a orror: veggo Tïeste egro ramingo
per le terre non sue, squallido, solo
gir strascinando una vita languente,
de' suoi rimorsi preda: ora l'ascolto
gemebondo invocar Cocito, e 'l giorno
maladir che mi vide: or mi s'affaccia
ombra di morte, e con le mani scarne,
colle livide braccia il crine, il petto
afferrami, distrignemi, e mi grida
All'Averno, All'Averno. -- Ah! sí, ti sieguo,
ombra amata...
Ippodamía -
Che di'? come! tu l'ami
ancor?
Erope -
Io l'amo?... Io lui?... No: quando amai,
sposa non era al re. Misera! Tace
ogni dover, se si rïalza amore
dentro 'l mio petto. -- Or ben; odilo: l'amo;
sí, l'amo: ah non l'amassi, o almen cotanto
non l'abborrissi! chè s'io lo rammento,
l'odio d'Atreo spaventami. Lo scaccio
da' miei pensieri; ei la cagion di tutti
i miei disastri, ei fu: ei mi sorprese:
ei vïolò di suo fratello il sacro
talamo nuzïale... Ah! tutto, tutto
io mi rimembro invano, e invan lo scaccio;
ch'ei qual despota torna, e a' primi ardori,
e ad altre colpe mi sospinge, ed io
fra gli attentati ondeggio e fra i rimorsi.
Ippodamía -
Quanta mi fai pietà! Pur tu dovresti
pietosa esser con me: poichè di grandi
dolor causa mi fosti, e ancor lo sei,
e d'esserlo pur brami? Ancor soppresso,