che a nuovi eccessi, ei pensa. Il pargoletto
troppo rileva custodire: ei l'ama,
chè di Pelope in lui pur scorre il sangue.
Discaccia alfine i tuoi sospetti, e, il credi:
pur ei saggio previde. In Argo è sparsa
fama, che di Tïeste...

Erope -
E dove mai
non s'udí il mio delitto?

Ippodamía -
Or statti, e m'odi.
Temer del vulgo i detti a un re conviensi,
e cercar di sopirli. Egli l'oggetto
al vulgo cela, onde copra silenzio
lo scorno de' Pelopidi, ed il tempo
ogni memoria ne cancelli. Intanto
questo fanciullo al carcere si renda,
onde d'Atreo l'ancor piaga stillante
non s'inacerbi, e non inferocisca
contro Tïeste, e contro noi.

Erope -
Pen parli.
Ma tu, qual io, sei madre?

Ippodamía -
Oh che di' mai?
Non son io madre? e madre sommi, e sono
preda anch'io di sventura: io vissi, e, lassa!
ahi! troppo vissi, se veder dovea
morti nefande, ed odj ed ire e guerre
nella casa paterna. Io di Enomào
prole infelice, a Pelope consorte,
io madre, e madre di discordi figli,
cui di rabbia nefaria impeto tragge
a sbranarsi fra lor, io sventurata,

qual te, non sono? E soffrirò che sparso
d'innocente nipote il sangue sia?
No, tel giuro, non mai: per questo petto
pria de' il brando passar: vivrà tuo figlio,
sgombra il timor, vivrà. Deh! a me l'affida;
tutta la cura a me ne lascia.

Erope -
-- Or prendi.
Ma... oh dio!... deh... deh mi lascia... Almeno o madre,
seco lui fuggirò... Romita, ancella,
purchè sia con mio figlio... Ah lascia. -- E dove?
Dove tu il condurresti!... Atreo!... di troppo
ti fidi tu... No, no... lungi da questa
reggia di sangue io me n'andrò... Ma il figlio,
il figlio meco, e poi morir. -- Sí... morte
quanto piú cara assai!... morte; sí, morte.

S'abbandona disperata sopra il Fanciulletto.

Ippodamía -
Scena di lutto! Oh! figlia, Erope, al fine
calmati; attendi del tuo fato i cenni:
tal si de' a' sventurati.

Erope -
I cenni e 'l fato
sono di morte, e morte voglio.

Ippodamía -
Indarno
dunque fia ch'io ti prieghi! Il figlio tuo
l'avrai, ti rassicura: ah! soffri ancora
per poco; il rendi a' suoi custodi; Atreo
mal soffrirebbe che degli ordin suoi
si violasse il menomo; di lui
a' piè mi prostrerò; bagnar di pianti
mi vedrai le sue man; preci, scongiuri

per te non fia ch'io mai risparmi; il sire
si piegherà, lo spero; il figlio allora
renderatti spontaneo. -- E, chi sa!... forse,
chi sa! umano ha core; a lui ti mostra
piú sommessa, men trista; i dí tranquilli
rendratti forse dopo dolor tanto. --

Erope -
Sí, l'abbandono a te:

abbandona il Fanciulletto a Ippodamía

d'altri delitti,
se fieno i suoi ed i miei dí cagione,
colpa non io n'avrò, ma tu: lo grido,
e lo protesto a' numi.

Parte.

SCENA III

Ippodamía, il Fanciulletto.

Ippodamía -
E a' numi eterni
questo fanciul, quella misera donna
in cura io porgo. Di terror, di sangue
irrequieti omai gli anni trascorsero
fra queste mura; ed io, madre infelice,
altro non ho che il pianto... Il Ciel non cessa
di punire le colpe: orrida pena
della colpa di Tantalo, tu incalzi,
e piaghe a piaghe aggiungi, e truci a truci
opre. -- Ma alfin temp'è che ceda il giusto
sdegno vendicator: no, tanti affanni
non allettano i numi: in cor mel dice
credula speme, fia che rieda pace.

Parte col Fanciulletto.



ATTO SECONDO

SCENA I

Tïeste.

Tïeste -
Quest'è l'empia magion: io la riveggo
colmo d'ira e terrore... Erope... è spenta;
e tardi io giunsi. -- Qui me forse pianse;
qui forse cadde, e qui spirò... Ma ascolto
rumor: chi giunge mai? Fuggiamlo. È donna.
Fosse mia madre! -- Dessa.

SCENA II

Ippodamía, e detto.

Tïeste -
O madre, madre...

Ippodamía -
Oh!... Tïeste!... se' tu?

Tïeste -
Che fai? di'? vive
Erope?

Ippodamía -
Erope? lassa!

Tïeste -
Basta: intesi.
Erope è morta.

Ippodamía -
No!...


Tïeste -
Vive?

Ippodamía -
Sí, vive;
e...

Tïeste -
Oh gioia! oh mio timor falso! -- Nol credo:
troppa hai di me pietà... spiegami il vero,
madre, ten prego... Non temer...

Ippodamía -
Tel dissi:
Erope vive.

Tïeste - ...
Ma morrà... deh! prima...

Ippodamía -
Vaneggi, figlio, tu?

Tïeste -
Ma tu mel celi:
il so pur troppo, il so. Feroce Atreo
dannolla a morte.

Ippodamía -
Chi tel disse?

Tïeste -
Argivo
uom mel disse a Micene.

Ippodamía -
E falsa nuova
egli ti disse; non è ver: chè Atreo
ciò nemmen sel pensò.


Tïeste -
Pure giurommi. --
Ma non perciò del mio venir mi pento.

Ippodamía -
E qual folle pensier pasci... Tïeste?...
come osasti venir?

Tïeste -
Erope mia
a liberare, od a morir. Or volge
omai il quint'anno, che esule m'aggiro
per le greche contrade, e con mentito
nome traggo i miei giorni; e spargo pianti
dovunque io passo; e di gemiti e strida
empio gli ospiti alberghi. Erope sempre
m'insegue; ed io?... Me misero! Rivolgo
contro il mio petto il ferro; ella s'affaccia,
e lo ritorce, e par mi dica: un solo
avel ci accolga: e l'acciaro di mano
mi strappa, e fugge. -- La söave idea
di rivederla mi trattenne, oh quante
volte sul margo della tomba, in punto
che già volea precipitarmi! Al fine
mendico e oscuro mi ritrassi in Delfo,
vivendo in pianto.

Ippodamía -
In Delfo! O figliuol mio!
E qual Dio ti salvò? Tese t'avea
il re insidie di morte.

Tïeste -
E men'avvidi,
e i duo che d'Argo erano giunti, e tanto
amici al sir di Delfo, io paventai.
Fuggii; giunsi in Micene; indi cacciommi
Pliste cognato al re. Scornato, afflitto,

abbandonato, senza fida e cara
sposa d'amore e affettüosa madre
volli tentar gli estremi... Avea già il piede
volto ver Argo... allor che Agacle argivo
d'Erope sparse l'imminente morte.
E qui venni e qui corsi, Erope mia
a liberare, od a morir.

Ippodamía -
Mal festi:
ch'è in suo proposto Atreo fiero, tremendo,
inesorabil, duro: ira l'avvampa
contro di te: nol disse, è ver; gran tempo
è ch'ei non parla di vendetta; eppure
tremo... Egli cova atri pensier: tu, figlio,
fuggi, se cara è a te la mia, la vita
d'Erope e di te stesso.

Tïeste -
Invan scongiuri:
è omai tutto risolto. Entrar le porte
d'Argo, troppo costava: or sonci, e mai
non fuggirò, se pria meco non viene
Erope --, o se con lei non vommi a morte.
Ma tu mi di': madre mi sei, qual fosti
un giorno a me? tu m'ami? o sei d'Atreo
piú schiava assai che genitrice?... schietta
dillo; non simular: chè non è nuovo
cessar d'amare i sventurati.

Ippodamía -
E il chiedi?
Testimonj gl'iddii, che tanto acerbi
or son con noi, de' miei sospir, del pianto
furon essi dal dí che tu volgesti
infausto il piè dalle paterne case.
S'io ti son madre? Ah! il tuo sospetto estingui,
e in me ravvisa Ippodamía, la mesta,

la sciagurata madre tua. Te chiamo
nelle vegliate notti, e di te piango
con Erope tuttor. Pur e' m'è forza
tremar, se a me veggioti appresso; io scelgo
pianger senza di te, che strazio e morte
vederti. -- Io ti son madre, e le mie cure
siegui. Fuggi di qui: va dove i passi
ed i fati ti portano.

Tïeste -
Tel dissi:
io di qui non m'andrò. D'Atreo alle folte
spade, ed ai sgherri di rëal possanza
petto opporrò magnanimo. M'è sacra
morte pria vendicata, e m'è söave
spirar su gli occhi d'Erope, ed in seno
a te, mia madre. -- Ma qui assai parlammo.
Benchè sott'altre vesti, io temo forte,
che alcun mi scopra: or tu celami, e allora
vedrò che m'ami, e che sei madre in vero.

Ippodamía -
(Numi! che m'inspirate?)

Tïeste -
I tuoi ritardi
esser ponmi funesti: un certo asilo
m'addita, e vien con Erope.

Ippodamía -
O mio figlio!
Deh! lascia questa dolorosa calma
a due donne infelici. Erope appena
teco sorpresa fu, vile ripudio
ebbe dal sire, benchè un dí soltanto
delle nozze mancasse al giuramento.
Altro le avvenne... Ma l'istante e 'l luogo
questi non sono: andiam... Vedi: del tempio

è l'atrio quello: ivi t'ascondi, e sta.
Null'uom vedratti; chè null'uom v'ardisce
di penetrar. Sino a domani i stessi
non vi son sacerdoti; all'alba fuggi.
Ah! se pur sa che ivi tu se', da Atreo
rispettata non fia l'ara de' numi.
Vanne... Se n'esci, sei perduto.

Tïeste -
Madre,
veder Erope almen...

Parte.

SCENA III

Ippodamía.

Ippodamía -
Che sarà mai?
Crudeli figli! Or misera ben veggio
che dura cosa è l'esser madre! -- All'uno
s'io discopro il fratel, benchè ei si finga,
piú non vive Tïeste -- E se... inasprito
l'altro da' mali suoi, potrebbe il brando
contro il fratel... Già parmi orrido scorgere
alto presagio! Qual ne sia l'evento
con mia morte l'aspetto: ed or?... Ma Atreo
viensi, e minaccia. Ah minacciasse indarno?

SCENA IV

Atreo seguito da una Guardia che resta nel fondo, e detta.

Ippodamía -
Figlio, qual nube d'oscuri pensieri
ti siede in fronte! Ah! ti serena omai;

ed una madre, che suoi giorni visse
sí gran tempo infelici, afflitti e rei,
deh! una volta rallegra.

Atreo -
Alte cagioni
pensieroso mi fanno: io cinto e avvolto
sommi da mille ognor: pur sol mi resto.
E se il consiglio mio, se il braccio e 'l petto
mio non oppongon schermo, o madre, il trono
vacillerammi.

Ippodamía -
Infausto è il regno; e infausto
piú, se temuto è il re. Di schiavi e vili
tu se' accerchiato; ognun t'adora, e sorte
t'arride amica. Ma se' pago? Tremi,
diffidi; e a dritto. Traditori, un giorno
ti porranno le mani entro le chiome;
strapperanti il diadema, e riporranlo
ad altri in capo. -- Pur... se d'un fratello
l'amor qui fosse... di temer sí grande
uopo, Atreo, non avresti.

Atreo -
E di qual mai
fratello parli, o donna? Infame stirpe
fatta è la nostra. Or ciò sol pensa, e taci.

Ippodamía -
Tuo sdegno è giusto; e del suo error Tïeste
la pena sconta...

Atreo -
Errore!

Ippodamía -
Alma bollente,

giovane etade, e di vendetta brama
a' delitti strascinano! Rapito
gli hai regno tu, rapita sposa, e in bando
cacciato: or questo a mitigar non basta
delitto forse?

Atreo -
Spaventoso, orrendo,
non piú inteso misfatto, avvi ragione
che mitigar possa giammai?

Ippodamía -
Ben alta
pena portonne, e portane! Ramingo,
abborrito da' suoi, da' rii pensieri
ognor seguito, ei mena gli anni; e forse
per inospite selve e per dirupi,
senza fossa di morte, disperato
di sua man li troncò.

Atreo -
Ben ciò rammento
io pur; e in core di furor tremendo
le vampe spegne mia pietà fraterna:
e tu tel vedi. Ha un lustro, ed io non mai
vendetta volli; eppur potea: svenati
Erope, e il figlio della colpa, a brani
potea vederli, e contentarmi almeno
per qualche istante. -- Ma son io Tïeste? --
Or tu pon modo a femminil lamento,
che mal s'addice a te reïna: offusca
ciò l'onor nostro; e alcun conforto traggi
dal saper ch'egli vive; io te l'attesto;
ei vive: e chi sa forse, all'amor primo
d'Erope fida.

Ippodamía -
Ah! mal conosci il core

di quella donna sventurata. Orrendi
sono suoi mali; e tu n'aggiungi orrendi.
Misera! Tal, tu ben lo sai, non era
dell'imeneo dinanzi i giorni; in lei
sol virtú risplendea: terrore or tutta
l'anima le circonda. Or freme e piange,
or chiama morte e innorridisce. I tanti
rimorsi suoi segno ci dan che nata
a' misfatti non è -- Fato la trasse,
ond'essere infelice.

Atreo -
E come vuoi,
ch'io le ferree del fato leggi rompa?
Per me, felice ella pur sia. Che deggio
far a suo pro? -- Sposa la volli; e sposa
d'altri si fe'. Rinnovellar dovrei
con donna infame incorrisposto amore? --
Tant'io non soffro.

Ippodamía -
E tanto Erope mesta
da te non vuol. Ultima grazia, e sola,
Atreo, ti chiede: il suo misero figlio.

Atreo -
E del fanciullo a te ragione, o madre,
chieder men venni. Le sedotte guardie
(che sotto scure lor pietà scontaro)
pria di morir, agl'infernali Iddij
giuràr che, non ha guari, Erope ansante,
pallida in volto, disperse le chiome,
pregò, pianse, donò. Vinti i custodi,
schiuser le porte alla furente donna.
Or di': questa è la fede? E tanto abusa
di mia pazienza? e si rispettan tanto
i voleri d'Atreo?


Ippodamía -
Piú consigliata
a sua carcere il rese. Oh se sapessi
quanto è il dolor di madre, e com'è dolce
fra le sventure contemplare un figlio!

Atreo -
Se altrui lo celo, ella sel perde?

Ippodamía -
Nulla
di ciò non ode; una parola sola,
gemendo sempre, a mie ragion risponde:
Il figlio!

Atreo -
Guardia, Erope a me.

La Guardia parte.

Secura
faranla in breve i miei consigli, spero;
ove non basti, i miei comandi.

Ippodamía -
Inulte
non vanno in ciel le colpe; e i numi sono
del male, e del ben memori: punirci
a loro spetta. Ah! se a lor pene aggiungi,
che pur son tante, i tuoi gastighi, lassa!
Che fia di quella dolorosa donna? --
Vedila come i suoi passi strascina
pallida, muta; e di sua colpa ha in viso
l'orror.

Atreo -
A sue querele altre piú tristi
deh! non v'aggiunger, madre.


SCENA V

Erope preceduta da una Guardia che resta nel fondo, Atreo, Ippodamía.

Atreo (ad Erope) -
A che mi fuggi?
fuggirti io sol dovrei: cagion non veggo
in me d'orrore, onde ribrezzo tanto
Atreo t'infonda: e tu m'abborri?

Erope -
Abborro
me stessa; abborro di mia vita i giorni
perseguitati. Or che vuoi tu? Qual cura
me, rado, o mai chiamata, or mi ti chiama?
A tutto presta io vengo; ordin di morte
attendo; e a me piú dolce fia, che starmi
al tuo cospetto.

Atreo -
E sí crudel sarommi,
che alla gentile un dí mia sposa, or d'altri,
porger io voglia acerba morte? Eppure
l'avrei dovuto; ma se con Tïeste
comune ho il sangue, non però comuni
ho colpe ed alma.

Erope -
Io ti recai di colpa
dote e di pianto; io le funeree furie
al tuo letto invitai; ti posi in pugno
ferro uccisor del padre mio. -- Tïeste
a torto incolpi; ei non è reo; tu il festi;
e la cagion io sol ne fui: me dunque
danna al supplizio meritato, sola,
me sola.


Atreo -
Audaci nuovi detti ascolto,
donna: dacchè piú non ti vidi, oh come
ratto di colpa la baldanza hai preso!
Ma al tuo signor dinanti stai; raffrena
dunque tuo dire: dall'oprar tuo forse
esser dissimil puote? A garrir teco
qui non ti chiesi: alto si dee rimbrotto
a te, ma il taccio; e mite oprando, mite
teco i' favello; or tu rispondi. In Argo
sai tu chi regna? sai ch'è il regio cenno
santo? sai tu chi sei? -- Taci? ben io
dirollo. Il re son io. Tu... ma che dico
che tu non sappia? Ove apprendesti dunque
te a frapporre a' miei cenni? e il figlio tôrti
contro il divieto mio? Qual mai t'indusse
pensiero a ciò?

Erope -
Tu il chiedi? A ciò m'indusse
pensier di morte... O che dich'io! -- Son madre:
e mia discolpa è questa.

Atreo -
A vera e dritta
madre di prole non orribil, sacra
questa fora discolpa: altra piú forte
ben per te vuolsi a vïolar mie leggi;
leggi di re. -- Pure di te men prende
pietà, quantunque me tiran tu nomi;
ed io, tiranno, ti do pena, e pena
sia mia clemenza, e lo spavento e l'onta,
che hai di te stessa tu. -- Duolmi, che pianto
mi veggia intorno, e che materne m'oda
sonar querele, e ciò pel figlio: io quindi
dareilo pronto, ove temprar potessi
cotanta angoscia, e del regale nome
assicurar la maestà: ma impresa

è malagevol questa, e non concorda
ragion di stato a imbelle affetto.

Erope -
Pera
tutto, mio figlio: altra non so ragione
intender io.

Ippodamía (ad Atreo) -
Qual tu l'attesti, m'ami?
Or danne pruova, e me conforta, e dona
alla madre il fanciullo.

Atreo -
Mal tu libri
quanto mi chiedi; a pochi ei noto, pochi
sanno del par da qual delitto impuro,
inumano, incredibile egli nacque.
Or perchè vuoi ch'io gliel conceda? In Argo
saria non sol tal scelleragin sparsa,
ma il regno, e Grecia tutta, e l'universo
di tanta reïtà risonerebbe.
E perchè ciò -- T'arrendi, o donna, e pensa
che altre aspettano sorti il figliuol tuo,
tranne quelle d'obbrobrio.

Erope -
Il figlio, il figlio,
Atreo, mi schiudi, e ogni obbrobrio mi siegua. --
Che altro debbo aspettar?

Atreo -
Perduto e infranto
ogni rossor, fama ed onor calpesti.
Non io cosí: se l'abbominio sei
di te stessa e degli altri, a me non lice
seguirti.

Parte seguito dalla Guardia.


Erope -
E sí mi dai quel figlio, o crudo,
che blandamente con pretesti accorti
mi promettevi?

Ippodamía -
Il forte è saggio! Andianne.

Parte con Erope.

ATTO TERZO

SCENA I

Notte. La sala è illuminata da alcune lampade.

Erope, Ippodamía.
Erope -
Ove mi traggi?

Ippodamía -
Or tutto tace: amiche
stan le tenebre su la muta reggia;
vien...

Erope -
Qual mistero!

Ippodamía -
Alta è la notte; alcuno
qui non avvi, che n'oda e che ne scorga;
vien meco.

Erope -
E dove?

Ippodamía -
Ove pietà comune
ei chiama entrambe; or ti fa' forza, e forza

salda, sublime, quanta in cor ti senti:
ed io pur ferma sto; benchè vacilli
mia afflitta debil anima. -- Grand'opra
compir dei tu.

Erope -
Qual opra mi s'addice
non dolorosa! No... lasciami: sacra
è la notte al mio affanno; e questa è notte...
ultima.

Ippodamía -
E stringe il tempo: affretta.

Erope -
È arcano
inesplicabil questo? Ove nol spieghi,
io non ti sieguo; no.

Ippodamía -
Dunque l'intendi,
e ti prepara... Ma... se il sai, fia vano:
meglio il saprai tu stessa.

Erope -
Ippodamía,
libera parla, o mi ritraggo.

Ippodamía -
Ahi pena!
Oh figlio, figlio, a che m'adduci! --

Erope -
Siegui.
Tu di figlio che mormori!

Ippodamía -
Del figlio,

che piú non veggo, i' parlo. Amor di madre!

Erope -
E del mio figlio nulla di' tu? nulla?
Fingasi Atreo, chè mal meco s'infinge.

Ippodamía -
Placati... il duol troppo ti pinge Atreo
perfido... forse...

Erope -
Tu da me il rapisti,
e da te voglio il figlio.

Ippodamía -
Altre feroci
cure tu pasci?

Erope -
Io no: col figliuol mio
feroce? Ah! il fui! donna spietata!

Ippodamía -
Cessa...
Tïeste... Oh stato!

Erope -
-- E se spietato Atreo
sarà piú teco, o figlio?...

Ippodamía -
Omai tant'ira
spenta è dal tempo; cosí spento fosse
di Tïeste l'ardore.

Erope -
E chi mi nomi?
Come tu sai, ch'ei m'ama?... amarmi?... Ei m'odia,
com'io pur l'odio. -- Io l'odio? -- Ah! no: ma taci.

Basti sin qui; non mi turbar nell'alma
gli affetti che sopir tento.

Ippodamía -
Se in Argo?...

Erope -
Oh ciel! Tïeste! E dov'è mai? Che il veggia;
ma per l'ultima volta: ov'è? Ma no...
fugga, deh! fugga: tema Atreo: piú tema
l'orrore ond'io lo miro. -- Ahi che vaneggio?
Di': che dicesti? Non è ver: tu d'altro
parli; ti spiega.

Ippodamía -
Sí, Tïeste è in Argo.

Erope -
O ciel! dove m'ascondo?

Ippodamía -
Ah! se può almeno
in lui tua voce, or tu l'adopra; ei ratto
questo luogo abbandoni.

Erope -
È qui!

Ippodamía -
S'asconde
là nell'atrio del tempio: errar lo vidi
testè là intorno, e fremendo guatava
d'Atreo le soglie. O figliuol mio ritratti,
dissi: Risolsi; ei mi riprese: e il capo
crollò, e partissi, ripetendo il nome
d'Erope. -- Or mira qual su noi sovrasta
periglio, e qual su lui!


Erope -
Ch'altro n'attende
piú che morte? moriam.

Ippodamía -
Figlia, deh! cedi,
e ten prego piangendo: io qui a tant'opra
traëati: or tu la compi: un solo istante
tutto decide; le rëali guardie
vegliano ovunque, e mal sicuro in questo
unico asilo vive; ei fermo giura
di non partir senza vederti; e intanto
passano l'ore e 'l pericolo avanza.
Altro non avvi che condurlo in questa
remota sala: non sperar d'altronde:
credi, non v'ha riparo.

Erope -
Io? -- No... ricuso
di rivederlo; troppo ahimè! in periglio
ei fora allor. -- Chi sa?... No, non vedrollo;
voli subito d'Argo.

Ippodamía -
O tu crudele!
egli è mio figlio; a me salvar tu il puoi,
e da te il chieggio.

Erope -
Del mio cor non basta
lo strazio, o numi!

Ippodamía -
Io... sí, dirogli... Oh dio!

Parte.

Erope -
Io rivedrollo? ei partirà? -- Deh! fugga.


E dove?... Atreo... Tïeste... -- Oh mia smarrita
virtú!

Resta per brevi istanti in silenzio

SCENA II

Ippodamía seguita da Tïeste, Erope.

Tïeste -
Qual vista! Erope mia! La veggo;
al fin la veggo... Erope.

Erope -
Incauto, fuggi
lungi da me.

Tïeste -
Dunque perigli e morte
avrò affrontato, onde da te sí acerbo
guiderdone ottener!

Erope -
E ben, Tïeste,
a che venisti? Se tu a darmi morte
vieni, t'arma, m'uccidi: altro non posso
guiderdone a te dar che la mia vita.

Tïeste -
Io sí morte ti venni a dar, ma morte
a mercarmi con te; teco trascorsi
i dí felici, e teco i piú infelici
trascorrer bramo. Tu se' mia: ti strinse
meco il voler d'Atreo: strinsero i numi
i nostri nodi... E ov'è la mutua fede?
Ove i spontanei giuramenti? Infranse
tutto il livor del re. Sua sposa a torto
da me svelta ti volle. -- Volle! ah! tu
nol fosti mai; no. Frapponeasi un giorno

perchè dinnanzi ai dei saldo t'unisse
esecrabile nodo; io lo prevenni,
e mia fosti per sempre: e pria ch'ei t'abbia,
perderà l'alma. --

Ippodamía -
O core! E qual rivolgi
altr'opra in mente piú sanguigna? Io madre
sonti; ma son del par madre ad Atreo.
Ed osi proferir tu del fratello
lo scempio macchinato? e d'un mio figlio
spargere il sangue? E non paventi in dirlo
una folgor celeste? e non rispetti
quel duol che tu sol mi cagioni?

Tïeste -
Eh, dimmi,
testè non antevidi che il materno
tuo amor non merto? -- Sventurato io sono.

Ippodamía -
Nol merti; no: ma sol le tue sventure
fan ch'io m'acciechi, e che tel renda. -- A tanto
non m'accecan però, ch'io t'abbandoni
al disperato furor tuo.

Erope -
Tïeste,
troppe abbiam noi cagion di lai, di angosce;
nè venirle ad accrescere: ten prego,
non aspreggiarle d'avvantaggio. I casi
del tuo delitto segui, e se infelice
tu se', no, non temer, non invidiarmi:
piú di te lo son io.

Tïeste -
Crudel! non venni
onde tiranneggiar l'alma tua afflitta;

a liberarti io venni; e i numi io chiamo
(se in questa reggia di delitti i numi
presiedono tuttor) che avrei sofferto
mie pene, sol certo foss'io che vivi
in pace almeno.

Erope -
In pace!... Or tu tel vedi.
Ma se a peggior non mi desii, mi lascia;
me lascia in preda al mio dolor; me al giusto
sdegno d'Atreo; me di me stessa all'odio;
me alla difesa di quel figlio...

Tïeste -
Figlio! --
Come? figlio! di chi?

Erope -
Tuo figlio e mio.

Tïeste -
Numi!

Erope -
Non ti stupir. Dall'atra notte
di sventurato amor, poichè fuggisti
dalla possa d'Atreo, grav'ebbi il fianco
d'un frutto piú infelice: ei nacque, e cadde
in man del re, senza che il latte possa
succhiar bambin d'un'odïata madre.

Tïeste -
Ed il feroce Atreo?

Ippodamía -
Sí; ei veglia ancora
su lui; ma che perciò? Cagion non avvi
poi di temer.


Erope -
Ippodamía, scordasti
quel momento terribile, che vide
il figlio pargoletto? Ei fra le braccia
forte serrollo: ei gridò sí, che ancora
nell'alma mi ripiomba il truce grido.
Te, sí, te sol testimone esecrando
dell'onte mie vedrò compiere un giorno
le mie vendette.

Ippodamía -
Alta minaccia in fatto!
Ma riguardar conviensi anco suo tempo.
Che vorrestú? Che egual smania e livore
l'occupi da quel dí! Quattr'anni, o figlia,
quant'han possanza in uom!

Tïeste -
Troppo t'avvolge
amor pel rio fratel: quindi mal vedi
tu i suoi pensier.

Ippodamía -
(Troppo li veggo!)

Erope -
Omai
che piú si sta? Già mie sciagure udisti;
fuggi, e ne godi.

Tïeste -
Cessa al fin tue amare
rampogne, cessa; partirò: ma dimmi:
i giuramenti... m'ami?... ti rimembra?

Erope -
Ciò per te non rileva: or vatti; ad altro
che a tal, pensar tu dei: per te non sommi

io piú, nè tu per me.

Tïeste -
Come! non sei
omai quella di pria?

Erope -
Debile e vile
rimorsi non sentia, quali nel petto
sento; era allora da profana ingombra
fiamma; da orrore or son. Tïeste, è questa
la differenza. Addio.

In atto di partire

Tïeste -
Fermati... il figlio...

Erope -
Il figlio? Atreo sel tien: lo disserrai,
pria che annottasse; e immergere volea...
(l'intendi, e fremi e abborri ed abbandona
questa barbara madre) insanguinarmi...
volea le man nel suo seno innocente...

Dopo un breve silenzio

Ah! fuggi, fuggi, o mi trafiggi. -- Scegli:

Come sopra

frappoco, sí, morrommi, e d'ogni intorno
starotti ombra d'orrore: in mezzo a' cupi
piú deserti recessi io seguirotti.
Là tronca i giorni tuoi, là seppellisci
una trista memoria, e là confina
il vituperio delle genti. -- Ancora
per poco... il figliuol mio; sol quello... e poi...

Come sopra


O mio tenero figlio! O sangue mio!
Te svenato volea... non io, non io;
voleanlo i numi. Misero! tu appena
vedesti il giorno, e sciagurato, e tinto
del delitto materno, in carcer tetra
chiuso mi fosti sempre. Oh! se sapessi
quel che un giorno saprai; se tu sapessi,
come odierai la tua madre infelice
che ti fe' nascer nell'obbrobrio... adesso
morte vorresti... ed io vorrei spirando
raccor l'ultimo tuo fiato innocente. --

A Ippodamía

Deh! perchè tu non mi lasciasti i giorni
e le sciagure al figliuol mio con questa
man mia troncar? Fuor di periglio or ei
fora con me, ch'ei sol trattiemmi il ferro,
che pace a me daria: vedi che avvenne
per tua troppa pietà! Ma invan ten penti.

Tïeste -
Il figlio mio sí, il figlio a me nel seno
deh! perchè a me non dassi? Almeno io possa
baciandolo morir: comun vendetta,
Erope, allora ci farem. -- Con lui,
con lui, e fia da noi tutto sfidato
il furore d'Atreo.

Si trae un ferro

-- Vedi tu questo
ferro di morte? Mentre noi morremo
per nostra man, il dolce figliuol nostro
stringendo insieme, spirerem felici. --
De' delitti che medita colui
non vedrà il fine, no: vedrà piuttosto
l'amor nostro finir nemmen con morte. --
Ma tu non mi negar l'estremo, il solo

che m'avanza conforto: di' se m'ami;
indi mi svena; eccoti il petto, il ferro.

Erope -
Tu il vuoi, mel porgi;

prende il ferro

e da me ascolta al fine
confession di lagrime... Sí, t'amo
con ribrezzo e rancor: de' miei delitti
il piú enorme è l'amarti, e il non poterti
odiar per sempre. -- Ah potess'io, che il voglio,
altrettanto abborrirti... ma non posso.
Quel punto, in cui giuraiti fè, mi torna
ognora in mente, e m'atterrisce... È scritto
nell'averno ogni accento, e nel mio petto
ripetendo si va... Pur... t'amo... io t'amo. --
Ma a che venisti mai? fuggiti, va.

Tïeste -
O infernale voragine, spalancati;
sorgete, furie! Voi mi strascinate
lungi da questa terra: io no, non volgo
orma senza di voi.

Erope (accostando il ferro al petto) -
Vanne, o m'uccido.

Tïeste -
Ti diedi io il ferro... ma... me sol...

Erope -
Che stai?
Vibro...

Come sopra


Tïeste -
Sí, vo.

Ippodamía -
Trattienti; or no, chè incauto
senno fora il fuggir: ferrate stanno
le porte d'Argo: albeggerà; t'andrai,
e ratto piú, e con men rischio.

Tïeste -
E il ferro?...

Erope -
A sant'opra io lo serbo.

Tïeste -
Esule, inerme
fuggirò dunque?

Erope -
E fuggi?

Tïeste -
Il giuro. --

Erope (dandogli il ferro) -
Or l'abbi.

Ippodamía -
T'ascondi intanto in quell'asilo.

Tïeste -
... Addio.

Parte.

SCENA III

Erope, Ippodamía.


Erope -
Ei fugge!...

Ippodamía -
Ahi tutto è pianto!

Erope -
A me non altro
resta, che pianto e morte. Oimè, ch'io sento,
che piú non so resistere... che l'amo. --
E da me intanto il scaccio! -- Iniqua donna,
l'adori ancor?

Ippodamía (osservando) -
Il re s'avanza. Ahi! forse
svelato è tutto... va.

Erope -
T'adopra... esplora.

Parte

Ippodamía -
Terrore solo innanzi stammi, e lutto.
Che fia!

SCENA IV

Atreo, Ippodamía.

Atreo -
Qual cura or qui ti mena, in queste
ore tarde di notte?

Ippodamía -
A pianger venni...
Libera... a pianger: nè delitto è il pianto
credo. -- Ma tu? pur vegli.


Atreo -
Il re non dorme;
s'ei non vegliasse, guai! Disturbatore
suon di pianto qui trassemi.

Ippodamía -
Gemea
da ogni uom qui lungi; e in questa reggia pure
gemer di madre s'interdice.

Atreo -
E sempre
dunque in dolor vedrotti?

Ippodamía -
Orbata madre
puote giammai serena starsi! spetta
a te il temprare il mio dolor, che il puoi.

Atreo -
Tïeste vive, io tel ripeto: e forse
il sai tu pure.

Ippodamía -
Io?... No... tu mel dicesti:
ed io te spero veritier.

Atreo -
T'affida! --
Vanne; trascorsa è mezzanotte; è tempo
che dal tuo duolo ti ristori calma.

Ippodamía parte

SCENA V

Atreo, poi una Guardia.


Atreo -
Vive, non dubitarne; e all'odio mio
l'iniquo vive; e ancor per poco. Trama
col tuo vegliar inusitato e lungo,
tu m'accennasti, o donna: or tuo fia il danno,
mio il pensier di svelarla. --

chiamando

Emmeo

alla Guardia che comparisce

Tu riedi
alle mie sale; Agacle sta: lo scorta
fino al suo ostello; ed alla reggia intorno
spia se innoltra Tïeste: entrato, mai
uscir non possa. Va.

la Guardia parte.

Già tesi tutti
sono i nodi insolubili: ver Argo
volse; il poter di Pliste, e i dotti inganni
d'Agacle destro il trassero. Ch'io d'uopo
abbia pur d'altri a vendicarmi? -- Or giunga
Tïeste, e sia cosí. Vendetta, oh gioia!
piena otterrò; godrò dell'anelato
piacer di sangue: e tremi ognun che offende
d'un re i diritti: chè quai sien, son sacri.

Parte


ATTO QUARTO

SCENA I

Notte. La sala è appena illuminata da un lontano chiarore.

Erope.

Erope -
O Tïeste... Tïeste... ove mi lasci?
Ove tu fuggi? e il misero tuo figlio
come abbandoni? Deh! t'arresta... lassa!
E chi m'intende? -- È notte; cupa, muta,
profonda notte: ancor nell'atrio forse
Tïeste sta... Dove m'innoltro? Infamia
là dentro è, infamia: abbominevol donna
cotanto io sono? Oimè! che amante e madre
del par son io: vano è il rossor; ti sieguo,
t'ubbidisco, Tïeste. -- O vergognosa
esecrabile idea! Notturno, fero
delirio fuggi; va: lascia ch'io torni
al pianto; lascia.

SCENA II

Tïeste, e detta.

Tïeste (inoltrandosi lentamente) -
O notte!

Erope - (Parmi? O voce
suona d'intorno?)

Tïeste -
O notte! io ti consacro
fraterno sangue.


Erope -
(Forsennato! Il passo
qui gli fia tolto).

Tïeste -
Tremo? E pende intanto
su me il brando tirannico. --

Impugna il ferro

Tu ferro
vendicator, liberator, ferisci.

Erope -
Qui sol ferisci.

Tïeste -
O! chi se' tu? Qual voce!...
Erope?...

Erope -
Iniquo!

Accostandosi a Tïeste

Tïeste -
Or tu t'arretra: inciampo
fia questo tuo, che costeratti sangue;
nè altro ci salva, che il delitto. Vanne.

Erope -
Ferma: dove precipiti? Quel ferro
a me, Tïeste, a me.

Tïeste -
L'avrai... fumante. --
Orrido arcano è omai svelato: insidia
di re vil qui mi trasse: ebben se l'abbia
quella, ch'ei vuol, morte.


Erope -
Fraterna morte!
Morte di re!

Tïeste -
Quest'è notte di pianto,
e a noi di morte, o pace. Odi, e abbandona
me al mio furor. -- Come lasciaiti, e all'atrio
tornai del tempio, non veduto vidi
al debil raggio di lontano lume
l'Argivo ripassar, che per Micene
tua morte sparse: e con voce soppressa
a Emneo parlava, e 'l nome di Tïeste
tra il silenzio mi giunse; io quindi volli
seguirli ambo da lungi. -- Qui s'aggira,
chè anzi di me mosse ver Argo, intesi
dire sommessamente. Muti, muti
scesero, e nulla intesi io piú.

Erope -
Sospetto
lieve ti tragge al fratricidio.

Tïeste -
Oh donna!
Mal fermo hai cor: non se' tu madre? Trema.
Fiati tal nome un dí causa perenne
di lagrime, di sangue. Al re, se il vuoi,
me vittima e tuo figlio offri: lo svena
su me già agonizzante: Atreo sul nostro
sangue passeggi, e ci calpesti: è vita
la mia d'orror; nè di me duolmi; duolmi
di te. -- Di te che fia?

Erope -
Non sarò mai,
segua che può, di piú feroci eccessi
complice mai.


Tïeste -
Il reo son io.

Erope -
Che! rea
sareimi io piú, se al tuo t'abbandonassi
rabbïoso attentato; or va: tua morte,
folle, tu tracci, non d'Atreo; l'accerchia
stuol di guardie fedeli, armate tutte
per trucidarti.

Tïeste -
Trucidarmi? M'arma
vendetta il cor: avventerommi; esangue
pel mio braccio cadrà; dispersi allora
que' sgherri suoi, a me, quai sono, schiavi
si prostreran.

Erope -
Nutri tua speme ad agio:
ma a fin per me non giungerà.

Tïeste -
Dicesti?
Ora mi lascia.

Erope -
E quel che promettesti,
è forse ciò? Cosí d'Argo abbandoni
l'infauste mura? Folle me! A' tuoi detti
creder io mai dovea?

Tïeste -
D'abbandonarle
tempo or non è. Piú che a cimento, a certa
morte n'andrei: troppo soffersi; è questo
l'unico istante che da tanto affanno
mi sciolga al fine, ove tu sgombri.


Erope -
Ah! fuggi:
miei gli spasimi sien, miei sien gli affanni,
mie le lagrime, mie; tutto in me sia,
purchè libero tu.

Tïeste -
Nè conoscesti
di qual io t'ami amor? Te in pene, io salvo?
Morire, o teco lagrimar sin morte
resta solo a Tïeste: e questo fia,
se te perder dovrò.

Erope -
T'affidi or tanto,
empio, a tuo core? Chi te allor da eterno
torriati affanno? Pur ch'altro ti manca
fuorchè gustar sangue german? Ma il gusta,
t'abbevera, ti pasci: indi che speri?
Certo non me; che son d'infamie carca,
e troppe son: del talamo d'Atreo
all'inaudito scorno, e chi riparo
porger può mai? non già Tïeste.

Tïeste -
Or quella
non se' tu che giurasti amore e morte?

Erope -
Iniquo! amore a te! Non mai! non altro
che orrore a te. Fuggi da me; tue mani
son parricide; io la tua voce orrenda
odo sonar dentro il mio cor: la voce
dell'empio è questa, e seduttrice voce...
A che ti stai ferocemente immoto?
Non vibri il colpo? vittima, trionfo
pieno sarò del tuo furor: ma colpa
infame, immensa, e di tutte tue colpe


maggior ti fia di tuo fratel la morte. --
Oh! muto tu con torvi occhi mi guati!
Eccoti dunque il petto: il pugnal drizzi,
e in mezzo al cor tutto mel pianta.

Tïeste -
... Taci.
Non vedi tu?

Erope -
Vaneggi?

Tïeste -
-- Ubbidirotti;
ucciderò. --

Erope -
Tu fremi?

Tïeste -
-- Il braccio reggi
tu. --

Erope -
Di morte tu parli? Ebben la bramo;
ma da tue mani: svenami, il ridico,
svenami, e fuggi. -- Gli estremi momenti
non funestar di mia misera vita;
io te l'offro; ella è tua... Sia tutto tuo;
ma va; ch'io non ti vegga.

Tïeste -
Ombra... gigante
qui dinanzi non vedi? Ha fiamma il crine,
sangue negli occhi bolle, e di atro sangue
sprazzi li grondan dalla bocca; mira...
sul mio volto gli slancia. Ella mi tragge
pel braccio -- Vengo, vengo.


Erope -
Oh!

Tïeste -
Vengo, vengo:
sangue chiedi? l'avrai. Quelle grand'orme
che tu stampi di foco... sieguo. -- Oh! lampo!
Oh! tenebre! Oh singhiozzi moribondi!...
Erope.. il vedi? senti tu? -- Ma dove
lo spettro è, che scortavami? Lo voglio,
lascia, seguir. -- Tu, tu, vil, mi trattieni.

Erope -
Quai precipizj!... ove corri? Deh!...

Tïeste -
A tutto:
sia che si vuole; scostati; ho risolto. --

Erope -
Oh Dio! -- Giacchè non vuoi da me tu udire
nulla ragion, le voci ascolta almeno
della pietà: per quel fatale amore,
che ci congiunse, per tuo figlio, all'ira
snaturata pon modo. -- T'amo, il sai,
nè tal compenso rendermi. Di colpe,
d'esecrazioni graverammi a dritto
il mondo teco!... Deh! cessa... deh! fuggi
o mi trafiggi.

Tïeste -
Sí. -- Che fo? -- T'ascolto,
o donna, troppo; moriam tutti, o cada
Atreo.


SCENA III

Atreo di dentro, che poi esce preceduto da Guardie con faci.

Atreo -
Quai grida!

Esce

Tïeste (avventandosi contro Atreo) -
Mori.

Atreo -
Empj! -- Non io;
sol voi morrete. -- S'incateni, o guardie,
lo scellerato.

Le Guardie eseguiscono.

E tu,

ad Erope

non sazia ancora
di tanti eccessi, tel richiami in Argo,
e tal t'appresti? -- Ma fallito è 'l colpo.

Erope -
Son rea; tu il di'.

Atreo -
Stolidamente rei
voi foste entrambi; chè dei re sul capo
vegliano i numi; nè uom v'ha iniquo tanto
ch'Atreo deluder basti.

Tïeste -
E chi può forse
l'uom piú iniquo fra gli uomini, il tiranno,

deluder mai? non io: chè tuo mi festi
con tue lontane invisibili trame,
trame regali insomma. Or via disfoga
l'astio ranchiuso, e solo in me rivolgi
e tue rampogne e 'l tuo furor; costei,
innocente, risparmia. Io solo, io solo
tue pene merto; che sol io qui venni,
sol io furente di pugno strappaile
il da lei tolto ferro, onde lanciarti
inulto a Stige: e omai forse il saresti,
se in costei non avesse argin trovato
il mio proposto.

Atreo -
Or vedi eroe! ti vanta
di tradimento, e del tuo amor: la cara
esca tenta scusar: cosí fors'io
a tant'uopo farei: cosí notturno
assalitor sarei, s'io di fraterna
fede t'amassi, qual tu m'ami. -- Intanto
qual, ond'io deggia da te averne pena,
qual a' tuoi vanti contrappor io posso
vanto sublime? Seduttor non io
della consorte del mio re, non io
fratricida superbo, esule in fame;
non io Tïeste insomma.

Tïeste -
Rapitore
della promessa un dí tenera amante;
usurpator del trono mio; feroce
dell'oscurata mia vita raminga
persecutor, tiranno infine: questi
i vanti son da contrappormi. Io mai,
d'allor che mi svellesti Erope, e in bando
tu mi cacciasti per aver mio regno,
ti fui fratello; nè fraterno amore
io ti promisi: ma fratello sempre

tu mi nomasti, e nimistà frattanto,
odio perenne, m'apprestavi. Il lungo
esilio mio, le mie sventure, e l'alto
terror che ognor mi seguitò, son nulla:
quindi ti vanti, che ti sembran dono
miei tristi dí, che tôr tu non potevi.
Or è l'istante.

Atreo -
Giovanile etade
era la tua, nè adatta al scettro; e mente
quindi non dritta, e non sublime core
male reggeano Calcide. Tu troppo
concedevi alla plebe, e prepotente
troppo a' grandi toglievi. Alla ruina
argin por volli del fraterno regno,
ch'era mio pure; ed argin posi; ch'arte
usai co' grandi, e con la plebe scure.
Ed io fui re. Se a te in natio retaggio
veniva il solio, sotto a te crollava.
Io sol fermo l'eressi; ed io piú fermo
sul trono sto. -- D'Erope il padre, il sommo
sacerdote di Calcide, Cleonte
ti diè la figlia, ed io volealo: incauto
fosti oppressor di suo poter sublime:
e in me affidossi, e la ritolse, e diella
a me, e possanza per regnar mi porse.

Tïeste -
Capo Clëonte in Calcide sorgea
dei pochi potentissimi; calcava
il popol denudato; e di sue spoglie
ei piú feroce divenia. Cotanta
autorità smodata io temprar volli,
re cittadino, e mal mercaimi -- Atreo,
non fui tiranno.


Erope (ad Atreo) -
Ahi! di mio padre ancora
qui fresco è il sangue; ei t'acquistò l'impero,
acciò con sacro giuramento in Argo
tratto, ond'ei nullo si temea periglio,
crudo! a' tuoi piedi spirasse trafitto.

Atreo -
Superbo ei troppo, a me volea rimpetto
porsi, laddove io sol regnava; ei cadde:
ch'ei non sapea che d'assoluto sire
dono è 'l viver de' sudditi. -- E mio dono,
iniquo, era tua vita. Oh! chi mai sfugge
di re sdegnato all'ira? A Rodi, e a Delfo,
di là a Micene tu giugnesti, e fosti
securo sempre, che pietade indegna
per te parlommi; ed io l'intesi, e troppo
l'intesi forse; nè men pento: scritta
era vendetta; e giunse il dí; bench'io
nol desiassi.

Tïeste -
E i tuoi sicari in Delfo,
e Pliste il sire di Micene, e 'l tuo
Agacle fido, non tramavan forse
qui strascinarmi? Chi cacciò superbo
me da Micene? chi mi spinse in Argo
con dotti inganni altri, che Atreo?

Atreo -
S'addice
al core tuo tal tracotanza. A Delfo
io sicari inviai? Metaco e Pleo
ivi ne andar, non per mio cenno: incolpa
te, se Pliste cacciotti; i re medesmi
non danno asilo a tai delitti: e pena
Agacle avranne, che vulgò menzogna
onde macchiar mio nome.


Tïeste -
O come l'arti
del tiranno possiedi! In cor furore,
pace nei detti; comandar misfatti,
e punirne il ministro: e vita e fama
tôr, per rapir sostanze: adoprar fraude,
ove spada non val: pietà con pompa
mostrar, e bever sangue. Oh! ben t'adatti
il regal manto! ei ben ti copre! regna,
chè tiranno sei vero.

Erope - (ad Atreo)
Al fin: qual avvi
ragion qui di garrir? Ambo siam rei,
e tuoi gastighi ambo mertiam; ma cessa
d'amareggiar nostre sventure, e omai
duo miseri sotterra infausti troppo
a questa reggia. Pur, se gl'infelici
mertan qualche pietà, re, il tristo figlio
(e che rileva il modo? è nostro, è nostro)
pria di morir concedi: ei cada, e spiri
su noi, ten priego.

Atreo -
Sí, morrà, felloni;
e pagherete quel desio di stragi,
che sí v'accese: morirà. -- Ma questo
non è ancora l'istante.

A una Guardia

O tu, disgiunti
custodisci costor: d'essi sarammi
tua vita pegno.

La Guardia eseguisce.


SCENA IV

Ippodamía, e detti.

Ippodamía -
Oimè! che avvenne?

Alla Guardia

Arresta,
Emneo. -- Miei figli...

Erope -
Madre!

Atreo (alla Guardia) -
Il re parlotti:
non l'ubbidisci?

Erope -
O madre, il figlio...

Ippodamía -
Numi!

Tïeste -
Atreo, morte.

Parte con Erope, seguito dalla Guardia.

SCENA V

Atreo, Ippodamía, Guardie nel fondo.

Atreo -
Al nuovo dí tremenda
l'avrai. Giocondo il tuo morir mi fia,
poichè assecura il viver mio.


Ippodamía -
Qual volgi
cura feroce?

Atreo -
No; lieve: di morte
punir chi morte dar voleami: dritto
quest'è, che spetta a ogni uom: ma di tal morte...
Di tal... quest'è dritto di re: varrommi.

Ippodamía -
Tïeste?...

Atreo -
Ei regicida.

Ippodamía -
Oh ciel!... vorresti...
punir delitti con maggior delitto.

Atreo -
Altro ve n'ha del suo maggior? -- Sí... forse...
altro ve n'ha: ma non delitto; è santo
anzi il castigo, ed il furor d'un sire.

Ippodamía -
Deh! ti scorda quell'onta.

Atreo -
Onta è di sangue,
e sangue vuolsi, ond'obbliarla.

Parte seguito dalle Guardie


SCENA VI

Ippodamía.

Ippodamía -
Figlio...
pietà, figlio, pietà. -- Passa, nè degna
d'un sol guardo la madre; ahi! che Tïeste
è già perduto -- Figli miei, qual mai
trassevi odio di voi? Perchè nel vostro
sangue lavate le man vostre? Ahi lassa!
Non m'udí già Tïeste; e m'ode or meno
Atreo, quanto piú offeso, piú feroce.
Cadrà Tïeste... Sí! Ben cadrà meco
che mal posso soffrir vista piú rea
d'eccessi: troppe omai già ne soffersi.

Parte.

ATTO QUINTO

SCENA I

Giorno.

Atreo, e una Guardia.

Atreo -
Udisti? Ov'ei s'arrenda, a un cenno, tutto
sia pronto: bada che nulla traspiri:
cingan la sala i tuoi: null'uom qui innoltri:
vanne.

La Guardia parte.

Sempr'arte, e ferro mai? -- Pur lieve
fora adoprarlo, ma dannoso e poco:
e qui grand'arte vuolsi: alle promesse
mescer ira e terrore. -- Ippodamía

viensi piagnente: fia di pro suo pianto:
in tempo giunge.

SCENA II

Ippodamía, Atreo.

Ippodamía (in atto di gettarsi a' piedi di Atreo.)

Atreo -
E perchè, madre? Sorgi.

Ippodamía -
L'ultime voci di tua madre intendi:
se tuo fratello ei non è piú, Tïeste
è figliuol mio; grande è per te sua colpa;
nulla è per me; se tu nol salvi, io vengo
a' piedi tuoi prima spirar: decidi.

Atreo -
Parole parli di furor, di cieca
disperazion; e non t'avvedi quanto
strazio al mio core straziato aggiungi.
Oh! non non foss'ei fratello mio, non fora
misto il mio pianto al sangue suo: -- pur deggio
sopprimer tutto, rammentar ch'io sono
re, cui s'addice castigar delitti.
Placato è mio furor, ma non placato
è della legge il dritto.

Ippodamía -
E chi t'astringe,
chi il tuo poter ti toglie!

Atreo -
Altri, che Atreo,
in Argo avvi signor! -- Pure tremendo
è sino ai re della giustizia il grido.

Chi del sovrano suo tentò la vita,
pera. Cosí tuonan le leggi; ed io
deggio loro ubbidir. Ma a gemer teco
quindi, madre, verrò: tuo cor sommetti,
qual anch'io lo sommetto, al giusto, al sommo
rigor del cielo.

Ippodamía -
Cosí molti e grandi
son gl'infortuni miei, ch'omai ricuso
di sofferirne piú. Tu che tant'hai
coraggio di sommetterti, tuo labbro
a tuo fratel dia morte: io per me, il dissi,
prima perir, poi tanta a' piedi miei
carnificina avvenga: il so, di sangue
hai sete tu, dissetati del mio;
egli tuoi scorni lavi. A che t'arretri?
A me quel brando, a me: sazierott'io
smania tanta di sangue, e piú fia caro
a te, ch'egli è congiunto, ed è di madre.
Ma almen meco svanisca ogni altro orrore
dalla reggia di Pelope: dai numi
chiedesi innocua vittima; la porgo,
o re, in me stessa; se obbliar prometti
di Tïeste le offese e alla dolente
Erope rendi il pargoletto, io m'offro
contenta all'ara degl'Iddii sdegnati.

Atreo -
Madre, a che vuoi tu trarmi? io di tuo sangue
bramoso!... e 'l crederesti? E di Tïeste
forse in me vedi l'esecrabil alma?

Ippodamía -
Rimbrotta sí d'un'infelice madre
l'amor, ma solo di tuo cor feroce
quest'è rimbrotto. Al par di te, nol nego,
l'amo; figli mi siete...


Atreo -
Egli tuo figlio!
Ei che tramò di pur rapirten'uno?

Ippodamía -
Vedi tu questo mio braccio tremante?
Ei vendicava un figlio, ove Tïeste
t'avesse ucciso: ora tu vivi, e regni;
nè egli fia spento anzi di me.

Atreo -
Tïeste
morrà: tu meco viverai regnando.
Fiati piú caro il tuo lungo dolore
diviso meco, che il perpetuo nostro
mortal periglio. Non sarem securi,
fin che il fratello vive.

Ippodamía -
Alta, inumana
crudeltà spiran tuoi tiranni detti!
Io morrò; e ratto; chè pugnale acuto
a tant'uopo mi serbo. Io funestarti
vo' tua vendetta col morir mio prima;
se pur funesta a te sarà mia morte.

In atto di partire.

Atreo -
Or dove corri?

Ippodamía -
Ad abbracciar morendo
il figlio mio. -- Di filial pietade
dà questo segno almeno; unico forse,
ed estremo ei sarà. Sin che la luce
dei dí rifulse, d'Erope e Tïeste
intorno all'atre carceri piangendo,

io tutta notte errai: temea che crudo
tuo manigoldo gl'immolasse entrambi.
Il giorno aprissi, e qui men venni. Indarno
priegai; ciò non rileva: or sol ti prego,
fa' che il carcer si schiuda, ivi concesso
l'entrare a madre sia. Stretta a mio figlio
perdere io voglio l'estremo sospiro.

Atreo -
A pietà tu mi sforzi: a tue materne
lagrime calde chi resister puote?
Qui dunque fia che tu l'abbracci. --

Alla Guardia

Emneo,
a me Tïeste ed Erope.

La Guardia parte.

Ti calma;
ove Tïeste il voglia, io ti prometto...
forse... perdono.

Ippodamía -
Bada, Atreo, che fero
piú della pena il tuo perdon non sia.
Se infami patti tu proponi, infame
vita Tïeste non accetta mai.
Quindi io di te piú temo...

Atreo -
Generoso
fia piú d'Atreo Tïeste?


SCENA III

Erope, Tïeste, accompagnati dalla Guardia che resta nel fondo, Atreo, Ippodamía.

Tïeste (ad Atreo) -
Al fin scegliesti
la piú ria morte? pur qual siasi, cara
per noi sarà, purchè finiam di vita
questi odiosi istanti.

Atreo -
O tu, superbo
disprezzator di morte, abbila, e inulta.
Soldato...

La Guardia s'avanza.

Ippodamía (alla Guardia) -
Empio carnefice, qui il brando;
per questo seno tremante ripassa,
l'immergi su: stretta mi sto a mio figlio,

Abbracciando Tïeste

qui per me solo giungerà a ferirlo.

Tïeste -
Madre, t'arretra; me morir sol lascia.

Ippodamía (ad Atreo) -
Cosí perdoni?

Atreo -
Perdonar misfatti,
mercando oltraggi, io non appresi. -- Udite:
fien brevi i detti, e l'eseguir fia ratto. --
Soldato, va.


La Guardia si ritira nel fondo.

-- Perdonerò: m'è grave
di madre il duolo, e al fratricidio Atreo
non nacque:

a Tïeste

or vedi, in te sta sol; tu scegli
nuovo esilio perpetuo, e pria lo giura
sulla solenne tazza: o per tuo figlio
e per te scegli morte.

Erope -
E per me?...

Atreo -
Vita
qui a te si serba, ove perí tuo padre,
ove spirar del figliuol tuo nel sangue
l'abbominevol amator vedrai. --
E tu, giuri?

Tïeste -
Ti giuro odio, tremendo
oltre l'Averno alto furor ti giuro.

Atreo -
Or tu li giura, ed io li compio.

Ippodamía -
O figli!
fratelli siete; omai cessate. -- Il figlio,
Atreo, mi salva. -- Al figlio mio, Tïeste,
cedi. -- Deh! perdonatevi. La Grecia
dell'opre suona della reggia d'Argo.
Pietà abbiate di me, degli anni miei
cadenti, e avvolti dall'orror, dal scorno,
da rea tristezza: della tomba io miro

l'orlo per me già spalancato... Ah! basti
mia sciagura sin qui, chiuda miei lumi
contaminati da men colpe.

Tïeste -
Cessa:
tiranno preghi, e speri? -- Io senza regno,
e senza fama per la Grecia in bando
andrò mendico? senz'osare altrui
scoprir mio nome? Troppo omai soffersi
questa mia vita; or è ben tempo ch'io,
benchè da scure di fratel, sia posto
in libertà.

Atreo -
Regno tu brami? Or vola
da' miei scortato in Calcide: l'impero
là ti s'appresta, ove lasciar tu voglia
temuti i grandi ed avvilito il vulgo.
Ma giura tu di non por piede in Argo,
nè piú ridomandarmi Erope e il figlio.
Silenzio eterno ambo li copra: al trono
sarieno d'onta e di ruina forse.

Tïeste -
Io re non nacqui; e a questi patti il regno
che tu mi rendi, abborro: e questo abborro
mio viver grave da tanti delitti
contaminato, e da infamia cotanta. --
Pur io ti priego; e per l'amaro frutto,
frutto innocente di profano ardore,
ti priego io sol. -- Lasciarmi i dí non dei,
nè puoi, nè il voglio: in cor d'entrambi avvampa,
e 'l sai ben tu, feroce odio di morte;
nè spento andrà s'uno dei due nol tuffa
del fratello nel sangue: a me non spetta,
ch'io re non sono: pazienza opposi
a tuo furore io sempre; alle tue trame

opposi ferro, e invano. Or tu pon fine
a nostre gare, e all'infelice madre
sol rendi il figlio: de' suoi mali fonte
noi fummo; e fonte di peggior sventura
sarem noi pur? -- Altro non chieggio: e in prezzo
a te gradito ecco mia vita.

Erope -
Indarno
parli, Tïeste. Tu di me per sempre
t'obblia, per sempre. Nel tuo soglio torna;
vivi: a morire qui starommi io sola,
sola io, cagion d'ogni tuo fallo. Il figlio
lasciami in cura. -- O re, mal tu l'ascondi
ad una madre; io veglierò, vivendo
per lui soltanto; e se mel togli, un'ora
non rimarrommi, e 'l seguirò nell'urna. --
E chi, tranne una madre, il tuo divieto
romper potea? Da' tuoi custodi il figlio
strappai: me lassa! Ove celarlo? Un crudo
nume invadeami il cor: divina voce
sentia tonar a me dintorno. -- Mori,
ma pria lo svena. -- E già la man sul capo
stendea del figlio, e già feria... delitto
nerissimo! -- Deh plàcati! deh! schiudi
il pargoletto a una dolente madre;
quindi sarò, qual vuoi, sommessa e lieta
a' tuoi tormenti, ove di piú tu n'abbia.

Atreo -
Tuo figlio! ei crescerà tutto rigonfio
di rabbia tiestèa: di chi pietoso
vita donogli e genitori, al sangue,
allo sterminio anelerà. Puot'ei
forse smentir suo infame nascimento?

Ippodamía -
Tiranno inesorabile! placato

non se' tu ancora? Or che riman? Vuoi forse
con empj eccessi prevenir le colpe? --
Crudele! -- Omai trassi cinqu'anni in pianto,
pace sperando; ma sperar che giova,
se aneli al lutto? Or tu sguaina il brando
e il ruota a cerchio; semiviva, esangue
cadratti a' piedi col fratel la madre.
Ma di': felice tu sarai? No: cruda
necessità di sangue il core irato
t'arderà sempre, e d'uopo fia versarne
a rivi; e piú versato, e piú tu ingordo
ne diverrai; ma regia è l'opra: imprendi
da me tu prima: io tel ridico, alcuno
non preverrammi da te spento.

Atreo -
Donna,
li vedi tu? Sai di qual marchio entrambi
segnaro Atreo? -- Non se' di re tu madre?

Ippodamía -
Io di re moglie e di re figlia e madre
la pena sconto di tai nomi; io quindi
maladetta dal Ciel voi dal mio fianco
trassi stromenti di mie pene, voi
d'orrore insaziabili e di stragi.
Io vi son madre: ecco mio vanto; all'opra
m'unisco orrenda, e furibonda io bramo
vendicativi parricidj. -- Lassa!
Con chi deliro?... Ov'io mi volgo? -- A tutto
deh! t'arrendi, Tïeste: ti scongiura
tua madre... fa' che quest'amplesso, o figlio,
l'estremo... a me non sia.

Tïeste (abbracciando Ippodamía) -
Madre...


Ippodamía -
E un sol mezzo,
Atreo, teco m'avanza: ecco io l'adopro.
Mi prostro, e bagno... tue vesti... di lagrime...
placati...

Atreo (sollevandola) -
Ad opra tu mi spingi, o madre,
funesta forse... Sia che può. -- Tïeste,
abbiti regno, abbiti sposa, e figlio;
ma t'allontana da' miei sguardi: giura
di non tornarti in questa reggia, e turpe
macchia recare, dov'io regno: duro
m'è il fratricidio; ma tua vista assai
è a me piú dura.

Tïeste -
Madre, Erope, figlio,
a che voi mi traëte? Indegno dono
aver da Atreo la vita? E ben söave
fora il rifiuto, ma fatale... io vengo
al giuramento dunque, ove prometta
perdono tu.

Ad Atreo.

Atreo -
Perdono?

Tïeste -
A me fien gravi
tuoi doni, e pena il rimembrar miei scorsi
delitti, e a sdegno mi verrà la vita
poichè rapirla a te tentai; mio core
non avrà pace mai: credi...

Atreo -
Mendaci

parole spargi: io ben fui teco ingiusto;
e ciò mi dolse, e duolmi: ma piú fosti
empio tu meco.

Tïeste -
Qual con me se' stato,
i' nol rammento; tua clemenza tutto
cancella; or odi, io tel confesso; duolo
avrò mortale in rammentarla; acerbo
tu sembreraimi piú: ritogli dunque
ogni tuo dono: ei m'è piú amaro assai
de' tuoi tormenti; o se lasciar tu il vuoi,
perdonami.

Atreo -
Ad un tratto or se' pentito
veracemente!

Tïeste -
E che a te dir poss'io,
che te l'attesti? -- Ben hai scelta vera
vendetta, Atreo, col non svenarmi.

Ippodamía (ad Atreo) -
Ancora
tu non assenti? -- Ed io l'attesto ai numi,
pentito egli è.

Tïeste -
Fratel, ti cedo io tutto:
fratello, io scordo, e ti perdono tutto.
Giovin alma ardentissima a funeste
opre m'addusse; a pentimento vero
or mi ti guida: questo caldo pianto
deh ti sia pegno.

Atreo -
Cupamente finto

non ti cred'io; se veritier non sei,
dorrammi men, che il non avermi arreso
a tuo pregar: io fè ti presto, e dolce
m'è il prestarla a fratello, e dir parole
di pace alfine. Franco parlo: tutti
i miei pensieri eran di morte; immenso
scorno mi festi, ed io rancore immenso
contro di te pascea: pur di fraterno
affetto i moti mi sentia nell'alma;
però talvolta te punir col bando
pareami molto; ma furor sorgea,
e ratta, ferocissima, infernale
io meditava contro te vendetta.
La distolsero i numi, e amor materno
dall'ira mia mi svelse. -- Il so: tiranno
io sembro, e forse il fui: ma chi può saldo
in solio starsi, e non rigarlo in sangue?
Temp'è di calma: or ti racquisto. -- Questo
lavi i delitti nostri. Io ti perdono:
tu m'abbraccia, e perdonami.

S'abbracciano.

Tïeste (dopo un breve silenzio) -
Fratello! --

Ippodamía -
O miei figliuoli! Io pace vidi! Or meno
venga mia vita; io lieta muoio... Ahi quale
nel core palpitante mi funesta
presentimento! -- E fia pur vero! Amici
tornate voi? Fia vero! Ah che in cor tristo
trista è perfin la gioia!

Tïeste -
O mio fratello!
O madre! Erope! figlio!


Erope (ad Atreo) -
Il figliuol mio
tu generoso ora mi schiudi.

Atreo -
Un sacro
innanzi ai numi giuramento stringa
nostri amistà.

Erope -
Mio figlio!

Atreo (alla Guardia) -
Emneo la tazza,
e il fanciulletto.

La Guardia reca una tazza

-- Ecco la tazza: giura.

(a Tïeste)

Erope -
Ov'è mio figlio?

Atreo -
Il figliuol tuo verratti.
Gli augusti giuri non tardar. --

(alla Guardia)

Gli porgi
il nappo; va': guida il fanciul.

La Guardia porge la tazza a Tïeste, e parte.

Tïeste -
Bersaglio
d'aspra sorte io mi sia, qual fui sin ora;

piú che di tomba, di rimorsi eterni
preda io divenga, se sleal del santo
giuramento oserò frangere i nodi.
L'invïolabil tazza ella gli stringa.
In faccia i numi io giuro pace; io ferma
amistà giuro.

Erope -
Il figlio mio...

Tïeste (accostando la tazza alle labbra) -
Che bevo?
Sangue!...

Atreo -
Felloni! è questo il figliuol vostro:

mostrando il sangue, che è sparso in terra

del misfatto godete.

Tïeste -
Un brando, un ferro.

Parte disperatamente.

SCENA IV

Atreo, Erope, Ippodamía.

Ippodamía (corre, e poi s'arresta, guardando dal lato ov'è partito Tïeste) -
Ferma, figlio, deh! ferma. -- O tu, soldato,
non lasciargli quel brando. Ahi! glielo strappa.

Si lancia verso il detto lato.


SCENA V

Atreo, Erope, Tïeste di dentro che poi esce seguito da Ippodamía e da Guardie.

Erope guata stupida il sangue.

Tïeste (di dentro) -
Via, traditori. -- Madre, sgombra... mora
prima il tiranno. -- Ebben, crudeli, io stesso

Comparisce con ferro in mano circondato e incalzato dalle Guardie.

trafiggerommi.

Si ferisce.
Erope guata ancora stupida il sangue.
Tïeste sostenuto da Ippodamía

- Ah... qui mi traggi... Io voglio
mescer mio sangue a quel... del figlio. -- Atreo!...
vista d'orror!... Ch'io morendo... nol veggia...

Erope -
Figlio!

Cade tramortita.

Tïeste -
Erope... madre...

Ippodamía - (sostenendo sempre Tïeste)
O mio Tïeste! --
Ti seguirò.

Tïeste -
Ven... detta!...


Spira fra le braccia d'Ippodamía.

Atreo -
Vendicarvi
vostro è dovere, o numi: io... vendicato...
fulmin di morte sul mio capo attendo.

FINE DELLA TRAGEDIA
L'immagine a destra raffigura l'anfora apula a figure rosse attribuita al Pittore di Dario, 340-330 a.C. (altezza cm. 88,3)

L'anfora, proveniente dalla Puglia, raffigura l'assassinio di Atreo, una figura molto cara alla mitologia greca, figlio di Pelope e di Ippodamia, fratello di Tieste e padre di Agamennone e Menelao.
Atreo e Tieste furono vittime della maledizione caduta sulla loro famiglia, gli Atridi. La maledizione si estese a tutti i discendenti e solo Oreste, nipote di Atreo, riuscì a liberarsene con l'aiuto di Apollo. La scena rappresenta in modo drammatico l'uccisione di Atreo per mano di Egisto, frutto dell'incestuosa unione tra Tieste e la figlia Melopea