D'Annunzio
La poetica
avvertì i limiti e la crisi del naturalismo e del Positivismo di fine secolo. Tutti e due hanno infatti in comune la sfiducia nella ragione e nella scienza, rivelatesi incapaci, nonostante la conclamata onnipotenza, di dare una spiegazione sicura e definitiva della vita e del mondo.
«L’esperimento è compiuto - scriveva D’Annunzio nel 1893 - La scienza è incapace di ripopolare il «deserto cielo, di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace... Non vogliamo più la «verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto».
Circa negli stessi anni Giovanni Pascoli scriveva un pensiero analogo: «La scienza ha perfezionato, oltre ogni aspettativa, la tecnica, ma non ha saputo, né saprà mai liberare gli uomini dal dolore e dalla morte, e solo ha tolto le illusioni della fede, che lo compensavano del male del vivere, dell’atrocità del morire».
Dalla comune sfiducia nella ragione i due poeti derivarono il senso della solitudine dell’uomo; ma da questo momento il loro pensiero diverge e approda a due diverse concezioni della vita, muovendosi il Pascoli nell’ambito del vittimismo romantico con sgomenti e ansie decadenti, il D’Annunzio nell’ambito dell’estetismo e del superomismo nicciano.
Il Pascoli, di temperamento sensitivo e fragile, ha una percezione ombrosa e trepida della solitudine, che lo spinge a cercare e a predicare la solidarietà con gli altri, perché gli uomini, se si uniscono, possono meglio sopportare il loro destino di dolore.
Il D’Annunzio ha invece un temperamento sensuale, e perciò ha una percezione egoistica, orgogliosa e arrogante della solitudine, derivata dalla consapevolezza della eccezionalità della propria persona, che lo spinge ad affermare la propria supremazia sugli altri, a conquistare il dominio del mondo. O mondo, sei mio! / Ti coglierò come un pomo, / ti spremerò alla mia sete / alla mia sete perenne (Maia).
La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io (che è poi quella stessa della natura).
Si rinnova così nel D’Annunzio il dramma romantico della ricerca dell’assoluto. Ma mentre i romantici cercavano di raggiungerlo con l’estasi dello spirito davanti all’infinito, il D’Annunzio, invece, lo cerca con l’estasi panica, cioè con l’immergersi nella natura delle cose, fino a sentire in bocca il sapore del mondo, come egli dice.
Nel sensualismo e nel naturalismo panico è l’espressione più genuina e più valida della poesia del D’Annunzio. Tutte le volte che egli forza la sua natura di poeta visivo e sensuale, rivestendola di elementi dottrinali e intellettualistici - come l’estetismo, il superomismo, o il profetismo del poeta-vate - cade nell’artificio e nella retorica; una retorica fastosa, opulenta e abbacinante, che fa di lui un Marino o un Monti redivivo, ancora più sbrigliato e imaginifico.
Perciò anche la poesia del D’Annunzio è, come quella del Pascoli, senza svolgimento e progressivo arricchimento. Le successive aggregazioni di motivi hanno solo il potere di deformare e fuorviare la vera natura di poeta della laus vitae, intesa come gioia dei sensi, come godimento oblioso dei "frutti terrestri".
La poesia autentica del D’Annunzio pertanto ha carattere frammentario, antologico; raggiunge il suo culmine in alcuni capolavori dell’Alcyone, come La sera fiesolana, La tenzone, La pioggia nel pineto, L’onda, Undulna, Le stirpi canore, I pastori, e nella prosa asciutta e intima del Notturno. Non a caso, per giudizio concorde della critica, è proprio il D’Annunzio «alcionio» e «notturno» quello che resterà nella storia della poesia: il resto della sua vasta produzione letteraria di novelliere di romanziere e di drammaturgo, di poeta civile e patriottico, interessa solo la storia della cultura, non quella della poesia.
Per concludere, D’Annunzio non ebbe una poetica ben definita, perché, data la sua straordinaria abilità a captare i gusti e le tendenze delle letterature europee contemporanee, ne riecheggiò i motivi e le forme mutando continuamente la poetica.
Il Binni ha individuato i diversi aspetti della poetica dannunziana: ora - egli dice - è poetica dell’orafo, cioè dell’eleganza e della raffinatezza parnassiana, nell’Isotteo e nella Chimera; ora è poetica del convalescente, cioè si sente estenuato e deluso dalla vita dei sensi e aspira alla purezza e alla bontà, nel Poema paradisiaco; ora è poetica del superuomo nei romanzi e nelle tragedie; ora è poetica della profezia del poeta-vate, nelle Canzoni delle gesta oltremare; ora è poetica naturalistica nell’Alcyone.
Di tutte queste la più congeniale, come abbiamo detto, è la poetica naturalistica dell’Alcyone, il III libro delle Laudi, che contiene le poesie più suggestive del D’Annunzio.