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Giacomo Zanella - TRADUZIONI VARIE

































































L'opera poetica e i temi della poesia di Zanella






un trentennio, dal 1860 al 1887. Con queste date si può fissare il periodo della sua maturità poetica, senza però dimenticare i componimenti anteriori a questo periodo che, anche se sono stati per lo più rifusi o rinnovati del tutto posteriormente al 1860, conservano, nella loro prima stesura, elementi e temi non privi di originalità e anticipatori di motivi che saranno poi sviluppati nelle poesie più tarde.

Il tema di Psiche

« O dell'anima umana, a cui fatale
È sovente del ver la conoscenza,
Immagine gentil, Psiche immortale. »
Del 1847 sono le terzine che hanno per titolo Psiche traduzione libera di un'elegia latina di Carlo Bologna, professore nel seminario vicentino e scrittore di prose e poesie latine. Il tema di Psiche è certamente uno di quei temi di lunga tradizione. Lo predilesse l'arte greca e lo trattò per la prima volta Apuleio. Ne fu attratto l'elegiaco Ippolito Pindemonte, vi si ispirò Canova per una delle sue più belle sculture, a Psiche Prati intitolò una Raccolta di sonetti e al mito di Psiche tornerà anche Pascoli.
Zanella, nel discorso Della filologia classica, dirà: "Presso i Greci è rimasto quel vaghisimo traslato di psiche, farfalla, dato all'anima, che infinita nelle sue brame si gitta avidamente sovra tutti i beni e li sfiora, senza mai trovare quaggiù quell'Uno che possa arrestarla nel leggero ed inquieto suo volo".

Il tema della patria nelle poesie del 1848

Del novembre 1848 abbiamo i versi Ad un amico abile suonatore di pianoforte (l'amico è Fedele Lampertico) che è quanto ci resta di quella poesia patriottica e civile composta prima del 1851, anno in cui, il poeta fu costretto, a causa della perquisizione austriaca, a distruggere tutte quelle poesie che potevano in qualche modo destare i sospetti della polizia. La voce dell'ispirazione patriottica è, senza dubbio, nel poeta, una voce minore. Manca, in questa, quella impetuosità, quella forza che possiamo trovare ad esempio in Carducci di Giambi ed Epodi, ma comunque si possono trovare, senza quindi considerarla del tutto e senza scampo poesia negativa, elementi e temi di notevole interesse. La radice prima dell'amor di Patria di Zanella è da ricercare in quella prima educazione classicistica ricevuta nel Seminario Vicentino; precisamente in quel particolare clima in cui venivano favorevolmente accolte le opere di Giordani, di Gioberti, di Mamiani. I versi Ad un amico, maturano proprio in quell'anno 1848, in cui, dopo l'elezione di Pio IX, il Primato del Gioberti andava a ruba, e uomini, come Paolo Mistrorigo, accendevano la gioventù di Vicenza alla guerra contro l'Austria, e Zanella stesso non mancava di tenere, nella Chiesa di S. Caterina, alcune prediche che fremevano di amor di patria. Manca, in questa poesia, furore ed impeto esaltante, e non vi è, in essa, nulla di romantico; tutta una formazione classicistica fa qui la sua prima impegnativa prova a contatto con una realtà nuova e moderna. Nasce la poesia come reazione ad una realtà che sembrava annullare i frutti di tante lotte e di tanti sacrifici e spegnere tante illusioni. Alla realtà il poeta oppone il sogno tentando nei suoi versi un compromesso tra antico e nuovo, pur prevalendo il gusto classico e di nuovo, di romantico veramente, vi è soltanto la materia. Una poetica, dunque, saldamente ancorata ad un gusto e a principi tradizionali, che si apre cautamente ad esperienze nuove.

Il tema della campagna e degli umili nelle prime poesie
Questo compromesso tra antico e nuovo, si delinea negli endecasillabi a Possagno, che sono del 1849, ispirati dalla visita alla patria del Canova. In essi si trova un romanticismo che cerca una misura ideale di equilibrio per costruire il nuovo senza distruggere il vecchio. Il tema della campagna e il tema degli umili, così schiettamente zanelliano, compare per la prima volta in certi versi del 1849 contenuti in una lettera inviata a Fedele Lampertico.
« Grossa, sonante qualche goccia cala;
la colombella si pulisce l'ala
Sui fumaioli e l'anitrella gaia
Impazza starnazzando in mezzo all'aia
Giocondo, il montanaro in sulla porta
Fassi del suo tugurio e si conforta
Rimirando la pioggia che a torrenti
Allegra i boschi e fa fuggir gli armenti. »
Si tratta di un quadretto di estrema semplicità, ma nello stesso tempo di un impressionismo veramente notevole. La colombella e l'anitrella, con quel diminutivo che rende l'immagine più scivolata, si muovono in quell'atmosfera gioiosa creata dal cadere della pioggia in una calda giornata di agosto, con un'immediata evidenza. Il tema della campagna e dell'umile gente sarà ripresa in una poesia del 1851 Per un mio amico parroco nella quale si avverte un ritmo pacato che contribuisce al formarsi di un concreto ambiente poetico, in cui vivono i parchi coloni e i semplici pastori distribuiti lungo quelle strade di campagna che profumano di fiori, in un giorno di festa fra i dolci richiami delle campagne. Lo Zanella dell'Astichello è già tutto qui, in questa capacità di cantare un mondo costituzionalmente religioso, un mondo di povera gente, ma ricco di fede e di speranza.

Il tema della patria nelle poesie dal 1867 al 1870
Gli anni dell'"????" poetica del vicentino coincidono con l'unificazione d'Italia e con i difficili inizi della vita del nuovo Stato ed è esaminando le sue poesie patriottiche che veniamo a conoscenza di uno Zanella ben vivo nel suo tempo, partecipe delle passioni delle generazioni risorgimentali.
Nell'ode A Camillo Cavour (1867) il tema della Patria ritorna con particolare desiderio d'impegno, ma, anche questa poesia, così come per le prime di carattere patriottico, manca di calore, ed è priva, ad una attenta analisi, di qualunque nota degna di rilievo. Così in una poesia del 1868 intitolata Madre un'altra volta, si sente qualcosa di forzato e di voluto più che di sentito e sofferto. Forse è vero che Zanella fa troppo spesso, in questi versi, dell'oratoria, ma certo è che anche l'eloquenza, se è sostanziata da amore e pensiero, ha una sua validità. Zanella credeva nella missione divina di Roma e sperava che l'Italia ritrovasse l'unità e la potenza antica. Più originale La guerra nel settembre 1870, in cui non si trovano più i temi della letteratura risorgimentale, ma un cristiano, anche se languido, senso della tragicità della guerra. Tale nuovo sentire è permeato da una vaga humanitas virgiliana e a rendere belli questi versi, forse non poeticamente perfetti, è un alto sentimento umano, un accoramento sincero, una partecipazione commossa al destino delle genti che soffrono. In un'altra poesia, La battaglia di Monte Berico, il poeta rievoca tutti i Vicentini, dai giovani alle canute fronti, che avevano combattuto valorosamente e che avevano preferito andare in esilio piuttosto che sottostare un'altra volta allo straniero e qui, la voce che canta la Patria, è espressione di sincero sentire. Pertanto, se non si trova in questa poesia patriottica, l'impeto di un Carducci, troviamo altri elementi validi e grandi. Quel vedere una virtù di rinnovamento nelle stirpi umane, quella fede nella rinascita dell'Italia, è quello stesso sentire che gli fa cogliere una potenza vitale in tutto il cosmo, quel sentimento altissimo da cui nasce tutta la poesia.

Il tema degli umili nelle poesie più tarde
Zanella celebra ed esalta, nei suoi versi, una umanità oscura, umile e laboriosa che con la fatica, con la lotta, col lavoro sano ed onesto si procura il pane per vivere. Si potrebbe pensare, per questa socialità che aleggia nelle sue poesie, a certe derivazioni pariniane, ma il realismo sociale di Zanella è differente da quello di Parini, e questo perché in Zanella il realismo trova un limite nel suo gusto classicamente educato, che non lo lascia andare al di là del sentimento e gli impedisce di fare di esso, come per il Parini, un problema di stile e di linguaggio. Come già in Possagno, così nella lirica Il lavoro (1865), il poeta canta la potenza e la capacità creativa della fatica umana. Vi è in questi versi, fiducia immensa nel lavoro, fede in Dio che guida la mano dell'uomo, esaltazione gioiosa del lavoro umano contro l'ozio. Nella poesia L'Industria, l'approvazione del poeta va alla diffusione delle macchine, che si sostituiscono all'uomo nelle fatiche più aspre, e che ne affermano indirettamente la dignità. Egli prese a cuore il problema del latifondo che affliggeva l'economia nazionale e lo espresse nella lirica Risposta d'un contadino che emigra. Nel Piccolo calabrese Zanella propose il triste problema dell'inumano commercio che avveniva nelle Calabrie, dei fanciulli condotti all'estero e costretti a mestieri infami.

Il tema della famiglia
Ed è sempre tra gli umili che egli vede realizzato il suo ideale di famiglia, perché ritiene che proprio tra la povera gente si faccia più solido il mondo degli affetti.Nella poesia Due vite egli riesce a cogliere e a fermare, con estrema semplicità, un ambiente dall'atmosfera intima, un momento di vita, creando un delizioso quadretto familiare. In questa lirica il poeta contrappone alla vita d'un uomo che, per gioie meno pure ha sempre rifiutato quelle del matrimonio, la vita di un vecchio contadino che ha lavorato con serena fatica e immensa fede, e che ora si trova, nell'ultima età, contornato da una lieta e numerosa famiglia. Al tema della quiete domestica si ispira un'altra poesia: Il mezzogiorno in campagna (1870), poesia già vicina, e come stile e come contenuto, ai sonetti dell'Astichello. Troviamo infatti quegli elementi e temi fondamentali: l'amore per le creature, la religiosità in tutte le cose, che saranno sviluppati e ripresi in quei versi di esaltazione delle creature e del loro creatore.

Zanella e il positivismo
Come nel campo della letteratura Zanella, partito da una formazione fondamentalmente classica, era giunto poco a poco ad aderire alle tendenze romantiche, così anche sul piano della formazione filosofica, dopo aver subito l'influsso del sensismo, si era rivolto allo spiritualismo, dedicandosi allo studio delle opere di Galuppi, di Rosmini e di Gioberti e aveva chiesto che si desse, contro il positivismo e il determinismo, allora in voga, maggior posto ai valori spirituali.Nella dedica a Fedele Lampertico della prima edizione dei suoi versi, scrisse: "I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l'oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi; per questo non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato il modo di farvi campeggiare l'uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d'immagini, è senza vita".Era senza dubbio nei suoi propositi di fare una poesia scientifica, ma Zanella si accorse presto che il sapere scientifico si poneva al livello di un sapere assoluto, e quindi in aperto contrasto con la Fede. Zanella era profondamente cattolico e quando si trattò di portare sul piano pratico quelle idee, così chiaramente espresse in prosa, l'iniziale trasporto venne ad essere frenato e scosso da altre preoccupazioni inevitabili alla sua anima religiosa.Egli si trovava dinanzi al perpetuo problema della sintesi e quindi dei rapporti tra l'umano e il divino, problema che al tempo di Zanella si espresse storicamente con la polemica anticlericale dei positivisti liberali e razionalisti. Nel poemetto Milton e Galileo, del 1868, questo problema viene esposto in termini molto elevati.
Il tema della scienza e della fede
Nella poesia zanelliana il tema della scienza è pertanto necessariamente collegato con il tema della fede. Nei versi Ad un'antica immagine della Madonna, del 1863, il poeta contrappone la fede semplice degli umili alle teorie superbe dei filosofi, che pretendono di abolire la religione sostituendo ad essa le nuove leggi scientifiche. Un'altra protesta contro le nuove teorie del secolo, e, in questo caso, contro il darwinismo, è espressa nella poesia La veglia, ma mentre nella precedente poesia, lo sdegno che si esprime in versi dopo il dolcissimo canto alla fede, non ha note stonate, questo avviene nei versi de La Veglia. Così in Microscopio e Telescopio si trovano lo stesso dolore per la mancanza di fede, per la superbia dell'uomo che crede di sostituire Dio e di svelarne i misteri. Il tema del mondo odierno che, superbo delle sue scoperte, ha dimenticato la fede degli avi, ritorna in altre odi come nella poesia Pel taglio di un bosco o negli endecasillabi Alla Madonna di Monte Berico. Nella poesia L'Imitazione di Cristo, il problema del rapporto umano-divino viene risolto riducendo al minimo il termine umano. Il sentimento religioso è qui cantato con perfetta coerenza. Eppure Zanella pur esprimendo in molte poesie il suo disprezzo per certe dottrine che sembrano distruggere i fondamenti dell'antico sapere, come il materialismo (in una poesia intitolata Sopra certi sistemi di filologia, composta nel 1877), ammirava certe opere del progresso, come ad esempio nella poesia Il taglio dell'Istmo di Suez. Zanella fu dunque certamente suggestionato dalle conquiste della scienza, ma egli non cercò di sciogliere i problemi allora dibattuti cercando di trovare qualche nuova e valida sintesi di natura filosofica e teologica. Zanella aveva in sé troppo saldi i motivi dell'ortodossia cattolica perché si lasciasse suggestionare, in senso eterodosso, dagli splendori delle scienze e delle filosofie. Dobbiamo rilevare inoltre, che vi fu in Zanella un forte contrasto tra il momento ideologico e il momento poetico. Questo perché in prosa poteva esprimere chiaramente le sue idee che nascevano dal sentimento e dalla fede, ma in poesia il sentimento e la fantasia non riuscivano ad essere contenute, e veniva così a mancare il necessario equilibrio per poter scrivere vere poesie di scienza.

Il tema del cosmo
Ma uno degli aspetti più interessanti e più nuovi della poesia zanelliana, non sta certamente nella poesia che s'ispira alla storia, o alla natura o alla scienza, ma in quella particolare poesia astrale che ha per tema il cosmo. Già tra le prime poesie di Zanella si avverte, in alcuni versi inediti è[7] del 1858, questo tema, assai nuovo per quei tempi. Ed è senza dubbio singolare l'apparizione in questi versi del motivo che prelude ad esperienze di poeti moderni, in un periodo in cui il poeta sembrava ancora strettamente legato al passato. Eppure è indubbio che in questi versi appare per la prima volta un cielo, che non è quello della tradizione classica, ma un cielo già scientifico:
« Nonna che dici? Io mi credea che i milli
Che mi additi lassù, punti lucenti,
Non fossero pianeti e soli ardenti,
Rotanti nimbi ed iridi tranquille.
Io fori li credea, donde faville
Sprizzan quaggiù dai fulgidi torrenti,
Che di dentro fan belli i firmamenti;
Perché levansi a Dio nostre pupille. »


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Proponimento
Gaio Valerio Catullo
Traduzione (1868)
I secolo a.C.
Carme VIII

Illuso Catullo,
Dimetti, dimetti
Di farti trastullo
A speme volgar:
Fuggiti diletti
Non sanno tornar.

Ti fulsero un giorno
Ben candide aurore,
Movendo al soggiorno
Di cara beltà,
Amata d'amore
Ch'egual non avrà.

Che dolci sorprese
Là dentro si fero,
Da lei non contese,
Volute da te!
Dì candidi in vero
Il cielo ti diè.

Or ella diniega;
Tu pure desisti:
È folle chi prega
Ritrosa beltà.
Sta' saldo, resisti,
Di marmo ti fa'.


Mia perfida, addio.
Di sasso, mel credi,
Già fatto son io:
Dacchè nol vuoi tu,
Non fia che a' tuoi piedi
Mi vegga mai più.

Crudele! Ma sai
Qual vita ti aspetta?
Che visite avrai?
Che amici? da chi
Or bella tu detta?
L'amante di chi?

A quale i tuoi baci
Amato fanciullo
Ardenti, mordaci
Fian dati? Ma sta'
Tu saldo, Catullo,
Di marmo ti fa'.

Congedo
Gaio Valerio Catullo
Traduzione (1868)
I secolo a.C.
Carme XI

Furio ed Aurelio, di Catullo amanti
Indivisi compagni, o ch'ei del Gange
Tenda ai lidi, ove il mar indico frange
l'onde sonanti;

che agl'Ircani e dove molle odora
Arabia, ai Parti onusti di saette,

A' Saci e dove il Nilo il mar con sette
Foci colora;

Ch'oltre le sublimi Alpi viaggi
Del gran Giulio mirando i monumenti,
Vegga il gallico Reno, i truculenti
Angli selvaggi;

Pronti meco a tentar questo o se prova
Altra più perigliosa il ciel m'appresta.
Alla mia donna nunzi ite di questa
Infausta nuova;

Viva pur ella avventurosa e rida
Co' trecento suoi drudi, che congiunti
Tiene ad un laccio e tutti manda emunti
A tutti infida;

Nè più riguardi all'amor mio, caduto
Per colpa sua, come sull'orlo cade
d'un prato il fior che oltrepassando rade
Vomere acuto.

Promessa
Gaio Valerio Catullo
Traduzione (1868)
I secolo a.C.
Carme XXXXV
(Imitato liberamente.)

Accanto alla sua Fillide
Elpino un giorno assiso
Così dicea fissandole
Le ardenti luci in viso:


«O mia delizia, o Fillide,
Mia vita, se non t'amo.
Il resto del mio vivere
Trapassi oscuro e gramo;

Gioie per me non rechino
Autunno o primavera;
Cinto di foschi nuvoli
Corra il mio giorno a sera.

Se di tua fè dimentico,
A' giuri miei bugiardo
Tu mi vedrai rivolgere
Ad altro volto il guardo,

Di subita caligine
Si velin gli occhi miei.
Mesta vederti e vivere
No, cara, io non potrei.

Ma t'amo: inestinguibile
Per te m'accende amore;
Io t'amerò, mia Fillide,
Insino all'ultime ore.»

Diceva; e quell'ingenua
Strettasi al sen tremante,
Cader lasciava un fervido
Bacio sul bel sembiante.

Sorrise Fille; e in porpora
Tinta il modesto aspetto
Rispose in questi teneri
Accenti al suo diletto:


«Il ciel così propizio
Al nostro amor sorrida.
Come fo giuro d'esserti
Ognor costante e fida.

Compagno de' miei gaudii,
Compagno degli affanni.
Mi vestirai d'un roseo
Lume il sentier degli anni.

Oh, come m'arde l'anima
Del latte del mio petto
Nudrir vezzoso bambolo
Pegno del mutuo affetto!

Oh, come anelo accoglierlo
Vispo su' miei ginocchi,
E la paterna immagine
Mirar ne' suoi begli occhi!»

Qui tacque Fille; e al tacito
Garzon che tutto ardea,
I rai chinando, il bacio
Dolcissimo rendea.

Così nel casto vincolo
Felici amanti e sposi
Fille ed Elpin consumano
I giorni avventurosi.

Elpin della sua Fillide
Sol è beato, e Fille
Ha messo ogni suo gaudio
D'Elpin nelle pupille.
Il sogno
Albio Tibullo
Traduzione (1868)  I secolo a.C.
Elegia IV del Libro III

Fato miglior mi volgano gli Dei,
E l'orribile sogno non s'avveri
Che s'offerse sull'alba agli occhi miei.

Itene lungi, o mobili e leggeri
Della notte fantasimi; chè vani
Io vi conosco a prova e menzogneri.

Solo gli Dei rivelano gli arcani;
E leggon segno de' venturi mali
Nelle fumanti viscere i Toscani.

Per l'aria tenebrosa incerte l'ali
Battono i sogni, e di folli paure
Conturbano il riposo de' mortali.

Ma la schiatta dell'uom nata alle cure
Con farro e sal, che crepita sul foco,
Placa le larve della notte oscure.

E nondimen, sia che ne' sogni loco
Abbiasi il vero; sia che frodolenti
De' mortali la fè prendansi a gioco.

Della trascorsa notte i rei portenti
Volga in meglio Lucina, e non permetta
Ch'io scevro d'ogni colpa invan paventi;

Se mai non fu d'alcuna macchia infetta
Questa mia destra; nè parola altera
Contro gli Dei con empio labbro ho detta.


Già notte avea della stellata sfera
Compiuto il giro e nell'equoree spume
Lavava gli assi alla quadriga nera;

E non ancora le tranquille piume
Il sonno sul mio capo avea distese.
A' travagliati non amico nume.

Alfin nell'ora che il mattino ascese
In oriente, sullo stanco letto
Un sopore dolcissimo mi prese.

Qui veder mi pareva un giovinetto
Cinto le tempie d'immortale alloro
Scendere a tacita orma entro il mio tetto.

Più schietta leggiadrìa, pari decoro
Mai non fu visto dall'antiche genti;
Nè mai l'arti sudaro egual lavoro.

Gl'intonsi crini, lunghi e rilucenti
Sovra il collo cadevano stillanti
Larga rugiada d'odorosi unguenti.

Diffuso era un candor ne' bei sembianti
Qual è quel della luna; e neve e rosa
Era il bel corpo che sdegnava ammanti.

Tale il colore di novella sposa,
Quando nel velo nascondendo il ciglio
Segue il marito onesta e vergognosa:

Tale il color, se l'amaranto al giglio
Accoppian le fanciulle; e tale il melo
Fassi in autunno candido e vermiglio.


Adombravano il piede, che del cielo
Dai nitidi sereni si diparte,
Gli aerei fluttuanti orli del velo.

Una lira, lavor raro dell'arte,
Tutta d'oro e testuggine contesta
Portava appesa alla sinistra parte.

Come innanzi mi fu, trasse da questa
Lento un preludio e sciolse all'aure un canto
Onde anco la dolcezza in cor mi resta.

Poi che le corde seguitaro alquanto
L'inno celeste, il roseo labbro ei schiuse
In questi detti a me nunzi di pianto:

«Salve, amore de' numi; chè le Muse
E Bacco e Febo arridono al cantore
In cui candide voglie il cielo infuse.

Ma la prole di Semele e le Suore
Abitatrici dell'ascrea pendice
Dell'avvenir non leggono il tenore.

Antiveder gli eventi a me sol lice;
E di Giove mio padre inclito dono
Se soltanto il mio labbro il ver predice.

De' detti miei non mai fallaci il suono
Odi, poeta; e ti riponi in seno
Quanto io nume di Cinto ti ragiono.

Colei che tu cotanto ami, che meno
Tenera figlia alla sua madre è cara,
Giovinetta all'amante è cara meno;


Colei per cui de' numi innanzi all'ara
Tu fai voti; colei che giorni ed anni
Viver t'astringe in incertezza aìnara;

Ed allor che la notte co' suoi vanni
Il mondo oscura, alla tua mente illusa
Mille tesse amorosi acerbi inganni;

Quella bella Neera, alla tua musa
Argomento perenne, altri, spergiura,
In cor vagheggia, e l'amor tuo ricusa.

Empia! E trafitta da novella cura
Lascive nozze medita; nè gode
Più le sante abitar natali mura.

Ah, tutte d'un color, se il ver se n'ode.
Perfida razza e senza core! Pera
Qual ordisce all'amante iniqua frode !

Pur, come sai, mutabile è Neera:
Donna è pronta alle paci. Or tu la speme
Desta e lagrime aggiungi alla preghiera.

Un indomito amor fatiche estreme
Insegna a tollerar: verghe e tormenti,
Quando spira verace, amor non teme.

Ch'io d'Admeto pascessi i bianchi armenti
Fatto pastor, non credere che sia
Fola canora di giocose menti.

Meco non era allor la cetra mia;
Nè potea de' sonanti inni la piena
Disposar delle corde all'armonia;


Ma sovra rozza boschereccia avena
Io, di Latona il gran figlio e di Giove,
Rustico carme modulava appena.

Nella corte d'amor sono ben nove
L'orme tue, giovanetto, se non sai
Curvar le spalle a simiglianti prove.

Dunque persisti, nè ritrarti mai
Dalla preghiera: non è cor sì duro
Che alfin non ceda agli amorosi lai.

Che se da' miei delubri non oscuro
Esce il responso, e quanto il ferreo dito
Scrive de' fati io leggo nel futuro,

Dille: nel cielo è questo nodo ordito;
Fortunata Neera, un Dio t' avverte,
Se in traccia non andrai d'altro marito. »

Disse. Veloce dalla salma inerte
Il sonno dileguossi. Ah, ch'io non miri
Tante e sì gravi mie sventure aperte!

Ch'io non sappia giammai che i tuoi desiri
A' miei sono contrari; che mentita
La pietà, che fur falsi i tuoi sospiri.

Già tu non sei da' tempestosi uscita
Gorghi del mare, nè le divampanti
Fauci della chimera a te dier vita;

Nè te Cerbero cinto di fischianti
Colubri la tergemina sua testa;
E non Scilla, terror de' naviganti;


Nè nudriro in inospite foresta
Le fulve leonesse, in suol romano
Te nata di gentil progenie onesta.

E tal t' è madre, di cui cerchi invano
Altra più mite; e tal t'è genitore.
Se altri visse giammai, dolce ed umano.

Che se premio si deve a un fido amore,
Gli Dei cangino in riso il mio sgomento,
E l'orribile sogno ingannatore

Pel remoto oceàn dissipi il vento.

Saffo a Faone
Publio Ovidio Nasone
Traduzione (1868) I secolo a.C.
Eroide

Ascoltami, Faon: quando su questi
Sudati fogli il tuo sguardo s’affisse,
Tosto l'amica man riconoscesti?

se il nome di Saffo, che li scrisse
Non vi leggevi, ti taceva il core
Questo tenue lavor donde venisse

E forse chiederai, perchè d’amore
L’inno sulla mia cetra oggi non suoni.
Ma d’elegia mestissima il tenore.

È flebil l'amor mio: flebili toni.
Ha l'elegia: non fa col mio tormento
La gioia delle liriche canzoni.


Ardo, come ne’ solchi arde il frumento
Che dell’arida state il raggio indora,
Se le fervide vampe agiti il vento.

Lungi dagli occhi miei Faon dimora
Dell’Etna appiè.; nè dell’Etneo men fiero
È l'incendio che dentro mi divora.

Già più carmi non tempro al lusinghiero
Suon della lira: le pimplee Sorelle
Aman sereno e libero il pensiero.

Nè più le giovinette a me son belle
Di Metinna e di Pirra; io più non curo
I vezzi, Lesbo, delle tue donzelle.

Care Cidna, Anattorie un dì mi furo
Che or mi son vili; d’Attide a’ miei rai
II roseo volto pur s’è fatto oscuro,

E d’altre molte che una volta amai
D’immenso amore. perfido Faone,
Quel cor, eh’era di molte, or tu sol hai.

In te viso giocondo, in te stagione
Tempestiva agli amori, a me fatale
Sembianza del bellissimo garzone!

Prendi in mano la cetera e la strai
Febo sarai: con l'ellera alle chiome
A Bacco diverrai tosto rivale.

E Febo e Bacco all’amorose some
Piegaro il collo; nè cercâr perdono
S’era a Clio di lor Ninfe ignoto il nome.


Ma le bionde Pegasidi a me dono
Fer d’amabili versi; e già si spande
Alto nel mondo di mia fama il suono.

Nè più frequenti Alceo colse ghirlande,
Mio fratel nella patria e nella lira,
Benchè tempri le corde a suon più grande.

Se nata io sembro alla natura in ira.
Che men bella mi fè, largo conforto
M’è ’l poetico nume che m’ispira.

Piccola io son: ma dall’occaso all’orto
Volo col nome ed empio i monti e l’acque
Sola di tanti lauri il fascio io porto.

Se candida non son, però non spiacque
A Perseo l’etiopica donzella
Bruna il volto dal Sol sotto cui nacque.

Nè rifugge la bianca colombella
Dal nero sposo; e ’l verde augello in traccia
S’aggira della bruna tortorella.

Che se pari alla tua cerchi una faccia,
Non fia che tu ritrovi o ninfa o dea
Che sia degna posar nelle tue braccia.

E pur bella a’ tuoi sguardi anch’io parea,
Quando leggevi i miei versi: fra cento
E cento vati io sola ti piacea.

Cantava, oh, come spesso io lo rammento!
Che nulla obblian gli amanti; e tu co’ baci
Rompevi sulle mie labbra l’accento.


Tutto in me ti rapiva; e se in tenaci
Teneri nodi ti serrava al petto.
Le soavi d’amor ire e le paci,

Gli arguti motti, l’infocato affetto,
I sorrisi, le lagrime, i deliri
T’empiean d’inenarrabile diletto.

Le belle Siciliane a’ tuoi sospiri
Ora son segno. Acchè più Lesbo ho ’n core?
Oh, l'aure di Sicilia anch’io respiri!

Ma voi l'obbrobrïoso disertore
Deh! tosto riinandate al nostro amplesso,
Nisiadi madri, e voi, Nisiadi nuore.

Guardatevi da lui che vi vien presso
Col mêl sul labbro; quel che a voi prometti
A me lo sciaurato avea promesso.

E tu, madre d’Amor, che sulle vette
D’Erice hai templi, accorri alla meschina
Che i suoi giorni e la lira a te commette.

forse dal suo corso non declina
La nemica fortuna? E reo governo
Di questa sventurata a far si ostina?

Sei volte appena ritornare il verno
Io visto avea, che nella vuota stanza
Bagnai di pianto il cenere paterno.

Il mio fratel degli avi ogni sostanza
Sperse in luride tresche; il vitupero
E l'unico retaggio che gli avanza.


Or sovra un pino all'aüre leggero
Corre i golfi e terribile corsaro
Si getta a racquistar l'oro primiero.

Ma perchè degno biasmo in me trovaro
L’opre sue bieche, ei m’odia. Ecco il bel frutto
Che i pietosi consigli mi recaro.

E perchè mai non abbia il ciglio asciutto,
Piccola figlia, o mio destin crudele!
Scherzami intorno a raddoppiarmi il lutto.

Tu novissima causa alle querele
Mi sei, Faone. come repentini
Si cangiarono i venti alle mie vele!

Ecco negletti per le spalle i crini
Cascano: in dito più non mi sfavilla
Lo splendore degl’indici rubini.

È rozzo il mio vestir: l’oro non brilla
Più sul mio capo; nè l’assiro unguento
Dalle scomposte mie trecce distilla.

E per chi deggio ornarmi? A chi più tento
Io misera piacer, se que’ begli occhi
Più non miro, cagion d’ogni ornamento?

Cuor non havvi, ove Amor suoi dardi scocchi
Più che nel mio; perchè s’accenda ed ami
Basta lieve favilla che lo tocchi.

Sia che volgendo i miei vitali stami
Tal legge mi cantassero le Suore,
Di roseo fil tessendo i miei dì grami;


Sia che gli studi, a’ quali ho posto il core,
A lor costume informino l’affetto.
Me già fece Talia serva d’amore.

Che stupir se mi vinse un giovanetto
Cui l'età fresca appena il mento infiora,
Nato a scaldar qual è più freddo petto?

Questi io temea che tu, scherzosa Aurora,
Detto a Cefalo addio, non mi togliessi;
Ma frenarti Titon seppe finora.

Se tu che tutto vedi lo vedessi.
Candida Luna, come Endimïone
Dormirebbe Faon sonni più spessi.

E Citerea l’amabile garzone
Seco trarrebbe in ciel: ma paurosa
Del fiero Marte evita la tenzone.

tra fanciullo e giovane, vezzosa
Utile etade! candido sembiante
Onde l'umana schiatta è glorïosa!

Torna, torna, leggiadro, al palpitante
Mio sen! Non chieggio che tu deva amarmi;
Soffri solo ch’io possa esserti amante.

Scrivo; e l'impresse note a cancellarmi
Diffuso pianto dalle ciglia piove:
Vedi che appena tu discerni i carmi.

Che s’eri fermo ornai girtene altrove,
Addio, Saffo, perchè non mi dicesti?
Io non chiedea dall’amor tuo gran prove.


Ah, non gli ultimi pianti e non avesti
Gli ultimi baci, o caro; ed io già scorti
Non ho quai m’attendean fati funesti.

Di me tranne l’ingiuria altro non porti;
Non un mio pegno, un mio vezzo non hai
Che di memoria l’amor tuo conforti.

Lassa! e ricordo alcun non ti lasciai;
Io sol detto t’avrei che tu volessi
Ricordarti di me che vivo in guai.

Per Amore io ti giuro, il qual non cessi
Giammai da’ nostri cori, e per le Muse
Che de’ foschi miei giorni arbitre elessi;

Quando il subito grido si diffuse,
— Saffo, il tuo ben sen fugge, — alla parola
E alle lagrime il varco mi si chiuse.

Mancava agli occhi il pianto; nella gola
La lingua intorpidia, finchè dell’alma
Tutte le posse un freddo orror m’invola.

Poi come balenò raggio di calma
All’ansio cor, le chiome io mi scompiglio
Alto ululando, e batto palma a palma.

Tale il sen si percote e bagna il ciglio
Tenera madre che all’accesa pira
Porti le membra di diletto figlio.

Carasso, il fratel mio, lieto rimira
I nostri pianti e per la casa ognora
Importuno sugli occhi mi si gira,


E perchè la gran doglia che m’accora
Onta mi faccia, di che geme, ei chiede,
Costei? Non vive la sua figlia ancora?

Ho lacera la veste e scalzo il piede;
Pur rossore non ho se il volgo intorno
In sì misera mostra errar mi vede.

A te, Faon, sol penso e tu ritorno
Mi fai solo ne’ sogni. sogni, o notti
A me candide più d’ogni bel giorno!

Se altre terre a bear si son condotti
I tuoi sembianti, io l'ho ne’ sogni appresso.
Ahi sogni fuggitivi ed interrotti!

Spesso ch’io penda dal tuo collo e spesso
Che tu sovra il mio collo t’abbandoni
Parmi, o diletto, nel sognato amplesso.

E dolcissimi accenti mi ragioni
Noti all’ombre soltanto e senza velo
La tua beltade a vagheggiar mi doni.

Ma tosto come il sol gli orli del cielo
Col novo raggio imporpora, che presta
Si ritiri la notte io mi querelo.

E mi volgo crucciata alla foresta,
E pace alla solinga ombra dimando
Che sì dolci memorie in cor mi desta.

Quindi furente, di me stessa in bando,
Come maga tessalica m’aggiro,
Gl'irti capelli all’aure abbandonando.


E la concava grotta ancor rimiro
Scabra di tufi che mi fur più belli
Che niveo marmo a’ dì del mio deliro.

Riveggo il bosco che di fior novelli
Spesso un letto ne porse e tanto amore
Fra l'ombre ricoprì degli arboscelli.

Ma dove della selva e del mio core
Sparve il signor? M’è quella selva oscura
Dal dì che n’è partito il tuo splendore.

L’erba conobbi che all’estiva arsura
Ne sostenne adagiati: ancora oppressa
Era dal nostro peso la verzura.

Forsennata precipito sovr’essa,
Sul sito ove tu fosti, e baci e pianto
Porgo ad ogn’orma da’ tuoi piedi impressa.

E meco dispogliato il folto ammanto
Piangono i rami; nè dal nido ascoso
Sciolgono allegri gli augelletti il canto.

Progne, tu sola del trafitto sposo
Memore ancora e de’ tuoi rei furori
Iti vai gorgheggiando in suon doglioso.

Progne il figliuolo, i suoi traditi amori
Saffo lamenta: tutto il resto tace
Per entro il velo de’ notturni orrori.

Sorge non lungi limpida e vivace
Una fontana; se la fama è vera,
Una Dea nelle belle acque si piace.


Antico loto, che una selva intera
Co’ rami adegua, è tetto alla sorgiva
Coronata di verde primavera.

Mentre vinta dal sonno in sulla riva
L’inferme membra adagio, al mio cospetto
Stette del loco la temuta Diva.

Stette e mi disse: poichè t’arde in petto
Non corrisposto amor, volgi il tuo passo
Volgi all’Ambracia, e pace io ti prometto.

Di Leucade colà sorge il gran sasso
Sacro al vindice Apollo: interminato
Spuma, il mar d’Azio e romoreggia al basso.

Deucalïon di Pirra innamorato
Di là gittossi e lo raccolse illeso
L’onda soggetta. Come volle il fato

Tosto amor mutò tempre: a Pirra acceso
Gemè ’l cor: per la giovane diletta
D’un alto obblio Deucalïon fu preso.

Questa sorte ha quel mar. Donna, t’affretta
Alla nembosa Leucade e nell’onda
Dalla pendice aerea ti getta.

Disse e disparve. Dall’erbosa sponda
Io m’alzo esterrefatta, e gemo e fremo,
E di lagrime un fiume il sen m’inonda.

Andremo, o Diva, al fatal sasso andremo;
Pur che il furor che m’agita dia loco,
Piombar nelle spumanti onde non temo.


La rupe, il mare, l'alto abisso un gioco
Mi sembreranno. O aure, a voi mi affido;
Fatta io son lieve dal continuo foco.

E tu pur sulle molli ale, Cupido,
Cadente mi sostieni. Oh, di mia morte
L’onta non pesi sul Leucadio lido!

Allor l'eolia cetera alle porte
Appenderò del tempio, e questi versi
Febo ringrazieran della mia sorte:

« Grata a te, Febo, questa cetra offersi
Io Saffo poetessa; a te conviene
E a me che studi non abbiam diversi. »

Ma perchè d’Azio alle fatali arene
Mi sospingi, crudel, se tu possanza
Hai, tornando, di tôrmi alle mie pene?

Torna, Faone: io posi in te speranza
Più che in quel mare, in te che di sapere
Superi Apollo e di gentil sembianza.

forse più di queste atre bufere.
Più de’ sassi crudel, con lieto volto
Potrai veder la tua donna che pêre?

Meglio era pur che fra tue braccia avvolto
Fosse il mio seno d’amorosi nodi
Che lasciarlo cadere in mar travolto!

Questo è quel seno che di tante lodi
Già tu solevi ornar; donde aurea vena
Sgorgar ti parve di canori modi.


Or vorrei che di carmi immensa piena
Versasse: ma le vie chiude il dolore,
Il dolor che l'ardito estro incatena.

Già manca a’ voli deir acceso core
L'antica lena; mute e polverose
Giaccion le corde che sonâr d’amore.

Belle Lèsbidi, voi, vergini e spose,
Gioia del patrio mar, leggiadre amanti
Sulla cetra di Saffo un dì famose,

Lèsbidi, voi che i fulgidi miei vanti
D’alcuna ombra spargete, ah, non venite
Più d’ora innanzi a domandar miei canti.

Le Pïeridi mie tutte fuggite
Son con Faone.... ah misera, che mio
Quasi il dicean le labbra inavvertite.

Fate ch’ei torni, e co’ begl’inni anch’io
Farò ritorno a voi. Come egli vuole
Tacita io siedo, o carmi all’aure invio.

Ma che giova pregar? Forse si duole
Quel cor selvaggio? prende i pianti a sdegno
E disperdono i venti le parole?

Deh! che a me riconducano il tuo legno.
I venti che ti portano i miei stridi;
Tempo è ben che tu rompa ogni ritegno.

Che se hai fermo il ritorno a’ patrii lidi
Ed al reduce pin serti prepari,
Perchè, crudel, coll’indugiar mi uccidi?


Sciogli la fune. A te tranquilli i mari
Farà la Diva che dal mare è sorta.
Ne venti al corso spireran contrari.

Sciogli la fune. Amor piloto e scorta
Sederà ’n poppa, e con la nivea mano
Tratterà l’artimone e la ritorta.

Che se da Saffo vivere lontano
Hai già fisso in tuo cor (io più non voglio,
Udir le scuse che colori invano).

Alla tradita invia l’ultimo foglio,
Tronca una volta gl’infelici amori;
Scrivi: che speri? Dal Leucadio scoglio

Piomba nel mare che t’è sacro, e muori.

Ero a Leandro
Publio Ovidio Nasone
Traduzione (1868) I secolo a.C.
Eroide

Vuoi che l’egro mio spirto io rassereni,
Come il cortese tuo foglio m’invita?
Getta la penna, mio Leandro, e vieni.

A chi triste in desio mena la vita
Fassi un’ora mille anni. Io t’amo, io t’amo
E fieramente il tuo tardar m’irrita.

D’immenso foco parimenti ardiamo;
Ma se d’amore son le fiamme eguali,
Di tempra eguali e di vigor non siamo.


Noi che le membra abbiam tenere e frali
Noi fanciulle di cor siamo men forti.
Vieni, o vinta io soccombo a tanti mali.

Voi la caccia trastulla: in bei diporti
Alla quïete di campagna amena
I lunghi giorni a voi paiono corti.

Ora il fòro vi chiama; or nell’arena
Scendete unti alla lotta, o d’un corsiero
Affaticate la fumante schiena.

Or a pesci ed augelli il giorno intero
Sedete insidïando, e l’atra cura
A vespero tuffate entro il bicchiero.

Tali trastulli a noi vieta natura;
E che far ci riman, se non l’amore,
Chiuse nell’ombra di guardate mura?

E di te tutte quante occupo io l’ore;
Tu segreto mio studio e mio tesoro;
Nè dir può lingua quel che sente il core.

Or di te parlo colla balia, e ploro
Con lei sommessamente e le cagioni
Del tuo ritardo palpitando esploro;

Or riguardando il mar che gli aquiloni
Volgon sossopra, i tuoi lagni ripeto,
Imprecando de’ venti alle tenzoni;

Per poco che torni il mar quïeto,
Che la voglia ti manchi e non la possa
Io vo triste gemendo in mio segreto;


Gemo accorata, e la pupilla ho rossa
Di amaro pianto che con man tremante
Terge la vecchia al mio martír commossa.

Spesso un vestigio io vo delle tue piante
Per la sabbia cercando, e non rammento
Quanto è mobil la sabbia ed incostante.

E purchè di te parli, ogni momento
Io chieggo se sia giunto alcun d’Abido,
per Abido dia le vele al vento.

E chi può dir quanti baci confido
Alle tue vesti che da me partendo.
Quando spunta il mattin, lasci sul lido?

Tutto il mio giorno in queste cure io spendo
Ma quando gli astri per la volta eterna
Scoprono il viso scintillante, accendo

Subitamente la fedel lucerna
Sull’altissima torre, onde il cammino
Tu nell’immensa oscurità discerna.

Indi traendo alla conocchia il lino
Io siedo e con femminëi sermoni
Inganno, come posso, il mio destino.

Chiedi di che per tante ore ragioni?
Di vestiti di danze io non favello;
Tu sol sulle mie labbra ognor risuoni.

Pensi, io dico, nutrice, che all’ostello
Leandro si sia tolto? o che sian desti
Tutti? e del padre ei tema e del fratello?


Credi tu che dagli omeri le vesti
Ora deponga, e di salubre e schietto
Olio le belle membra unger si appresti?

Ella accenna che sì; non che l’affetto
Nostro l’agiti assai; ma ’l capo antico
Vacillante per sonno inchina al petto.

Fatto un breve silenzio, adesso, io dico,
Ei da riva si parte; in questo punto
Entra nell’acque l’animoso amico.

Nè filando un pennecchio anco ho consunto,
Che la nutrice interrogo: ti pare
Ch’ei possa a mezzo corso essere or giunto?

Ed ambo dal balcon guardiamo al mare,
E preghiamo con timido desio
Non ti sian l’aure di soccorso avare.

Ad ogni suon quella fedele ed io
Tendiam l’orecchio, e de’ tuoi passi il suono
Trepide udiamo in ogni mormorío.

Breve riposo alfine agli occhi io dono;
E languida sul sen della nutrice
Questa infiammata mia testa abbandono.

Sogno, e del vano mio sognar felice
Parmi vederti allor che le grondanti
Braccia mi avvolga intorno alla cervice.

Tu da me prendi gli odorosi ammanti
A coprirti; e mi dai baci e ricevi,
Com’è l’usanza de’ beati amanti.


Ahi, dolorosa! che bugiarde e brevi
Son le gioie de’ sogni, e sugli albóri
Tu, come sciolta visïon, ti levi.

Quando fia che più l’onda i nostri amori
A divider non abbia, e mite Iddio
Stringa in nodo perenne i nostri cori?

Perchè soletta trapassar degg’io
Tante vedove notti? E tu che fai
Sull’altra riva, nuotator restio?

Oggi son l’onde paurose assai;
Eran ieri più basse; or perchè colta
Ieri la bella occasïon non hai?

Ben gittata l’hai tu, ma ti fu tolta
Ieri dal vento: invan sarà che aspetti
Più tranquilla marina un’altra volta.

Vieni; al mio fianco non avrai sospetti;
Noi le burrasche prenderemo a scherno,
L’uno al collo dell’altro avvinti e stretti.

Ridendo udremo il tempestoso verno
Tonar sui flutti: io ben sarei contenta
Se dell’onde il furor durasse eterno.

Ma donde avvien che tema ora tu senta
De’ nembi? perchè l’onda che sicura
Tante volte ti parve, or ti sgomenta?

Ben mi ricorda che crucciata e scura
La marina mugghiava al tuo venire;
Pure non valse a metterti paura.


Allor dicea: tu mi farai morire
Col soverchio ardimento. Or dove giace,
Di’, del valente nuotator l’ardire?

Ma che favello sconsigliata? Audace
Tanto mai più non essere, o mio bene;
Nè scendi in mar se pria noi vedi in pace.

Basta che non sian rotte le catene
Che i nostri cori allacciano, nè spento
Cada il foco che n’arde oggi le vene.

Il mar si muti, ed imperversi il vento,
Mutando lato; io non ho tema alcuna;
Ma che il tuo cor si muti, io mi sgomento.

Pavento ancora che la mia fortuna
Vil non ti sembri; e tu nato in Abido
Lei disprezzi che m Tracia ebbe la cuna.

Ma tutto io posso tollerar, se infido
Non ti ritrovi, nè novello amore
Il nostro antico amor cacci di nido.

Se non fosse più mio quel nobil core.
Onde mi venne sì profonda piaga,
Preverrei col morir cotanto orrore.

Nè favello così, perchè presaga
Sia la mente di danni, o dia credenza
A romori di fama incerta e vaga;

Ma di tutto io pavento; e fu mai senza
Paura vero amore? E di sospetto.
M’empie pur sempre la tua lunga assenza.


O felice colei che nel cospetto
Vive ognor del suo vago e scerne il vero,
Nè sognato terror le agghiaccia il petto!

Verace torto o grido menzognero
Io discerner non so: vero o bugiardo
Ogni detto conturba il mio pensiero.

Vieni, vieni una volta; e del ritardo
Sian cagione i parenti o la procella,
Non d’altra donna lusinghevol guardo.

Vuoi tu ch’io muoia alla fatai novella?
Vedi, Leandro, ignobile delitto
La morte procurar d’una donzella.

Ma perdonami, o caro; il cor trafitto
Io vo pascendo di paure: intanto
È l’onda che si oppone al tuo tragitto.

Ahimè, come rimugge a’ lidi infranto
L’ampio Ellesponto! e van le nubi e tutto
Coprono il ciel di ferrugigno ammanto!

Forse in questa ora rinnovella il lutto
D’Elle l’antica genitrice e mesta
I suoi pianti confonde al conscio flutto?

Od Ino alla figliastra ancora infesta
Sul mar che ha nome da costei, discende
Tanta a destarvi orribile tempesta?

Fato nemico le donzelle attende
Ognora in questo mar, che l’innocente
Elle sommerse, ed or me crudo offende.



Ma tu, Nettuno, se ti rechi a mente
Le antiche fiamme, perchè sei scortese
A me che d’egual foco ho l’alma ardente?

S’è ver che col sorriso un dì ti prese
Amimone, e co’ begli occhi divini
Tiro d’immensa vampa il cor t’accese:

Ed Alcïon ne’ talami marini
E Calice accogliesti e di serpenti
Medusa non ancora avvinta i crini;

E Laodice che dorate a’ venti
Spandea le chiome e la gentil Celeno
Ascesa a fiammeggiar ne’ firmamenti;

Perchè, Nettuno, se cotante in seno
Fiamme accogliesti, sei con me sì fiero
Che d’amoroso incendio ardo non meno?

Pace, gran nume; col tridente altero
L’oceano sconvolgi; in breve chiostra
Sdegna far pompa del regale impero.

Sorgi colà con tutti i venti in giostra;
Le navi aggira e co’ sonanti e vasti
Marosi le gran flotte abbatti e prostra.

Vergogna, che dell’acque il Dio contrasti
Ad inerme garzon; palma sì vile
D’un fiumicel si disdirebbe a’ fasti.

Vanta Leandro origine gentile;
Ma fra gli avi famosi ei non addita
L’Itaco astuto a’ tuoi nepoti ostile.


Pace, gran nume; ed ambo a un tempo aita;
Ei nuota; per la stessa onda tranquilla
Naviga coll'amante la mia vita.

La lampa al cui chiaror scrivo, scintilla
Lieta scoppiando, e d’avvenir felice
Porge giocondi auguri alla pupilla.

Ecco su’ fausti fochi la nutrice
Il vino infonde e, — Tre sarem domani, —
Un colmo nappo tracannando, dice.

Mio ben, fa’ che siam tre, fa’ che lontani
Mai più non siam: così t’arrida Amore,
E l’onda al nuoto Citerea ti spiani.

Perchè, perchè se t’ho rinchiuso in core,
Così di rado al tuo fianco mi assido?
Torna, torna a tue tende, o disertore.

Anch’io vorrei talor scender dal lido;
Poi m’arresta il pensier che alle donzelle
È questo mar più che a’ garzoni infido.

Frisso il varcava e l’incolpabil Elle;
Frisso fu salvo; e solo alla nemica
Onda diè nome l’incolpabil Elle.

Forse paventi che la lena antica
Al ritorno ti manchi e non risponda
Dell’iterato nuoto alla fatica?

Io lasciando la mia, tu la tua sponda
Corriamo ad incontrarne a mezza strada,
E baciamoci in volto a fior dell’onda;


Poscia ciascuno alla natia contrada
Faccia ritorno. Picciol premio è certo;
Ma partito è miglior starsene a bada?

Oh, faccia Iddio che finalmente aperto
Sia l’amor nostro a tutti, e si rimova
L’invido vel che l’ha finor coperto!

Già vergogna ed amor fan mala prova
Congiunti in un: non so qual sceglier deggia;
Che se l’una convien, l’altro ne giova.

Perchè Giason non sei che nella reggia
Entra appena di Coleo, ed a’ suoi lari
Colla rapita vergine veleggia?

Perchè non sei l’avventuroso Pari
Che viene a Lacedemone e repente.
Solca coll’involata Elena i mari?

Chè se sovente vieni, anco sovente
Tu m’abbandoni e di nuotar non badi,
Se per nave tornar non ti si assente.

O vincitor de’ procellosi guadi,
Sfida pur l’onde e tuttavia le temi;
Speme e paura avvicendar ti aggradi.

Fracassate dal mar van le triremi,
Opra di mille artefici; e tu speri
Che le tue braccia più possan de’ remi?

Quel che tu fai, gl’intrepidi nocchieri
Paventano di far: rotto il naviglio,
Nuotan sol presso a morte i passaggeri.


Ahimè, che la paura io ti consiglio,
Folle! e poscia vorrei che de’ miei detti
Tu più forte sfidassi ogni periglio.

Lasciami delirar, pur che t’affretti
Ed uscendo dal mar l’umido braccio
Avidamente all’omero mi getti.

Ma quante volte a contemplar mi affaccio
Dalla finestra il pian dell’acque immenso
Ratto per l’ossa mi trascorre un ghiaccio.

E della scorsa notte anco ripenso
Tremante al sogno orribile, che sorta
Tosto espiai con lagrime ed incenso.

Era sull’alba: tremolante e smorta
Dormicchiava la lampa, allor che vere
Le novelle a’ mortali il sonno apporta.

Semisopita mi lasciai cadere
Di mano il fuso e a torbido riposo,
La guancia abbandonai sull’origliere.

Qui veder mi parca pel mar spumoso
Vago delfin far cento giri e cento
Mezzo sorto dall’onda e mezzo ascoso.

Poi mi parea, che di traverso un vento
Impetuoso lo gittasse ai lidi,
Ove giacca fra l’alghe avvolto e spento.

Vera o falsa l’immagine che vidi,
Io n’ho paura. Alla venuta aspetta
Tranquillo ir mar, nè i sogni miei deridi.


Se non curi di te, d’Ero diletta
Abbi almeno pietà, che intempestiva
L’ora estrema a veder non sia costretta.

Ma già speranza l’egro spirto avviva;
Sicuro per la placida bonaccia
Tu potrai tosto abbandonar la riva.

Intanto, finchè dura la minaccia
Della gonfia marina, il tuo cordoglio
E le dimore men gravi ti faccia

Questo ch’Ero ti manda, amico foglio.

Ad una allodola
Percy Bysshe Shelley 1820
Traduzione (1868)

Salute a te, salute,
Volatrice gentil, che dai profondi
Cieli di note argute
Non meditati effondi
Torrenti di che l'alto etere inondi!

Diritta al ciel tu sali.
Come di foco nuvoletta, e pendi;
Rotata indi sull'ali
L'immenso azzurro fendi
Ed a' tuoi regni nuovamente ascendi.

Nel tremolo baleno.
Che da ponente di dorata lista
Solca alle nubi il seno,
Tu navighi non vista,
Navighi d'altri cieli alla conquista.


Del dì, che langue e manca,
Nelle diffuse porpore ravvolta.
Come una stella imbianca
Ne' rai del dì sepolta,
Nessun ti vede e ciaschedun ti ascolta.

I luminosi dardi
Va celando la stella a poco a poco.
Finche si toglie a' guardi; Ma se del sol nel foco
Nessun la vede, ognun ne addita il loco.

Pieni son terra e cielo
De' tuoi concenti; qual se d'importuna
Nube squarciando il velo,
Di subito la bruna
Immensità d'argento empia la luna.

Chi sei? chi ti somiglia?
Dolci così dell'iride i colori
Non piovono alle ciglia,
Come de' tuoi canori
Gorgheggi l'armonia piove sui cori.

Sei come vate ascoso
Neil'etereo splendor de' suoi pensieri,
Che d'inno armonioso
Lusinga e prigionieri
Fassi i mortali al suo dolor stranieri;

Come regal donzella
In alta torre, che cantando affida
Alla segreta cella,
Prima che il duol l'uccida,
l'occulta fiamma che nell'alma annida;


Come un insetto d'oro,
Che sotto l'ombra di conserte fronde
Tesse sottil lavoro.
Che fra le rubiconde
Urne de' fiori e le rugiade asconde;

Come solinga rosa.
Che il profumato calice discioglie
All'aura ingiuriosa,
Che coll'odor le foglie
Ad una ad una nel passar le toglie.

Di frondi tremolio,
D'erbe bisbiglio, venticel d'aprile,
Di piogge mormorio.
Quanto è quaggiù gentile.
Quanto dolce ad udir passa il tuo stile.

Dinne, leggiadro spirto,
Quale dolcezza i tuoi concenti ispira?
Fra colmi nappi e mirto
Sì dolce non sospira
Notturno accordo d'amorosa lira.

Cori d'allegro imene,
di trionfo olimpiche canzoni
Accanto alle serene
Note, che disprigioni
Dall'ardente tuo cor, son freddi suoni.

A che nascose fonti
L'onda beata attingi? a che pianure?
A che marine o monti?
Dolci d'amor le cure
Sempre ti son? non provi odî e paure?


Al tuo gioir commista
Esser doglia non può: de' suoi languori
Te noia non attrista;
Canti i tuoi lieti amori,
Ma dell'amor gli occulti tedî ignori.

Sia che tu vegli o dorma,
Scerner la morte a te non si disdice
In più benigna forma,
Cile a noi sognar non lice;
O sì vispa saresti e sì felice?

Trepidi innanzi, indietro
Noi volgiam le pupille: al desco accanto
Veggiam starci il ferètro;
E se lo bagna il pianto,
Esce più dolce dalle labbra il canto.

Pur se dolore e noia
Fossero all'uman core affetti ignoti,
Dalla serena gioia
In cui t'immergi e nuoti,
Panni che noi saremmo ancor remoti.

Quanti natura ed arte
Han lieti suoni: quanti fior gl'ingegni
Poser nell'auree carte,
Tu vinci, tu che sdegni
La terra ed ardui voli al vate insegni.

Prestami i tuoi concenti!
Tali in divino rapimento immerso
Diffonderò torrenti
Di suon, che l' universo
Udrammi, come io muto odo il tuo verso.
La rócca
Teocrito
Traduzione dal greco (1868)
Idillio

O dono di Minerva, o rócca amica
Delle candide lane, all'operosa
Femminea man dolcissima fatica,

Lesta vien meco alla città famosa
Di Nilèo, dove a Venere sul mare
Verdeggia un'ara fra le canne ascosa.

Fausti i venti preghiam sì che le care
Luci io vegga dell'ospite lontano,
Del mio buon Nicia, a cui le grazie avare

Non fur di vezzi. Or tu, bel dono, in mano
Della sua donna andrai, se di gentili
Eburnei fregi non ti cinsi invano.

Con lei sedendo filerai virili
Paludamenti, e veli alle donzelle
Più che la spuma niveï e sottili.

Due volte l'anno le canute agnelle
Sovra l'erbetta deporran le spoglie,
Cura di Teagène e dell'ancelle.

Veder ben puoi ch'all'ozïose soglie
Io non ti guido di codarda gente,
Ma presso ad una di pudiche voglie

Donna d'alti pensier piena la mente;
A te venuta di sì chiara sponda
Con ignavi abitar non si consente.


Patria t'è quella, che fondò sull'onda
Archia Corintio; di Sicilia il cuore,
Siracusa d'eroi madre feconda.

Or raccolta nell'inclite dimore
D' uom che all'egro mortai molce le pene,
Co' farmachi fugando ogni malore.

Tu di Mileto abiterai l'amene
Piagge bagnate dall'Ionio, e spero
Recherai nova grazia a Teagène.

A lei ricorda il buon cantor straniero;
E sia talun che nel vederti dica:
Picciolo par, ma grande e lusinghiero

È sempre il don che vien da mano amica.

La vita solitaria
Luis de León
Traduzione dallo spagnuolo (1868)
XVI secolo

Avventurosa vita
Di lui che fugge popolar tumulto,
E segue per romita
Semita il passo occulto
De' savi, a cui non fece il mondo insulto!

Non gli conturba il petto
Sete di fama o di regal tesoro;
Nè guarda invido il tetto
Che di diaspro e d'oro
Edificava l'ingegnoso Moro.



operosità poetica di Zanella  occupa  circa
L'
Splendori non agogna,
Né dietro inani titoli si affanna;
Abborre la menzogna
Che di bei veli appanna
Quel che la nuda verità condanna.

Maggiore il mio contento
Forse sarà, se son mostrato a dito?
Se dietro a simil vento
Correndo io vo smarrito,
Di mortali punture il cor ferito?

O monte! o acque! o fido
Villereccio soggiorno a me sì caro!
Ecco afferrando il lido,
Scampato al flutto amaro
Alle vostre dolci ombre ecco io riparo.

Placidi sonni io bramo,
Bramo liberi dì senza un pensiero;
Cenno veder non amo
Risibilmente austero
Di chi fan gli avi o le ricchezze altero.

Mi sveglino all'aurora
Col non appreso canto gli augelletti;
Non l'ansia, che divora
Ambiziosi petti
Dall'altrui ciglio a pendere costretti.

Meco vivendo io voglio
Goder de' beni che mi diè natura ;
Vo' libero d'orgoglio
E d'amorosa cura
Chiudere in pace mia giornata oscura.


Del monte in sulla falda
Un orticel piantato ho di mia mano,
Che quando april riscalda,
È tutto in fior, non vano
Argomento di frutta al pio villano.

Cupida che si accresca
Tanta beltà, dalla petrosa vetta
Precipita una fresca
Onda, che alla soggetta
Piaggia romoreggiando il passo affretta;

E poi tra pianta e pianta
Torcendo il corso, la solinga riva
Di bei fioretti ammanta,
E le vermene avviva
Chinate e smorte dall'arsura estiva.

L'antelucana brezza
Pregna d'odori aleggia in sul pendio
E gli arbori carezza
Con blando mormorio.
Che di pompe e di scettri infonde obblio.

Quei che la vita affida
A fragile vascel, l'oro contenti.
Non io, non io le grida
Udrò dell'ansie genti,
Quando orribili in mar pugnano i venti.

La combattuta antenna
Stride: subita notte il giorno asconde ;
Il nocchier smorto accenna
Alleggerir le sponde,
E l'accolto tesor si getta all'onde.


D'un desco poveretto
Io son contento, che la pace infiori
Nè attossichi il sospetto ;
Sian gli alabastri e gli ori
Di chi non teme d'Africo i furori.

E mentre irrequiete
Sen van le genti dalla patria in bando
Punte dall'acre sete
O d' oro di comando.
Sdraiato all'ombra io poserò cantando;

Sdraiato all'ombra, avvolto
D'ellera i crini e d'apollinea fronda,
Ad ascoltar rivolto
Il suon della gioconda
Lira che intemerati estri seconda.

La caduta delle foglie
Charles-Hubert Millevoye 1811
Traduzione dal francese (1868)

L'aura autunnal dell'ingiallito ammanto,
Tolto alle querce, avea coperto il suolo;
Nuda la selva traluceva: il canto
Sopito era nel petto all'usignuolo.

Triste e già moribondo in sull'aurora
Di sua giornata, infermo giovinetto
Lento moveva, una fiata ancora.
Pel bosco a' suoi fiorenti anni diletto.

"Addio, foresta! Io già mancar mi sento;
Nel tuo destino il mio destin m'è chiaro;
In ogni foglia che dispicca il vento,

Del mio morir non dubbi segni imparo.

dell'arte di Coo divino alunno!
Tu sospirando mel dicevi; gialle
Vedrai farsi le foglie un altro autunno;
Ma non vedrai più rinverdir la valle.

Già morte di sue nere ombre ti fascia;
Più del pallido autunno, o giovinetto,
Hai tu pallido il viso; e cruda ambascia
Con sordo dente ti consuma il petto.

Cadran questi tuoi vaghi anni felici
Appassiti cadran, pria che appassite
Sien l'erbette ne' prati e le pendici
Veggan di fronde povera la vite.

Io muoio, io muoio! Col suo freddo fiato
Aura letal m'è corsa in ogni vena;
Ecco il decembre io mi ritrovo allato.
Quando alle spalle aveva il maggio appena.

Frale arboscello, in un mattin distrutto,
Non avea che verzura e qualche fiore;
Ecco cascano i fior; nè dolce frutto
Fia che rallegri il ramoscel che muore.

Cadi, cadi frequente, amica foglia;
Cela il tristo sentiero; al duol materno
Cela la fossa, dove nuda spoglia
Dormirò col dì novo il sonno eterno.

Ma se sul vespro scompagnata e mesta
A cercarmi verrà la fida amante.
Tu pia col lieve tuo romor mi desta,
E felice il mio spirito abbia un istante."


Disse e sparì; più non farà ritorno.
L' ultima foglia che spiccava il vento,
Segnò del garzoncel l'ultimo giorno;
E gli poser nel bosco il monumento.

Ma la fanciulla a piangere sull'urna
Mai non uscì: sol con vagante passo
Della valle il pastor la taciturna
Notte turbò del solitario sasso.

La partenza per l'esiglio
Publio Ovidio Nasone
Traduzione (1868)
I secolo a.C.
Elegia III del Libro I dei Tristi.

Quando alla notte orribile
Io col pensier ritorno,
Che sotto il ciel romuleo
Fu l'ultimo mio giorno;

Quando cotante io medito
Dolcezze che lasciai,
Di subitana lagrima
Molli ancor sento i rai.

Era il mattin già prossimo;
E per regale editto
Io da’ confini italici
Uscir dovea proscritto.

Mente non ebbi e spazio
Di apparecchiarmi: immenso
Sbalordimento all’anima
Moto avea tolto e senso.


Servi e compagno a scegliermi
Stordito io non attesi;
Oro, difesa all’esule,
E vesti io non mi presi.

Giacqui percosso, attonito,
Come percosso e domo
Uom giace dalla folgore,
Tronco vital, non uomo.

Poi che dal cor le nuvole
Lo stesso duol rimosse,
E vigoria ripresero
Dell'anima le posse,

Sorto, l'addio novissimo
Volgo a’ dolenti amici;
Due furon meco; ed erano
Tanti a’ miei dì felici.

Alto io piangeva: al trepido
Mio seno la consorte
In disperato spasimo
Stretta piangea più forte.

Lungi dal patrio Tevere,
Di mia fortuna amara
Nelle contrade libiche
Vivea la figlia ignara.

Suonano pianti e gemiti;
Gli stessi servi han lutto;
Non ha la casa un angolo
Che sia di pianto asciutto.


Di funeral non tacito
Rendea sembianza il loco;
Rendea di Troia immagine,
Quando fu preda al foco.

Le voci omai tacevano
De’ cani e delle genti;
Ed alto il cocchio Cinzia
Reggea pe’ firmamenti.

Gli occhi levai: sul culmine
Il suo splendor battea
Del Campidoglio: attigue
Io le mie case avea.

Numi, sclamai, cui vivere
Potei tanti anni appresso:
Vette tarpee, che scorgere
Più non mi fia concesso;

Dei del superbo Lazio
Che abbandonar degg’io,
Miti vi piaccia accogliere
Dell’esule l’addio.

So che lo scudo inutile
Torna a guerrier trafitto;
Pur voi scemate gli odii
Al misero proscritto.

Dite al divino Cesare
Come demente errai;
Dite che fui colpevole,
Non scellerato mai.


Tutto è a voi noto; il giudice
Pur esso non l'ignori.
Saran, placato Cesare,
Forse i miei guai minori.

Tanto io pregai: più fervida
La donna orava, e mozzi
L’erano i preghi assidui
Da lagrime e singhiozzi.

Discinta, supplichevole
Si prostra ai Lari, e tocca
Del focolar le ceneri
Colla tremante bocca;

Poi sorge, e di rimprovero
Acre i Penati assale,
Rimprovero che gl'invidi
Fati a stornar non vale.

E già rompea l'indugio
La mezzanotte scorsa;
Già volto al lato occiduo
Era il timon dell’Orsa.

Che far dovea? Di patria
Mi rattenea l'amore;
Ma noverate ed ultime
Erano a me quelle ore.

Se fretta alcun facevami,
Perchè, dicea, mi sproni?
Pensa onde vuoi divellermi,
Pensa ove andar m’imponi.


Oh quante volte fingere
Mi piacque un’ora, e dissi:
Gl’istanti ancor non giunsero
Che alla partenza ho fissi!

Tre volte ver la soglia
Mossi: tre volte addietro
Trassimi: il piede e l'animo
Tenean lo stessoà metro.

Addio, mi udian ripetere,
Dar mi vedean gli amplessi
Ultimi, e tosto riedere
A’detti, a’ baci istessi.

Dava a’ miei cari i memori
Novissimi precetti;
Poi gli occhi non sapeano
Torsi dai cari aspetti.

Perchè, diceva, accelero
Tanto il partir? Si noma
Il mio confin la Scizia;
Questa che lascio è Roma.

Viva a me vivo involasi
Impareggiabil moglie;
Il genïal ricovero
Del padri mi si toglie;

Tolti mi sono i teneri
Compagni desïati,
Più che Piritoo a Teseo
A me d’amor legati.


Pria che il destin ne separi,
Oh, ch’io vi abbracci ancora.
Nobili petti; oh, spendere
Possa con voi questa ora!

Diceva; e a lor che stavano
A capo chin piangendo.
Voci alternando e gemiti,
L’avide braccia io stendo.

Mentre favello e lagrimo,
Dalla marina sorto,
Stella fatai, Lucifero
Alto splendea nell'Orto.

Mi stacco alfin: nell'impeto
Tutte sentir mi sembra
Dilacerate fendersi
E sanguinar le membra.

Allor clamori ed ululi
Suonan pegli ampi tetti;
Percosse palme suonano,
Suonan percossi petti.

Stretto mi tien pegli omeri
Furente la consorte,
E detti e pianti mescola
Sulle contese porte.

«A me nessun può toglierti;
Insieme, insieme andremo.
Ella dicea; di un esule
I guai patir non temo.


Sol non farai di Scizia
L’orribile sentiero;
Alla tua nave io carico
Aggiungerò leggero.

Te l'adirato Cesare
Lungi d’Italia invia;
Sia la pietà, mio Cesare,
A pormi teco in via.

Cotal tentava: a smoverla
Forano i preghi vani;
Solo al pensier dell’utile
Vinte rendea le mani.

Esco. Io parea cadavere
D’in sulla soglia tolto,
Squallido tutto ed orrido
Di sparse chiome il volto.

Mi disser poi ch'esanime,
Vinta d’immenso duolo,
Chiusa in mortai caligine
Ella cadea sul suolo;

Che sorta dal deliquio
I rabbuffati crini
Bruttò d’immonda polvere.
Pianse i suoi rei destini;

Pianse il deserto talamo
Ed il remoto esigilo,
Di madre in guisa che ardere
Miri sul rogo il figlio.


E che volea, ini dissero,
Correr feroce a morte;
Nè l'arrestò che il provvido
Pensiero di mia sorte.

Viva: e se a’ fati infrangere
Piacque di nostra vita
L’unica tela all’esule
Sia liberal di aita.

Cefalo e Procri
Publio Ovidio Nasone
Traduzione (1868)
I secolo a.C.
Dal Libro III dell’Arte d’Amore

Quante un incauto credere
Talor sciagure apporti,
Di Procri l’infortunio,
Sposi, vi renda accorti.

Non lungi dalle floride
Pendici dell’Imetto
Sgorga una fonte e morbido
Vi fan l’erbette un letto.

Bossi e ginestre adombrano
Il tacito recesso;
Il mirto, il pin vi crescono
Il lauro ed il cipresso

Di un odorato zefiro
Agli aliti giocondi
Gli erbosi cespi ondeggiano,
Susurrano le frondi.


Stanza gradita a Cefalo
Che, cani e cacciatori
Lasciando altrove, assidersi
Ivi godea sui fiori.

E «Vieni, o mobil Aura,
Solea cantar sovente.
Ninfa cortese, a molcere
Vieni il mio petto ardente.»

Del malaccorto Cefalo
I detti alcun raccoglie,
E li riporta al credulo
Orecchio della moglie.

Di subito alla misera
Irte si fer le chiome
Chè nome di un’adultera
Di Aura le parve il nome;

E impallidì qual sogliono
A terra impallidite
Cader d’autunno al termine
Le foglie della vite.

Poi come dal delirio
La misera si scosse.
Stracciò le molli porpore,
II petto si percosse.

Disciolta il crin sugli omeri,
D’indugio intollerante,
Già le vie fende ed ulula
A guisa di Baccante.


Giunta all’Imetto, lascia
L’ancelle a mezza valle,
E dentro al bosco intrepida
Varca per ermo calle.

Oh qual, donzella improvvida,
Era in tuo cor tempesta.
Quando sedevi in guardia
Nascosa alla foresta!

Ansia de’ venti al murmure
Gli occhi volgeva attorno;
Scovrir in ogni cespite
Temeva il proprio scorno.

Procri infelice! or scernere
Ella vorrebbe il vero,
Or non vorrebbe: fluttua
Perplesso il suo pensiero.

Il nome, il loco acquistano
A’ suoi sospetti fede:
Quanto paventa il misero
Agevolmente crede.

Come di un uom vestigio
Vide sull’erba impresso,
Fiero la colse un tremito,
Le battè ’l cor più spesso.

Ed alto il sol degli arbori
L’ombra minor già fea,
E spazio eguale il vespero
Dall’alba dividea.


Ecco ritorna Cefalo,
Beltà divina, al fonte,
Nelle fresche acque a tergere
La polverosa fronte.

Procri lo mira e palpita:
Ei steso sull’erbetta.
Venite, esclama, o zefiri.
Vieni, cortese auretta.

L’inganno del vocabolo
Procri conobbe appena,
Che l’ansio core esilara,
La faccia rasserena.

Sorge; e col petto aprendosi
La via fra le conserte
Ombre del bosco a Cefalo
Sen corre a braccia aperte.

Quei d’una fiera il giungere
Udir pensando, in fretta
Sull’arco inconsapevole
Incocca la saetta.

Che fai? t’arresta, o Cefalo,
Vano timor t’assale.....
Che festi? A Procri, o misero,
Vibrasti in sen lo strale.

«O fatal selva! Cefalo,
Ella cadendo esclama,
Come potesti uccidere
La tua fedel che t’ama?


Giovane io muoio; e giovane
Morir già non mi pesa.
Poi che di donna estrania
Più non pavento offesa.

Prendi il supremo anelito,
Aura temuta invano:
Tu le pupille chiudimi,
O sposo, di tua mano.»

Disse: e dal sen lo spirito
A poco a poco uscito
Tremanti i labbri accolgono
Del pallido marito.

Ei fra le braccia esanime
Sostien l’amata sposa,
E lava di sue lagrime
La piaga sanguinosa.....

Dora
Alfred Tennyson 1835
Traduzione dall’inglese (1868)
Idillio

Nella magion del fittaiuolo Allano
Dora e Guglielmo i dì traean: l’un figlio,
L’altra nepote. A’ giovanetti il guardo
Rivolgea spesso Allano, ed in suo core
Spesso dicea: «li vo’ veder congiunti.»
Del zio Dorina il desiderio intese
E Guglielmo guatava; ma Guglielmo,
Perchè sempre a’ suoi fianchi in quella casa
L’avea veduta, non badava a Dora.


Or venne il dì, che in una stanza Allano
Trasse Guglielmo e disse: «Io troppo tardi,
figlio, m’ammogliai: pur non intendo
Chiudere gli occhi al sol, se pria non veggo
Sui ginocchi scherzarmi un nipotino;
E già nel core designai gli sposi.
Or puoi, Guglielmo, quind’innanzi a Dora
Guardar come a tua sposa; è casalinga
Ed oltre gli anni suoi buona massaia.
D’un mio fratello è nata. Aspre parole
Ebbi un giorno con lui, nè più veduti
Da quel giorno ci siam. Dorme sepolto
In paese stranier: ma per l’amore
Che in altro tempo a lui m’unia, raccolsi
La sua bambina e l’allevai. Di sposo
Dálle, o figlio, la man: son anni ed anni
Che il giocondo pensier di queste nozze
Notte e dì non mi lascia.» In secchi accenti
Guglielmo rispondea: «Non fia, non fia
Che Dora abbia il mio cor: per questo sole
No, Dora, non avrammi.» E l’uomo antico
Di rossa bile s’accendea: le mani
Si storse e disse: «non la vuoi? fanciullo
Replicarmi così? Ma ne’ miei tempi
La parola del padre era comando,
E tal oggi sarà. Pensa, Guglielmo,
Pensa al tuo fatto: t’abbandono un mese
A maturo consiglio, e la risposta
Sia quale io la dimando; o per quel Dio
Che ne guarda ambedue, prendi il fardello
Nè mostrarti più mai sulla mia porta.»

Obliqui detti mormorò: si morse
Il garzone le labbra e ritirossi.

Più Dora ei rimirava, e men sentiva
Di mai poterla amar: aspri i suoi modi
Con lei; ma Dora mansüetamente
Lo sopportava. Allor prima che volto
Si fosse il mese, le paterne soglie
Abbandonò Guglielmo e per mercede
L’altrui podere a coltivar si pose;
E fosse per amore o per dispetto
Dopo breve stagion sposò Maria,
D’un campagnuol la poveretta figlia.

Sonava la campana annunziatrice
Delle nozze novelle. A sè chiamava
Allano la nipote e le dicea:
«T’amo, fanciulla mia, di core io t’amo;
Ma se un accento cangerai con lui
Che si disse mio figlio; o se parola
Colla donna farai che sua consorte
Dirassi questo dì, chiusa per sempre
T’è questa casa. Il mio volere è legge.»
Dora era dolce e d’obbedir promise;
Ma pensava in suo cor: «Come ciò fia?
Lunga stagione non andrà che il zio’
Rabbonirassi e muterà pensiero.»

E passavano i giorni. Intanto un figlio
A Guglielmo nascea. Più dura allora
Povertade l’assalse. Addolorato
Ei dì per dì passava e ripassava
Muto dinanzi la paterna porta,
E l’iracondo Allan non lo vedea.
Ma Dora di nascosto accumulava
Il poco che poteva e di nascosto
L’inviava al meschin che non sapea

Di qual mano venisse; infin che fiera
Una febbre lo colse ed in poca ora
Lo condusse a morir, quando ne’ campi
I lavori fervean della raccolta.

Dora allor venne a visitar Maria.
Maria sedea col pargoletto in grembo
E lo guardava e lagrimava: in piedi
Insospettita si levò, mirando
Dora venir che avvicinossi e disse:
“Finor la voglia rispettai del zio,
Ed io peccai, perchè della sventura,
Che Guglielmo cogliea, fui cagion prima.
Ma per l’amor di lui che più non vive,
E di te che a sua donna egli prescelse.
Per l’amor di quest’orfano innocente,
A te vengo, o Maria. Sono cinque anni,
Come tu sai, che più superba mèsse
Non si vide ne’ campi. Or mi permetti
Ch’io prenda il tuo bambin: gli occhi del zio
Vo’ si scontrino in lui, quando discende
A veder la campagna. Allor che esulta
Gioioso in core della larga mèsse,
Lo sguardo gli cadrà sul fanciuUetto,
E per l’amor di lui che più non vive,
Vorrà prenderlo in braccio e benedirlo.”

E Dora prese il fanciulletto e venne
Per ascoso sentier presso i frumenti,
E sovra un monticel non seminato,
Ove crescean papaveri, si assise.
Per altra parte il fittaiuol discese
Alla campagna, nè di Dora seppe;
Poichè servo non fu che dirgli osasse

Oh’era là col bambin che l’attendea.
Dora volle levarsi e girne a lui.
Ma le ginocchia le tremaro. Intanto
I falciator falciavano: cadea
II sole in occidente e tenebrosa
La notte discendea sulla campagna.

Venne il domani. Alzossi un’altra volta
E preso in braccio il pargolo, si assise
Sul monticel. De’ camperecci fiori.
Che lì presso sorgean, compose un serto.
Onde del bimbo il cappellin recinse,
Perchè agli occhi del zio più bel sembrasse.
Allor calava il fittaiuol ne’ campi
E vedea la nipote: abbandonava
I mietitori e s’accostava ad essa
E le diceva: “Dove fosti ieri?
E che fanciullo è quello? E qui che fai?”
Abbassò Dora gli occhi e gli rispose
A mezza voce: “È di Gugliehno il figlio.”
“E non lo dissi, prorompeva Allano,
E non lo dissi ch’io ’l vietava?” E Dora
Seguiva: “Fa’ di me quel che ti piace.
Ma piglia il fanciulletto: e per l’amore
Di lui che non è più, lo benedici.”
Riprese Allan: “Ben hai la trama ordita
Con quella donna là! De’ miei doveri
Ammaestrarmi tu? La mia parola.
Ben ricordi, era legge, e tu l’osavi
Disobbedir. Ebben: resti il bambino.
Perchè lo vo’: ma tu da questa parte
Prendi la via, nè più venirmi innanzi.”

Così dicendo, il fanciulletto prese

Che strillava atterrito e si schermia
Come sapeva. Gl’intrecciati fiori
Cadder di Dora a’ pie, che le man giunse
E si partì: del pargoletto il grido
Lontan pe’ campi dileguarsi intese.
Chinò la testa al seno; e la memoria
Del dì che fanciulletta in quella casa
Venne e di quanto vi passò, la strinse.
Si assise sul terren: la faccia ascose,
E lagrimò segretamente. Intanto
I falciator falciavano: cadea
II sole in occidente, e tenebrosa
La notte discendea sulla campagna.

Al casolare di Maria si volse
Allor Dora e sull’uscio appresentossi.
Vide Maria che il suo bambin non era
Con Dora, onde a lodar si mosse Iddio,
Che consolava i vedovi suoi giorni.
E Dora disse: “Il zio tolse il bambino;
Ma concedi, Maria, che teco io viva
E lavori con te: dice che mai.
Mai più non osi presentarmi a lui.”
E Maria rispondeva: “Ah, non sia vero
Ch’io ti debba aggravar della mia croce:
E penso ancora non sia ben eh’egli abbia
Il bambin, che crescendo alla sua scola
Un cattivello si farà, nè cuore
Avrà per la sua madre. Andianne a lui.
Io pregherollo che il bambin mi renda
E te ripigli; e se ti scaccia, allora
Povere amiche noi vivremo insieme,
E per quel poveretto orfanel cara

Avremo ogni fatica, in fin che cresca
E la mercè ne renda.’’Allor le donne
Si baciarono in fronte, e fuori uscendo
S’avviaro alla casa. Era levato
Il saliscendi della porta: il guardo
Entro mandâr furtivo, e sui ginocchi
Vider dell’avo il pargoletto assiso.
Il vecchio lo cingea delle sue braccia
E lo blandia premendogli le guance
Come uno che l’amasse: il vezzosetto
Si contorceva e di ghermir tentava
Il bel ciondolo d’oro che pendea
Dall’oriol d’Allano, e contro al foco
Riscintillava. Entrâr le donne; e quando
Il fanciullin vide la madre, un grido
Mise e le braccia le distese. A terra
Lo pose Allano, e Maria prese a dire:

“Padre, se usar di tal nome mi lece,
Limosina per me mai non ti chiesi.
Nè per Guglielmo o pel bambin che vedi:
Per Dora io vengo: in casa la riprendi,
Ch’ella ben t’ama. O mio signore! Il giorno
Che Guglielmo moria, pacificato
Moria con tutti. Io nel chiedeva; ed ei
Mi ripetea che benediva al giorno
Che la mano mi die: tale gli fui
Moglie amorosa. Ma dicea che un fallo
Commesso avea, d’attraversarsi a’ cenni
Del suo padre e signor. Che Dio, dicea.
Lo benedica, nè provar gli lasci
Il millesmo de’ guai, per cui passaro
or infelici miei giorni. Alla parete

Poi si rivolse e giacque. O sventurata
Derelitta ch’io son! Ma tu, signore,
Non negar ch’io riprenda il mio fanciullo,
Perchè duro di cor teco non cresca
E odiar del padre la memoria impari.
Dora ripiglia, e vada il rimanente.
Come sinora alla fortuna piacque.”

Così Maria diceva, e Dora il volto
Dietro le spalle di Maria celava.
Alto silenzio possedea la stanza,
Allorchè dal suo seggio all’improvviso
Prorompea singhiozzando il vecchio Allano:
“Io son l’iniquo; è mia la colpa: il reo
Son io, che merto ogni castigo: io sono
Che uccisi il poveretto, e pur l’amava
Guglielmo, il figliuol mio! Che Dio perdoni
Al mio grande peccato; e voi, mie figlie
Datemi un bacio.” Allor le donne al collo
S’avvinghiaron del vecchio e lo baciaro
Intenerite e ribaciaro. Il core
Dilanïato da’ rimorsi avea,
E l’assalia con rinascente fiamma
L’antico amore. Singhiozzò gran tempo
Sul picciolo nipote, e nel pensiero
Non vedea che Guglielmo. Or questi quattro
Vissero insieme da quel giorno; e quando
L’anno fu volto, di novelle nozze
Lieto fu’ l core di Maria; ma Dora
Nubile si serbò sino alla tomba.

Sirmione - Busto di Catullo