- Franca Faldini
tratto da Vie Nuove aprile 1971
Per quindici anni sono stata la compagna di Antonio de Curtis, più popolarmente noto come Totò. Abbiamo vissuto l'una accanto all'altro con pulizia, con lealtà, con correttezza, in un modo - non esito a dirlo - molto più coniugale di quello di tante coppie unite da un regolare vincolo civile o religioso, anche se sempre siamo stati consci del limite in cui questa nostra unione di fatto poteva urtare la comune opinione pubblica. Non ci siamo sposati perché forse non potevamo farlo? No, lo potevamo benissimo. Antonio aveva ottenuto il divorzio dalla moglie fino dal lontano 1939 in Ungheria, divorzio che era stato pienamente riconosciuto anche in Italia tanto che allo stato civile Totò risultava celibe e la sua ex consorte era potuta convolare nel 1951, un anno circa prima che io conoscessi lui, a nuove nozze. Personalmente non avevo e non ho ancora contratto matrimonio alcuno. Antonio ed io non ci sposammo perché e soprattutto per via della notevole differenza di età che ci separava, non credevamo in un vincolo di carattere contrattuale. Stavamo bene assieme ed era bello sapere che ci si restava perché entrambi lo desideravamo ma che se un giorno uno dei due avesse voluto interrompere questa consuetudine sarebbe stato padrone di farlo senza l'intervento di giudici, legali e carta bollata. E cosi siamo andati avanti fino al 15 aprile del 1967, data in cui la consuetudine si è interrotta per una volontà superiore ed il mio grande compagno è scomparso da questo mondo che, bello o brutto che sia, è pur sempre seccante lasciare.
Di Antonio, della sua vita, è già stato detto tanto. Una infanzia infelice per il peso di una nascita illegittima che per anni lo amareggiò gravandogli come un marchio nella misera casa del rione Sanità di Napoli dove viveva assieme alla madre popolana e alla nonna. Quelli erano tempi molto diversi dagli odierni e una nascita come la sua veniva guardata col sospetto con cui comunemente si visualizza il peccato, seppure di un peccato di amore si trattava. Gli studi presso l'istituto Cimino, dove certo non brillò per diligenza. Le speranze materne, come spesso accade nelle famiglie povere un po' per ambizione ma soprattutto per risolvere dei problemi di puro carattere economico, di vederlo vestire la tonaca da prete o la divisa della marina italiana. Il servizio militare a Pisa, Mussulmano e Livorno. La passione per il teatro che già lo tarlava. Il matrimonio dei suoi (avvenuto alla morte del nonno paterno, un nobile, che vi ci si opponeva) a cui partecipò da adulto con cuore commosso e spirito di critica amaro. E poi la carriera teatrale, iniziata nella più grande umiltà, con notevoli sacrifici ma con la volontà ferrea di arrivare. Allora non c'erano accademie, scuole di recitazione, actor's studio ecc. Si cominciava dal niente, spesso con il capocomico che spiegava agli attori proprio come nella commedia dell'arte il punto esatto in cui avrebbero dovuto entrare in scena e cosa più o meno quel determinato personaggio doveva simbolizzare e ognuno poi si presentava al proscenio e recitava a soggetto. Da questa scuola nacque appunto la facilità con cui Totò inventava di sana pianta sul momento le sue battute, anche quelle più celebri a cui poi la critica attribuiva un tormento di arrovellazioni e di significati. Ma non sarò certo io a parlarvi del Totò maschera, perché non è mio compito farlo. Spetta a chi di professione fa il critico dire il vuoto, secondo me incolmabile, che la sua scomparsa ha fasciato sulla scena teatrale italiana e quanto fa sua mimica, le sue battute all'apparenza superficiali e in effetti profondissime, la sua comicità metafisica abbiano inciso sul costume italiano nell'arco di tempo che va dagli anni trenta agli anni sessanta. Io posso unicamente aggiungere che Totò è stato un grande artista totalmente sprecato dalla nostra produzione nazionale in pellicole e spettacoli di un valore esclusivamente commerciale, che assai spesso si salvavano solo grazie a quei pochi minuti di filmato in cui la sua " unghiata da leone " da interprete di razza graffiava, malgrado la sciatteria di un copione messo assieme alla bell'e meglio o la regia piatta di chi guarda soltanto al miraggio di fare cassetta. Totò è morto senza essere neanche riuscito a realizzare quello che per lui era il sogno della sua vita e che forse, se quella volontà superiore non lo avesse di botto chiamato a sé, avrebbe finalmente concretato, magari un po' tardi ma meglio tardi che mai, sotto la guida di un poeta che si è lasciato attrarre dal mondo della celluloide ma che in quel mondo trasferisce la sua grinta da intellettuale: Pier Paolo Pasolini. Questo sogno era quello di interpretare un film totalmente muto la cui comicità, come ai vecchi tempi, fosse comprensibile, senza necessità di traduzione linguistica, agli spettatori di tutto il mondo. E chi meglio di Totò, del " Mimo di Gomma", come veniva definito nelle locandine dei suoi primi spettacoli, avrebbe potuto interpretarlo?
Ma il mio compagno - e questa è una teoria mia - ebbe la disgrazia di nascere nel nostro paese, splendida terra di sole che è però un po' lenta nel comprendere l'ingegno dei suoi figli i quali, ed i casi si contano a iosa, sono spesso costretti a espatriare per vedersi realizzati in pieno e poi, soltanto allora, vengono capiti nel loro giusto valore anche in patria.
Comunque, questa era una delle spine di Antonio. Che però era malato di quella che potrebbe definirsi una "italianite acuta", malattia di cui non si muore ma di cui non si guarisce, che dopo brevi periodi di permanenza in Francia, in Svizzera o in Spagna - gli unici paesi che visitò - lo spingeva, vittima di incurabili attacchi di nostalgia, a riprecipitarsi in Italia. Era rimasto un tipico esponente della generazione di "partono i bastimenti per terre assai luntane". Non prendeva l'aereo - anzi diceva che lui era ancorato a Icaro. Per quanto lo riguardava quei mostri che sfrecciano in aria non erano neppure stati inventati. E quindi le offerte americane gli suonavano come un distacco sconvolgente. Un giorno gli giunse una specie di petizione degli italo-americani dello Stato di New Vork. Erano decine e decine di migliaia di firme. Lo volevario per una serie di recitals nel Nord America. Il suo commento fu: "Né, ma te lo immagini che lo possa andare al di là del mare?".
- Eduardo
De Filippo
da Paese Sera 1967
Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate di chioschi di acquaioli, più affollate di gente aperta al sorriso allora, quando alle dieci di mattina le attraversavo a passo lesto - avevo quattordici anni - per trovarmi puntuale al teatro Orfeo, un piccolo, tetro, e lurido locale periferico, dove, in un bugigattolo di camerino dalle pareti gonfie di umidità, per fare quattro chiacchiere tra uno spettacolo e l'altro, mi aspettava un mio compagno sedicenne che lavorava là.
Oggi è morto Totò. E io, quattordicenne di nuovo, a passo lento risalgo la via Chiaia, e giù per il Rettifilo, attraverso piazza Ferrovia... Entro per la porta del palcoscenico di quello sporco locale che a me pare bello e sontuoso, raggiungo il camerino, mi siedo e mentre aspetto ascolto a distanza la sua voce, le note della misera orchestrina che lo accompagna e l'uragano di applausi che parte da quella platea esigente e implacabile a ogni gesto, ogni salto, ogni contorsione, ogni ammiccamento del «guitto». Do un'occhiata attorno; il fracchettino verde, striminzito, è lì appeso a un chiodo: accanto c'è quello nero. Quello rosso, glielo vedrò indosso tra poco, quando avrà terminato il suo numero. I ridicoli cappellini... A bacchetta, a tondino... e nero, marrone, e grigio... sono tutti allineati sulla parete di fronte... Manca il tubino: lo vedrò tra poco. Il bastoncino di bambù non c'è: lo avrà portato in scena. E lì, sulla tavoletta del trucco? Cosa c'è in quel pacchetto fatto con la carta di giornale? È la merenda, pane e frittata.
E la miserabile musica continua, e la sua voce diventa via via ansiosa di trasportare altrove quella orchestrina di moltiplicarla. Dal bugigattolo dove mi trovo non mi è dato vederlo lavorare, ma di sentirlo e immaginarlo com'è, come io lo vedo come vorrei che lo vedessero gli altri. Non come una curiosità da teatro, ma come una luce che miracolosamente assume le fattezze di una creatura irreale che ha facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo, e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna sulla Luna da dove è disceso.
Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di entusiasmo di quel pubblico: il numero è finito. Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina, la porticina del bugigattolo viene spinta dall'esterno.
Egli deve aprire e chiudere più volte le palpebre e sbatterle per liberarle dalle gocce di sudore che gli scorrono giù dalla fronte per potermi vedere e riconoscere, e finalmente dirmi: «Edua', stai cca'! » E un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa.
- Peppino
De Filippo
Tratto da Una famiglia difficile,
Marotta, Napoli 1976
Si può dire che lo scopo vero della sua vita sia stato solamente la preoccupazione di mettere in giusta luce le sue origini nobiliari, e penso - naturalmente è una mia riflessione - che la sua positiva vita teatrale, di fronte a questo suo più forte desiderio sia stata, a paragone, quasi nulla. E non sapeva, o non voleva sapere, che la nobiltà originaria della sua grande arte di « comico di teatro» - a mio sincero avviso - era molto, ma molto più importante di un qualsiasi titolo nobiliare. Ma voglio rispettare il suo desiderio.
Ognuno ha i suoi « capricci », ognuno è padrone, se lo può, di far rispettare i propri diritti. Il mio primo incontro con lui risale nientemeno che al 1918 o '19. In quell'epoca Totò lavorava in varietà nei piccoli locali periferici di Napoli: nei periodi estivi girava la provincia. Lo ascoltai la prima volta, mi pare, al piccolo teatro Mercadante di via Foria. Fui attratto da un manifesto che diceva così: Questa sera (a caratteri grandi) il comm. Gustavo De Marco (e sotto a caratteri piccolissimi) imitato da Totò. «Totò» in un numero di imitazione insomma. Gustavo De Marco, macchiettista, contorsionista, trasformista e « Marionetta vivente ». Questa ultima qualità gli proveniva dal fatto che sapeva imitare alla perfezione i movimenti dei « pupi ». Tanto bene ne imitava i gesti che era davvero impressionante e ammirevole vederlo. Ad un certo punto pareva che si snodasse nelle ossa e nella membra, fino ad assumere atteggiamenti «marionettistici », così paradossali da suscitare nel pubblico i più clamorosi consensi. Ad un determinato momento della sua esibizione, quando il ritmo si faceva più frenetico che mai, qualcuno dalla platea o dal loggione, gli gridava: « Asso 'e spade... » (asso di spade). Bene, De Marco si fermava di colpo in tutta la persona assumendo improvvisamente, per quanto possibile, la figura geometrica della carta «asso di spade» che fa parte del « mazzo» di carte da gioco napoletane. Progressivamente, poi, si metteva a girare su se stesso fino a raggiungere un ritmo vertiginoso, tanto da sembrare una trottola.
De Marco era in quei tempi, una «vedette» di primissimo piano artistico che tutte le imprese di « varietà» amavano accaparrarsi. Totò, giovane e bravo imitatore esordiente, si mise ad imitarlo e vi riuscì benissimo. Fisicamente lo rammento benissimo in quel periodo: magro come un chiodo, tutto nervi e ossa, scavato nei lineamenti, gli occhi espressivi ma tanto grandi che quasi sembrava gli uscissero dalle orbite, il mento molto sporgente e buttato tutto da un lato come se avesse ricevuto un pugno bene assestato, i capelli tirati a spazzola lisci, nerissimi e accuratamente impomatati, due folte basette alla « Bonnard » gli ornavano il volto ben rasato e pallido. Affabilissimo di carattere, tutto « bei modi », ricercato nel vestire e... amante delle belle donne. Gli divenni amico quando ci trovammo scritturati assieme al teatro Nuovo di Napoli nella compagnia Molinari, io in qualità di semplice «generico» e lui di «primo attore comico» di un repertorio di riviste e di riduzioni scarpettiane. Passarono alcuni anni, improvvisamente capitò a Totò una grossa fortuna. Gli capitò di potersi scritturare in una delle compagnie di riviste di Achille Maresca e precisamente in quella in cui vi agiva come « prima donna» la bella e brava Angela Ippaviz.
Fu scritturato col ruolo di « comico grottesco» (allora era in uso, nelle compagnie di rivista, anche il ruolo di «comico stilé ») e debuttò nella rivista di Ripp e Bel Ami dal titolo: Madama Follia . Ottenne subito un grande successo. Il Maresca, in verità uno dei più importanti impresari teatrali dell'epoca, lo aveva messo in luce come meritava. In poche parole, a lanciarlo seriamente, nel mondo del grande spettacolo di rivista, fu Achille Maresca e non poteva accadere che così. Uomo di grande intuito e talento teatrale, il Maresca fiutò subito in Totò l'elemento « principe» che gli occorreva per una delle sue formazioni. Il vero titolo di « principe », dunque, potremmo dire che Totò lo ricevette in quella occasione e per merito di Achille Maresca. Da allora Totò ebbe modo di poter passare di successo in successo. In quanto a me, intanto, avevo formato - con mio fratello Eduardo - la « Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo », m'ero messo in un giro di serie preoccupazioni e non mi era più possibile seguire come un tempo la carriera artistica del mio amico e collega. Ci ritrovavamo di tanto in tanto, per caso, quando ci capitava di lavorare sulla stessa « piazza », naturalmente non mancavamo di riabbracciarci. Un breve periodo da trascorrere insieme, molto vicini, lo avemmo durante la seconda guerra mondiale. Ci trovavamo spesso in un caffè di piazza Ungheria in Roma, durante le pause di lavoro forzate che il periodo bellico ci imponeva e spesso si parlava (sommessamente) della incresciosa e tragica situazione politica che si viveva in quei giorni. Eravamo nel 1944, quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l'avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente, non so come, perché e da chi Totò, avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere « prelevati» dai tedeschi e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci. Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica nel rione Parioli. Totò ne venne a conoscenza. In quella bella accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni ma sempre cercando nel mio cervello la ragione vera per cui ero stato costretto a tenermi nascosto. « Forse - pensavo - mi sarò lasciato sfuggire qualche frase pericolosa... ma Totò come ha fatto a sapere? Che gli avranno riferito? Che sia stato Uno scherzo...? ».
Il tempo passava in questa atmosfera di dubbio e sempre impaurito e preoccupatissimo. L'eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio, non mi faceva dormire sonni tranquilli. Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c'era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di « raccomandazione ». Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo « bigliettino ». Su questo era scritto: « Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo « autografo », il mio l'ho già dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala. Antonio ». « Antonio» era semplicemente Totò. Si può immaginare il mio disappunto. Andavo gridando per tutta la casa: « Ma Totò è scemo? Mi vuole fare fucilare? Ma come! Mi fa nascondere e poi va dicendo in giro dove sono nascosto? Ma è pazzo? ». Nondimeno accontentai la ragazza che ridendo ironicamente... se ne andò. In casa si dettero tutti da fare per calmarmi. Avessi avuto Totò nelle mani, in quel momento, lo avrei maltrattato seriamente. Fu tanto il mio « nervoso che decisi di non partecipare alla cena.» Avevo i nervi fino alla cima dei capelli. Ma poi... i pensieri, le preoccupazioni... mi fecero, cambiare idea e... « poscia più che il dolor poté il digiuno . Mi presentai in camera da pranzo e... dovetti subire lo « sfottò di tutti i presenti.»
A guerra finita, tornata la calma e la serenità negli animi di tutti, quando ebbi l'occasione di rivedermi con Totò gli domandai: « Ma Antò? Chi venne a dirti che i tedeschi ci volevano portare al Nord? Fu uno scherzo? Dimmi la verità!» . Rispose: « Uno scherzo? Fossi matto. Tutti gli artisti dovevano essere portati in alta Italia. lo pure. Ringrazia Dio che venni a saperlo da persona sicura ». « E la ragazza - soggiunsi io - quella dell'autografo? ». « Quello sì - rispose lui - quello fu uno scherzo! ». Uno scherzo! Cosa da pazzi. In quell'epoca! Roba da « infarto ». Finalmente, come Dio volle, Roma vide le truppe alleate per le sue antiche vie fino allora tenute sotto il pesante tallone tedesco.
Col passare del tempo i miei incontri con Totò si fecero sempre più rari. Ognuno aveva preso la sua strada. Un giorno dell'inverno del 1956, Totò mi fece sapere che gli avrebbe fatto tanto piacere se avessi accettato di girare un film con lui. Trovai l'offerta interessante e cominciò, così, la serie dei films Totò, Peppino... Io ho amato l' « arte » cinematografica di Totò, l'ho apprezzata, assecondata, e, per quanto ho potuto, in alcuni momenti posso dire di avere sempre cercato di collocarla su di un piano di chiara « umanità », preoccupandomi essenzialmente di fare in modo che insieme l'uno potesse servire all'altro, in perfetta intesa e collaborazione artistica, come due bravi colleghi che si stimano e si rispettano a vicenda. Totò è stato l'unico comico che mi abbia deliziato sinceramente lo spirito. In ogni suo gesto, in ogni suo movimento, in ogni suo atteggiamento, io ci intravedevo quel tanto di « maniera » scoperta e schietta che rasentando la donchisciottesca spavalderia viveva a stretto contatto con il più sfacciato tono pulcinellesco. E questo mi interessava molto e mi piaceva tanto. Posso affermare che tutti i films che abbiamo girato assieme, spesso li abbiamo recitati « a soggetto ». Creati lì per lì, scena per scena, al momento di « girare ». Un « maligno » potrà dire: « ... si capiva benissimo! » e gli si deve dare ragione a mio parere, perché i miei films con Totò peccavano, sopra ogni cosa, « di impreparazione » e si notava, si capiva, gli « intenditori,» lo deploravano e questa fu la ragione per la quale, ad un certo momento, decisi di abbandonare il cinema e dedicarmi, invece, interamente al mio teatro. Mi permetto, molto umilmente, di affermare che, se i miei films con Totò fossero stati « girati» - come io sempre consigliavo - solamente dopo un'attenta e scrupolosa preparazione, l'Italia cinematografica avrebbe potuto vantare, in quanto al genere comico-farsesco, una produzione di ottimo livello artistico, ineguagliabile in casa sua e, forse, fuori. Caro mio amico Totò. Mi diceva sempre di voler recitare in prosa con me. Con me solo, diceva, avrebbe voluto tentarlo.
Ma come era possibile? Che avrebbe guadagnato economicamente, dato che, tartassato dal fisco, più di ogni altra cosa, in fatto di lavoro, doveva mirare solo al guadagno del momento? Infatti, ogni volta che cominciavamo un film, se ne usciva con questa frase: « Basta... sono stufo, Peppì, di questa fatica... altri quindici film e poi... basta: mi ritiro e faccio teatro! ». A volte, ora che non c'è più, mi pare di sentirmelo vicino, come quando insieme si girava un episodio del film La cambiale. In quel periodo il povero Totò quasi non vedeva più ed io ero costretto (Dio sa con quanta tenerezza ed amicizia) a girare le nostre scene portandomelo sottobraccio, accompagnandolo così... naturalmente, senza dare a capire, e lui recitando, mi seguiva fiducioso, tranquillamente nello spazio stabilito nel quale si svolgeva la vicenda.
Una delle volte che mi recai a casa sua, alcuni anni fa, mi espresse il desiderio di venire a visitare la mia villetta sulla Nomentana, e dopo pochi giorni ci riunimmo nella mia casa. Dopo colazione andammo a sorbire una tazzina di caffè in giardino. Ad un certo punto, passeggiando, portò la mano destra sugli occhi e tenendola curva a schermo contro il sole il cui riverbero troppo forte non gli faceva ben distinguere qualcosa che aveva attirato la sua attenzione, fissò un punto e disse: «Che c'è là? ». « È il cimitero dei miei cani », risposi. Si fermò all'istante. Guardò meglio, chiuse ancora meglio la mano sull'occhio destro a guisa di cannocchiale per meglio diaframmare la vista (quel poco di vista che gli era rimasta) e lesse, lentamente decifrando ogni parola, una scritta, composta da me, scolpita su una delle dodici lapidette: « Tanto ti fui fedele o mio padrone / tanto t'ho amato e t'ho voluto bene / che son felice in questa eterna cuccia / come a dormir tra le tue care braccia ». Finito di leggere si girò verso di me e tendendomi le braccia disse: « Damme nu bacio... m'è fatto chiagnere! ». Mi baciò. Ricambiai il gesto senza immaginare che quell'abbraccio caro ed affettuoso tra noi due sarebbe stato l'ultimo.
L'orazione funebre
di Nino Taranto
Amico mio questo non e' un monologo, ma un dialogo perche' sono certo che mi senti e mi rispondi. La tua voce e' nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli che e' venuta a salutarti, a dirti grazie perche' l'hai onorata. Perche' non l'hai dimenticata mai, perchè sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l'avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l'allegria di un'ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico e' qui. Ha voluto che il suo Toto' facesse a Napoli l'ultimo "esaurito" della sua carriera e tu, tu maestro del buonumore, questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Toto', addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori e non ti scordera' mai. Addio amico mio, addio Toto'.
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