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Giacomo Leopardi - CANTI
Parte prima


















































































Poetica di Leopardi


Il dolore esistenziale

La poesia di Leopardi non nasce solo da un senso di inadeguatezza alla realtà, di sproporzione fra reale e sovrannaturale, ma soprattutto da un dolore che è motore primario del fare poetico, dolore universale e insieme profondamente intimo e personale. Il tema del dolore appartiene sia al Leopardi che scrive lo Zibaldone che a quello dei Canti, ma ha diverse vesti: il dolore per la propria patria, l'Italia, divisa e preda di dominazioni straniere; il dolore per lo sfiorire rapido e inavvertito della giovinezza; lo scorrere inesorabile del tempo; il dolore per la morte e soprattutto per la morte intesa in senso materialistico, come termine ultimo della vita. Eppure da questo dolore traspare a volte l'avvertimento di un senso del destino come realtà positiva, e l'Autore quasi se ne vergogna, ritornando sui suoi passi, nel cosiddetto pessimismo cosmico tratto fondamentale della sua poetica. Ma il pessimismo non cancella il bisogno, il desiderio (dal latino sidera, stelle) di infinito insito in ogni uomo, per cui anche il "naufragar" può essere "dolce in questo mare", che altro non è se non il mistero dell'Essere.


I Canti

Non è possibile identificare nei Canti una poetica unitaria, ma piuttosto l'evolversi di linee diverse, spesso compresenti, e legate in modo non rigido ma dinamico all'evolversi del pensiero leopardiano. Non sarebbe utile né appropriato seguire schemi del tipo: pessimismo individuale/poetica idillica o pessimisno cosmico/poetica eroica.
Si può subito osservare come nei "Canti pisano-recanatesi", composti negli anni 1828-31, quando è ormai nettissima e irreversibile la convinzione dell'universale e necessaria infelicità degli uomini, voluta dalla Natura, permangano ben saldi gli elementi costitutivi della poetica degli Idilli, ovvero il vago, l'indefinito, la rimembranza. Per questa ragione, fra l'altro, i Canti pisano-recanatesi sono stati a lungo indicati come "Grandi idilli".
Nei difficili anni che seguono il definitivo allontanarsi da Recanati, non cambia il nucleo concettuale della filosofia leopardiana, mentre emergono significativi mutamenti di poetica nei Canti del "Ciclo di Aspasia" e nella Ginestra: non più linguaggio sfumato, evocazione degli anni giovanili, serene rappresentazioni di paesaggio, ma un linguaggio fermo, scabro, a volte ironico o sarcastico fino all'asprezza.


Il linguaggio

Caratteristico del poeta è l'essenzialità del linguaggio che, con rapidissime immagini e sapienza ritmica e sintattica, crea brani di straordinaria suggestione.
Nello "Zibaldone" Leopardi annota una propria descrizione circa il linguaggio adottato nella poesia: egli scrive di adoperare "una lingua per i morti", sottolineando l'uso di parole arcaiche, desuete, fuori dal loro contesto. L'infinito è paradigmatico per potenza espressiva. L'idea dell'immensità e dell'eternità sono rese con un limitatissimo impiego di mezzi lessicali, che consente alle idee di giganteggiare nel deserto delle parole.
Anche per questo Leopardi è classico, anche se la sua ansia, il tedio della vita, e la personalità esasperata ne fanno un romantico. In Leopardi, accanto alla poetica dell'idillio che si esprime, romanticamente, nel dualismo paesaggio – stato d'animo, si può trovare, parallelamente, una poetica non idilliaca, dalle immagini incisive e dalla sintassi perentoria.
In Leopardi l'originario slancio sentimentale si evolve in una complessa vicenda spirituale. Il poeta parte dal razionalismo illuministico giungendo a negarlo ed a condannare la stessa ragione.


Il pessimismo leopardiano

Inizialmente il pessimismo di Leopardi si configura come personale (o soggettivo), in seguito si evolve in pessimismo storico, pensiero secondo cui l’infelicità dell'uomo è un prodotto della ragione moderna; gli antichi quindi, non condizionati dall'incivilimento dovuto alla ragione nel loro accostarsi alla natura e alla vita stessa, sono gli unici che secondo il poeta di Recanati hanno potuto raggiungere una condizione, per quanto illusoria, di felicità.
Per Leopardi le epoche passate sono quindi migliori di quelle presenti. La natura, in questa fase del pensiero leopardiano, è ancora considerata benigna, perché, provando pietà per l’uomo, gli ha fornito l’immaginazione, ovvero le illusioni, le quali producono nell’uomo una felicità che non è reale perché mascherano la vera realtà che è fatta di sofferenza. Nel mondo moderno queste illusioni sono però andate perdute perché la ragione ha smascherato il mondo illusorio degli antichi e ridato vita alla realtà nuda e cruda dei moderni.
Sviluppando ulteriormente la sua riflessione (come attestano numerose pagine dello "Zibaldone"), Leopardi perviene al cosiddetto pessimismo cosmico, ovvero quella concezione per cui, contrariamente alla sua posizione precedente, afferma che l'infelicità è connaturata alla stessa vita dell'uomo, per questo destinato a soffrire per tutta la durata della sua esistenza. La natura è infatti la sola colpevole dei mali dell’uomo; essa è ora vista come un organismo che non si preoccupa più della sofferenza dei singoli, ma che svolge incessante e noncurante il suo compito di prosecuzione della specie e di conservazione del mondo: è un meccanismo indifferente e crudele che fa nascere l’uomo per destinarlo alla sofferenza. Leopardi sviluppa quindi una visione più meccanicistica e materialistica della natura, una natura che egli con disprezzo definisce ‘matrigna’ (cfr. "La Ginestra").
L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato, come un saggio che pratica l’atarassia (per la dottrina epicurea "assenza di turbamento") e la lucida contemplazione del reale. Il destino dell’uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti. In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Leopardi reputa proprio la sofferenza la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo, arrivando perfino a dire che “tutto è male”. Significativa è, a questo proposito, la conclusione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 100-104), dalla quale emerge tutta la sfiducia del poeta verso la condizione umana nel mondo, una condizione fatta di sofferenza e di diuturna infelicità.
« Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri
che dell’essere mio frale
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male. »
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 100-104)

Ne La ginestra, il penultimo testo da lui scritto, Leopardi propone come soluzione l’alleanza e la solidarietà fra gli uomini, che, si configura come l’unica vera via d’uscita di fronte ai mali della modernità: essa rimane però, pur sempre, un’utopia.

Introduzione al concetto
di "natura" in Leopardi

La lunga riflessione di Leopardi sulla "Natura" si apre nel 1818 in un modo apparentemente contraddittorio e problematico, come dimostra il fatto che nel giro di pochi mesi - tra fine del '17 e fine del '18 - Leopardi scrive sulla "Natura":
« La Natura, purissima, tal qual è, tal quale la vedevano gli antichi: (...) quell'albero, quell'uccello, qual canto, quell'edifizio, quella selva, quel monte, tutto da sé… »
(Zibaldone, pag. 15)

« … e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti… »
(Discorso sopra la poesia romantica)

Di "quale" natura sta parlando, Leopardi? Per rispondere, occorre fare riferimento a due enunciati che appartengono alla cultura greca, che si collocano cioè alle origini della riflessione occidentale sulla Natura; Aristotele scrive nella Fisica
« Ridicolo, poi, sarebbe cercare di dimostrare che la natura è […] [poiché] ogni volta che siamo di fronte a un ente di natura, è la natura stessa che ci appare. »
(Aristotele, Fisica)

Ma prima di lui, Eraclito aveva scritto:
« Natura (Physis) ama nascondersi »

Non può non colpire questa consonanza di Leopardi con le origini del pensiero filosofico, ma soprattutto con la lingua greca.
All'età di dieci anni Leopardi comincia lo studio del greco, direttamente dai classici e soprattutto da Omero. La filosofia naturalmente la "scoprirà" più tardi. Domandiamoci quindi come appare la natura in Omero. Essa, appunto, appare. Il primo e più famoso contesto è quello delle similitudini.
« Così loro, i Troiani, facevano la guardia. E intanto gli Achei erano in preda a una folle smania di fuggire, quale si accompagna al gelo della paura. Tutti i più valorosi stavano là abbattuti, in una costernazione intollerabile. E come due venti sconvolgono il mare ricco di pesci, Borea ad esempio e Zefiro: essi soffiano dalla Tracia arrivando all'improvviso, ed ecco l'onda si accavalla nera e rovescia fuori molta alga lungo la spiaggia: agitato così era il cuore in petto agli Achei. »
(Omero, Iliade, Libro IX)

La similitudine fu la prima tecnica linguistica alla base del pensiero astratto o filosofico: essa consiste molto semplicemente nel mettere a contatto tra loro due piani del significato: uno evidente - quello della figura così come appare - l'altro non-evidente - quello dei sentimenti interiori. Ma così facendo, la poesia scoprì che "l'evidente", l'effettivo, viene assieme, è l'espressione di qualcosa che è nascosto, che non si vede, lethe. L'immagine naturale è a-lethe, ciò che è svelato, che non-è-più-nascosto, che è "uscito fuori". I vocabolari traducono "lethe" con "oblio" e "aletheia" con verità, condizionati da un greco filosofico posteriore, che già aveva dimenticato i significati originari delle parole. Per il greco omerico, per la poesia greca, il Lethe è sì oblio, ma in quanto non più presente, non più evidente. Per la mentalità greca, si dimentica (l'oblio per i defunti, per gli scomparsi) ciò che non è più visibile, ciò che è morto: lo scopo del poeta, della poesia, era infatti quello di mantenere viva l'immagine degli eroi, per non dimenticarli. La mancanza di una fede nell'al di là faceva della morte la fine di tutto; per non dissolversi nel nulla, l'unico sistema era la rappresentazione poetica, la parola che rendeva presente l'immagine viva, naturale , del defunto.
Dunque è una contraddizione solo apparente l'immagine di una "Natura" che è "l'evidenza immediata di ciò che ci circonda", e nello stesso tempo "qualcosa di profondo, nascosto, celato ai sensi". A partire dalla similitudine, la Natura per il greco è duplice nel senso dell'ambiguità: da un lato è ciò che appare, dall'altro è una forza (enérgheia) che agisce nel profondo di ciò che appare. Sarà proprio Aristotele a dare la sistemazione concettuale definitiva di questa concezione.
Torniamo a Leopardi. Egli è un bambino di dieci-dodici anni quando legge Omero. Egli scopre la forza delle emozioni attraverso una viva rappresentazione fabulatoria della realtà. Ma in più c'è la forza di un grande poeta e di un grande classico. Assorbe emotivamente, attraverso una forte esperienza estetica, l'uso di una parola fondamentale.
Poi scopre la letteratura del suo tempo, la letteratura romantica. Attenzione: Leopardi non legge ancora i grandi romanzi romantici (ciò avverrà qualche anno dopo). In quel periodo egli è immerso nella filologia, e quindi nelle riviste letterarie; egli legge i dibattiti letterari, dove si discute di poetica, di ciò che è poesia e che non è poesia: Di Breme, M.me De Stael ecc. E lì scopre un'altra "natura", che è solo più quella "nascosta". Ma nascosta in che senso? Nel duplice senso cartesiano-kantiano delle "leggi di natura" - il meccanicismo razionalista sei-settecentesco (la "natura" è "legge nascosta", è un codice super-razionale che va liberato dalle apparenze - la singolarità dell'individuo - per poter essere esplicato nella sua evidenza puramente logico-quantitativa: la formula che rende manipolabili i fenomeni. La "Natura" è un oggetto di laboratorio); l'altra è quella romantico-idealista di "Natura" come "Spirito alienato", come "Anima del mondo" non consapevole di sé. La "Natura" non è "nient'altro" che lo specchio della psiche umana, è sentimento espresso in modo indiretto. In tutti i casi la "Natura" non esiste più.
L'effetto che tutto ciò ha nella psiche di Leopardi è molto chiaro: per lui la "Natura" è quella scoperta nella immediatezza estetica della conoscenza poetica, e ciò causa una ribellione nei confronti di un atteggiamento intellettualistico che egli identifica immediatamente come tradimento della poesia. La "Natura" per lui non è riducibile né a "Sentimento" né a "Ragione"; la "Natura" è "Physis", è vita (in greco, il significato originario di Physis è "nascimento", il venire alla luce).

La natura nemica dell'uomo

Ben presto però il contrasto tra ideali e realtà, tra aspirazioni e limiti imposti dalla vita, porta il poeta a concludere che l'infelicità non è conseguenza del progresso, bensì stato naturale di ogni essere vivente e che la natura è nemica dell'uomo. Leopardi afferma che si insegna all'uomo che la morte prematura è un bene, ma egli la teme, la vita è fragile cosa e più che dono è disgrazia, ma l'uomo teme la morte. La virtù morale è più preziosa della bellezza, ma un'anima sublime in un corpo sgraziato è derisa e misconosciuta (Ultimo canto di Saffo). L'uomo aspira a cose infinite ed eterne, ma vivere è un continuo morire (Infinito).
L'uomo è destinato a non godere d'alcun bene, si dispera, è afflitto da un tedio mortale che lo spinge al suicidio, dal quale lo trattengono la paura della morte e la superstizione religiosa. L'aspirazione all'irraggiungibile verità è il massimo tormento della vita ed è senza speranza, infatti l'uomo è destinato a non sapere perché sia nato, viva, soffra, dove vada (Canto notturno di un pastore errante nell'Asia) e tale forzata cecità uccide l'anima umana (L'infinito: ...e il naufragar m’è dolce in questo mare), poiché questa è la legge inesorabile dell'universo.
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I presupposti del pessimismo leopardiano

Il pensiero di Leopardi sul pessimismo si basa su due presupposti: il primo è quello per cui l'uomo non può conoscere la verità, e quindi sfocia nello scetticismo, il secondo invece si basa sulla convinzione che la realtà coincida con la Natura, senza idealità o provvidenzialità, ed è moto eterno e meccanico (materialismo, illuminismo). Sempre relativamente alla Natura, Leopardi la ritiene "la grande ingannatrice" del genere umano, poiché prima illude e concede i suoi doni e alimenta le false speranze dell'uomo e poi lo disillude togliendogli la vita, magari all'improvviso con una malattia, o lo rende infelice con un amore non ricambiato.

Le fasi del pessimismo leopardiano

Il pessimismo individuale
Dapprima vi è il dolore personale che diviene per lui strumento di conoscenza. Il poeta pensa che la vita sia stata spietata con lui (esperienza personale/dolore personale), ma che altri possono essere felici (pessimismo personale o soggettivo).

Il pessimismo storico
Leopardi non interpreta più il dolore come personale ma come "storico": non solo lui ma anche tutta l'umanità è destinata a soffrire a causa dell'evoluzione storica della coscienza e della ragione dell'uomo maturo che rende limitato e passeggero il piacere umano. La natura è ancora vista come benevola, ma è la ragione umana matrigna. Il dolore storico volgerà infine al grado "cosmico".

L'origine dell'infelicità umana
Al centro della meditazione di Leopardi si pone l'infelicità dell'uomo. Egli identifica la felicità con il piacere sensibile e materiale. Ma l'uomo aspira a un piacere infinito, e siccome nessuno dei piaceri goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione. La natura ha voluto offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni. Per questo gli uomini primitivi, più vicini alla natura, erano felici. Il progresso della civiltà ha allontanato l'uomo da quella condizione privilegiata.Gli antichi, erano anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva, e ciò contribuiva a far dimenticare il vuoto dell’esistenza. La colpa dell’infelicità presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla vita tracciata dalla natura benigna. Ne deriva un atteggiamento titanico: il poeta come unico difensore dell’antichità, si eleva per sfidare il crudele destino che ha colpito l’Italia. Questa fase del pensiero leopardiano è definita pessimismo storico, ovvero la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. Questa concezione di natura benigna e provvidenziale entra in crisi. È la natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli mezzi per soddisfarlo. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa, ma come meccanismo crudele. è una concezione meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo della natura. Se causa dell’infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini sono infelici. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo “cosmico”: l’infelicità è legata ad una condizione immutabile di natura. Ne deriva, l’abbandono della poesia civile e del titanismo: se l’infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta.

Il pessimismo cosmico
Nasce il dolore cosmico nel momento in cui Leopardi arriva ad una conclusione assolutamente negativa: la condizione d'infelicità è propria del genere umano in quanto tale, ed è da attribuirsi alla Natura stessa. Infatti questa, mettendoci al mondo, ha fatto sì che in noi nascesse il desiderio del piacere infinito, senza però darci i mezzi per raggiungerlo. Questa concezione, che è alla base della maggior parte della produzione poetica di Leopardi, emerge per la prima volta con assoluta chiarezza nel "Dialogo della Natura e di un Islandese", un'Operetta morale scritta nel 1824. In questo Dialogo la Natura si mostra del tutto indifferente alla sofferenza dell'uomo, che è soltanto un elemento del ciclo universale di produzione e distruzione. Nella Ginestra, del 1836, Leopardi ribadisce che la Natura non ha per gli uomini riguardo maggiore di quello che ha per le formiche: eppure "l'uom d'eternità si arroga il vanto".

Sogno di un'azione concorde degli uomini
Nell'"Operetta morale" Dialogo di Plotino e Porfirio, la lunga discussione tra i due filosofi antichi sul suicidio si conclude con l'affermazione che la scelta di uccidersi dev'essere rifiutata in quanto questo gesto aggiungerebbe un'ulteriore motivo di sofferenza agli amici del suicida, i quali, come tutti gli uomini, devono già patire tanto dolore. Dunque, conclude Plotino, "andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita". In questo testo è possibile trovare la manifestazione di uno spirito di solidarietà e condivisione, che nasce dalla constatazione che non v'è altro modo per difendersi dalla potenza cieca della Natura e dall'alternativa dolore/noia entro la quale si svolge la vita dell'uomo.
Del resto Leopardi respinse sempre con forza l'accusa di misantropia, come si legge in un pensiero dello "Zibaldone": "La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi" (Recanati, 2 gennaio 1829).
Su queste basi, matura in seguito l'auspicio di una società rinnovata in senso solidale, non per astratti insegnamenti di morale o di religione, ma per la presa di coscienza che solo l'accettazione coraggiosa della verità ed il rifiuto di ogni inganno, illusione, autoinganno possono rendere gli uomini veramente uomini, e la vita un po' meno indegna di essere vissuta (cfr. "La ginestra").

Il concetto di "Natura"

La lunga riflessione di Leopardi sulla "Natura" si apre nel 1818 in un modo assai strano e problematico - quasi come un segnale della profonda "stranezza" del pensiero leopardiano (nel senso di apparente contraddittorietà e oscillazione continua), che altro motivo forse non ha che l'essere esso un pensiero pensante, cioè vivo, in cammino, e non un sistema combinatorio di luoghi comuni, come lo sono tutte le poetiche "stabilite" e "saggistiche" degli scrittori che non hanno amato la filosofia.
La stranezza consiste in questo: nel giro di pochi mesi - fine del '17 fine del '18 - Leopardi scrive sulla "Natura": La Natura, purissima, tal qual è, tal quale la vedevano gli antichi: […] quell'albero, quell'uccello, qual canto, quell'Edifizio, quella selva, quel monte, tutto da sé… (Zibaldone). … e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti… (Discorso sopra la poesia romantica).
Di che natura sta parlando Leopardi? Per rispondere a questa domanda, partiremo da due enunciati che appartengono alla cultura greca, che si collocano cioè alle origini della riflessione occidentale sulla Natura; Aristotele scrive nella Fisica: Ridicolo, poi, sarebbe cercare di dimostrare che la natura è […] [poiché] ogni volta che siamo di fronte a un ente di natura, è la natura stessa che ci appare.

Il concetto di Natura nel pensiero greco
Ma prima di lui, Eraclito aveva scritto: La Natura [Physis] ama nascondersi. Non può non colpire questa consonanza di Leopardi con le origini del pensiero filosofico, ma soprattutto con la lingua greca. All'età di dieci anni Leopardi comincia lo studio del greco, direttamente dai classici e soprattutto da Omero.

Omero

Il primo e più famoso contesto in cui può essere indagata la concezione della Natura in Omero è quello delle similitudini. Così loro, i Troiani, facevano la guardia. E intanto gli Achei erano in preda a una folle smania di fuggire, quale si accompagna al gelo della paura. Tutti i più valorosi stavano là abbattuti, in una costernazione intollerabile. E come due venti sconvolgono il mare ricco di pesci, Borea ad esempio e Zefiro: essi soffiano dalla Tracia arrivando all'improvviso, ed ecco l'onda si accavalla nera e rovescia fuori molta alga lungo la spiaggia: agitato così era il cuore in petto agli Achei. (Iliade Libro IX) Come i cani fanno, inquieti, la guardia intorno alle pecore, dentro il muro di cinta, al sentire la belva dal cuore feroce che avanza per la boscaglia attraverso i monti; e un grande frastuono si leva allora, di uomini e di cani, e il sonno gli va via: così a loro là era sparito dalle palpebre il dolce sonno, nel vigilare in quella brutta notte. (Iliade Libro X)
Ma Idomeneo non lo prese la paura come un ragazzino, e stava là ad attenderli. Pareva un cinghiale sui monti, fiducioso nella sua forza, che aspetta l'assalto rumoroso di molti uomini in un luogo solitario, con le setole dritte sul dorso: gli occhi hanno lampi di fuoco, e intanto arrota le zanne, deciso a difendersi da cani e cacciatori. Così Idomeneo attendeva, senza tirarsi indietro, l'attacco di Enea che veniva alla riscossa. (Iliade Libro XIII)

Il Lethe
La similitudine fu la prima tecnica linguistica alla base del pensiero astratto o filosofico: essa consiste molto semplicemente nel mettere a contatto tra loro due piani del significato: uno evidente - quello della figura così come appare - l'altro non-evidente - quello dei sentimenti interiori. Ma così facendo, la poesia scoprì che "l'evidente", l'effettivo, viene assieme, è l'espressione di qualcosa che è nascosto, che non si vede, lethe.
L'immagine naturale è a-lethe, ciò che è svelato, che non-è-più-nascosto, che è "uscito fuori". I vocabolari traducono "lethe" con "oblio" e "aletheia" con verità, condizionati da un greco filosofico posteriore, che già aveva dimenticato i significati originari delle parole. Per il greco omerico, per la poesia greca, il Lethe è sì oblio, ma in quanto non più presente, non più evidente. Per la mentalità greca, si dimentica (l'oblio per i defunti, per gli scomparsi) ciò che non è più visibile, ciò che è morto: lo scopo del poeta, della poesia, era infatti quello di mantenere viva l'immagine degli eroi, per non dimenticarli.
La mancanza di una fede nell'aldilà faceva della morte la fine di tutto; per non dissolversi nel nulla, l'unico sistema era la rappresentazione poetica, la parola che rendeva presente l'immagine viva, naturale, del defunto.
Dunque è una contraddizione solo apparente l'immagine di una "Natura" che è "l'evidenza immediata di ciò che ci circonda", e nello stesso tempo "qualcosa di profondo, nascosto, celato ai sensi".
A partire dalla similitudine, la Natura per il greco è duplice nel senso dell'ambiguità: da un lato è ciò che appare, dall'altro è una forza (enérgheia) che agisce nel profondo di ciò che appare. Sarà proprio Aristotele a dare la sistemazione concettuale definitiva di questa concezione.

Leopardi e la scoperta della Natura

Leopardi, all'età di dieci-dodici anni, legge Omero e scopre la forza delle emozioni attraverso una viva rappresentazione fabulatoria della realtà. Ma in più c'è la forza di un grande poeta e di un grande classico. Assorbe emotivamente, attraverso una forte esperienza estetica, l'uso di una parola fondamentale. Poi scopre la letteratura del suo tempo, la letteratura romantica.
Ma Leopardi non legge ancora i grandi romanzi romantici (ciò avverrà qualche anno dopo). In quel periodo egli è immerso nella filologia, e quindi nelle riviste letterarie; egli legge i dibattiti letterari, dove si discute di poetica, di ciò che è poesia e che non è poesia: di Breme, Madame de Staël e lì scopre un'altra "natura", che è ormai solo quella "nascosta" nel duplice senso cartesiano-kantiano delle "leggi di natura" - il meccanicismo razionalista sei-settecentesco (la "natura" è "legge nascosta", è un codice super-razionale che va liberato dalle apparenze - la singolarità dell'individuo - per poter essere esplicato nella sua evidenza puramente logico-quantitativa: la formula che rende manipolabili i fenomeni.
La "Natura" è un oggetto di laboratorio); l'altra è quella romantico-idealista di "Natura" come "Spirito alienato", come "Anima del mondo" non consapevole di sé. La "Natura" non è "nient'altro" che lo specchio della psiche umana, è sentimento espresso in modo indiretto. In tutti i casi la "Natura" non esiste più.
L'effetto che tutto ciò ha nella psiche di Leopardi è molto chiaro: per lui la "Natura" è quella scoperta nella immediatezza estetica della conoscenza poetica, e ciò causa una ribellione nei confronti di un atteggiamento intellettualistico che egli identifica immediatamente come tradimento della poesia. La "Natura" per lui non è riducibile né a "Sentimento" né a "Ragione"; la "Natura" è "Physis", è vita (in greco, il significato originario di Physis è "nascimento", il venire alla luce).

Parafrasi di alcuni canti

Le ricordanze

Belle stelle dell'Orsa mai avrei creduto di tornare ancora a contemplarvi (con ammirazione estatica) dopo tanto tempo come una volta/d'abitudine mentre scintillate sul giardino della casa paterna e parlare con voi dalle finestre della casa ove abitai fanciullo e vi conobbi la fine delle mie gioie. Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creò  nel pensiero della vostra vista e della altre stelle a voi (alle stelle dell'Orsa) vicine nel cielo! quando, silenzioso, seduto sul prato, solevo trascorrere gran parte delle sere scrutando il cielo ed ascoltando il canto della rana lontana nei campi E la lucciola volava presso le siepi e sulle aiuole, mentre i viali odorosi e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e la casa paterna risuonava delle voci alterne e delle tranquille opere dei servi. E quali pensieri immensi, quali dolci sogni mi ispirò il vedere il mare (l'Adriatico) lontano e i monti (l'Appennino) azzurri (appaiono azzurri in lontananza) che scopro dalla casa e che sognavo un giorno di varcare, pensando di trovarvi al di là mondi misteriosi e immaginando per la mia vita una sconosciuta felicità. Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito avrei senza rimpianti cambiato con la morte questa mia vita dolorosa e spoglia di gioie. Né il cuore mi diceva che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza in questo natio borgo selvaggio (Leopardi considera Recanati un borgo incivile con gente rozza), fra gente incivile e ignobile; per la quale la voglia di conoscenza e cultura sono parole strane e spesso oggetto di scherno; che mi odia e mi sfugge non già per invidia, perché non mi ritiene migliore di sè, ma perché tale pensa che io mi ritenga dentro di me, sebbene mai abbia mostrato qualche segno di ciò. Qui passo gli anni, abbandonato, nascosto, senza vita e senz'amore, e tra lo stuolo dei malevoli divento contro la mia natura scortese/aspro (per reazione a tanta malevolenza): qui mi spoglio della pietà e delle virtù e divento dispregiatore degli uomini, a causa della gente meschina tra cui vivo; e intanto vola il caro tempo della gioventù, più caro della fama e della gloria, della pura luce del giorno e dello stesso respirare/vivere (lo spirar): ti perdo senza un attimo di gioia, inutilmente, in questo soggiorno disumano, tra gli affanni, unico fiore dell'arida vita. Viene il vento recando dalla torre (il campanile di recanati) del borgo il suono delle campane. E mi ricordo questo suono era un conforto per me quando ero fanciullo quando durante le mie notti nella camera buia vegliavo a causa degli incessanti incubi, sospirando che giungesse presto il mattino e la luce del giorno. Qui non c'è nulla che io veda o senta che dalla memoria non affiori un'immagine e da quella prenda vita un dolce ricordare. Dolce in se stesso; ma con dolore subentra il pensiero del presente e un vano desiderio del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza. Quella loggia volta a ponente; queste pareti affrescate e quei dipinti che raffigurano greggi , e il Sole che nasce sulla solitaria campagna mi procurarono mille diletti durante i momenti di riposo dagli studi, quando, dovunque mi trovassi , avevo accanto a me (come una persona viva) quella mia capacità di illudermi, di credere nei miei sogni. In queste sale antiche, al chiarore delle nevi, mentre il vento sibilava intorno a queste ampie finestre, risuonarono i giochi e le mie felici grida al tempo in cui a noi si mostra pieno di dolcezza il duro, l'indegno (non meritevole di essere conosciuto) mistero della realtà, non ancora sperimentata e intatta; e chi è ancora ragazzo come un innamorato inesperto, così sogna (vagheggia) una vita che sarà invece piena d'inganni, e ammira una celeste bellezza vista con l'immaginazione.
O speranze, speranze, dolci inganni della mia fanciullezza! sempre, parlando (coi miei versi), ritorno a voi; perché non so dimenticarvi per quanto trascorra il tempo, per quanto mutino gli affetti e i pensieri. Fantasmi, lo so, sono la gloria e l'onore, i diletti e il bene un puro desiderio. E sebbene vuoti siano gli anni miei, sebbene oscuro e solitario sia la mia vita mortale, lo so che la fortuna ha ben poco da prendersi di me. Ma ahimè, ogni volta che ripenso a voi, o mie antiche speranze, ed a quel mio primo fantasticare sul mio futuro e lo confronto con questa mia vita così inutile e così dolorosa e che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze, sento stringermi il cuore e sento che non mi so rassegnare interamente al mio destino. E quando pure questa invocata morte mi raggiungerà e sarà giunto la fine della mia sventura; quando la terra per me sarà una valle straniera e dal mio sguardo fuggirà il futuro; certamente mi ricorderò di voi, e quell'immagine mi farà ancora sospirare, mi renderà amaro l'aver vissuto invano; e l'amarezza del ricordo guasterà persino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere.
E già nella fanciullezza, in quel primo tumulto di gioie d'angosce di desideri, più volte chiamai la morte e a lungo mi sedetti là sulla fontana pensando di fare cessare dentro quelle acque la speranza, il dolore della mia vita. Poi ridotto in pericolo di vita da un'oscura malattia, rimpiansi la bella giovinezza e il fiore dei miei giorni poveri di gioie che così anzitempo appassiva; e spesso a tarda sera, seduto sul letto che, testimone, scrivendo dolorosamente poesie alla luce della fioca lucerna, piansi coi silenzi e con la notte miei unici compagni, l'energia vitale che mi abbandonava. E nel momento in cui la vita mancava, cantai un canto funebre (si tratta de "Appressamento della morte" scritto nel dicembre 1816).
Chi vi può ricordare senza sospiri, o primi momenti della giovinezza, o giorni pieni di lusinghe, inenarrabili (tanto sono straordinari e nuovi), e allorquando al giovane incantato per la prima volta sorridono le fanciulle; a gara intorno ogni cosa sorride, l'invidia tace non eccitata ancora oppure è innocua; e, (inusitata meraviglia), quasi il mondo porge la destra in aiuto, scusa i suoi errori, festeggia il suo nuovo entrare nella vita, e rendendogli omaggio mostra di accettarlo per suo signore e lo chiami? Ma sono giorni fugaci: sono dileguati come un lampo. E quale uomo può dire di non aver conosciuto la sventura (perchè perdere la giovinezza è la sventura più grande) se trascorsa è ormai quella sua bella età, se il suo bel tempo, se la giovinezza, ahi la giovinezza (la ripetizione sottolinea il doloroso rimpianto) è ormai finita?.
O Nerina! (nome fittizio, forse riferito a Maria Belardinelli morta ventisettenne a Recanati, oppure ancora di Teresa Fattorini, la fanciulla di A Silvia, incarna comunque il mito della fanciulla morta precocemente) E non odo forse questi luoghi parlare di te? forse sei caduta dal mio pensiero? Dove sei andata, che qui di te trovo solo la ricordanza, dolcezza mia? Questa terra natale ormai non ti vede più: quella finestra, dalla quale avevi l'abitudine di parlarmi, e dove si riflette mestamente la luce delle stelle ora è deserta. Dove sei, che più non sento risuonare la tua voce, quando ogni parola che dalle tue labbra mi giungeva da lontano mi faceva impallidire? Altro tempo. (seguono una serie di brevi frasi che danno l'idea dell'infittirsi dei sospiri provocati dal ricordare). I tuoi giorni furono, mio dolce amor. Passasti. Il passaggio su questa terra ad altri ora è dato in sorte, l'abitare questi odorati colli. Ma troppo in fretta sei passata e breve come un sogno è stata la tua vita. Andavi come danzando nel cammino della vita. La gioia ti splendeva in fronte e quel fiducioso immaginare intorno all'avvenire e la luce della gioventù ti splendevano negli occhi, quando il destino li ha spenti facendoti giacere (nella morte). Ahi Nerina. Nel mio cuore regna l'antico amore. Se qualche volta vado a una festa o a radunanze, fra me stesso dico: O Nerina a radunanze e a feste non vai più e più non ti abbigli. Se torna maggio e gli amanti vanno recando alle fanciulle canti e ramoscelli fioriti, dico: per te Nerina mia la primavera non tornerà mai più, né tornerà l'amore. Ogni giorno sereno, ogni valle fiorita che io miro, ogni piacere che io sento, dico: Nerina ora non gode più; i campi e l'aria non guarda più. Ahi tu sei passata, eterno sospiro mio (Nerina incarna l'immagine della gioventù e quindi della speranza, della felicità e della vita): passasti e l'acerbo ricordo sarà compagno d'ogni mio dolce immaginare, di tutti i mei teneri sentimenti, di tutti i miei tristi e cari moti del cuore.



Estratto da:
http://it.wikipedia.org/wiki/


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Spento il diurno raggio

Spento il diurno raggio in occidente,
E queto il fumo delle ville, e queta
De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, volta all'amorosa meta,
Si ritrovò nel mezzo ad una landa
Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

Spandeva il suo chiaror per ogni banda
La sorella del sole, e fea d'argento
Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramuscelli ivan cantando al vento,
E in un con l'usignol che sempre piagne
Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

Limpido il mar da lungi, e le campagne
E le foreste, e tutte ad una ad una
Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,
E i collicelli intorno rivestia
Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via
La donna, e il vento che gli odori spande,
Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:
Piacer prendea di quella vista, e il bene
Che il cor le prometteva era più grande.

Come fuggiste, o belle ore serene!
Dilettevol quaggiù null'altro dura,
Né si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura
La sembianza del ciel, ch'era sì bella,

E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,
Che più non si scopria luna né stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,
E salir su per l'aria a poco a poco,
E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco;
E intanto al bosco si destava il vento,
Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento,
Tal che a forza era desto e svolazzava
Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava
Ver la marina sì, che l'un suo lembo
Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

Già tutto a cieca oscuritade in grembo,
S'incominciava udir fremer la pioggia,
E il suon cresceva all'appressar del nembo.

Dentro le nubi in paurosa foggia
Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;
E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

Discior sentia la misera i ginocchi;
E già muggiva il tuon simile al metro
Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

Talvolta ella ristava, e l'aer tetro
Guardava sbigottita, e poi correa,
Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

E il duro vento col petto rompea,
Che gocce fredde giù per l'aria nera

In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,
Rugghiando orribilmente e senza posa;
E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn'intorno era terribil cosa
Il volar polve e frondi e rami e sassi,
E il suon che immaginar l'alma non osa.

Ella dal lampo affaticati e lassi
Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,
Gìa pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno
Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento
Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento
Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,
Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra.

Il primo amore

Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!
Perché seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell'emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,
M'affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi
Moti per l'ossa mi serpeano, oh come
Mille nell'alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D'antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d'amor, che il venticello
Che l'aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,

Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora

Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,



Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

All'Italia

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica

O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.

Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!

Io credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Né le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de' Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra

Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute
E correr fra' primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.





Sopra il Monumento di Dante
che si preparava in Firenze

Perché le nostre genti
Pace sotto le bianche ali raccolga,
Non fien da' lacci sciolte
Dell'antico sopor l'itale menti
S'ai patrii esempi della prisca etade
Questa terra fatal non si rivolga.
O Italia, a cor ti stia
Far ai passati onor; che d'altrettali
Oggi vedove son le tue contrade,
Né v'è chi d'onorar ti si convegna.
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
Quella schiera infinita d'immortali,
E piangi e di te stessa ti disdegna;
Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
E ti punga una volta
Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

D'aria e d'ingegno e di parlar diverso
Per lo toscano suol cercando gia
L'ospite desioso
Dove giaccia colui per lo cui verso
Il meonio cantor non è più solo.
Ed, oh vergogna! udia
Che non che il cener freddo e l'ossa nude
Giaccian esuli ancora
Dopo il funereo dì sott'altro suolo,
Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,
Firenze, a quello per la cui virtude
Tutto il mondo t'onora.
Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso
Obbrobrio laverà nostro paese!
Bell'opra hai tolta e di ch'amor ti rende,
Schiera prode e cortese,

Qualunque petto amor d'Italia accende.

Amor d'Italia, o cari,
Amor di questa misera vi sproni,
Ver cui pietade è morta
In ogni petto omai, perciò che amari
Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo.
Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni
Misericordia, o figli,
E duolo e sdegno di cotanto affanno
Onde bagna costei le guance e il velo.
Ma voi di quale ornar parola o canto
Si debbe, a cui non pur cure o consigli,
Ma dell'ingegno e della man daranno
I sensi e le virtudi eterno vanto
Oprate e mostre nella dolce impresa?
Quali a voi note invio, sì che nel core,
Sì che nell'alma accesa
Nova favilla indurre abbian valore?

Voi spirerà l'altissimo subbietto,
Ed acri punte premeravvi al seno.
Chi dirà l'onda e il turbo
Del furor vostro e dell'immenso affetto?
Chi pingerà l'attonito sembiante?
Chi degli occhi il baleno?
Qual può voce mortal celeste cosa
Agguagliar figurando?
Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante
Lacrime al nobil sasso Italia serba!
Come cadrà? come dal tempo rosa
Fia vostra gloria o quando?
Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,
Sempre vivete, o care arti divine,
Conforto a nostra sventurata gente,
Fra l'itale ruine
Gl'itali pregi a celebrare intente.


Ecco voglioso anch'io
Ad onorar nostra dolente madre
Porto quel che mi lice,
E mesco all'opra vostra il canto mio,
Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.
O dell'etrusco metro inclito padre,
Se di cosa terrena,
Se di costei che tanto alto locasti
Qualche novella ai vostri lidi arriva,
io so ben che per te gioia non senti,
Che saldi men che cera e men ch'arena,
Verso la fama che di te lasciasti,
Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti
Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,
Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
E in sempiterni guai
Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.

Ma non per te; per questa ti rallegri
Povera patria tua, s'unqua l'esempio
Degli avi e de' parenti
Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
Tanto valor che un tratto alzino il viso.
Ahi, da che lungo scempio
Vedi afflitta costei, che sì meschina
Te salutava allora
Che di novo salisti al paradiso!
Oggi ridotta sì che a quel che vedi,
Fu fortunata allor donna e reina.
Tal miseria l'accora
Qual tu forse mirando a te non credi.
Taccio gli altri nemici e l'altre doglie;
Ma non la più recente e la più fera,
Per cui presso alle soglie
Vide la patria tua l'ultima sera.

Beato te che il fato
A viver non dannò fra tanto orrore;

Che non vedesti in braccio
L'itala moglie a barbaro soldato;
Non predar, non guastar cittadi e colti
L'asta inimica e il peregrin furore;
Non degl'itali ingegni
Tratte l'opre divine a miseranda
Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti
Carri impedita la dolente via;
Non gli aspri cenni ed i superbi regni;
Non udisti gli oltraggi e la nefanda
Voce di libertà che ne schernia
Tra il suon delle catene e de' flagelli.
Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto
Che lasciaron quei felli?
Qual tempio, quale altare o qual misfatto?

Perché venimmo a sì perversi tempi?
Perché il nascer ne desti o perché prima
Non ne desti il morire,
Acerbo fato? onde a stranieri ed empi
Nostra patria vedendo ancella e schiava,
E da mordace lima
Roder la sua virtù, di null'aita
E di nullo conforto
Lo spietato dolor che la stracciava
Ammollir ne fu dato in parte alcuna.
Ahi non il sangue nostro e non la vita
Avesti, o cara; e morto
Io non son per la tua cruda fortuna.
Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:
Pugnò, cadde gran parte anche di noi:
Ma per la moribonda
Italia no; per li tiranni suoi.

Padre, se non ti sdegni,
Mutato sei da quel che fosti in terra.
Morian per le rutene
Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,

Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo
E gli uomini e le belve immensa guerra.
Cadeano a squadre a squadre
Semivestiti, maceri e cruenti,
Ed era letto agli egri corpi il gelo.
Allor, quando traean l'ultime pene,
Membrando questa desiata madre,
Diceano: oh non le nubi e non i venti,
Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,
O patria nostra. Ecco da te rimoti,
Quando più bella a noi l'età sorride,
A tutto il mondo ignoti,
Moriam per quella gente che t'uccide.

Di lor querela il boreal deserto
E conscie fur le sibilanti selve.
Così vennero al passo,
E i negletti cadaveri all'aperto
Su per quello di neve orrido mare
Dilaceràr le belve
E sarà il nome degli egregi e forti
Pari mai sempre ed uno
Con quel de' tardi e vili. Anime care,
Bench'infinita sia vostra sciagura,
Datevi pace; e questo vi conforti
Che conforto nessuno
Avrete in questa o nell'età futura.
In seno al vostro smisurato affanno
Posate, o di costei veraci figli,
Al cui supremo danno
Il vostro solo è tal che s'assomigli.

Di voi già non si lagna
La patria vostra, ma di chi vi spinse
A pugnar contra lei,
Sì ch'ella sempre amaramente piagna
E il suo col vostro lacrimar confonda.
Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse

Pietà nascesse in core
A tal de' suoi ch'affaticata e lenta
Di sì buia vorago e sì profonda
La ritraesse! O glorioso spirto,
Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?
Di': quella fiamma che t'accese, è spenta?
Di': né più mai rinverdirà quel mirto
Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?
Nostre corone al suol fien tutte sparte?
Né sorgerà mai tale
Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

In eterno perimmo? e il nostro scorno
Non ha verun confine?
Io mentre viva andrò sclamando intorno,
Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
Mira queste ruine
E le carte e le tele e i marmi e i templi;
Pensa qual terra premi; e se destarti
Non può la luce di cotanti esempli,
Che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
Questa d'animi eccelsi altrice e scola:
Se di codardi è stanza,
Meglio l'è rimaner vedova e sola.

Imitazione

Lungi dal proprio ramo,
Povera foglia frale,
Dove vai tu? –- Dal faggio
Là dov'io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
Dal bosco alla campagna,
Dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,






Dove naturalmente
Va la foglia di rosa,
E la foglia d'alloro.

Io qui vagando al limitare intorno

Io qui vagando al limitare intorno,
Invan la pioggia invoco e la tempesta,
Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggìa nella foresta,
E muggìa tra le nubi il tuono errante,
Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
Parte la donna mia: pietà, se trova
Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova
Di sommergermi, o nembi, insino a tanto
Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia
Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

L'infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

Alla luna

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

Alceta e Melisso

ALCETA
Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all'improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s'approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea

Sì forte come quando un carbon vivo
Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l'erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia,
Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,
Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

MELISSO
E ben hai che temer, che agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA
Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?

MELISSO
Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader l'una o l'altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.

Ad Angelo Mai,
Quand'ebbe trovato i libri
di Cicerone della Repubblica

Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
I nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de' nostri,
Muta sì lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti? In un balen feconde

Venner le carte; alla stagion presente
I polverosi chiostri
Serbaro occulti i generosi e santi
Detti degli avi. E che valor t'infonde,
Italo egregio, il fato? O con l'umano
Valor forse contrasta il fato invano?

Certo senza de' numi alto consiglio
Non è ch'ove più lento
E grave è il nostro disperato obblio,
A percoter ne rieda ogni momento
Novo grido de' padri. Ancora è pio
Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche immortale:
Ch'essendo questa o nessun'altra poi
L'ora da ripor mano alla virtude
Rugginosa dell'itala natura,
Veggiam che tanto e tale
È il clamor de' sepolti, e che gli eroi
Dimenticati il suol quasi dischiude,
A ricercar s'a questa età sì tarda
Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

Di noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche speranza? in tutto
Non siam periti? A voi forse il futuro
Conoscer non si toglie. Io son distrutto
Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal che sogno e fola
Fa parer la speranza. Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d'opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Né rossor più né invidia; ozio circonda
I monumenti vostri; e di viltade
Siam fatti esempio alla futura etade.


Bennato ingegno, or quando altrui non cale
De' nostri alti parenti,
A te ne caglia, a te cui fato aspira
Benigno sì che per tua man presenti
Paion que' giorni allor che dalla dira
Obblivione antica ergean la chioma,
Con gli studi sepolti,
I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno! Allora anco immatura
La ruina d'Italia, anco sdegnosi
Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
Più faville rapia da questo suolo.

Eran calde le tue ceneri sante,
Non domito nemico
Della fortuna, al cui sdegno e dolore
Fu più l'averno che la terra amico.
L'averno: e qual non è parte migliore
Di questa nostra? E le tue dolci corde
Susurravano ancora
Dal tocco di tua destra, o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L'italo canto. E pur men grava e morde
Il mal che n'addolora
Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita prole,
Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider l'onde all'attuffar del sole
Parve udir su la sera, agl'infiniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio

Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di natura ogni contrasto,
Ignota immensa terra al tuo viaggio
Fu gloria, e del ritorno
Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L'etra sonante e l'alma terra e il mare
Al fanciullin, che non al saggio, appare.

Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell'ignoto ricetto
D'ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto letto
Della giovane Aurora, e del notturno
Occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
E figurato è il mondo in breve carta;
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s'apparta
Nostra mente in eterno; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
E il conforto perì de' nostri affanni.

Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell'arme e degli amori,
Che in età della nostra assai men trista
Empièr la vita di felici errori:
Nova speme d'Italia. O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea l'umana vita: in bando

Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
È spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.

O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
Tua mente allora, il pianto
A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato! il dolce canto
Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
Cinta l'odio e l'immondo
Livor privato e de' tiranni. Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno,
T'abbandonava. Ombra reale e salda
Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Al tardo onore
Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
L'ora estrema ti fu. Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

Torna torna fra noi, sorgi dal muto
E sconsolato avello,
Se d'angoscia sei vago, o miserando
Esemplo di sciagura. Assai da quello
Che ti parve sì mesto e sì nefando,
È peggiorato il viver nostro. O caro,
Chi ti compiangeria,
Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
Chi stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno anche oggidì se il grande e il raro
Ha nome di follia;
Né livor più, ma ben di lui più dura
La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
Se più de' carmi, il computar s'ascolta,
Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?

Da te fino a quest'ora uom non è sorto,
O sventurato ingegno,

Pari all'italo nome, altro ch'un solo,
Solo di sua codarda etate indegno
Allobrogo feroce, a cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse guerra a' tiranni: almen si dia
Questa misera guerra
E questo vano campo all'ire inferme
Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Disdegnando e fremendo, immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità: sceso il sapiente
E salita è la turba a un sol confine,
Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
Segui; risveglia i morti,
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.


La sera del dì di festa

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Il sogno

Era il mattino, e tra le chiuse imposte
Per lo balcone insinuava il sole
Nella mia cieca stanza il primo albore;
Quando in sul tempo che più leve il sonno
E più soave le pupille adombra,
Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore
Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
Degl'infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol: né mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
Internamente? Obblivione ingombra
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa

Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com'è tutta indarno
L'umana speme. A desiar colei
Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl'inesperti della vita, e molto
All'immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre.
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
Per la tua dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna, o di pietà, giammai

Verso il misero amante il cor t'assalse
Mentre vivesti? Io disperando allora
E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca
La mente mia. Che se una volta sola
Dolor ti strinse di mia negra vita,
Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
La rimembranza or che il futuro è tolto
Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
O sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
Che fui misera anch'io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l'amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta
Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d'affannosa
Dolcezza palpitando all'anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
Gridar volendo, e spasimando, e pregne
Di sconsolato pianto le pupille,
Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
Pur mi restava, e nell'incerto raggio
Del Sol vederla io mi credeva ancora.

Nelle nozze della sorella Paolina

Poi che del patrio nido
I silenzi lasciando, e le beate
Larve e l'antico error, celeste dono,
Ch'abbella agli occhi tuoi quest'ermo lido,
Te nella polve della vita e il suono
Tragge il destin; l'obbrobriosa etate
Che il duro cielo a noi prescrisse impara,
Sorella mia, che in gravi
E luttuosi tempi
L'infelice famiglia all'infelice
Italia accrescerai. Di forti esempi
Al tuo sangue provvedi. Aure soavi
L'empio fato interdice
All'umana virtude,
Né pura in gracil petto alma si chiude.

O miseri o codardi
Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
Tra fortuna e valor dissidio pose
Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,
E nella sera dell'umane cose,
Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.
Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
Questa sovr'ogni cura,
Che di fortuna amici
Non crescano i tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o di speme: onde felici
Sarete detti nell'età futura:
Poiché (nefando stile,
Di schiatta ignava e finta)
Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

Donne, da voi non poco
La patria aspetta; e non in danno e scorno
Dell'umana progenie al dolce raggio
Delle pupille vostre il ferro e il foco


Domar fu dato. A senno vostro il saggio
E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.
Ragion di nostra etate
Io chieggo a voi. La santa
Fiamma di gioventù dunque si spegne
Per vostra mano? attenuata e franta
Da voi nostra natura? e le assonnate
Menti, e le voglie indegne,
E di nervi e di polpe
Scemo il valor natio, son vostre colpe?

Ad atti egregi è sprone
Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto
Maestra è la beltà. D'amor digiuna
Siede l'alma di quello a cui nel petto
Non si rallegra il cor quando a tenzone
Scendono i venti, e quando nembi aduna
L'olimpo, e fiede le montagne il rombo
Della procella. O spose,
O verginette, a voi
Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno
È della patria e che sue brame e suoi
Volgari affetti in basso loco pose,
Odio mova e disdegno;
Se nel femmineo core
D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.

Madri d'imbelle prole
V'incresca esser nomate. I danni e il pianto
Della virtude a tollerar s'avvezzi
La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
La vergognosa età, condanni e sprezzi;
Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
Agli avi suoi deggia la terra impari.
Qual de' vetusti eroi
Tra le memorie e il grido
Crescean di Sparta i figli al greco nome;

Finché la sposa giovanetta il fido
Brando cingeva al caro lato, e poi
Spandea le negre chiome
Sul corpo esangue e nudo
Quando e' reddia nel conservato scudo.

Virginia, a te la molle
Gota molcea con le celesti dita
Beltade onnipossente, e degli alteri
Disdegni tuoi si sconsolava il folle
Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
Nella stagion ch'ai dolci sogni invita,
Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
Il bianchissimo petto,
E all'Erebo scendesti
Volonterosa. A me disfiori e scioglia
Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,
Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto
Del tiranno m'accoglia.
E se pur vita e lena
Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

O generosa, ancora
Che più bello a' tuoi dì splendesse il sole
Ch'oggi non fa, pur consolata e paga
È quella tomba cui di pianto onora
L'alma terra nativa. Ecco alla vaga
Tua spoglia intorno la romulea prole
Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
Lorda il tiranno i crini;
E libertade avvampa
Gli obbliviosi petti; e nella doma
Terra il marte latino arduo s'accampa
Dal buio polo ai torridi confini.
Così l'eterna Roma
In duri ozi sepolta
Femmineo fato avviva un'altra volta.

La vita solitaria

La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.

Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte

Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda.

Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi

Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote e de' cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell'armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.

A un vincitore nel pallone

Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti

Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.

Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.

Bruto minore

Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, de' necessarii danni

Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor ne' molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera ne' boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e de' lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante

Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.


Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
De' miseri vendetta. A me dintorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.

Alla primavera
O DELLE FAVOLE ANTICHE

Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?


Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea de' fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole

Quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell'umano affanno,
Rigide balze, i luttuosi accenti
Voi negletti ferìr mentre le vostre
Paurose latebre Eco solinga,
Non vano error de' venti,
Ma di ninfa abitò misero spirto,
Cui grave amor, cui duro fato escluse
Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,
Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
Nostre querele al curvo
Etra insegnava. E te d'umani eventi
Disse la fama esperto,
Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell'alto
Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
Il gener tuo; quelle tue varie note
Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
Men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi e le montagne errando,
Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro
Le meste anime educa;
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri affanni


Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno.

Ultimo canto di Saffo

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra

Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra

Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.

Inno ai Patriarchi,
o de' principii del genere umano

E voi de' figli dolorosi il canto,
Voi dell'umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto all'eterno
Degli astri agitator più cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell'etereo lume assai più dolci
Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l'uman seme alla tiranna
Possa de' morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,
E demenza maggior l'offeso Olimpo
N'armaro incontra, e la negletta mano
Dell'altrice natura; onde la viva
Fiamma n'increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.

Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de' campi, o duce antico e padre
Dell'umana famiglia, e tu l'errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l'alpina onda feria


D'inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl'inarati colli
Solo e muto ascendea l'aprico raggio
Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D'amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de' venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne' consorti ricetti: onde negata
L'improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò; ne' corpi inerti
Domo il vigor natio, languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.

E tu dall'etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima
Dall'aer cieco e da' natanti poggi
Segno arrecò d'instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,
L'atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi

Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl'inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.

Or te, padre de' pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de' celesti peregrini occulte
Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all'odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.

Fu certo, fu (né d'error vano e d'ombra
L'aonio canto e della fama il grido
Pasce l'avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Né guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d'affanno
Visse l'umana stirpe; alle secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l'ameno error, le fraudi, il molle

Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.

Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l'intima rupe, onde ministra
L'irrigua valle, inopinato il giorno
Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l'invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl'ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l'imo sole incalza.

Alla sua donna

Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla spene m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,

Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' supremi giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella


T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.

Dal greco di Simonide
Ogni mondano evento
È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
Ma di lunga stagione
Nostro cieco pensier s'affanna e cura,
Benché l'umana etate,
Come destina il ciel nostra ventura,
Di giorno in giorno dura.
La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate,
Onde ciascuno indarno s'affatica:
Altri l'aurora amica,
Altri l'etade aspetta;
E nullo in terra vive
Cui nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta.
Ecco pria che la speme in porto arrive,
Qual da vecchiezza è giunto
E qual da morbi al bruno Lete addutto;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri consunto
Da negre cure, o tristo nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.
Così di mille mali
I miseri mortali
Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma per sentenza mia,
Uom saggio e sciolto dal comune errore
Patir non sosterria,
Né porrebbe al dolore
Ed al mal proprio suo cotanto amore.

Dello stesso

Umana cosa picciol tempo dura,
E certissimo detto
Disse il veglio di Chio,
Conforme ebber natura
Le foglie e l'uman seme.
Ma questa voce in petto
Raccolgon pochi. All'inquieta speme,
Figlia di giovin core,
Tutti prestiam ricetto.
Mentre è vermiglio il fiore
Di nostra etade acerba,
L'alma vota e superba
Cento dolci pensieri educa invano,
Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla
Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano.
Ma stolto è chi non vede
La giovanezza come ha ratte l'ale,
E siccome alla culla
Poco il rogo è lontano.
Tu presso a porre il piede
In sul varco fatale
Della plutonia sede,
Ai presenti diletti
La breve età commetti.

Al conte Carlo Pepoli

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi
L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell'oprar, quel procurar che a degno

Obbietto non intende, o che all'intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per sé sola
La vita all'uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a sé, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all'aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
D'esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All'umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Né men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Né la lentezza accagionar dell'ore.
Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena

Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
I vòti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l'omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell'una
Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
Nell'imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all'uom negl'infiniti
Campi del tutto la natura aperse,

Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
Su l'alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far sé men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l'estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce
Regge nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce
E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d'anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell'età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all'ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, né degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Né degli augelli mattutini il canto
Di primavera, né per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch'io riponga
L'ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento:

Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amor, Diva più cieca.

Il risorgimento

Credei ch'al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto:
Nell'intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia

Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de' gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,

Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
Io conducea l'aprile
Degli anni miei così:
Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica
Luce de' giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo:
Purché ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E, de' suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.

Scherzo

Quando fanciullo io venni
A pormi con le Muse in disciplina,
L'una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder l'officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell'arte,

E i servigi diversi
A che ciascun di loro
S'adopra nel lavoro
Delle prose e de' versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov'è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

Le ricordanze

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente

Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,

Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.


E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De' miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza

Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte

Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.

Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E` lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

Il passero solitario

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Il pensiero dominante

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lùgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre

Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir proprio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguàr. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
Allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene!

Come da' nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso
Come d'altri desiri,
Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.


Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso.

Sempre i codardi, e l'alme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l'util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto.

A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto
Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.


Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,
E sostener molt'anni
Questa vita mortal, fu non indegno;
Ed ancor tornerei,
Così qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor sì stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te, che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.

Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,
Divina sei; perché sì viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s'adegua,

Né si dilegua pria, che in grembo a morte.

E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d'infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento:
Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento
Che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

"Secondo manoscritto autografo" (Visso, Archivio comunale)
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