Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
[ 25 giugno 1875 - 31 dicembre 1876 ].
XXX
MORS
NELL'EPIDEMIA DIFTERICA
Quando a le nostre case la diva severa discende,
da lungi il rombo de la volante s'ode,
e l'ombra de l'ala che gelida gelida avanza
diffonde intorno lugubre silenzio.
Sotto la veniente ripiegano gli uomini il capo,
ma i sen feminei rompono in aneliti.
Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
non corre un fremito per le virenti cime:
immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
e solo il rivo roco s'ode gemere.
Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
gli arbusti lieti di lor rame giovani;
miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
coglie le spose pie, le verginette vaghe
ed i fanciulli: rosei tra l'ala nera ei le braccia
al sole a i giuochi tendono e sorridono.
Ahi tristi case dove tu innanzi a' vólti de' padri,
pallida muta diva, spegni le vite nuove!
Ivi non più le stanze sonanti di risi e di festa
o di bisbigli, come nidi d'augelli a maggio:
ivi non più il rumore de gli anni lieti crescenti,
non de gli amor le cure, non d'imeneo le danze:
invecchian ivi ne l'ombra i superstiti, al rombo
del tuo ritorno teso l'orecchio, o dea.
[ 27 giugno 1875 - 19 giugno 1877 ].
XXXI
UNA SERA DI SAN PIETRO
Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando poi cade.
Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.
Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
sgembi tessevan e ritessevano intorno le gronde,
e le passare brune strepiano al vespro maligno.
Brevi d'entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
or sì or no veniva su per le aure umide il canto
de' mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:
grave l'afa stringeva l'aer, la marina, le piante.
Io levai gli occhi al sole —O lume superbo del mondo,
tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto!—
Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
e un vipistrello sperso passommi radendo su 'l capo.
1 luglio 1880.
XXXII
PE 'L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA
LEGGENDO IL MARLOWE
Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini a la fossa
stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.
Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
sotto squallido cielo per la lugubre macchia.
Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.
I poggi sembrano capi di tignosi ne l'ospitale,
l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti.
Scattan su da un cespuglio co 'l guizzo di frecce mancate
due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.
Corrono, mentr'io leggo Marlowe, le smunte cavalle
de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.
Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
la selva, o Dante, d'alberi e di spiriti,
dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
dove troncasti il pruno ch'era Pier de la Vigna.
Io leggo ancora Marlowe. Del reo verso bieco, simìle
a sogno d'uomo cui molta birra gravi,
d'odii et incèsti e morti balzando tra forme angosciose
esala un vapor acre d'orrida tristizia,
che sale e fuma, e misto a l'aer maligno feconda
di mostri intorno le pendenti nuvole,
crocida in fondo a' fossi, ferrugigno ghigna ne' bronchi,
filtra con la pioggia per l'ossa stanche. Io tremo.
Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
paiono traer guai contro di me: «Che importa
—dicon—tendere a l'alto? che vale combatter? Che giova
amare? Il fato passa ed abbassa». Ma tu,
tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
il capo, reo gobbo, bestemmiando Iddio,
perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
che colpa ho io ne 'l fato che ti danna?
E voi, lunghe nel mezzo del tetro recinto alberelle,
co' rami spioventi, quasi canute chiome,
siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
che aspettâr Macbeth su la fatale via?
Odo pauroso carme che voi bisbigliate co' venti,
di rospi, di serpi, di sanguinanti cuori.
Guglielmo, re de' poeti da l'ardua fronte serena,
perché mi mandi lugubri messaggi?
Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l'oblio.
Oblio? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
che tutti una ferita mostrate aperta e tutti
a tradimento, su! su da 'l cimitero del petto,
su date a' venti i vostri veli funebri.
Qui raduniam consiglio, qui ne l'orribile spiazzo,
a l'ombre ignave, su le mortifere acque.
Qui gonfia di serpi tra 'l fior bianco e giallo la terra,
pregna di veleni qui primavera ride.
Rida ubriaco il verso di gioia maligna; com'angue,
strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.
Volate, volate, canzoni vampire, cercando
i cuor che amammo: sangue per sangue sia.
Ma che? Disvelasi lunge superbo a veder l'Argentaro
lento scendendo nel Tirreno cerulo.
Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
con la serena vista, con le memorie pie.
Ivi m'arrise fanciullo la diva sembianza d'Omero.
Via, tu, Marlowe, a l'acque! tu, selva infame, addio.
[ Maggio-agosto 1879 ].