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Gabriele D'Annunzio
LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI














































































LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI





la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, che siano commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”. Così, come si è visto, D’Annunzio disegna cicli di romanzi, che però spesso non porta a termine; con intenti del genere affronta la produzione drammatica; nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale, che esaurisca tutto il reale.
Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone (gli ultimi due volumi portano già la data editoriale del 1904: i titoli derivano dai nomi delle Pleiadi). Ma anche questa costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912, raccogliendo le Canzoni delle gesta d’oltremare, dedicate all’impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non vennero mai scritti.
Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi. L’opera presenta subito un’evidente novità formale: D’Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso risponde al carattere intrinseco del poema, che si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico (il sottotitolo è infatti Laus vitae, Lode della vita). L’intento di D’Annunzio è quello del poema totale, che dia voce alla sua ambizione “panica” a raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vita e del mondo (in greco pan significa tutto). Ne deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie e ridondanti.
Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel 1895. L’”io” protagonista si presenta come eroe “ulisside”, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime, divino, all’insegna della forza e della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge nella realtà moderna, nelle “città terribili”, le metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove, immense potenzialità vitali. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza, equivalente a quella dell’Ellade, ed i “mostri” del presente divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza internazionale, i capitani d’industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti energie, che possono essere indirizzate a fini feroci ed imperiali.
Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, D’Annunzio aveva affidato all’intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, aprendo la strada a una nuova èlite aristocratica, facendo rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo Rinascimento e cancellando così un presente infame. La contrapposizione alla realtà moderna era ancora violenta, radicale. Ora, con Maia, si ha una svolta di centottanta gradi: nel mondo moderno D’Annunzio scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, l’epica delle grandi imprese industriali e finanziarie. Ma, come dietro al vitalismo del superuomo si scorge pur sempre l’attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto.
Nel secondo libro, Elettra, l’impianto mitico, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto all’oratoria della propaganda politica diretta. La struttura ideologica del libro ricalca quella di Maia. Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappongono ad un polo negativo, un presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita da una serie delle liriche sulle Città del silenzio. Sono le antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna, che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica: quel passato su cui si dovrà modellare il futuro. Medio Evo e Rinascimento italiani sono dunque l’equivalente funzionale dell’Ellade classica in Maia. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del Risorgimento (La notte di Caprera, dedicata a Garibaldi). Cantando questo passato glorioso, D’Annunzio si propone esplicitamente, non più dietro allusioni mitiche, come vate di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi dell’Italia.
Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo, polemico e profetico, si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; al motivo dell’azione energica, un atteggiamento di evasione e contemplazione. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani alle coste tirreniche tra la Marina di Pisa e la Versilia: le liriche si ordinano quindi in un disegno organico, che segue la parabola della stagione, dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, a consentire la pienezza vitalistica: l’io del poeta si fonde col fluire della vita del Tutto (si ricordi il significato del greco pan, che era anche il nome di una divinità agreste, in cui si incarnava la potenza della natura), si identifica con le varie presenza naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e potenziandosi all’infinito in questa fusione ad attingendo ad una condizione divina. Sul piano formale, alla turgidezza enfatica di Maia e alla rimbombante retorica di Elettra succede una ricerca di sottile musicalità, che tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica, con l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini tra loro rispondenti.
Per questo Alcyone è la raccolta poetica che è stata più celebrata dalla critica, specie da quella di orientamento idealistico, legata al gusto della lirica novecentesca: è stata vista quale poesia “pura”, sgombra dal peso dell’ideologia superomistica e delle sue finalità pratiche, immune dalla retorica e dall’artificio, rispondente al nucleo più genuino dell’ispirazione del poeta, il rapporto sensuale con la natura. In realtà Alcyone si inserisce perfettamente nel disegno ideologico complessivo delle Laudi. L’esperienza panica cantata dal poeta, lungi dall’essere “pura” di ideologia, non è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo, creatura d’eccezione, è concesso di “trasumanare”, di “indiarsi” al contatto con la natura, attingendo ad una vita superiore, al di là di ogni limite umano; e il gioco straordinario delle immagini, la trasfigurazione musicale della parola sono resi possibili, nella visione dannunziana, solo da una sensibilità privilegiata, più che umana. Solo la parola magica del poeta-superuomo può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura (si veda La pioggia nel pineto), raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose. Ne manca in Alcyone la ripresa diretta di certi motivi ideologici largamente sfruttati negli altri due libri delle Laudi: l’esaltazione di una violenta vitalità “dionisiaca”, la prefigurazione di un futuro di rinata romanità imperiale, l’”ulissismo”, cioè la febbre di vivere tutte le esperienze.
Alcyone di D’Annunzio, accanto alla poesia di Giovanni Pascoli, si pone così, nei suoi risultati migliori, come capostipite della poesia italiana del Novecento, con un’analoga funzione di prefigurare soluzioni formali a venire.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO QUARTO

MEROPE

Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti,
o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra,

Italia, Italia,
sacra alla nuova Aurora
con l'aratro e la prora!

Canto augurale per la nazione eletta [1901]

La canzone d'oltremare

I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.

Italia! Dall'ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l'esilio si colora.

Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d'aria;
e di lungi il tuo vólto è più divino.

Odo nel grido della procellaria
l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro
nel vento della landa solitaria.

Con tutte le tue prue navigo a ostro,
sognando la colonna di Duilio
che rostrata farai d'un novo rostro.

E nel cuore, oh potenza dell'esilio,

il nome tuo m'è giovine e selvaggio
come nel grido delle navi d'Ilio.

Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio,
nella città del Fiore e del Leone
quando ogni fiato era d'amor messaggio,

sì novo come questa tua stagione
maravigliosa in cui per te si canta
con la bocca rotonda del cannone.

Questa è per te la primavera santa
che - dice il dio - «d'ogni semenza è piena
e frutto ha in sé che di là non si schianta».

Oggi nova tu sei per ogni vena
sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti
ucciderai l'ultima tua sirena.

Come vivremo, o bella, per servirti?
come morremo, o fior delle contrade,
perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti?

Del miglior sangue fa le tue rugiade
e serba la promessa d'Oriente,
se il paradiso è all'ombra delle spade.

Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente
fresca e spedita, immemore dei giorni
squallidi, paziente e impaziente,

immemore dei sonni e degli scorni
quand'ella mendicava il suo preconio
dal ciompo, tempestando il pan ne' forni,

e la pace era femmina da conio
che per ruffian s'avea qualche Bonturo
e un Zanche per mezzano al mercimonio.

Giorni senz'alba, il rullo del tamburo,
lo squillo della tromba, e questa sorte

che turbina alle soglie del futuro,

vi disperdono. Tuonano sì forte
le volontà, che nella rossa aurora
non s'ode il crollo delle cose morte.

Ecco il giorno, ecco il giorno della prora
e dell'aratro, il giorno dello sprone
e del vomere. O uomini, ecco l'ora.

È venuta col rombo del tifone
pel Mar Mediterraneo, più fiera
che l'astro su la spalla d'Orione,

più colorata che la messaggera
della Celeste. E al grido «Issa! Issa!»
già tutta l'aria è sola una bandiera.

Emerge dalle sacre acque di Lissa
un capo e dalla bocca esangue scaglia
«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa.

E il Mar Mediterraneo, che vaglia
le stirpi alla potenza ed alla gloria,
in ogni flutto freme la battaglia.

«Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria,
simile a grande mietitrice albana,
fosca sotto la fronda imperatoria

«Ch'io mi discalzi presso la fiumana
di Rumia bella, dove il suo meandro
nutre l'olivo a Pallade romana.

Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro
in Lebda, nella cuna di colui
che suggellò la tomba d'Alessandro.

Ch'io m'abbeveri là dove già fui,
non per l'umide argille alla caverna
onde il Lete discende i regni bui,


sotto l'Arco del savio Imperatore
sgombro della barbarie e delle arene,

schiuso al Trionfo, mentre dalle prore
splende la pace in Tripoli latina,
recando i dromedarii un sacro odore.

O incenso del Deserto alla marina,
profumo delle incognite contrade
fulvo come la giubba leonina;

aròmati e metalli, armenti e biade,
e Berenice dalla chioma d'oro!
Il paradiso è all'ombra delle spade.

La palma è la sorella dell'alloro.»
Dice la grande Vergine che squilla
simile a Clio nel grande aonio coro.

E per noi dalla libica Sibilla,
sotto il cielo voltato dal Titano,
la sentenza di Dio si disigilla.

Preparate l'aratro cristiano,
preparate la falce per la mèsse,
il frantoio e la macina al Soldano,

l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse,
i gran magli e le macchine forbite
simili a moltitudini indefesse;

i forni vasti come le meschite
pel ferro dissepolto, le magone
ov'aspro strida nell'assidua lite;

le fornaci per cuocere il mattone
dei costruttori, in cui porrem l'impronta
che piacque a Nerva: Roma col timone.

Ogni tristezza dietro a noi tramonta.
Chi latra ancóra nella lorda fossa,

quando il fato con l'anima s'affronta?

Italia, alla riscossa, alla riscossa!
Ricanta la canzone d'oltremare
come tu sai, con tutta la tua possa,

come quando sorgeva sopra il mare
in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio
«Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,

scrosciando la galèa, preso il vantaggio
e infisso il cuor del capitano al rostro,
con le vele e coi remi all'arrembaggio.

«Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro!
Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!»
cantava la galèa sul Mare Nostro.

Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto.
«Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!»
Alza nel grido il tuo raggiato vólto,

e in terra e in mare tieni la tua guerra.

La canzone del sangue

In Cristo Re o Genova, t'invoco.
Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldo
vento, gridarti che tu guardi il fuoco.

Non Spinola né Fiesco né Grimaldo
trae con la stipa. Il sangue del Signore
bulica nella tazza di smeraldo.

S'invermiglia a miracolo d'ardore
il tuo bel San Lorenzo, come quando
tornò di Cesarèa l'espugnatore.

Tornò Guglielmo Embrìaco recando
ai consoli giurati, in sul cuscino,
tra la sesta e il bastone di comando,


tra la coltella e il regolo, il catino
ove Giuseppe e Nicodemo accolto
aveano il sangue dell'Amor divino.

Era desso, l'Embrìaco, figliuolto,
quei che fece al Buglione il battifredo
onde il vóto santissimo fu sciolto.

Con le mani che diedero a Goffredo
la scala invitta, sopra il popol misto
levò la tazza. E il popol disse: «Credo».

E ribolliva il sangue ad ogni acquisto
di Terrasanta; e n'eri tutta rossa,
il popolo gridando: «Cristo, Cristo!

Cristo ne preste grazia che si possa
andar di bene in meglio». E la Compagna
incastellava cocca e galèa grossa.

Così tu veleggiasti alla seccagna
di Tripoli, con uno de' tuoi Doria
buon predatore, o Genova grifagna;

ché padroni e nocchieri di Portoria
e di Prè, stanchi d'oziare a bordo,
tentarono l'impresa per galloria.

Ed era un vile tirannello ingordo
quivi, nato d'un fabbro saracino;
e l'ebbero per palio in sul bigordo.

Ogni roba condussero a bottino,
ogni uom prigione. E pieno di tesoro
fu l'ammiraglio quanto il pilotino.

La terra spoglia come piacque a loro
poi la vollero vendere a vergogna.
per cinquanta e più milia doble d'oro.

Poi cattarono altrove altra bisogna;

e posto sopra il cassero, l'abeto

trattò meglio che il calamo, la barra
di battaglia assai meglio che il sigillo,
contra il fior d'Aragona e di Navarra,

vincitore di re su mar tranquillo,
con gli infanti coi duchi e coi gran mastri
aggiugnendo al trionfo un codicillo;

odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli astri
d'un'altra state, tutti i tuoi rosai
aulendo ne' tuoi chini orti salmastri,

tal si partì coi rossi marinai,
con l'Amore e la Morte, del fraterno
stuolo facendo un spirito, e giammai

volse il bel capo verso il lido eterno,
dubitoso di perdere Euridice
che dietro sé traeva dall'Inferno;

se t'ebbe inconsapevole nutrice
l'esule smorto, tutto fronte e sguardo,
il fuoruscito senza Beatrice,

quegli che nel crepuscolo infingardo
eresse il suo dolore come un rogo,
il suo pensiero come uno stendardo,

e nella carne stracca sotto il giogo
il soffio ansò di quella terza vita
ch'or freme ferve splende in ogni luogo,

con te sì presso all'opera fornita
è quel dèmone vindice che forma
il suo mondo nell'anima infinita.

Ben a tal piaggia, ove non è che l'orma
dell'Immortale, o Madre delle Navi,
ieri approdò la nostra prima torma.


Non all'antica terra che forzavi
con la balestra e col montone, dura
in mettere a bottino, in trarre schiavi;

ma alla terra che chiamano futura
i messaggeri, alla terra dei figli,
alla terra dell'Aquila futura.

Come di tra i riversi orli vermigli
delle pàlpebre gli occhi del piloto
s'aguzzavano sotto i sopraccigli!

Ché divinava egli per entro al vòto
gorgo dell'aria un che di virginale
e di sublime, quasi monte ignoto,

simile al nudo culmine ove sale
lo spirito, ov'edifica imminente
lo spirito la grande arce spirtale.

E chiuse, per veder profondamente,
e chiuse egli le pàlpebre infiammate
su le pupille insonni; e fu veggente.

Per ciò, serva del Ciel, per ciò, primate
del Mare santo, la Reliquia vedo
ardere ed arrossar le tue navate.

Con le mani che diedero a Goffredo
la scala invitta, il rude espugnatore
levò la tazza. E il popol disse: «Credo».

O parola novissima d'amore,
trascorri in nembo tutto l'Apennino
e fa crosciar le selve al tuo clangore!

Ecco il vaso di vita, ecco il catino
ove Gesù nel vespero pasquale
ai Dodici versò l'ultimo vino,

e lor disse: «Quest'è il mio sangue; il quale

è il sangue del novel patto, ed è sparso
per molti». E s'indiava sopra il male.

Quando clamò «Eloi!» dal cor riarso,
nell'ora nona, un uom d'Arimatea
venne; e in quel vaso accolse il sangue sparso.

Quindi per alta grazia un'assemblea
di Puri s'ebbe lo smeraldo sculto
in custodia; e di loro il mondo ardea.

Pari l'ebrezza del convito occulto
era ad una immortalità precoce,
ed il trapasso era un divino indulto.

L'anima era visibile; la croce
era senz'ombra; il pianto era rugiada;
il silenzio era un inno senza voce.

L'avversario era in capo d'ogni strada;
la battaglia era un serto di faville;
la giustizia era l'occhio della spada.

Il futuro era un carme di sibille
come di tessitrici glorianti;
e la gloria era d'uno contro mille.

O Mistero del Sangue! I duomi santi
crollarono in un vespero, i templari
furon sepolti sotto i marmi infranti.

E un'orda venne, che coi limitari
divelti, col rottame dei lavacri
perfetti, con le mense degli altari,

con le schegge dei grandi simulacri
costrusse le sue case. Ed il porcile
era murato di frammenti sacri.

Ma i bianchi Astori lungi all'orda vile
avean rapito il segno del reame.

e quivi con un càmice di maglia
l'asta di croce in pugno avea l'accolito.
Sì fatto era l'altare di battaglia.

E fu silenzio ed isplendore insolito
su tutto il mare, al segno del Primate.
E tutte le galèe stavano in giolito,

con le pale fuor d'acqua affrenellate
su la bonaccia. E il giorno di San Sisto
era per i Pisani, a mezza state.

Tenean quelli di Genova il sinistro
corno con navi e saettìe, l'opposto
le genti di Campania unite in Cristo.

Rosse le prore come tinte in mosto
avea Salerno, d'indaco Gaeta,
d'oro Amalfi alla Vergine d'agosto;

ché que' mercanti a battere moneta
intendevano sol per far naviglio
e cambiavano in gómene la seta.

KYRIE, ELEISOS. Il bianco ed il vermiglio
ondeggiavan con l'Aquila pisana
che già temprato in Bona avea l'artiglio;

e la Rosa dei vènti amalfitana,
già fatta croce irsuta d'otto punte,
si consecrava presso la campana.

CHRISTE ELEISON. Ché s'erano congiunte
nel lor Signore le città tirrene
la prima volta a lega; avevan unte

di novo spalmo a caldo le carene
per la lega, cresciuto il palamento,
rinforzato il cordame e le catene,

ai lor Vescovi dato sacramento

di riscattare dal predone immondo
le tolte navi, il cristiano armento;

e parea quivi il comun corpo al mondo
latino annunziar le sante imprese,
prima che si crociasse Boemondo.

KYRIE, ELEISON. Le guardie del calcese
trasognando vedean nell'acqua i bianchi
marmi fiorir delle lor dolci chiese.

Tutti in corazza i rematori franchi,
allacciati i giglioni coi frenelli,
pregavano a ginocchi sopra i banchi;

ma i prodieri, di sotto i lor cappelli
di cuoio, con un piede alla pedagna,
guatavano la costa pei portelli.

AGNUS DEI. E per tutta la compagna
fremito corse; ché, splendor d'Iddio,
splendé nella raggiera l'Ostia magna.

E i prossimi gridarono: «Te, Dio,
lodiamo, Te, Signore, confessiamo!».
Ed anelavan di ricever Dio

nella specie del Pane. «Te lodiamo,
Te confessiamo, unico Iddio vivente.
Del corpo di Gesù comunichiamo.

Dacci il Pane dei forti!» E incontanente
s'apprese la divina bramosia,
corse di poppa in prua, di gente in gente.

E il Vescovo rispose: «Così sia».
E per tutto il naviglio fu gran serra
al grido: «Eucaristia! Eucaristia!».

Ed era il grido della santa guerra.
Poi fu silenzio. Il rugghio d'un leone

udito fu venire dalla terra.

E dal cassero come dall'ambone
il Vescovo parlò: «Fratelli in Dio,
udite, udite il rugghio del leone!».

E sopra la coverta un balenìo
passò, dalle garitte alle rembate;
le carte del Vangelo sul leggìo

si volsero, le lunghe fiamme issate
garrirono, stridé l'alberatura
carica delle vele ammainate;

ché si levava il vento di Gallura
per i Pisani. E il console Uguccione
dietro il Vescovo apparve in armatura.

E il Vescovo parlò: «Egli è il leone
di Ieronimo, o quel che pien di miele
fu rinvenuto in Timna da Sansone,

o quel che nella fossa Daniele
mansuefece, ond'egli disse al re:
«L'Iddio mio mandò l'Angelo fedele

il qual compresse le fauci, talché
non m'hanno guasto». E sì voi confidate,
ché molta in cielo è la vostra mercé,

e l'Angelo di Dio dalle rembate
vi guarda, e su dal gorgo i vostri morti
risalgono perché vi ricordiate,

perché più non isforzi ai vostri porti
le catene il feroce rubatore».
Gridaron tutti: «Dacci il Pan dei forti!».

E, come fu sedato il gran clamore,
tanto crebbe la romba dei ruggiti
per quelle rupi rogge dall'ardore,


onde tolse lo scettro ad Alberada
Sigilgaita dal quadrato mento.

Ma quei d'Amalfi, cui la lunga spada
era misura, a patria più lontana
andavano; ché già s'avean contrada

e forno e bagno e fondaco e fontana
per tutto, e Mauro Còmite dal Greco
mattava il Doge al libro di dogana.

«Fratelli in Cristo, dietro il muro bieco
a mille a mille anime battezzate
penano; e solo il pianto hanno con seco.

Non vi croscia nel cor, se l'ascoltate?
Sono i fanciulli, sono i vecchi, gli avi
e i padri, son le donne violate,

schiavi alla mola, schiavi al remo, schiavi
al carico, sepolti nelle gune
del grano come in cemeterii cavi,

muffi nelle cisterne e nelle mude,
riarsi dalla sete e dalla fame,
rotti dalla catena e dalla fune.

Bevono pianto, màsticano strame.
Vivi non sono più né sono morti.
Sono un cieco dolore in un carname.

Se non vincete, ecco le vostre sorti,
fratelli in Cristo.» E il tuono fu sul mare.
«Allarme! Allarme! Dacci il Pan dei forti!»

E l'Ostia sfolgorava su l'altare
a tutti i marinai come la spera
del sole. E Dio ricamminò sul mare.

Ed issò lo stendardo ogni galera;
e volse d'Occidente ad Oriente

con le mani velate la raggiera

il Vescovo, e dal petto suo potente
AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI
clamò tre volte sopra la sua gente.

Ed Uguccione e i consoli congiunti
in Cristo e tutta la capitanìa
AGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI

conclamarono. E lungo la corsia
e nelle balestriere e su i castelli
risposero gli armati: «Eucaristia!».

E i vogavanti sciolsero i frenelli,
al sìbilo dei còmiti; e due vanni
il legno fu dai cento suoi portelli.

«La croce a poppa, messer San Giovanni
a prua, la Vergin Donna Nostra in vetta
all'albero di mezzo: e Dio li danni!»

Gridavano i prostrati «Affretta! Affretta!»
vedendo i lor adusti cappellani
frangere a gara l'Ostia benedetta.

E alfine s'ebber l'Ostia nelle mani
essi i prostrati; assolti l'ebber tocca
i feditori con le dure mani

indurite alla lieva ed alla cocca,
e la fransero e diedero ai compagni;
e ricevuta fu di bocca in bocca.

E l'un l'altro pregava: «Sì la fragni
che basti a me, che basti anco a fratelmo!».
E tremavagli il fondo degli entragni,

ché non bastava. Allora nello schelmo
saltò quell'uno, armato; si scoperse
il capo, empié d'acqua marina l'elmo;


e l'alzò, come calice l'offerse
gridando: «Valga a noi per sacramento,
o Vescovo di Cristo!». E quei converse

in ispecie divina l'elemento
indomito, col segno, dall'altare
gridando: «Valga a voi per sacramento».

E si comunicarono del mare
sol con quel segno i fanti: ginocchioni
contra i pavesi, udìan Màdia rugghiare.

Poi forzaron le rupi ed i leoni.

La canzone dei trofei

O Pisa, or tu sei vedova del mare,
che stavi notte e dì per tener fronte
in Tersanaia a fare, a racconciare,

quando un bando di Chìnzica o di Ponte
valeva a trarre in corso dai sessanta
scali ben unti le galere pronte!

Pende dal muro la catena infranta
nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri
e i tuoi morti fiorìan la terra santa.

La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri
nel tuo Vescovo il cor di Daiberto
balzò, verso i trofei de' Cavalieri.

O Salerno, nel duomo dove offerto
ti fu da Gian di Procita l'avorio
e l'oro sovra i marmi di Ruberto,

nell'ombra dove il settimo Gregorio
grandeggia, non fanal di capitana,
non stendardo d'emiro pel mortorio,

non insegna, non spoglia musulmana

e la sferza e la stanga e le ritorte,

un de' tuoi figli che nel suo furore
se ne sovvenne e, per i mille schiavi
di quel settembre, ebbe di mille il cuore.

Marinai, marinai, sopra le navi
e dentro le trincere, a bordo e a terra,
in ogni rischio e con ogni arme bravi,

fatti dalla tempesta per la guerra,
nel silenzio mirabili e nel grido,
infaticati sempre, a bordo e a terra,

di voi s'irraggi e palpiti ogni lido
d'Italia mentre per la mia più grande
Italia qui la vostra gloria incido.

Non le piagge che adorna di ghirlande
amare il flutto ove le sue melodi
Undulna dea dal piè d'argento scande,

ma oggi loderò con le mie lodi
l'acqua oleosa lungo le banchine
sonanti per gli imbarchi e per gli approdi,

l'acqua opaca ove colan le sentine
e nuotano i tritumi del carbone,
le fecce dei cavalli, le farine

delle sacca sventrate, il bariglione
rotto, la buccia putrida, la lorda
schiuma che ingialla il piede del pilone,

mentre alla gru che cigolando assorda
l'aria imbracato il bove da macello
pencola come botte che sciaborda.

Canto l'acqua dei porti. Odo l'appello
rude, il commiato, il grido. I reggimenti
partono. Ogni uomo armato è il mio fratello.


Veggo gli occhi brillare, veggo i denti
rilucere. Odo il lastrico del molo
rombar sotto la marcia. Sono ardenti

i vólti come se li ardesse un solo
riverbero, o il sorriso d'una sola
madre, di quella grande. Ogni figliuolo

oggi ha sol quella, e in cuore la parola
che alfine irruppe dalla bocca forte.
Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola.

Guerra! Una gente balza dalla morte,
s'arma, s'assolve nell'eucaristia
del mare, e salpa verso la sua sorte.

Non più si volge indietro. Guerra! Sia
per giorni, sia per mesi, sia per anni
ella combatterà nella sua via.

Canto la libertà. Quali tiranni
furono uccisi? quali mostri vinti?
Qual forza li atterrò? di quanti inganni,

di che frodi senili erano cinti?
Chi diede al falso tempio il grande crollo?
Le colonne piegarono su i plinti.

Il precone stampato fu col bollo
rovente nella palma della mano
e nel dosso restìo, sino al midollo.

Strascicandosi contra l'uragano
gioioso che lo tratta come balla
di cenci, or vocia nella piazza in vano.

E marchiatelo ancóra su la spalla
e su la fronte! Poi gli sia concessa
la buona greppia nella buona stalla.

Altra parola è data, altra promessa.

Canto il domani e canto la canzone
dei secoli; ché l'anima è trasmessa.

A mira di balestra o di cannone
l'occhio è ben quello, che non batte ciglio.
Dritto è il silùro come lo sperone.

Canto la forza antica e nova, figlio
d'una carne vivente e d'infinita
progenie. O tu che m'odi, io ti somiglio.

Ma il balestriere, chino alla bastita
o alzato sul carroccio, anco in me vive.
L'anima eterna è il vaso della vita.

Canto le stive, le profonde stive
piene d'armi, di viveri, di tende,
di bottame; le maestranze attive

su i ponti apparecchiati ove risplende
forbito ogni metallo. I battaglioni
giungono. Il cielo è prode, con vicende

di nubi e di chiarìe, con padiglioni
immensi, con falangi impetuose.
E tutta la città par che si doni.

E diffuso è l'amore su le cose
come un ciel più vicino, simigliante
al vólto delle madri coraggiose.

Non sul vólto, nell'anima son piante
le lacrime divine e trionfali,
mentre il silenzio fa le labbra sante.

Gloria della città! Passano l'ali
ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni
di Dedalo, le macchine campali

fatte di tesa canape e di legni
lievi, che porteran l'uomo e l'atroce

Canto la Morte, alata e illuminata
come la prima legge della luce.
La vita è meno fertile. È rinata

da lei l'alta bellezza. Ella produce
le semenze che noi nella ruina
seminerem cantando. Ella conduce

le Muse, conduttrice più divina
d'Apollo. Non ha tombe ma trofei.
È tutt'avvolta d'aria mattutina

come la messaggera degli dei.
I più giovini eroi sono i suoi gigli.
O Gloria, ed ella è là dove tu sei.

O Primavera, e tu le rassomigli.
Mentre che soffia il vento del Deserto,
ella infiamma gli anemoni vermigli.

Canto la Gloria cerula, dal serto
alternato di rostri e di muraglie,
che ride se il combattimento è incerto.

Immune dall'orror delle battaglie,
è bella come Roma nel suo trono
e Siracusa nelle sue medaglie.

Come sul mar risponde il tuono al tuono,
il presente al passato in lei risponde;
e la mia corda duplice è il suo dono.

Conculcate le stirpi moribonde
ella fa dell'Italia dai tre mari
la grande Patria dalle quattro sponde.

Quando nei nostri porti gli alti fari
s'accendono, ella sfolgora da ostro
sola nelle foschie crepuscolari.

E, vòlto verso lei notturna, il nostro

sogno ansioso vigila il mattino.
E il mattino per noi sorge da ostro.

Sorge con uno strepito marino,
tra le grida gioiose dei messaggi
che gridano il gentil sangue latino:

gridano i reggimenti e gli equipaggi,
gridano i morti, gridano i feriti
le vittorie da' bei nomi selvaggi,

gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.
Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-
Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti

la palma. Tutta l'oasi è un'ara
fumante. Verri, Granafei, Briona,
Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,

Moccagatta, Spinelli! Un nome suona
la morte, l'altro la vita. E la morte
e la vita son come una corona

sola composta di due fronde attorte.
Severo dal suo grande Arco sorride:
il battaglione è come la coorte.

Foss'io come colui che i nomi incide
col ferro aguzzo nella nuda stele
ad eternar la gesta ch'egli vide!

O Roma, almen quello del tuo fedele
inciderò nel fulvo travertino,
e il tuo modo: «Coi remi e con le vele».

O Roma, e mentre al giovine Latino
«Velis remisque» nella pietra intaglio,
scorgo l'Ombra del grande suo vicino.

Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio,
quegli che fece co' suoi nervi soli

a San Giorgio di Lissa il suo travaglio.

«Gittai buon seme» ei dice. Si consoli
per quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto
la madre di Riccardo Grazioli.

E tu resta, o Canzone, in camposanto.
Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba;
e veglia, incoronata d'amaranto.

Alla diana sonerai la tromba.

La canzone della Diana

Tutti i cipressi fremono. O Canzone,
squilla! I corvi dall'arco tiburtino
s'alzano andando verso il Teverone.

Altrove è l'alba. Un pascolo marino
è l'Agro. L'Urbe è un'isola. Si spande
la più gran luce sopra l'Aventino,

verso la Porta d'Ostia, in sette bande.
Nell'ombra del Gianicolo tre vele
rosse rimontan verso Ripa Grande.

Sul Mausoleo l'Arcangelo Michele
sfolgora. Ritto sta su l'altra mole
a cavallo il secondo Emanuele.

Ninfa perenne dalle mille gole
l'acqua canta le origini del Lazio.
Niuna cosa mai tu veda, o Sole,

maggior di Roma! Il numero d'Orazio
a quando a quando par, tra l'Arce e il Fòro,
riecheggiato nel divino spazio.

Pieno di nume è l'aere sonoro.
Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia
un eroe sul Gianicolo l'alloro?


che scavan le trincere nelle tombe
dei Caramanli. Il canto li rinfranchi.

S'ode nel cielo un sibilo di frombe.
Passa nel cielo un pallido avvoltoio.
Giulio Gavotti porta le sue bombe.

Laggiù, presso la mola d'un frantoio
o presso i tronchi d'un'antica noria
onde pendon consunti e corda e cuoio,

sorride un morto all'invisibil gloria.
Il paradiso è all'ombra delle spade
e la delizia è il fior della vittoria.

Ulula per i campi senza biade
il duolo delle donne beduine
alterno, ed or s'inalza ed ora cade.

All'ombra d'una palma, sul confine
dell'Oasi, una croce rude è fitta
in un tumulo cinto dalle spine.

Nome inciso non v'è, non lode inscritta:
altro segno non v'è se non l'eterno.
Sola una nudità vi splende invitta.

Un dal tuo più profondo sen materno
escito, Italia, un figlio tuo vi dorme;
che s'ebbe anch'egli forse il pianto alterno

là nell'isola dove l'ombra enorme
del Passato covar sembra il nuraghe
perché ne sorga un popolo conforme.

Non la madre mortal toccò le piaghe,
né le lavò, né le lasciò di bende,
già consunta dall'ansie sue presaghe.

Ma tu guardasti le ferite orrende
e componesti il corpo in quel sepolcro.

Sola una invitta nudità vi splende.

E la terra fu tua per quel sepolcro,
tutta la terra inclusa tra la Sirte
e il Deserto fu tua per quel sepolcro!

Canto l'azzurro e l'oro della Sirte,
l'azzurro che nel grande oro s'insena,
ove non dagli scogli ma dall'irte

navi con l'urlo lungo la sirena
lacera l'aria pregna dell'aroma
che inebria i prodi; e bianca su l'arena

Tripoli infida cui la guerra schioma
come femmina presa per le trecce
dalle pugna del maschio che la doma.

Le sue palme schiantate, le sue brecce
fumide canto; canto i suoi villaggi
rasi che brucian come in luglio secce

di Maremma, onde fiutano i selvaggi
poledri il dubbio odore dalle chiatte
ben costrutte e nitriscono ai foraggi

salini che pascean lungo le fratte
di tamerici, presso i sepolcreti
sonori dove il mare etrusco batte.

O terra di sepolcri e di forteti,
Maremma, canto la tua razza equina,
la ben crinita razza che disseti

nel sarcofago tolto alla ruina
di Saturnia o di Volci e che rinfreschi
con un germoglio roscido di brina.

Salute, o terra degli Aldobrandeschi!
Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera,
come l'ocra e la robbia ai barbereschi,


arrossano finché di primavera
tu non li marchi all'anca e alla ganascia
per arrolarli sotto la bandiera.

La chiatta a fondo stagno il mastro d'ascia
chioda, coi sacchi d'aria e con le botti
l'aiuta, con i canapi la fascia.

I cavalli s'impennano, condotti
alla gru; cinti dell'imbraca, appesi
al paranco, paventano. Interrotti

sibili, canti di fatica ai tesi
canapi, voci di comando, liti
di battellieri, gergo di Maltesi,

schianti d'assi e di tavole, nitriti
e scàlpiti nel vento che ridonda,
sudore e schiuma, urti d'abbordo, attriti

di ferramenta; e tutta l'aria è bionda
come su Talamone; ed agli approdi
i maremmani giungono con l'onda.

Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.
Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come
un nembo. E la cavalleria di Lodi,

la schiera della morte. So il tuo nome,
o buon cavalleggere Mario Sola.
Giovanni Redaelli, so il tuo nome;

Agide Ghezzi, e il tuo. "Lodi" s'immola.
E veggo i vostri visi di ventenni
ardere tra l'elmetto e il sottogola

o dentro i crini se il caval s'impenni
contra il mucchio. Gandolfo, Landolina,
alla riscossa! Tuona verso Henni.

Tuona, da Gargarèsch alla salina

vi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna.

Tutti in piedi. Nessuno si ripara.
Chi cade, si rialza; e poi stramazza.
La spalla del soldato è la sua bara.

Immune su la grandine che spazza
l'Oasi atroce, splendido nell'alto
cielo un alato spia. Salute, o Piazza,

Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spalto
chinato nel pericolo dei vènti
sul nemico che ignora il nuovo assalto!

Anche la morte or ha le sue sementi.
La bisogna con una mano sola
tratti, e strappi la molla con i denti.

Poi, come il tessitor lancia la spola
o come il frombolier lancia la fromba
(gli attoniti la grande ala sorvola)

di su l'ala tu scagli la tua bomba
alla sùbita strage; e par che t'arda
il cuor vivo nel filo della romba.

Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda
tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia.
Sceglie, tira, non falla. È testa sarda.

Non si volta, non grida né motteggia.
Mira e tira. Una palla squarcia un sacco.
Una rimbalza su la canna e scheggia

la cassa. Un'altra viene a tiro stracco
e un po' lo pesta. Un'altra vien di schiàncio
e lo strina. Egli morde il suo tabacco.

È a testa nuda, testa quadra. A un gancio
pende l'elmetto. Intorno è pien di bòssoli.
Ancor nella gamella è caldo il rancio.


Anima, corpo e patria son nel fosso
come in un focolare più capace
che l'arborense. Una man sacra ha smosso

col ferro nella cenere la brace
dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle
cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.

Ei dormirà, come le prime stelle
tremino, su la stuoia stesa in terra.
Or è nella mislèa. «Pelle per pelle»

dai padri suoi che dormono sotterra
fu comandato. Or contro questi cani
sta con fegato buono a mala guerra.

Quante grandùre, quanti baracani
colcò, sotto la grandine che scroscia!
Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani

e mai sempre. Una palla nella coscia
gli spezza il taglio della baionetta
cinta al fianco, e nell'osso della coscia

il mozzicon del ferro gli s'imbietta
forte così che sola una tanaglia
o la mano del Sardo in una stretta

cruda lo possa svellere. Ei travaglia
seduto su lo zàino. Alfin lo svelle.
S'alza nel sangue, e torna alla battaglia.

Non torna al focolare? Le sorelle
cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.
Or tinto è il panno, e l'opre son più belle.

Ancor uno! Ancor uno! Non è pace
ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza.
Il sangue scorre e l'anima è tenace;

ché rugge in piedi tutta la sua razza

ora nel suo coraggio, su quell'osso
scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza.

Ancor uno! Due tre gli sono addosso,
lo prendono, gli strappano il fucile,
lo forzano, lo traggono dal fosso.

Non son que' cani, sono i suoi! Le file
de' suoi vede in ginocchio ai parapetti,
i pacchi di cartucce nel barile;

gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti;
ode il tonfo d'un corpo che si piega,
la rabbia che stridisce su gli elmetti.

E il taciturno supplica, diniega,
minaccia, si dibatte. Il sangue scorre
per la barella. Ei rugge ancóra, e prega!

Verso Messri, un eroe nomato Astorre
ha tolto all'orda lo stendardo verde;
e tutto il fronte alla riscossa accorre.

Su, compagnia dello stendardo verde,
Ottava! Su, la Settima, col prode
Orsi! L'inferno di Giammìl si perde.

Spinelli, alla riscossa! Ala dell'Ode,
non batti se non come il chiuso cuore.
Chiusa fremi, e il tuo numero non s'ode.

Come quella d'Atene, per amore
della mischia, t'allacci i tuoi calzari,
Ode, e ricalchi l'orme del valore.

Dal ciglio dei ridotti e dei ripari
sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi
gli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari.

A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi
della Corsina e quelli di Marsala.

La canzone d'Elena di Francia

Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti,
e voi, Pleiadi, lacrime divine
d'amori eterni e di dolori ignoti;

e tu, fra le sorelle oceanine,
che sola amasti un triste eroe mortale,
e ti celi il tuo vólto nel tuo crine,

o Merope d'Atlante, mia navale
Musa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,
Perla della corona boreale;

o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,
Càstore, plenitudine di spirti
che la corusca melodìa conduce;

Notte, e Galàssia effusa per crinirti,
Nube, e il dio che ti lacera, scorgete
la bianca nave uscente dalle Sirti!

Sul guerreggiato mare alta quiete
regna. Il silenzio del Risorto incombe,
come quando Simon gittò la rete.

Quasi un dolce candore di colombe
illumina la tolda della nave
che reca i morti alle materne tombe.

E su l'assi che chiudono il cadavere
e sul letto ove sanguina il ferito
arde una sola santità soave.

La figura di prua non è scolpito
legno ma un sovrumano Essere intento,
con un sorriso eguale all'Infinito.

E quegli ch'ebbe stritolato il mento
dalla mitraglia e rotta la ganascia,
e su la branda sta sanguinolento


e taciturno, e i neri grumi biascia,
anch'egli ha l'indicibile sorriso
all'orlo della benda che lo fascia,

quando un pio viso di sorella, un viso
d'oro si china verso la sua guancia,
un viso d'oro come il Fiordaliso.

Sii benedetta, o Elena di Francia,
nel mar nostro che vide San Luigi
armato della croce e della lancia

fare il passaggio coi baroni ligi
su le navi di Genova e prostrato
sotto i suoi gigli attendere i prodigi,

sii benedetta; ché ritorna il fato
d'amore all'acque istesse e in te rigiura
il santo Re di lacrime beato.

Ti sovviene dei morti di Mansura
che putivan nel limo, su le rive
del Nilo, ignudi, senza sepoltura,

mentre per tutta l'oste le malvive
genti ululavan come donne in parto
di tra il marciume delle lor gengive,

e i feriti, colcati su lo sparto
come buoi, la Cappella e il suo Tesoro
deprecavano in van pel sangue sparto

e lungi travedean dal lor martoro
splendere, dietro la criniera ardente
di fuoco greco, la celata d'oro,

la gran spada alemanna ben tagliente,
e udian sonar la prece su la zuffa:
«Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!».

Allora il Re levavasi la buffa


dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,
sfangava solo per l'orribil muffa.

Per quel carnaio givasi carponi
piangendo, a riconoscere i suoi cari
morti, i suoi fanti come i suoi baroni.

E i Vescovi, che in campo dagli altari
assolvevano l'anime, al divino
officio si turavano le nari.

Ma il Re, toltosi l'elmo e il gorzerino,
portava i corpi in su le braccia e in dosso
quand'altri li traeva per l'uncino.

E con quella pia man che avea riscosso
Carlo d'Angiò di sotto il fuoco greco
(in arme d'oro sul cavallo rosso

che ardea per la criniera, ei fatto cieco
e invitto dal suo Dio corse a traverso
l'inferno avendo un grande Angelo seco)

con quella mano l'ulcero perverso
medicava, tagliava intorno ai denti
la carne enfiata, ungeva il taglio asterso.

Pane afflitto partia con le sue genti
nelle fami. Parlava col lebbroso.
Portava invidia agli uomini piangenti.

«Bel sire Iddio, richieder non son oso
fonte di pianto. Alcuna stilla basta
all'alidore del mio cor penoso.»

Le lacrime colando per la casta
bocca, ei gustava nell'amaro sale
la dolcezza che ad ogni altra sovrasta.

Ma non tu piangi, o Amàzone regale.
Una intrepida forza t'azzurreggia

nell'una man tenea forse e di sotto
al drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligi
avea su l'ossa il càmice incorrotto.

Era lontano in Santo Dionigi
il sepolcro, guardata dalla morte
la via lunga di Trapani a Parigi.

Re Tibaldo morivasi alle porte
dell'Invitta, Isabella d'Aragona
sentiva già l'orrore della sorte

imboscata ne' monti ove risuona
giù per la costa calabra il maligno
guado che lei travolse e la corona.

E il Nasuto, il carnefice ulivigno
de' biondi Svevi, in terra di baldoria
gli usci franceschi tinti di sanguigno

non si sognava già, né la sua boria
vedeva il lunedì di Risurresso
e le galere di Rugger di Loria,

quand'ebbe offerto in pegno di possesso
eterno a Monreale il Cor beato
e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso.

Ora a Palermo per divino fato
il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio
raddotto hai tu, non in vessillo issato,

o Elena di Francia, ma in naviglio
ricrociato d'amore e di dolore
ove tu splendi come il più gran giglio.

«Così è germinato questo fiore!»
par sorrida colui che su la roccia
del sacro balzo, ove l'umano errore

si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia

suo seme ha visto tutto vòlto in giuso
fonder per gli occhi il male a goccia a goccia.

«Nuova luce percote il viso chiuso»
dice la Voce. E dice: «Qui si monta».
Ed ovunque il suo spirito è diffuso.

La sua forza gentile austera e pronta
è la tempra dell'aria. O Italia bella,
or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.

O dolce Francia, o unica sorella,
per la muta speranza che s'inclina
su le chiare acque della tua Mosella,

per la memoria pia di Valentina
che, fedele al suo lutto, patir volle
senza tregua nel cor l'acuta spina,

pei campi onde l'allodola tua folle
balza chiamando, e i pioppi della Mosa
fremono, e il sangue grida nelle zolle,

Francia, ricevi e serba la gioiosa
promessa che ti fa, d'una vendetta
più grande, questa carne sanguinosa.

Taglia per noi con la tua vecchia accetta
un ramo della quercia di Lorena,
sul colle ove Giovanna è alla vedetta,

intreccia al ramo rude la verbena
già sacra ai nostri padri, ed a noi manda.
Su le Statue velate il ciel balena.

Balena anche per noi da quella banda.
Sul Campidoglio senza Feziali
sospenderemo noi la tua ghirlanda.

E tu òccupa il ciel con le tue ali,
guerriera alata. Noi le navi forti

spingeremo nel mar dai nostri scali.

O Elena, che in fronte ai nostri morti
impressa vedi la virtù di Roma,
pel gran patto latino oggi tu porti

la verbena augurale entro la chioma.

La canzone dei Dardanelli

Taranto, sol per àncore ed ormeggi
assicurar nel ben difeso specchio,
di tanta fresca porpora rosseggi?

A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio
muro che sa Bisanzio ed Aragona,
che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio?

Non balena sul Mar Grande né tuona.
Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte
gira, e del ferro il tuo Canal rintrona.

Passan così le belle navi pronte,
per entrar nella darsena sicura,
volta la poppa al ionico orizzonte.

Sembran sazie di corsa e di presura,
mentre nel Mar di Marmara e nel Corno
d'oro imbozzate l'ansia e la paura

sognano fumi al Tènedo ogni giorno
apparsi e invocan l'altro Macometto
che scenda in acqua col cavallo storno

come quando alla Blanca un vascelletto
greco e tre saettìe di Genovesi
con lor pietre manesche e fuochi a getto,

conficcate le prue sino ai provesi,
nell'arrembaggio, presero battaglia
contra il soldano e i suoi visiri obesi


ed or sorride livido di bile
col ceffo nella sua birra sanguigna,

l'invasor che sconobbe ogni gentile
virtù, l'atroce lanzo che percosse
vecchi e donne col calcio del fucile,

il saccardo che mai non si commosse
al dolore dei vinti e lordò tutto
del fango appreso alle sue suola grosse,

l'Ussero della Morte vela a lutto
Stinchi e Teschio per la pietà fraterna
di tanto musulman fiore distrutto!

Ma uno più d'ogni altro si costerna.
Egli è l'angelicato impiccatore,
l'Angelo della forca sempiterna.

Mantova fosca, spalti di Belfiore,
fosse di Lombardia, curva Trieste,
si vide mai miracolo maggiore?

La schifiltà dell'Aquila a due teste,
che rivomisce, come l'avvoltoio,
le carni dei cadaveri indigeste!

Altro portento. Il canapo scorsoio
che si muta in cordiglio intemerato
a cingere il carnefice squarquoio

mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato
da quella mozza man piena d'anelli
che insanguinò la tasca del Croato!

Son questi i cristianissimi fratelli
del protettor d'Armenia, ond'è rifatta
pia la verginità dei Dardanelli.

La vecchia Europa avara e mentecatta
che lasciò solo il triste Costantino,

solo a cavallo nella sua disfatta

ultimo imperatore bisantino
combattere alla Porta Carsia e spento
dar la porpora e l'aquile al bottino,

dessa or soccorre del suo pio fomento
lo smisurato canchero che pute
tra Mar Ionio e Propontide nel vento.

Oh Alleanza mistica, salute!
Cantar voglio le tre sotto il posticcio
turbante auguste Podestà chercute

e d'austriaco sevo unto il molliccio
soldan che ascolta il suo martirologio
col bianco pelo irto per raccapriccio.

Alla Consulta attendono l'elogio
tutorio i pedagoghi del pupillo
demente; e spiano il tempo ch'è balogio

su la piazza ove ride lo zampillo
romano tra gli equestri Eroi gemelli
palpitando qual limpido vessillo.

Come sul fulvo mare dei camelli
sta la Sfinge, una intorta Pitonessa
senza tripode guarda i Dardanelli.

La licenza è concessa e non concessa,
se guarentita sia la libertà
al sapone di Caffa e al gran d'Odessa.

Ahi cieca ambage! Ed ei non sono già
discepoli di Mosca de' Lamberti
che disse: «Cosa fatta capo ha».

Vanno librando i pesatori esperti
la bilancia dell'orafo sì vana
con once dramme scrupoli malcerti.


Meglio rozza stadera di dogana
ove per dar tracollo il ferreo Cagni
gitti la spada di Bu-Meliana.

La nave, col desìo che il sangue bagni
le torri e il ponte per ribattezzarsi,
richiama a sé gli intrepidi compagni

che troppo a lungo per le dune sparsi
e nelle fosse tennero la guerra
dediti a superare e a superarsi

come quando l'eroe, che di sotterra
ancor gli incìta, disse oltre la morte:
«Io con mille di voi prendo la terra».

Stefano Testa, l'òmero tuo forte
è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio;
o Montella, e il tuo femore. E la sorte,
o Gaudino, t'amò quando un vermiglio
fiore ti pose presso il cor tra costa
e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio

di Bari vecchia ove una santa esposta
al popolo si chiama Serafina,
e il popol tutto innanzi a lei fa sosta;

o Carmineo, di un'umile eroina
anche tu primo nato tra il Leone
di San Marco e la Chiesa palatina;

o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone,
che in sogno ancor la piaga del tuo piede
strascichi per servire il tuo cannone;

voi tutti, ardenti della vostra fede
e della vostra febbre nella lunga
corsìa triste, con l'anima che crede

e vede or ascoltate se non giunga

Quasi pace è la guerra, quando langue».

O dolci eroi sognanti su i guanciali
penosi, udiste l'ordine di guerra?
«Le navi scorreranno gli ospedali

I marinai combatteranno a terra.»
Sognando, andiamo incontro all'Ombre sole
mentre il ponte di Taranto si serra.

La notte sembra viva d'una prole
terribile. La grande Orsa declina.
Infaticabilmente il mar si duole.

Un vento di dominio e di rapina
squassa il vasto Arcipelago schienuto.
Chi vien da Scio con la galèa latina?

Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto,
a capo del naviglio tuo di corsa,
o duca dell'Egeo Marco Sanuto.

Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa.
Dietro i pavesi sta la compagnia
pronta allo sforzo: la minaccia è corsa.

Eri una via calpesta, eri la via
dei Barbari che andavano alla guerra
in Occidente, allora, o Austria pia.

E l'onta di Giovanni Senzaterra
stava su te, la crudeltà del basso
vassallo d'Innocenzo, o Inghilterra,

quando al libero Doge dava il passo
l'Imperatore sul diviso Impero,
e la Morea dal Tènaro a Patrasso

e Salamina con il suo cimiero
di gloria non immemore d'Aiace,
e il Sunio col suo tempio roso e il nero


Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace,
le Cicladi fulgenti, tutto il lido
curvo dal Mar dalmatico al Mar trace

erano un sol dominio sotto il grido
di San Marco; e Gallipoli, Eraclea,
Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido

il Doge tutto l'Ellesponto avea;
quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali
quivi, e le darsene e le ròcche aveano

i Veneti; lanciavan dagli scali
nel Corno d'oro le galèe costrutte,
al Leone ogni dì crescendo l'ali.

Ecco, o Mediterraneo, su tutte
l'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro
col mio cuore le impronte non distrutte.

Ecco un Sagredo principe di Paro,
a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,
a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.

Presso Blacherne publica il suo bando
Ranieri Zeno, e quasi Imperatore
ha tutta Romania nel suo comando.

Il genovese Enrico Pescatore
conte di Malta usurpa il fio di Creta.
In regia potestà l'Asia Minore

ha Martin Zaccaria, batte moneta,
leva milizie e navi, si travaglia
a Focea per allume, a Chio per seta,

a traffico imperversa e a rappresaglia,
stermina Catalani e Musulmani,
tutt'armato da re muore in battaglia.

O dura schiatta dei Giustiniani,

nova sovranità della Maona
libera, dinastia di popolani

magnifici, di re senza corona,
che profuman di mastice la bianca
scìa o la segnan d'una rossa zona,

quando nell'isola Andriolo Banca
orna templi, deduce carmi, venera
Omero, èduca lauri, schiavi affranca!

Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene
da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia,
l'Ombre cantano come le sirene.

Un Querini è signore di Stampàlia,
di Nanfio un Foscolo, un Navigaioso
di Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia,

ecco il mare operoso e sanguinoso
di noi, le rive con le nostre impronte,
le mura impresse del Leon corroso.

Un Barozzi è signore a Negroponte,
un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio.
Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte.

Fendo i secoli, lacero l'oblìo,
ritrovo le correnti della gloria
nell'acqua ove portammo il nostro Dio.

Levo sul mar l'onda della memoria
e col soffio dell'anima la incalzo,
che ferva sotto il piè della Vittoria,

che schiumi e fumi sotto il piede scalzo
volante in sommo come quando accorse
precipitosa dal marmoreo balzo

a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forse
anche i tuoi fari pendono. E lo scotto

approdo all’ideologia superomistica coincide con
L'
Chiuso è il destr'occhio che nella marina
di Scio barattò egli contro vénti
navi di Kenaàn tratte a rapina.

Ma il freddo astro di tutti gli ardimenti
è l'occhio manco, specchio dei perigli.
Lazaro Mocenigo ha le sue genti?

Guardalo, Cagni, tu che gli somigli.

La canzone di Umberto Cagni

Cagni, colui che a te negli anni eguale
patì l'ignavia delle vane carte,
morso il cuore dall'aquila immortale,

e vendicò nello stridor dell'arte
la forza che sognar faceagli il fato
e il pallore del giovin Bonaparte

quando credea nel suo silenzio armato
essere il messo della nova vita
e della nova gloria il primo nato,

colui t'onora come la scolpita
imagine del sogno suo più forte,
si ch'ei disdegna l'opera fornita

e, gittando sul vólto della sorte
le sfrondate corone, or solo spera
nell'ultima bellezza della morte.

Non per la forza, o anima guerriera,
non pel fàscino invitto onde rapivi
ltre la forza l'èsile tua schiera

quando fendevan quattro cuori vivi
l'immensa ghiaccia, e più del buio trista
la notte senza tènebra era quivi;

non pel fertile ardire onde fu vista

una manata d'uomini discesa
dalle navi tenére la conquista

della terra ed accrescersi, sospesa
nel pericolo come nel bagliore
d'un nume, onnipresente alla difesa;

ma per l'amore, ma pel solo amore
onde due volte già trasumanasti,
eroe, t'invidio sopra il tuo valore.

Eroe di due deserti, dei più vasti
geli e delle più vaste sabbie, in quali
eroiche immensità l'Italia amasti!

Ogni altro umano amor sembra senz'ali
e senza lena e inglorioso e impuro,
congiunto alla viltà dei nostri mali.

Come il fiore d'un mondo nascituro
il tuo fu, schiuso all'orlo d'un'estrema
Tule che dentro te, nell'uomo oscuro,

avevi, incognita. E la man mi trema,
quasi eternassi la mia smania ignava
celebrandoti, eroe, nel mio poema.

Penso la mano tua che dolorava
cominciando a morire, il ferro atroce,
l'anima indenne su la carne schiava;

la volontà spietata e senza voce
che ti facea lo sguardo come il taglio
della piccozza; il piede più veloce

come più duro era il cammino; il maglio
invisibile che schiacciava i blocchi
enormi, con un tuono ed un barbaglio

di prodigio pel bianco Ade ove gli occhi
seguivano i silenzii oltre i fragori;

le dighe che rompevano i ginocchi

e i gomiti; le slitte tratte fuori
dalle crepe improvvise; la costretta
man dolorosa ai ruvidi lavori;

e la fame in attesa della fetta
crudigna presso il cane ancor fumante
scoiato su la neve, la galletta

muffita per panatica, all'ansante
sete il sorso dell'acqua fetida, ogni
penuria, ogni miseria; e, se il sestante

segnava il punto suo, tutti i bisogni
conversi in riso lieve e nelle stanche
ossa inserte le invitte ali dei sogni.

Ti sovviene? Su le pianure bianche
una vita recondita bruiva,
nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche

s'alzavano, crollavano; la riva
si saldava alla riva, il monte al monte.
Tutta la solitudine era viva

di ghiacci sino all'ultimo orizzonte,
fulgida sotto il sol di mezza notte.
Tra l'infinito e le tue brevi impronte

era la prova, augusta fra le lotte
dell'uomo. E tu dicevi a te: «Più oltre».
L'Oceano era un bàratro di rotte

isole. E tu dicevi a te: «Più oltre».
Sparivano i due solchi in un tumulto
raggiante informe immenso. E tu: «Più oltre!».

Ché ti parea da uno scalpello occulto
nell'eterno cristallo solitario
quell'altro nome ovunque fosse sculto:


della tua gloria parve ad altra ebrezza
rifervere nel sangue tuo gentile.

Ah, da qual sacro mare di bellezza,
da qual divino anello d'orizzonte,
da qual non vista aurora escì la brezza

vigile che soffiava su la fronte
de' tuoi, là presso i Pozzi dove forse
Roma avea coronata la sua fonte?

Nella notte d'ottobre ardevan l'Orse
alte coi sette e sette astri fatali
su i marinai, quando la luna sorse.

Tutta bella tra il golfo dei corsali
e il Deserto, levava al gran ritorno
l'Oasi le sue palme trionfali.

Simile all'invocata alba d'un giorno
mistico era il notturno effuso lume;
e l'annunzio e l'attesa erano intorno.

Parea, spirato dall'antico nume,
intra il libico monte e l'apennino
spander il ciel di Dante il suo volume.

Da qual nascosto vortice marino
la colonna rostrale era polita
perché splendesse al novo eroe latino?

Quali mai braccia avean diseppellita
da secoli di sabbia e di barbarie
Minerva, chiarità di nostra vita?

Di sotto l'oro della sua cesarie
spiava ella gli imberbi, dalla vetta
cerula delle palme solitarie?

Era forse Ebe la parola detta,
come nella battaglia di Micale

vinta col nome d'Ebe giovinetta?

Tutto era senza limite, eternale
ed imminente, nell'abisso cieco
del tempo e in sommo della vita frale.

Carme romano ed epinicio greco
passavano con tuono di tempesta,
e la canzone italica era teco.

E la canzone italica di festa
e di guerra, di vóto e di riscossa,
la sua face scotea su la tua testa.

Tu, come le midolle son nell'ossa
eri in quel pugno d'uomini. L'odore
del coraggio era nella sabbia smossa,

Ferìan la notte fasci di splendore
dalle grandi pupille delle navi
insonni; e la potenza delle prore

pareva entrar nei parapetti cavi
a rendere invincibili i tuoi pochi.
In piedi tu, come sul ponte, stavi.

Tutta l'Oasi rossa era di fuochi
scroscianti. I cani urlavano alla morte.
L'assalto era un inferno d'urli rochi.

La città senza spalti e senza porte
avea l'inespugnabile cintura:
te, giovinezza, amore della sorte!

Ti canto, aurora; e la tua mano pura
come la rosa, piena di semente.
Ti canto, eroe, per l'anima futura;

e la battaglia presso la sorgente.

La canzone di Mario Bianco

Giovine, so che vuota è la tua tomba
là nella cerchia ove le primavere
della morte una candida colomba

reca, Medea nata del Condottiere
di bronzo, quella che i suoi rosei marmi
disfoglia come rose di verziere.

Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmi
ti sorridesse come ad un fanciullo
gentile, non l'adunco irto nell'armi

Colleoni, sì ben Francesco Nullo
era, la buona lancia, il grande e fermo
alfier di Libertà, col viso brullo

ancóra delle fiamme di Palermo,
rotto dal piombo slavo il vasto petto
offerto alla Giustizia ultimo schermo.

Risorrideva nel virile aspetto
il primo sogno che per il selvaggio
Agro trasse il lanciere giovinetto

quando la giovinezza era l'ostaggio
d'ogni patto segnato col Destino
ed ogni giorno era calendimaggio?

Dov'egli cadde, cavalier latino
in terra strana, ivi restò. La spoglia
dell'eroe sola è mèta al suo cammino.

Tu fosti tolto, su la nave in doglia
alla Patria raddotto e alla soave
madre che t'attendea su la sua soglia.

Tinta in minio la prora della nave
non era, né corona avea d'oliva
né la mannella delle spiche flave;


imagini dei nostri alti custodi,
e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!

Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odi
qui fragor di battaglia né ti sazia
l'effuso dopo te sangue di prodi,

ben odi qui, sepolto nella grazia
di San Giovanni, le tue querci cave
vaticinare al vento di Dalmazia».

Ma tu rivalicato hai senza nave
il mar d'Africa. Vuota è la tua tomba
che t'infiora la madre tua soave.

Per Santa Barbara, alla prima romba
del mortaio, già vigile tu eri;
e Gian Muzzo sonava la sua tromba.

Ed eran teco i primi cannonieri
della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;
e tutti eran più bianchi e più leggeri.

E parea che la gran Vergine accesi
avesse i fuochi dell'aurora eterna
alla festa e spiegato i suoi pavesi.

Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna
la festa del mortaio e del cannone,
per Santa Barbara, in vicenda alterna.

Senza pausa correva la canzone
dall'una gola nera all'altra rossa:
rugghio d'incendii le tenea bordone.

L'odor divino della terra smossa,
fra tanta afa, lo spirto della terra
uomo e pezzo allenava nella fossa.

Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,
dèmoni della vampa e del fragore,

àlacri sinfoneti della guerra!

Tutte le batterie un solo ardore.
Tutte le volontà un nervo istesso.
La massa era contratta come un cuore;

la fila era flessibile qual nesso
di tèndini. Fin l'ombra su l'arena
tra l'uomo alzato e l'uomo genuflesso

era un legame vivo. La catena
unanime giocava agile e dura
come i nodi nell'osso della schiena.

Ove il ferro faceva una radura
i superstiti in sùbito retaggio
raccoglievan la forza moritura.

I morti si drizzavan nel coraggio
moltiplicato dei viventi. L'aria
era come un ignito beveraggio.

Roma apparìa. L'anima legionaria
col vasto afflato dilatava i petti.
Nel cielo spaziava l'ala icaria.

Oh date gli asfodeli violetti
d'Aïn-Zara, per tesser le ghirlande
della gloria primiera ai primi eletti,

ch'io li mesca ai narcissi della grande
Berenice, ai nettunii gigli nati
su l'orlo delle sabbie memorande

ove tinse gli affusti trascinati
a braccia il primo sangue virginale
in libamento della Patria ai Fati.

Guardiamarina, cippo sepolcrale
in Tobrucca ti sia l'un dei cannoni
ammutoliti, tolti nel campale


giorno di Santa Barbara ai ciglioni
d'Aïn-Zara che videro i fuggenti.
Gli altri sei diamo agli altri sei leoni

Ché dove noi poniamo i fondamenti
della potenza, là poniam de' nostri
morti l'ossa per consacrar gli eventi.

Non nelle antiche ombre, ne' lunghi chiostri
dei cimiteri, tra gli usati avelli,
dove profusa la pietà si prostri;

ma novel tumulo ad eroi novelli
diamo, oltremare, su la quarta sponda;
e ciascun nome in pietra si scarpelli;

e sien pietre angolari che profonda-
mente radichi in terra ad opra forte
il costruttore, il saldo eroe che fonda.

O Tobrucca, alte mura e ferree porte
avrai, cantieri, maestranze, scali,
darsene, e i novi ingegni della morte.

E strapperemo alla Vittoria l'ali
perché mai dall'acropoli munita
si fugga. Avrem col Mare altri sponsali.

Una maschia bellezza redimita
di sogni avremo, senza il sacerdote,
in mezzo a noi, nel mezzo della vita.

Ché l'Africa non è se non la cote
ove affilammo il ferro, per l'acquisto
supremo, contra le fortune ignote;

e riluce per noi nell'intravisto
futuro un bene che per rivelarsi
vale il martirio d'un novello Cristo.

O Giovine, se mai nel cor t'apparsi

come la verità, sopra la morte.

Ecco, vedi, obbedisco al suo comando
e tremo. Vedi, sono ebro d'amore
e di spavento. Or ei dice: «Chi mando,

o gridatore ed indovinatore
di cose sante? Chi andrà per noi?».
«Eccomi» dico «manda me, Signore.

Con qual segno?» Col segno degli eroi
Egli ha moltiplicata la mia gente,
accesa la virtù degli occhi tuoi.

Ah perché, mentre tutto è rinascente
in una primavera più gioiosa
che quella delle Esperidi, e il presente

è tessuto di porpora famosa
e di stami indicibili, e la vita
nella pietra di Pallade corrosa

riscolpisce l'imagine compita
della divinità novella, e ignoto
nume è il soffio che t'agita e t'incìta,

ah perché non rinasco dal mio loto
Principe della Gioventù traendo
i miei compagni a me duce e piloto,

meco giurati a un patto più tremendo,
e, per guidarli, d'un più alto e puro
fuoco in me stesso non mi riaccendo?

O Giovine d'Italia, il morituro
ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,
declina sopra i mari del Futuro.

Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istante
e nell'eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante


e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.

Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,
gloria nei mari, gloria su la terra!
Combatti e canta come il pio Mameli;

semina e mieti; i varchi tuoi disserra;
assoda e guarda le tue vie; con pugno
intrepido le tue fortune afferra;

e sappi come traggo il miel del bugno,
l'acqua del fonte, della piaga il dardo;
e vedi come il mio dolore espugno.

Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo
abbracciato il dominio, su la vetta
vertiginosa infisso il tuo stendardo,

offerto al Sole l'ultima saetta,
alfine avrò da te forse il selvaggio
inno che il paziente orgoglio aspetta,

l'inno alla mia vigilia e al mio coraggio.

L'ultima canzone

Ah, non dieci canzoni, dieci navi
d'acciaio martellate con l'istessa
forza d'amore, o Patria, dimandavi,

e non sillaba a sillaba commessa
ma piastra a piastra ancor calda del maglio
e in ciascuna impernata una promessa,

e già pronte su gli unti scali, al taglio

delle trinche, le dieci in armamento
com'è già pronto il tuo Contrammiraglio.

Ahimè, non ho se non il mio tormento
e il mio canto. L'oblìo breve è finito,
e nell'oscuro cuore io mi sgomento;

ché oggi sono simile al ferito
lontano che si sveglia al limitare
del gran Deserto e vede l'infinito

silenzio sul suo sangue palpitare
di stelle e in lui remoto come il cielo
il vólto delle sue cose più care

e tutta la sua vita senza velo,
quasi nel vetro della notte inscritta,
e l'anima chiarita nel suo gelo

come una gemma rigida ed invitta
che più non muta forma né s'arrende,
e la vittoria pari alla sconfitta.

Non apprese negli anni ciò che apprende
nell'attimo. S'irraggia mentre agghiada.
E la notte lo fascia di sue bende.

E nel cavo degli occhi ha la rugiada,
non le lacrime, e qualche gran d'arena
nella man che non stringe più la spada.

Tutto è tacito e puro. Non balena,
non albeggia. In un sol chiarore eguale
spazia la solitudine serena.

Scende dal cielo e dalla terra sale
la stessa luce: tal nel cielo Sirio
qual nella piaga l'anima immortale.

Mi risveglio io così, dopo il delirio
dell'improvvisa primavera, solo

per la deserta landa; e al gran viaggio
l'anima tutta era seguace, e sola
teneva l'ombra il pallido rivaggio.

O lontananza, che dalla parola
eri abolita come inane cura,
or sembri nella notte di viola

spanderti senza fine, di pianura
in pianura, di monte in monte, d'acque
in acque. Il mio dolor non ti misura.

L'ululo dell'Ocèano si tacque,
il vento cadde. Dal silenzio strano
il notturno carnefice rinacque.

Nessun m'ode. Son simile al lontano
ferito che si sveglia al limitare
del gran Deserto e vede il ciel lontano

sul suo gelo supino palpitare
di stelle e ascolta sempre più remoto
il pianto delle sue cose più care.

Non ti cantai, o mio fratello ignoto?
non chiesi il nome tuo perché nel mio
canto risuoni? Solo sei, devoto

a morte, già fasciato dall'oblìo
perenne, profondato nello stagno
del sangue; e non avrai tomba. Foss'io

per te come colui che accorre al lagno
del caduto, là dove più tremenda
è la strage, e si carica il compagno

su l'òmero a scamparlo dall'orrenda
vendetta del mutilatore e arriva
nell'altra vita all'orlo della tenda!

Sembrami, ignoto, ch'io ti sopravviva

per un castigo oscuro e ch'io, non ombra
né uomo, in vano erri per questa riva.

Il vento cadde. Nella notte ingombra
di neri crini è il soffio di Medusa.
A quando a quando il mio cavallo aombra,

sosta, soffia, ricalcitra, ricusa
come se non dai tronchi morti fosse
la valle tra le dune alte preclusa

ma da mucchio d'uccisi e l'orme rosse
nella bassura dessero bagliore.
Talvolta il passo nelle sabbie smosse

è come un tonfo sordo. Il tetro odore
che lascia la marea su le scoperte
spiagge de' naufraghi è come l'odore

della putredine. Il bacino è inerte
come l'Averno, sparso d'errabonde
fiamme che or sì or no schiarano incerte

larve dentro le barche o per le sponde,
e pare che ogni fiamma s'incolonni
nell'abisso. Ora tutto si confonde

e m'illude. Latrare i cani insonni,
presso e lontano, odo per la malvagia
landa. Ascolto. Son forse quei di Fonni?

Sono i mastini della mia Barbagia?
È la muta di guerra? A paio a paio
ardere vedo i loro occhi di bragia.

Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio:
non ha che l'ossa del viso disfatte.
Il buon Demurtas medica il carnaio.

Azzanna! Azzanna! Dove si combatte?
Muta di guerra, trovami la pesta

nel sabbione, pe' rovi e per le fratte.

Ma non latrare, ché stanotte è gesta
di silenzio, vittoria senza grida,
gloria tacita. Il cuore me l'attesta.

Razza del Monte Spada, siimi guida,
innanzi al mio cavallo che paventa.
Io cerco il fuoco o il ferro che m'uccida.

Dove si muore? Un'anima fermenta
nella notte, più libera dell'aria.
Tutto è grande. La luna s'arroventa

occidua su l'altura solitaria,
simile a falce sopra grande incude.
Tutto è sogno. La landa originaria

verso il sogno propaga le sue nude
onde, come il Deserto senza strade.
L'asfodelo letèo vi si dischiude

come lungh'essi i talami dell'Ade.
L'asfodelo si lacera ed aulisce
sotto lo schianto di colui che cade.

Or più la pesta si profonda. Strisce
di nero sangue rigano il cammino.
Tale è il silenzio, che vi si scolpisce

l'evento come in un rigor divino.
Il cielo è sgombro. Solo vi s'intaglia
l'indomito adamante del Destino.

Non rombo, non fragore di battaglia,
non urlo di dolore. Ma chi muove
per la gran notte, e la gran notte eguaglia?

È la schiera quadrata, che va dove
l'Eroe la riconduce. Ha seppellito
a Tobras i suoi morti. Ha visto nuove


nuova, e del tuo silenzio far vigore,
e far grandezza d'ogni tua ferita.

Nella mia notte, sopra il mio dolore,
questa suprema imagine si spande.
Chiudila nella forza del tuo cuore.

Non n'ebbe la tua guerra di più grande.
ma per l'aride sabbie alla cisterna
di Roma, che nell'ombra una silente
linfa conserva e una memoria eterna.

Con me, con me verso il Deserto ardente,
con me verso il Deserto senza sfingi,
che aspetta l'orma il solco e la semente;

con me, stirpe ferace che t'accingi
nova a riprofondar la traccia antica
in cui te stessa ed il tuo fato attingi,

con me là dove chi combatte abbica,
perché nella corona io ti connetta
la foglia della quercia con la spica!

Se tu mi veda oggi nell'armi eretta
sopra la prua, tu mi vedrai domani
da presso curva al suolo che t'aspetta,

quando pacata come i Decumani
acerrimi, con nude ambe le braccia,
tu rempierai di semi le tue mani.

Troppo vegliai, avverso la minaccia
del sonno e della febbre, in Ostia morta,
volta al limo del Tevere la faccia,

tra gli stipiti alzati della Porta
Marina dove a vespero s'aduna
luce fatale dalle pietre assorta,

io sola con l'anelito, se alcuna
ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare
nella foce la Nave e la Fortuna.

Ah, se tanto vegliai sul limitare
terribile, ch'io dorma un sonno lene
e breve, sotto l'Arco d'oltremare!

Ch'io sogni il greco sogno di Cirene,

e stettero tre mesi in su la guerra
per le marine della Catalogna.

O Genova, ma non l'istessa terra
presa dalle tue quindici galere
è quella ch'oggi il nostro acciaro serra;

né di preda in pecunia ed in avere
sottile, se il sangiacco dà la volta
come l'altro, sarem noi per godere;

né, quando bene glie l'avrem ritolta,
a quetare i tribuni dell'Erario
la venderemo noi un'altra volta.

Odimi, pel sepolcro solitario
del tuo Lamba colcato in San Matteo
lungi al figlio che s'ebbe altro sudario;

pel fonte del tuo picciol Battisteo
donde al mare t'escì la grande schiatta
sperta di mille vie come Odiseo,

di mille astuzie aguta, assuefatta
ai mali, contra i rischi pronta, a scotta
tesa, a voga arrancata, a spada tratta,

ìmproba e col gabbano e con la cotta,
usa il giaco fasciar di mal entragno
come di cuoia crude la barbotta,

indomita a periglio ed a guadagno,
or tutt'ala di remi al folle volo,
or piantata nel sodo col calcagno;

odimi, Mercatante, dal tuo molo,
Guerriera, dal naval tuo sepolcreto,
Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo,

per l'ombra di quel semplice Assereto
che, distolto da rògito o caparra

Odimi tu, latin sangue gentile!

Odimi; ché di te sotto il velame
io dico, e del miracolo repente
onde un spirito fai di tanto ossame.

Quale improvviso nella notte ardente
di Cesarèa l'Embrìaco la tazza
di salute rinvenne alla sua gente

e, quella pósta su la galeazza
come il palladio fu su la trireme,
ricelebrò la gloria della razza,

tal forse un genio indìgete del seme
d'Enea ritorna a noi col divin segno
dallo splendore delle sabbie estreme.

Tra le palme invisibili arde il pegno
del novo patto. Innanzi ch'Ei si sveli
giura fede al Signor del novo regno,

Italia, per gli aperti tuoi vangeli,
e per la grande imagine che invoco,
e per la gesta che t'allarga i cieli!

«Chi stenderà la mano sopra il fuoco?»
grida il Signore ai primi eroi comparsi
«Chi stenderà la mano sopra il fuoco

avrà quel fuoco per incoronarsi.»

La canzone del Sacramento

INTROIBO AD ALTARE DEI. Sul cassero
era fitto un pavese quadro in otto
battagliòle forcute, e v'era un assero

di timone per grado, e paliotto
un panno di bastita era, tovaglia
era ferzo di trevo o marabotto;


che parve avesser chiuso i re ziriti
quivi l'intiera possa del Deserto
a difendere i culmini turriti.

Sorgevano le sette torri in serto
sopra il ciglione, e la muraglia spessa
le collegava; e il fosso era coperto

dal barbacane; e sola era lungh'essa
la muraglia una porta verso terra,
ché la cerchia marina era inaccessa.

Ismisurata macchina di guerra,
la nemica città feriva il cielo
mentre il suo cor parea ruggir sotterra.

«O Cristiani, in duomo pel Vangelo
voi giuraste, toccata la scrittura,
per le Reliquie sante, per il velo

di Nostra Donna e per la sua cintura,
pei vostri fuochi e per le vostre fonti,
e per la culla e per la sepoltura!»

Miravano i Pisani Ugo Visconti
ch'era il lor fiore, e rivedeano corca
la dolce Pisa in ripa d'Arno ai ponti,

e dove la fiumana si biforca
l'orme di Piero, e alzata in pietre conce
la preda di Palermo e di Maiorca.

Misurar si sognavano a bigonce
i Genovesi e il console Gandolfo
l'oro ch'avean pesato a once a once.

Quei di Salerno il lor lunato golfo,
gli archi normanni, tutta bronzo e argento
la porta di Guïsa e di Landolfo

aveansi in cuore, e l'arte e l'ardimento

hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi
al tuo giovine eroe la coltre vana?

Non egli è su la bara che inghirlandi;
ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.
E lo chiami per nome e l'addimandi.

Verginità del primo sangue sparso!
Ne bevano le sabbie un più gran flutto;
ma pur quel primo che sembrò sì scarso

risplenderà sul giubilo e sul lutto
più vermiglio e più fervido a Colei
che sa pianger gli eroi con viso asciutto.

O Gaeta, se in Sant'Erasmo sei
a pregar pe' tuoi morti, riconosci
il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei,

toglilo alla custodia perché scrosci
come al vento di Lepanto tra i dardi
d'Ali, mentre sul molo tristi e flosci

sbarcano i prigionieri che tu guardi
e che non puoi mettere al remo. O Cagliari,
i quattrocento archibusieri sardi,

che Don Giovanni d'Austria alla battaglia
sotto il Vessillo nella sua Reale
s'ebbe per incrollabile muraglia,

hanno veduto verso il mare australe
ardere il fuoco sopra Teulada
e nella sera accorrono al segnale;

ché vien pel mare d'Africa e dirada
l'ombra con la bellezza della morte
un che fu degno della lor masnada.

Egli ha per buon compagno, o Carloforte
che il ferro e il fuoco sai del predatore

sua folgore su i fragili sostegni.

E le gole d'acciaio senza voce
passano, che laggiù nel lor linguaggio
conciso parleranno, dal veloce

affusto tratte al ciglio del villaggio,
lungo il palmeto, sopra le trincere,
davanti ai pozzi. Romba il carriaggio

su la selce. Seduto è l'artigliere
sul cofano. Conduce a coppia a coppia
i cavalli gagliardi il cavaliere.

L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia.
Repente il sole batte su la faccia
giovenile, sul pezzo, su la doppia

groppa. E l'affusto trascinato a braccia
nella sabbia ove il mare s'impantana
vedo! Chi mai cancellerà la traccia

dentro le dune della Giuliana?
Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota.
Gloria a te, batteria siciliana!

Canto il selvaggio anelito, la gota
che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,
i polsi tra le razze della rota,

le spalle che sollevano la cassa
e la portano, l'ordine del fuoco,
la mira, il primo colpo nella massa

nemica, il suolo raso, l'urlo roco
delle strozze riarse ad ogni schiera
abbattuta, l'allegro ardor del gioco;

o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera
tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata
su la Berca nel soffio della sera.


Riarde ai Quattro Vènti la battaglia
sublime? ancóra fumiga il Vascello?
ancóra il sangue bulica e s'accaglia?

ancóra ai giovinetti ebri il mantello
bianco del condottiere è l'ala intatta
della Vittoria? il Dandolo l'appello

ultimo fa su la scalea scarlatta
ove sopra i cadaveri il cavallo
del gran Masina dà l'ultima stratta?

Irto di furia è il muto piedestallo.
I bersaglieri di Lucian Manara
disperati empion d'animo il metallo.

Laggiù, guatano il ciel che si rischiara
dietro il muro di fango, nel palmeto,
i bersaglieri di Gustavo Fara.

Laggiù, sotto la cupola che sgretola,
arde l'araba lampada al bivacco
e la vedetta sta sul minareto.

Pietro Ari laggiù tra sacco e sacco
spia l'Oasi, con l'occhio a mira certa,
tranquillo masticando il suo tabacco.

I mozzi, come fossero in coverta,
stanno alla guardia della batteria
sopra il sabbione; e l'un per gioco «Allerta

a proda!» grida. E vien dalla Menscìa,
con l'afa dei cadaveri, odor d'erbe
arse nel vento, odore di gaggìa.

Poggiato al pezzo il morituro imberbe,
che morderà la sabbia, i denti bianchi
ficca nel pane e nelle frutta acerbe.

Odesi il canto dei soldati stanchi

di Mellah, su le dune e le trincere,
su le cubbe, su i fondachi, a ruina,

su i pozzi, su le vie carovaniere.
La casa di Giammìl ha una cintura
di fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere!

Vengono di Taruna e di Tagiura,
vengon di Gariàn e di Misrata;
e dal Deserto un'altra massa oscura

s'avanza già sotto la cannonata.
Or biancheggiano al vento i baracani:
s'arrossano se scoppia la granata.

Occhio alla mira ferma, o cristiani.
Solo chi sbaglia il colpo è peccatore.
Vi sovvenga! Non uomini ma cani.

Per secoli e per secoli d'orrore,
vi sovvenga! Dilaniano i feriti,
sgozzan gli inermi, corrono all'odore

dei cadaveri, i corpi seppelliti
dissotterrano, mùtilano i morti,
scempiano i morti. Straziano i feriti,

gli inermi, i prigionieri, i nostri morti!
Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento,
nelle case, nei fondachi, negli orti,

nel verde d'ogni palma, nell'argento
d'ogni olivo, allo svolto d'ogni via.
I marinai lo fiutan sottovento.

O Tripoli, città di fellonìa,
tu proverai se Roma abbia calcagna
di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.

Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna,
Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara

Su la mischia feroce, su i selvaggi

urli, sul mucchio, sul baglior ch'esala
dall'animo scagliato a tutta possa,
subitamente par che passi l'ala

di quel mantello e la camicia rossa
rilampeggi e racceso per la duna
il riverbero sia di Gibilrossa.

Croce d'argento contro mezzaluna!
Undecimo, con l'ugne riafferri
pe' capegli di dietro la fortuna.

Chi balza con lo stuolo irto di ferri
di là dalle trincere e dai destini
verso la sua bellezza? È Pietro Verri.

«Avanti, marinai, garibaldini
del mare!» Par che su lo scarno viso
l'ardente ombra del Sìrtori s'inclini.

Rotta la fronte che fu pura, ucciso
cade. Par che l'alfiere da Camogli
su le spalle si carichi l'ucciso.

«Avanti!» Non è tempo di cordogli.
Il pericolo ondeggia. Il tradimento
è dietro i muri, è dietro i tronchi spogli

che la grandine schianta; è in tutto il vento
del Deserto e dell'Oasi. La sorte
balena. Alla riscossa! Ei non son cento,

e la bandiera sventola. Ora, o Morte,
ei son cinquanta. E la bandiera sventola.
Dov'è Giacomo Medici? Ora, o Morte,

non son che dieci. E la bandiera sventola.
negli occhi, sotto il lino monacale,

se il braccio lacerato dalla scheggia
sostieni o la man tronca fasci o bagni
le labbra al sitibondo che vaneggia.

Non lacrime, non gemiti, non lagni.
Quegli che vinse fuor della trincera,
vuol col silenzio vincere i compagni.

E quegli che di vivere non spera
già fiammeggiar nel gelido lenzuolo
sente i tre ferzi della sua bandiera.

Qual novo giorno splenderà sul molo
popoloso, laggiù? La Patria è tutta
pallida, in piedi, con un vólto solo.

Pallida, in piedi, con la gota asciutta,
serra nel petto i nomi de' suoi morti.
Guarda lontano. E il mar non li ributta.

Quale mistico approdo è atteso? I porti
sono solenni come cattedrali.
Donna di Francia, or sai quel che tu porti.

Tu porti con la nave i sogni e l'ali
e le rose future e il novo canto
in quel cumulo d'anime e di mali.

L'angioino vascello non più santo
era allorché recava il grande spoglio
del Re che volse in cenere il suo manto.

Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio
venìa così pel Mar siciliano
con l'oste e col navile in gran cordoglio.

E il Re col suo soave Gian Tristano
stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto
in Fiorenza, il cordiglio francescano


e contra una ciurmaglia e soldataglia
innumerabile in dugento buoni
legni; e vinsero; e con la vettovaglia

sotto Costantinopoli, tra suoni
e cantici, a rimurchio in salvamento
li ricondusse Zaccaria Grioni.

Eran tre saettìe contra dugento
sàiche fuste e galèe! Taranto, Alfieri
d'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento

su la duna a Bengasi ove tu eri
mista al suo sangue allor che cadde eletto
dalla gloria tra i bianchi cannonieri,

ben si mostrò di quella tempra; e il petto,
come quando le navi avean di legno
il fasciame, fu ben di ferro schietto.

Ma non pur anco il giovincello Regno,
fior di modestia, escito è di tutela.
I pedagoghi suoi stanno a convegno.

Adoprano con trepida cautela
la bilancia dell'orafo in pesare
il buon consiglio; e, se il timor trapela,

appoggiandosi al muro famigliare
stranutano e tossiscono. O Senato
veneto! O prisca Libertà del Mare!

Il sobrio Talassòcrate dentato,
il pudico pastor dai cinque pasti
che si monda con l'acqua di Pilato,

immemore dei fasti e dei nefasti
suoi dì vermigli, cigola e s'indigna
a tanto scempio, e torce gli occhi casti!

E quei che verso il Reno ora digrigna

un grande annunzio, sussultando al cupo
urlo che nella notte si prolunga.

Dante de Lutti forse in un dirupo
giace coi prodi a Derna, e la vendetta
ride ne' denti suoi di giovin lupo

come quando a Tobrucca su la vetta
della ruina issava il tricolore,
più agile che mozzo alla veletta.

E la notte par piena di clamore.
E la corsìa d'occhi sbarrati e fissi
riarde, e ucciso è il sonno dall'orrore.

Taluno i suoi compagni crocifissi
rivede, là, nella moschea di Giuma,
i corpi come ciocchi aperti e scissi

con la scure, conversi in nera gruma
senza forma, sgorgando le ventraie
per gli squarci; e le bocche ove la schiuma

dell'agonia tersero l'anguinaie
recise, intruse fra le due mascelle;
e i viventi infunati alle steccaie,

alle travi dei pozzi, con la pelle
del petto per grembiul rosso, con trite
le braccia penzolanti dalle ascelle

dirotte, con le pàlpebre cucite
ad ago e spago, o fitti sino al collo
nel sabbione che fascia le ferite,

le vene stagna. Odio, che sei midollo
della vendetta e lièvito del sangue,
ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.

Talun disse: «Spargete poco sangue.
Deh non vogliate esser micidiali!

sarà pagato. Chiedi l'ora all'Orse

come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriotto
quando muti ridean nel cuor selvaggio,
acquattato ciascun nel suo brulotto,

con alla mano i raffii d'arrembaggio,
con alle coste il demone del fuoco,
messo fra i denti il fegato per gaggio.

Anche nel nostro cuore arde quel fuoco,
sorella. Vien d'Ipsara Costantino
Cànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco.

Andrea Miàuli vien sul brigantino
ch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne.
Ma chi è mai quel grande suo vicino?

Riconosco la chioma del leone
e l'affilato viso dell'audacia
e l'occhio inesorabile. O Canzone,

piègati sotto l'ala acuta e bacia
per tutti i marinai la fronte fessa
del Capitan che vien dal mar di Tracia.

Viene dai Dardanelli su la stessa
galèa cui non restò se non l'orrore
dell'annerito arsile, su la stessa

galèa che vide volgere le prore
e orzare a terra Mehemet codardo,
viene dai Dardanelli il vincitore

Lazaro Mocenigo. E lo stendardo
del calcese, che gli spezzò con l'asta
il cranio, or croscia al maestral gagliardo

su l'erto capo cinto della vasta
piaga, su la criniera leonina
che per corona nautica gli basta.


lo scandinàvo. «Non è necessario
vivere, sì scolpire oltre quel termine
il nostro nome: questo è necessario.»

E la virtù dei quattro uomini inermi
fu per un'ora il vertice del mondo.
Ti sembrò tutto fervere di germi

immortali l'Oceano infecondo.
Sommosso ti sembrò tutto il deserto
artico dal tuo palpito profondo.

Poi fu silenzio, sotto il segno certo.
Fu la cerchia terribile del gelo
alla tua gioia adamantino serto.

L'anima tua su te diffuse il cielo
d'Italia. Fosti immemore e sparente
come l'Ombra sul prato d'asfodelo.

Allora, come l'inno fa presente
l'iddio, l'amor creò l'imagin vera
della Patria. Nel gran silenzio algente

parve con l'alito una primavera
sublime ella diffondere. Il tuo santo
amore volse in luce la preghiera.

Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto
eroico rilucea più che il polare
meriggio. Sol per una, ecco il mio canto.

O messo della gesta d'oltremare,
o precursore degli eroi rinati
sul lido ove rosseggia il nostro altare,

o tu che primo fosti ai primi agguati,
l'indice tronco della man virile,
quel che impone i comandi o addita i fati,

non fu debole all'elsa. E il puro aprile

né sopra v'era teoria votiva
che il virginal tuo sangue, libamento
di guerra, offrisse alla divina riva.

Ma la mistica voce era nel vento,
ma sparso era il libame. «È questo, Italia,
è questo il tuo fermento e il tuo cemento.»

E non era solenne la paràlia
a Delo come il funebre vascello
che radduceva il Giovine d'Italia.

Ed all'approdo ognun t'era fratello
sentendo in sé l'immobile tuo cuore
ripalpitare come un cuor novello.

E dal silenzio fùnebre un dolore
nascea possente come la radice
della virtù. Quest'inno era il suo fiore.

E la morte era quasi Beatrice
che ci purificasse in una santa
onda per trarci a un regno più felice.

E tu non una giovinezza infranta
eri, ma la promessa e il pegno. Aroma
era del cuor la lacrima non pianta.

E passasti i deserti ove arde Roma
or d'altra febbre, e lungo il mar toscano
le salse macchie che il libeccio schioma.

Oh t'avessero almen per il Gargano
procelloso raddotto al bel nativo
colle scisso dal vomere frentano,

al chiaro colle onde il palladio ulivo
guarda il gregge dell'isole nomate
dal nome del guerreggiatore argivo

e i nostri monti quinci, le nevate

creato dalla pagina commossa
e del gran fuoco mio l'anima t'arsi,

odimi, qual ti vedo su la fossa
della trincera mentre ancor spirante
bevi l'odore della terra smossa,

odimi. Non morrai. Sei nell'istante
e nell'eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.

Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli
anelai. Vissi come tu combatti.
Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,

d'aspro sangue, per trasmutarli in atti.
Solo, per simulacro della guerra
posi a me, tenni a me tremendi patti.

Tutto che in sé l'insonne anima serra
perverte esalta io lo conobbi. E pure
talor fui pari a un fiume della terra!

Ma gli anni d'onta, ma le cose impure
pesavano su me. La mandra abietta
si voltolava nelle sue lordure.

A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta.
Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.
La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta».

Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,
il Signore aspettato, alto volando,

con la mia vita, ahimè, senza martirio

cruento, nella notte del mio duolo
antico e nel silenzio delle stelle
infauste, inerte su lo stranio suolo.

E nelle vene che parean novelle
m'incresce il vano sangue non versato
e la febbre che aggrava il polso imbelle.

O mie canzoni, di qual grande affiato
piene sembraste nella prima ressa
quando ogni mio pensier balzava armato!

A ciascuna di voi con indefessa
vigilia diedi vólto d'eroina,
d'aquila penne, ugne di leonessa.

Sì travagliosa era la mia fucina,
era l'angoscia dell'amor sì forte,
che più non mi dolea nel cuor la spina

né più da sera battere alle porte
udivo il mio carnefice sagace
che de' miei sonni fa torbida morte,

ma sol ruggire udivo la fornace
imperterrita, e come alla battaglia
era la fronte all'opera pugnace,

e vedevo di là dalla muraglia
la notte costellata d'occhi ardenti,
d'occhi fraterni. «Su, fuoco, travaglia!

Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti,
con la Vittoria a gara!» E le sorelle,
ancor rosse, partivano nei vènti

quando trascoloravano le stelle
sul disperato Ocèano, il selvaggio
stridendo annunciatore di procelle


stelle sorgere a lei dall'infinito.
Ha represso il singulto del morente,
ha soffocato il lagno del ferito.

Col ghiado illude la sua sete ardente.
Il mulo che portava l'acqua, porta
il carico di sangue. Le cruente

some non hanno un gemito. La scorta
è un solo ferro che respira. Il duce
non chiama, non comanda, non esorta.

Cavalca innanzi. Ha seco la sua luce.
Ha seco l'alba nei deserti bui.
Quando laggiù gridava «A me!» nel truce

attimo, la sua gente era con lui.
S'egli cavalchi al limite del mondo,
la sua gente in silenzio andrà con lui.

In sommo della duna, sul profondo
cielo, è veduto sorgere dagli occhi
riversi del soldato moribondo.

E quegli a cui si piegano i ginocchi
riprende la sua lena su per l'erta
sinché l'arso polmone non gli sbocchi.

Taciturna così per la deserta
notte s'avanza la quadrata schiera,
con i suoi segni, verso l'alba certa,

simile al vóto d'una primavera
sacra che salga verso un fato augusto
con l'Eroe primogenito in cui spera.

Così, divina Italia, sotto il giusto
tuo sole o nelle tenebre, munita
e cauta, col palladio su l'affusto,

andar ti veggo verso la tua vita

NOTE AL LIBRO DI MEROPE

La canzone d'oltremare
Sono comento al primo verso i Canti della morte e della gloria, i Canti della ricordanza e del-l'aspettazione, il Canto augurale per la nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi publicato or è dieci anni non invano.

Rumia è una corrente di Tripolitania, che passa per antichi oliveti. Lebda è la romana Leptis Magna ove nacque l'imperatore Lucio Settimio Severo; che in Egitto involò i libri sacri e fece suggellare la tomba del Macedone perché niuno dopo di lui vi discendesse. Nella terra di Benga-si, al Gioh, ove si giunge a traverso un deserto d'argilla, è la caverna che chiude la sorgente del Lete, secondo la tradizione, in vicinanza dei luoghi ove fiorirono gli orti delle Esperidi. In onore della sposa di Tolomeo Evergete, di colei che fece l'offerta della mirabile capellatura assunta tra le costellazioni, la terra s'ebbe il nome di Berenice.

In un codice già strozziano, ora magliabechiano, si trovano le Sante Parole che si dicono in galea; così cominciano:

Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
Dienai' e 'l Santo Sepolcro;

Dienai' e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra;

Dienai' - e l'Agniol san Michele;
Dienai' - e l'Agniol san Gabriello;
Dienai' - e l'Agniol san Raffaello;
Dienai' - e san Giovanni Batista e 'l Vangelista;
Dienai' - e san Piero e san Paolo;
Dienai' - e l'Appostol san Jacomo;

con quel che segue.

La canzone del sangue
Il Cìntraco era in Genova republicana un banditore del popolo; e su l'anima del popolo giurava in parlamento. Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco.

Il Catino ottagonale, creduto di smeraldo - che Guglielmo Embriaco recò a Genova dal con-quisto di Cesarea (1101) - è, secondo la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l'espugnatore genovese lo rinvenne tra le prede nella città siriaca.

Guglielmo, soprannominato Caputmallii, aveva il comando della spedizione navale partita dal porto di Genova nell'agosto del 1100. Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore eccellente di torri ossidionali e di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell'aprile del 1101, la vigilia della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa dopo avere inse-guito uno stuolo di quaranta galee d'Egitto, e come da Caifa navigassero a Giaffa accolti festo-samente dal re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all'espugna-zione di Arsuf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Cesarea trassero il navi-glio in secco, istrutti dall'Embrìaco armarono macchine murali, poggiarono alle mura le antenne, diedero la scalata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono la ricchissima preda, tor-narono in patria con la Reliquia e con la gloria.
Già quel medesimo Embrìaco, insieme con un Primo suo consanguineo, mentre Gottifrè di Buglione era all'assedio di Gerusalemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste aveva distrutte per non poter far fronte all'armata saracena d'Ascalona, indi aveva traspor-tato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di percossa e di assalto.
Nell'impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell'esercito genovese. S'ebbe Genova la i-stituzion romana dei Consoli prima d'ogni altra città (1056). Entravano essi in officio il dì di Pu-rificazione.
Dipendeva l'Embrìaco, nella detta impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la nave e di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contrae-va l'obbligo dell'obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intorno al 1100 la Com-pagna divenne un'associazione stabile e serrò l'intera cittadinanza in potentissimo cemento. Per calendimaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re d'Arborea tenuto per cittadino e vassallo del Comune.
Preziosissimo sempre tenne il Comune nel Tesoro di San Lorenzo il Sacro Catino. Ed è singo-lare, nella storia delle antiche Compere, quell'assegnazione che fu detta la Compera del Cardina-le pel recupero del Sacro Catino (Compera Cardinalis pro recuperatione sacrae Parasidis), ori-ginata da un contratto che il 16 ottobre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipulò fra il Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardi-nale in prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d'oro, contro il pegno della sacra scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune a riscat-tare la divina Reliquia assegnava al Fieschi luoghi 95 con un provento per ogni luogo e v'ag-giungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia.

L'impresa di Filippo Doria su Tripoli è narrata dall'annalista ligure Giorgio Stella, dal fiorenti-no Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita per-spicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Villani «come i Genovesi apposta-rono Tripoli, come la presero, come la venderono» è mirabile di colore e di freschezza.

Nella giornata di Curzola, Lamba Doria - ch'era per ardere sessantasei galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incendio rosseggiare il suo cielo e i suoi marmi specchianti - afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall'alto della poppa lo scagliò nell'Adriatico gridando: «Compagni, il mio figliuolo è morto ma ei vive in cielo. Non ci contristiamo d'una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il luogo della vittoria».
Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l'urna funebre in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta.

Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d'un'armatella di soccorso contro Alfonso d'Aragona, fu lo stupendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella quale, pur essendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo accorgimento che sconfisse l'ar-mata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d'A-ragona, il re di Navarra, il gran mastro di Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte di Fondi e cento tra principi o signori d'Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435).
Nella lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria - trascritta dal Federici sul testo conser-vato presso Marco Antonio Lomellino e pubblicata dal Belgrano - egli racconta: «Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirando le loro navi addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carina».

La canzone del Sacramento
L'argomento di questa canzone è tratto da un carme d'ignoto autore forse pisano, intitolato Carmen in victoria Pisanorum, che narra con un misto di storia e di leggenda l'impresa compiuta sopra il re zirita Temim, detto Timino, da una lega di Pisani, di Genovesi, di Amalfitani e d'altri marinai dello stesso mare: cioè da una vera e propria lega tirrena formata a muovere una guerra religiosa che fu il preludio delle Crociate. Conduceva i Pisani il console Uguccione Visconti, che aveva seco il figliuolo Ugo, bellissimo e arditissimo giovine - omnium pulcherrimus - il quale nella fazione perse la vita. Conducevano i Genovesi un Lamberto e un Gandolfo. Molto era il naviglio e
 
bene armato. I Cristiani espugnarono Pantelleria e mossero a Mehedia - la Màdia del poeta pisano, l'Alamandia delle Istorie, la Dilmazia della Cronaca -; ed era il dì 6 d'agosto del 1088, «lo die di Santo Sisto», il giorno in cui pareva che per fato i Pisani principiassero o termi-nassero le loro imprese. E «per forza cavonno di mani delli Saracini Affrica e Dilmazia e più terre di Barbaria» come dice il buon Ranieri Sardo.
Era la città di Timino lontana da Tunisi novantaquattro miglia a scirocco, luogo fortissimo per natura, sopra rocce inespugnabili dentro il mare congiunte alla terra da un istmo sottile, con un porto sinuoso. Un'alta muraglia, un fosso, sette torri e un mastio la difendevano. Il re - secondo narra l'Anonimo - nutriva nei serragli gran numero di leoni.
Prima dell'assalto, il Vescovo celebrò l'ufficio divino; arringò dal cassero i combattenti, e die-de l'assoluzione sacramentale.
Questo è il momento epico della canzone. Soldati e marinai, rinnovando l'usanza dei Cristiani primitivi nel tempo delle persecuzioni, si distribuirono a vicenda la sua santa Eucaristia.

Et communicant vicissim
Christi Eucharistiam.

Poi strinsero l'assedio, ebbero la città, liberarono gli schiavi cristiani, smantellarono la ròcca, fecero gran bottino, ed imposero a Temim una grossa indennità di guerra e l'esenzione delle im-poste per le genti di mare.
A chiarire l'allusione di talun verso, giova ricordare che i Pisani da soli assalirono i Saraceni d'Africa nel 1035 e presero la città di Bona. Nel 1063, nel giorno di Santo Agapito, si presenta-rono dinanzi al porto di Palermo «che era pieno di Saracini», ruppero la catena e s'impadronirono di navi cariche. «E dello tezoro che vi preseno, ordinonno di fare lo Duomo Sanctae Mariae, e lo vescovado.» Non avevano essi ancor fatta la guerra balearica, ma più volte avevan certo predato navi nelle acque di Maiorca e convertito il bottino in pietre da murare. «Avendo trovate due gale-re vicine all'isola di Maiorica e di Minorica, cariche di mercanzia, ed una nave ricchissima dei Mori di Granata, le presero e le condussero in Pisa...»
San Pietro, venendo d'Antiochia, approdò alla bocca dell'Arno e vi edificò la basilica che oggi si chiama di San Pietro a Grado, detta ad gradus arnenses dai gradi di marmo che scendevano nel mare.

In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo riedificata da Roberto Guiscardo, è una porta di bronzo lavorata a Costantinopoli e donata da Landolfo Butromile e dalla sua donna. Ora manca-no a tutte le figure di rilievo i vólti e le mani d'argento. Quivi anche è la tomba di Sigilgaita, del-la maschia sorella di Gisolfo, per cui il Guiscardo ripudiò la sua prima moglie Alberada. Più d'u-na volta Sigilgaita combatté su le navi a fianco del Normanno contro i Greci.

Gli Amalfitani presero ad introdurre le merci d'Occidente nella Siria e nell'Egitto prima d'ogni altro popolo maritimo. Ottennero dovunque firmani che loro accordavano libertà di traffico e di transito. E dovunque stabilirono fondachi, case di commercio, chiese, ospizii. Guglielmo di Tiro nella sua Historia de Rebus gestis in partibus transmarinis narra come gli Amalfitani edificasse-ro in Terrasanta la prima chiesa sotto il vocabolo di Santa Maria Latina. «E quivi era un ospizio di poveri, e in esso una cappella chiamata Santo Giovanni Elemosinario. E quivi Santo Giovanni fu patriarca d'Alessandria.» La chiesa fu costruita tra gli anni di Nostro Signore 1014 e 1023, per un firmano del soldan d'Egitto. Il qual firmano è oggi custodito nel convento dei Francescani di Gerusalemme. Il luogo era quel medesimo ove, più di due secoli innanzi, Carlomagno aveva fondato il suo ospizio, a un trar di pietra del Tempio del Santo Sepolcro.
Pantaleone Mauro è da molti ritenuto come il primo console della Colonia amalfitana in Co-stantinopoli. La cattedrale di Amalfi ebbe le sue porte di bronzo dai Mauri come Salerno dal Bu-tromile. Una iscrizione in lettere d'argento sopra una d'esse dice: «Hoc opus fieri jussit pro re-demptione animae suae Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Maurone Comite».

La canzone dei trofei
Tersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsanà, Tersanà, Tersaia. Dice la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al Capitolo lo terreno as-segnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del Camposanto d'Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello luogo». I Pisani, secondo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del mare, dove pareva a loro che consistesse ogni ripu-tazione e onore. Perciò fu proposto nel Consiglio che si edificasse un arsenale maggiore; ed es-sendosi vinto il partito, vi si dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pisani, lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con archi sessanta (come scrive Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta.
Chìnzica e Ponte sono due quartieri di Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi d'Oltrarno rimasti rinchiusi nell'ultimo cerchio della città. Il cro-nista: «Gli Anziani mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e cavalieri...».
A una parete del Camposanto, dalla parte d'occidente, sono appese le catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a soldo del Comune di Firen-ze... «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra Matteo Villani, «e quelle, carichi d'esse due carra, mandarono a Firenze...» Le quali furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l'Italia risorse nazione libera.
Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patrono dei Pisani, dipinte su le vaste pareti del Camposanto da Andrea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il Cappellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella.
Le galere pisane, condotte dall'arcivescovo Ubaldo dei Lanfranchi, tornarono dall'assedio di Tolemaide cariche della terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti.
Dell'impresa dell'arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recupero di Gerusalemme, l'anti-chissimo Annalista nominato Marangone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusalem de manibus paganorum profectus est. Quorum rector et ductor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit...».
L'Ordine dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosimo de' Medici. E il primo di febbraio del 1562 una bolla pontificia sanciva l'istituzione, concedendo amplissimi privilegi per coloro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guardia del Mediterraneo» ne fa-cessero parte. Sede dell'Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme conquistate su i Barbareschi.

In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell'altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l'altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi all'Apostolo, e l'iscrizione dice:

Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis,
De Procida, dici meruit quae gemma Salerni.

Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto Guiscardo.

Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant'Erasmo, il vessillo inviato da Pio V a Don Giovanni d'Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo della Santa Lega. Il pon-tefice inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non nell'ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gaetani, Don Giovanni dopo la vittoria passando per Gaeta de-pose il vessillo nel Vescovado in onore del suo patrono Sant'Erasmo, assolvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una custodia e divenne il più prezioso ornamento dell'altar maggiore. Anche una vecchia cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, fi-gliuol di Carlo re di Spagna, approdasse a Gaeta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e com'egli offerisse a Sant'Erasmo protettore e martire il vessillo ch'egli aveva issato a poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta della Sarde-gna.
Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di Alì, quando le galere dei due ca-pitani s'investirono. Il bassà, dal principio alla fine della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi riscaldate si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infatica-bili archibusieri cristiani avevano il vantaggio.

Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la più vicina all'Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giorna-ta del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra quei quaranta marinai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro pezzi da sbarco l'altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo cannone per l'ottantacinquesimo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli traversò l'apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Prima di piegarsi, lanciò contro il nemico nell'ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli uomini, l'ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il braccio sinistro fiaccato gli penzolava su l'anca. Nessuno osò trattenerlo né sorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo can-none, col braccio valido aggiustò la mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per ri-conoscere l'effetto del colpo, senza più colore di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di schianto.
Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della Vittorio Emanue-le, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni.
Carloforte è una città fortificata dell'isola di San Pietro, edificata in pendio su i contrafforti della Guardia dei Mori. L'isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta, dopo le feroci devasta-zioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d'un patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell'isola coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi mo-lestavano senza tregua. Il genovese Agostino Tagliafico sbarcò nell'isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l'altura la fortezza di Carloforte, che fu guardata da una piccola guarnigione.
La colonia per alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra senza sospetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e condussero in schiavitù un migliaio d'infelici; ché i più animosi erano in alto mare occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono ri-scattati. E Carloforte allora fu munita di mura, fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d'acqua.

L'Arco di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Mamertino e i Rostri, tra il Lapis Niger e l'Ombelico dell'Urbe, fu eretto all'Imperatore nell'anno 203 dopo Cristo; e commemora anche taluna delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza nazionale dovrebbe rico-prire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile, penetrò nel porto angusto, s'imbozzò a breve gittata dalla più potente difesa, innanzi alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore, destando l'ammirazione degli stessi nemici.

Gli mentirono i Fati, d'innanzi a Lissa tonante.
Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tutta
vermiglia di sangue, sul ponte ingombro di corpi
mùtili Egli stette impavido incolume solo
nel tragico ardore, non parve compirsi il prodigio
per un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerra
futura, a una strage più vasta, a una gloria più vasta?

Odi navali (1892)

La canzone della Diana
La Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Campo Verano, è nel luogo dell'an-tica Porta Tiburtina. L'arco di travertino fu costruito, come dichiarano le iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti delle acque Giulia Tepula e Mar-cia.

Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra arborense, in quello stesso circondario di Ori-stano ove nel cratere del vulcano estinto sta Santu Lussurgiu, l'ardua città posta «fra il Logudoro e l'Arborea, tra i sepolcreti giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di ba-salto e aperta soltanto a ostro-libeccio, al soffio dell'Africa», là dove Corrado Brando trovò Ru-du, homine de abbastu, e l'ebbe compagno intrepido «per seguire la vocazione d'oltremare».
Il vituperato eroe aveva «una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa». Egli diceva, nel suo sogno di morituro: «Io potrei forse divenire un costruttore di città su terre di conquista, ritrovare quell'architettura coloniale che i Romani piantarono nell'Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nòmadi, ecco sorgere di sùbito una città marziale, alzata dalle coorti dei vetera-ni!» Può essere che, per assistere alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meraviglioso. «Chi narrerà al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.»

La canzone d'Elena di Francia
Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell'Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché es-se scorgono e dirigono il loro cammino nella notte.

Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi.  Sono esse la costellazione nautica per eccel-lenza; poiché gli antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che proteg-ge questo libro, è oscura; e la favola narra ch'ella si nasconda per essersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale.

San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d'oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell'esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Pro-venza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. «Si-gnour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...» La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo noi, Dama?» risposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono.
Nell'avanzata verso Mansura, l'esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s'accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives...» Il Siniscalco narra come l'orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d'oir braire les gens parmi l'ost ausquiex l'on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d'enfant.»
I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l'esempio e li portava e li seppelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nell'officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli.
«Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.»
Mentre Roberto d'Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono del-le trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d'oro in testa, con in pugno una spada alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d'or à son chef une épée d'Allemagne en sa main.» Quando il conte d'Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scaglian-dosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa.
Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come si la-mentasse d'esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime ma sol qualche gocciola ad irrorare l'aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit dévotement: O sire Dieux, je n'ose requerre fontaine de lermes: ançois me souffisissent petites goutes à arouser la seche-rèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bou-che, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bou-che.»
Durante l'agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Trista-no, era già morto sul vascello.
Carlo d'Angiò venne allora di Sicilia «con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldato di Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l'Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i pri-mi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l'Ardito con sua moglie Isabella d'Aragona e i superstiti della tristissima im-presa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s'internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché incinta di sei mesi, spin-se arditamente il cavallo tra i sassi sdrucciolevoli («Praesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell'acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu confracta, laesus fuit uterus...» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l'anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione glorifica» presso l'altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall'acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Bertaux.

Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d'Angiò nel canto settimo del Purgatorio.

Anche al Nasuto vanno mie parole...

E, poco innanzi:

Quel che par sì membruto e che s'accorda,
cantando, con colui dal maschio naso...

E Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso...».
Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d'argento». E, a proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fiordaliso d'oro, e di sopra uno ra-strello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia».

L'allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell'Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come san-cto Lodovico andò a visitare frate Egidio e mai non s'erano veduti. Et sança parlare si cognob-bono insieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell'altra il cordiglio dei Ter-ziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi.

Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante:

Così è germinato questo fiore.

L'altro verso e l'emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini.

La canzone dei Dardanelli
Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono or-meggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli».

L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maomet-to II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosfo-ro quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il sultano diede ordine al-l'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la molti-tudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre geno-vesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mi-schia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, pa-revano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico.
Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach.
Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena.

Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occu-patori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso.

Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera co-rona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assali-va con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giusti-niani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sul-tano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio ca-po?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconob-bero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali.
I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lascia-to abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterri-ti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella San-ta Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore!

Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi.
Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Le-one veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae».

Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi conces-se che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora com-posta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Spo-radi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai.

Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli.
Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila.
Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per im-padronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345.
Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinno-vellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea.

Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vi-gnoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani.
Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo.
Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectio-nem masticis».
I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell'An-driolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis.

Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli a-veva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'auda-cissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle.
I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monu-mento del Canaris nella loro Villa Giulia.

Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di questa Canzone il poter compie-re tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli con-vien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforza-te, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fer-mate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendeva-no gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il coman-do non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto».
Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle ac-que di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare.

La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suona-vano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano».
Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.».
La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.

La canzone di Umberto Cagni
I tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita con le slitte dalla baia di Te-plitz la domenica 11 marzo 1900, rimasti con lui dopo il rinvio degli altri due gruppi, furono Giuseppe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Courmayeur, e il marinaio ligure Simone Cane-pa di Varazze.
Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta celerità sul ghiaccio dell'Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo mi-gliore cinque miglia al giorno. Il nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di con-tinuo. «La mancanza di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in queste marce e nel lavoro d'accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno nuovi ostacoli at no-stro cammino. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido! (domenica 18 marzo).»
Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del riattare le slitte, vide formarsi una vescica «all'estremità dell'indice della mano destra, già congelatasi due altre volte».
«L'indice della mano destra mi tormenta continuamente da alcuni giorni, ma non lo scopro mai per timore d'infettarlo, e poiché a nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno del ritorno (mercoledì 11 aprile).»
Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine raggiunto dallo Scandinavo. «Il ghiaccio ci-golava da tutte le parti e si incavalcava, e rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si aprivano e ove altri si richiudevano nuove dighe s'inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così minaccioso. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spinge-vamo con la voce e affannosamente aiutavamo or una slitta, or l'altra.»
«Nei brevi riposi ci guardavamo sorridendo, ma nessuno parlava; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere l'incantesimo che ci conduceva alla vittoria...»
Il dolore del dito lo tormentava sempre. Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della parte annerita. Per recidere l'ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici comuni, impiegò quasi due ore. «Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.»
Rinunziava a lavare la piaga col sublimato «per risparmiare tempo e petrolio». Come più cre-scevano gli stenti e gli impedimenti, più gli cresceva l'energia. «Mi sembra di avere una nuova grande energia fisica, conseguenza forse di quella morale potentemente eccitata dal pericolo, dalla lotta per la nostra conservazione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita: dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che l'Italia sappia che i suoi figli dalla lotta secolare, nuova per essi, escono con onore...»
Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico.

La canzone di Mario Bianco
Le due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Bartolomeo Colleoni, a quella vergi-ne Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall'arte di Giovan Antonio A-madeo, dell'architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e all'interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Silenzio i tre sonetti su Bergamo.

Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cinque Giornate la sua colonna di prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò alla dife-sa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo prigioniero del Governo au-striaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il generale Garibaldi, dando continue prove di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d'altre province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di Krzykawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso.
Così egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi:

«Il maschio
Nullo a cavallo oltre la barricata
con la sua rossa torma, ferino e umano
eroe, gran torso inserto nella vasta
groppa, centàurea possa, erto su la vampa
come in un vol di criniere...».

Paràlia era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, trasportava la teoria a Delo.

Mario Bianco nacque in terra d'Abruzzi, a Fossacesia, nell'antica regione frentana. Quivi, so-pra un'altura querciosa che domina l'Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere, così detta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio. Insigne d'ar-chitettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia religiosa e civile dell'Abruzzo chietino. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le galèe di quella Quarta Crociata che doveva rinnovare l'egemonia italica nel bacino orientale del Mediterraneo e fondare l'Impero latino.
Nell'immenso spazio di mare, che la vista abbraccia dall'altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fosse-ro trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi clamori di giubilo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse.

I marinai morti nello sbarco di Bengasi furono sei: Gianni Muzzo di Gallipoli, Alfieri d'Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Gio-vanni de Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco comandava due cannoni sbarcati a viva forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all'assalto con grande impeto. Mentre dirigeva il fuoco de' suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua pistola, fu colpito da una palla all'inguine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto; continuò ad animare i suoi marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme, cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sab-bia, con le gambe penzoloni nella fossa d'una trincera dove un colpo d'una delle nostre mitraglia-trici aveva abbattuto e ridotto in orribile carname un mucchio di venti Arabi.
La terzina che reca le parole: «Ricòrdati ed aspetta» è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti della morte e della gloria cominciando:

«O Verità cinta di quercia, canta
la tristezza del popolo latino...»

«La gloria fu» sono le prime parole del terzo sonetto, che finisce con questi versi qui citati ad onore:

«Alziamo gli Inni funebri, sul gregge
ignaro, alla Potenza che ci lascia,
alla Bellezza che da noi s'esilia.
Implacabile è il Canto, e la sua legge.
E però leva su, vinci l'ambascia,
Anima mia. QUESTA È LA TUA VIGILIA»

E così comincia l'ode piena di presagio che prelude ai Canti della ricordanza e dell'aspettazio-ne:

«Il sole declina fra i cieli e le tombe.
Ovunque l'inane caligine incombe.
UDREMO SU L'ALBA SQUILLARE LE TROMBE?
Ricòrdati e aspetta».