CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Gabriele D'Annunzio
VERSI D'AMORE





















































































D'Annunzio
La poetica






avvertì i limiti e la crisi del naturalismo e del Positivismo di fine secolo. Tutti e due hanno infatti in comune la sfiducia nella ragione e nella scienza, rivelatesi incapaci, nonostante la conclamata onnipotenza, di dare una spiegazione sicura e definitiva della vita e del mondo.
«L’esperimento è compiuto - scriveva D’Annunzio nel 1893 - La scienza è incapace di ripopolare il «deserto cielo, di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace... Non vogliamo più la «verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto».
Circa negli stessi anni Giovanni Pascoli scriveva un pensiero analogo: «La scienza ha perfezionato, oltre ogni aspettativa, la tecnica, ma non ha saputo, né saprà mai liberare gli uomini dal dolore e dalla morte, e solo ha tolto le illusioni della fede, che lo compensavano del male del vivere, dell’atrocità del morire».
Dalla comune sfiducia nella ragione i due poeti derivarono il senso della solitudine dell’uomo; ma da questo momento il loro pensiero diverge e approda a due diverse concezioni della vita, muovendosi il Pascoli nell’ambito del vittimismo romantico con sgomenti e ansie decadenti, il D’Annunzio nell’ambito dell’estetismo e del superomismo nicciano.
Il Pascoli, di temperamento sensitivo e fragile, ha una percezione ombrosa e trepida della solitudine, che lo spinge a cercare e a predicare la solidarietà con gli altri, perché gli uomini, se si uniscono, possono meglio sopportare il loro destino di dolore.
Il D’Annunzio ha invece un temperamento sensuale, e perciò ha una percezione egoistica, orgogliosa e arrogante della solitudine, derivata dalla consapevolezza della eccezionalità della propria persona, che lo spinge ad affermare la propria supremazia sugli altri, a conquistare il dominio del mondo. O mondo, sei mio! / Ti coglierò come un pomo, / ti spremerò alla mia sete / alla mia sete perenne (Maia).

La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io (che è poi quella stessa della natura).
Si rinnova così nel D’Annunzio il dramma romantico della ricerca dell’assoluto. Ma mentre i romantici cercavano di raggiungerlo con l’estasi dello spirito davanti all’infinito, il D’Annunzio, invece, lo cerca con l’estasi panica, cioè con l’immergersi nella natura delle cose, fino a sentire in bocca il sapore del mondo, come egli dice.
Nel sensualismo e nel naturalismo panico è l’espressione più genuina e più valida della poesia del D’Annunzio. Tutte le volte che egli forza la sua natura di poeta visivo e sensuale, rivestendola di elementi dottrinali e intellettualistici - come l’estetismo, il superomismo, o il profetismo del poeta-vate - cade nell’artificio e nella retorica; una retorica fastosa, opulenta e abbacinante, che fa di lui un Marino o un Monti redivivo, ancora più sbrigliato e imaginifico.
Perciò anche la poesia del D’Annunzio è, come quella del Pascoli, senza svolgimento e progressivo arricchimento. Le successive aggregazioni di motivi hanno solo il potere di deformare e fuorviare la vera natura di poeta della laus vitae, intesa come gioia dei sensi, come godimento oblioso dei "frutti terrestri".
La poesia autentica del D’Annunzio pertanto ha carattere frammentario, antologico; raggiunge il suo culmine in alcuni capolavori dell’Alcyone, come La sera fiesolana, La tenzone, La pioggia nel pineto, L’onda, Undulna, Le stirpi canore, I pastori, e nella prosa asciutta e intima del Notturno. Non a caso, per giudizio concorde della critica, è proprio il D’Annunzio «alcionio» e «notturno» quello che resterà nella storia della poesia: il resto della sua vasta produzione letteraria di novelliere di romanziere e di drammaturgo, di poeta civile e patriottico, interessa solo la storia della cultura, non quella della poesia.

Per concludere, D’Annunzio non ebbe una poetica ben definita, perché, data la sua straordinaria abilità a captare i gusti e le tendenze delle letterature europee contemporanee, ne riecheggiò i motivi e le forme mutando continuamente la poetica.
Il Binni ha individuato i diversi aspetti della poetica dannunziana: ora - egli dice - è poetica dell’orafo, cioè dell’eleganza e della raffinatezza parnassiana, nell’Isotteo e nella Chimera; ora è poetica del convalescente, cioè si sente estenuato e deluso dalla vita dei sensi e aspira alla purezza e alla bontà, nel Poema paradisiaco; ora è poetica del superuomo nei romanzi e nelle tragedie; ora è poetica della profezia del poeta-vate, nelle Canzoni delle gesta oltremare; ora è poetica naturalistica nell’Alcyone.
Di tutte queste la più congeniale, come abbiamo detto, è la poetica naturalistica dell’Alcyone, il III libro delle Laudi, che contiene le poesie più suggestive del D’Annunzio.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
VERSI D'AMORE - parte II

APPENDICE
(Testi aggiunti nell'Intermezzo 1884)

LA BELLEZZA DORMENTE

   To waste his whole heart in one kiss
    Upon her perfect lips!
                                 A. TENNYSON

Da tempo, mentre posa ella nivale
a traverso la porpora lucente,
la nerissima chioma virginale
fino a i piedi cresciuta è lentamente;

fuor da un nodo di perle sgorga e inonda
l'estatica figura, come un rivo:
la sonnifera luce ampia e profonda
non pur su i ricci ha un moto fuggitivo.

Morbido a quelle membra si modella
il velame di seta constellato;
e in mezzo ad un avvolgersi di anella
nere l'un braccio mollemente ombrato

e l'altro ne 'l nitor di diamante
de' braccialetti rosëo riluce.
La bellezza di lei, pura e costante,
è pace con amore e dí con luce.

Ella dorme: non s'ode ne le stanze
lontane de 'l palagio il respirare;
non le sue trecce pregne di fragranze
su l'incantato cuore hanno un tremare.

Dorme: s'incurva lieve, risplendente
d'oro, il cuscino a lei sotto una palma.
Cosí dorme; non sogna: eternamente,

forma perfetta sta in perfetta calma.

AI POETI

I.

Inutilmente voi con le snervate
braccia sopra le incudini sonore,
tristi artefici, il verso martellate;
poi che non dà il metallo anche un bagliore.

Inutilmente i calici tentate
co 'l malfermo cesello: il vin d'amore
ne le fragili tazze costellate
piú non ha il grande aroma avvivatore.

Stridono le fatiche stolte: infrante
le estreme forze, a voi nulla rimane
fuor che il lungo morir ne li ozi oscuri.

E non, in contro a 'l Sole almo, un gigante,
auspice su le nuove guerre umane
sorge a 'l vostro saluto, o morituri!

II.

Ma in grembo a un mare ignoto, ove non mai
giunsero navi, un'isola fiorente
chiusa in cerchio da bianchi polipai
va emergendo su l'acque lentamente.

Intatti ora germogliano i rosai
meravigliosi a i lidi, ne 'l vivente
silenzio; e forse un giorno i marinai
vi drizzeran la prora arditamente.

Emerge lenta l'isola, nutrita
da la immensa prolifica famiglia
de i molluschi ne' fondi alti e quieti.


Emerge lenta: atteggiasi la vita
a nuove forme, e chiude ogni conchiglia
perle che il sol non mai vide, o poeti.

PURIFICAZIONE

Quando le cose ne l'ardore intenso
anelanti si accasciano, e spietate
versano le cicale per l'immenso
ozio un río d'inni a la profonda estate,

io mi rendo a la terra. Unico il senso
de l'essere le membra dilatate
mi regna: io piú non soffro, io piú non penso,
io son libero al fin, divino apàte.

La terra madre mi conservi! Io viva
ne la mia nova forza inconscïente,
godendo il sole, come un vegetale.

M'infastidisce omai questa cattiva
commedia che tien vigile la gente,
questa commedia del bene e del male.

ISAOTTA GUTTADÀURO

PROLOGO

Mentre Lucrezia Borgia, in nuziale
pompa, venía con piano
incedere (la veste lilïale
risplendea di lontano)

tra i cardinali principi in vermiglia
cappa, che con ambigui
sorrisi riguardavano la figlia
de 'l papa, - ne' contigui

atrj i coppieri, adolescenti flavi
che rispondeano a un nome

I vostri baci, piú dolci de 'l vino,
a 'l sole ed a la luna

io colsi un tempo; e, come entro una rara
coppa di fin lavoro,
mentre i nuovi desii cercanvi a gara
- veltri da 'l guinzal d'oro, -

la profonda dolcezza entro la rima
sottilemente infusa
io vi rendo. Gioite voi. Ma, prima,
Isaotta, la Musa,

quella ch'io piu cantai, con un baleno
tra i cigli e con protese
le bellissime braccia, offre il suo seno,
come Giulia Farnese.

IL LIBRO D'ISAOTTA

SONETTO LIMINARE

PALAGIO D'ORO, nobile magione
de la Speme, de 'l Riso e de' Piaceri,
ove sotto i belli archi alti e leggeri
danzano i Sogni cinti di corone;

SELVA D'ORO ove Amor, nudo garzone,
con i Desiri, cupidi sparvieri,
con i Peccati, veltri agili e neri,
attende a la sua dolce cacciagione;

FONTE D'ORO ove candidi e tranquilli
vanno i cigni di Venere per torme
facendo a 'l dorso calice de l'ale;

O MIO LIBRO, convien che piú sfavilli
sonante il verso e piú ridan le forme
quando Isaotta Guttadàuro sale.


I. IL DOLCE GRAPPOLO

I.

- O madonna Isaotta, il sole è nato
vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando:
ei su' vostri balconi ha ravvivato
le rose che morían trascolorando.
Sorga da l'ampio letto di broccato
or la vostra beltà lume raggiando.
O madonna Isaotta, il sol che v'ama
con un lucido cantico vi chiama;
e gridano i paoni a quando a quando.

Udite voi salir nostre preghiere
o ancor vi tiene il Sonno in tra le braccia?
Dolce sarebbe a' nostri occhi vedere
i primi raggi su la vostra faccia
ove il trapunto lin de l'origliere
ne la notte lasciò sua rosea traccia.
Palpita il vostro sen con piú veloce
ansia a' richiami de la nostra voce,
mentre la fante il busto alto v'allaccia?

"Levasi a lo mattin la donna mia
ch'è vie piú chiara che l'alba del giorno,
e vestesi di seta Caturía,
la qual fu lavorata in gran soggiorno
a la nobile guisa di Suría",
canta l'Antico nel poema adorno.
"Il su' colore è fior di fina grana,
ed è ornato a la guisa indiana;
tinsesi per un mastro in Romanía".

Levasi da 'l gran letto in su l'aurora
la mia donna; e la sua forma ninfale
tra le diffuse chiome a l'aria odora
e a 'l sol risplende piú bianca del sale.

Tutta di gocce tremule s'irrora
ne 'l lavacro di marmo orientale.
Miran le statue a torno quella pura
forma e tessuta ad arte in su le mura
ride la greca favola d'Onfale.

Ridono i fatti di Venere dia
su 'l cofano di cedro, alto lavoro
d'artefici maestri di tarsía,
che sta ne 'l mezzo d'un bacile d'oro;
ove con signorile atto la mia
donna gitta incurante il suo tesoro
di smeraldi, rubini e perle buone
che piovon come per incantagione
sovra il metallo nitido e sonoro.

Ella, composta in vago atteggiamento,
a mezzo de la rara conca emerge;
e la fante con anfore d'argento
pianamente d'ambrate acque l'asperge.
Al diletto ella freme, e con un lento
gesto la chioma rorida si terge.
Come tondi i ginocchi e come bianchi!
Han dal respiro un dolce moto i fianchi
e il petto ad ogni brivido s'aderge.

O madonna Isaotta, è dura cosa
ir le beltà non viste imaginando.
A voi conviene omai d'esser pietosa
poi che da tempo in van prego e dimando.
La bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca in fine quando
concederete al bacio disiato?
O madonna Isaotta, il sole è nato
vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando. -


lungh'esso il chiaro colle solatío
troveremo, io sarò pronta al disío
vostro e sarete voi di me padrone. -

III.

Ella discese allora: un giuramento
fece sicuro il gran patto d'amore.
E prendemmo la china. Senza vento
era l'aria; ne 'l placido candore
erano i campi senza ondeggiamento,
brevi selve di canne erano in fiore.
Quasi una gratitudine beata
al sole offría la terra bene amata:
era novembre, il tempo de 'l sopore.

D'innanzi, il Latamon, fiume regale,
lambiva in suo lunante arco i vigneti
ove l'ebro clamor vendemmiale
ed i carmi de' rustici poeti
salutato avean già l'almo natale
de 'l vino autor di gioia, ora quieti.
Disse Madonna: - Siate accorto e saggio:
quivi incomincia il pio pellegrinaggio. -
D’in torno s'inchinarono i canneti.

Io dissi: - Non mi giova la fortuna,
o madonna Isaotta, ne 'l trovare. -
Ed ella a me: - Non ha virtude alcuna
il fino Amore per v'illuminare?
Il grappolo tardío dove s'aduna
da lungo tempo, come in alveare,
la dolcezza del miele a 'l lento foco
de 'l sole, aspetta noi per qualche loco. -
Io dissi: - Non mi stanco di cercare. -

Noi camminammo giú per la vermiglia
china che discendeva all'acque d'oro.
Da lungi a quando a quando una famiglia

di villici sorgendo da 'l lavoro
ci guardava con alta maraviglia;
e le fanciulle interrompeano il coro.
Venendo innanzi con giulivo ardire
una gridò: - Che mai cerchi, o bel sire? -
Ed io risposi a lei: - Cerco un tesoro. -

Noi cosí camminammo: ella men lesta,
poi che non concedeami anco la mano.
In guardare tenea china la testa,
bella come la bella Blanzesmano
allor che cavalcò per la foresta
a fianco a 'l suo Lancialotto sovrano.
Le fronde sotto i piè stridevan forte;
ma a quelle viti ignude aspre e contorte
li occhi chiedevan la dolce esca in vano.

Disse Madonna: - Riposiamo al fine. -
Era lungi un trar d'arco il bel rivaggio.
L'alta erba mareggiava in su 'l confine
placidamente, come biada a maggio;
or sí or no giungea da le colline
di citisi e di timi odor selvaggio.
Pareva il sol d'autunno per le chiare
vie de 'l cielo un novello orbe lunare:
i vapori facean mite il suo raggio.

Ella disse. Non mai le sue parole
ebber soavità cosí profonda:
cadevan come languide viole
da l'arco de la sua bocca rotonda.
E quel sorriso fievole de 'l sole
ancor la testa le facea piú bionda.
Era, d'intorno, un grande incantamento.
Era il diletto mio qual d'uom che, lento,
in giaciglio di fiori ampio s'affonda.

Tacque. Uno stuol d'augelli, d'improvviso,
attraversò con ilari saluti.

Noi trasalimmo, come ad un avviso
misterioso de la terra; e, muti,
impallidendo ci guardammo in viso.
Poi prendemmo sentieri sconosciuti.
I pioppi nudi e senza movimento
parevan candelabri alti d'argento;
ed i lauri fremean come leuti.

IV.

Oh ne la valle concava d'Orlando
inaspettata vista del tesoro!
Giacea la bella vigna fiammeggiando
con tralci di rubino e foglie d'oro;
e uno stuolo d'augelli roteando
facea ne 'l mezzo de la vigna un coro.
- O madonna Isaotta, ecco la vita! -
io le gridai, con l'anima rapita.
Ed in alto gridò lo stuol canoro.

Io la trassi a quel loco: ella piú lesta
venía, ché forte io la tenea per mano.
Tutta rosea volgea da me la testa,
bella come la bella Blanzesmano
allor che la baciò per la foresta
l'amato suo Lancialotto sovrano.
E le dissi: - O Madonna, io tengo il patto.
Per voi colgo il fatal grappolo intatto.  -
Ella mi diede il bacio sovrumano.

II. -  BALLATA D'ASTIOCO E DI BRISENNA

Amor, quando fiorían ne 'l bel paese
il biondo Astíoco e Brisenna reina,
da 'l colle a 'l pian, da 'l fiume a la marina
sonavan alto le tue chiare imprese.

La terra di Brolangia era un verziere,
in figura d'un sistro, ismisurante.

Brisenna, e la porgeva a 'l rimatore.
Celava l'acqua in sé virtú d'amore
che in cor mortale si facea palese.

Ma le belle traevansi in disparte.
Venivan quindi per eguali torme
di sette; e digradando in lungo ad arte
imitare volean l'ímpari forme
de 'l flauto che il dio Pan seguendo l'orme
di Siringa construsse in su 'l Ladone.
Come le canne, l'agili persone
tutte vibravano, a la danza intese.

Ogni torma correa verso l'eletto.
Ad una ad una le bocche fragranti,
le bocche dolci piú che miel d'Imetto,
egli baciava, splendido in sembianti.
Fuggía la torma, ed ecco l'altra avanti.
E svolgeasi cosí, lungo i roseti,
la danza; mentre li èmuli poeti
a tal vista fremean nuove contese.

Oh fontana d'Elai, dove son l'acque
che un dí fluiron per sí larga vena?
Dov'è il murmure tuo che tanto piacque
a 'l mite Astíoco e a Brisenna serena?
Cadde una notte ne 'l tuo sen la piena
Luna, divelta per forza di carmi.
S'infransero a 'l tremore orrido i marmi,
e fumaron stridendo l'acque incese.

III. ISAOTTA NEL BOSCO

BALLATA I.

Pur jeri (uscían da la recente piova
i cieli, tersi piú che vetri schietti)
andavam co' ginnetti
pe' boschi de la valle cavalcando.

Ella, dritta in arcioni, agile e franca,
reggea ne 'l pugno i freni
e moveali con varia maestría.
Piegava ad arco il ginnetto la bianca
chioma e fervea con leni
giochi, sommesso a quella tirannía;
e la sua leggiadría
e la beltà d'Isotta e il bosco intento
e li albori sereni,
che di velari penduli d'argento
adornavano il bosco in tutti i seni,
facean cosí gentil componimento
ch'io mi chiesi: - Non forse in lor balía
hannomi i Sogni? - E stetti dubitanto.

BALLATA II.

Non m'avevano i Sogni in lor balía;
ché mi disse la Bella, ad un radore:
- Senti soave odore
di viole, che giunge a quando a quando! -
Su' freschi venti odore di viole
giungea, soave e forte;
trepidavano li alberi novelli,
in torno; e aprivan loro gemme a 'l sole
le rame èsili e torte;
e verzicavan fitti li arboscelli,
come verdi capelli
ondeggiando ne l'aria ad ogni fiato.
E parevan le morte
ninfe rivivere, e parea rinato
Pane al mondo, ed alfin parean risorte
tutte le deità del tempo andato,
ma quali un dí le vide il Botticelli
in su' poggi di Fiesole vagando.

BALLATA III.

Ella disse: - Cerchiamo le viole

tra l'erbe, ché non son lungi nascoste. -
(O fiori, che a me foste
cagion di gaudio, vostro pregio io spando).

Balzai a terra; ed ella, anche d'un salto,
vennemi sovra il petto,
ridendo. Propagaronsi per l'ôra
le freschissime risa, in mezzo a l'alto
silenzio; ed il ginnetto
anitrí ver la dolce sua signora.
Noi ci mettemmo allora
su l'odorosa traccia a ricercare
ne 'l bosco giovinetto.
Chini su 'l suol pratío, senza parlare,
noi eravamo intesi a quel diletto.
S'udivano i cavalli pascolare
da presso e impazienti ad ora ad ora
scuoter li arcioni, forte respirando.

BALLATA IV.

Piovea su 'l verde il sol di marzo, infranto,
però che avea co' rami allegra lotta.
E le man d'Isaotta
sparivano in tra 'l verde, a quando a quando.

Oh mani belle, oh mani bianche e pure
come ostie in sacramento,
dolci a li afflitti, prodighe, regali
meglio che a' tempi gai de l'avventure!
Oh mani che il cruento
cuor nostro ignavo e le piaghe mortali
e tutti i nostri mali
con infinita carità guariste,
ed a 'l nostro tormento
le porte d'oro de' bei sogni apriste,
e a 'l nostro ardore cieco e vïolento
in coppa d'oro un vin sereno offriste!
Oh bianche mani, oh gigli spiritali

“Altre plaghe ho regnate!
“Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
“e in tal regno le feste ho celebrate
“de' suoni de' colori e de le forme”.
Disse; e di nuovo arrise, ne le chiome
ampie, come in un gorgo, profondando. -

BALLATA VII.

Il mister favoloso in cui la selva
era sommersa, e quella voce umana
che dava ad una vana
ombra la vita, e quel chiarore blando,

il senso mi cingean di tal malía
ch'io mi credeva udire
suono di corni in lontananza ròco
e veder cervi a mezzo de la via,
grandi e candidi, escire
con in fronte una croce alta di fuoco.
Strano li alberi gioco
facean di luci. L'un parea, tra' rai,
smeraldi partorire;
l'altro balzar da li orridi prunai
come serpente, in mal attorte spire.
Disse Madonna: - Si convenne Elai
un tempo con Astíoco in questo loco,
il qual re meriggiava poetando.

BALLATA VIII.

Meriggiava quel re, sotto il pomario
che splendeva a' suoi dí come un tesoro.
Cadeano i frutti d'oro
gravi su 'l suolo in torno, a quando a quando.

Rendean per l'aria in torno una fragranza
di miel, cosí gioconda
che al cuor giungeva quale un vin di rose.

E il buono Astíoco, in mezzo a l'abondanza
de' frutti, di profonda
dolcezza pieno l'anima, si pose
a laudare le ascose
virtuti de la terra in un poema.
Giunto era a la seconda
canzone quando, senz'alcuna tema,
ei scorse Elai. Qual re di Trebisonda,
il capo cinto avea d'un dïadema
ed il petto di pietre preziose
che vincevano il dí riscintillando.

BALLATA IX.

Chiesegli Elai: “Vuoi tu, sir di Brolangia,
“sopra tutta la terra alzar tuo soglio?”
Ed il sir: “Ben io voglio!
“Or tu dammi, che 'l segua, il tuo comando”.

“Sorgi dunque da l'ombra e t'incammina
“pe 'l sentier ch'io t'addito,
“fin che tu giunga in riva de 'l ruscello,
“ove un giorno la fata Vigorina
“adagiò ne 'l fiorito
“letto de l'erbe il corpo agile e bello;
“ed il magico anello
“che fiammeggiava piú che foco vivo
“mise, come in un dito,
“ne 'l verde stel d'un giglio ancor captivo;
“e sognò, me' che in letto di sciamito,
“a 'l murmure de l'acque fuggitivo.
“Or trarre ti convien da 'l gambo snello
“il fin tesoro, là dov'io ti mando”.

BALLATA X.

Surse pronto il re musico; ed il lesto
pié mosse in cerca de 'l beato giglio.
E a l'antico giaciglio

di Vigorina giunse trepidando.

Vide lo stelo e vide anche l'anello;
e lo stel ne 'l cerchietto
pareva il dito fragile e mortale
d'una ninfa cangiata in arboscello.
Ma il sire, a tal conspetto,
non osò porre la sua man regale
su l'anello fatale;
poiché, da quando l'erbe a Vigorina
furon fiorito letto,
il giglio erasi aperto a la divina
luce, non piú da 'l calice constretto;
e Astíoco, in tòr la pietra alabandina,
infranto avrebbe il giglio verginale
che a 'l sol ridea, sí dolce palpitando.-

BALLATA XI.

Questo narrò la mia favolatrice.
Ed a me parve che un incantamento
fluisse da quel lento
eloquio, tutti i boschi affascinando.

Com'ella tacque, il fremito de 'l suono
mi tremolò sí viva -
mentre a' precordi ch'io rimasi assorto
nel mio diletto ripensando a 'l buono
Astíoco. - E se a la riva
d'oro il giglio d'Elai non anche è morto?
E se ancora a diporto
la fata Vigorina è pe' sentieri? -
ella chiese, ché udiva
non lungi mormorii rochi e leggeri
d'acque, correnti giú per la nativa
ombra, e vedeva crescere i misteri
entro i seni de 'l valico ritorto.
Onde spronammo, innanzi trapassando.


e mescevansi a l'acque! Oh ne la grotta
ampia e ninfale mormorii sommessi
d'acque e le risa de la mia seréna!
bevemmo e ci baciammo, ivi indugiando.

BALLATA XIV.

Or quale io bevvi ignoto filtro, inconscio?
Era ne la sua bocca, era ne l'acque
la virtú cui soggiacque
ogni mio senso, amor rilampeggiando?

Non so. Ma come uscimmo da la chiostra
in su' paschi feudali
ove il bel fiume suoi tesori aduna,
parvemi cavalcare ad una giostra,
e che da que' fatali
occhi mi sorridesse la fortuna
e fusser ne la luna
in urna d'adamante custodite
le mie sorti regali.
Onde, felici, a 'l Sol candido e mite
e a l'ardor de' cavalli ed ai natali
venti ci abbandonammo; e le due vite
nostre mescemmo e rinnovammo in una
vita piú forte, che s'aprí raggiando.

IV.  SONETTO D'APRILE

Aprile, il giovinetto uccellatore,
a cui nitido il fiore
de le chiome pe' belli omeri cade,
ne 'l cavo de la man, come un pastore,
in su le prime aurore
ha bevuto le gelide rugiade.

Aprile, il giovinetto trovadore,
su le canne sonore
dice l'augurio a le nascenti biade:

i solchi irrigui fuman ne 'l tepore,
un non so che tremore
le verdi cime de la messe invade.

Ecco la Bella! Ecco Isotta la blonda!
China, de la sua porta a 'l limitare,
ella stringe il calzare
a 'l pié che sanno i boschi. E il dí la inonda.

Toccan la terra, a l'atto de 'l piegare,
i suoi capelli, in copia d'or profonda.
Oh, la faccia gioconda
che a pena da quel dolce oro traspare!

V. BALLATA DELLE DONNE SUL FIUME

I nitidi mercanti alessandrini,
profumati di cínnamo e d'issopo,
bevean su la riviera di Canopo
ne' calici de 'l loto i rosei vini.

Noi lungo il fiume, ove sí dolci istanti
indugiammo cercando per la via
il grappolo tardivo,
navighiamo a diletto, in compagnia
di musici che il lido empion di canti.
Tutto s'accende il lido fuggitivo
a lo splendor vermiglio.
Tu, ridendo, co 'l calice d'un giglio
attingi le bell'acque scintillanti.
La man tua lieve crea schietti rubini.

Le gentildonne, che fan gaia corte
a te con gran sollazzo, in su' minori
legni, rapidamente
seguon l'esempio e con i bianchi fiori
attingon l'acque d'or, ridendo forte.
Tutte, in un tempo, bevono a 'l lucente

vespero, inebriate,
quasi Bacco le linfe abbia cangiate
in vin di Scío, da' regni de la morte.
Suonano a torno i lieti ribechini.

Cosí tu vai, piacente Primavera,
navigando ne 'l vespero, per l'almo
fiume onde Amore sorse;
e i gigli tratti dietro il paliscalmo
vestono forme, ne la dubbia sera.
Non calano da' rotti argini forse
le ninfe a 'l Latamone?
Questa, piena di donne e di canzone,
non è l'isola bella di Citera?
Non sei tu dunque iddia ne' tuoi domíni?

Questa è l'isola bella: non la tiene
però Venere. Isotta ha signoria,
Isotta Biancamano,
su la verde Brolangia solatía
ove reíne clementi e serene
vissero a lungo, in tempo assai lontano,
e amaron poetare.
Qui non s'ode Bacchilide cantare,
non Saffo, non Alceo di Mitilene.
Ma s'odono i leuti fiorentini.

O musici, toccate li strumenti
con piú dolcezza, poi che a' lauri in cima
è la luna novella.
Cantate, o gentildonne, a cui la rima
fiorisce in amorosi allettamenti
a sommo de la bocca picciolella.
Sicché di su l'altura
udendo suoni e canti a la ventura,
veggendo faci, dicano le genti:
- Torna forse Brisenna a' suoi festini?


com'ella sovra me. Caldo il suo fiato
io sentía su 'l mio volto, ed a la luna
vedea brillare la cesarie d'oro
cui cingevano i miei sogni e le rose.
Fulgida aurora a me parve la sera,
ne 'l cerchio de le sue morbide braccia.

Dolce cosa languir tra le sue braccia!
Dolce, languendo, bevere il suo fiato!
Voci correan d'amor per l'alta serra;
e bramire s'udian cervi a la luna
da' chiusi, e Agosto a l'ombra de le rose
cantar soletto in su la tibia d'oro,

e a quando a quando, come in vaso d'oro
pioggia di perle, da le verdi braccia
de li alberi che misti eran di rose
le odorifere gomme ad ogni fiato
d'aura cader su' fonti ove la luna
piovea gl'incanti de l'estiva sera.

O donna ch'anzi vespro a me fai sera,
cui Laura è suora ne le rime d'oro,
deh foss'io, come il vago de la Luna,
addormentato, e alfin tra le tue braccia
mi risvegliassi e bevere il tuo fiato
potessi ancora, in letto alto di rose!

Tu la Bella vedrai diman da sera
e a lei ricingerai le chiome d'oro,
canzon, nata di notte senza luna.

QUI FINISCE IL LIBRO D'ISAOTTA

APPENDICE
(Testi aggiunti nell'Isottèo 1890)

CANTATA DI CALEN D'APRILE
Composta in onor d'Isaotta

Amore in mezzo a questo ballo stia:
E chi gli é servo, intorno.
E se alcuno ha sospetto o gelosia,
Non faccia qui soggiorno;
Se non, farebbe storno;
Ognun, ci s'innamori,
O esca fuor del loco tanto ornato.

LORENZO DE' MEDICI

Agunt et cantant

SALABAETTO - VANNOZZO
IPPOLITO
CORO DEI GIOVINI

VERDESPINA
ALTEA DALLE TRE GORE
LA DIAMBRA
CORO DELLE GIOVANI


La scena è in un orto vasto, arborato e rigato di acque, e ad austro
limitato da un fiume sinuoso.
I cantori stanno sulla cima di un monticello, il quale é nel mezzo dell'orto,
tutto coperto dalli arcipressi e dalli allori, come nel dialogo di Fiorenzuola.

Interrompono il verde alquanti aranci vivi, carichi di frutti, straordinariamente numerosi,

de' vecchi e de' nuovi frutti e de' fiori ancóra.

I paoni, taluni bianchi, posano su' piú alti rami.
Le donne e gli innamorati, in attitudini di grazia, si compongon da principio
intorno a Salabaetto, che canta accompagnandosi dolcemente con un ribechino.

Nel corso delle canzoni e de' cori alterni, le due schiere si aprono, si chiudono,
si mescono, si atteggiano in varia guisa; ma seguendo nei moti quasi un ritmo di
danza.

SALABAETTO, cantando

Aprile il damigello,
mette suoi lieti bandi:
- Ogni bella inghirlandi
un amador novello. -
Porta in su 'l giustacuore
verde una rosa bianca.
Con atto di signore,
tiene il pugno in su l'anca.
In su la spalla manca
gli posa un vago augello.

Un turcasso gli pende
alli òmeri sonoro;
a tratti a tratti splende
poi ch'è tutto d'avòro.
Ha buona punta d'oro
ed ali ogni quadrello.

E' il giovine un gagliardo
arciere, o Verdespina.
Ferita di tal dardo
è ferita divina.
Ei rapí l'arme fina

ove Diana giacque.

CORO I

Men rapide son l'acque
che il desir vostro infido.

CORO II

Piegare d'erba è lieve
men che dolor d'amante.

CORO I

Bevon l'acqua le piante;
cuor di donna oblío beve.

CORO II

Amor d'uom troppo vuole.

CORO I

Amor di donna è infido.

I DUE CORI

Scendiam su 'l dolce lido
a cui s'inchina il Sole.

VANNOZZO, cantando

O Sole, i tuoi corsieri
van con narici ardenti
respirando i gran vènti.
Come bianchi e leggeri!

Lor rilascia in su 'l collo
tutte le briglie, e sosta.
Pascan quieti, o Apollo,
giú per la rossa costa
cui vigila composta

la notte in suoi misteri.

L'Ora del giorno estrema
viene a' cavalli stanchi.
Ben a lor, senza tema,
palpa li ansanti fianchi.
La guatan, fra i crin bianchi,
da li occhi umidi e neri.

Di sue lusinghe l'Ora
cinge li alati mostri.
Indugian quelli ancóra
lungo i vermigli chiostri.
Su, gioite, o amor nostri!
Fiorite, aurei verzieri!

Aprite i freschi rivi,
tutti, o poeti amanti!
I beni fuggitivi,
i fiori, i frutti, e i canti
numerosi, e in stellanti
prata i balli, e i vin mèri,

e in lucidi oricanni
l'acque e l'essenzie rare,
e i preziosi panni
che vengon d'oltremare,
e i sogni seguitare
da morbidi origlieri,

quanti, o poeti, sono
i fuggitivi beni
celebrar con gran suono
giova e con versi pieni.
S'aprano a' ciel sereni,
come rose, i pensieri!

Apresi in fiamma, come
una rosa, il mio cuore.

Vien nel canto il tuo nome,
Altea da le tre Gore.
O Sole, a farle onore,
arresta i tuoi corsieri!

CORO DEI GIOVINI

Ei fugge. Il sir non ode.
Lo chiami? Egli è lontano.
Tenerlo è disío vano.
Lodarlo è vana lode.
Uom saggio è sol chi gode.

CORO DELLE GIOVANI

Seguono i Vènti il sire;
che versano da l'ale
un suon limpido eguale
come da lunghe lire.
E' dolce cosa udire.

CORO I

Dolce, ma sotto i vasti
alberi che un'iddia
già tenne in signoria
d'amore, a' giorni fasti.

CORO II

Tu, Delia, con men casti
occhi, a la molle ombría,
su l'erba che fioría
Endimion guardasti.

CORO I

Nel suo favor benigno
venite, o belle, a 'l folto.


la speme non sicura.

CORO I

O belle, udite, udite
voci che il vespro aduna.

CORO II

I vaghi de la Luna
fan lai ne l'aria mite.

CORO I

Udite gran bisbigli
lungh'essi que' sentieri.

CORO II

Le ninfe hanno misteri
grandi ne' lor concigli.

CORO I

E' dolce cosa udire.

CORO II

Udire è dolce cosa.

I DUE CORI

Scendiam la china ombrosa.
Giorno, tu non morire!

IPPOLITO, cantando

O Giorno, a la tua morte
il ciel lacrime versa,
lento; e da l'ostro emersa
la Notte apre le porte.

Si piega ella su 'l Giorno

caduto in su' ginocchi
però che il sangue a torno
da 'l fianco gli trabocchi.
Su le labbra e su li occhi
bacia il finito sire;
gode sentir salire
sotto il bacio la morte.

Quando in su' novi mai
ardeva la diurna
fiamma, ti sospirai
a lungo, o taciturna.
Bere la pace all'urna
tua vasta era il desío;
bere il tuo lene oblío,
sorella de la morte.

Anche a me, da' supremi
cieli, volgi la faccia.
Li stanchi occhi mi premi;
tutto a 'l gran sen m'allaccia,
sí ch'io fra le tue braccia
oda il tuo tardo cuore,
oda il lontan fragore
de' fiumi della morte.

CORO DEI GIOVINI

O belle, udite, udite
voci che il vespro aduna.

CORO DELLE GIOVANI

I vaghi de la Luna
fan lai ne l'aria mite.

VERDESPINA, cantando

Io l'amo. Pe 'l ruscello
di sue rime il mio nome

passò fiammando, come
tra perle un carboncello.

Ei si chinò, per bere,
in su l'anima mia;
ei bevve a suo piacere
la vita che n'uscía.
L'imagine giulía
rise ne le dolci acque.
O Amor, quanto mi piacque
il volto aperto e bello!

Nel fonte ride ancora,
o Amor, l'imagin bruna.
Passa il vespro e l'aurora,
passa il sole e la luna,
seren passa e fortuna,
senza l'acque mutare.
Il volto mai scompare;
ride sempre novello.

SALABAETTO, cantando

Dà faville, o mia Rima,
poi ch'ella ama l'amante!
Benedici l'istante
quand'io la vidi prima!

Era il giugno. Mi parve
che un baleno io vedessi.
Ridendo ella comparve.
Io nel mio col la elessi.
Maturava le messi
quel suo rider sereno
che correa qual baleno
a l'alte spiche in cima.

CORO DEI GIOVINI

O belle, udite, udite

come un vin cipriano.

Ben tale ebrezza, o Amore,
vinsemi; e la divina
Altea da le tre Gore
fu del mio cor reina.
Cosí la Leoncina.
Tu 'l sai, Poliziano!

Cantava mollemente;
recava in man narcissi.
Il grande occhio languente
come luna in eclissi,
di tra' capei prolissi
quanto era dolce e strano!

Bevean l'onda inchinati
i lauri a 'l suo passaggio.
- Rendete e' cuor furati -
ella cantava a Maggio.
E il gonfalon selvaggio
fioría ne la sua mano.

CORO DEI GIOVINI

Udite, udite, o belle.
Rendete e' cuor furati.

CORO DELLE GIOVANI

Si son li amanti armati
per prender le donzelle.

LA DIAMBRA, cantando

O amanti, ancora i lai?
L'amore è un vil tiranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Sopra un albero adorno

splende un frutto e non muta.
Uomini e donne a torno
aspettan la caduta;
guatan con brama acuta,
poi che il velen non sanno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Bei mostri a mezzo il mare
tesson vocali ambagi.
Scorgonsi fiammeggiare
ne ‘l profondo i palagi.
Ma traggono i malvagi
canti ad oscuro danno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi le man leggere
levan alto la coppa;
a l'agili chimere
godon blandir la groppa.
Ahi, per l'angoscia troppa
doman si torceranno!
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi li occhi un giocondo
abbagliamento assale;
ei veggon tutto il mondo
in luce trionfale.
Doman, arsi da 'l sale
de' pianti, ombra vedranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi cantan le bocche
vicine - Io l'amo, io l'amo -,
quali rose non tocche
in su l'istesso ramo.


Doman, altro richiamo!
Gemiti leveranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

CORO DEI GIOVINI

Piacciasi la Diambra
di sue torbide rime.
La Luna è in su le cime,
pallida come l'ambra.

CORO DELLE GIOVANI

Acerba è la Diambra,
però che senza tregua
Ippolito la segua
in van, come Ombrone Ambra.

CORO I

O Ippolito, per lei
April non ha turcasso.

CORO II

Ombron piange su 'l sasso,
ne' canti medicèi.

CORO I

Ecco le stelle prime.

CORO II

Le vedi tu, Diambra?

I DUE CORI

Pallida come l'ambra,
la Luna è in su le cime.


CORO II

Gittò il paone un grido!

I DUE CORI

Scendiamo alfin su 'l lido.
Meglio è vespro che aurora.

Le stelle ad una ad una
ridon pe 'l ciel profonde;
e a' palpiti risponde
il seno de la Luna.

CORO I, movendo

Luna, qual dolce affanno
metti a 'l cuor de' rosai?

UNA VOCE, di lontano

Morte, se chiamerai,
con gioia i servi udranno.

CORO II, movendo

Udiam colloqui gai
che l'acque e l'aure fanno.

UNA VOCE, di lontano

Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

        TELOS

MADRIGALI DEI SOGNI

I.

O bel fanciullo Agosto, o re de 'l bosco,
o diletto de 'l Sole, o Chiomadoro,
o tu che ogni orto cangi in un tesoro,

questa è la voce tua? Ben la conosco.
Su la gota il tuo caldo alito sento;
bevo il murmure liquido de 'l vento:

miro pe 'l ciel navigli alti d'argento
cui governano i Sogni, ebri piloti.
Giovami errar con quelli a' lidi ignoti?

II.

La luna che pendea ne 'l ciel felice,
come pende da 'l ramo un roseo frutto,
quasi erami a le labbra allettatrice.

Tendeano a 'l ciel, lungh'essi i paradisi,
arbori ingenti; fiorían l'ombre; il flutto
era soave; aulíano i vènti elisi.

A noi su 'l capo non fuggiva l'Ora:
la gran legge de 'l Tempo era bandita.
Ella splendea d'un'immortale aurora
lo bevea da' suoi cari occhi la Vita.

III.

Ella reggea con le due man levate
una gran lira; e, andando, in contro a 'l Sole
splendea di tra le corde la sua faccia.

Tutti i Vènti cantavano: - Laudate!
Ritorna a 'l Padre la divina prole. -
E cantando morían ne la sua traccia.


Raggiava il padre Sol, di meraviglia,
guardando risalir l'unica figlia.

SONETTI DEL GIOVANE AUTUNNO

I.

Il munifico Autunno è un giovinetto
che non la fronte, come Dionigi,
ha cinta d'uve; né su' suoi vestigi
trae pure in danza l'evia e il satiretto.

Ma tien su 'l capo un suo vermiglio elmetto
ricoprente la gota, a mo' de' Frigi,
a mo' de 'l biondo cavalier Parigi.
Nudo e in tutte le membra egli è perfetto.

Perfetto come se da 'l fior de 'l pario
marmo avesselo tratto Prassitèle,
tien l'arco d'Odisseo, grande e lunato.

Alto poggiasi a l'arco il sagittario,
e in cuor gli gode l'anima crudele.
Brilla di gemme il piede coturnato.

II.

Li orti ove un dí con piè divino escisti
in contro a me, come ad Astíoco Elai;
la gran variazion de' freschi mai
ove alta in fra le rotte ombre apparisti;

e il bosco ove a la luna i citaristi
facevan d'improvviso dolci lai,
e il fonte che mettea per que' rosai
canali in una rete agile misti,

ora a 'l bacio de 'l sole ultimamente
vivono, in un sopore uguale e grave,
regnati da tal giovine tiranno;


Seguon li altri molli Vènti,
fior recando in bocca loro.
Fanno be' componimenti
d'una danza, e polve d'oro
cospargendo vanno; e in coro
a la bionda Blanzesmano
dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Quindi vengono li Amanti,
quei che tiene antica pena.
Ridon pallidi in sembianti.
V'è Parigi con Elèna,
v'è la bella Polissena,
Analida e il buono Ivano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

V'è Ginevra la reina
che fu dea di fino amore,
e Rosenna evvi e Lavina;
evvi Fiore e Blanzifiore,
Tarsia e il prence Antigonore,
sere Arecco e il buon Tristano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Pur la donna v'è del Lago,
Oriana ed Amadigi,
e Bersenda da 'l cuor vago,
Brandimarte e Fiordaligi,
ed Artú che in su 'l Tamigi
fu già cavalier sovrano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Ancor seguono li Amanti,
quei che suon di rime alletta:
Monna Vanna e il Cavalcanti,

e il Boccaccio e la Fiammetta,
e la bella Simonetta
cui cantò 'l Poliziano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Margherita di Navarra,
tra una corte di poeti,
in suo stil libero narra
d'amor novi casi e lieti,
come un tempo tra' roseti
ne l'eptameròn profano.
Dice: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Or cosí viensene innanti
il Trionfo del ritorno.
Sboccian fiori, s'alzan canti,
rompon acque vive a torno,
per il nobile soggiorno.
Una voce lungo il piano
corre: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Chiude il gran corteo la Morte,
non la dea de' cemeteri,
ma una fresca donna e forte
cui valletti lusinghieri
sono i Sogni ed i Piaceri
da 'l gentil volto pagano.
Dice: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Beve il nume da l'ornata
coppa ambrosïo licore;
beva in sommo de l'amata
bocca l'uomo il vin d'amore.
S'apra, come rosa in fiore,
a la gioia il cuore umano,

poi che tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza!

Torna in fior di giovinezza
Isaotta Blanzesmano.

       QUI FINISCE L’ISOTTEO

EPODO

Quattro sonetti al poeta Giovanni Marradi in onore della nona rima.

I.

O poeta gentil, quanto mi piacque
che ti vidi onorar la rima nona,
l'alta rima onde ancor tutto risona
per me quel fiume ove l'amore nacque!

Veniva Isotta lungo le bell'acque,
tra l'erbe alzata la febèa persona:
il sol la cinse a 'l capo una corona
d'oro; la selva a 'l suo passare tacque.

Veda tu quella che sorride in cima
de' tuoi pensieri a una fatata reggia
salir con lunga compagnia di cetre;

ed in gloria di lei s'alzi la rima,
o poeta, la rima ove fiammeggia
la gran virtú de le sessanta pietre.

II.

Al saggio de li buon conoscidori,
ben direbbe l'Antico, i versi nove
fan cerchi di malie sí grandi e nuove
e di tanto diletto empiono i cuori,


Evvi Ginevra ed Isotta la blonda,
e sonvi i pini e sonvi le fontane,
le giostre, le schermaglie e le fiumane,
foreste e lande, e re di Trebisonda!

Bevere giova con aperta gola
ai ruscelli de 'l canto, e coglier rose,
e mordere ciascun soave frutto.

O poeta, divina è la Parola;
ne la pura Bellezza il ciel ripose
ogni nostra letizia; e il Verso è tutto.

ELEGIE ROMANE
Al poeta Enrico Nencioni questo libro è dedicato.

Quid melius Roma?
OVIDII EX PONTO L.P.

   Eine Welt zwar bist du, o Rom; doch ohne die Liebe
  wäre die Welt nicht die Welt, wäre denn Rom auch nicht Rom.

    GOETHES ROEMISCHE ELEGIEN I.

LIBRO PRIMO

[Il Vespro]

Quando (al pensier, le vene mi tremano pur di dolcezza)
io mi partii, com'ebro, da la sua casa amata;

su per le vie che ancóra fervean de l'estreme diurne
opere, de' sonanti carri, de' rauchi gridi,

tutta sentii dal cuore segreto l'anima alzarsi
cupidamente, e in alto, sopra le anguste mura,


fendere l'ignea zona che il vespro d'autunno per cieli
umidi, tra nuvole vaste, accendea su Roma.

Non era in me certezza de l'ora, de' luoghi. Un fallace
sogno teneami? O tutte de la mia gioja consce

eran le cose e in torno rendevano insolito lume?
Io non sapea. Le cose tutte rendevan lume.

Tutte le nubi ardeano immote: qual sangue da occisi
mostri, rompea da' loro fianchi un vermiglio rivo.

Lieta crescea la strage per l'erte de' cieli, sí come
per infiammati boschi gesta d'immite arciero.

Agile da le gote capaci il Tritone a que' fochi
dava lo stel de l'acqua, che si spandea qual chioma.

Tremula di baleni, accesa di porpora al sommo,
libera in ciel, la grande casa dei Barberini

parvemi quel palagio ch'eletto avrei agli amori
nostri; e il desio mi finse quivi superbi amori:

fulgidi amori e lussi mirabili ed ozii profondi;
una piú larga forza, una piú calda vita.

Sonvi - dicea la folle Chimera il cuor mio torcendo -
sonvi piú dolci frutti, altri ignorati beni!

Datemi - il cuor dicea - voi datemi, occhi soavi,
la mai goduta ebrezza, lo sconosciuto bene!

Alta dal cuor balzavami l'anima. A sommo de l'erta,
in su 'l quadrivio, argute risero le fontane.

Freschi dal Quirinale co 'l vento mi giunsero effluvi:
rosea m'apparve, al fondo, Santa Maria Maggiore.


SOGNO D'UN MATTINO DI PRIMAVERA

Quando la tua sorella Aurora, già sazia di sogni,
ebra di baci, tutta umida di rugiade,

come cerbiatto ignaro d'insidie ne' vergini boschi,
pronta a le soglie balza con lieto ardire,

tu non il suo chiamare, o Ippolita, odi. Il mio petto
ben del tuo dolce capo teneramente premi.

Premi il mio petto, e dormi. Qual s'apre or ne l'intimo foco
de la tua vita e sorge misteriosa imago,

irradiando un riso che tenue sgorga e diffuso
trepida per l'aureo fior de le membra tue?

Rompe cosí ne' maggi da polle invisibili un'acqua
viva, balzante spirito, in un rosajo:

trèmane tutta quanta la molle compage de' fiori;
poi d'un fulgore liquido s'illumina.

Or nell'oblio sommersa, Ippolita, vedi tu strane
plaghe, odi tu novelli carmi e novelli suoni?

Odi il divin tuo nome passare ne gli inni? Procedi,
splendida fra il duplice coro, a' fastigi ultimi?

Quale favilla viva cui nutran le ceneri in grembo;
quale balen che dorma entro la nube grave;

quale adamante intatto che splenda con lume di stella
su la ricchezza oscura de le terrestri vene;

qual sole ascoso ad occhi mortali, che sperda su vani
esseri, per gelido aer, le sue virtudi;

quale un pensier di nova beltà creatore su 'l mondo,
che ancor segreto rida sotto la fronte al nume;


nche il D’Annunzio come il Pascoli,
A
Quella discende forse, che molto aspettano i Saggi,
donna reina? O forse da le sue rosse case,

contra i fraterni tèli, demente per novi desiri,
anche apparí l'audace figlia d'Iperione?

Non del titan la figlia; ma l'altra, ma l'altra s'appressa.
Cose universe, udite! Ecco, l'Eletta viene.

Viene l'Eletta. O cieli, che tutta accogliete l'immensa
anima del Creato entro la vitrea sfera!

voi, o correnti, o vene del mare, che l'isole intatte
stringer godete in vostre adamantine trame!

nuvole erranti, o voi lungh'esso il monte selvoso
greggia che il vento guida, truce pastor, fischiando;

urne de' fiumi, aperte da vegli possenti a la Terra
giovine! e voi, stromenti ampi de l'uragano,

selve terrestri! e voi, profonde oceaniche selve,
dove ogni tronco ha occhi vigili ne l'orrore!

cose universe, udite! L'Eletta, ecco, viene che a noi
reca per legge il solo ritmo del suo respiro. -

Cantano. Tu non odi passare ne gli inni il tuo nome?
Premi il mio petto e dormi. Splendemi in cuor l'aurora.

VILLA D'ESTE

Quale tremor giocondo la pace de gli alberi o Muse,
agita e a le richiuse urne apre il sen profondo?

Chi, dentro gli àlvei muti svegliando gli spirti del canto,
leva sí largo pianto d'organi e di liuti?

Chi dentro i marmi sordi, immemori d'acqua corrente,
mette novellamente fremito di ricordi?


Chi tante mai canzoni, o Muse, trae su da tant'acque?
Ella è, che pur vi piacque, Muse; è Vittoria Doni.

Va pe 'l sentiere ombrato la donna magnifica; e in torno
ecco, il divin soggiorno trema signoreggiato.

Lodano tutti gli orti la dolce di lei signoria;
e le fontane, in via, parlan de' tempi morti.

Parlan, fra le non tocche verzure, le cento fontane;
parlan soavi e piane, come feminee bocche,

mentre su' lor fastigi, che il Sole di porpora veste,
splendono (oh gloria d'Este!) l'Aquile e i Fiordiligi.

SERA SU I COLLI D'ALBA

Oh, su la terra albana, bontà de la pioggia recente!
Grande è la sera; accoglie grandi respiri il cielo.

Umido il ciel s'inarca su 'l piano a cui s'abbandona
lento il declivio. Ride l'ultime nubi in fuga,

l'ultime nubi, trame leggère che passa la luna
èsile trascorrendo come una spola d'oro.

Compie l'aerea spola un'opra silente. Nel folto
celasi; risfavilla di tra le fila rare.

Muta la segue in alto la donna pensosa, con occhi
puri, che guardan oltre: - oltre la vita, in vano!

Quale desío la tiene? Qual nuovo pensiero, qual sogno
su dal pallor notturno de la sua fronte sale?

Tenue Luna, o amante dolcissima d'Endimione;
cielo di perla effuso, pallido men di lei;

cielo che spandi al piano una neve impalpabile (come
placidamente cade sopra le arboree cime!);


tu, mar Tirreno, o letto remoto del Giorno (per l'aria
fanno gli odor terrestri altro invisibil mare);

Espero, e tu, o lungi ridente pupilla; e voi, larghi
paschi ove grandeggiando sazio s'attarda il bue;

torme d'olivi, e voi con braccia protese a la sera,
bianche nel bianco lume, religïose; e voi

tutte, apparenze de la divina Bellezza ne' puri
occhi, non mi rapite l'anima sua; ma fate,

s'io v'adorai, ma fate che l'anima sua forse stanca
volgasi a me, piangendo, con infinito amore!

VILLA MEDICI

I.

Tu non mi dài la pace, o Sole sereno, e l'oblio
se i cari luoghi io cerchi vago de' raggi tuoi!

Troppo soavi, ahi troppo soavi anche giungonmi al core
questi che tu diffondi spiriti, o Primavera,

questi onde tutta vive la dura pietra e si scalda
umanamente e gode ne le profonde vene,

onde gioiscon gli orti chiomati di verde novello,
tremano le raccolte acque ne l'urne loro.

Tremano con sommesse parole, ne l'ombra, e fan cupo
specchio a tal ombra l'acque dentro il marmoreo vaso.

Stanvi le querci sopra, che l'aura de' secoli avvolge;
odono il suon, guardando placide a' cieli e a Roma.

Chiusa ne' suoi recinti la villa medícea dorme:
alzansi lenti i sogni de la sua gran verdura,


te, bel Cefiso, a cui la diva Afrodite bevente
rise da tutto il volto, diede in balía la chioma;

te, puro Eurota, largo d'allori e di freschi roseti
e di freschissime acque, d'onde emergeano ignude

vergini protendendo le belle braccia pugnaci
verso la madre Sparta, a salutare il Sole.

Erano a Delia cari tai fiumi; al grand'arco divino
porsero i lidi immensa copia di cacciagioni;

grati offerian riposi ne gli antri a le ninfe anelanti;
murmuri avean di molle sonno persuasori.

Ma ben li oblia la dea. Non ebbero quelli il tuo riso
misterioso, o fonte, l'inestinguibil riso,

tenue balen che l'acque tue pallide illumina a fiore
(tal ride pur fra' pianti l'anima in occhi umani)

onde in ardore treman a torno gli aperti narcissi,
languidi reclinanti, presi di van desío.

Non ebber quelli, o fonte, non ebber le voci tue vaghe
piú che mel dolci, lene balsamo a' duoli umani.

Qual su 'l polito ferro de l'aste purpurea s'imperla
l'onda del sangue e brilla nitidamente al sole,

tale su l'infiammata anima il confuso susurro
frangesi in varianti numeri armoniosi.

Ode la selva intenta, le vergini stelle da' cieli
odono: a lor la fonte ride di conscio riso.

III.

Deh nel mattin recante gran fior di rugiade novelle,
quando improvvisa apparve l'esule dea tra' rami,


deh come tutte d'intimo ardor palpitarono l'acque
poi che sentían l'antica divinità redire!

Fulsero i tronchi allora con lume di puri diaspri;
ebbero allor le foglie de l'adamante i fuochi.

Quivi il pastore biondo bellissimo Endimione
Trivïa seco addusse; quivi prigion lui tiene.

Sta l'alta maraviglia. Pur sempre rifulgono i tronchi
quivi in rigor di pietra simili a gemmei steli.

Piegansi i rami, carchi di verdi cristalli politi;
pendon tra ramo e ramo lunghi velari d'oro,

poi che per entro questi misteri invisibile Aracne
a le sottili attende opere de' telai.

Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime;
non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci.

Nascere dal silenzio pajono tutte le cose
come le salienti nubi dal mare; e immote

(tali il giacente inconscio nel sogno ingannevoli forme
vede, che a lui da l'imo genera il lento cuore)

durano: soli i lauri con lieve tremito incessante
dan tra la selva indizio de la nascosta vita.

IV.

Oh lauri, quanto un giorno a l'anima nostra soavi!
Alta venia ridendo ella fra gli alti steli.

L'ombra de' bei capegli oscura battea come un'ala
su la sua fronte; i lunghi occhi parean piú neri.

Freschi salían di sotto il breve suo passo gli effluvi;
molli pioveano albori da le vocali cime.


L'Erme da l'ombra mute sorgendo in lor forma divina,
vigili meditanti anime ne la pietra,

lei riguardavan, come assorte in pensiero d'amore:
sotto il lor piè quadrato, snelli fiorian gli acanti.

Io per sentieri ignoti fra' lauri cosí la seguii
trepidamente; e parve fosse d'in torno l'alba.

Parvemi, lei seguendo fra' lauri, che dietro quell'orme
ratto fuggisse il sangue mio dal profondo core

quale un vapor da calice colmo, e di vene novelle
tutto l'amato corpo anche cingesse, e mista

l'anima mia per tale prodigio a la bella persona
fulgida avesse gioja da la comune vita.

Fulgida gioja, oh grande mia comunione d'amore
onde in bei fior di luce vaghi nascean pensieri!

Parvemi, lei seguendo, che simile in vista a la donna
cui lungo il rivo scorse Dante tra' freschi maj

(Deh bella Donna - ei fece - ch'a' raggi d'amore ti scaldi! -
Volsesi la soletta in su 'l vermiglio a lui)

ella in salir per l'erbe vestigia stellanti lasciasse,
gemmee spandesse ai mirti da le sue man rugiade.

- Ecco, la Notte ascende per l'umido cielo: viole
trae ne l'aerea vesta, pallide rose trae;

Leva col piè fulgori di stelle per gli archi profondi:
treman le stelle, come polvere effusa d'oro.

Vede l'innumerevole riso d'a torno in gran cerchi
spandersi: gode al sommo ella seder regina.


Vino immateriale in coppa invisibile, oh mira
ebrietà che tutto l'essere penetrando

fece rigati a noi di nuova delizia gli amplessi,
rese infiniti i brevi nostri mortali amori!

Forte il mio spirto ardendo occupò il suo cuore profondo
come la fiamma alàcre abita l'urna cava.

Di quell'amante vita nudrivasi ardendo il mio spirto,
come la fiamma a notte beve la pura oliva.

I pensier suoi pensai; la gioja e il dolor suo nel pieno
essere mio raccolsi; vidi per gli occhi suoi.

L'anima, le segrete de l'anima voci, il divino
ritmo del suo respiro, l'intimo di sue vene

fremito, e le latenti sue cure, e gli inganni de' sogni,
e l’improvvise angosce, tutto io conobbi in lei.

Io, su lei chino, io tutti conobbi i concenti che solo
odonsi nel silenzio dolce del sangue suo,

quando gli innumerevoli palpiti in uno concordi
fingono la tremante calma d'estivo mare.

Io gli splendori ascosi de l'anima sua rivelai,
come con aurea chiave i penetrali aprendo;

e li diffusi in cerchi piú vasti ove tutto m'immersi
avidamente, i fianchi cinto di forza nuova.

Tale, fra l'ignee chiome che spiega l'Aurora su 'l mondo,
aquila uscente a volo da la nativa rupe:

invermigliati i fiumi salutan con tuoni il prodigio,
ridono le attonite fronti de l'alpe in giro:

unica quella al sommo rossor batte l'ali possenti;
tutte le aperte penne splendonle di baleni.


LIBRO SECONDO

SUL LAGO DI NEMI

Villa Cesarini

Era un ritorno. Il sole spandea per i boschi ducali,
precipitando, un fuoco torbido. Ma su l'acque,

chiuse da quel gran cerchio di tronchi infiammati, un pallore
cupo regnava. Raggio non le feriva alcuno.

Chi nel divino grembo del lago adunava tant'ira?
Livide, mute, l'acque minacciavano;

come d'un lungo sguardo nemico seguivano il nostro
passo; vincean d'un freddo fascino i nostri cuori.

Una paura ignota ci strinse. Pensiero di morte
illuminò d'un lampo l'anima sbigottita.

Parvemi andar lungh'esso un lido letale, uno Stige;
e de l'amata donna l'ombra condurre meco.

Tutte di nostra vita lontana le imagini vaghe
si dissolveano; ed ecco, tutto era morte in noi,

tutto; ed il nostro amore, il nostro dolore, la nostra
felicità non altro eran che morte cose.

Oh visione aperta per sempre a l'anima mia!
Rapidamente l'acque s'oscuravano.

Senza tremare, immote, opache, celando l'abisso,
piu minacciose l'acque parean volgere

al malefizio i cieli. Le nubi piombavano sopra;
stavano intenti i boschi sopra, nel grande orrore.


Quasi era spento il fuoco per l'aria; ma ultima ardeva
come una face in Nemi rossa la torre orsina.

IL VIADOTTO

Ella era meco. Forte stringeva il mio braccio ed ansava
contro il gran vento, muta, pallida, a capo chino.

Ahi, trascinato amore! Pareami sentire in su 'l braccio
(ella stringea piú forte) premere un peso immane.

Ahi, trascinato amore, con triste menzogna, per tanto
tempo, in sí dolci luoghi! Luoghi già tanto cari

Cupa, di sotto gli archi del ponte, muggiva in tempesta
ampia di querci e d'elci la signoria dei Chigi;

ma dal contrario colle, tra i mandorli scossi, ridea,
quale da rupe un gregge pendulo, Aricia al sole.

Pendula Aricia al sole ridea su la conca profonda:
ombra mettean le nubi cerula ne la fuga.

Era un Tirreno in vista, di lungi, una spada raggiante;
eran, di lungi, i boschi isole tutte d'oro.

Ma pe 'l mio cuor mutato, pe 'l duro cuor mio da le cose
ruppero in van fantasmi, ahi, del goduto bene!

Sorsero da le cose fantasmi bellissimi. Ed ella,
auspice Sole, ed ella era pur bella in vano!

Era pur bella, o Sole. Stringeva il mio braccio ed ansava,
contro il gran vento, muta, pallida, a capo chino.

Non a lei forse ignara parlavan le cose nel vento?
“Ei piú non t'ama, o donna misera! Ei piú non t'ama!”


unico mio, per questo m'hai tu ricondotta ne' cari
luoghi ove un giorno io parvi schiuder la primavera? -

II.

Oh primavera, tutta la selva correano i tuoi spirti,
tutta prendean l'inerte selva dalle radici,

occultamente: rari aneliti uscieno; talvolta
era come un ansare languido, oh primavera!

Ella tacea, guardando. Udiva io l'interna sua voce;
ma non risposi. Io tacqui. Io non risposi mai.

Vano ogni sforzo. Un freddo suggel mi chiudeva la bocca;
torbido, invincibile, contro di lei, da l'ime

viscere mi sorgeva non so quale odio; moriva
ogni pietà di lei nel saziato cuore.

Muti, cosí, vagammo: cosí, l'uno a fianco dell'altra,
simili ad ombre erranti sotto un fatal castigo.

Era la carne stanca; le pàlpebre erano gravi;
era nelli occhi quasi una caligine.

Tutta la notte, ahi, lunga! (parea che non fosse mai l'alba),
io con ardor, con ira folle cercato avea

di ravvivar la fiamma ne' corpi commisti, ne' baci.
Ella non piú bevea l'anima mia ne' baci.

Ella bevea soltanto le lacrime sue ne' miei baci.
Lacrime di quelli occhi, pur vi sentii su 'l cuore

ardermi fra 'l disgusto che a flutti salía dal profondo,
lacrime di que' dolci occhi ove il cielo io vidi!


III.

Or non vedeva il cielo nelli occhi di lei; ma dolore.
Ella tacea pur sempre, pallida piú del cielo.

Tutte le forme alli occhi miei lassi apparían dubitose
inesistenti, come forme di sogni, strane.

Alberi strani, in torno, balzavan da terra a ghermire
con mostruose braccia la delicata nube.

Snella fuggía la nube l'abbraccio terribile, dando
al ghermitor selvaggio labili veli d'oro.

Folti per ogni parte i muschi crescean nella grave
umidità. Le querci erano di velluto.

Tutti copriva i tronchi quel fresco velluto opulento;
tutte le pietre in torno erano di velluto.

Oh meraviglia! Un tempo mi parve il mirabile ammanto
opra di carmi, ed ella spargere tal mistero.

Dubio, da un ciel di perla, guardava il sole tra i rami;
ella ridea con occhi limpidi all'Adorato.

Mi vacillava il cuore: - La luce che illumina il bosco,
misteriosa, piove dalli occhi suoi? dal sole? -

Come nell'alba prima la luna d'agosto mancando,
pallida, effonde un riso che non fu mai piú lene:

tremano in ciel due vaghi miracoli; un sogno la terra
ultimo esala, incerta nello spirtale albore:

ella cosí mi parve. Contorte al suo piè le radici
eran di serpi un gregge obediente a lei.

IV.

Or chi guidava il nostro cammino? Forse un ricordo?

E perché mai varcammo la sconsolata altura?

Era per quell'altura (udiva io salendo alenare
la taciturna) un bosco ceduo. Tutti, ignudi,

grigi, sottili, i fusti sorgevano in una eguaglianza,
come di lance schiera ordinata in campo;

o non piú tosto, anima mia, come un lungo solenne
ordine di cèrei spenti nel'aer muto?

Parvero a lei, per certo, cosí mentre ella passava.
Ella pensò la morte. Lessi nel suo pallore.

- Tu mi vedrai morire. Vuoi tu, vuoi tu dunque ch'io muoia? -
lessi nelli occhi. - Pure, io non ti feci male.

Pure, io non altro feci che amarti, che amarti; non altro
feci che amarti sempre! Io non ti feci male.-

Vano ogni sforzo. Un freddo suggel mi chiudeva la bocca.
Un maleficio occulto dentro m'avea gelato.

Ma trasalimmo entrambi, sostando: un tronco abbattuto
attraversava il passo. Muti, sedemmo quivi.

V.

Sempre nelli occhi, sempre, avrò quella vista. Oh silente
pallida ignuda selva non obliata mai!

Erasi chiuso il cielo. Qualche alito, raro, destava
per le caduche cime quasi un brivido.

Cumuli di carbone qua e là nelli spiazzi, come alti
roghi ove già fossero cenere i cadaveri,

lenti fumigavano. Salivan nell'aria le spire
lente ondeggiando; lente dileguavano;


stesa tra 'l sangue, e alzare le supplici mani dal rosso
lago; e dicea con gli occhi: - Io non ti feci male. -

Oh moribonda anima! Le stetti da presso impietrito.
Anche una volta bere le sue lacrime

io non poteva? Al meno sfiorarle i capelli una volta
io non poteva? Al meno prenderle i polsi; il viso

bianco scoprirle, il giglio divino imperlato di pianto;
chiederle al men con voce dolce: - Perché piangete? -

Ella piangea. Di lunge, i colpi echeggiavano; gli alti
roghi, d'in torno, lenti fumigavano.

IL VOTO

Discendevamo il colle , la sera d'aprile occupando
i colonnesi boschi umida argentea

mentre ne l'ombra cantavano già gli usignuoli,
noti aulivano fiori anche invisibili.

Ella era muta; muto io era. Breve intervallo
era tra noi, tra i nostri deboli corpi: breve;

ma non quel colle, ma non quel lago, ma non il lontano
mare, ma non la sera fulgida aveva abissi

tanto profondi quanto l'abisso che muto tra noi
era... Oh discesa lenta per l'infinito clivo

mentre ne l'ombra cantavano già gli usignuoli,
noti aulivano fiori anche invisibili!

Candido arrise il cielo. Recò nel sovrano candore
suon di campane l'Ave, giú da Castel Gandolfo.

Ci soffermammo. Ed ella (il suo lieve gesto mi pesa
ne la memoria) da la fronte dolente al petto


sonoro ed arrossian come soavi
fanciulle ed avean chiome

lunghe, i coppieri d'Alessandro sesto
tenean coppe d'argento
entro la man levata, e con un gesto
d'umiltà grave e lento

offeríano a le molte inclite dame
le rose ed i rinfreschi.
Allettati correan pieni di brame
i veltri barbareschi

traendo fra le zampe il guinzal d'oro
che mal ressero i paggi.
Gioivano le dame inclite in coro
ai gran salti selvaggi,

e disperdendo in copia su 'l lucente
musaico a piene mani
cibi e rose, blandían trepidamente
i belli atroci cani.

Allor Giulia Farnese, un suo lascivo
balen da li occhi fuora
mettendo (a 'l riso il corpo agile e vivo
fremea come sonora

cetra), il sen nudo porse; e in tra le poppe
bianche rotonde e dure
un fante a lei da le papali coppe
versò le confetture.

Or non cosí, mie belle, o voi che tanto
amai e celebrai
e incoronai del mio lucido canto
ne' boschi e ne' rosai,

or non cosí venite al mio festino
ove l'Amor v'aduna?

II.

Cosí chiamai l'amata in nona rima,
sotto il grande balcon di tiburtino
ov'han lo scudo i Guttadàuro-Alima
con gocce d'oro in campo oltremarino.
Dormía la villa ne 'l silenzio; in cima
a li aranci de 'l nobile guardino
aprivano i paoni le gemmanti
piume verso la luce, e de' lor canti
striduli salutavano il mattino.

Ella apparve. - Buon dí, messer cantore! -
disse ridendo con gentile volto.
- Non questo è il tempo gaio de 'l pascore,
ma voi siete di ver loquace molto.
Or seguite a trovar rime d'amore,
ché con benigno orecchio, ecco, v'ascolto. -
Io le dissi: - Madonna, io son già fioco.
Or voi di sí salutevole loco
scendete a me che son di pene avvolto! -

Ella tacque; ed il capo inchinò mite:
ne li occhi le ridea novo pensiere.
Tutta quanta di porpora una vite
saliva da l'inferïor verziere,
e le bacchiche foglie colorite
mesceansi con le rose a le ringhiere.
Avean piegato un dí li aspri sermenti
a la copia de' grappoli rubenti
che il padre Autunno infranse nel bicchiere.

Ella disse ridendo: - Io pongo un patto,
vago sire, a la mia dedizïone.
- Il vago sire - io dissi - accoglie al tratto
quel ch'Isaotta Guttadàuro pone. -
Ed ella: - Quando un sol grappolo intatto
ne' vigneti che bagna il Latamone

Il verde paradiso due riviere
cingeano, come braccia d'un amante.
Il suol crescea meravigliose piante,
nudrito da le pingui alluvïoni.
Quivi tennero lieti eptameroni
il dotto Astíoco e Brisenna cortese.

La bontà che venía da' lor costumi
era sí dolce, o Amore, e sí profonda
che il suolo si copría di rose e i fiumi
volgean oro smeraldi ambra ne l'onda;
e, come ne la Tavola Ritonda,
ragionavano i tronchi e le fontane;
potea la Luna su le menti umane,
munían gl'incanti ai prodi elmo e pavese.

Su la cima del bel colle d'Orlando
sorgevano i palagi, aperti a 'l giorno.
Diecimila colonne scintillando
ricorrevan per l'alte moli a torno.
Vi saliva una scala, in doppio corno,
ampia, coperta di fanti e d'arcieri,
di messi, di valletti e di levrieri,
di dame e di donzelle in ricco arnese.

Convenivan le donne de' poeti
ivi, in un luogo detto Galaora;
e sedeano in su' fulgidi tappeti,
ove li amor di Cefalo e d'Aurora,
illustri opere d'ago, uscieno fuora
qua e là di tra le vesti ricoprenti.
Sedean le donne, in bei componimenti
di grazia, ad ascoltar la serventese.

Oh fontana d'Elai, per molti getti
ricadente ne 'l vaso di porfíro,
che dieci ninfe e dieci satiretti
reggean, piegati ad una danza, in giro!
Immergeavi una coppa di zaffiro

tra le viole, ne 'l chiarore blando!

BALLATA V.

Riprendemmo la via, con i ginnetti
ch'eran piú vivi e piú giocondi. Al corso
anelavano; e il morso
tingean di calda bava, scalpitando.

Ora la selva, innanzi a li occhi nostri,
misteriosa e grave,
ergeva i tronchi e i rami a 'l ciel maggiori;
e, lunga componendo ala di chiostri,
volgeasi in ampia nave,
qual dòmo, o spaziava in alti fòri.
Avea cupi romori.
Ella disse: - Non dunque tal sentiere
mena a 'l loco soave
u'la Bella, aspettando il Cavaliere,
dorme sepolta in tra le chiome flave
che crebbero per mille primavere? -
Ond'io sorrisi. Ed ella: - Or quali amori
sogna colei ne l'animo, aspettando? -

BALLATA VI.

- Non sogna - io dissi. Ed ella: - Io so che un giorno
venne il sire a fugar da que' cari occhi
l'incanto, ed a ginocchi
baciò la rara mano, supplicando.

Ei parlò di tesori e di castella,
di terre ismisurate,
d'omaggi e di diletti senza nome.
Lucidamente arrisegli la Bella,
dicendo: “ Voi mi fate
“onor grande, o mio sire. Ma pur, come
“sorga l'alba, le some
“voi leverete, a ritrovare l'orme.

BALLATA XII.

Era la fonte in una lene altura
coronata d'opachi elci e di mirti.
Rompevano li spirti
de la fonte tra' sassi palpitando.

Non mai dolce suonò bistonia lira
come le fronde a 'l vento
su la natività de le bell'acque;
né fu sí chiaro il talamo d'Argira
e né pur l'arïento
u' con la ninfa, poi che a Giove piacque,
Ermafrodito giacque.
Partíasi l'onda in rivoli tra' massi
de 'l clivo, in piú di cento
rivoli che brillavano, pe' sassi
fini e politi, con varïamento
di carbonchi topazi e crisoprassi.
Attoniti mirammo; ed in noi nacque
desío di bere... - O fonte, io t'inghirlando!

BALLATA XIII.

Io t'inghirlando, o fonte ove quel giorno
parvemi bere in coppa jacintea
il sangue d'una dea,
che a 'l cuore mi fluí letificando! -

Scendemmo il piano margine; e commise
in sí dolce atto Isotta
il fior de la sua bocca ad una vena
e sí fresco e vermiglio e vivo rise
quel fiore in tra la rotta
onda e s'aperse, ch'io ritenni a pena
un grido e in su la piena
bocca piu baci e piú, cupido, impressi.
Ella rideva...Oh lotta
di baci che cadean sonanti e spessi

VI.  BALLATA E SESTINA DI COMMIATO

BALLATA

Ora è muto il selvaggio paradiso
già costumato a la tua signoria.
Dov'é la voce onde l'anima mia
e la selva tremavan d'improvviso?

Pavidi, in tra la selva umida e fresca,
correano a quella voce i cavriuoli.
Splendean miti ed umani
li occhi a l'ombra in guardarti; ed i figliuoli,
alti e biondetti, sen veníano a l'esca
de 'l cibo, come a 'l pan giovini cani.
Forte ridevi tu quando a le mani
i lor teneri denti
ti mordevan con piani incitamenti.
Tra le fronde eran queti li usignuoli
ed i frassini intenti
ascoltavan salire il dolce riso.

SESTINA

Quando piú ne' profondi orti le rose
aulivano per l'aria de la sera
e mesceasi a quel lor tepido fiato
sapor di miele da' pomari d'oro,
venne Isaotta un tempo a le mie braccia,
candida e mite quale a maggio luna.

Non sí dolce chinò li occhi la Luna
su 'l suo vago sopito in tra le rose
Endimïon, tendendo ambo le braccia,
(splendeva il Latmo a la vermiglia sera,
cui bagnano i ruscelli in vene d'oro:
sol de' veltri s'udia l'ansante fiato)


ad Amor tirannello.

Vien con gentile ardire
questo de' Vènti figlio,
come un giovine sire
torna da lungo esiglio.
Leva piano un bisbiglio
da presso ogni arboscello.

I cespi rifiorenti
stretta gli fan la via.
Forse, con occhi intenti,
una ninfa lo spia.
Suonano in compagnia
l'arbore ed il ruscello.

Vien con sicuro passo
il banditor per li orti:
gli tintinna il turcasso
in su li òmeri forti.
E pur da' tronchi morti
rompe qualche ramello.

Udite. Il banditore
gitta suoi lieti bandi.
O messaggio d'Amore,
April, che ne comandi?
- Ogni bella inghirlandi
un amador novello. -

CORO DEI GIOVINI

Ogni bella inghirlandi
de le braccia il suo vago.
Ne l'ombra il verde Mago
crea giacigli alti e grandi.

CORO DELLE GIOVANI

Scendiam su 'l dolce lido

CORO II

Ride, curvo in ascolto,
il satirel rossigno.

CORO I

Venite, o belle, a 'l clivo
cui l'acqua esile riga.
Me' che vivuola o giga
canta ogni snello rivo.

CORO II

Me' che giga o vivuola
canta ogni rivo snello;
ma lesto il satirello
arma la sua tagliuola.

CORO I

E' vano il diniegare,
ché dentro arde gran sete.

CORO II

Vano è tender la rete
a chi non vuol calare.

CORO I

Qual s'accende a l'aurora
una rosa non tocca,
tal l'aulorosa bocca
a 'l desir che l'infiora.

CORO II

Qual de la gemma oscura
la verde foglia brilla,
tale da la pupilla

voci che il vespro aduna.

CORO DELLE GIOVANI

I vaghi de la Luna
fan lai ne l'aria mite.

ALTEA, cantando

Io l'amo. Agili e fieri
e liberi, i suoi canti
balzaronmi d'innanti
qual torma di levrieri.

Pe' tuoi di foco, o Amore,
segreti laberinti
il mio trionfatore
portò miei spirti avvinti.
Un serto di giacinti
son que' suoi ricci neri.

Quando gli fan carezza
l'aure a 'l vivace serto,
scopresi la bianchezza
de 'l collo bianco ed erto.
Ben tu l'avesti certo,
Giove, fra' tuoi coppieri.

O Giove, da le cene
tue pingui egli discese.
Piacquergli le serene
valli del mio paese.
Io languiva; ei mi tese
la coppa de' piaceri.

VANNOZZO, cantando

Sgorga da labbro umano
questa voce, in su 'l mondo?
M'inebria il cuor profondo,

IPPOLITO, cantando

O Amor, vile tiranno,
tu non sei sazio mai!
Morte, se chiamerai,
con gioia i servi udranno.

Vider già ne' dolenti
sogni tua signoria,
videro i fiumi lenti
ove sotto l'ombria
taciti, in compagnia,
al fin discenderanno.

Quivi stagna tra molta
erba l'acqua del Lete.
Chi ne beve una volta,
poi non avrà piú sete.
Alti, ne la quiete,
i papaveri stanno.

La cicuta e il solatro
e il giusquïamo bianco
metton ne l'ombra un atro
fiore, un fior tardo e stanco.
Quivi i servi, in su 'l fianco
piagato, giaceranno.

CORO DEI GIOVINI

Altri boschi, altri fiumi,
altri fiori, altri canti!

CORO DELLE GIOVANI

Nuotan li spirti amanti
ne' fiumi de' profumi.

CORO I

O belle, o belle, è l'ora!


e, poi che ancor te sognano presente,
o Primavera Isotta, dea soave,
ridon beati ne 'l profondo inganno.

TRIONFO D'ISAOTTA
Alla maniera di Lorenzo de' Medici

Torna in fior di giovinezza
Isaotta Blanzesmano.
Dice: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Torna a questi orti novelli,
con un bel passo di dia.
Vanno i piè candidi e snelli
su per la giuncata via.
Fanno l'Ore compagnia
a la bionda Blanzesmano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Eran l'Ore in gran mestizia
pria che tu, Sole, apparissi.
Miste danzano in letizia,
ed in su' capei prolissi
han ghirlanda di narcissi.
Portan rossi gigli in mano.
Dicon: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -

Segue Zefiro, da 'l collo
puro, da la rosea gota,
bello quale il cinzio Apollo
in fra' lauri d'Eürota
od il Latmio in selva ignota.
Versa rose da la mano.
Dice: - Tutto al mondo è vano.
Ne l'amore ogni dolcezza! -


che i sovrani maestri incantatori
non fecero giammai piú belle prove.
Quale il vin da le coppe auree di Giove,
tal da que' cerchi il suon trabocca fuori.

Ma come a l'imo de le fumiganti
coppe è la sacra ebrietà che accesa
leva da' cuor la fiamma de la gioia,

cosí ne 'l verso estremo i vari incanti
si compiono quieti, onde sorpresa
l'anima par che di dolcezza muoia.

III.

Re Poro, ch'ebbe spiriti assai crudi,
(com'è ne 'l Novellino) ad un mangiare
udendo su le mense ceterare
un musico in ricerche e vaghi ludi,

uso a 'l tinnir de li archi e de li scudi,
fe' le corde a la cetera tagliare.
- Meglio - disse - è tagliare che sviare,
ché a dolce suon si perdon le vertudi. -

Anche Antígono, quando in mezzo a un coro
vide Alessandro, diè sentenza eguale,
gridandogli - Non hai vergogna alcuna? -

Io, contra il buono Antígono e il re Poro,
amo in questa mia lieta opra fatale
perdere le vertudi ad una ad una.

IV.

Giova, o amico, ne l'anima profonda
meditare le dubbie sorti umane,
piangere il tempo,, ed oscurare di vane
melancolíe la dea Terra feconda?


tal per te sola, o donna, per te, per te sola da tempo
celasi ne' vergini regni un divin potere.

L'hanno in custodia i Saggi. A l'ombra d'un'arbore immensa,
candidi ne la veste, placidi come iddii,

vivono. Un'aria calda li nutre. Su l'erbe d'in torno
rapidi i leopardi piegano i dorsi gai.

Il mormorio de' fonti, il susurro de' rami, il sommesso
fremito de le belve mescesi a le parole.

Oh fecondati regni dal sacro abbraccio de' fiumi,
beneficata specie dal providente cielo

ove d'un'alleanza de gli astri principio di vita
sorge ch'effuso nelle solitudini

crea da la sorda pietra, crea pure da l'arido loto,
crea pur dal ferro spirti innumerabili!

Ecco sentieri d'ombre, profondi, cui versan la luce
fiori d'ardente vita, esseri non mortali;

templi d'ignoti numi, alla gioja del dí bene aperti
sopra colonne bianche qual pura neve,

armoniosi, eterni, ove l'aquile fanno gran cerchi,
ove sospira il caldo vento natío del mare;

chiostre di colli emerse da vasti golfi lunati,
ove talor ne l'aria passan le forme dive,

forme di tal corusca virtú penetrate che alcuna
d'occhi mortali forza non le sostiene,

simili a te nel riso, che incedon su 'l mare con lento
passo e guardando a l'alto cantano dolci cori.

Cantano: - Or chi da l'alto precipita a' campi del mare,
rapido com'aquila, splendido come fuoco?


come allor che se 'l primo tremar de le vergini stelle
per i quieti rami cantano i rosignuoli.

Oh pura in me, su 'l vespro, piovente dolcezza de' sogni!
Muta, la lunga scala ella saliva meco.

Tutta nel cor segreto io sentiami languire e tremare
l'anima, al premer lieve de la diletta mano.

Ma, come fummo al sommo, la bocca ansante m'offerse
ella: feriva il sole quel pallor suo di neve.

Alto d'amor susurro correa lungo i bòssoli foschi;
dardi rompean la cava tènebra tutti d'oro,

quasi che d'odorato peplo e di veli ondeggianti
bella ivi errasse Cintia dietro vestigia note.

II.

Ben tale dea presente, cui nomano Luna i mortali,
empie d'un amoroso spirito i cari luoghi.

Ben questi elesse talami verdi e profondi la dea
e gli amor suoi segreti, paga d'angusto impero.

Piacquesi de' lavacri, che artefice umano compose,
ella obliando i chiari fonti, gli azzurri fiumi:

l'agile per le selve d'Etolia corrente Acheloo,
truce figliuol di Teti, vago di Dejanira;

l'Axïo da la riva lunata per ove muggendo
candida l'ecatombe venne con passo grave;

ed il Penèo sonoro che vide di Dafne le membra
torcersi verdi e snelle, ripalpitare in rami;


Voi salirete, o donna, cosí l'altura ove al sommo
s'apre, fiammando forte, quella mia speme nuova.

S'apre solinga in cima, qual rosa che imperlano dolci
lacrime, che il piú caldo sangue del petto irrora.

Risplenderanvi sotto il piè nel cammino le stelle;
racconteran le stelle la maraviglia ai cieli.

Voi ne la gloria, voi nel riso d'amore salendo,
giugnere udrete il canto: “Ella, ella sola è gioja.

Entro le man sue reca piú luce che non l'Ora prima;
fatta ella tutta quanta è di sovrane cose”.

ELEVAZIONE

Su, Elegia t'eleva! La notte è propizia ai dolenti.
Piangi la donna nostra, canta le lodi sue.

Giova, ne l'alta notte, con lacrime lei richiamare?
Tutta nel verso vano l'anima mia si sface.

Ben, forse, lei ne l'intimo petto l'angoscia martira;
lei riguardante cieli strani il desio pur tiene.

Lei, forse, tiene il grato ricordo, se vago la luna
brivido le suscita ne la solitudine;

piú vivo ardor per me le comprende il pensiero, se a torno
languidi favellano gli alberi in colloquii.

Ahi, non indarno un tempo le cose parlavano amore!
Ma di gioire urgeva brama piú forte noi

ebri di tal dolcezza cui gli astri effondean pe 'l raggiato
etere, cui limpida piacqueci di bevere.


VILLA CHIGI

I.

Sempre nelli occhi, sempre, avrò quella vista. Oh silente
pallida ignuda selva, non obliata mai!

Noi discendemmo piano, seguendo il famiglio, una scala
umida, angusta, dove l'ombra parea di gelo.

Ella era innanzi. A tratti, sostava. Mal certa su i gradi
ripidi, contro il muro ella tenea la mano.

Io la guardai. La mano bianchissima parvemi esangue,
parvemi cosa morta. Morta la cara mano

che tanti al capo sogni di gloria mi cinse, che tanti
sparsemi di dolcezza brividi ne le vene!

Soli restammo. Un fonte gemea roco a piè d'una loggia:
alto salía l'antico feudo chigiano al cielo.

Erano sparsi fumi pe 'l ciel come candidi velli.
Entro correavi un riso tenue d'oro; e i nudi

vertici della selva parean vaporare in quell'oro;
eran le felci al sommo èsili fiamme d'oro.

Ella tacea, guardando. Ma, tutta nelli occhi, la grave
anima dolorosa queste dicea parole:

- Dunque nell'alta selva, che udisti cantar su 'l mio capo,
seppellirai tu, senza pianto, il tuo grande amore?

Intenderò io dunque nel dolce silenzio, che amammo,
la verità crudele? Dunque per questo, o amico


e su ‘l composto suolo di foglie morte, su quella
tomba d'autunni, l'ombre camminavano.

Cenere, fumo ed ombra parean quivi segnar la gran legge.
- Devono, come i corpi, come le foglie, come

tutto, le pure cose dell'anima sfarsi, marcire;
devono i sogni sciogliersi in putredine.

Devi tu, uomo, sempre, di ciò che ti diede l'ebrezza
assaporare torpido la nausea.

Nulla dal fato è immune. Nel corpo e nell'anima, tutto
tutto, morendo, devesi corrompere. -

Or chi di noi soffriva piú forte? Ella, ella mi amava;
vivere al men sentiva, d'una tremenda vita,

entro il cuor suo la fiamma: la fiamma anche pura e raggiante!
Io non l'amava. Il cuore gonfio parea d'un tetro

lezzo; non altro senso avea che d'un tedio infinito
l'anima ottusa. Oh come, donna, t'invidiai!

VI.

Ma trasalimmo entrambi, udendo sonare una scure.
Colpi iterati, súbito, echeggiarono.

Aspra nel gran silenzio fería l'invisibile scure:
non il ferito tronco udíasi gemere.

Ella, ella, a un tratto, come ferita, ruppe in singhiozzi:
ruppe ella in disperate lacrime; ed io la vidi

nel mio pensiero, quasi nel guizzo d'un lampo, io la vidi
úmile sanguinare, úmile boccheggiare,


 
Fonte:
www.istituti.vivoscuola.it
stanco segnò la croce: - indizi d'interna preghiera
a la sua bocca pallida salirono.

Quale fu il vóto? Invase pur me, in quel lume, un fervore
súbito; e pur fervido sorse il mio vóto al cielo.

- Ave, Maria. Voi fate, o Madre misericorde,
ch'ella non m'ami! Fate ch'ella non m'ami, o ch'ella

muoia! Togliete il truce amore a l'anima sua,
misericorde Madre, e a me il supplizio!

IN UN MATTINO DI PRIMAVERA

Era il mattino. Un grave sopore teneva la donna
misera, su 'l guanciale pallido men di lei.

Fredda, composta, immota, parea profondata nel sonno
ultimo, ne la pace ultima, su la bara.

Alito non s'udiva. Parea che le labbra premute
fossero da la Morte, tanto eran chiuse e pure.

- Non ti destare, non ti destare - pregai nel segreto
cuore - se vuoi ch'io t'ami! Sieno per sempre chiuse

queste tue labbra; e ancora, ancora saranno divine.
Ritroverò per queste labbra i sovrani baci.

Ritroverò la mia piú lenta carezza per questa
fronte che amai, per queste gote che amai, per queste

pàlpebre al fin su 'l tuo dolce insostenibile sguardo
chiuse; e per queste chiuse labbra i sovrani baci!

IL MERIGGIO

Era un silenzio orrendo, lugúbre: il piú cupo che in terra
sia stato mai. Le tombe tutte pareano aperte,


sotto quei cieli. Nulla viveva. Nessuna apparenza
era terrestre, in quella luce infinita eguale.

Entro la sua gran chiostra di boschi il lago raggiava
sacro, aspettando la promessa vittima.

Ben eri tu, o Sole, a mezzo dei cieli alto, quando
io la promisi! Tutto era silenzio.

LIBRO TERZO

LA SERA MISTICA

Sul Tevere, all'Albero Bello

Anima, non è questa la pia solitudine amica,
l'alta che noi cercammo riva letèa d'oblio?

Regna il Silenzio i luoghi. Nel vespro il Tevere splende:
l'onda perenne ei reca de la sua pace al mare.

Guardano il padre fiume le querci immote, ch'ei nutre,
spiriti ne la dura còrtice meditanti;

esseri paghi: bevono l'acqua con l'ime radici,
godon raccorre i soffi tiepidi ne le chiome.

Dicono a me le querci: - Noi molti vedemmo dolori,
truci dolori umani, piangere lungo il fiume.

Sorgere udimmo al cielo gridi ultimi di morituri.
Ebri di morte, quelli chiesero ai gorghi oblio.

Anima stanca, vieni. Benefica è l'ombra. Ne l'ombra
è la saggezza. Vieni. Solo ne l'ombra è pace.

ieni. A noi caro è l'uomo pensoso. Qui Claudio si piacque
mescere ai grandi nostri pensieri i suoi. -


Dicon le querci. A specchio del fiume rosseggia, tra 'l bosco
memore, la deserta casa del Lorenese.

Claudio, pittor sereno, voi forse udite? Anche forse
abita il vostro dolce spirto la dolce casa?

Forse lo sguardo esplora ne l'umido ciel le fuggenti
nubi che in su le tele nobilitò la mano?

O, testimone eterno, contempla il fiume che passa?
Tacito passa il fiume, tacito come il Lete.

Regna il silenzio. E' questa la pia solitudine amica,
l'alta che noi cercammo riva letèa d'oblío?

Suon di campane i vènti le recano, unica voce.
Questa da te le giunge unica voce, o Roma.

- Ave. La pace è in alto. Nel cuore de l'umile scende.
Anima triste, prega. Dà la preghiera oblío. -

Alzan di lungi fiamma, come ardui cèrei, le torri.
- Ave - risponde il vinto umiliato cuore.

IN SAN PIETRO

Per la profonda nave, che tanta ne' secoli accolse
anima umana e tanta nube serrò d'aroma,

svolgesi il grave coro da bocche invisibili. Un rombo
l'organo a tratti caccia da la sua selva ascosa.

Cupo ne l'ombra il rombo propagasi giú pe' sepolcri:
pajon tremar da l'imo le portentose moli.

Vegliano al sommo i magni pontefici benedicendo:
stanno a le ferree porte gli angeli ed i leoni.

Come solenne il canto! Da l'onda eguale una voce
levasi, con un alto melodioso grido.


Piange la voce, e al mondo rivela un divino dolore.
Sgorgan le note, calde, quasi lacrime.

Piange la voce, sola. Non ode nel gelido sasso
il Palestrina? Sola piange la voce; e al mondo

narra un divin dolore. Non ode il sepolto? Non balza
l'anima sua raggiante su l'ideali cime,

quasi colomba alzata a vol su pinnacoli d'oro?
Piange la voce, sola, nel silenzio.

IN SAN PIETRO

L'absida è nel mistero raccolta. Un'ombra rossastra
occupa il vano. Al fondo luce il metallo, enorme.

Sorgono scintillando per l'ombra le quattro colonne
che nel pagano bronzo torse il Bernini a spire.

Sopra la croce il grande miracolo pende, che in terra
offre a la faticosa anima umana un cielo.

Lampade tutte d'oro in torno alla duplice scala
ardono, dove il sesto Pio reclinato prega.

Muti, il mistero e l'ombra s'addensano in velo di morte.
L'ora si perde. Un passo va lontanando: tace.

Ma di repente il Sole, fierissimo violatore,
(oh trionfate nubi pe 'l ceruleo

giugno!) fendendo l'ombra dal culmine, investe la fredda
tomba ove Paol terzo, calvo e barbato, siede.

Sotto il suo bacio, come un tempo nel letto del Borgia,
rosea nel marmo vive Giulia Farnese ignuda.


LE ERME
Villa Medici

Erme custodi, o in terra solinghi iddii taciturni,
vigili meditanti anime ne la pietra,

voi custodite ancora l'antica memoria, voi siete
memori ancora, ne la solitudine!

Altri l'oblío già tiene. A quale di voi ella cinse
ilare il collo, tra li acanti floridi?

IL PETTINE
Villa Medici: Dal Belvedere

Poi che su 'l Monte Mario si spengono i fuochi del Sole,
vengon le nubi in torme lente dal Palatino.

Mite le aduna il soffio de' vènti e le tragge a l'occaso,
ove i cipressi in contro figgon le acute cime.

Mordono allor le cime de' neri cipressi le nubi
che scorron come in lungo pettine chiome d'oro.

DAL MONTE PINCIO

Sorge lavato il monte, fragrante di fresca verdura,
trepido; e il ciel di maggio ride a la rotta nube.

Pace ne l'aria viene dal bel lacrimevole riso,
cui vaga pur d'altezza l'anima nostra attinge,

cui balenando in cima le cupole attingono e gli alti
alberi che gran serto fanno a' tuoi colli, o Roma.

Mite risplendi, o Roma. Cerulea sotto l'azzurro,
tutta ravvolta in velo tenue d'oro, giaci.

Sopra correa la nube, con tuono lungo echeggiante;
ecco, ed il ciel di maggio ride a la rotta nube.


Tal, dopo sí gran guerra, dopo tanta notte funesta,
dopo l'amaro tedio, dopo il lamento vile,

(lungi per sempre, lungi, o sogni, da l'anima nostra:
sogni, che troppo un giorno perseguitammo in vano!)

l'anima, liberata di tutte procelle, respira;
non il ricordo l'ange, non il desío l'acceca,

piú non la morde cura d'antichi amori o novelli,
ansia non piú l'affanna d'altri ignorati beni.

L'Anima sta: tranquilla rispecchia la vita e raccoglie
entro il suo vasto cerchio l'anima de le cose.

LIBRO QUARTO

FELICEM NIOBEN!

Triste e pensoso, l'ombre cadendo, su 'l getico lido
sta Publio Ovidio. Innanzi urla il feroce mare.

Chino biancheggia il capo cui cinser gli Amori corone:
pendon su lui la grande ira d'Augusto e il fato

ferreo, che la lunga querela non odono. Il pianto
inutilmente riga le tomitane arene.

Inutilmente, ancora, da Cesare nume benigno
l'esule attende un ramo de la pacata oliva.

Già sopra sta l'inerte vecchiezza; la ruga senile
era già il volto. Attende egli la morte, e chiama.

Flebile il carme sale per cieli immiti ove i dardi
fischiano che di lungi scaglia il bracato Geta.

- Niobe felice, se ben tante vide sciagure;
che, fatta pietra, il senso perse del male. E voi,

voi pur felici, cui le bocche chiamanti il fratello

chiuse di novo cortice il pioppo. Io sono,

io son colui che mai sarà confinato in un tronco,
io son colui che in vano essere pietra vuole. -

Cadono l'ombre, s'addensano gelide; il mare
ulula; il vento reca strepito d'armi. Oh Roma,

Roma! Oh su' colli piniferi aureo tepente
vespero e ne' rigati orti da l'acque nove

murmure che sopiva la cura e lungh'essi gli insigni
portici riso de l'amica giovine!

AVE, ROMA

Esule anch'io, pensoso di te, di te sempre pensoso,
Roma, non fra gli intonsi barbari Ovidio sono;

né mi colpí lo sdegno di Cesare, ma la funesta
dea che la tua campagna orrida e sacra tiene.

Mi visitò nel sonno la livida Febbre; e il mortale
tossico, me misero! tutto il mio sangue tiene.

Lugubre è il mio perire, se ben non sia questo il feroce
Ponto e non la scitica freccia nel cuore io tema.

Sotto sereni cieli piú duro è l'esilio a tal cuore
cui piú nessuna cosa che amò rimane.

Stanca è la carne e spira già l'anima, in questa incompresa
pace. Oh lasciate un'Ombra verso la morte andare!

Tutto è sereno. Il flutto è docile. Incurvasi il lido
come una lira, dove sorgono emerocàli

simili agli asfodeli che illustrano i clivi de l'Ade,
candidi. Ma non questa pace il morente chiede.


Chiede il silenzio immenso, eterno, che sta su l'immoto
fascino del deserto onde tu sorgi, o Roma.

Quale alto monte, quale oceano infinito, qual somma
tenebra vince tanta solitudine?

Quivi la morte sia. Ti vegga da lungi piú grande
d'ogni più grande cosa il morituro e - Ave -

dica - o tu, Roma, tu dolce e tremenda! Ave, o Roma
unica, o dell'anima nostra unica patria!

VESTIGIA

E tu ritorni, o Vita? Ritorni a me con un riso
dubio, ed in mano fronde trascolorate rechi.

E tu ritorni, o Amore? Obliquo ritorni, ed in mano
rechi l'antica tazza, piena d'un falso vino.

Dice la Vita: - Guardi tu in dietro gli antichi vestigi?
Sonvi piú dolci frutti, altri ignorati beni.

Dice l'Amore: - Bevi. - Ripete egli antiche parole.
- Ecco la nova ebrezza, lo sconosciuto bene. -

L'Anima dice: - Vane lusinghe. Io chiudo un supremo
sogno. Da me il mio sogno non uscirà già mai. -

Pure, si volge; guarda gli antichi vestigi. Oh silente
pallida ignuda selva non obliata mai!

NELLA CERTOSA DI SAN MARTINO
In Napoli

Vita, negli occhi miei, negli occhi di quella che a fianco
m'era e credea sé tutta cinta de' miei pensieri,


sé nel mio sogno, ed ebri ancora i miei sensi, e la mia
anima con intatti vincoli trarre seco;

negli occhi nostri, o Vita, le imagini tue dileguando
come serenamente fluttuavano!

Eran su l'alte mura i tralci (pendevano i neri
grappoli da la canna come da un tirso d'oro)

e pe' leggeri intrichi pampinei l'isole e i golfi
s'intravedeano splendere: Puteoli

cerula su 'l lunato azzurro, ove l'Ibi migrante
agile tra le corna scese de' bianchi buoi,

Baja voluttuosa, e il tumulo ingente che Enea
diede a Miseno, e l'alta Cuma che udí gli ambigui

carmi fatali, e il lido lacustre che l'orme sostenne
d'Ercole dietro il gregge pingue di Gerione:

plaghe da gli Immortali dilette, ove (come in profondi
talami cui piacciansi premere amanti umani)

gli incliti corpi ambrosii giacendo lasciarono impronte
sacre, vestigi eterni de la Bellezza prima.

Quella che al fianco m'era - Non senti - mi disse - la nostra
felicità salire? Tutte le cose belle

credo io aver nel cuore. - Mi disse languendo la donna
tenera. Ne la bocca le rifioriano i baci.

Io che provai? Mi stava su 'l cuore un affanno ignorato.
Tutto pareami quivi solitudine,

vacuità, tristezza, immobile tedio, nel muto
lume, sotto i muti chiari lontani cieli.

Poi, ne le vaste sale deserte, vedemmo le inani
spoglie dei re, le vesti, l'armi, i vessilli, i cocchi


d'oro, il vascel vermiglio che tenne le pompe del terzo
Carlo; e il tuo cupo rombo parvemi udire, o Fato.

Parvemi; ma più forte salía verso l'ardua loggia,
ove tremammo, il rombo de la città che tutta

quanta ferveva al sole, tutta quanta aperta in un riso,
in un possente riso inestinguibile,

illuminando i cieli che in lei tendevano l'arco,
avida con rosee braccia abbracciando il mare.

Mise la donna un grido, stringendosi a me, con un lungo
brivido, come presa di vertigine.

Poi, reclinata il volto bianchissimo, parvemi in atto
di voluttà profonda bere la dolce luce.

- Oh, tutti i sogni miei per questo! - dicea lenta, quasi
ebra. - Infinito e pure intimo ne l'anima

come un divin segreto da te rivelato a me sola! -
Tacque; ed ancor la bocca parve bevesse luce.

Io che provai? Mi stava su 'l cuore un affanno ignorato.
L'anima ansando attese il rapimento in vano.

Pur intendea confuse parole: - Quale ombra ti copre?
Quale altro oscuro mondo occupa gli occhi tuoi?

Quello che in te contempli ha forse orizzonti piú vasti?
Dentro, piú lieti s'aprono spettacoli?

Tu possederlo credi! Non è in tal possesso la gioja.
Meglio è nel Tutto l'anima disperdere.

Rompi il tuo cerchio al fine! Guardando la donna che t'ama,
lascia il supremo sogno al cielo effondersi! -

- Non uscirà già mai da me - io pensava - il mio sogno,
poi che non basta il cielo, poi che non basta il mondo


a contenerlo: vince d'altezza ogni cosa creata.
Pur questa immensa forza non mi riempie il cuore! -

E, reclinando il capo, non altro sentii che l'interna
vacuità fra il rombo de la tua fuga, o Vita.

Sotto raggiava il mare pacato nel fervido amplesso;
e la Montagna in contro, armoniosa al giorno

quale una forma escita di mano d'artefice puro,
con incessante palpito da l'igneo

grembo esprimea ne l'aria le sue multiformi chimere
che lente il cielo sommo conquistavano.

Come divino allora mi parve il silenzio del chiostro
ove scendemmo! E un'Ombra muta scendea con noi.

Alto quadrato eretto su belle colonne polite:
era il tuo, Morte, candido vestibolo.

NEL BOSCO
Capodimonte

Segue i miei passi l'Ombra; mi segue dovunque; mi guarda.
Occhi non ha sí dolci quella che a fianco viene.

Ah, perché mai risorgi tu da l'oblio? Perché mai
tu d'improvviso mi riprendi l'anima?

Qui noi passammo forse, un giorno, in quest'ora? Gli illusi
occhi, l'illusa anima veggono i cari luoghi.

Simili a questi i luoghi che amammo, ove amammo la vita,
ove la morte parveci una favola.

Simili innanzi a noi s'aprivan sentieri profondi.
Alta venía ridendo ella fra gli alti steli.


L'ombra de' bei capegli oscura battea come un'ala
su la sua fronte; i lunghi occhi parean piú neri.

Freschi salían di sotto il breve suo passo gli effluvi:
molli pioveano albori da le vocali cime.

- Ella, ella sola è gioja - cantava il mio cuor dietro l'orme
labili. Il cuor cantava: - Ella, ella sola è gioja.

Entro le man sue reca piú luce che non l'Ora prima;
fatta ella tutta quanta è di sovrane cose. -

NEL BOSCO
Capodimonte

Ride l'autunno al novo amore. Dal ciel pluvioso
ride un suo vago riso lacrimevole

che, trepidando i rami nel lume, la tua pel velato
aere imagine suscita, o primavera.

Oh primavera, tutta la selva correano i tuoi spirti,
quando io condussi l'Altra verso l'atroce scure!

CONGEDO

Libro, tu Roma nostra vedrai. Ti manda a la grande
Madre colui che molto l'ama, che sempre l'ama.

Recale tu il dolente amore e il desío che distrugge
l'esule, e il van rimpianto, ahi, del perduto bene.

Io non tentai nel verso esprimere l'alta bellezza.
Troppo ella è grande e troppo umile è il verso mio.

Sol chiusi in te, o Libro, de l'anima mia qualche parte.
Va, senza gioja. Quasi cenere fredda rechi!

Va, dunque. Roma nostra vedrai. La vedrai da' suoi colli,
dal Quirinale fulgida al Gianicolo,


da l'Aventino al Pincio piú fulgida ancor ne l'estremo
vespero, miracolo sommo, irraggiare i cieli.

Tal la vedrai qual gli occhi la videro miei, qual sempre
ne l'ansiosa notte l'anima mia la vede.

Nulla è piú grande e sacro. Ha in sé la luce d'un astro.
Non i suoi cieli irraggia soli ma il mondo Roma.