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Giacomo Leopardi - CANTI
Parte seconda









































































Parafrasi di alcuni canti


Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
O luna, cosa fai tu nel cielo? Dimmi silenziosa luna, cosa fai? Sorgi di sera e vai contemplando i deserti; infine poi scompari. Non sei ancora sazia di ripercorrere sempre gli stessi percorsi? Non ti sei ancora nauseata, sei ancora desiderosa si osservare queste valli? La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza alle prime luci dell’alba , spinge il gregge attraverso i campi, e vede greggi, fonti d’acqua ed erbe; poi giunta la sera si riposa ormai stanco: altro non spera. Dimmi, o luna: che valore ha per il pastore la sua vita, la vostra vita per voi? Dimmi: dove porta questo mio vagare breve, il tuo viaggio eterno?
Un vecchietto con i capelli bianchi, malato, mezzo vestito e senza scarpe, con un grosso peso sulle sue spalle, corre via, corre, si affatica attraverso montagne e valli, su sassi pungenti, e sabbia alta, e sterpaglie, al vento e alla tempesta, e quando il tempo diventa caldo, e quando arriva il gelo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e sempre più si affretta senza mai riposarsi o consolarsi, ferito, sanguinante; finché non arriva là dove la strada e tutta la sua fatica lo dovevano condurre: abisso orrido, immenso, precipitando nel quale egli tutto dimentica. O vergine luna, così è la vita degli uomini.
L’uomo nasce con fatica, e la nascita rappresenta un rischio di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso la madre e il padre si dedicano a consolarlo per essere nato. Quando inizia a crescere il padre e la madre lo sostengono, e via di seguito sempre con gesti e con parole si impegnano ad incoraggiarlo, e a consolarlo di essere uomo.: altro compito più gradito non si compie da parte dei genitori verso i figli. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita chi poi deve essere consolato per il suo stato? Se la vita è una sventura perché da noi dura? O luna intatta, questa è la situazione umana. Ma tu non sei mortale, e forse di ciò che io sto dicendo ti importa poco.
Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse riesci a comprendere che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, il sospirare; che cosa sia questa morte, questo supremo impallidire del volto, e il venir meno ad ogni amata compagnia. E tu certamente comprenderai il perché delle cose, e vedrai il frutto del mattino, della sera, del silenzioso, tranquillo trascorrere del tempo.
Tu certamente sai, tu, a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi faccia comodo il caldo, e che cosa ottenga l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti osservo stare così muta stare su nella pianura deserta, che in lontananza confina con il cielo; oppure con il mio gregge ti vedo seguirmi e spostarti pian piano; e quando osservo in cielo brillare le stelle; dico dentro di me pensando perché tante scintille? Che cosa significa lo spazio infinito e quel profondo cielo infinito? Cosa vuol dire questa interminabile solitudine? E io cosa sono? Così penso tra me e me e non riesco a trovare nessuna utilità, nessuno scopo ne dello spazio infinito e superbo, ne delle famiglie numerose , poi di tanto darsi da fare, di tanti moti, di ogni astro e di ogni cosa terrena. MA tu certamente, o giovinetta immortale, conosci tutto ciò. Questo io conosco e sento, che delle eterne rotazioni, che della mia esistenza fragile, forse qualcun altro ricaverà qualche vantaggio o qualche bene; per me la mia vita è dolore.
Oh mio gregge che ti riposi, beato te, che credo non sei cosciente della tua miseria! Quanta invidia ho nei tuoi confronti! Non solo perché sei quasi priva di sofferenza; dato che ti dimentichi subito ogni stento, ogni danno ogni timore forte; ma più di tutto perché nn proverai mai noia. Quando tu stai all’ombra, sopra l’erba, tu sei calma e contenta; e in quello stato trascorri gran parte dell’anno senza provare noia. E anche io siedo sopra l’erba, all’ombra, e un fastidio mi occupa la mente, e un bisogno quasi mi stimola così che, sedendo, sono più che mai lontano da trovar pace e riposo. Eppure non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo per piangere. Di che cosa o quanto tu goda non lo so certamente dire; ma sei fortunato. E io, o mio gregge, godo ancora poco, né mi lamento solamente di questo. Se tu sapessi parlare , io ti chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente senza fare nulla ogni animale si appaga; ma se io giaccio e mi riposo vengo assalito dalla noia?
Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare le stelle ad una d una, o come il tuono potessi viaggiare di montagna in montagna, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, o candida luna. O forse il mio pensiero si discosta dalla verità, riflettendo sulla condizione degli altri: forse in qualunque forma avvenga, in qualunque forma o condizione, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto a tutti.

A Silvia
Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita mortale, quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi ridenti e fuggitivi e tu, lieta e preoccupata, stavi oltrepassando la soglia della gioventù per entrare nella giovinezza? Le stanze e le vie d’intorno risuonavano al tuo canto frequente quando, intenta ai lavori femminili, sedevi molto contenta di quell’avvenire vago che immaginavi. Era il maggio profumato e tu eri solita trascorrere il giorno in questo modo. Io lasciando talvolta gli studi piacevoli e impegnativi, nei quali si spendeva la parte migliore di me e la maggior parte del tempo, ascoltavo dal balcone della casa paterna la tua voce e guardavo la mano veloce che tesseva la tela. Io guardavo il cielo sereno, le vie dorate e gli orti rigogliosi e osservavo da un lato il mare lontano e dall’altro il monte vicino. Le parole non bastano per descrivere quello che io sentivo. Ricordi quanti pensieri dolci, speranze, sentimenti, o Silvia mia? Come ci appariva bella la vita e il destino! Quando mi ricordo di tanta speranza mi opprime il cuore questo sentimento aspro e sconsolato e torno a dolermi della mia vita sventurata. O natura, o natura, perché non dai in seguito quello che prometti prima ai tuoi figli? Tu, Silvia, prima che l’inverno rendesse arida l’erba, presa e vinta da una malattia interna, morivi, o tenerella e non vedevi la tua giovinezza; non ti addolciva il cuore la lode dolce ora dei capelli neri ora degli sguardi innamorati e schivi né le tue compagne hanno potuto parlare d’amore con te nei giorni di festa. Dopo poco è morta anche la mia dolce speranza: agli anni miei il destino non mi ha mai portato alla giovinezza. Come sei passata in fretta, mia speranza giovanile! Questo è quel mondo che io immaginavo? Questi sono gli amori e gli eventi su cui ragionammo insieme? Questo è il destino degli uomini? All’apparire della verità tu, speranza, cadesti e con la mano mostravi da lontano la morte ed una tomba spoglia e desolata.

l'Infinito
Sempre caro mi è stato questo colle solitario e questa siepe che impedisce di vedere l’orizzonte. Stando fermo e guardando fisso io immagino nel pensiero spazi infiniti al di là di quella siepe e silenzi che un uomo non può percepire e quiete profonde. Per poco il cuore non si smarrisce. E quando sento stormire le foglie a causa del vento io paragono quell’infinito silenzio a questa voce e mi viene in mente l’eternità, le stagioni passate e presenti e i scarsi rumori. Tra questa immensità si smarrisce il mio pensiero ma il lasciarsi andare in questo mare mi è gradito.

La sera del dì di festa
Dolce è la notte, chiara e senza vento. Splende la luna, luminosa sopra i tetti e gli orti, e fa sì che si intravedino le montagne da lontano. O donna mia, i sentieri sono già deserti e si vede la flebile luce di qualche lampada accesa nelle case. Tu dormi, perché il sonno ti ha accolto nella tua tranquilla stanza. E non hai preoccupazioni, tu non sai quanto sto soffrendo per te. Tu dormi, io mi affaccio a contemplare questo cielo e la natura, così bella e serena nell'apparenza, ma che me ha condannato alla tristezza. Questo giorno è stato di festa e ora ti riposi dagli svaghi. Forse in sogno ricorderai coloro a cui oggi sei piaciuta e che piacquero a te; io non sarò nei tuoi pensieri e neanche ci spero. E intanto penso a quanto tempo mi resta da vivere e a tal pensiero dal dolore mi butto per terra, e grido, e fremo. Oh, che giorni orrendi ho in questa mia giovinezza. Non lontano per la via sento il canto solitario dell'artigiano che ormai a sera tardi, dopo i festeggiamenti della giornata, torna alla sua povera casa. E mi si stringe il cuore a pensare al tempo che passa e le tracce che si perdono delle cose trascorse. Ora è passato il giorno di festa e lascia il posto al giorno feriale. E il tempo stende un velo su ogni vicenda umana. Dove sono andati a finire i tempi antichi, i segni degli illustri uomini del passato e del grande impero di Roma? Ora tutto è silenzio, il mondo riposa e la loro non presta più attenzione. Durante la mia infanzia, quando si aspettava con impazienza il giorno festivo, subito dopo che era passato, io, amareggiato, senza riuscire a prender sonno, giacevo nel letto, e nella tarda notte un canto che fra i sentieri si udiva spegnersi a poco a poco, mentre si allontanava, già allora, come ora allo stesso modo, mi stringeva di angoscia il cuore.
Il sabato del villaggio
La ragazza torna dalla campagna, al tramonto, con il fascio di erba da dare agli animali; e tiene in mano un piccolo mazzo di rose selvatiche e viole, con le quali si prepara per ornarsi domani, il giorno di festa, il petto e i capelli. Davanti alla porta di casa un'anziana siede a filare con le vicine, con lo sguardo rivolto al sole che tramonta. Racconta la sua giovinezza come se raccontasse una bella favola, quando al giorno di festa si abbelliva, e ancora sana e snella, era solita ballare la sera in mezzo a quelli che furono i suoi compagni di giovinezza. L'aria si fa scura, e il cielo, che nel crepuscolo era pallido, ora ritorna azzurro cupo e le ombre si allungano, giù dai colli e dai tetti, alla luce della luna appena sorta. Il suono di una campana annuncia la festa del giorno seguente; e a sentire quel suono, il cuore si conforta. I bambini gridano nella piazza, e saltano qua e là, fanno un rumore bello: e intanto torna lo zappatore fischiando, e fra sé e sé pensa al giorno di riposo che lo aspetta. Poi quando intorno ogni luce è spenta, e tutto tace, sento il martello picchiare, sento la sega del falegname, che lavora nella bottega alla luce di un lume ad olio, e si affretta e si dà da fare per completare il lavoro prima dell'alba.
Sabato è il più gradito giorno della settimana, pieno di speranza e di gioia: domani tristezza e noia entreranno a far parte della giornata, perché ognuno ritornerà con il pensiero alle fatiche di tutti i giorni che l'indomani riprenderanno. Giovinetto allegro, questa età fiorita è come un giorno pieno di allegria, che precede la festa della tua vita. Fanciullo, goditi questo stato soave, questa stagione lieta. Non voglio dirti altro; ma non ti dispiaccia se la giovinezza e l'età matura tardano a giungere.

La quiete dopo la tempesta
La tempesta è passata: sento gli uccelli che fanno festa, e la gallina, tornata sulla via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno appare improvvisamente da ponente (ovest), verso la montagna; si sgombra (dalla nebbia) la campagna e appare chiaro il fiume nella valle. Ogni animo si rallegra, da ogni parte riprende il rumorio (soliti rumori), riprende il consueto lavoro. L’artigiano guarda il cielo umido con la sua opera in mano e cantando (segno di gioia) si affaccia sull’uscio. In fretta esce la
fanciulla a raccogliere l’acqua piovana appena caduta; e l’ortolano ambulante ripete di sentiero in sentiero il consueto grido. Ecco che torna il sole, ecco spende sulle colline e le case. La servitù apre le finestre, le porte dei terrazzi e le logge: e dalla via maestra si sente da lontano il tintinnio di sonagli; stride il carro del viandante che riprende il suo viaggio. Ogni animo si rallegra. Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo con tanta passione si dedica alla sua occupazione? O torna al lavoro? O intraprende una cosa (attività) nuova? Quando dei suoi mali nemmeno si ricorda? Il piacere è generato dall’affanno; gioia vana (tolto il dolore, anche il piacere sparirebbe), frutto del timore passato (cessato), a causa del quale (timore) colui che odiava la vita arrivò a temere la morte; a causa del quale in un lungo tormento, le persone agghiacciate, mute, pallide (dalla paura) sudarono freddo e palpitarono vedendo i fulmini, nubi e vento rivolti verso di loro. O natura generosa (ironicamente), questi sono i tuoi doni, le gioie che offri ai mortali (constatazione). Sfuggire al dolore è per noi motivo di gioia. Spargi abbondantemente le sofferenze; il dolore nasce spontaneamente: e quel poco piacere che talvolta, per prodigio e miracolo, scaturisce dall’affanno è davvero un gran guadagno. O genere umano caro agli dei! Puoi ritenerti molto felice se ti è concesso di tirare il fiato (breve tregua) da qualche dolore: beata le la morte ti libera da ogni dolore.
La ginestra
o il fiore del deserto
Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie campagne che circondano le città che un tempo furono dominatrici di popoli, e sembrano rendere al viandante una testimonianza e costruire un monito dall’antica potenza ormai perduta della città con il loro cupo e silenzioso aspetto. Adesso torno a vedere in questo luogo te, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di rovinate grandezze. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio; furono villaggi prosperi e campi incolti, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose che con i suoi torrenti di lava fuoriusciti dal cratere che erutta fuoco, il Vesuvio investendo con la lava seppellì con gli abitanti insieme. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità.
Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine e lo chiami progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. L’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. Elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbaria medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non avevi la forza di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero, ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosoficocce rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e, viceversa, chiami coraggioso colui che illuminando se stesso o gli altri innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.
Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma senza vergognarsene non nasconde di essere debole e povero e si dichiara tale apertamente e giudica la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non considero saggio e coraggioso, ma stolto quel essere vivente che, benché destinato a morire e cresciuto in mezzo ai dolori, dichiara di essere stato creato per provare piacere e stende scritti che trasudando orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e straordinarie felicità – quali non solo questa terra, ma anche il cielo intero ignora – a popoli che un maremoto, un’epidemia, una scossa di terremoto distruggono in un modo tale che a stento rimane il ricordo di essi. Considero indole nobile e dignitosa quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e che con franchezza, senza finzioni, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; è quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze, che non ritiene responsabili delle sue sciagure gli altri uomini, aggiungendo in questo modo alle sue miserie, tanto numerose, odio e ira tra fratelli, ossia un male ancora peggiore, ma attribuisce la colpa a colei che è la vera responsabile, che è madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma, per il trattamento che riserva loro, è da considerarsi alla stregua di una matrigna. Considera la natura una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura, ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettando in cambio nei pericoli che a vicenda sovrastano gli uomini e nelle sofferenze della lotta che li accomuna contro la natura. Ritiene che sia da sciocchi armare la propria mano per contrastare un altro uomo e preparare insidie e danni al proprio vicino così come sarebbe sciocco in un campo circondato da nemici, proprio mentre infuriano gli assalti, dimenticandosi di questi, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni. Così fatti pensieri quando saranno, come furono agli inizi dell’umanità, evidenti al popolo, e quel terrore che alle origini spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro le forze naturali ostili sarà ricondotto da una vera conoscenza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine, la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza, basandosi sulle quali l’onestà umana suole stare in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore.
Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine, trascorro la notte; e sulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, cui da lontano il mare fa da specchio, e tutto in giro di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci rivolgo, che agli occhi sembrano un punto, mentre sono immense, tanto che rispetto a loro la terra e il mare sono davvero un punto; per quelle stelle non solo l’uomo, ma anche questo pianeta dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa, che a noi pare quasi nebbia, a cui non l’uomo e non la terra soli, ma insieme, infinite nel numero e nella grandezza, le stelle del nostro sistema solare, compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così paiono come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensiero mio che sembrino allora, o genere umano? E io, ricordando la tua condizione miserevole, di cui è testimonianza il luogo in cui mi trovo che, nonostante ciò, tu, credi di essere stata destinata ad essere dominatrice e scopo ultimo dell’universo, e quante volte ti sei compiaciuta immaginando che gli dei, creatori dell’universo, siano scesi in questo oscuro granello di sabbia che ha nome a terra per prendersi cura di te ed abbaino conversato con piacere insieme agli uomini e che perfino il secolo attuale, che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, col restaurare le credenze religiose schernite nel Settecento, insulta coloro che conservano un po’ di saggezza, quale sentimento o quale riflessione prevale allora in conclusione nei tuoi riguardi, o infelice genere umano? Non so dire se prevale il riso per l’assurdità dei tuoi errori o la pietà per il bisogno di conforto che ti induce a quelli.
Come un frutto di modeste dimensioni, nel cadere da un albero, che il semplice processo di maturazione fa precipitare a terra in autunno inoltrato, senza l’intervento di alcuna forza e schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli amati nidi scavati dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che i laboriosi insetti avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo stesso modo le tenebre ed una valanga piombando dall’alto, dopo esser stata scagliata verso il cielo dalle viscere rombanti del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, o di metalli e di arena infuocata, scendendo furiosa tra la vegetazione lungo il pendio della montagna, devastò, distrusse e ricoperse in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa: per cui sopra le città sepolte oggi pascolano le capre, e nuove città sorgono dall’altra parte, distanti dal mare, di cui le città sepolte costituiscono le fondamenta, e le mura diroccate, l’altro monte al suo piede quasi calpesta. La natura non nutre verso la specie umana più sollecitudine e interesse di quanto nutre verso le formiche, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda.
Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose e il giovane contadino addetto ai vigneti, che la terra arida e bruciata fa crescere a stento in questi campi malgrado siano passati tanti secoli alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano, che neppure minimamente si è fatta più mite ed ancora sovrasta tremenda, ancora minaccia a lui strage ed ai figli e ai loro averi poverelli. E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione e balzando più volte, scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico che si riversa dall’interno del vulcano sul pendio sabbioso, al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se mal sente gorgogliare nella profondità del pozzo di casa l’acqua che ribollendo segnala il sopraggiungere della lava, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta, e via, con ciò che delle loro cose possono sottrarre alla distruzione; scappando, vede da lontano la sua abitazione di sempre, e il piccolo campo, che li fu l’unica difesa dalla fame, essere lambito dal fronte lavico che avanza, e inesorato per sempre si distende sul campo e sull’abitazione per sempre si distende sul campo e sull’abitazione. Pompei, cancellate dall’eruzione, torna alla luce dopo un oblio protrattosi per molti secoli, che l’avidità di guadagni o un sentimento di pietà restituiscono alla luce togliendolo dalla terra; e il visitatore contempla dalla piazza deserta, stando tra le file dei condannati diroccati, la sommità ancora minaccia le rovine sparse intorno. E nell’errore delle notte che cela ogni cosa per i vuoti teatri , per i templi che non hanno più la forma originaria e per le case dal tetto sfondato, dove il pipistrello nasconde i piccoli per proteggerli, come una fiaccola infausta che lugubre si aggiri per i palazzi vuoti, avanza il bagliore della vita che porta lutti con sé, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno. Così la natura sta immobile, sempre giovane, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni, o meglio, avanza anch’essa ma con un processo così lento che sembra stare immobile. Nel frattempo i ragni, i popoli, le nazioni vanno in rovina; la natura assiste impassibile, e l’umanità rivendica a se con arroganza il vanto dell’immortalità. E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele possanza del fuoco sotterraneo, che ridiscendendo per il medesimo percorso stenderà il suo flutto infuocato, avido di distruggere e bruciare tutto quello che incontra, sui tuoi cespugli flessibili. E tu, senza opporre resistenza piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava che provoca morte: ma non avrai piegato il tuo capo prima di allora per supplicare inutilmente in modo codardo davanti al fuoco della lava che sta per sopprimerti; ma non hai mai alzato il tuo capo con insensata presunzione alle stelle, né lo hai eretto sul deserto dove, non per tua volontà ma per caso, cresci e sei nata, ma tanto più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe fosse stata resa immortale ad opera del destino o tua.

Ultimo canto di Saffo
Oh placida notte e trasparente raggio della tramontante luna; e tu stella di venere che annunci il giorno fra la silenziosa selva  da sopra la rupe; voi foste ai miei occhi dilettose e care sembianze, fino a quando non vissi le furie dell'amore e il mio spietato destino; il dolce spettacolo della natura non rallegra gli animi infelici.Una felicità inconsueta ravviva noi (animi infelici), quando l'onda dei venti turbina nell'aria limpida, e quando il tuono, tuonando sopra di noi,
squarcia l'aria tenebrosa del cielo. A noi piace stare tra le nebbie e ci piace Andare per le colline e per le profonde valli, a noi piace vedere la disordina fuga delle greggi impauriti, a noi piace sentire il fragore e il movimento dell'onda di un fiume in piena presso la pericola sponda.
Il tuo manto è bello, o divino cielo, e tu, o terra rugiadosa, sei bella. Ahi gli Dei e la sorte crudele non fecero Partecipare in alcun modo alla povera Saffo di così tanta infinita bellezza. Io, addetta ai tuoi superni regni, come una vile e fastidiosa ospite, e come un'amante disprezzata, o natura, rivolgo invano e supplichevole il mio cuore e i miei occhi alle tue belle e graziate forme. Il soleggiato luogo e il mattutino albore Non mi sorride; né il canto dei colorati uccelli Né il mormorio dei faggi mi sorride; né un luogo mi sorride dove il chiaro rivo fa scorrere le sue limpide acque e sottrae, mostrando sdegno, le sue serpeggianti acque al mio malfermo piede e nella fuga urta le profumate rive.
Quale colpa, quale misfatto gravissimo Mi rese rea prima della mia nascita A causa dei quali il Padre del cielo e Il volto della fortuna mi furono ostili?
In che cosa peccai bambina, quando la vita è priva di misfatti, cosi ché poi privato della giovinezza e del fiore della vita, cioè dell'amore ( U. Dotti)
tanto che il filo oscuro della mia vita scorresse ( più lento o più rapido ?) nel fuso dell'implacabile Parca ? (Risponde il Leopardi per bocca della Saffo).
La tua bocca fa domande inspiegabili; una legge misteriosa muove i predestinasti eventi; tutto ciò che accade nell'universo è misterioso, tranne il nostro dolore. Noi uomini siamo una specie disprezzata e nascemmo per dolerci e la ragione del nostro dolore è posta sulle ginocchia degli Dei. Oh desideri, oh speranze, della mia più verde gioventù! Giove ha dato dominio duraturo Sulle genti alle forme, alle belle forme; e la virtù non appare nelle grandi imprese,
né nella dotta poesia né nel canto, se posta in un corpo disadorno.
(Ritorna a parlare Saffo per se stessa). Morirò. E dopo che il mio corpo indegno Rimarrà a terra, la mia anima nuda Fuggirà verso Dite, dio degli inferi,
e correggerà il tremendo e crudele errore del cieco dispensatore dei casi. E tu, Faone, a cui un lungo amore e Una lunga fedeltà e una inutile passione
Mai appagata mi tenne legata, Vivi felice se mai un uomo mortale È vissuto felice sulla terra. Giove non mi ha bagnata con il suo Prezioso liquore conservato nella piccola ampolla, cosi ché le illusioni e i miei sogni della mia fanciullezza perirono. Ogni giorno più lieto della nostra età per primo fugge. La malattia, la vecchiaia ed infine la gelida morte subentra. Ecco adesso solo il Tartaro mi resta, fra i tanti sognati onori e i lusinghevoli sogni della giovinezza ora troncati dalla realtà e, qui, dalla morte imminente; e la tenaria Proserpina e la buia notte e la silenziosa riva già posseggono il mio alto e raro ingegno.

Imitazione
Staccata dal proprio ramo, povera foglia fragile, dove vai? Il vento mi ha portato via dal faggio su cui sono cresciuta. Mi staccò il vento. Esso (il vento) cambiando di volta in volta direzione volando sul bosco, sulla campagna, mi porta dalla valle alla montagna. Con il vento vado continuamente come un pellegrino, e non so nient'altro: ignoro tutto ciò che sia diverso da questo essere portata dal vento; risponde all’interrogativo del v.3). Vado dove vanno tutte le altre cose, dove va naturalmente la foglia di rosa e la foglia d'alloro (forse si tratta di un riferimento alla fugacità della bellezza e della gloria).

A se stesso
Ora ti acquieterai per sempre Stanco mio cuore. E’ finito l’ultimo inganno (l'ultima illusione, l'amore per Aspasia), che io avevo creduto eterno. E’ finito. Sento ormai che non è cancellata solo la speranza, ma persino il desiderio dei dolci inganni d’amore in noi. Acquietati per sempre.  Troppo palpitasti. Non vi è oggetto che meriti i tuoi turbamenti, né di moti di desiderio è degna la terra. La vita è solo dolore e noia e nient’altro e tutto il mondo è fango. Riposati ormai, disperati per l’ultima volta. L’unico dono accordato dal fato al genere umano è il morire. Ormai disprezzato dalla natura, potere cattivo che insidiosamente domina a comune danno sull’infinita vanità di tutto.





























Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Consalvo

Presso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino; or già non più, che a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,
Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira;
Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille
Nel costante pensier, sostegno e cibo
Esser solea dell'infelice amante:
Benché nulla d'amor parola udita
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timor. Così l'avea
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
Alla sua lingua. Poiché certi i segni
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
E quella man bianchissinia stringendo,
Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidia la bella, e il petto anelo

Udendo le si fea: che sempre stringe
All'uomo il cor dogliosamente, ancora
Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
Addio per sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando l'appressar del fato,
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
Come sai, ripregata a me discende,
Non temuta, la morte; e lieto apparmi
Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
Non si nega a chi muor. Né già vantarmi
Potrò del dono, io semispento, a cui
Straniera man le labbra oggi fra poco
Eternamente chiuderà. Ciò detto
Con un sospiro, all'adorata destra
Le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto
La bellissima donna; e fiso il guardo,
Di mille vezzi sfavillante, in quello
Tenea dell'infelice, ove l'estrema
Lacrima rilucea. Né dielle il core
Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
Rinacerbir col niego; anzi la vinse
Misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
Già tanto desiata, e per molt'anni
Argomento di sogno e di sospiro,
Dolcemente appressando al volto afflitto
E scolorato dal mortale affanno,
Più baci e più, tutta benigna e in vista

D'alta pietà, su le convulse labbra
Del trepido, rapito amante impresse.

Che divenisti allor? quali appariro
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
Postasi al cor, che gli ultimi battea
Palpiti della morte e dell'amore,
Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
In su la terra ancor; ben quelle labbra
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non altrui; che non si cela
Vero amore alla terra. Assai palese
Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe l'infinito affetto
Che governa il cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il morir. Morrò contento
Del mio destino omai, né più mi dolgo
Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
Poscia che quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato. Anzi felice estimo
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte. All'una il ciel mi guida
In sul fior dell'età; nell'altro, assai
Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
Solo una volta il lungo amor quieto
E pago avessi tu, fora la terra
Fatta quindi per sempre un paradiso
Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto
Con riposato cor: che a sostentarla
Bastato sempre il rimembrar sarebbe

d'un solo istante, e il dir: felice io fui
Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
Esser beato non consente il cielo
A natura terrena. Amar tant'oltre
Non è dato con gioia. E ben per patto
In poter del carnefice ai flagelli,
Alle ruote, alle faci ito volando
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
Nel paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
Il sorriso d'amor! felice appresso
Chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è già sogno
Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
Provar felicità. Ciò seppi il giorno
Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
Questo m'accadde. E non però quel giorno
Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
Quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
Dal misero Consalvo in sì gran tempo
Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d'Elvira, in cor gelando,
Impallidir; come tremar son uso
All'amaro calcar della tua soglia,
A quella voce angelica, all'aspetto
Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
Né questo di rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
Dimani all'annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono
Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
Suo dì felice gli fuggia dal guardo.

Amore e morte

               Muor giovane colui ch'al cielo è caro.
               MENADRO

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall'uno il bene,
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell'essere si trova;
L'altra ogni gran dolore,
Ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale,
Primi conforti d'ogni saggio core.
Né cor fu mai più saggio
Che percosso d'amor, né mai più forte
Sprezzò l'infausta vita,
Né per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch'ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
O si ridesta; e sapiente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente
Nasce nel cor profondo
Un amoroso affetto,
Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente:
Come, non so: ma tale
D'amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a sé la terra
Forse il mortale inabitabil fatta
Vede omai senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura:
Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete,
Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l'invitta cura,
Quante volte implorata
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall'affannoso amante!
Quante la sera, e quante,
Abbandonando all'alba il corpo stanco,
Sé beato chiamò s'indi giammai
Non rilevasse il fianco,
Né tornasse a veder l'amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti
Dall'imo petto invidiò colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva.

Fin la negletta plebe,
L'uom della villa, ignaro
D'ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Sentì rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell'indotta mente
La gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
D'amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener nol può forza mortale,
O cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
O così sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,
Agli animosi ingegni
L'uno o l'altro di voi conceda il fato,
Dolci signori, amici
All'umana famiglia,
Al cui poter nessun poter somiglia
Nell'immenso universo, e non l'avanza,
Se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa

Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina.
Me certo troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Se coi fanciulli il mondo,
Ogni conforto stolto
Gittar da me; null'altro in alcun tempo
Sperar, se non te sola;
Solo aspettar sereno
Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto
Nel tuo virgineo seno.

A se stesso

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia

La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.

Aspasia

Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,
Né di fiori olezzar vie cittadine,
Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno
Che ne' vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de' novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L'angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi sonanti
Baci scoccavi nelle curve labbra
De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso e disiato. Apparve
Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
Divino al pensier mio. Così nel fianco

Non punto inerme a viva forza impresse
Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
Ululando portai finch'a quel giorno
Si fu due volte ricondotto il sole.

Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar. Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea,
Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude,
Tutta al volto ai costumi alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa
La donna a torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado il femminile ingegno;
E ciò che inspira ai generosi amanti
La sua stessa beltà, donna non pensa,
Né comprender potria. Non cape in quelle
Anguste fronti ugual concetto. E male
Al vivo sfolgorar di quegli sguardi
Spera l'uomo ingannato, e mal richiede
Sensi profondi, sconosciuti, e molto
Più che virili, in chi dell'uomo al tutto
Da natura è minor. Che se più molli
E più tenui le membra, essa la mente
Men capace e men forte anco riceve.

Né tu finor giammai quel che tu stessa
Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
Che smisurato amor, che affanni intensi,

Che indicibili moti e che deliri
Movesti in me; né verrà tempo alcuno
Che tu l'intenda. In simil guisa ignora
Esecutor di musici concenti
Quel ch'ei con mano o con la voce adopra
In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta
Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
Della mia vita un dì: se non se quanto,
Pur come cara larva, ad ora ad ora
Tornar costuma e disparir. Tu vivi,
Bella non solo ancor, ma bella tanto,
Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.
Pur quell'ardor che da te nacque è spento:
Perch'io te non amai, ma quella Diva
Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
Sua celeste beltà, ch'io, per insino
Già dal principio conoscente e chiaro
Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,
Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,
Cupido ti seguii finch'ella visse,
Ingannato non già, ma dal piacere
Di quella dolce somiglianza un lungo
Servaggio ed aspro a tollerar condotto.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
L'altero capo, a cui spontaneo porsi
L'indomito mio cor. Narra che prima,
E spero ultima certo, il ciglio mio
Supplichevol vedesti, a te dinanzi
Me timido, tremante (ardo in ridirlo
Di sdegno e di rossor), me di me privo,
Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
Spiar sommessamente, a' tuoi superbi
Fastidi impallidir, brillare in volto
Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
Mutar forma e color. Cadde l'incanto,

E spezzato con esso, a terra sparso
Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni
Di tedio, alfin dopo il servire e dopo
Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
Senno con libertà. Che se d'affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l'erba
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.

Sopra il ritratto di una bella donna
scolpito nel monumento sepolcrale
della medesima

Tal fosti: or qui sotterra
Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango
Immobilmente collocato invano,
Muto, mirando dell'etadi il volo,
Sta, di memoria solo
E di dolor custode, il simulacro
Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
Che tremar fe', se, come or sembra, immoto
In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto
Par, come d'urna piena,
Traboccare il piacer; quel collo, cinto
Già di desio; quell'amorosa mano,
Che spesso, ove fu porta,
Sentì gelida far la man che strinse;
E il seno, onde la gente
Visibilmente di pallor si tinse,
Furo alcun tempo: or fango
Ed ossa sei: la vista
Vituperosa e trista un sasso asconde.

Così riduce il fato
Qual sembianza fra noi parve più viva

Immagine del ciel. Misterio eterno
Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
Pensieri e sensi inenarrabil fonte,
Beltà grandeggia, e pare,
Quale splendor vibrato
Da natura immortal su queste arene,
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi
Segno e sicura spene
Dare al mortale stato:
Diman, per lieve forza,
Sozzo a vedere, abominoso, abbietto
Divien quel che fu dianzi
Quasi angelico aspetto,
E dalle menti insieme
Quel che da lui moveva
Ammirabil concetto, si dilegua.

Desiderii infiniti
E visioni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'Oceano:
Ma se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.

Natura umana, or come,
Se frale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
Son così di leggeri
Da sì basse cagioni e desti e spenti?

Sopra un basso rilievo antico sepolcrale
dove una giovane morta
è rappresentata in atto di partire,
accomiatandosi dai suoi

Dove vai? chi ti chiama
Lunge dai cari tuoi,
Bellissima donzella?
Sola, peregrinando, il patrio tetto
Sì per tempo abbandoni? a queste soglie
Tornerai tu? farai tu lieti un giorno
Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?

Asciutto il ciglio ed animosa in atto,
Ma pur mesta sei tu. Grata la via
O dispiacevol sia, tristo il ricetto
A cui movi o giocondo,
Da quel tuo grave aspetto
Mal s'indovina. Ahi ahi, né già potria
Fermare io stesso in me, né forse al mondo
S'intese ancor, se in disfavore al cielo,
Se cara esser nomata,
Se misera tu debbi o fortunata.

Morte ti chiama; al cominciar del giorno
L'ultimo istante. Al nido onde ti parti,
Non tornerai. L'aspetto
De' tuoi dolci parenti
Lasci per sempre. Il loco
A cui movi, è sotterra:
Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno.
Forse beata sei; ma pur chi mira,
Seco pensando, al tuo destin, sospira.

Mai non veder la luce
Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo

Che reina bellezza si dispiega
Nelle membra e nel volto,
Ed incomincia il mondo
Verso lei di lontano ad atterrarsi;
In sul fiorir d'ogni speranza, e molto
Prima che incontro alla festosa fronte
I lùgubri suoi lampi il ver baleni;
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte,
Dileguarsi così quasi non sorta,
E cangiar con gli oscuri
Silenzi della tomba i dì futuri,
Questo se all'intelletto
Appar felice, invade
D'alta pietade ai più costanti il petto.

Madre temuta e pianta
Dal nascer già dell'animal famiglia,
Natura, illaudabil maraviglia,
Che per uccider partorisci e nutri,
Se danno è del mortale
Immaturo perir, come il consenti
In quei capi innocenti?
Se ben, perché funesta,
Perché sovra ogni male,
A chi si parte, a chi rimane in vita,
Inconsolabil fai tal dipartita?

Misera ovunque miri,
Misera onde si volga, ove ricorra,
Questa sensibil prole!
Piacqueti che delusa
Fosse ancor dalla vita
La speme giovanil; piena d'affanni
L'onda degli anni; ai mali unico schermo
La morte; e questa inevitabil segno,
Questa, immutata legge
Ponesti all'uman corso. Ahi perché dopo

Le travagliose strade, almen la meta
Non ci prescriver lieta? anzi colei
Che per certo futura
Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,
Colei che i nostri danni
Ebber solo conforto,
Velar di neri panni,
Cinger d'ombra sì trista,
E spaventoso in vista
Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?

Già se sventura è questo
Morir che tu destini
A tutti noi che senza colpa, ignari,
Né volontari al vivere abbandoni,
Certo ha chi more invidiabil sorte
A colui che la morte
Sente de' cari suoi. Che se nel vero,
Com'io per fermo estimo,
Il vivere è sventura,
Grazia il morir, chi però mai potrebbe,
Quel che pur si dovrebbe,
Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
Per dover egli scemo
Rimaner di se stesso,
Veder d'in su la soglia levar via
La diletta persona
Con chi passato avrà molt'anni insieme,
E dire a quella addio senz'altra speme
Di riscontrarla ancora
Per la mondana via;
Poi solitario abbandonato in terra,
Guardando attorno, all'ore ai lochi usati
Rimemorar la scorsa compagnia?
Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar dalle braccia
All'amico l'amico,
Al fratello il fratello,

La prole al genitore,
All'amante l'amore: e l'uno estinto,
L'altro in vita serbar? Come potesti
Far necessario in noi
Tanto dolor, che sopravviva amando
Al mortale il mortal? Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura.

Palinodia al marchese Gino Capponi

               Il sempre sospirar nulla rileva.
               PETRARCA

Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa
La stagion ch'or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall'Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l'alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L'umana specie. Alfin per entro il fumo
De' sigari onorato, al romorio
De' crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l'eccelso

Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Né men conobbi ancor gli studi e l'opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto
Saver del secol mio. Né vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell'alma
Felicità su l'orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l'estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Né maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s'anco al suono
D'un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de' lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta

A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de' suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l'Europa e l'altra riva
Dell'atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d'altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch'ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da' comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
Perché diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co' fulmini suoi Volta né Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, né con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de' forti
Il debole, cultor de' ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l'eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.


Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell'oro:
Perché mille discordi e repugnanti
L'umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl'intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia né possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l'arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant'altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso
Dovea, già son molt'anni. Illuminate
Meglio ch'or son, benché sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.


Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s'aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl'immensi tratti,
Come d'aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell'universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!

Quale un fanciullo, con assidua cura,
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D'alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch'a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa

Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch'ei giace
Alfin dall'empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch'han principio d'allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred'io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l'età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne' civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l'altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L'uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume

Dell'età ch'or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell'anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell'anno, al qual difforme
Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d'un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!

Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond'io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi

Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond'io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.

O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s'allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de' barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all'Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl'ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: né ti spauri
L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

Il tramonto della luna

Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là 've zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l'ombre lontane
Infra l'onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell'infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l'ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L'estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale
Lascia l'età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l'ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s'appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a sé l'umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S'anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D'intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all'occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall'altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l'alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l'altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

La ginestra
o il fiore del deserto

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
GIOVANNI, III, 19.

Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse

Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra


A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa

Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

Appressamento della morte
Cantica 1816

Certi non d’altro mai che di morire.
Vittoria Colonna

CANTO I

Era morta la lampa in Occidente,
E queto ’l fumo sopra i tetti e queta
De’ cani era la voce e de la gente:
Quand’i’ volto a cercare eccelsa meta,
Mi ritrova’ in mezzo a una gran landa,
Bella, che vinto è ’ngegno di poeta.
Spandeva suo chiaror per ogni banda
La sorella del sole, e fea d’argento
Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda.
I rami folti gian cantando al vento,
E ’l mesto rosignol che sempre piagne
Diceva tra le frasche suo lamento.
Chiaro apparian da lungi le montagne,
E ’l suon d’un ruscelletto che correa
Empiea il ciel di dolcezza e le campagne.
Fiorita tutta la piaggia ridea,
E un’ombra vaga ne la valle bruna
Giù d’una collinetta discendea.
Sprezzando ira di gente e di fortuna,
Pel muto calle i’ gia da me diviso,
Cui vestia ’l lume della bianca luna.
Quella vaghezza rimirando fiso,
Sentia l’auretta che gli odori spande,
Mollissima passarmi sopra ’l viso.
Se lieto i’ fossi è van che tu dimande,
Grand’era ’l ben ch’aveva, ed era ’l bene
Onde speme nutria, di quel più grande.
Ahi son fumo quaggiù l’ore serene!
Un momento è letizia, e ’l pianto dura.

Ahi la tema è saggezza, error la spene.
Ecco imbrunir la notte, e farsi scura
La gran faccia del ciel ch’era sì bella,
E la dolcezza in cor farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti e crescea tanto
Che non si vedea più luna né stella.
Io ’l mirava aggrandirsi d’ogni canto,
E salir su per l’aria a poco a poco,
E al ciel sopra mia testa farsi manto.
Veniva ’l lume ad ora ad or più fioco,
E ’ntanto tra le frasche crescea ’l vento,
E sbatteva le piante del bel loco,
E si facea più forte ogni momento
Con tale uno stridor che svolazzava
Tra le fronde ogni augel per lo spavento.
E la nube crescendo in giù calava
Ver la marina, sì che l’un suo lembo
Toccava i monti e l’altro il mar toccava.
Pareva ’l loco d’ombra muta in grembo
Di notte senza lampa chiusa cella,
E crescea ’l buio a lo ’ngrossar del nembo.
Già cominciava ’l suon de la procella,
E di lontan s’udiva urlar la pioggia
Come lupi d’intorno a morta agnella.
Dentro le nubi in paurosa foggia
Guizzavan lampi e mi fean batter gli occhi,
E n’era ’l terren tristo e l’aria roggia.
I’ sentia già scrollarmisi i ginocchi
Ch’i tuoni brontolavano a quel metro
Che torrente vicin che giù trabocchi.
Talora i’ mi sostava e l’aer tetro
Guardava spaurato e poi correa
Sì ch’i panni e le chiome ivano addietro.
E ’l duro vento col petto rompea
Che gocce fredde giù per l’aria nera
Soffiando, sopra ’l volto mi spignea.
E ’l tuon veniami ’ncontra come fera

Rugghiando orribilmente senza posa,
E cresceva la pioggia e la bufera.
E ne la selva era terribil cosa
Il volar foglie e rami e polve e sassi,
E ’l rombar che la lingua dir non osa.
I’ non vedeva u’ fossi ed u’ m’andassi:
Tant’era pien di dotta e di terrore
Che non sapea più star né mover passi.
Era ’l balen sì spesso che ’l bagliore
S’accendea sempre e mai non era spento,
Perch’ al fine i’ ristetti a quell’orrore,
E mi rivolsi indietro; e ’n quel momento
Si stinse ’l lampo e tornò buja l’etra
Ed acquetossi ’l tuono e stette ’l vento.
Taceva ’l tutto, ed i’ era di pietra
E sudava e tremava che la mente
Come ’l rimembra, per l’orror s’arretra;
E ’l palpitar si facea più frequente:
Quando com’astro che per l’aer caggia,
Un lume scese e femmisi presente.
Splendeva in quella tenebria selvaggia
Sì chiaro che vincea vampa di foco,
Qual fornace di notte in muta piaggia,
E splendendo cresceva a poco a poco;
E ’n mezzo vi pareva uman sembiante
Vago sì ch’a ’l ritrar mio stile è roco.
Ed i’ tremava dal capo a le piante,
Ma pur dolcezza mi sentia nel petto
In levar gli occhi a quel che m’era innante.
Bianco vestia lo Spirto benedetto
Raggiante come d’Espero la stella,
E avea ’l crin biondo e giovenil l’aspetto.
Io l’Angel son che tua natura abbella,
Tua guardia, (e su i ginocchi allor cascai)
Cominciò quegli in sua santa favella.
La gran Signora da’ sereni rai
Mandommi ch’ha di te pietade in cielo.
Poco t’è lunge ’l dì che tu morrai.

I’ mi fei bianco in volto e venni gelo,
Attonito rimasi e mi sentia
Ritrarsi ’l core ed arricciarsi ’l pelo.
E muto stetti, e pur volea dir: Sia,
O Signor, quel ch’è fermo in tuo consiglio,
Ma voce de la strozza non uscia.
E sol potei chinar la fronte e ’l ciglio,
E caddi al suol boccone; e quegli allora
Levommi a un tratto e, Fa cor, disse, o figlio.
Non ti dolga di tua poca dimora
In questa piaggia trista, e non ti caglia
Ch’ancor del quarto lustro non se’ fora.
Or ti parrà da quanto aspra battaglia
Voler sia de l’Eterno che for esca,
E come umana gente si travaglia,
E quant’è van quel che le menti adesca,
Ed ammiranda vision vedrai,
Per che gir di qua lunge non t’incresca,
E poi soggiunse: Mira, ed i’ mirai.

CANTO II

Parve di foco una vermiglia lista
A l’orizzonte a galla sopra ’l mare,
Ch’atava in quell’orror la dubbia vista:
Come di state dopo ’l nembo pare
Sul mar la notte luce di baleno
Che lambe l’acqua e l’ombre fa più rare;
O come ride striscia di sereno
Dopo la pioggia sopra la montagna,
Allor che ’l turbo placasi e vien meno.
Ed i’ vedeva gente molta e magna
Passar non lunge innanzi a quel chiarore,
Che n’era piena tutta la campagna.
E primier vidi sogghignando Amore
Svolazzar su la gente di suo regno
Tanta ch’e’ di quaggiù parea signore.
Iva misera turba che fu segno

A suoi strali roventi, e parea tutta
Atteggiata di doglia e di disdegno.
Questi son que’ che ne la fera lutta
Di nostra vita vinse la gran possa
Di quel desio che pianto e morte frutta.
Quest’è la turba che nel mondo ingrossa
Al volger d’ogn’istante, e non vien manco
Per volar d’ora o spalancar di fossa.
Fermo i’ guardava, e quel che m’era al fianco
(E ’l potea ben senza mirarmi in viso)
Scorse il dubbiar de lo ’ntelletto stanco.
E disse: Questa è gente che di riso
Non ebbe un’ora in vostra vita lassa,
Pur sempre ebbe a cercarlo il pensier fiso.
E nutrì speme pazza e voglia bassa,
Locando suo desire in cosa vana,
Ed amò ben che quando giugne, passa.
Quel vergognoso là che s’allontana,
È ’l Prence tristo per lo cui delitto
Tant’alta venne la virtù Romana.
Appio è quel là che conto a voi fe’ ’l dritto,
Pel cui malvagio amore un’altra volta
Roma fu lieta e suo tiranno afflitto.
Antonio è quel che lamentar s’ascolta,
E di suo fato no ma par si lagne
Sol che sua donna scaltra gli sia tolta.
Vedi Parisse più vicin che piange
Ilio in faville e la reggia diserta
E morti i frati e serve le compagne
E d’erba e sassi la città coverta:
E fu cagion di tanta doglia Amore.
E vedi quel ch’ha sì gran piaga aperta.
È Turno, e per Lavinia è ’l suo dolore,
Per chi di morti fe’ sì gran catasta
Quel ch’al Tebro menò le Teucre prore.
Vedi Sanson colà che mal contrasta
A Dalila, e ’l gran Re ch’anco si dole
Che sapienza contr’Amor non basta.

Mira quell’alme quivi che van sole
Con la faccia scarnata e ’l ciglio basso,
E movon lente e senza far parole.
Vestali furo, e sotto flebil sasso
Menolle dura legge e crudo foco
Di per loro a compor lo corpo lasso.
Vedi quanti ha malconci ’l tristo gioco,
E perduti ha ’l furor di voglia insana,
Che tempo lungo a noverargli è poco.
Guata quel truce là ch’a la Cristiana
Fede aprì ’l lato, e che nel suol Britanno
Di giusto sangue fe’ tanta fontana,
E per Amor, di Re venne tiranno,
E mandò giù tant’alme a l’aria bruna,
Sì ch’ancor dura e sarà eterno ’l danno;
Per chi d’Anglia tal frotta si rauna
E mugolando s’addossa e si preme
Qual sozzo gregge a la ’nfernal laguna.
D’infinita sciaura Amor fu seme,
Che non sua sol ma van mill’alme ognora
Per lui ’ve ’l tristo eternamente freme.
Oh miser’Anglia che tanta dimora
Fai ne l’Errore, e non ti basta ’l lume
De la mental tua lampa a uscirne fora,
E già tutto conosci forchè ’l Nume,
E cieco nasce e non vi pensa e more
Tuo popol gramo vinto dal costume.
Poi sospirando disse: Or vedi, Amore
Com’è crudele al mondo, e com’è duro
Far ch’e’ non giunga a palpeggiarti ’l core.
Sapienza non è sì saldo muro
Che nol dirompa forza di suo strale,
E chi men l’ha provato è men sicuro.
E se l’alma infermò di tanto male
E sente l’aspra punta, ov’è la pace?
E se pace non è, viver che vale?
Sì come chi per poi soggiunger tace,
Quel tacque, ed i’ mi vidi un mesto avante

Giovane e tal che d’ello anco mi spiace.
Tanto mi vinse suo flebil sembiante
Che l’Angel di suo nome interrogai,
Benchè mio dir sonava ancor tremante.
E quel rispose: Da sua bocca udrai
Contar suo fallo e di suo fallo i danni.
E l’approcciammo, ed i’ l’addimandai.
Ugo fui detto, e caddi in miei verd’anni,
E me Ferrara tra suoi forti avria,
Se non fosse ’l mio padre infra’ tiranni,
Disse e ristette e quasi si pentia,
Poi seguitò: Mi trasse al punto estremo
Non so se di mio fato o colpa mia.
I’ membro l’ora, ed in membrarla fremo,
Che prima vidi le sembianze ladre
Per ch’in eterno fra quest’alme gemo.
Vidi la donna misera che ’l padre
Erasi aggiunta, ma che ’l tristo letto
non fe’ bello di prole e non fu madre.
E cura inquieta mi sentii nel petto
Che parea dolce, ma la voglia rea
Vanezza e tedio femmi ogni diletto.
Io fea contesa e forse ch’i’ vincea,
Ma un dì fui sol con quella in muto loco,
E bramava ir lontano e non volea,
E palpitava, e ’l volto era di foco,
E al fine un punto fu che ’l cor non resse,
Tanto ch’i’ dissi: t’amo, e ’l dir fu roco.
Vergogna allor sul ciglio mi s’impresse,
E la donna arrossar vidi e gir via
Senza far motto, come lo sapesse.
Poi nulla i’ fei, ma tanto più che pria
Divampò ’l foco al soffio di speranza,
Ch’arder le vene e i polsi i’ mi sentia.
Allor che tratto di mia queta stanza
Fui d’armato drappello in su la sera
Con ferità ch’ogni mio dire avanza,
E dentro muta torre in prigion nera

Chiuso che ’ndarno il genitor chiamava,
Immobil tra catene come fera.
Stupido e sol rimasi in quella cava
Ricercando mia colpa, ed oh dolore
In ricordarmi di mia voglia prava!
Era giunta la notte a le tard’ore
Che tace e per le vie gente non passa,
Quando fioco romor sentii di fore.
(O Italia mia dolente, o patria lassa
Che quant’alta a’ bei giorni tanto cruda
Fosti a’ più neri, e tanto ora se’ bassa,
Ben sei di luce muta e d’onor nuda,
Che tigre fosti quando era tua possa,
E or se’ pietosa ch’uom per te non suda!)
Orrendo un gel mi sdrucciolò per l’ossa,
E mancar sentii ’l fiato e ’l cor serrarse
Quand’a l’uscio udii dar la prima scossa.
Sonaro i ferri al suo dischiavacciarse,
E seguì di persona un calpestio,
E di lontana fiamma un chiaror parse.
Come chi vide ’l lampo che fuggio,
Aspetta lo fragore e sta sospeso,
Tal senza batter ciglio mi stett’io.
E ’l genitore entrar che tenea steso
Il destro braccio e ne la man mirai
Un ferro e ’n la sinistra un torchio acceso.
Morta è, disse, tua druda e tu morrai.
Su le ginocchia i’ caddi in quel momento:
Piagneva e volea dir: mio padre, errai.
Ma la punta a mia gola e’ ficcò drento,
E caddi con la bocca in su rivolta,
E ’l vital foco tutto non fu spento.
Parvemi che l’acciaro un’altra volta
Alzasse, e di vibrarlo stesse in forse;
Poscia com’uom che di lontano ascolta,
L’udii cercar de l’uscio: indi ritorse
Il passo, e ’n cor piantommi e lasciò ’l brando,
Perchè l’ultimo ghiaccio là mi corse.

E svolazzò lo spirto sospirando.

CANTO III

I’ lagrimava già per la pietate
Di quella miser’alma che perduta
Avea suo fallo e altrui crudelitate,
E ’l ciglio basso e la bocca era muta,
Quando ’l Celeste, Guata là quel duce,
Disse, ch’ha man grifagna ed unghia acuta.
È l’Avarizia, e dietro si conduce
Gregge che ’n vita fu de l’oro amico
Non perchè val tra voi ma perchè luce.
Del nome di que’ duri io non ti dico,
Che non sudar perchè ’l sapesse ’l mondo
Quando lor tempo avria chiamato antico.
Ve’ ch’ han sul collo di gran soma pondo,
E van carpone e ’l capo in giù pendente,
Sì che lor faccia è presso d’ogn’immondo,
Però che prona al suolo ebber la mente,
E di gloria e del ciel non ebber cura,
Vivendo in terra come morta gente.
Or vedi quanto è trista e quanto è dura
Vostra vita mortal, che ’l fango e ’l fimo
Più che la gloria e ’l ciel per voi si cura.
Ben sete fatti di terrestre limo,
Che tanta gente cerca morta terra,
Per lo suo fine e per l’autor suo primo.
E pur bell’alma vostro corpo serra
Perchè ricerchi e trovi ’l sommo Amore,
Che pace è vostro fin, non questa guerra.
Qui tacque, e venne pallido ’l chiarore,
Ch’iva aliando fosca tenebria
Come nottola oscena, in quell’orrore.
Venia Gigante altissimo, e ’l seguia
Lunghissim’ombra piena di spavento,
Cieco così che brancolando gia.
Correa da prima ratto come vento,

Poi tenne ’l passo per lo buio calle,
Sì ch’iva al fine come neve lento.
Gli era infinito esercito a le spalle,
E di voci facea tanto certame
Che tutta piena d’eco era la valle.
Ivan latrando quelle genti grame,
E su lor crespa fronte e su la cava
Lor mascella parea seder la fame.
Al lume i’ gli scorgea che s’avventava
Da le Angeliche forme ai visi smorti,
E men chiaro e più fioco ritornava.
Questi tenner sentieri oscuri e torti
In cercar verità, lo Spirto disse,
D’errar volenterosi, o malaccorti.
Vedi colui che così presto visse,
Zoroastro inventor di scienza vana,
E quel che ’nsegnò tanto e nulla scrisse:
I’ dico ’l Samio mastro che l’umana
Mente fe’ vil così che la ridusse
A starsi con le fere in bosco e ’n tana:
E quel da Citte che tanta produsse
Gente al dolor sì come al piacer dura,
E l’Abderita che la mente strusse,
E la Cinica turba che sicura
Da error non fu sotto ’l cencioso panno,
E ’l lercio duce de la mandra impura.
Ve’ come soli e pensierosi vanno
Socrate e Plato e ’l magno di Stagira,
Sdegnando ’l gregge e lo comun tiranno.
Guata là que’ nefandi pieni d’ira
Contra l’Eterno, sopra la cui testa
Solcato da baleni un turbo gira.
E sentigli ulular come foresta
Allor che ’nfuria ’l vento, e che rimbomba
Per l’aer fosco voce di tempesta.
Oh quanta gente è qui che ne la tomba
Non è fatta anco polve, oh quanta gente
Al disperato lago or tra lei piomba!


Come brulica giù l’onda bollente
Per color cui fe’ vano il grande acquisto
Spietato inganno di corrotta mente!
Oh menti sciagurate, oh mondo tristo
Cui lo pensier del vero tanto spiace
Che par vergogna il ragionar di Cristo!
Già contra ’l ciel latrava, ed or si tace
Tua gente in guisa d’uom che non si cura,
Come a Dio conceduta abbia la pace.
Vedi, soggiunse, o figlio, com’è scura
Vostra terrena via piena di doglia,
E com’è fral quaggiù vostra natura.
Che tanta gente di seguir s’invoglia
Quel Gigante colà ch’è ’l tristo Errore,
E tanta ignara il fa contra sua voglia.
Quanti cercar saggezza e saldo onore
Che trovar fama tetra e falsitate,
E lor fu vano il trapassar de l’ore!
Oh savissime sole oh avventurate
L’alme che ricercar del sommo Bene!
Fumo già non trovar né vanitate.
Dier soda meta a lor non dubbia spene,
Bramando uscir di questa terra bassa
U’ torpe Error che così presto viene.
Però ’l Gigante che tant’ombra lassa
Sopra ’l dolente esercito seguace,
Venne sì ratto e così lento passa.
Già la piaggia parea tornare in pace
Pel lontanar di quella turba folta
Sopra cui ’l lume eternamente tace.
Da lungi la s’udia come talvolta
Di nembo cui sul mar lo vento caccia,
L’urlar tra l’onde e ’l mormorar s’ascolta;
O notturna del mar cupa minaccia
Perchè’ l villan che presso il turbo crede
Si desta e sorge ed al balcon s’affaccia.
Allor ch’a un tratto sì come si vede
Campo di secche canne incontr’al sole,

Quand’e’ co’ rossi raggi a sera il fiede;
O come andar tra noi di faci suole
Notturno stuol, di Cristo appo ’l feretro,
Il dì che di sua morte il ciel si dole:
Cotal si vide in mezzo a l’aer tetro
Un lampeggiar di scudi e lance e spade
Che tremolava intorno a fero spetro.
Sua scossa asta parea grandin che cade
Con alto rombo giù da nugol nero
Su i tetti rimbalzando e per le strade.
Tentennava sua testa atro cimiero,
E pendea ’l brando nudo in rossa lista,
Digocciolando sangue in sul sentiero.
Iva ’l membruto mostro e facea trista
Tutta sua via, che dietro si lasciava
Foco ch’ardea tra l’erbe in fera vista.
Ve’, l’Angel disse, la crudel che lava
Col sangue i campi, e col brando rovente
Fa tante piaghe e tante fosse scava.
Altro costume de l’umana gente:
Cacciar lo ferro gelido e la mano
Del prossimo nel corpo e del parente:
Correre e disertar lo monte e ’l piano,
E ’n un giorno e ’n un punto l’opra e ’l frutto
Di sudor molto e molta età far vano:
Strugger mura, arder tempi e farsi brutto
Di cenere e vestirsi di terrore,
E ’ngoiar le cittadi come flutto:
Guastar campagne e al pavido cultore
Messa la man tra le sudate chiome,
Di sua casuccia strascinarlo fore:
Brillar tra morti e ’nsanguinati come
Lion che ’n belva marcida si sfama;
Rider tra genti lagrimose e dome.
Dunque far solo il mondo è vostra brama,
E ’l viver vostro è per l’altrui morire,
E sì tra voi si viene in seggio e ’n fama?
Ve’ di quegli aspri le sembianze dire

Lo cui passaggio al mondo fu guadagno,
E ’l natale e la vita fu martire.
Mira colui che nome ebbe di Magno,
E fe’ di sangue Egizia frode rossa;
E ’l Pelide che piange suo compagno,
E Guerra maladice e la sua possa,
E presso ha ’l re de’ re che ’l Teucro lido
Copre di spoglie sanguinose e d’ossa,
E vincitor perì di ferro infido,
E per Guerra perdè la luce e ’l regno;
E quel che ’nvan divenne a tanto grido:
Il Macedone i’ dico, ch’ha disdegno
Però ch’ir vana da la morta valle
Di sua man l’opra vide e di suo ’ngegno:
E Ciro e Brenno e Pirro ed Anniballe
Che grandi un tempo e fur meschini allora
Che fortuna lor dato ebbe le spalle;
E come Sol per nembo si scolora,
Vider lor fama intenebrarsi, e poi
Venir pallida e muta l’ultim’ora.
Così passa fortuna degli Eroi,
E la gran mole in un sol dì fracassa
Che tanto pianto fe’ versar tra voi:
Com’onda a gli astri sorta che s’abbassa
E cade in un baleno e al pian s’agguaglia,
E di suo levamento orma non lassa.
Tacque, e cadeva ’l suon de la battaglia
Che giva di colei per lo sentiero
Che tutto ’l mondo misero travaglia.
E mostro altro pareva onde più fero
Non vede orma stampar su neve o sabbia
Lo Scita algente o ’l divampato Nero.
Aveva umane forme e umana labbia,
E passeggiar parean la guancia scura
L’invidia fredda e la rovente rabbia,
E a suo passaggio abbrividir natura,
Seccarsi l’erbe, e tremolar le piante
Scrollando i rami come per paura.

Nel buio viso l’occhio fiammeggiante,
A carbon tra la cenere, che splenda
Solingo in cieca stanza, era sembiante.
Al crin gli s’attorcea gemmata benda,
E scendea regio manto da le spalle
Com’acqua bruna che di rupe scenda.
Sprizzato era di sangue, e per lo calle
Di sangue un lago fea la sozza vesta,
Che in dubbia e torta striscia iva a la valle.
Seguialo incerto rombo di tempesta,
Ed egl’iva sospeso, e ogni momento
Il serto si cercava ne la testa.
Parea pien di sospetto e di spavento,
Guardavasi d’intorno, e tenea ’l passo
Al suon de’ rami e al transito del vento.
Ecco ’l gran vermo d’uman sangue grasso,
Lo qual però che ’l mondo ha ’n sua balia,
Ben si conviene andar col ciglio basso.
Ecco ’l figliol di vostra codardia,
Cominciò quegli, ecco la belva lorda,
Ecco la perfid’, ecco Tirannia.
Quella che sempre vora e sempre è ’ngorda
Quella ch’è cieca come marmo al pianto,
Quella ch’è al prego come bronzo sorda.
O mondo gramo e se’ codardo tanto
Ch’uom su tuo’ seggi può seder sicuro
Di sangue intriso la corona e ’l manto?
E quando etade ha suo passar maturo,
Passa ’l tiran già sazio, e allor pur anco
Trovar chi ’l biasmi e chi l’accusi è duro?
E di soffrir quest’orsa non se’ stanco
Che ti ficca e rificca l’unghia e ’l dente
Nel rosso petto e ’n lo squarciato fianco?
Oh sciagurato mondo, oh età dolente,
Oh progenie d’Abisso atri tiranni,
Oh infamia eterna de l’umana gente!
Quest’è la bestia che da’ tuoi verd’anni
T’arse di rabbia, e del cui lercio sangue

Tinta bramasti aver la mano e i panni.
Quest’è l’orribil idra, quest’è l’angue
Che gonfia sopra ’l mondo alza la cresta,
Perchè virtude è morta e ’l saper langue.
Vedi come la piaggia si fa mesta
Al passar de la fera, e ve’ ’l pugnale
Ch’ha per iscettro, e ’l sangue che calpesta.
Vedi ’l nefando stuol che fu mortale
A lo sgraziato mondo, e da cui ’l mondo
Non ebbe che ’l campasse brando o strale.
Vedi Tiberio là, vedi l’immondo
Gregge di que’ che ne l’età più nera
Italia tua gravar di tanto pondo.
Ve’ ’l furbo più vicin che spinse a sera
La libertà Romana, e n’ebbe fama,
E ancor d’amici al mondo ha tanta schiera.
Ve’ Periandro lo tristo che brama
Tenne d’aver tra’ greci saggi onore,
E sua Corinto misera fe’ grama.
Pur ve’ che di vergogna e di furore
Arse talor la gente, ed avventosse
Col ferro nudo del tiranno al core.
Allora Armodio vidi ch’avea rosse
Le man de l’empio sangue, e per man rea
Cadde, e per fama a un punto rilevosse.
E ’l gran Corintio vidi che piangea
Sul prosteso fratel che venia manco
Pel colpo onde suo brando lo spegnea.
E Bruto del tiranno aprir lo fianco,
E del Romano Imperador primiero
Squarciato ’l petto vidi e ’l volto bianco.
I’ tenea ’l guardo fiso ed il pensiero
A quella truce vista, allor che sparse
Ogni chiarore, e ’l ciel si fe’ più nero.
E ’n un momento ’l vidi spalancarse:
Uscinne un tuono, e un fulmine strisciosse
Per l’etra, e su la fera cadde e l’arse,
E misto di faville un fumo alzosse.


CANTO IV

Tornò la piaggia queta: allor
Oscuro carro apparse un che si stava
Immoto in guisa d’uom cui sonno copra.
Sedeva, e sopra ’l petto gli cascava
La testa ciondolante, e ’l carro gia
Come va carro cui gran pondo grava.
Testuggini ’l traeano, e per la via
Moveasi taciturno e così lento
Che suon di rota o sasso non s’udia.
Vedi, ’l Celeste disse, quel ch’ha spento
La fama e ’l grido di que’ magni tanti
Lo cui rinomo è gito come vento.
Vedi che ’ntorno al carro e dietro e innanti
Va quella gente trista lo cui volto
Tutto è ’nvoluto entro suoi lunghi manti.
Questa die’ tempo lungo e sudor molto
Per viver dopo ’l passo, e tutto ’l frutto
De l’opra sua quel suo signor gli ha tolto.
Or muto di suo nome è ’l mondo tutto:
Pur die’ la vita perch’eterno fosse,
E ’l mertava quant’altri, e que’ l’ha strutto.
O sventurata gente, e che ti mosse
A ricercar quel che da Obblio si fura,
Sì che giace tua fama entro tue fosse?
Oh vita trista, oh miseranda cura!
Passa la vita e vien la cura manco,
E ’l frutto insiem con lor passa e non dura.
Quando posasti il moribondo fianco,
Dicesti: Assai vivemmo, e non fia mai
Che nostro nome di sonar sia stanco.
Misera gente, ah non vivesti assai
Per trionfar d’Obblio che tutto doma:
Invan per te vivesti e non vivrai.
Quanto me’ fa colui che non si noma
Al mondo no, ma nomerassi in cielo
Quando deposto avrà la mortal soma.

Lui dolcezza sarà lo final gelo,
Nè teme Obblio, ch’avrà la terra a sdegno
Quando vedrà ’l gran Bello senza velo.
Or ti rafforza, o mio povero ’ngegno,
E t’aiti colui che tutto move
Che dir t’è d’uopo di suo santo regno.
Or prendi a far quaggiù l’ultime prove,
Ora a mia bocca ispira il canto estremo.
Cose altissime canto al mondo nove.
Ve’, quel soggiunse, e ’n ripensarvi io tremo,
Che solcando si va questo mar tristo
Con iscommessa barca e fragil remo.
Assai travaglio assai dolore hai visto:
Or leva ’l guardo a le superne cose,
Or mira ’l frutto del divino acquisto.
I’ sollevai le luci paurose
Inver lo cielo, e vidi quel ch’appena
Mie voci smorte di ridir son ose.
Come quando improvviso si serena
Il ciel già fosco sopra piaggia bella,
E ’l sol ridendo torna e ’l dì rimena,
E ’l loco sua letizia rinnovella
Mentre in ogn’altra parte è ’l ciel più nero
E tutto intorno chiuso da procella:
Così lassuso in mezzo a l’emispero
Fendersi vidi i nugoli e squarciarse,
E disfogando i rai farsi sentiero.
E poi l’aperta vidi dilatarse,
E crescer lo splendore a poco a poco,
Sì che lucido campo in cielo apparse.
Lume di Sole a petto a quello è fioco
Che rifletteasi ’n terra e ’l suol fea vago
Brillando tra le foglie del bel loco,
Qual da limpido ciel su queto lago
Cinto di piante in ermo loco il Sole
Versa sua luce e sua tranquilla imago.
Qui vengon manco al ver le mie parole,
Ch’i’ vidi cose in mezzo a quel fulgore,

Cui dir non può la lingua, e ’l pensier vole.
Vidi distesa piaggia onde ’l colore
E ’l fiorire e ’l gioire e la beltate
M’aprir la mente e dilatarmi ’l core.
Canti s’udian sì dolci che di state
Men caro è sul meriggio in riva a un fiume
Udir gli augelli e l’aure innamorate.
Splendean l’erbette di sì vago lume
Che luccicar men vaghi a la mattina
I rugiadosi prati han per costume.
E la luce era tanta che la brina
Al Sol men chiaro splende, e men raggiante
Splende al Sol bianca neve in piaggia alpina.
Intrecciavansi i raggi tra le piante,
E rifletteansi in onde tanto chiare
Che quel fulgor quaggiù non ha sembiante.
Come se viva lampa a un tratto appare
In tenebrosa stanza, chi v’è drento
Forz’è che ’l lume con la man ripare:
Sì mi vinser que’ raggi in un momento:
Perchè l’umide luci i’ riserrai,
Che ’l poter venne manco a l’ardimento.
E l’Angel disse: mira, ed i’ levai
Lo sguardo un’altra volta, e vidi quanto
Nostra sola virtù non vide mai.
Alme vestite di lucido manto
Ivan per quelle vie del Paradiso,
Sciolte le labbra al sempiterno canto.
Oh che soavi lumi, oh che bel viso,
Oh che dolci atti in quel beato stuolo,
Oh che voci, oh che gioia, oh che sorriso!
Allor mi parve abbandonato e solo
Questo misero mondo, e ’l dolor molto
E ’l piacer nullo in questo basso suolo.
Più ch’astro fiammeggiante era lor volto,
E ’n guisa d’uom che placido si bea,
E’ ’l tenean fermo e tutto in su rivolto.
S’allegrava ’l terren quando ’l premea

Alcun de’ Santi con l’eterno piede,
E ogn’erba da lor tocca più lucea.
Mira de’ Giusti la beata sede,
Mira la patria, mira ’l sommo regno
Cui non cura ’l mortal perchè nol vede.
Or sì lo tristo suol verratti a sdegno,
Disse ’l Celeste, or sì ti saria duro
Drizzar la mente a men beato segno.
O ’ntelletto mortal, come se’ scuro,
Che cerchi morte e duol, per questa terra
Che da doglia e da morte fa sicuro!
Vedi color che ’l santo loco serra
Com’ or son lieti ne l’eterna pace,
Vinta presto quaggiù la mortal guerra.
Mira ’l vate regal che sì ferace
Ebbe di canti sua divina cetra,
E tra gli altri lassuso or già non tace.
Vedi ’l magno Alighier che sopra l’etra
Ricordasi ch’ascese un’altra volta,
E del dir vostro pose la gran pietra.
E vedi quel vicin ch’anco s’ascolta
Lagnarsi che la mente al mondo tristo
Ebbe a cosa mortal troppo rivolta.
Mira colui che lagrimar fu visto
Tutta sua vita, e or di suo pianto ha ’l frutto,
E cantò l’armi e ’l glorioso acquisto.
Oh dolce pianto, oh fortunato lutto,
Oh vento che ’l nocchier sospinse al porto
U’ nol conturba più vento nè flutto!
I’ stava in quella vista tutto assorto
Quando repente correr come strale
Un lampo vidi da l’occaso a l’orto.
Allor per l’aria tutta batter l’ale
Rugghiando i quattro venti, e ’l tuon mugghiare
Dal boreal deserto al polo australe,
E sbattersi da lungi e dicrollare
Lor cime i monti, e dal profondo seno
Metter continuo cupo ululo il mare,

E l’aria farsi roggia in un baleno
Come le nubi a sera in occidente,
E sotto a’ piedi ansando ir lo terreno,
E ’l ruscel che venuto era torrente,
Spumar fumar con alto gorgoglìo
Sì come in vaso al foco onda bollente.
Quando con suon vastissimo s’aprio
In mezzo al santo loco il ciel più addrento,
E allor cademmo al suol l’Angelo ed io.
E tra sua luce sopra ’l firmamento
Apparve Cristo e avea la Madre al fianco,
E tutto tacque e stette in quel momento.
Così smarrissi lo ’ntelletto stanco
Quando l’Angel mi fe’ levar lo viso,
Che ’n lo membrar la voce e ’l cor vien manco.
Vidi Cristo, e non sono in Paradiso?
E Maria vidi, e ’n terra anco mi veggio?
E vidi ’l cielo, e altrui pur lo diviso?
O Cristo, o Madre, o sempiterno seggio
U’ celeste si fa nostra natura,
Che narrar di voi posso e che dir deggio?
T’allegra omai, che tua stagion matura,
Disse lo Spirto, e sei presso a la sede
Ove letizia eternamente dura.
Cristo e la Madre vede, e sol non vede
Tuo mortal guardo quel che veder mai
Non può da questo mondo altro che fede.
Quella nube tel cela da’ cui rai
Lo fiammeggiar di cento Soli è vinto,
Dove pur di mirar forza non hai.
Dico la somma Essenza inver cui spinto
È dal cor suo ma ch’a mirar non basta
Uom da suo corpo a questa terra avvinto.
Conto t’è ’l mondo omai, conta la vasta
Solitudin terrena ov’uomo ad uomo
Ed a se stesso ed a suo ben contrasta.
Vedesti i frutti del piagnevol pomo,
E ’l cercar gioia che ’n dolor si muta,

E le vane speranze e ’l van rinomo:
Come dietro ad Error sen va perduta
Tanta misera gente, e come tanti
Visser per Fama di cui Fama è muta.
Vedesti i feri guai vedesti i pianti
Che reca armato chi ragion non prezza,
E i crudi giochi e i luttuosi vanti.
Che far nel mondo vostro dove spezza
Sue leggi e suo dover lo rege ei pure,
E misero diviene in tant’altezza,
Se non cercar del cielo ove sicure
Son l’alme dal furor de la tempesta,
E tema è morta e le roventi cure?
E lo ciel ti si dona. Omai t’appresta,
Che veduto non hai sogni nè larve:
Certa e verace vision fu questa.
Presso è ’l dì che morrai. Qui tutto sparve.

CANTO V

Dunque morir bisogna, e ancor non vidi
Venti volte gravar neve ’l mio tetto,
Venti rifar le rondinelle i nidi?
Sento che va languendo entro mio petto
La vital fiamma, e ’ntorno guardo, e al mondo
Sol per me veggo il funeral mio letto.
E sento del pensier l’immenso pondo,
Sì che vo ’l labbro muto e ’l viso smorto,
E quasi mio dolor più non ascondo.
Poco andare ha mio corpo ad esser morto.
I’ mi rivolgo indietro e guardo e piagno
In veder che mio giorno fu sì corto.
E ’n mirar questo misero compagno
Cui mancò tempo sì ch’appien non crebbe,
Dico: misero nacqui, e ben mi lagno.
Trista è la vita, so, morir si debbe;
Ma men tristo è ’l morire a cui la vita
Che ben conosce, u’ spesso pianse, increbbe.

I’ piango or primamente in su l’uscita
Di questa mortal piaggia, che mia via
Ove l’altrui comincia ivi è finita.
I’ piango adesso, e mai non piansi pria:
Sperai ben quel che gioventude spera,
Quel desiai che gioventù desia.
Non vidi come speme cada e pera,
E ’l desio resti e mai non venga pieno,
Così che lasso cor giunga la sera.
Seppi, non vidi, e per saper, nel seno
Non si stingue la speme e non s’acqueta,
E ’l desir non si placa e non vien meno.
Ardea come fiammella chiara e lieta,
Mia speme in cor pasciuta dal desio
Quando di mio sentier vidi la meta.
Allora un lampo la notte m’aprio,
E tutto cader vidi, allor piagnendo
Ai miei dolci pensieri i’ dissi: addio.
Già l’avvenir guardava, e sorridendo
Dicea: Lucida fama al mondo dura,
Fama quaggiù sol cerco e fama attendo.
Misero ’ngegno non mi die’ natura.
Anco fanciullo son: mie forze sento:
A volo andrò battendo ala sicura.
Son vate: i’ salgo e ’nver lo ciel m’avvento,
Ardo fremo desio sento la viva
Fiamma d’Apollo e ’l sopruman talento.
Grande fia che mi dica e che mi scriva
Italia e ’l mondo, e non vedrò mia fama
Tacer col corpo da la morta riva.
Sento ch’ad alte imprese il cor mi chiama.
A morir non son nato, eterno sono
Che ’ndarno ’l core eternità non brama.
Mentre ’nvan mi lusingo e ’nvan ragiono,
Tutto dispare, e mi vien morte innante,
E mi lascia mia speme in abbandono.
Ahi mio nome morrà. Sì come infante
Che parlato non abbia i’ vedrò sera,

E mia morte al natal sarà sembiante.
Sarò com’un de la volgare schiera,
E morrò come mai non fossi nato,
Nè saprà ’l mondo che nel mondo io m’era.
Oh durissima legge, oh crudo fato!
Qui piango e vegno men, che saprei morte,
Obblivion non so vedermi allato.
Viver cercai quaggiù d’età più forte,
E pero e ’ncontr’ a Obblio non ho più scampo,
E cedo, e me trionfa ira di sorte.
Morir quand’anco in terra orma non stampo?
Nè di me lascerò vestigio al mondo
Maggior ch’in acqua soffio, in aria lampo?
Che non scesi bambin giù nel profondo?
E a che se tutto di qua suso ir deggio,
Fu lo materno sen di me fecondo?
Eterno Dio, per te son nato, il veggio,
Che non è per quaggiù lo spirto mio,
Per te son nato e per l’eterno seggio.
Deh tu rivolgi lo basso desio
Inver lo santo regno inver lo porto.
O dolci studi o care muse, addio.
Addio speranze, addio vago conforto
Del poco viver mio che già trapassa:
Itene ad altri pur com’i’ sia morto.
E tu pur, Gloria, addio, che già s’abbassa
Mio tenebroso giorno e cade omai,
E mia vita sul mondo ombra non lassa.
Per te pensoso e muto alsi e sudai,
E te cerca avrei sempre al mondo sola,
Pur non t’ebbi quaggiù nè t’avrò mai.
Povera cetra mia, già mi t’invola
La man fredda di morte, e tra le dita
Lo suon mi tronca e ’n bocca la parola.
Presto spira tuo suon, presto mia vita:
Teco finito ho questo ultimo canto,
E col mio canto è l’opra tua compita.
Or bianco ’l viso, e l’occhio pien di pianto,

A te mi volgo, o Padre o Re supremo
O Creatore o Servatore o Santo.
Tutto son tuo. Sola Speranza, io tremo
E sento ’l cor che batte e sento un gelo
Quando penso ch’appressa il punto estremo.
Deh m’aita a por giù lo mortal velo,
E come fia lo spirto uscito fore,
Nol merto no, ma lo raccogli in cielo.
T’amai nel mondo tristo, o sommo Amore,
Innanzi a tutto, e fu quando peccai,
Colpa di fral non di perverso core.
O Vergin Diva, se prosteso mai
Caddi in membrarti, a questo mondo basso,
Se mai ti dissi Madre e se t’amai,
Deh tu soccorri lo spirito lasso
Quando de l’ore udrà l’ultimo suono,
Deh tu m’aita ne l’orrendo passo.
O Padre o Redentor, se tuo perdono
Vestirà l’alma, sì ch’io mora e poi
Venga timido spirto anzi a tuo trono,
E se ’l mondo cangiar co’ premi tuoi
Deggio morendo e con tua santa schiera,
Giunga ’l sospir di morte, e poi che ’l vuoi,
Mi copra un sasso, e mia memoria pera.
E finiscasi qui l’ottavo canto.

Il Balaamo

Canto 1

Là del Giordan su l'arenosa sponda
Vasta pianura i suoi feraci stende,
Ameni campi cui la limpid'onda
Irriga, ed il terren fertile rende,
Terren, su' cui con dominante impero
Stende lo scettro il Moabita altero
Quivi di forze, e ardire alto portento
Il popol d'Israello arresta il passo,
E qual procella, o vorticoso vento,
O qual veloce smisurato masso,
Che orrendo cade da la cima alpina
Solo strage promette, e sol ruina
Erge il suo volo al ciel d'alto terrore
Nunzia la fama, e a ognun dipinge il volto
Di tristezza, di lutto, e di pallore;
Si trema, e piange, e in nere spoglie avvolto
Chi straccia il crine, e chi percuote il petto,
Celer fugge da lor calma, e diletto
Balac il rege pensieroso, e incerto
Impallidisce anch'esso, il popol mira
Oppresso dal timore, e quasi certo
Il suo perir; già furibonda l'ira
Tutta gli turba l'agitata mente,
E vicino il nemico e vede, e sente
Mentre dubbioso pende, almo pensiero
Gli si presenta alfin; tale in procella
Orrida, e nera il provido nocchiero
Mira ricomparir l'amica stella,
Che fra l'oscuro, turbinoso velo
Il tremulo fulgor spande nel cielo
Lungo la riva de l'ondoso Eufrate,
Sol mascherato di pietà l'aspetto
Fra le deserte selve inabitate
Ha l'empio Balaamo umil ricetto,

Che Profeta creduto, in ozio lento
Mena la vita a gl'incantesmi intento
In maledir possente, e d'onor vago,
De l'oro amico, e d'alterigia pieno,
Ipocrita maligno, ignoto mago,
In sorte amica ognor lieto, e sereno,
Squallido ne l'avversa, e pien di sdegno;
Eletto vien liberator del regno
Questi, è colui, che ad Israel cotanto
Danno apportò con gli empj suo consiglj,
Quegli ch'ottenne l'esecrato vanto
I più fieri aumentar neri periglj,
Quei, che solo inspirò spavento, e orrore
A l'esercito altero, e vincitore
E già del Rege al cenno imperioso,
Aurati doni, e gemme in man recando,
Cinti da popol folto, e numeroso
Se n'escono ubbidienti al rio comando
Da la patria region, dai campi aprici
A l'empio Balam Messaggeri amici
Già d'Aram la città l'albergo umile
Scorgon vicin, su' cui quercia frondosa
Stende i suoi rami, appiè del tronco il vile
Terreo tugurio stassi infra l'ombrosa,
Ampia selva, che il cinge d'ogni intorno,
E toglier sembra a lui l'amico giorno
Ansiosi il passo ad affrettar si danno,
Gioia, e timor fansi ad ognun presenti;
Forse per questi libere saranno
Le nostre mura, e i gravi mali, e i stenti
Forse per lui lungi scacciar potremo,
E fors'anche tornar mesti dovremo
Così dicean del sospirato evento
Dubbiosi, e incerti, ed a le rozze mura
Giungono alfin; dal vil tugurio a stento
Balam se n'esce in pensierosa cura,
E agl'incantesmi intento, ognor tenendo
Fissi gli occhi nel suol, d'aspetto orrendo

Al volto truce, al tuon grave, e feroce
Attonito ognun resta, e umil si tace;
Rompe il silenzio alfin supplice voce:
O Profeta t'invìa salute, e pace
Il nostro Rè, che da sventure oppresso,
Tutto ti affida il regno suo, e se stesso
Nemiche turme a la città tremante
Vengono ad apportar morte, e ruina;
Supplichevoli siamo a te d'innante,
Onde vogli impiegar l'opra divina
Le nostre a liberar paterne mura,
Nè senza premio andrà simile cura
E in così dire offron preziosi doni,
Onde i lor voti ascolti, e non isdegni
Le patrie liberar care magioni,
Per cui sol pace, e contentezza regni:
E disperso Israel nemico, e fiero,
Libero sia de gli avi lor l'impero
Incerto Balam la rugosa fronte
Pensieroso si liscia, e il grave mento;
Del cupo, ignito, Averno, e d'Acheronte
I Numi invoca, e alfine a grave stento
Onde scacciar da voi, dice, il periglio
Chieder voglio dal ciel saggio consiglio
Ma già stende la notte il nero manto
Già s'ascondon del sol le ardenti ruote,
Tace de gli altri augelli il dolce canto,
Esprime l'usignuol musiche note,
E i lung-urlanti gufi a lui fann'eco
Dal lor profondo tenebroso speco
Balam rinchiuso il ciel, l'Averno invoca,
Ora con alto tuono incantatore,
Ed or con voce supplicante, e roca,
Consiglio chiede al Rè del cupo orrore,
E al Dio possente; quando alta, e severa
Ode una voce imperiosa, e fiera
Balam gli dice al cenno mio sovrano
Pronto ubbidisci; il popol valoroso

Di me protegge la possente mano,
Maledizion non teme, il poderoso
Mio braccio vendicar saprà l'offese,
Se l'audace tuo labbro a lui le tese
Confuso ci resta, e di pallor dipinto,
I ricchi doni, il lusinghiero onore
Incerto mira, ma ogni dubbio, è vinto
Da quel, che mostra il cielo alto furore,
E di lasciar risolve il campo aperto,
E i doni rifiutare, e l'oro offerto
E già dal Gange oriental sorgendo
Sferza i cavalli la nascente aurora,
E di più viva luce il sol splendendo,
L'alte cime de monti intorno indora,
E al mattutino albor lucido, e vago
Scioglie la voce sua l'augel presago
Ansiosi, e incerti i messaggeri amici
Sorgono al par del giorno; odon tremanti
Il van Profeta... ahimè figli infelici,
Infelice region! mesti, ed ansanti
Dunque passar dovrem la debil vita?...
E tu crudele ah non ci porgi aita?
Così diceano a la città volgendo
Lo stanco passo ognor mesti, e gementi;
Balam il Rege ancor sedea temendo
De l'evento il successo: alfin con stenti
Giungono i Messagger, lutto, e squallore
Portando in volto, e doglia sol nel cuore
Rege essi dicon d'Israello al brando
Dovrà vinto cadere il nostro impero;
Così decise il si fatal comando
Di quel Dio, che protegge il popol Sero.
Paventa Balam di recargli offesa;
E da chi aver potrem forte difesa?
Confusione, terror, spavento, e lutto
Si mesce incerto al femminil lamento,
Ma di speme non perde il popol tutto,
E d'oro carchi, e lusinghiero argento

Parton di nuovo i Messaggeri ansiosi,
Fra speranza, e timor mesti, e dubbiosi
A riveder tornan di nuovo il bosco,
Ove co' stesi rami ombri-frondosi
Il luogo rende intorno oscuro, e fosco
E il suol ricuopre di cespugli erbosi,
Affrettan ver colà veloce il piede,
E il tugurio primier da lor si vede
Mirano ancor con palpitante cuore
Il bramato da lor Profeta indegno,
Offrono i ricchi doni, e fra il terrore
Baciano il suol di riverenza in segno,
Avido Balaam gli alza, ed al Nume
Promette dimandar soccorso, e lume
Tutto già ricuopria l'oscuro velo,
Tacea de l'aspre belve il fier ruggito,
Folte le stelle risplendean sul cielo:
Quando un parlare in fermo tuon sentito
Forte l'orecchio di Balam percuote
Con queste ben intese, amiche note
Vanne, è ben pronto il desiderio appaga
Di Lui, che ti cercò con sì gran cura,
Vanne a le rive, che il Giordano allaga;
Ma per difender l'orgogliose mura
Non trasgredire i miei comandi, e l'acque
Del mio voler sian testimonj: e tacque
Balam giocondo col nascente giorno
Sorge; i messaggi la sua voce amica
Odono, ed eccheggiar s'ascolta intorno
Pei lieti evviva la campagna aprica,
Esulta ognuno, e giubilante mira
L'avversa sponda fra il contento, e l'ira
Tripudi invano, o Moabita altero,
Che regna in ciel l'Onnipossente Dio,
Nò, non è salvo il tuo superbo impero,
Nò, nulla puote l'empio Mago, e rio,
Ei non paventa la superna mano,
Ma protegge Israello il Dio Sovrano.


Canto 2

Vana ambizion, stolto, fallace orgoglio
Ah dove fermi il vacillante piede?
Cade a un cenno Divin l'aurato soglio,
Su cui tu fondi la superba sede;
Cadono i Regi, e cade insiem la umana
Alterigia infedel, ricchezza vana
Invan porgesti il mal sicuro braccio
A l'empio Balaam, che in te si affida.
Cadde egli è vero a l'ingannevol laccio,
Che tese a lui l'ambizione infida,
Ma presto egli vedrà con suo gran danno
Quanto mal contro lor gl'empj si fanno
Già dignitoso, e ad arte umile affrena
Vile giumento, al di cui tardo corso
Rattengono i destrier l'ardente lena,
Dei quali premon rispettosi il dorso
Gli alteri Moabiti, in cui l'evento
Insiem mesce la gioja, e lo spavento
S'avvanzano del pari, ed egli intanto
Ne la mente ravvolge i ricchi doni,
Di liberar l'amico impero il vanto,
E da l'ampie scacciar, meste regioni
Le numerose turme, il popol fiero;
Pungono insieme il cuor, l'animo altero
Mira fra se de' Moabiti il duolo,
Il mesto pianto, ed il bramato onore
Veder gli sembra ancor prostrati al suolo
I messaggeri star fra lo squallore,
E l'esercito ormai esser vicino;
Ma ben rammenta il cenno, ancor, Divino
Quand'ecco d'improviso il vil giumento
Fermo si arresta, e quindi un lieve salto
Spicca veloce a l'aria, in sella a stento
Rattiensi Balaamo, e balza in alto
Il profetico pallio, e ognor feroce
Segue il giumento il corso suo veloce

Così talor de' flutti alti, e nembosi
Scherzo, e ludibrio intorno erra, e si aggira
Nave irrequieta per gli spazj acquosi,
De l'Oceano infra lo sdegno, e l'ira,
E giuoco di procelle furibonde
Le vele sono tra il fragor de l'onde
Le braccia ergendo, e il noderoso legno,
L'innocente animal Balam percuote,
E pinto in volto di furor, di sdegno
Il capo minaccioso, e crolla, e scuote,
E la sferza, che orrenda alto-rimbomba
Più volte sul giumento irata piomba
Tal fra tempeste, e folgori tuonanti
Cruda grandin flagella il verde suolo,
E spinta ognor da gli austri rimugghianti
Empie ogni intorno di lamento, e duolo,
E s'ode crepitar sul lungo solco,
Ed atterrar la speme del bifolco
Erra la bestia or con piè giusto, e lento,
Ed ora inaspettata, ed improvisa
Veloce fugge, i Moabiti a stento
Pongono a fren l'involontarie risa
L'irrequieto al mirar, furioso corso,
E vacillare Balaam sul dorso
Stanco il giumento, e pel terror smarrito
Trabocca alfine, e Balaamo altero
Cade ancor egli, e il fiero orgoglio ardito,
E il venerando aspetto, e il tuon severo
Schernito mira, e l'ambizioso volto
A ne la polve, e ne l'arena avvolto
Tosto sorge d'intorno un mormorìo,
E un misto sussurrar, basso, e indistinto,
Ma già s'erge dal suolo il Mago rio
Di rabbia, e di rossore il volto pinto,
Ambe le mani furibondo innalza,
E l'animal: co le percosse incalza
Qual furioso lion d'aspra ferita
Piagato il fianco, inferocito corre

Onde inseguir la turma sbigottita,
Mentre frattanto il caldo sangue scorre;
Tal da gli occhi spirando ira, e livore
Si accresce in Balaam l'alto furore
Quando, oh portento!, la turbata testa
Volge il giumento, e tosto le cadenti
Pelose orecchie scuote, ognun si arresta,
E ad osservar tutti già sono intenti;
L'asino alfin gli parla, e sì gli dice:
T'adiri invan, più oltre andar non lice
Dipoi sen tacque, ma il Profeta ardito
Non si rattien da l'impeto sdegnoso,
E più che mai vedendosi schernito
Con rabbia scuote il manto polveroso,
E intanto il furibondo alto-fischiante
Legno volteggia tra il fragor rombante
Come se a fiamma ognor focosa, e ardente
Esca si aggiunga, l'ampia, ignita luce
Più viva spande; tal bieco, e furente
Balam d'aspetto spaventoso, e truce
Del giumento al parlar vieppiù feroce
Di colpi grandinava un nembo atroce
Quando improviso il nuvoloso velo,
Che a gli occhi l'ascondea del Mago insano
Squarcia lo Spirto del stellato cielo,
La spada fiammeggiante avendo in mano,
E a lui la volge, che vieppiù infierisce,
E il lampo gli occhi, e il cuor pronto ferisce
Al colpo inaspettato egli atterrito
Resta, e coperto di pallor le gote,
Si confonde, si arresta, e sbigottito
Esprimer s'ode fra il timor tai note:
Signor che vuoi?... il tuo voler mi spiega
E palpitante al suolo umil si piega
L'Angelo allora in tuon severo, e grave
Vanne, gli dice, ma il Divin comando
Pronto eseguisci, e guai per chi non pave
Questo del cielo onnipossente brando;

Fra l'orror proverà d'avversa sorte
Lo strazio orrendo d'esecrata morte
Vana speranza, lusinghevol cura
Delusa fosti. Pallido, e tremante
Balam ritorna a le assediate mura:
Balac esulta, e il ferro alto-fischiante
Del ciel non ode, che al cadente impero
La ruina minaccia, e al regno intero.

Canto 3

Moabbo, invan di trionfanti allori
Cingi la fronte a gl'impotenti Numi,
Vedrai ben tosto tra i funesti orrori
Tinti del sangue tuo scorrere i fiumi,
E su gli estinti corpi, e sul tuo regno
Vincitor mirerai del ciel lo sdegno
Squallido Balaam già la cittade
Mira vicina, e tosto alto spavento,
E gioia insiem d'ognun l'animo invade,
Ora il terror succede, ora il contento;
Incerto fra il timor v'è là chi pende,
E v'è chi lieto al ciel le mani stende
Già da l'alta città Balam altero
Lieto sen esce di veder pensando
Vinto omai d'Israello il popol fiero,
Esce ubbidiente ancora al suo comando
La numerosa turma incerta, e ansante,
Il campo ingombra il cavaliere, e il fante
Giunge Balam alfine: i lieti evviva
S'alzano tosto al cielo, echeggia intorno
La valle, e il monte, e del Giordan la riva.
Giungesti alfine, o sospirato giorno;
Balac esclama; in cui mi sia concesso
Il nemico veder vinto, ed oppresso!
Son pronto, o Rege, il cenno tuo sovrano
Ad eseguire; il Regnator del cielo
Scagliar dovrà con la possente mano

Di sua vendetta il sanguinoso telo
Contro il popol crudel, che lutto, e morte
A te minaccia, e spaventosa sorte
Sì dice Balaamo il popol tutto
Applaude lieto, e dal suo cuore ansioso
Il duolo scaccia, lo spavento, e il lutto;
Gioisce ognun non più mesto, e dubbioso,
E il primiero obbliando, inquieto affanno
Balac il Rege a seguitar si danno
Al cielo ergea le rilevate spalle
Erta montagna, e da la cima alpestre
Scorgeasi intorno ne la bassa valle
E le nemiche turme, e il campo equestre
Ingombrar la pianura, e ferrea messe
Scuopriasi d'armi ammonticchiate, e spesse
Quivi Balac ascende; ha seco a lato
L'empio Profeta maestà spirando,
S'ergon l'are del Mago desiato
A l'imperioso cenno, al rio comando,
Le vittime son pronte; il regno intero
Pende dal labbro del Profeta altero
L'olocausto sostien, Balac; ei dice;
Finchè mi porga il ciel saggio consiglio,
Onde dal popol tuo mesto, e infelice
L'imminente scacciare, aspro periglio.
Sì dice, e parte: ansioso ognuno aspetta
Contro il fiero Israel cruda vendetta
Ed ecco tosto rabbuffato, e ardente
Sen torna Balaam, da le pupille,
E da l'incantator volto, furente
Escon di vivo fuoco acre scintille,
Ognun si arresta, ed a gli orecchi attenti
Corre l'alma ad udir gli ansiosi accenti
Popolo di Moabbo il Dio Celeste
Benedisse Israello, egli mi vieta
Le turme di scacciar cotanto infeste
A la vostra regione or non più lieta,
Ceder essa dovrà del popol fiero

A l'impeto possente, al ferro altero
Come lion, che da l'opaco bosco
Esce furente ad atterrar le belve,
O come serpe col mortal, rio tosco
Le fiere uccide ne le ombrose selve;
Tale Israello il Moabita impero
Abbatterà furioso, e il regno intero
Qual cacciator, che ne la valle oscura
Mentre si vede d'ogn'intorno cinto
L'unico scampo, e insiem la via sicura
Mira rinchiusa, di pallor dipinto,
Da cruda belva, che l'unghiuta zampa
Erge, e di sdegno, e di furore avvampa:
Non altrimenti di terror, di lutto
Chiusa ogni via di libertà mirando
Intorno si riempie il popol tutto,
Che mesto geme al ciel = pietà = gridando,
E fra le vampe di furioso sdegno
Freme il Rege in veder perduto il regno
S'ergon di nuovo invan gli amici altari,
Fermo, ed immoto Balaam sen resta;
Solcan d'ognun le gote i pianti amari,
Fra il lutto, e la tristezza orrida, e mesta,
Rammentan tutti e la magione, e i figli
Esposti al duol funesto, ed ai perigli
Balam allora; udite, esclama, udite;
Impieghin col nemico e vezzi, e amori
Lo sdegno ad ammollir le Madianite,
E adorne vadan di olezzanti fiori
Finchè indotti da lor non sian con arte
Ad adorare i vostri Numi: e parte
Come nocchier, che mentre erra, e si aggira
Per il vasto Ocean, mesto, ed ansante;
Inaspettato alfine il porto mira,
Infra il furor de l'Austro sibilante:
Così tai detti udendo amica calma
Torna a Moabbo, e batte palma a palma
Si eseguisce il consiglio; al dolce aspetto,

Ai lusinghieri volti, oimè, già vinto
Cade il nemico, e dal guerriero petto
Il valoroso scaccia, antico istinto,
Ai feminili vezzi al sesso imbelle
Non resiste il temuto, aspro Israelle
Moabbo, esulti invano, invan d'argento,
O Rege, carchi il Mago incantatore,
Invan scacci da te l'alto spavento,
Ed il guerriero, bellicoso orrore,
Invan feroce miri il campo aprico
Ove le tende alzò fiero il nemico
L'Erebo ignito, ed il fumante averno
Giacerà vinto, e insiem l'altero orgoglio
Cadrà al voler del sommo Nume Eterno,
Che saggio regna in sul celeste soglio
Cadrà, e cadendo al Moabita altero
Del Nume mostrerà l'eccelso impero.