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Gabriele D'Annunzio
LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI































































LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI





la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, che siano commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”. Così, come si è visto, D’Annunzio disegna cicli di romanzi, che però spesso non porta a termine; con intenti del genere affronta la produzione drammatica; nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale, che esaurisca tutto il reale.
Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone (gli ultimi due volumi portano già la data editoriale del 1904: i titoli derivano dai nomi delle Pleiadi). Ma anche questa costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912, raccogliendo le Canzoni delle gesta d’oltremare, dedicate all’impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non vennero mai scritti.
Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi. L’opera presenta subito un’evidente novità formale: D’Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso risponde al carattere intrinseco del poema, che si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico (il sottotitolo è infatti Laus vitae, Lode della vita). L’intento di D’Annunzio è quello del poema totale, che dia voce alla sua ambizione “panica” a raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vita e del mondo (in greco pan significa tutto). Ne deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie e ridondanti.
Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel 1895. L’”io” protagonista si presenta come eroe “ulisside”, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime, divino, all’insegna della forza e della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge nella realtà moderna, nelle “città terribili”, le metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove, immense potenzialità vitali. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza, equivalente a quella dell’Ellade, ed i “mostri” del presente divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza internazionale, i capitani d’industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti energie, che possono essere indirizzate a fini feroci ed imperiali.
Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, D’Annunzio aveva affidato all’intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, aprendo la strada a una nuova èlite aristocratica, facendo rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo Rinascimento e cancellando così un presente infame. La contrapposizione alla realtà moderna era ancora violenta, radicale. Ora, con Maia, si ha una svolta di centottanta gradi: nel mondo moderno D’Annunzio scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, l’epica delle grandi imprese industriali e finanziarie. Ma, come dietro al vitalismo del superuomo si scorge pur sempre l’attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto.
Nel secondo libro, Elettra, l’impianto mitico, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto all’oratoria della propaganda politica diretta. La struttura ideologica del libro ricalca quella di Maia. Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappongono ad un polo negativo, un presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita da una serie delle liriche sulle Città del silenzio. Sono le antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna, che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica: quel passato su cui si dovrà modellare il futuro. Medio Evo e Rinascimento italiani sono dunque l’equivalente funzionale dell’Ellade classica in Maia. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del Risorgimento (La notte di Caprera, dedicata a Garibaldi). Cantando questo passato glorioso, D’Annunzio si propone esplicitamente, non più dietro allusioni mitiche, come vate di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi dell’Italia.
Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo, polemico e profetico, si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; al motivo dell’azione energica, un atteggiamento di evasione e contemplazione. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani alle coste tirreniche tra la Marina di Pisa e la Versilia: le liriche si ordinano quindi in un disegno organico, che segue la parabola della stagione, dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, a consentire la pienezza vitalistica: l’io del poeta si fonde col fluire della vita del Tutto (si ricordi il significato del greco pan, che era anche il nome di una divinità agreste, in cui si incarnava la potenza della natura), si identifica con le varie presenza naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e potenziandosi all’infinito in questa fusione ad attingendo ad una condizione divina. Sul piano formale, alla turgidezza enfatica di Maia e alla rimbombante retorica di Elettra succede una ricerca di sottile musicalità, che tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica, con l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini tra loro rispondenti.
Per questo Alcyone è la raccolta poetica che è stata più celebrata dalla critica, specie da quella di orientamento idealistico, legata al gusto della lirica novecentesca: è stata vista quale poesia “pura”, sgombra dal peso dell’ideologia superomistica e delle sue finalità pratiche, immune dalla retorica e dall’artificio, rispondente al nucleo più genuino dell’ispirazione del poeta, il rapporto sensuale con la natura. In realtà Alcyone si inserisce perfettamente nel disegno ideologico complessivo delle Laudi. L’esperienza panica cantata dal poeta, lungi dall’essere “pura” di ideologia, non è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo, creatura d’eccezione, è concesso di “trasumanare”, di “indiarsi” al contatto con la natura, attingendo ad una vita superiore, al di là di ogni limite umano; e il gioco straordinario delle immagini, la trasfigurazione musicale della parola sono resi possibili, nella visione dannunziana, solo da una sensibilità privilegiata, più che umana. Solo la parola magica del poeta-superuomo può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura (si veda La pioggia nel pineto), raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose. Ne manca in Alcyone la ripresa diretta di certi motivi ideologici largamente sfruttati negli altri due libri delle Laudi: l’esaltazione di una violenta vitalità “dionisiaca”, la prefigurazione di un futuro di rinata romanità imperiale, l’”ulissismo”, cioè la febbre di vivere tutte le esperienze.
Alcyone di D’Annunzio, accanto alla poesia di Giovanni Pascoli, si pone così, nei suoi risultati migliori, come capostipite della poesia italiana del Novecento, con un’analoga funzione di prefigurare soluzioni formali a venire.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO QUINTO

CANTI DELLA GUERRA LATINA

Ode pour la résurrection latine

I.

Quelle horreur et quelle mort
et quelles beautés nouvelles
sont partout éparses dans la nuit?
Quel vent prodigieux excite
toutes les flammes en travail
dans le firmament latin?
Le jour est proche! Le jour est proche!
O mes odes, filles rapides
de la fureur et du feu,
quel dieu, quel héros, quel homme
exalterons-nous au jour certain?
Je ne suis plus en terre d'exil,
je ne suis plus l'étranger à la face blême,
je ne suis plus le banni sans arme ni laurier.
Un prodige soudain me transfigure,
une vertu maternelle
me soulève et me porte.
Je suis une offrande d'amour,
je suis un cri vers l'aurore,
je suis un clairon de rescousse
aux lèvres de la race élue.

II.

Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle,
je suis ivre d'amour et d'épouvante.
Il vient, Il vient le Seigneur invoqué.
Il enflamme la nuit; et l'on n'entend pas,
dans le vertige du sang,
le battement de sa force.

Or, Il dit: «Qui donc enverrai-je,
ô annonciateur de choses saintes?
Qui donc ira pour nous?».
Je dis: «Me voici. Envoyez-moi, Seigneur.
Avec quel signe? pour quel pacte?».
Je connais le signe, je sais le pacte.
J'obéis à son commandement
et j'accomplis le vœu de mon âme.
Je n'ai plus de chair ni d'os
autour de mon âme haletante
pour franchir les fleuves et les monts.
Déjà sur la borne milliaire,
à la clarté des Pléiades,
je lis le nom ineffable.
Et j'entends les chevaux des Dioscures hennir.

III.

J'entends sur l'antique basalte,
dans la mine d'Ostie,
résonner le pas de Celle qui seule
rompt l'incertitude du combat.
Vient elle du bois de Laurente?
Va-t-elle vers la route des Tombeaux?
Elle marche le long des môles noyés,
elle passe entre les deux pierres droites
qui désignent la Porte Marine.
N'écoute-t-elle pas si la Nef
chargée de la fortune de Rome
fend de nouveau la vase
du fleuve blond? Les lauriers,
autour de ses tempes, se hérissent
et brillent comme les fers des javelots;
car elle sait de quelle herbe,
bien plus âpre que la verveine,
faudra-t-il couronner la proue aiguë,
et de quel sang, bien plus noir
que l'égorgement de la génisse sans tache,

faudra-t-il teindre la poupe carrée.

IV.

O Victoire, sauvage comme la cavale
qui paît l'asphodèle dans le désert romain,
jeune comme Rome alors que la sombre aurore
fut traversée par le vol des douze vautours,
toi que je vis sur l'aridité sublime
bondir du roc d'Ardée
et dans le bond resplendir toute au soleil
blanche comme la poitrine du héron,
ô Désirable, si jamais seul et anxieux
j'interrogeai tes vestiges
loin du peuple vêtu d'ignominie et de paix;
si jamais à tes autels j'apportai mon offrande
tandis que sur tes palmes,
comme sur une litière pourrie,
l'astuce et la peur, vaches baveuses,
ruminaient le mensonge;
si jamais en ton nom je reprochai son opprobre
à la Reine des Royaumes
corrompue et polluée par les mains des vieillards;
si jamals je fus ivre de ton regard changeant,
ô Vierge, accompagne mon message, affermis ma voix!

V.

Car, ô Mâle, tel le fécial criait
les noms des villes sœurs et jurées
en brandissant le javelot vermeil,
tel à grande voix je crie,
par-dessus les sépulcres,
où les os de nos morts s'émeuvent
comme les racines au printemps,
je crie et j'invoque les deux noms divins,
les plus hauts de la terre,
jusqu'à ce que le ciel entier s'enflamme

VII.

Vae victis! Les quatre vents du monde
soufflent la bataille,
sur la mer où les phares s'éteignent,
sur le continent qui s'éclaire
au fond des villes embrasées.
Vae victis! La force barbare nous appelle
au combat sans merci.
Comme la horde traînait
dans ses chariots couverts de peaux fraiches
les concubines innombrables
pour les rassasier de carnage
et les enivrer d'hydromel,
ainsi elle amène toutes les hontes
derrière ses hommes comptés en bétail à deux pieds,
pour qu'ils couchent avec toutes dans leur sang épais
qui est le rouge frère de la boue,
tandis que le vautour à deux têtes,
le maître puant au double cou dénudé,
pousse son cri lugubre et rejette
la charogne mal digérée.
Vae victis! Souviens-toi de Mantoue.

VIII.

N'oublie pas les potences chargées de tes martyrs,
et cette corde inusable
dont le Pendeur décrépit
ceignit ses reins, pieux
cordelier du Gibet.
N'oublie pas les mains lourdes de bagues
que l'Autrichien fuyard coupait en hâte
aux poignets de tes femmes hurlantes.
Qu'elles giflent l'Oint du Spielberg,
chaque nuit, dans ses rêves mornes,
sur l'oreiller taché,
jusqu'à l'heure du trépas!

Qu'elles se dressent contre sa prière,
chaque matin, dans la maison de Dieu,
quand il fléchit ses vieux genoux, qui craquent
comme le bois des fourches,
pour recevoir l'hostie pure
sur sa langue empâtée!
Souviens-toi. Je veux peser ma haine
dans ta balance. Je veux brûler ton cœur, sans trêve,
avec des mots pour brandons.

IX.

Je te le dis, je ne te donnerai pas de trêve
jusqu'à tant que mon souffle
soit chaud entre mes dents.
Mon dieu m'a fait un front plus dur que leurs fronts.
Les strophes vengeresses, forgées pour l'infamie
comme pour le fer qu'on chauffe au rouge
pour flétrir la joue et l'épaule
du traître et du larron
tu les laissas mutiler, en silence,
par la main vile du châtreur;
et je bus en silence mes larmes,
qui armèrent mon âme secrète
d'une amertume immortelle.
Or, je te jure, par tes sources et tes fleuves,
par tes trois mers et tes cinq rivages,
par tes enfants non conçus encore,
par tes ancêtres non encore vengés,
je te jure que tu sculpteras
avec l'acier froid chaque syllabe
dans la pierre de Pola romaine
sur l'Adriatique reconquise au Lion.

X.

Ton jour est proche! Voici ton jour doré!
Ta sœur se tient debout dans le soleil.

Elle a vêtu sa robe guerrière de pourpre.
Elle a mis de doubles ailes à ses pieds nus.
Lavée dans ses pleurs ardents,
lavée dans son sang amer,
fleur sublime de la discorde,
elle ne fut jamais si belle,
aux jours mêmes de ses royautés.
De toutes ses plaies qui gouttent
elle fait une rosée merveilleuse;
avec la multitude de ses maux
elle rallume l'étoile de son matin!
Sa volonté de vaincre, dans ses yeux clairs
luit comme la hache à deux tranchants.
Elle est prête à chanter, comme l'alouette,
sur tous les sommets de la mort.
Rassise, de ses mains infatigables,
elle tissera la toile du monde nouveau.
Qui est contre elle, sinon le barbare?
Et qui sera près d'elle, sinon toi?

XI.

Nous sommes les nobles, nous sommes les élus;
et nous écraserons la horde hideuse.
Nous combattrons, la face à la lumière.
Nous sourirons quand il faudra mourir.
Car, pour les Latins, c'est l'heure sainte
de la moisson et du combat. O femmes,
prenez les faucilles et moissonnez!
Apprêtez le pain nouveau
à la faim nouvelle! Vos hommes
frapperont fort, serrés comme les épis,
dans la bataille, rang contre rang,
comme les blés drus sous le vent d'est.
O Victoire, moissonneuse farouche,
je sens sur mon front, dans l'attente,
la fraicheur du matin.
Comme le prêtre de Mars aux enfants de Lanuve,

Sur quel bûcher, sous quel signe, pour quel réveil,
à quel Avent ta foi chantait dans le supplice?
Plus haut que l'alouette à l'aube du solstice,
on vit soudain ton cœur bondir vers le soleil.

Car toute entière en toi lève la bonne race.
Là-bas, d'entre les neuf preux, sourit à ta grace
mâle, par les barreaux de l'armet, Duguesclin.

Tu as communié, dans ta sainte vêture,
sous l'espèce du sol. Mais, couronné de lin,
ton front semble souffrir d'une étoile future.

III.

France, France la douce, entre les héroïnes
bénie, amour du monde, ardente sous la croix
comme aux murs d'Antioche, alors que Godefroi
sentait sous son camail la couronne d'épines,

debout avec ton Dieu comme au pont de Bouvines,
dans ta gloire à genoux comme au champ de Rocroi,
neuve immortellement comme l'herbe qui croit
aux bords de tes tombeaux, aux creux de tes ruines,

fraiche comme le jet de ton blanc peuplier,
que demain tu sauras en guirlandes plier
pour les chants non chantés de ta jeune pléiade,

ressuscitée en Christ, qui fait de ton linceul
gonfanon de lumière et cotte de croisade,
«France, France, sans toi le monde serait seul!».

IV.

Et voici le printemps de notre amour. Exulte
dans ton sang et jubile au bout de ta douleur,
quand même tu n'aurais à cueillir d'autre fleur
que le héros jailli de la racine occulte.


«Sonnerai l'olifant», dit l'Ancêtre. O tumulte
de tes chênes! O vent de l'immense clameur!
Hauts sont tes puys, tes vaux profonds. On meurt, on meurt,
et chacun de tes morts dans ta beauté se sculpte.

Entendez le signal, combattants, combattants,
âmes prises aux corps corame aux ceps le printemps,
comme aux poignets les fers, les bannières aux hampes.

Roland le comte sonne; et tout en est fumant,
et en saigne sa bouche, en éclatent ses tempes
«Frappez, Français, frappez! C'est mon commandement!».

5 mai 1915.

Tre salmi per i nostri morti

I.

1.        Or il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a rompere.

2.        Ma più non vedevamo i nostri segni, né v'era con noi profeta, né con noi alcuno che sapesse fino a quando.

3.        E s'udiva romore di moltitudine sopra l'alpe, simile ad ànsito di schiere che s'accalcano,

4.        il gran fumo dell'incorrotto sangue salendo dalle vette e dalle valli su pe' cieli e su pe' secoli.

5.        E, come allor che il sole balza fuori dai monti nella sua possa, una voce sonò senza carne, che diceva:

6.        «Finché non sieno beati i tuoi morti, o Roma; finché non sien per te bea-ti e santi coloro che avran parte nella prima resurrezione».

7.        E, come svola il brandello del panno dal corpo dell'ucciso avvolto nella vampa dello scoppio, fuggì la mia pochezza nell'ardore.

8.        E respirai il respiro dei nostri morti, oltre la vita e oltre l'orizzonte, ma-schia speranza alata;

9.        ché la mia speranza era nell'ombra delle mie ali d'uomo, a sommo dello spazio combattuto;

10.        e non la piota né il sasso era quivi, da pontarvi il calcagno, da stramaz-zarvi giù rovescio o prono,

11.        non luogo di periglio misurato dalla statura, non fosso cupo, né abbattu-ta d'alberi, né sacco, né palanca, né fascina,

12.        non l'acre cecità della battaglia in deserto sconvolto o su vulcano frago-roso;

13.        ma tutto il firmamento m'era, come all'aquila, regno e rapina, visione e verità, ricordanza e promessa.

14.        E, non più soma greve d'orgoglio ma rapida virtù senza peso, io vedeva nella battaglia immensa il figliuolo e la madre, la terra e la creatura,

15.        come una sola volontà, come una sola bellezza, come una sola potenza, come un dolore solo, come una gloria sola.

16.        E rinascere udii nell'aereo cuore la parola antica e santa: «Cercate la mia faccia».

17.        Io cercai la tua faccia, o Patria. Con occhi mortali, con occhi immortali, con le pupille della mia fronte breve e con lo sguardo dell'infinito gene-re, io cercai la tua faccia, o Patria.

18.        E dal ghiacciaio insino alla laguna, dalla rocca dell'alpe insino alla landa petrosa, dal pascolo ch'è presso il fiume insino alla barena su la bocca del fiume, dalla città che ingemma il monte insino alla città che addenta il
             mare,

19.        m'apparì la tua specie, mi splendette la tua forma, mi ricorse il tuo nu-mero.

20.        E nel mio petto, più fragile che la cèntina di pioppo entro il lino della mia ala levigato, si precipitò un turbine d'amore senza schiantarlo.

21.        «Il tuo testimonio è nei vertici, o Patria, il tuo testimonio è nei luoghi sovrani; il tuo testimonio è nelle pianure, il tuo testimonio è nell'umiltà.

22.        Tu signoreggerai da un mare all'altro. I campi distrutti tu li seminerai di seme eterno. Le città disfatte tu le riedificherai col granito dell'alpe libe-rata.

23.        Tu spezzi le mascelle del nemico e gli fai gittar la preda di tra i denti. Tu rompi a una a una tutte le sue chiusure, e tu metti in ruina le sue for-tezze.

24.        Condotte come mandre, spartite come branchi sono le sue schiere. Le tue son come sacrificii di giustizia, son come olocausti di purità, son come offerte da ardere interamente.

25.        Una corona brilla sopra esse, come sopra la chioma delle vergini. Il sor-riso precede la  prodezza, e riappare dopo l'agonia. La morte è chiara come una vittoria.

26.        O Patria, i tuoi primogeniti han segnato il tuo patto, e i tuoi ultimi nati hanno appreso il verbo che tu hai comandato. Non nascondere mai più da loro il vólto tuo.»

27.        «Cercate la mia faccia vivente» comandò nel turbine il tuo verbo. «Cer-cate la mia faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito.»

28.        E i geli e le acque, e le rupi e i macigni, e le sabbie e le erbe, e le selve e le mura, e tutte le cose terrestri, sotto il vento della rapidità, si trasmuta-vano.

29.        E io vidi la tua faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito. Vi-di te fatta carne, fatta come la carne dei tuoi figli;

30.        ché intrisa t'avea da capo col sudore e col sangue la Guerra, rimenata ti avea come pasta di frumento, ricresciuta come farina lievitata.

31.        Tal donna rude sopra l'asse calca il novo pane con le pugna e co' ginoc-chi a farlo più tegnente, tutta di vene enfiata come nell'ira; e dietro a lei rugge la fiamma chiusa.

32.        Rimescolata area la tua sostanza con la sostanza de' tuoi figli la Guerra; ricacciati i tuoi figli nella tua profondità. Ecco, e i tuoi morti erano i tuoi nati!

33.        Ecco, e la faccia de' tuoi morti era come la tua faccia vivente, o Patria! E quanto più si combatteva, tanto eri più bella. E quanto più si moriva, tanto eri più dritta.

34.        Si combatteva anche dal cielo, sopra i luoghi eccelsi delle nuvole. Le tue stelle combattevano dai lor cerchi, o Italia? Non gli angeli versavano su la terra e sul mare le coppe ferree dell'ira di Dio, ma gli uomini arma-ti d'ali
             senza penne.

35.        O rombo dell'alta rapina! I fratelli di giù levavano le ciglia divampate dal fuoco e l'anima ansietata d'altezza.

36.        Ma presi erano nella terra, tenuti erano dalla terra, profondati in essa, intrisi con essa, carname con zolle, ossame con selci.

37.        E morivano. E come i corpi loro formavano il tuo corpo, così gli spiriti loro facevano il tuo fiato, o Patria, il tuo fiato possente.

38.        E gli uomini alati, sospesi nel mezzo del cielo come in sommo d'un'a-nima immensa, sentirono l'ala di ferzi e di verghe vivere come se l'agi-tasse con l'òmero divino la datrice di quercia, la datrice di lauro.

39.        E tu dicevi: «Or chi mi condurrà nella città fedele? chi mi menerà insino al mio bel colle di San Giusto? chi mi guiderà, lungo le colonne e lungo i secoli, a cogliere la palma che m'aspetta?».

40.        I morti, Italia, i tuoi morti.

41.        E tu dicevi: «Or chi mi reca le dolci mie città della marina come Eufra-sio il martire con le mani velate offre il suo tempio di Parenzo a Dio?».

42.        I morti, Italia, i tuoi morti.

43.        E tu dicevi: «Con chi passerò io per la Porta Gèmina e sotto l'Arco dei Sergi e tra le sei colonne di Cesare Augusto, nella mia sacra Pola? con chi m'affaccerò sul mare, per gli ordini del bianco Anfiteatro, a noverar le
             navi imprigionate?».

44.        Con Roma, o Italia, con Roma e con i tuoi morti.

45.        E tu dicevi: «Io trionferò. Io romperò il nemico nella mia terra e io lo calcherò sopra i miei monti. Io spartirò le Giudicarie, misurerò la valle dell'Isonzo, riscolpirò le rosse Dolomiti.

46.        Mia nell'alpe è la città che Dante cuopre; mia sul golfo quella dove ap-proda, sceso dall'alpe, il giovinetto sanguinoso, vittima integra e novo pegno certo.

47.        Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse.

48.        Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Marina sta la mia fede, ed in Santa Anastasia arde il mio vóto. Grida, o Porta! Ruggi, o città, coi tuoi Leoni! A te darò la stella mattutina.

49.        A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le mie navi. Rendimi la gloria».

50.        E allora udita fu dall'alto una voce senza carne, che diceva: «Beati i morti». Fu intesa una voce annunziare: «Beati quelli che per te morran-no».

II.

1.        In qual pianura, in qual chiostra di rocce, lungo quale fiumana, tra quali torrenti, sopra quale carnaio senza croci, in vista di qual città fumante, sarà oggi celebrato il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo?

2.        L'obice romba sul Monte Nero, il mortaio tuona sul Pedimonte. Tutto il Carso è fragore di ruina. Nella valle del Fella si combatte, ed in Plava selvosa; si combatte al traghetto di Canale, e nella conca di Plezzo dalle quattro
             gole.

3.        Sono scrollate le guardie di Tolmino. Gradisca croscia, gialla di foglie e d'ira; rugghia l'Isonzo alle chiuse di Sagrado; e Monfalcone dall'artiglio veneto, co' suoi scafi di ferro su le travi nere, arde in vista di Duino
             fol-gorato, rogo navale.

4.        O Vescovo castrense, i tuoi fanti hanno parato il legno dell'altare con le coperte brune ove giacquero a notte entro la fossa, ove all'alba taluno sanguinò. Qualche grumo è forse tra le pieghe. Ma la tovaglia è candida,
             come la cima della Dolomite nel cielo eterno.

5.        E v'è silenzio come in quell'altezza, silenzio inviolabile.

6.        O Vescovo di Dio, primate della strage, oggi la tua preghiera ha per gu-glie le baionette in asta, per istromenti le batterie coperte, che s'intonano in coro come il saltero e il flauto, come il cembalo e la ceteca nell'alle-luia.

7.        Inginocchiate sono le tue milizie, sotto l'irta selva dei ferri chine le teste floride, chine le facce imberbi. Irta ed aguzza è la preghiera, e senza canto.

8.        L'Operaia terribile trascorre dal primo all'ultimo e dall'ultimo al primo. Segna gli eletti. Metà ne prende. Tutti anche li prende. La lanugine bril-la su le gote come su i pioppi l'oro dell'autunno.

9.        Bello è taluno, come un iddio del Fòro. E dice il sacerdote: «Dal pro-fondo io ti chiamai». Dice l'antiste: «Giacciono nella polvere, addor-mentati sono nella polvere; perciocché il riposo di tutti egualmente sia nella polvere».

10.        Chiamali, o Patria. Dove sono i tuoi morti? Sollevali dal profondo, a uno a uno, ciascuno pel suo nome, e i sepolti e gli insepolti, e quelli che non han più viso, e quelli che son caldi tuttavia, quelli che cadono men-tre tu
             respiri, proni o riversi.

11.        Dove sono? Nei valichi dello Stelvio, nella gola del Braulio, tra le nere vette simili ai pinnacoli dei duomi, o alla soglia dei ghiacciai raggianti. Chiama, e numera.

12.        Nel Tonale giacciono, sotto la punta d'Ercavallo grigia, nella malga o sul picco, là dove tagliarono la roccia come il boscaiuolo pone il conio e la scure nella rovere.

13.        Dormono tra le nevi dell'Adamello e gli ulivi del Garda melodiosi, a Storo, ad Ampola, a Condino, ossa d'eroi su ceneri d'eroi, soavemente. Chiama, e numera.

14.        Chiamali da Vai Daone, chiamali dal Ponale, e dalle rive del tuo Chiese cerulo dove si bagnarono ridendo, a modo di pastori, nel caldo giugno, quando le rupi rosee stillavano e i colli erano cinti d'allegrezza.

15.        Chiama quelli che stanno su l'Altissimo, nella prim'alba della guerra preso come i leoni abbrancano la preda, con un sol balzo; e la rugiada fu la prima notte ne' loro pugni, quando gli astri danzavano lungo gli orli del
             giorno e le radici del monte giubilavano.

16.        Chiama quelli che caddero in Vallarsa scorgendo di lontano biancheg-giare la dolce Rovereto tra i due scheggioni che parean vermigli del lor sangue fuggente;

17.        e quelli tumulati sul Salubio, al limite del bosco, nel prato eguale ove fiorisce il colchico violetto come l'asfodelo, tra le baite esanimi;

18.        e quelli fitti sotto l'Armentera travagliato di bolge qual monte di casti-ghi, o stronchi sotto le rocche dei Titani, schiantati sotto le Pale rosseg-gianti, sotto i mastii di Lavaredo opachi, ai piedi delle Tofane crudeli, nelle
             ambagi di ghiaccio e di macigno,

19.        essi gli assalitori senza grido, con le funi e coi ganci, coi raffii e coi ramponi, coi lor calzari taciti di corda, coi lor pugni più duri che mano-pole di piastra, coi lor cuori d'invitto diamante che brilla per gli squarci dei costati.

20.        Chiama e numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cu-pe l'inno di giovinezza come fascio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve, quelli udranno e verran-no.

21.        Chiama. Quelli che rimasero su la via di Vercoglia, in notte cauta, cal-zati d'astuzia, accanto ai loro carri cui aveano ben unto i mozzi e fascia-to i cerchi d'umida paglia accanto ai fidi cavalli dagli zoccoli avvolti di lana,
             quelli udranno e verranno.

22.        Chiama. Quelli che caddero in co dei ponti, su l'Isonzo selvaggio, che a mezzo lasciarono i ponti di fortuna costrutti nel buio col coraggio e col legno, che si persero fra le assi fendute, fra le barche sfasciate, fra le travi
             divelte, si voltolarono a valle, s'enfiarono d'acqua notturna, s'impi-gliaron ne' vinchi o s'arrenarono presso alle foci, quelli udranno e ver-ranno.

23.        Verranno dalle balze della Val Dogna, dalla Forcella del Cianalot, dal Quaternà ripido e foggio, da tutta l'alpe indomata, gli assodatori di vie, eredi dell'arte di Roma, che per cemento diedero un sangue romano, che con le
             vene cementaron le selci.

24.        Chiama, e numera. I frombolieri orgolesi dalle fionde di canape attorta scagliarono il fuoco e caddero, col rombo sul capo, col dito nel cappio, più belli del figlio d'Isai. Si leveranno al tuo grido, come nell'albe del
             Supramonte, girando la corda.

25.        E il cacciator di camosci, piombato giù dal dirupo ch'egli solo calcò, ro-tolato col masso nel botro, si leverà di sotto alla mora.

26.        E quelli che schiantò l'ala nembosa della Vittoria crosciando su la vetta di Plava, grideranno verso te ancor ebri d'assalto.

27.        E colui che portò su le spalle il cadavere conteso e le prede e i trofei per entrar col fratello nel buio, tornerà col fratello alla battaglia.

28.        Chiama, e numera. Lungo i recinti di Globna, lungo le trincere di Zago-ra, contro gli spineti di ferro, entro i ferrei forteti squarciati, al passo di Voraia, su la cresta di Vrata, sotto il Rombon tenebroso giacciono, in Saga
             dormono, in Oslavia sognano i tuoi morti;

29.        e taluno ha la nuvola per sua coltre e la caligine per sue fasce; e taluno è covato dalla nuvola corusca, qual semidio che si rigeneri o si trasfiguri;

30.        ed altri, che il nimbo irrespirabile avvolse, sta con la maschera in vólto, qual nell'occulto sepolcro il re larvato.

31.        O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle, all'ombra dei cipressi pensierosi.

32.        Custodisci nell'erba i morti primi, una verginità di sangue sacro, e quasi un rifiorire di martirio che rinnovella in te la melodia.

33.        La Madre chiama; e in te comincia il canto. Nel profondo di te comincia il canto. L'inno comincia degli imperituri quando il divino calice s'inal-za. Trema a tutti i viventi il cuore in petto. Il sacrificio arde fra l'alpe e il mare.

34.        Dice l'antiste: «L'acque se ne vanno via dal mare, e i fiumi si seccano e si asciugano. Così, quando l'uom giace in terra, ei non risorge. Finché non vi sien più cieli, i morti non si risveglieranno, e non si desteran dal
             sonno loro».

35.        Risponde il canto: «O Patria, ecco, noi siamo in piè, se tu di noi ti ricor-di. Se tu ci chiami ancóra, eccoci alzati. Siamo le tue ossa e la tua carne. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo».

36.        Dice l'antiste: «Come un monte cade e scoscende, come una rupe è di-velta dal suo luogo, e l'acque rodono le pietre, così tu fai perire la spe-ranza dell'uomo».

37.        L'inno risponde: «Noi la tua speranza l'abbiamo saziata di midolla e di sangue. Ella è tremenda come belva immane. Ponila innanzi a noi, che ci conduca dove tu vai; e ricombatteremo».

38.        Dice l'antiste: «O Dio, mia Rocca, perché mi hai tu dimenticato? Or io me ne vo vestito a bruno, per l'oppression del nemico, mentre mi è detto tutta notte: "Dove è il tuo Dio?"».

39.        Conclamano gli eroi: «Signore Iddio delle vendette, o Iddio delle ven-dette, appari in gloria!

40.        Quelli che stanotte hanno recato a noi buone novelle, sono stati una grande schiera e lieta. Sopra costoro e sopra noi non ha potestà la se-conda morte. O Patria, eccoci alzati. Conta il nostro numero nel tuo nu-mero; e
             ricombatteremo».

III.

1.        Io non ti mentovai, monte dell'ira, nominato dal nome dell'Arcangelo folgorante; non gridai verso te, monte di quattro gioghi, monte di quat-tro teschi, calvario della nostra passione.

2.        Ma sì ti tacqui sopra gli altri luoghi, sopra gli altri carnai della salvezza, perché più mi cocessi nel mio petto, perché più mi grondassi e mi cro-sciassi nel mio profondo.

3.        Quando la Patria segni nel suo numero invincibile il numero dei morti e il suo soffio moltiplichi con l'ansia degli insepolti, quale tra le schiere più disperate varrà mai quest'una che ancor si scaglia?

4.        Quando nel giorno di giustizia, contro le nazioni immonde, i liberatori s'aduneranno a giudicare l'opra d'ognuno innanzi di partire e terra e ma-re, quali ossa avranno un tanto peso? qual misura di sangue sarà più colma?

5.        Quando sopra il tumulto e sopra il crollo, sopra i regni dirotti e sopra le stirpi sradicate, sopra i naufragi e sopra i salvamenti, apparirà di sùbito la Musa ineffabile, chi le parrà più bello?

6.        «Ecco, dunque, le armi son cadute dai pugni esangui. Dinanzi alla bel-lezza riaccesa, ora conviene rassegnare i morti. Guarda questi, contem-plali in silenzio, alta eroina.

7.        Non altrimenti nella greca selva giacevano i giovinetti uccisi dalla fiera o dal dardo, prima di trasmutarsi in fiore o in astro. Si compiace pur sempre l'artefice divino in questa creta. Guarda, o Novella.»

8.        Io ti guardai, chinato sopra te, o figlio mio supino nella petraia fumigan-te, mentre tutti i gironi del monte atroce urlavano a furore. E l'immorta-lità ebbe il tuo vólto.

9.        E la battaglia ebbe la tua bellezza. E il furore degli uomini ebbe da un dio un culmine silente. E la polla del sangue che colava calda dal tuo costato era bevuta dal duro scoglio.

10.        O monte della sete, rocca di siccità, quanto bevevi! O Carso dalle boc-che insaziabili, o squallido sepolcro sitibondo, un rosso fiume ai tuoi fiumi di sotterra aggiungi, se notte e dì t'abbeveri di strage?

11.        Non si mescolano i due sangui avversi; ma ristagna l'impuro nelle schegge e pei botri, s'accaglia, e solo il puro corre profondamente ri-fiammeggiando pei meandri cavi.

12.        Lo sanno i prodi: versano il sangue a gara. Lo sanno i prodi, e vuotano le vene. L'anima invitta spreme la ferita e smunge il cuore. L'ultima goccia è quella che più splende.

13.        Nel bel Timavo dalle sette fonti scese a lavare il suo cavallo bianco un de' gèmini eroi; né l'acqua oblia. Ma quest'emulo suo sanguigno è tutto gloria che ferve, gloria impetuosa.

14.        È una piena di gloria senza foce. È una piena di gloria che ti cerca per isboccare in te, mare dei figli, nel tuo silenzio, gorgo del futuro.

15.        Allora i morti avranno un nuovo cantico, e il deserto sarà santificato.

             2 novembre 1915.
Ode alla nazione Serba

I.

Qual è questo grido iterato
che lacera il grembo dei monti?
Qual è questo anelito grande
che scrolla le selve selvagge,
affanna la lena dei freddi
fiumi, gonfia l'ansia dei fonti?
O Serbia di Stefano sire,
o regno di Lazaro santo,
cruore dei nove figliuoli
di Giugo, di Mìliza pianto,
lo sai: hanno ricrocifisso
il Cristo dell'imperatore
Dusciano ad ogni albero ignudo
delle tue selve, ad ogni sasso
ignudo dell'alpe tua fosca,
gli han franto i piedi e i ginocchi
a colpi di calcio, trafitto
con la baionetta il costato,
rempiuto non d'acida posca
la sacra bocca ma di bile
rappresa e di sangue accagliato.

II.

Il boia d'Asburgo, l'antico
uccisor d'infermi e d'inermi,
il mutilator di fanciulli
e di femmine, l'impudico
vecchiardo cui pascono i vermi
già entro le nari e già cola
dal ciglio e dal mento la marcia
anima in cispa ed in bava,
il traballante fuggiasco
che s'ebbe nel dosso il tuo ferro

a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
e l'acqua ingozzò della Drina
fangosa cercando il suo guado
e forte spingò nella Sava,
mentre l'ardir dell'aiduco
Vèlico rideva nell'aspro
vento come contro al visire
in Negòtino e le tue squille
squillavano a Cristo e il tuo monte
di Bànovo Berdo tonava
sopra la tua bianca Belgrado;

III.

O Serbia, lo squallido boia
per far di vergogna vendetta
e per boccheggiare nel sangue
prima che la lingua s'annodi,
per comunicare nel sangue
prima che la lingua s'annodi,
per anco leccar salso sangue
prima dell'eterno digiuno,
per compiere senza rimorso
la lunga sua vita terrena,
imperator di pie frodi
e re di fedele catena,
con alfine un'ultima stretta
di laccio, con una suprema
strangolazione, al soccorso
chiama i manigoldi bracati
contro te, cinquanta contr'uno
che in gola ti caccino il cappio
corsoio. «O Serbia di Marco,
dove son dunque i tuoi pennati
busdòvani? Non t'ode alcuno?»



IV.

Sì, gente di Marco, fa cuore!
Fa cuore di ferro, fa cuore
d'acciaro alla sorte! Spezzata
in due tu sei; sei tagliata
pel mezzo, partita in due tronchi
cruenti, come l'aiduco
Vèlico su la sua torre
percossa. Di lui ti sovviene?
Rotto fu pel mezzo del ventre,
e cadde. Il grande torace
dall'anguinaia diviso
cadde, palpitò nella pozza
fumante. Giacquero le cosce
erculee del cavaliere
a tanaglia; giacquero in terra,
si votarono. E nel fragore
della gorga grido si ruppe:
«Tieni duro!». Fiele dal fesso
fegato grondò. «Tieni duro,
Serbo!» Dalle viscere calde
tal rugghio scoppiò: «Tieni duro!».

V.

Tal rugghio la Vila raccolse.
Tutte le tue Vile di monte,
tutte le tue Vile di ripa
raccolsero il ferreo comando;
e tu 'l riudisti pur ieri.
L'ode la terra tegnente:
non verdeggerà per tre anni.
L'ode su la nuvola il cielo:
non stillerà per tre anni
rugiada. Che monta, o guerrieri?
Il capo del Santo di Serbia,
il teschio di Lazaro splende

insino alla staffa e allo sprone.
Diguazza il fante nel sangue
insino all'inguine e all'anca;
v'affoga, se v'entra carpone.
Le donne rivoltano i morti
pel bulicame, né sanno
figlio ravvisare o germano.
Son tutti un rossore, una piaga
tutti, come al campo del conte
i maschi di Giugo Bogdano.
Più corpi enfii che scerpate
radiche porta il Danubio
né sa a qual riva deporre;
rigurgita il Vàrdari ai groppi;
la Sava è una vena svenata
che gorgoglia giù per le forre;
è schiuma del Tìmaco a sera
canizie che galla; e la Drina
veloce è un carnaio che corre.

VIII.

Su, Giorgio di Pietro, bovaro
di Tòpola, su, guardiano
di porci, riscuotiti e chiama!
Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;
Ianco il savio e Vasso il furente.
Prenditi con teco gli aiduchi
che danzano sopra le vette
degli aceri. Vèlico, or ecco,
all'anguinaia il torace
rappicca come prima era,
e dentrovi il fegato ardente.
Su, su, porcaro di Dio!
Il turbo di Mìsara, or ecco,
pei gioghi della Sumàdia
raggira l'antica vittoria,
sparpaglia la nova semente.

Altre mandrie tu caccerai
dinanzi a te, altri branchi
più irti, altro bestiame
più tetro, altro sagginato
coiame, altra sordida gente.

IX.

Sovvienti? Diceano i padri
un tempo, sedendo a convito:
"Ve' porco di Bulgaro nero
che tutt'oggi dietro ci tenne
pel tozzo e 'l bicchiere di vino
e per un lacchezzo d'agnello!".
Non per tozzo il Bulgaro nero
e né per gocciol di vino
e né per minuzzo di carne,
ma per tutto prendere alfine,
per tutto a te prendere alfine,
per tutto a te togliere alfine,
la terra il nome il soffio il bianco
degli occhi lo stampo dell'uomo,
per questo il Bulgaro nero
dietro ti venne, alle spalle
ti dà, alle reni t'agghiada.
Tre n'hai, e col Bulgaro nero:
fanno tre viltà una forza.
Ma guarditi il fegato secco
Dio, o macellatore di porci.

X.

Pigliaron Semendria la regia,
pigliarono, ed anche la bianca
città, Belgrado la regia,
in una geenna di fiamme:
dal Lìparo al Vràciaro grande,
fornace fu ogni collina.

Pigliarono Lùciza, ed anche
Sclèvene pigliarono, e l'una
e l'altra colmaron di mosto,
di lúgubre mosto, due tina.
Iplana rempieron di vegli
senz'occhi, di femmine senza
mammelle, di monchi fanciulli
carponi a leccar la farina.
E di Sòpota la meschina
ei fecero lor beccheria
trinciandovi la battezzata
carne (o Battista!), e l'altare
lor tavola fu sanguinente:
strapparono al prete la lingua
con sópravi l'ostia vivente.

XI.

Ma ben di Verciòrova scorse
il Rùmio dagli occhi di druda,
dal viso di cera dipinto,
gallare nel freddo Danubio
i Lurchi enfii, rivoltolarsi
a mille pel grigio Danubio
fra Rame Dubràviza i morti,
fra Sip e Tèchia gli uccisi
sotto la montagna di Tèchia
crosciante qual torcia di ragia,
a grappoli i corpi dei Lurchi.
Non Lipa è villata che mangi:
è mucchio che pute. Non colle
che frutti è Trivùnovo: è mucchio
che vèrmina. Vrànovo è mensa
di corbi e Vuiàn d'avvoltoi.
O razza di Cràlievic Marco,
l'usura tu fai con la strage!
Sotto Orsova, dove il mal fiume
s'insacca, ora Bulgari e Lurchi

mano perché servo non fosse,
il Tìmaco tingi in eterno,
in eternità dell'infamia,
dalla sorgente alla foce
e insino alla melma profonda,
per le tue donne calcate
dallo stupro contro la sponda,
pei pargoli tuoi palleggiati
e scagliati come da fionda,
per chi teda fu, per chi arso
fu fiaccola furibonda.

XIV.

Tronco s'ebbe Lazaro il capo
nel piano di Còssovo, e perso
fu il regno, fu spenta la gloria.
Da Scòplia il Bulgaro nero
al piano di Còssovo sfanga
fiutando l'ontosa vittoria.
Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio
di Vèlico che si rappicca
e possa rifà. Tieni duro!
Se pane non hai, odio mangia;
se vino non hai, odio bevi;
se odio sol hai, va sicuro.
Non erbe coglie nel monte
la Vila, non radiche pesta,
per le piaghe a te medicare.
Non a ferita combatti,
a morte sì, per l'altare
combatti e pel focolare.
Se caschi in ginocchio, ti levi;
se piombi riverso, e ti levi;
se prono, e ti levi a lottare.»


XV.

Così parla al sangue la Vila
dal crine del monte, la Vila
così stride e chiama a battaglia.
O Serbia, fa cuore! T'è l'odio
osso del dosso, armamento
t'è l'odio e t'è vittuaglia.
A Còciana ancor si combatte
e si combatte a Piròte;
a Tètovo è lungo macello,
e a Babuna tra le due vette.
A Ràzana i tuoi cavalieri,
al passo d'Isvòre i tuoi fanti,
a Glava le donne tue scarne
con le coltella e le accette.
Le madri combattono in frotta
col pargolo al seno e lo schioppo
alla gota, o dritte su i carri
tirati dai bufali torvi
le gravide, o in sella con due
pistole come la grande
Ljùbiza, ghiottume di corvi.

XVI.

Qual è questo riso che scoppia
come manrovescio potente?
È il riso di Vèlico aiduco
dalla dentatura d'alano.
Che vede egli? un Bulgaro nero
perdere i suoi trenta dinari?
un Lurco basire, calando
le brache e levando la mano?
il pennacchin tirolese
del boia longevo che crocchia
e affoga nel flusso senile?
o il tronfio Amuratte alemanno,

soldano d'eunuchi cinghiati,
trar la scimitarra scurrile?
Che vede di turpe e di vile
lo schernitore, che vede?
Ve' ve' bagascion di corona,
ve' bardassa in Cesare vòlto,
di unguenti asiatici liscio
che piglia da Cesare Giulio
il letto di re Nicomede!

XVII.

Tastalo con le tue dure
mani, questo sacco di dolo
e di adipe, o Vèlico, questo
sacco di lardo e di fardo.
Cesare dei Bulgari neri,
come Simeone, è costui,
come Caloiàn di Preslavia,
è questo Coburgo bastardo?
Tu che metter suoli la lama
tra i denti, aiduco, se vuoi
aver la pistola nel pugno,
tu tagliami questo codardo
con la squarcina del fiso,
tagliuzzalo come lombata,
condiscilo poi con zibetto,
con cinnamo e con spicanardo.
Lo manderai così concio
alle meretrici di Scòplia.
E che il tuo scherno s'appigli,
che il tuo riso crepiti e scrosci
ai tuoi come un fuoco gagliardo!

XVIII.

O Serbia, che avesti regina
di grazia Anna Dandolo e desti

a che musi verso la steppa,
bilenco tra rischio e mercede?
E tu, vil Grecastro inlurchito
che palpi le sucide dramme,
non odi il cannone di Dede?

XX.

O falso Dace, che vanti
la gloria del nome latino
e non pur sei degno del nome
barbarico ch'era tremendo
né mondo pur sei della lebbra
d'Asia che tuttora ti squamma,
or quando entrerai nella lite?
Quando la Colonna traiana,
di pietra fattasi fiamma,
t'andrà camminando dinanzi
come la Colonna divina
in Etam dinanzi ai figliuoli
d'Israele verso il deserto
lenito e per l'acque spartite?
Ma tu, o Greculo, merca.
Da tempo son morti i tuoi clefti.
Si leva di giù Bucovalla
e sputa su te dal carnaio.
Venditi. Non già ti compriamo,
non per una sucida dramma.
Ma ti pagheremo d'acciaio.

XXI.

È tempo, è tempo. La notte
precipita. Sta sopra tutti
la legge di ferro e di fuoco;
e questo è il supremo cimento.
Prudenza è vergogna, disfatta
il dubbio, delitto il riposo,
viltà ogni vana parola,

e l'indugio è già perdimento.
Popolo d'Italia, sii schiera
appuntata a guisa di conio,
schiera di tre canti romana,
che cozza scinde e s'incugna.
Popolo d'Italia, sii chiusa
falange, con fronte ristretta,
fasciata d'ardore, scagliata
come un sol vivo alla pugna.
Popolo d'Italia, sii come
la forza dell'aquila regia
che batte con l'ala, col rostro
dilania, ghermisce con l'ugna.

E v'è uno Iddio: l'Iddio nostro.

16 novembre 1915.

Preghiere dell'Avvento

I.
PER I MORTI DEL MARE

Mare di Dio, che sceveri le sorti
dei combattenti nella sacra guerra,
io ti prego: non rendere i tuoi morti,
Mare, alla terra;

non rendere i cadaveri che il sale
macera, né l'ossame che tra flutto
e flutto imbianca, al lido, o Sepolcrale,
e al nostro lutto;

ma sì, nel gorgo acerbo come il pianto
fùnebre, tieni le profonde some
perché noi più t'amiamo e a noi più santo
duri il tuo nome;

ma sì tieni le spoglie nell'intorto

abisso pari al nostro amor rapace,
perché non sia rifugio in te né porto
in te né pace

in te né tregua né salute a noi
alcuna se la servitù non cessi
e in te Roma non chiami i glauchi eroi
al Resurressi.

Miseri eroi, non caddero sul ponte
della nave, gioiosi di battaglia,
in un sangue perenne come fonte
che non s'accaglia;

non udirono, sotto la bufera
del fuoco, nel rossore che non stagna,
stridere contro l'asta la bandiera
quasi grifagna,

non lassù, dalla ferrea rembata
che folgora, la scorsero con gli arsi
cigli come Vittoria catenata
lassù squassarsi;

né s'accosciaron presso i tubi, quando
nel capo chiuso dentro la sonora
cuffia d'un tratto rombano comando
e morte, a prora;

né, travaglio dell'orrido beccaio
che pesta e insacca, furon carne trita
da rempiere la gola del mortaio
ammutolita;

né, dato in brocca il fulmine coperto
contro il nemico enorme, solitaria
vider l'elice folle in cima all'erto
scafo nell'aria

e irsuta l'onda, delle mille braccia

approdo all’ideologia superomistica coincide con
L'
non in coperta ma lungh'esso il bordo
dileguante con l'ultimo cannone
nel succhio sordo,

diritti come se facesser ala
ad ammiraglio in nave pavesata,
diritti come sotto la gran gala
schiera ordinata,

gittano al cielo un grido così forte
che ferisce le cime dell'ardore,
e sforzano a sorridere la Morte
che mai non muore.

O Vittoria, alta vergine severa,
or quando vinci se non vinci in questa
fine? Dove più sfolgori, o guerriera?
in quale gesta?

E qual madre, qual dolce madre o suora,
che tu le renda le profonde salme
osa pregarti, o Mare dell'aurora,
giunte le palme?

Chi lungo i lidi tuoi, Mare dei prodi,
erra con entro il cor l'esangue vólto,
sperando che nel cor l'ombra gli approdi
dell'insepolto?

Mare di Dio, le vittime che celi
tu non rendi, né odi le querele
dei sùpplici; ma duri ai tuoi fedeli
tomba fedele,

ma conservi le spoglie nell'intorto
abisso pari al nostro amor rapace,
perché non sia rifugio in te né porto
in te né pace

in te né tregua né salute a noi

alcuna se la servitù non cessi
e in te Roma non chiami i glauchi eroi
al Resurressi.

11 decembre 1915.

II.
PER LA GLORIA

Dio d'Italia, cui Dante il duro viso
incotto dalla vampa dell'Inferno
tende e, non vinto dal fulgore eterno,
guata con occhi di rapina fiso;

Dio d'Italia, che gli uomini di parte
cementarono vivo in pietre conce,
il sangue cittadin con le bigonce
mischiando nella calce a far lor arte;

Dio d'Italia, bellezza che il titano
Michelangelo in cupola ed in volta
girò, tagliò nel sasso, amò raccolta
nell'ossatura del dolore umano;

Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.

Dicean eglino: «Dove sono i vostri
morti? Quante migliaia di migliaia
falciò ne' vostri solchi l'operaia
assidua? Dove l'ugne e dove i rostri?

Dove i combattimenti disperati
a corpo a corpo, lama contro lama?
Chi vi devasta i campi? chi v'affama?
chi vi rempie le vie di mutilati?

Avete appreso a vivere sotterra,

fitti nel fango sino alla cintura?
Dentro il fetore della sepoltura
avete appreso a prolungar la guerra?

Avete appreso a mordere la mota?
avete appreso a mordere la neve?
e quando non si mangia né si beve?
quando il calcio s'incrosta nella gota?

e quando non si veglia né si dorme?
quando mastichi il sangue del compagno
e non sai, o t'impigli nell'entragno
caldo, o ti volti su qualcosa informe?

Avete appreso a riconoscer l'ombre
della follia, che genera il fragore,
quando si cala, giù per le gran more
dei morti occhiuti, alle trincere sgombre?

Avete appreso, posti in una croce
di fuoco, a mascherarvi come i mimi?
a brancolar, nelle agonie sublimi,
ciechi d'un pianto stupido ed atroce?

Avete appreso che la guerra è bassa
bisogna, frode lùgubre, immondizia
dolosa? e ch'è sigillo di giustizia
lo stival lordo quando schiaccia e passa?

Dove sono le donne con nel seno
due rosse piaghe, Amàzoni dell'onta?
dove i validi figli con l'impronta
di poltronìa, col pollice di meno?

Quante delle città vostre ridenti
son arse e diroccate? quanti altari
disfatti? quanti senza focolari
popoli in lacrime e in stridor di denti?

Contiamo. Avete appreso ben quest'arte?

Come l'eroe delle speranze inulto,
parea patire un avvoltoio occulto
che le rodesse il fegato immortale.

Basso intorno al suo cruccio solitario
era il susurro d'un mercato immondo.
Non vedea, non udia, nel suo profondo
travaglio, ella. Guatava l'avversario.

E diceano i suoi blandi parasiti,
diceano i delicati proci: «O fiore
della terra, o benigna Italia, amore
degli uomini, ubertà degli iddii miti,

o nostra grazia, o nostro eterno aroma,
o nomata qual miele nella bocca,
o più dolce dell'aria che ti tocca,
o più bella del nome che ti noma,

qual è mai questo cupo fuoco ond'ardi
negli occhi tuoi d'aquila giovinetta?
Ti proteggan gli iddii, o prediletta
degli iddii tutti! L'Iddio tuo ti guardi!

Cesare è cenere, e smarrito è il dado.
Or sei tu osa ritentar le sorti?
Né dietro a te fremono le coorti
come al grifagno sul fatale guado.

Duro nemico: in vento di Croazia
è polvere di guasto, afa d'incendio.
Ogni bellezza ei tiene in vilipendio.
Mal ti difenderebbe la tua grazia.

O nostra grazia, o balsamo giocondo
per ogni cura, unguento dell'esiglio,
tra tutte le contrade quale il giglio
è tra le spine, voluttà del mondo,

o di noi vecchi bruna Sunamita,

tu sei pur sempre tutta quanta bella,
Italia! Ogni tua pietra t'ingioiella,
ogni tua gleba è un ùbero di vita.

Ti spiamo di sopra alle rovine,
o di noi vecchi bianca Bersabea.
Chi s'ardirà con l'ispida trincea
turbar l'azzurro delle tue colline?

Sèrbati a noi, sèrbati a noi perfetta
pe' lunghi ozii che a noi farà la pace
candida. Non ti giova il dado audace
trarre. Ma dormi su' tuoi lauri e aspetta».

Ella balzò con fremito selvaggio
squassando la corona e la criniera,
ebra di forza, ebra di primavera,
ebra di morte, ebra di te, o Maggio.

O maschio Maggio, turbine solare,
inno vasto di giubilo, o torrenti
di giovinezza, o sùbiti torrenti
di sangue, verso l'Alpe e verso il mare!

Diceva il Patto: «Dove sono i tuoi
morti?». Dal Chiese gelido all'Isonzo
precipitoso, nel romano bronzo
ella eternava il gaudio degli eroi.

Eccoli, Dio d'Italia, i nostri morti.
Li raccogliamo su le grandi cime,
dove l'anima e l'aere sublime
sono la solitudine dei forti.

Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.

Di poi verranno i savii partitori

e distribuitori della terra;
sicché ciascuno, giusta la sua guerra,
godrà la parte e succerà gli onori.

Ma tu fa, Dio d'Italia, che al tuo cenno
gittiam nelle bilance lor cortesi
un ferro ancor temibile, che pesi
più della spada barbara di Brenno.

12 decembre 1915.

III.
PER IL RE

Salva il Re che, dimesso l'ermellino
e la porpora, come il fantaccino
renduto in panni bigi,
sfanga nel fosso o va calzato d'uosa
cercando nella cruda alpe nevosa,
Dio vero, i tuoi prodigi.

Salva il Re che partisce il pane scuro
col combattente e non isdegna il duro
macigno alla sua sosta
né pe' suoi brevi sonni strame o paglia
sospesi ai rossi orli della battaglia
che sotterra è nascosta.

Proteggi il Re del sollecito amore,
che in casta forza il tremante dolore
cangia con l'occhio fermo,
il Re che in fronte ha la ruvida ruga
e pur sì dolce esser può quando asciuga
la tempia dell'infermo.

Proteggi il Re della semplice vita
chinato verso ogni bella ferita
che è rosa del suo regno,
chinato verso il sorriso dei morti,

o nell'aspra Cemàgora o nel Carso
brollo? A quest'una la pregante inclina
l'ombra del tuo pallore.

Prega per due Re prodi, e figlia e sposa.
Veglia e s'affanna per due mute piaghe.
Non su l'un fianco né su l'altro posa.
Elena, Nostra Donna di due Spade!
Ella è per noi due volte gloriosa.
Tu guardala, Signore.

19 decembre 1915.

V.
PEL GENERALISSIMO

Questi, che vedi curvo su le carte,
nel più duro granito del Verbano
tagliato e scarpellato fu, di mano
di maestro; e il vigor soverchiò l'arte.

La sua chiusa virtù, che par novella,
nella tenacia dell'antica schiatta
usa a fare e patire, assuefatta
ad attendere in fede la sua stella,

si foggiò per i secoli, celato
diamante che incudine non doma.
V'incise il segno mistico di Roma,
Dio d'Italia, l'acume del tuo fato.

Guarda il suo maschio vólto dove l'orma
del tempo e il solco dello studio scava
nella tristezza della carne ignava
e trova l'osso che non si difforma.

Conta le sue fatiche a ruga a ruga,
novera gli anni suoi, segno per segno:
giovine il teschio vige, quasi ordegno

di quella volontà che il cor gli fruga.

Non meno adunco vomere mordea
la fronte di quel giusto che l'obbrobrio
cinse; ma v'era incancellato il sobrio
eroe di Maratona e di Platea.

Guarda la sua mascella che tien fermo,
guarda severità della sua bocca
onde il comando ed il castigo scocca,
e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo

gravata sopra il chiaro occhio che scaglia
l'anima al segno e il tratto non misura.
Sempre in tutt'arme egli è senza armatura.
Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.

Quel condottiere che dal piedestallo
la morta riva domina in Vinegia
minacciata dal barbaro e dispregia
la minaccia del ciel, solo, a cavallo,

Bartolomeo grifagno come Dante
che converso abbia in elmo il suo cappuccio
a gote, chiuso in piastra il suo corruccio,
preso a trattar cavalleggiere e fante,

tu lo vedi al segnale delle trombe
sollevare e sferrare i battaglioni
come balestra lancia i suoi bolzoni,
come mortaio lancia le sue bombe.

Tal questi, senz'arcione ma più grande,
senza gesto né grido, solo armato
del suo tacito genio e del suo fato,
amplia la forza che quel bronzo spande.

Egli ha mura da prendere, fiumane
da valicare e gioghi e vette e gole,
ghiacciai deserti, valli senza sole,

fosche petraie, squallide biancane.

Vigila ai ponti dell'Isonzo; a Plezzo
tuona; a Tolmino folgora; tien Plava
e la vetta, Voraia e il passo; scava
la trincea nella neve ed issa il pezzo.

Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda
sangue inesausto nel suo petto. Tutta
la terra combattuta, arsa e distrutta,
dentro gli sorge, dentro gli sprofonda.

La malga e il picco, il botro e la laguna,
la roccia e il muro, l'argine e la fossa
vivono in lui come le vene e l'ossa,
come i disegni della sua fortuna.

Egli è la terra ed è l'assalitore.
E la forza degli uomini respira
in lui, palpita in lui, freme e s'adira,
giubila e canta in lui, combatte e muore.

Verso tutte le cime della gloria
egli la incalza. Ecco, subitamente
il suo pensiero si fa carne ardente,
grido e strage si fa, morte e vittoria.

Tutte le notti dallo Stelvio al Carso
la gran barra di fuoco arde e risuona.
Egli la sua certezza ne incorona,
la sua certezza in te, Dio ricomparso.

O Dio d'Italia, tieni la tua mano
su questa fronte che facesti dura
più delle fronti loro. Egli ti giura
che tanto sangue non t'è dato invano.

Egli si prostra come il donatore
che giugnea le manopole di maglia
in atto pio, nel cuor della battaglia

Fasciato di tristezza era tra i vivi
e i morti, solo; e il ferro e il sangue e il loto
erano innanzi a lui doni votivi.

E non piangea, ma intento era ed immoto.
Laude gli era il rimbombo senza fine
per il silenzio delle nevi ignoto;

cantico gli era il croscio delle mine
occulto; gli era aròmato il fetore
ventato su dalle carneficine.

E sanguinava in fasce; ed il rossore
si dilatava come immenso raggio,
sicché tutti i ghiacciai parvero aurore,

tutte le nevi parvero il messaggio
dei dì prossimi, l'ombra fu promessa
di luce, il buio fu di luce ostaggio.

Ed intendemmo la parola stessa
del suo profeta: «Un grido è stato udito
in Rama, un mugolìo di leonessa,

un lamento, un rammarico infinito:
Rachele piange i suoi figliuoli, e guata
l'ultimo suo non anche seppellito.

Non è voluta esser racconsolata
de' suoi figliuoli che non sono più.
Una cosa novella, ecco, è creata.

Il Signore ha creata una virtù
nella carne. Quel ch'apre la matrice
Ei farà santo. Ei semina quaggiù

una semenza d'uomini». Ora dice
una voce: «Io farò rigermogliare
in carne i tuoi germogli, o genitrice.

Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare,

ritieni la tua gola dal lamento;
perché come la rena del tuo mare

t'accrescerò, come la rena al vento
ti spanderò. Eccoti i tuoi figliuoli
moltiplicati dal combattimento.

Senza sudarii tu, senza lenzuoli,
li seppellisci ed io li dissotterro.
Rifioriranno ai tuoi novelli soli,

alla nova stagione ch'io disserro».
E quivi il Figliuol d'uomo era, il Rinato;
e quivi erano il loto e il sangue e il ferro.

E con fasce da piaghe era fasciato;
e sanguinava senza croce, come
per il colpo di lancia nel costato.

Ma «Colui ch'è il più forte» era il suo nome.

1 gennaio 1916.


Per i combattenti

I.

Signor di sangue, Dio dei combattenti,
non a te supplichiamo con la faccia
alzata, non leviamo noi le braccia
verso te, non gli altari tuoi cruenti

serviamo con le man protese o giunte
né ti cerchiamo noi con la preghiera
nostra nei luoghi altissimi, di sfera
in sfera, tra le tue falangi assunte;

ma ci prostriamo con la fronte bassa,
ma contro il suolo noi poniam la fronte

nuda, poniamo il viso nelle impronte
umili, il fiato dove il piede passa,

c'inginocchiamo, o Dio della battaglia.
dove la Patria è nostra, nella mota,
nell'erba, nella strada che la ruota
solca, nel campo che l'aratro taglia,

dove la zolla è come nostra polpa,
dove il fiore è un pensiero di mill'anni
intimo e fresco in noi come gli affanni
segreti dell'infanzia senza colpa,

dove la foglia è un cuore che si frange,
dove il sasso è la vertebra scolpita
d'una potenza che in un'altra vita
fu nostra, dove tutto parla e piange,

dove tutto per noi ricorda e spera,
dove a noi l'acqua è lacrime e rugiade,
dov'è l'autunno tutto quel che cade
di noi tristi, dov'è la primavera

tutto quel che di noi si rinnovella
e gemma e fa di noi virgulto e ramo;
quivi, Signore Iddio, c'inginocchiamo
quivi chiniam la fronte, ch'è più bella;

perché, Nostro Signore, non nei cieli
sei ma sotterra sei, ma sei profondo
nel nero suolo, occulto sei nel mondo
di giù, Dio che col fuoco ti riveli;

e non hai cura delle tue felici
selve, non nutri il seme, non concedi
al germe il fimo fendere, ma i piedi
dei combattenti sono le radici

della tua primavera annunziata
dall'Arcangelo, i piedi dolorosi

Erano i primigeniti del sole,
erano le primizie, eran le offerte
virginee, le vittime più certe,
Signor di sangue, la più maschia prole.

Erano l'ostie ai sacrifici tuoi
su gli altari terribili dei monti,
grandeggiando da tutti gli orizzonti
la madre delle messi e degli eroi;

ché, ubertà di Dio, lungo le strade
degli eserciti già spigava il grano
alto e vedeasi contra il flutto umano
ripalpitare l'onda delle biade,

e la madre era bella come i figli,
era la prole come le colline
e le ripe, era bella come il crine
dell'alpe, come il grano e come i gigli.

Ed era il sogno simile alla vita
com'è simile al mosto il sangue ardente,
quando il genio di tutta la tua gente
raggiò dalla primissima ferita.

Il valor rise come il fiore sboccia.
Ala, una città presa per amore!
E l'eroe d'Ala avea nome Cantore!
E il suo canto è scolpito nella roccia.

III.

Ma dall'immondo Barbaro la viva
guerra sepolta fu come carogna
truce, posta a marcire nella fogna
buia, stivata nell'orrenda stiva,

soffocata nel tossico fumante
e rituffata nella lorda pozza
come quell'ira che del fango ingozza

nello Stige implacabile di Dante.

E i figli dell'ulivo e della spica,
i chiari primigeniti del sole,
scesero giù nelle maligne gole
a consumar la lùgubre fatica.

Quegli che avea sospeso le ghirlande
dei pampini all'amico olmo soavi,
assi aguzzò, ficcò pali, ugnò travi,
costrusse il suo sepolcro ognor più grande.

Quegli che a' poggi avea falciato il caldo
fieno e negli orti munto l'alveare,
sacchi empié, more alzò, cementò ghiare,
costrusse il suo sepolcro ognor più saldo.

E la divinità era presente.
Ogni moggio di fresca terra offerto
era al genio di Roma, al giorno certo.
E seco ebbe i penati il combattente.

Il ciel del Palatino ebber gli eroi
su l'ira, il tempio aereo che il vate
segnava con la verga adunca (alate
armi parvero stormi d'avvoltoi),

quando giù nelle fosse un furibondo
grido fendé le tuniche di loto
intorno ai petti; e l'impeto devoto
balzò, irto di cuori, dal profondo.

Impeto, primogenito del fuoco,
spirito dell'incendio e della piena,
più celere del grido che ti sfrena
subitamente al dubitoso giuoco;

Impeto, condottiere dell'assalto
disperato, che cozzi con la fronte
e tanto hai più di lena quanto il monte

è più nudo, più ripido e più alto;

Impeto, ghermitor della fortuna
improvviso, che sì l'insegui e serti
con la punta alle reni e sì l'afferri
a' capegli e non hai pietà veruna,

demone della nostra lotta, gloria
a te che su la guerra seppellita
sol per noi rilampeggi e con l'ignita
bocca avvampi le penne alla Vittoria!

21 gennaio 1916.

Per i cittadini

I.

Quando la notte cade
su la città che strascica l'arsura
della fatica
pei labirinti delle sue contrade,
e nella casa amica
è la lampada accesa da man pura,
e tra le quattro mura
il silenzio si fa ne' cuori attenti,
e l'imagine cara della Patria
viene e trema nel cerchio del chiarore,
e tu senti sgorgare il sangue suo
presso e lontano
ed una santità gli occhi ti vela
che non è pianto ed è più che dolore,
e nell'anima tua stilla quel sangue,
gronda quel sangue sopra la tua mano:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.


l'agonia che sorride
favellando a un'imagine futura
immortalmente;
quando al ferro che incide e che recide
ella in silenzio il dolce paziente
porge con cuor che trema e man sicura,
senza battere gli occhi;
quando i ginocchi
ella piega e le tempie
alate abbassa,
sostenenendo il bacino
che del sangue fraterno
e del muto supplizio si riempie,
ma nell'ombra del suo carnal pallore
il confino dell'anima trapassa
per amor dell'amore sempiterno:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.

IV.

Quando ella fila
la bianca lana e col fil bigio agucchia,
e non canta ma pensa
al combattente che nell'alpe immensa
è bianco su la neve ch'egli ammucchia
dinanzi alla sua fossa,
o prega per colui che nella tana
cupa ha il colore della terra smossa,
il color che le scorre tra le dita
leni di maglia in maglia;
e nel rombo del cuore
ascolta ella il fragor della battaglia
cieca e lontana,
su la malga lontana
vede ella d'improvviso la ferita
schiudersi nella neve che s'arrossa
o mescolarsi al fango scalpitato

che la corrompe,
e il filo bianco torce col suo cuore
palpitante ella e il bigio
conduce col suo cuore vigilante
ella, e un prodigio
di carità trasfonde
nella lana il calor del focolare,
nella lana la tempra dell'usbergo:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.

V.

Quando colui che perse il figliuol primo
bevuto sino all'ultima sua stilla
dal sitibondo Carso
che mai non si disseta,
e il suo secondo ne' ghiacciai scomparso
di là da quella mèta
che si trapassa per non ritornare,
e il terzo sul calcàre
candido come ossame
al gelo della luna,
riverso, incoronato con le spine
di ferro ch'ei tagliò tra legno e legno
confitti come croce al sacrificio
dell'eroe sovrumano;
quando colui non piange né dà segno
di lacrime ma pone la sua mano
su la spalla dell'ultimo suo nato,
su l'omero del fresco adolescente
fulgido di bellissimo dolore,
che ricevuto ha in sé la grazia e il sangue
dei suoi fratelli e il fiato
come se dentro il calice d'un fiore
si celebrasse nova eucaristia;
quando colui non piange ma per via
con la man dolcemente

sospinge il giovinetto e l'accompagna
e l'offre e lo sacrifica e lo dona
e dice all'Indicibile «Perdona
se più non ho che questo,
ma questo prendi e me con lui se valgo»:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.

VI.

Quando il ricco ha rossore
degli agi suoi, e non s'indugia a mensa
né poltrisce, se pensa
che alcun del sangue suo
ha per tovaglia il sacco o la fascina,
ha per coltre la melma febbricosa
nella fossa che pute;
né si riscalda al ceppo sfavillante
che croscia su gli alari,
perché sogna le bianche
sentinelle perdute
nei deserti di neve, nella cerchia
dei picchi invitti come il diamante,
ai limitari della bàite irsute
che la sizza scoperchia,
al sommo della rupe
onde non più discende chi vi sale;
ma rinunzia egli i beni ed è l'eguale
del povero che offre
tutto che strappa alla fatica dura
e il ben senza figura
riceve in abondanza
per solo amore dell'amor che soffre:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.


de la double ardeur
et que toutes les sources taries
rejaillissent et se mêlent
en un seul torrent indomptable,
je crie et j'invoque: «O Italie! O France!».
Et j'entends, par-dessus les sépulcres fendus
et par-dessus tes lauriers hérissés
Victoire, le tonnerre des aigles
qui se précipitent vers l'Est
et de toutes leurs serres déchirent la nuit.
Le jour est proche! Voici le jour!

VI.

Voici ton jour, voici ton heure,
Italie; et, pour cette heure
des années merveilleuses,
la plénitude de tes allégresses!
L'ai-je annoncée avec les bûchers et avec les hymnes?
l'ai-je appelée dans la vigile et dans l'attente?
l'ai-je hâtée par la rancune et par l'amour?
Les pieds graves du Destin
se transmuent en ailes soudaines;
et sur son front marmoréen
s'allume la flamme à deux cornes
que portait le Libérateur
au-devant du champ couvert de rosée.
C'est le signe! c'est le signe!
Choisis d'être souveraine ou serve,
choisis de monter ou descendre,
choisis de vivre ou périr.
Je te montre le signe.
Malheur à toi si tu doutes,
malheur à toi si tu hésites,
malheur à toi si tu n'oses jeter le dé.


je dis: «Vous avez entendu ce qui plait au dieu.
Hâtez votre heure, obéissez, partez.
Vous êtes la semence d'un nouveau monde.
Et les aurores les plus belles
ne sont pas encor nées».

13 août 1914.

Sur une image de la France croisée
peinte par Romaine Brooks

I.

Ont-ils haussé l'éponge âcre au fer de la lance
contre sa belle bouche ivre du Corps Très-Saint?
La Croix sans Christ, qui souffre au-dessus de son sein
n'est que la double entaille acceptée en silence.

Mais son œil est plus clair que la claire Provence,
mais son cœur est plus doux que le printemps messin.
Elle oint de sa douleur la force qui la ceint,
elle noue à ses pieds percés la Patience.

Et le vent du combat et l'or du jeune jour
et les avrils non vus et l'amour de l'amour
et les chants non chantés vivent dans son haleine

La bandelette pure à son front est un feu
blanc qui conduit les morts. Et l'on voit sur la plaine
tomber de son manteau la grande ombre d'un dieu.

II.

O face de l'ardeur, ô pitié sans sommeil,
courage qui jamais n'écarte le calice,
force qui fais avec tes chairs ton sacrifice
et ta libation avec ton sang vermeil!


non nella Sìniza sola
ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia
il grande pezzato cavallo
di Marco, e si sveglia l'eroe
squassando i capelli suoi neri.
Re Stefano vien di Prisrenda;
sorge dalla Màriza cupa
Vucàssino; s'alzano a stormo
da Còssovo i nove sparvieri.

VI.

E grida la candida Vila
dal crine del Rùdnico monte,
sopra la Iacèniza lene;
grida e chiama in Tòpola Giorgio
che ristà poggiato all'aratro.
«Or dove sei, Pètrovic Giorgio?
Qual fumido vino ti tiene?
Qual t'occupa sogno? Non m'odi?
Dove sei, buio bifolco?
Dove sono i tuoi voivodi?
Dov'è il voivoda Milosio?
Giàcopo e il calogero Luca?
e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco
della Morava? A simposio
seggono? Ucciso hanno il giovenco
e trinciano, e cantano lodi?
Beono alla gloria di Cristo
che li aiuti? beono in giro?
E sul buccellato di farro
scritto è tuttavia: Cristo vince.
Ma non v'è quartiere pei prodi.

VII.

Bulica il sangue dei prodi
al cavallo insino alla staffa,

si giungono, stèrcora e fecce.

XII.

Sì, presero i valichi e i passi,
li presero; e noi i nostri guati
tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,
presero, e Strùmiza e Vrània,
e Cràlievo presero, e Lacle,
villate e città, mura e ripe;
ma dove più ossa che selci,
più teschi che ciottoli dove
lasciarono? Presero e Nissa
l'antica, vestita a gramaglia,
oité, santa Serbia, di neri
drappi vestita le case
dolenti ove suda il contagio
e l'odore vieta la porta.
Presero e Scòplia l'antica
(oité, santa Serbia, fa pianto),
la casa che in prima all'Iddio
tuo edificasti con pietre,
e quivi la rocca, la guardia
dell'imperatore Dusciano.
O Serbia, in ginocchio fa pianto.

XIII.

Poi rìzzati e balza e riprendi
la chiesa e la rocca, l'altare
e il mastio, l'impero e la sorte.
Il verde Vàrdari tingi
come la Nìssava a Vlasca,
colora il Vàrdari come
lo stagno di Vlàsina fatto
già bulgaro brago di morte.
Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
che scannò il suo padre con sacra

del ceppo regale di Orosia
a un Buondelmonte la sposa,
odi: la Vittoria è latina,
ed ella è promessa al domani.
è una pura vergine bianca
(non è la tua Vila a lei pari)
più lieve della tua Vila
selvaggia che col piè nudo,
in vista dell'oste schierata,
danzò su le lance dei bani.
Diceano intanto gli araldi
in Prìlipa a Marco: «O signore,
contendono i re, dell'impero.
A chi sia l'impero e' non sanno.
Ti chiaman di Còssovo al piano
che tu dica a chi sia l'impero».
Un grida: «Al Latino è l'impero.
Per forza a lui viene l'impero.
Roma a lui commise l'impero».

XIX.

Lode all'uno, grazie al verace!
In Còssovo teco i Latini
combatteranno domani
sotto il gonfalone crociato,
mentre il Lurco «A me è l'impero»
grugna «ché la forza s'alterna».
Sarà coi Latini domani
la grande lor vergine bianca.
Già misto il lor sangue col tuo
ebbero a Valàndovo, sacre
primizie. Ora Vèlese è rossa
di quelle, e vermiglia è la Cerna.
Tra le corna sta di Babuna
la pertinacia non rotta
e in Prilipa avvampa la fede.
O Rumio dagli occhi di druda,

invan tese da un sol terrore urlante,
prima d'inabissarsi senza traccia
presso il gigante.

Ma l'insidia li colse, ma l'agguato
li pigliò, nell'immensa albàsia eguale:
ruppe il fianco, la piaga nel costato
aprì, mortale;

di sùbito colcò pel sonno eterno
la bella nave, dandole carena
come a racconcio, sotto il lungo scherno
della sirena;

e l'acciaio temprato a gran martello
fu cosa ignuda come vil tritume,
sopra l'acque di Dio men che fuscello,
men che le spume.

Or repente un miracolo divino
percote l'acque. Il sol rompe la nube?
fa d'ogni flutto un branco leonino
di rosse giube?

Chi squarcia la foschìa dell'imminente
morte? Si leva un giorno di beata
porpora? Esulta tutto l'oriente,
e un'ora è nata?

Né fulvo branco di leoni balza,
né s'inarca fulgore di sovrana
porpora. Sola su la morte s'alza
l'anima umana.

Sola alla morte l'anima sovrasta
congiunta ancóra al carcere dell'ossa
come fuoco si radica in catasta
a prender possa.

Uomini vivi, saldi sul tallone,

Quegli che più patisce e che più dura
diritto avrà di primogenitura
sul gran retaggio, avrà la miglior parte».

E si divincolavano ruggendo
sotto le suola del nemico. I loro
campi erano pantani roggi. L'oro
colava come il sangue, ed era orrendo.

Le donne non avevano più mani
da giugnere, ma moncherini oranti.
Le cattedrali non avean più santi
che pregassero in sommo agli archi vani.

Il fanciullo copriva il limitare,
supino. La canizie pia del vecchio
era dispersa là come pennecchio
arido non finito di filare.

Tutte le dolci cose erano spente
senza pietà. Tutte le cose sacre
non erano più sacre. Il fumo acre
del sangue soffocava il Dio vivente.

Rase città lungo putride gore,
borghi in cenere sopra nere pozze
guardava solo, irto di membra mozze
e d'occhi fissi, il dementato Orrore.

L'Italia era in disparte. Taciturna
volgeva la sua faccia verso il mare
sùpero. Udiva il rombo aquilonare
percuotere la grande Alpe notturna.

L'ombra mordeva il suo bel capo stretto
fra i rostri della sua naval corona.
Come chi forte nel pensier tenzona,
ella anelava dal quadrato petto.

Di sé nutriva il suo divino male.

verso il sorriso immortale dei morti,
che è l'alba del suo regno.

19 decembre 1915.

IV.
PER LA REGINA

E questa che la Vila con un canto
incoronò del crine di viola
folto come la treccia che di schianto
lasciò la pia Gevròsima alla trave
chiamando il fratel Mòncilo fra il pianto,
questa guarda, Signore.

Volarono laggiù sul Monte Nero
dodici aquile bianche con gran strido.
Ed una a lei volò sul suo pensiero,
e la coprì con velo insanguinato.
Il vecchio padre, il candido guerriero,
le piange in mezzo al cuore.

S'alzano dal confin serbico in frotte
i corvi lordi. A valle la Boiana
róssica, Scodra fumiga. La notte,
ahi, stelle più non ha sul Nero Monte.
«Miei falchi, in piè!» Chiama all'estreme lotte
il veglio, e conta l'ore.

«In piè, falchi miei!» grida il Re canuto.
Senza pane, senz'acqua, senza sonno
negli occhi, giorno e notte han combattuto.
Sinché nevichi al monte, è grassa guerra.
Mangiato han neve e neve hanno bevuto,
e munto hanno il dolore.

Prega pel Re la figlia sua Regina
che in sogno sta tra due fiumane calde.
Or quale d'esse fa più gran rapina,

avendo colto un portentoso fiore.

La sua casa egli pensa sul suo lago
quieta, dove per la porta adorna
d'una ghirlanda il terzo dei Cadorna
rientrerà, sol di silenzii pago,

e innanzi alle due mute Ombre severe
scioglierà gli alti vóti, i grandi fati
adempirà, l'isole dei beati
quivi splendendo nell'albor leggiere.

O Dio, per questo duce che ci spezza
il tuo pane, io ti prego che tu m'oda.
Acùmina la sua certezza, e inchioda
nei nostri petti, o Dio, la sua certezza.

19 decembre 1915.

Il Rinato

Non videro la stella d'oriente
i magi, non andava innanzi a loro
ella per scorta su le nevi ardente;

non improvviso udiron elli il coro
dei Messaggeri in Betleem di Giuda
prostrandosi; non mirra incenso ed oro

offersero alla creatura ignuda
sopra la paglia della mangiatoia
calda di fiati nella notte cruda;

né, curvi in calca sotto la tettoia
radiosa, i pastori di Giudea
intonarono cantico di gioia.

S'ebbe natività nella trincea
cava il Figliuol dell'uomo; e solo quivi,
messo in fasce da piaghe, si giacea.


dei combattenti, i piedi sanguinosi
dei figli nella terra insanguinata,

Signor di sangue, e tutto il lor dolore
e nella terra una fecondità
per sempre, nella terra una bontà
per sempre, un spino, un eternale ardore.

II.

Udimmo i loro gridi nella notte,
udimmo i loro canti nel mattino
pieni del grande zefiro latino
come vele tesate dalle scotte.

Ascoltammo nell'alba dell'insonne
urbe, nell'ora della tua rugiada,
crescere l'inno e rimbombar la strada
sotto lo scalpitìio delle colonne.

Il cuore delle madri coraggiose
rosso balzava innanzi al lor coraggio,
ed era un sole più che il sol di maggio
fervido; e il nido al chiaro inno rispose.

S'oscuraron nell'ombra tutti i marmi,
risplendettero tutte le fucine.
Le città ridivennero eroine
fumide, ansarono: Armi! Armi! Armi!

Le città ebber l'anima d'acciaio
sfavillanti d'acerrimo travaglio.
Taluna fu dismisurato maglio;
taluna, innumerevole telaio.

Ed eglino passavano cantando
per le diritte vie, verso le porte:
prima la Gloria ed ultima la Morte,
duce e seguace. Ed era il primo bando.


II.

Quando si leva l'alba dei guerrieri
su la città di cenere ove il passo
dei primi artieri
è come d'avanguardia scalpitare,
e tu ansi nel mare
dei sogni con un'ansia in cuor confusa,
e all'anima socchiusa
ecco t'appare
più vicina dei sogni
la trincea tetra, la penosa bolgia,
tra maceria e steccaia
il fango imputridito
le piaghe non fasciate
i morti non sepolti
gli smorti vólti
dei vivi senza sonno
fitti nel limo sino all'anguinaia,
e il cuor ti morde l'onta,
e balzi in piedi, e l'anima t'è pronta
ad ogni evento
ad ogni prova
ad ogni dono,
e tutto armato di dolor t'avanzi
ed imprendi, nel giorno che t'è innanzi,
il taciturno tuo combattimento:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato.

III.

Quando la donna veglia senza velo,
bontà senza figura,
le piaghe in carne viva,
ardendo come lampada votiva
sotto la bianca volta;
quand'ella ascolta

VII.

Quando la vecchia inferma e triste e sola,
che logora con gli ossi delle dita
le lente avemarie senza parola
tra morte e vita
nella sua stanza fredda
come la soglia del sepolcro, pensa
che le rimane
un'ultima reliquia
d'oro consunto,
forse nel mondo l'ultimo suo pane,
e si leva e s'affanna e la ritrova,
ed oblia la dimane
poi che il suo vespro è giunto;
ed esce, quasi cieca, per l'incerta
via seguitando il suon delle campane,
la melodia di Cristo antica e nova;
ed in silenzio reca quell'offerta
all'urna che non parla;
e poi torna nell'ombra per morire,
e l'angelo è nell'ombra ad aspettarla;
ed un alito fresco
come canto novello
allevia la parete, che dispare;
e nella povertà di san Francesco,
nella felicità del Poverello,
ella non ha più fame né più sete;
e l'angelo sommesso le ripete
il canto del Beato
«Ma chi è dato più non si può dare.
Vivi morendo in pace»:
quivi è l'Iddio verace,
e sia lodato

22 gennaio 1916.
 
La preghiera di Doberdò

1.        San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell'altare maggiore.

2.        Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore.

3.        In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.

4.        Non ha più tovaglia la tavola dell'altare, né candellieri, né palme, né ci-borio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo.

5.        A mucchio su la tavola dell'altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange.

6.        Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi come la ce-nere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

7.        Gli elmetti ch'eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.

8.        Le scarpe ch'eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l'orlo della sepoltura.

9.        Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia mor-ranno, gravano l'altare del sacrificio incruento.

10.        Solo v'è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, u-n'imagine di purità e di patimento.

11.        Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della ba-laustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle.

12.        Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle.

13.        I feriti dell'assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia.

14.        Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginoc-chi, o con un sorriso d'infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie
             torbide la vertigine della battaglia.

15.        Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taci-turni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabel-le quadre legate al collo da un filo, ov'è scritta la piaga e la sorte.

16.        Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fendu-to, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l'angelo col dìttamo bianco o col papavero nero
             la morte.

17.        Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall'ascia lati-na. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca.

18.        Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine pri-ma. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca.

19.        Biondi e foschi, pallidi come l'abete della gabbia che chiude la granata dall'ogiva d'acciaio, fuligginosi come se escissero fabbri lesi dalla fuci-na tremenda.

20.        Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duo-le. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d'ogni benda.

21.        Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, do-ve tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne u-na: la sesta.

22.        E, com'essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d'una santità vivente come quella che precede il Signore quando si manifesta.

23.        Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l'ardore intento della fede novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone,
             quando il Figliuolo dell'uomo non avea pur dove posare la guancia?

24.        E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si
             piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia?

25.        Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pie-tra natale.

26.        E qui sanguina l'Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l'aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia
             pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale.

27.        Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpo-ra, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria?

28.        È l'artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di là dalla vittoria?

29.        Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s'addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare.

30.        Entra una barella carica d'altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d'elmetti forati. Si ferma davanti all'altare.

31.        Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'altro, grigi come la ce-nere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

32.        Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d'erba calcata, con qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.

33.        Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s'ode. Tanto ama, e rompersi non s'ode il suo petto.

34.        Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l'infermo della piscina, l'uomo di Betesda, sul letto.

35.        Forse non sa ch'egli è cieco. E dice anch'egli forse nel cuore: «Figliuolo dell'uomo, abbi misericordia di me». Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov'è scritto il male e il destino.

36.        Ma d'improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l'ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l'altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l'ambascia, l'attesa. Getta un
             grido, due gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino.

37.        E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d'una stagione sublime le facce del glorioso dolo-re.

38.        E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l'anima trapassa le fasce, si tende verso l'ala invisibile che muove l'aura del miracolo intorn. E ode ridiscendere nella casa disfatta il
             Signore.

Novena di San Francesco d'Assisi. Settembre 1916.
A Luigi Cadorna

Questo che in te si compie anno di sorte
l'Italia l'alza in cima della spada,
trionfal segno; e la sua rossa strada
ne brilla insino alle fraterne porte.

Tu tendi la potenza della morte
come un arco tra il Vòdice e l'Ermada;
torci l'Isonzo indomito, ove guada
la tua vittoria, col tuo pugno forte.

Giovine sei, rinato dalla terra
sitibonda, balzato su dal duro
Carso col fiore dei tuoi fanti imberbi.

Questo che in te si compie anno di guerra
scrolli da te, avido del futuro;
e al domani terribile ti serbi.
4 settembre 1917.

La canzone del Quarnaro

Tibi cornua nigrescunt
Nobis arma dum clarescunt.

Siamo trenta d'una sorte,
e trentuno con la morte.

EIA, l'ultima! Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.

EIA, carne del Carnaro! Alalà!

Con un' ostia tricolore
ognun s'è comunicato.
Come piaga incrudelita
coce il rosso nel costato,
ed il verde disperato
rinforzisce il fiele amaro.

EIA, sale del Quarnaro! Alalà!

Tutti tornano, o nessuno.
Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno,
quella che non ci spaventa,
con in pugno la sementa
da gittar nel solco avaro.

EIA, fondo del Quarnaro! Alalà!

Quella torna, con in pugno
il buon seme della schiatta,
la fedel seminatrice,
dov'è merce la disfatta,
dove un Zanche la baratta
e la dà per un denaro.

EIA, pianto del Quarnaro! Alalà!

Il profumo dell'Italia
è tra Unie e Promontore.
Da Lussin, da Val d'Augusto
vien l'odor di Roma al cuore.
Improvviso nasce un fiore
su dal bronzo e dall'acciaro.

EIA, patria del Quarnaro. Alalà!

Ecco l'isole di sasso
che l'ulivo fa d'argento.
Ecco l'irte groppe, gli ossi
delle schiene, sottovento.
Dolce è ogni albero stento,
ogni sasso arido è caro.

EIA, patria del Quarnaro! Alalà!

Il lentisco il lauro il mirto
fanno incenso alla Levrera.
Monta su per i valloni
la fumea di primavera,
copre tutta la costiera,
senza luna e senza faro.

EIA, patria del Quarnaro! Alalà!

Dentro i covi degli Uscocchi
sta la bora e ci dà posa.
Abbiam Cherso per mezzana,
abbiam Veglia per isposa,
e la parentela ossosa
tutta a nozze di corsaro.

EIA, mirto del Quarnaro! Alalà!

Festa grande. Albona rugge
ritta in piè su la collina.
Il ruggito della belva
scrolla tutta Farasina.
Contro sfida leonina
ecco ragghio di somaro.

EIA, guardie del Quarnaro! Alalà!

Fiume fa le luminarie
nuziali. In tutto l'arco
della notte fuochi e stelle.
Sul suo scoglio erto è San Marco.
E da ostro segna il varco
alla prua che vede chiaro.

EIA, sbarre del Quarnaro! Alalà!
Dove son gli impiccatori
degli eroi? Tra le lenzuola?
Dove sono i portuali
che millantano da Pola?
A covar la gloriola
cinquantenne entro il riparo?

EIA, chiocce del Quarnaro! Alalà!

Dove sono gli ammiragli
d'arzanà? Su la ciambella?
Santabarbara è sapone,
è capestro ogni cordella
nella ex voto navicella
dedicata a san Nazaro.

EIA, schiuma del Quamaro! Alalà!

Da Lussin alla Merlera,
da Calluda ad Abazia,
per il largo e per il lungo
siam signori in signoria.
Padre Dante, e con la scia
facciam «tutto il loco varo».

EIA, mastro del Quarnaro! Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.

EIA, carne dal Carnaro! Alalà!

11 febbraio 1918.
All'America in armi

While we are marching on!
LA CANZONE DI JOHN BROWN

I.

1.        Mattino oceanico della Libertà alzata sul fondamento di sangue e d'ani-ma dalle spalle dei suoi tredici artieri,

2.        giorno della giovine Republica che delle tredici colonie fece il fascio consolare di tredici verghe intorno alla scure dei pionieri,

3.        gli Italiani lodano l'Iddio che lor concesse di salutarti oggi in piedi sotto il croscio della vittoria romana,

4.        essi che oggi ti danno, o Libertà, per tuo diadema il sasso scolpito del Grappa e ti danno il Piave flessibile per tua collana.

5.        O Terrestre, lasciato hai il tuo piedestallo solitario e non voli, ma cam-mini stampando la terra co' tuoi calcagni senza calzati.

6.        Guardaci. Siamo il tuo amore. Amiamo il lampo de' tuoi occhi più che il guizzo dei nostri focolari.

7.        Guardaci. Riconosci il tuo amore. Abbiamo combattuto per te divina-mente come la giovinezza del mondo pugnava a Maratona.

8.        Per questo tuo giorno, con la mano della vita e con la mano della morte, liberali entrambe, abbiamo tessuto la tua corona.

9.        La corona di spighe alla Fertile! L'ora del combattimento fu l'ora della messe per la Madre degli eroi e delle biade.

10.        Per mietere, la sua gente ha impugnato le falci; e per uccidere ha brandi-to le spade.

11.        S'inchinarono le messi e brillarono nel vento come le schiere nella bat-taglia.

12.        Rinasce a noi un pane vittorioso, e ai nostri dolci feriti si rinnova il letto di paglia.

13.        Abbiamo mietuto e abbiamo combattuto, con la faccia sempre volta a oriente.

14.        Riarsi, abbiamo bevuto alla più profonda delle nostre piaghe come alla sorgente.

15.        O Libertà, ma la collina tumida tra Nervesa e Biàdene ci nutriva come la tua mammella.

16.        Per sette dì e per sette notti i petti eroici ne trassero una forza sempre novella.

17.        Per sette mattini gli eroi videro te levarti dall'Adriatico prima del sole e aprire al giorno la porta.

18.        Gridarono: «Benché tu ci uccida, lèvati. Lèvati, e che tutti moriamo per te, non importa».

19.        È questo il grido di questo giorno, più alto che i gridi delle aquile d'E-schilo, più selvaggio che i gridi delle Erine di Dante.

20.        È il grido che comanda alla battaglia di riaccendersi e al tempo di sosta-re e ai morti di risorgere e ai vivi di moltiplicarsi nel sangue.

II.

21.        Come i vasti cavalli criniti di spuma nell'oceano che uguagli, come le miriadi dei corsieri spumanti nell'Atlantico indomo,

22.        i flutti del tuo vigore, o Republica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza dell'uomo.

23.        Gli eroi morienti con occhi pio che umani guardano levarsi la tua luce dove il loro sole si colca.

24.        E pensano: «O eternità del mare, non sapesti mai forza più bella di que-sto spirito che ti solca».

25.        Non ti fa bella, o Republica, l'immenso tuo cumulo d'oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi genii senz'ali,

26.        non l'ascia tua celere che ti muta in chiare città le tue selve, non l'impeto delle aeree tue case che ti sono le tue cattedrali,

27.        non il numero delle tue macchine schiave che servono i tuoi lucri e i tuoi agi, non l'orgoglio che le tue stirpi arroventa e martella,

28.        ma una parola che in te parlò una voce republicana, una parola ti fa la più bella.

29.        E di sùbito il tuo oro e tutti i tuoi metalli e tutte le tue fucine e tutte le tue genti non sono se non luce operante.

30.        Tutta sei luce. E fin l'oscurità delle tue miniere s'irraggia, così che il tuo nero carbone t'è diamante.

31.        Teco sono le sorgenti solari, negli occhi tuoi fissi. Dalla fronte al calca-gno, tutta quanta sei luce.

32.        Sopra l'oceano che è la tua anima vera, l'ora prima, l'ora bianca dell'Al-ba a noi ti conduce.

33.        Innanzi che le mille e mille tue prore fendano il cielo e il mare, la tua parola risana il cuore profondo della terra gonfio di doglia.

34.        Rescissa dal ferro, incesa dal fuoco, intrisa di sangue, la divina radice per te rigermoglia.

35.        T'avevam conosciuta e disconosciuta, t'avevamo amata e poi rinnegata prima che il gallo cantasse.

36.        Troppo aspettammo che i colpi del tuo vecchio tamburo riscotessero le tarde tue masse.

37.        Dato avevi due volte il tuo messaggio col sigillo purpureo, due volte ve-stita di porpora; e il tuo terzo era atteso dai vivi e dai morti nella notte feroce.

38.        Gloria! Agitasti alfine la tua bandiera seminando dalle sue pieghe le stelle; e nella notte sfolgorò la tua voce.

39.        «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.

40.        Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.»

III.

41.        In marcia! La vecchia canzone di John Brown, radicata nella memore gleba, riscoppia come il fiore dell'agave ardente.

42.        Dal fondo degli anni ritorna e si spande il rombo dei bronzi che sonaro-no il transito del martire nell'Occidente.

43.        In marcia! la semenza è fervida. Gli uomini nuovi bàlzano in armi dai tuoi solchi fulvi e dalle tue bianche strade.

44.        Recando nel pugno il tuo gruppo di stelle, cacciano in fuga la pace i-gnobile da tutte le tue contrade.

45.        In marcia! Come nella valle dello Shenandoah, c'è il ferro e c'è il fuoco, c'è il sangue e c'è il sudore, c'è il fiele e c'è il pianto, l'urlo e il lagno, la sete e la fame, la falange spedita e il branco immondo.

46.        In marcia! Come allora, nella selva, nell'alpe, nel piano, sul fiume, sul lago, sul mare, l'uomo inventi la sua vita e la sua morte ogni giorno. Non v'è più sonno. Non v'è più tregua. Non v'è più respiro. In marcia verso la
             battaglia del mondo!

47.        Si sveglia, laggiù, nella dolce valle virginiana ove geme l'uccello not-turno, si sveglia Stonewall Jackson e sente il suo sangue che tuttavia co-la, e ordina: «Avanti!».

48.        Si poggia sul gomito sano, solleva con l'anima il suo braccio stroncato, lascia pendere i suoi rossi brandelli, e ordina con la voce d'allora: «Por-tate innanzi i miei fanti!».

49.        Balza di nuovo in sella Philip Sheridan fiutando la disfatta lontana, met-te il suo cuore in bocca al suo baio; e galoppa le sue venti miglia.

50.        Non ha in bocca né cuore né freno il cavallo. Il cuore fu più veloce dei quattro suoi zoccoli. E, quando arriva, la vittoria gli prende la briglia.

51.        «Navi! Navi! Navi!» grida David Farragut, l'affondatore di arieti, l'in-cendiatore di zattere, lo spezzator di catene, a cui furono armi fedeli lo sperone diritto e l'anima ignuda.

52.        Qual passo è da forzare? qual porto da violare? qual corazza da fendere? È pallido. Gli ruppe nel sepolcro i sonni e le glorie l'eroe di Premuda.

53.        «Ali! Ali! Ali!» grida non il vittorioso che balza dalla tomba all'appello, né la giovine cerna anelante, né la folla dal piè di tempesta;

54.        ma la stessa vittoria che, come quella d'Atene, non ha negli òmeri penne e non migra, sì arma la sua specie nei cieli a miriadi e con noi resta.

55.        Resta con noi sul Piave, resta con noi su la Marna, con noi su i santissi-mi fiumi, con noi sopra i monti sublimi, con noi dove le è suora corpo-rale la morte.

56.        O Liberatrice, il tuono è incessante. Il fragore lacera il cielo come un velario che si ritessa. La nube infame acceca e soffoca la battaglia. Il co-raggio ansa e soffre. Tutto è martirio celato. Ma la tua statura è più alta, ma
             la tua voce è più forte.

57.        «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.

58.        Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.

59.        Siamo in marcia, non truppe noverate e marchiate come le greggi, non eserciti cacciati col pungolo come le mandre. Un popolo armato s'avan-za. Consacra le sue stelle al Futuro.

60.        In marcia! Fino a quando? Fino a che la via d'oriente, fino a che la via d'occidente non sia libera. Fino a che tra i quattro vènti del mondo la Libertà non sia sola con l'uomo. Fino a che non si compia il cammino del tempo,
             se non bastino al cómpito gli anni. Una fede armata s'avanza. Consacra i suoi segni al Futuro.»

IV luglio 1918.

La preghiera di Sernaglia

I.

1.        Chi risponde? La bocca d'un uomo può dunque portare una parola che pesa come il sangue di tutti?

2.        Chi risponde? È la voce d'un uomo questa che varca l'oceano inespiato e gonfia i suoi flutti?

3.        Chi giudica? Lo spirito solo d'un uomo si fa spada infallibile e taglia il groppo di tutte le sorti?

4.        Chi giudica? Chi è che non teme di parlare là dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti?

5.        Ha egli imposto l'alterno suo polso a quel mare implacato che non ebbe mai rive a serrar le procelle?

6.        Ha egli come il re tebano sposato la novella Armonia, e alla città spirta-le cantato le leggi novelle?

7.        Chi s'alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fu-mante?

8.        Donde è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l'esule Dante?

9.        O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge?

10.        O solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo libro, che nessun ven-to ignoto sconvolge?

11.        Non so, né m'inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba e sillaba accorti.

12.        Serro l'animo spietato nel cuore, l'arma provata nel pugno; e ascolto il silenzio di Dio e dei morti.

II.

13.        Chi risponde? Chi giudica? Non l'uomo seduto, né l'uomo diritto, né il codice né la bilancia.

14.        Risponde chi per parlare sputa il fango ch'ei morse cadendo o si netta dalle lacrime di sangue la guancia.

15.        Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e l'ambascia, col giogo bestiale sul collo.

16.        Risponde chi col moncherino grondante scrisse l'abominio e il taglione sul muro superstite al crollo.

17.        Risponde chi nel patire eccedette i limiti del patimento posti al misero dalla pietà del Signore.

18.        Risponde l'umana e divina agonia cui fu Ghetsèmani tutta la terra co-spersa di atroce sudore.

19.        E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Figliuol d'uomo? Ecco. Mano per mano, dente per dente, occhio per occhio.

20.        Non il sermone laborioso ma il doppio taglio della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio.

21.        Il Figliuol d'uomo essi tolsero di croce non per comporlo nella pietra col panno lino e l'unguento,

22.        ma per riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziarlo d'ingiurie e partirsi il suo vestimento.

23.        Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero vincoli e corde:

24.        vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazioni, corde per stran-golarle a stràscino, o Misericorde.

III.

25.        Non sono un rammemoratore d'immemori e un riscotitore d'ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa.

26.        O pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa!

27.        Che mai resta nel mondo, ch'essi non abbiano guasto e corrotto? Più pe-stilente è il lor fiato che il vomito dell'avvoltoio.

28.        Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra dominio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di macine, e la terra il lor grande frantoio.

29.        Hanno arsi i duomi di Dio dove battezzammo i nostri nati, portammo le nostre bare, prostrammo il nostro cuor tristo.

30.        Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo.

31.        Lordato hanno le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito o-gni solco, divelto ogni erba e ogni fusto,

32.        disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne, fatto monco ogni fanciullo robusto.

33.        Il lagno d'Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son piene di vomito e di lor-dure; luogo non v'è più, che sia mondo».

34.        Ma Colui che già pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse nell'Orto, oggi piangere non può sopra il mondo.

IV.

35.        Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l'omero scarno, né inchiodate le palme all'infamia, né i piedi trafitti.

36.        Né sfolgora come quando l'angelo rotolò dal sepolcro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici afflitti.

37.        Ma lo vede ogni fante, simile a sé, con l'elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col sangue del fante, allato allato.

38.        Cade anch'Egli, come quando portava la croce; cade e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende la sua arme e il suo fiato.

39.        Resiste, perdura, persevera, a fianco dell'uomo. All'uomo dona il suo cuore divino e la sua lena immortale.

40.        Si volge l'ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e vede al suo fianco penare e lottare un eguale.

41.        Lotta Egli e pena con noi. La sua arsura, che lambì la spugna intrisa nel-l'aceto e nel fiele, si disseta alla nostra borraccia.

42.        Suda e ansa con noi. L'offerta rinnova del suo sacrifizio ogni giorno spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia.

43.        Egli che all'ora di nona gridò: «Dio mio, perché m'hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l'intera vittoria agli eroi.

44.        Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l'eletto di Dio, salva te stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.»

45.        Or Egli vince. Con noi vince. Chi credette nell'anima, ora vince per l'a-nima. Chi accettò la morte, ecco vince per la vita immortale.

46.        La forza dell'anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in carne tanta non sente il suo male.

47.        Chi l'arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove gli impenetrabili pet-ti? Dov'è mai la lor ferrata muraglia?

48.        Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Son fuggiti dinanzi alle spade, di-nanzi alla spada tratta, dinanzi all'arco teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia».

49.        Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guai a te che predi e non fosti pre-dato. Quando finito avrai di predare, predato sarai tu senza mora».

50.        Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?». L'aurora! L'aurora!

V.

51.        O stagione di rapimento improvvisa, che la primavera non sei e non l'autunno ma quella dove il lauro eternale allega i suoi frutti!

52.        O spirito rapido che rifecondi le piaghe della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti!

53.        O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l'orgoglio al cuor della Patria e sino alla sua fronte il vermiglio!

54.        O valli disgombre dove torna una così pura dolcezza che i morti sem-bran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio!

55.        O canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alzati dall'agonia degli oppressi che sentono i liberatori alle porte!

56.        O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e vergogna, soma e amba-scia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo, o vittoria di là dalla morte!

57.        Chi muterà questa grandezza e questa bellezza impetuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d'inganni?

58.        Inchiostro di scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ri-comperato il martirio degli anni?

59.        Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il cef-fo compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce.

60.        Stampategli il marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce.

61.        E passate oltre. Vi precedono i morti. Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l'osso del tallone integro per calcare la terra straniera.

62.        Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l'anima delle creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere nella preghiera».

63.        Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne. Dove corti? dove sali?

64.        La tua corsa è di là dalla notte. Il tuo volo è di là dall'aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cieli sono men vasti delle tue ali».

Novena di tutti i Santi. Ottobre 1918.
Cantico per l'ottava della vittoria

Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.
E vendica la potenza del canto sul clamore,
o Verità cinta di quercia.
Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro
che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo
mal mondato nel trivio bercia.

Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli
come quando su lo strame d'Italia i tristi vegli
rumavan la menzogna stracchi
e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra
al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra
contro il sogghigno dei vigliacchi.

O domatrice di fuochi, foggiami tu quest'ode
e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode
mi trema e condurla non posso.
Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.
E rimbombare odo dentro di me, come alla porta
del tempio, uno scudo percosso.

Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.
Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio
percote lo scudo raggiante?
Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.
E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice
rivede sorridere Dante.

Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dal mare,
o Patria, così ti chiama colui che trascolora
di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un'aurora
che abbia volontà di cantare?

Palpiti come un' aurora colma di melodia,
come un'aurora chiomata d'astri ignoti, che sia

apparsa alla soglia del mondo.
Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita
non sei se non il preludio della novella vita,
una nell'alto e nel profondo.

E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'aurora
a cui ti facemmo sacra con l'aratro e la prora
quando la notte era su noi.
La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.
Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo
il mare la terra e gli eroi.

Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta
da secoli per cantare quest'inno che sovrasta
la speranza e supera il fato.
Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima
ti rapì nel Paradiso dov'arde su la cima
dell'amore il verso stellato.

Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo
in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odo
fra il Tevere e il Capitolino.
Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana.
T'odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.
E l'Istria è un sol coro latino.

E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.
E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola
si prodiga all'arcato abbraccio.
E le città di Dalmazia si scingono sul mare
cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare
nell'ambra di Vettor Carpaccio.

E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,
ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiede
di Santa Maria Zobenigo,
tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,
ridorata come quando Venezia si rispecchia
nell'oro sciolta dal caligo.


E la seconda non fulge sopra il riposto mare
dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,
ma per gli occhi del suo veggente,
ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi
dall'ardore del futuro ch'egli vede levarsi
oggi dal sangue immortalmente.

O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,
la cecità del profeta reduce dai tre mondi
anch'egli ma senza corona!
O Spàlato imperiale, Spàlato piena d'arche
sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche
sopra le tombe di Salona!

O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne
dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne
come il fuoco nell'alabastro.
La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto l'artiglio
il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio
il tuo cipresso nell'incastro.

La sùbita primavera si crinisce di pioggia.
La rondine d'oriente torna nella tua loggia
ad annunciar la Santa Entrata.
Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardi
e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,
o tu che sei la più dorata.

E danzano la tua gioia lungh'essa la tua costa
le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,
e coi cembali e col saltero.
O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!
O sasso della Donzella dove l'amor latino
rinnovellò la morte d'Ero!

E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.
E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa
nell'oleandro di Lacroma.
E la Libertà dal vasto petto, l'unica Musa,

canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;
e tu bevi il carme di Roma.

Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,
canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito
degli eroi nella terra nera.
Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti
nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti
quando la grande alba non era.

Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:
al sommo del loro ossame portano i loro volti
trasfigurati, l'ebre gole.
Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi
come se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi
spirasse il cantico del sole.

Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,
nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale
tagliò come ceppo d'abeto,
nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,
nella Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugna
per baciar laggiù Rovereto;

e tra l'Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,
negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,
che sono i fratelli del Grappa,
essi cantano con calde bocche, riavvampati
da un sangue repente; e vanno, s'accrescono, soldati
della luce, di tappa in tappa.

Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch'esso
di gioventù sovrumana, come aveva promesso?
«Ch'io venga anche all'ultima guerra!
Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stella
d'Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.
Ma ch'io venga all'ultima guerra!»

Giovine, giovine come nell'estancia, a Maromba,


alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba
dal Vascello e dalla Corsina
sonò su Roma serva slargando col selvaggio
squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio
della nova gloria latina,

giovine e con la criniera fulva come l'estate,
sul gran stallone di neve dalle froge rosate,
che per ala ha il candido manto,
cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,
fiso alla morte, e l'amore della sua morta gente
l'inalza alla vita del canto.

O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira
dal mio petto? Son io servo dell'inno senza lira
o son io signore del fato?
Tutte le vie della notte furon da me percorse
per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse
come questo giorno m'è nato?

Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni
della trasfiguratrice? Che val se m'incoroni?
O fine delle cose impure!
Son nel carcere dell'ossa, nei lacci delle vene,
e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,
in tutte le tue creature.

Con una meravigliosa gioia tesi le mani
a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani».
Sempre diceva ella: «Più alto!».
La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.
Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa
il volo la schiuma l'assalto.

O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso?
e perché fu ingannata l'anima? Avevo chiuso
te nell'arca e la mia speranza,
tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente
avevo teco bevuto l'acqua senza sorgente



e celebrato l'alleanza.

Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi.
L'arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi,
ha scoperchiato il sasso cavo.
E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell'asta,
sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta
forza nel lustrale Timavo.

Ma dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era?
Non l'avevano raccolto dentro la tua bandiera
stessa i compagni di ardore.
Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante
dell'ala avevan disteso, né con le foglie sante
coperto il nudato suo cuore;

né veduto di tra le foglie dell'alloro pugnace
ardere subitamente nel profondo torace
un fiore perfetto di fuoco.
Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale.
Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,
in te vita e morte oggi invoco.

Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.
Si fa mattutino canto lo spirito esalato.
L'agonia si fa melodia.
Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.
La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.
Regna «colui che più s'indìa».

Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dall'acque,
o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore
e sono il tuo testimonio. Se m'odi, il mio amore
sa come questo giorno nacque.

Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.
Da oriente a ponente l'inno prima s'intona:


«La vita riculmina in gloria!».
Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.
Da ostro a settentrione scroscia l'inno secondo:
«La morte s'abissa in vittoria!».

3-11 novembre 1918.
NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA

Sur une image de la France croisée
Une lettre adressée à M. Alfred Campus, directeur du Figaro, accompagnait l'envoit de ces poèmes:

«Mon cher ami, je pars pour Gênes. On va jeter le dé. Ce qui n'est pas arrivé sous le signe du Bélier, va arriver sous le signe du Taureau. Cette bte zodiacale a un front encore plus dur, fron-tem duriorem frontibus eorum. De Gênes vous recevrez, de grandes nouvelles.
J'ai composé quatre sonnets d'amour pour la France, et je les publie au profit de la Croix-Rouge de France, du Vestiaire des Blessés et de l'Hôpital auxiliaire du Val-de-Grâce n. II.(institution italienne). Ils sont inédits. J'aimerais les donner eu public français en guise d'adieu, Voutez-vous les publier dans le Figaro, le matin du 5 mai? A la même heure nous serons des alliés.
Au revoir, cher ami. Je vous serre le main bien affectueusement.

En hâte, votre
G. D'A.

Ce 3 mai 1915.

Ode alla nazione Serba
Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell'anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la ce-ra) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell'anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo».

Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l'ultimo re grande di Ser-bia. Ebba Mìliza per donna, d'insigne sangue, d'animo insigne. Nell'anno 1389 sul piano di Cos-sovo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei poveretti».
Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bo-gdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l'oste loro» si narra nel carme eroico.

Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d'uomini sostenne maravigliosamente, l'assedio. Sen-za più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fuman-ti, sotto la minaccia d'un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lonta-nanza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de' suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate.
Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati.

Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vi-cenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372)
Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stu-pendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent'anni, trecen-t'anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s'ode il suo grande cavallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda...
Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiu-dicare l'impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: "è mio". Uliesa despoto: "no, gli è mio". Il voivoda Goico: "no, ch'è mio".» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: "ad Urosio l'impero".»

Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorre-re, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono.

Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dal-la fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de' suoi».

Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321)furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de' Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella  della Stirpe regia di Orosia.