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Salvatore
Di Giacomo

I

SUNETTE ANTICHE



PE LA VIA

Nu cane sperzo pe mmiezo Tuleto
(ve pararrà n’ esaggerazzione)
m’ ha fatto tale e tanta mpressione
ca manco nzuonno stongo cchiù cuieto.

Lu malumore e la cumpassione
me fanno sbarià quanno me sceto;
me pare tanno de vederme arreto
stu cane c’ ha perduto lu patrone.

Chella sera chiuveva. Arreparato
stev’ isso, sotta sott’ a nu barcone,
sicco, nfuso, abbeluto e appaurato.

Pecché me so’ fermato a lu puntone?
Pecché a guardarlo me songo vutato?…
Vuie vedite!… Che brutta mpressione!


2 DE NUVEMBRE

I’ nun saccio pecché, quanno murette
màmmema bella e, comm’ a nu stunato,
sulo, a tenerla mente io rummanette,
appede de lu lietto addenucchiato;

tanno, io nun saccio pecché, nun chiagnette,
guardannola accussì, zitto, ncantato,
comm’ a na vota ch’ essa s’ addurmette,
mentr’ io vicino lle steva assettato…

Mo ca fa n’ anno ca ll’ aggio perduta,
mo, mo ca nzuonno me sta cumparenno,
mo la necessità nn’ aggio sentuta…

E mo mme vene a chiàgnere, e chiagnenno
sceto sti mmura ca ll’ hanno saputa,
nfonno sti ccarte addó stongo screvenno…
DA LI FFENESTE

Aggio appurato ca se chiamma Rosa,
essa ha saputo ca me chiammo Ndrea…
Che faccio mo? Lle dico o no quaccosa?
Veco ca cierti vvote me smiccea.

Nun me pare na zita cuntignosa;
quanno m’affaccio, cchiù ride o pazzea…
È naturale, o vo’ fa’ la vezzosa?
Che ve pare? Fa overo o me cuffea?

Tene ciert’uocchie! Tene na vucchella!…
Nu pède piccerillo piccerillo!…
Na mana piccerella piccerella!…

Si putesse menarle nu vasillo!
… Zi’… sta cantanno!… Siente che vvucella!…
«Me sto criscenno nu bello cardillo!…»


DISPIETTO

Doppo tre mmise ll’ aggio vista aiére;
essa pure m’ ha visto e s’ è fermata:
se ne ieva pe ncopp’ a li Quartiere,
e dint’ a na puteca s’ è mpezzata.

Pe vedé senza fàreme vedere,
nfenta aggio fatto de cagnare strata;
ma la nfama, capenno stu penziere,
è asciuta, s’ è vutata e s’ è turnata.

Io so’ rummaso friddo. Me sbatteva
mpietto lu core, e mmocca la parola
vuleva dì: – Buongiorno… – e nun puteva.

Uno ll’ha ditto: – Che bella figliola! –
E, pe farme dispietto, essa redeva..
Essa redeva!… E se n’ è ghiuta sola.


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
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"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
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LA SERENATA

A li ffeneste de la Vecaria
saglie, ogne ssera, all’ ùnnece sunate,
cu panduline e chitarre scurdate,
la santanotte de li mammamia.

Manco n’ anema passa pe la via;
ma, certo, arreto de li cancellate,
sente sti suone e sti vvoce abbrucate
lu malo sbirro de la pulezia…

«Che sciorta nera a cchiagnere peccate!
ma quante ancora chiagneno pe tte,
quanta figlie de mamma ammanettate!

Angelarè, mpo’ mpa’! Fatte vedé!…»
Ah! ca vurria spezzà sti fferriate!…
E lu sbruffea la stesa: – «Angelarèee!…»


NZURATO

Comm’ è bello a fumà doppo mangiato,
a panza chiena, ncopp’ a nu divano,
e rrummané mez’ ora arrepusato,
Il’ acchiala a ll’ uocchie e nu giurnale mmano!

Stanno ’e vvote accussì, miezo stunato,
sento, piglianno suonno chiano chiano,
’o piccerillo mio ca s’è sfrenato,
e ’a mamma ca lu strilla da luntano.

Bebè, tutto na vota, spaparanza
la porta, trase, me lu veco arreto …
Muglièrema lu votta e po’ se scanza…

Zompa, allucca, strascina lu tappeto;
po’ se vene a menà ncopp’ a la panza…
Eccómme! Manco ccà stongo cuieto!…

MINACCE

– Sentite, mia signo’, vuie pe dispietto
passate spisso spisso pe sta via,
e ghiusto nnanze a la puteca mia
facite ’o sentimento derimpetto!

Embè, che fa? P’ammore o gelusia
mo nun se sceta cchiù stu core mpietto…
Vuie ve spassate cu nu don pippetto?
E i’ so’ lu ddio de la sciampagnaria!

Ma… siente, mia signo’… Sa’ che t’ aviso?
Sta pazziella dura tropp’ assaie;
nun passà cchiù, si vuo’ fa buono… e’ ntiso?

Ca po’, quanno succedeno li guaie,
quanno t’ avraggio fatto nu straviso,
tanno surtanto te n’ addunarraie!


SFREGIO

Ha tagliata la faccia a Peppenella
Gennareniello de la Sanità;
che rasulata! Mo la puverella,
mo proprio è stata a farse mmedecà.

Po’ Il’hanno misa ’int’ a na carruzzella,
è ghiuta a ll’ Ispezzione a dichiarà,
e ’o dellicato, don Ciccio Pacella,
Il’ ha ditto: – Iammo! Di’ la verità.

Ch’ è stato, nu rasulo, nu curtiello?
Giura primma, llà sta nu crucefisso
(e s’ ha tuccato mpont’ a lu cappiello).

Di’, nun t’ ammenacciava spisso spisso?
– Chi? – ha rispuost’ essa. – Chi? Gennareniello!
– No!… V’ o giuro, signo’! Nun è stat’ isso!…

CARMELA

I
Carmela s’ ha spusato a nu signore,
porta cappiello e veste commifò,
cumanna a cammarera e a servitore,
e s’ è mparata a di’ pure: Oibò !

Essa se scorda de lu primm’ ammore,
ma stu core scurdà nun se ne pò;
stu tradimento accresce lu dulore,
cchiù ce penzo e sbaréo quanto cchiù sto!

Ma da me primma Carmela ha sentuto
lu primmo trascurzetto nzuccarato:
primm’ a me, primm’ a me mpietto ha strignuto!

Ll’ avria sapé chisto ca s’ ha spusato
tutto lu bbene ch’ essa mm’ ha vuluto,
tutte li vase ca nce simmo dato!…


II
Aiére, dint’ a na carrozza, stesa,
passaie, guardanno. Io steva ’n trammuè;
me voto, la cunosco… E la surpresa
fuie tal’ e tanta, ca strellaie: – Carmè!… –

Cu na manella, ca teneva appesa
a lu spurtiello, salutaie. Pecché,
certo, mm’ aveva visto; ma la mpesa
nun se vutaie pe nun se fa’ vedé.

Ma vedett’ io! La gente, arreto a me,
pe lu strillo ca i’ dette, mme guardava;
uno dicette: – Fosse pazzo, neh? –

Mpietto lu core comme me zumpava!
No! no!… Nun me putevo trattené!…
Era Carmela mia!… Mme salutava!…




III
Che piacere! Tutte hanno da sentì
ca ll’ atriere a sti bracce essa è turnata.
Ah! che priezza! Che ve pozzo di’?
Nun era overo, nun era spusata!

– Giuralo! – Il’aggio ditto. Ha ditto: – Sì!
Sì, t’ ’o giuro! So’ stata sfurtunata;
e mo d’ averte lassato accussì
la giusta penitenzia aggio scuntata!…

– E me vuo’ bene ancora? – Essa chiagneva…
Cu li llacreme a ll’ uocchie, ha ditto: – Siente,
comme… de te… scurdare io mme puteva?

– Overo me vuo’ bene? overamente? –
Essa chiagneva e nun me rispunneva…
– Embè!… chello ch’ è stato… è stato niente!…

II

VOCE LUNTANE








Fronna d’aruta!…
Stu core mio stracquato e appecundruto
io nun me fido d’ ’o purtà cchiù mpietto:
Il’ aggio atterrato e manco aggio arricietto,
e porto passianno a nu tavuto.

Ah, fronn’ ’e rosa mia, frunnella ’e rosa!
È muorto ’e na ventina ’e malatie,
e ogne tanto ’o risusceta quaccosa,
cierti penziere, cierti ffantasie…



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Comm’ a nu mare ca cuieto pare
e sotto nun se sape che succede,
c’ arrassusia nun ce se pò fa’ fede,
pecché nganna purzì li marenare;

accussì chi me sape e chi me vede
mai putarrà stu core scanagliare,
ca, si lle parlo de lacreme amare,
certo me ride nfaccia e nun me crede.

Ncopp ’a lu mare passano, cantanno
d’ ammore e gelusia, li rundinelle
quanno a n’ ato paese se ne vanno.

– Addio! – strillano tutte sti vucelle,
e lu mare risponne suspiranno,
e se sente nu sbattere de scelle…



Comm’ a nu suonno, dint’ a na nuttata
d’ abbrile, quanno doce è lu durmire,
passa e ve sceta, e ll’ anema ncantata
le corre appriesso cu ciento suspire;

accussì tu passaste, e la resata
toia, li prumesse de chist’ uocchie nire,
mo ca la passione s’ è scetata,
de vedé mo me pare e de sentire…

Si sapesse addó staie! Cammenarria
tutta la notte e tutta la iurnata,
nfi’ a lu mumento ca te truvarria.

Chi sa si, quanno t’ avesse truvata,
comm’ a tanno sta vocca redarria,
sta vocca bella, sta vocca affatata!…


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Comm’ a nu lume addó ll’uoglio, mmiscato
cu Il’ acqua, lu lucigno fa schiuppare,
ca, guardanno, ve pare e nun ve pare
ca se stutasse, e po’ resta appicciato;

accussì, pe la via c’ aggio da fare,
a vote a vote me manca lu sciato,
me fermo, e tremmo… e po’, tutt’affannato,
piglio curaggio e torno a cammenare.

Arrivarraggio? Da na voce affritta
io me sento risponnere: – Chi sa? –
e pe la strata, ca nun è deritta,

io puveriello stento a cammenà…
Che notta scura! Io già me so’ sperduto…
Addó vaco?…A chi chiammo?…Aiuto! .. Aiuto!…





’E CECATE ’E CARAVAGGIO

– Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
’e quacche faccia ca p’ ’o munno e’ vista,
mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?
– Sì, m’ allicordo; e tu? – No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,

pe mme murtificà, vulette Dio…
– Lassa sta’ Dio!… Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t’ ’o puo’ manco mmaggenà,
e Dio m’ ha fatto addeventà cecato.
– È overo ca fa luce pe la via

’o sole?… E comm’ è ’o sole? – ’O sole è d’ oro,
comme ’e capille ’e Sarrafina mia…
– Sarrafina?… E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà? – Sì… quacche vota…
– E comm’ è? Bella assaie? – Si… bella assaie… –

Chillo ch’ era cecato ’a che nascette
suspiraie. Suspiraie pure chill’ ato,
e ’a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.
Dicette ’o primmo, doppo a nu mumente:
– Nun te lagnà, ca ’e màmmema carnale

io saccio ’a voce… ’a voce sulamente…–
E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ’o ciardino, e ncielo ’o sole
luceva, ’o sole bello, ’o sole d’ oro…




’E DENARE ’E LL ’ACQUAIUOLO

’E denare ’e ll’ acquaiuolo
so’ cchiù fridde de la neve,
ma la gente vene, veve,
nun ce penza e se ne va.

Una vota sulamente
st’ arta mia benedicette,
e fuie quanno se vevette
nenna mia na giarra ccà.

Puveriello, puveriello!
Mo nun saccio cchiù addó sta!

Metto ll’ acqua, e lu penziero
sbaréa sempe e nun m’aiuta:
quanta vote ’int’ ’o bicchiero
quacche lacrema è caduta!

Bona gente, ca vevite
acqua e lacreme mmiscate,
cumpatite, cumpatite,
penzo sempe a chella llà!…

Puveriello, puveriello!
E nun saccio cchiù addó sta!

Chillu soldo ca mme dette,
’o vedite, ’o tengo ccà,
a la giarra addó vevette
cchiù nisciuno vevarrà.

Ma ’e denare ’e ll’ acquaiuolo
so’ cchiù fridde de la neve,
e la gente vene, veve,
nun ce penza e se ne va…

E io rummano, puveriello,
a penzà chella addó sta!…



LETTERA MALINCONECA

Luntana staie. Natale sta venenno:
che bello friddo, che belle ghiurnate!…
Friddo ’o paese tuio nne sta facenno?
Pe Natale ve site priparate?

Luntana staie… No… siente… nun è overo
t’aggio ditto ’a buscia… Chiove a zeffunno…
mme se stregneno ’o core e lu penziero…
nun ce vurria sta’ cchiù ncopp’ a stu munno!

Nun ce vurria sta’ cchiù sulo penzanno
ca fa tant’ acqua e nun te sto vicino…
Pe nascere e murì na vota ll’ anno
che brutto tiempo sceglie stu Bammino!…

Basta, che faie?… Di’… che te dice ’o core?
Aggiu pacienzia… io scrivo e scasso doppe…
nun tengo ’a capa… Te manno stu sciore,
astipatillo ’int’ ’a stessa anviloppe…



LETTERA AMIROSA

Ve voglio fa’ na lettera a ll’ ingrese,
chiena ’e tèrmene scìvete e cianciuse,
e ll’ aggia cumbinà tanto azzeccosa
ca s’ ha d’ azzeccà mmano pe nu mese.

Dinto ce voglio mettere tre cose,
nu suspiro, na lacrema e na rosa,
e attuorno attuorno a ll’ ammilocca nchiusa
ce voglio da’ na sissantina ’e vase.

Tanto c’ avita di’: «Che bella cosa!
Stu nnammurato mio quanto è priciso!»
Mentr’ io mme firmo cu gnostia odirosa:
Il vosto schiavotiello: Andonio Riso.




’E CCERASE

Abbrile, abbrile! Mmiez’ ’e ffronne ’e rosa
vaco vennenno ’o frutto ’e chisto mese;
cacciate ’a capa, femmene cianciose,
io donco ’a voce e vuie facite ’a stesa:
«Frutto nuviello e mese ’e paraviso!
Collera ncuorpo a nuie nun ce ne trase!…»
’E ccerase!…’E ccerase!…

Ll’ anno passato, ’o tiempo d’ ’e ccerase,
facevo ’ammore cu na Purticesa,
abbascio ’o Granatiello steva ’e casa,
e a’ chiammaveno Rosa ’a vrucculosa.
Belli tiempe de lacreme e de vase!…
Ogne lacrema quanto a na cerasa!
Ogni cinche minutele nu vaso!…
’E ccerase!…’E ccerase!…

Mo c’ aggia fa’? Se so’ cagnate ’e ccose
e m’ ha licenziato, chella mpesa!
È arrivato nu legno genuvese,
e ’o capitano ha ditto ca s’ ’a sposa…
Capitano d’ ’o legno genuvese,
addò t’ ’a puorte ’a bella Purticesa?
’E ccerase!…’E ccerase!…

Cacciate ’a capa, femmene cianciose;
io donco ’a voce e vuie facite ’a stesa:
’E ccerase!… ’E ccerase!… Abbrile è ’o mese
c’ uno se scorda meliune ’e cose…
Capitano d’ ’o legno genuvese,
a me nun me ne importa ca t’ ’a spuse;
mme daie na voce a n’ ato pare ’e mise!…
’E ccerase!… ’E ccerase!…




CUNTRORA

Sto menato ncopp’ ’o lietto,
sto guardanno nnanze a me,
tengo ’o sole de rimpetto,
dinto ’o core tengo a tte!

Sento ’e vvoce d’ ’a cuntrora,
sento ’a gente cammenà,
nu rilorgio sona ll’ ora,
nu guaglione chiamma: «Oi ma’!…»

Tu che faie? Forze ’e nucelle
spuzzulìe sott’ ’a perziana,
o fatiche, a tummarelle,
nu merletto a nu volà…

E accussì mme miette ncroce,
c’ ’o merletto e cu’ ’e nucelle,
e pazzie cu’ ’e tummarelle
comme faie pure cu me…

Ah! putesse io nu mumento
farte chello ca mme faie,
darte ’’a smania ca mme sento,
farte chiagnere pe me!

E menato ncopp’ ’o lietto
guardo, guardo nnanze a me…
Tengo ’o sole de rimpetto…
dint’ ’o core tengo a tte!
’O VICO D’ ’E SUSPIRE

’A cchiù meglia farenara
sta ’int’ ’o vico ’e Ppaparelle,
addó fanno ’e farenelle
tutte ’e capesucietà.

Comm’ ’a gnostia tene ll’ uocchie
e se chiamma ’onna Rusina,
nfarenata ’int’ ’a farina
d’ ’a cchiù fina qualità.

Dint’ ’o stesso vecariello,
facce fronte ’a farenara,
Peppenella ’a gravunara
guarda ’e giuvene passà.

Chella rire e chesta guarda,
chesta guarda e chella rire,
e ne vótteno suspire
tutte ’e capesucietà!…

DONN’ AMALIA ’A SPERANZELLA

Donn’ Amalia ’a Speranzella,
quanno frie paste crisciute,
mena ll’ oro ’int’ ’a tiella,
donn’ Amalia ’a Speranzella.

Che bellezza chillu naso
ncriccatiello e appuntutiello,
chella vocca ’e bammeniello,
e chill’ uocchie, e chella faccia
mmiez’ ’e tìttole e ’a vurraccia!

Pe sta femmena cianciosa
io farria qualunque cosa!…
Piscetiello addeventasse,
dint’ ’o sciore m’ avutasse,
m’ afferrasse sta manella,
mme menasse ’int’ ’a tiella
donn’ Amalia ’a Speranzella!


==>SEGUE
NCOPP’ ’E CCHIANCHE

Ncopp’ ’e Cchianche, ’int’ a na chianca
aggio visto a na chianchera,
cu nu crespo ’e seta ianca,
cu ciert’ uocchie ’’e seta nera,
e, da tanno, sto passanno
sulamente p’ ’a guardà,
ncopp’ ’e Cchianche ’a Carità.

E passanno stammatina
aggio visto c’ ’o guarzone,
sott’ ’a porta, ’e pume attone
sceriava c’ ’o limone,
e ’a chianchera steva stesa
mmocc’ ’a porta, e accarezzava…
nu mmalora ’e cane ’e presa!

’O VICO D’ ’E SCUPPETTIERE

Dint’ a lu vico de li Scuppettiere,
addó se fanno scuppette e pistole,
sott’ a n’ arco, ce sta nu cafettiere,
tene pe figlie tre belle figliole,
dint’ a lu vico de li Scuppettiere.

Si nun me sbaglio, una se chiamma Rosa;
ne va ciento ducate la resella:
quanno mette cafè che bella cosa,
che bella grazia, che bella manella!
Si nun me sbaglio una se chiamma Rosa…

Ll’ ata sora se chiamma Nunziata,
se mette sott’ a ll’ arco e canta a stesa,
passa la gente e ce resta ncantata…
«Che bella voce che tene sta mpesa!»
Ll’ ata sora se chiamma Nunziata.

Ma nun posso sapé che nomme tene
Il’ úrdema figlia de lu cafettiere,
chella che mette st’ anema a li ppene,
dint’ a lu vico de li Scuppettiere…
Quanto vurria sapé che nomme tene!

==>SEGUE


Sto piglianno cafè senza sparagno
cinco o se’ vote dinto a la iurnata,
sto perdenno lu suonno e nun me lagno
sto facenno na vita disperata;
sto piglianno cafè senza sparagno!…

Cafettié, cafettié! Fìglieta è nfama!
Sapenno certo ca lle voglio bene,
vo’ fa’ vedé ca cóse o ca ricama,
core mpietto ne tene o nun ne tene?…
Cafettié, cafettié! Fìglieta è nfama!…

A CAPEMONTE

Sotto a chist’ arbere viecchie abballaveno
’e cape femmene, cient’ anne fa,
quanno s’ ausaveno ventaglie ’avorio,
polvera ’e cipria e falbalà.

Ce se metteveno viuline e flàvute
pe l’aria tennera a suspirà,
e zenniaveno ll’ uocchie d’ ’e ffemmene,
chine ’e malizia, da ccà e da llà…

Ma si chest’ ebbreca turnà nun pò,
nun allarmammece, pe carità!
’E cape femmene ce stanno mo,
cchiù cape femmene de chelli llà!…

Da mmiez’ a st’ arbere sti statue ’e marmolo
vonno, affacciannese, sentì cantà,
vonno sta museca passere e miérole,
scetate, sèntere, pe s’ ’a mparà.

Dice sta museca, ncopp’ a nu vàlzere:
«Figlió, spassateve, ca tiempo nn’ è!
Si e core e ll’ uommene sentite sbattere,
cunzideratele, sentite a me!

L’ anne ca passano chi pò acchiappà?
Chi pò trattènere la giuventù?
Si se licenzia, nun c’ è che fa’,
nun torna a nascere, nun vene cchiù!»

==>SEGUE
E si risponnere, luntana e debule
mo n’ ata museca ve pararrà,
allicurdateve de chelli ffemmene
ca nce abballaveno cient’ anne fa.

Vèneno a sèntere st’ ombre ca passano
comme se spassano sti gente ’e mo:
e si suspirano vo’ di’ ca penzano
ca ’o tiempo giovene turnà nun pò…

Figlió, spassateve, c’ avimma fa’?
nun torna a nascere la giuventù!…
Mme pare ’e sèntere murmulià
Il’ eco nfra st’ arbere: «Nun torna cchiù!…»



VOCCA AZZECCOSA

Nfunn’ a lu mare na perla nascette,
ncopp’ a nu monte nascette na rosa:
dint’ a nu suonno na vocca azzeccosa,
purzì nascette, pe dirme: «Bonnì!»

Sta perla ianca, sta rosa, stu suonno
dint’ a stu core fanno na casa:
la rosa addora, la vocca me vasa,
dint’ a sti trezze la perla vo’ sta’!

Ma a la curona de nu mperatore,
aiemmé, la perla murette azzeccata,
la rosa rossa mme s’ è spampanata,
e tu, tu pure, nun pienze cchiù a me.
AVITE MAIE LIGGIUTO…

Avite maie liggiuto quacche cosa
ca, zumpanno, v’ ha fatto, llà ppe llà,
nu sciore sicco, na frunnella ’e rosa,
nu mutivo ’e canzone allicurdà?

D’ allicuorde campammo. A poco a poco
cennere fredda avimm’ addeventà,
ma sempe sott’ ’a cennere lu ffuoco
d’ ’e tiempe belle s’ annascunnarrà.

Va, libbro, atturniato d’ angiulille,
sceta stu ffuoco e nun ’o fa stutà;
nu sciore sicco, nu cierro ’e capille
a chi te legge falle allicurdà…


’O FÙNNECO

I
Chist’ è ’o Fùnneco Verde abbascio Puorto,
addó se dice ca vonno allargà:
e allargassero, sì, nun hanno tuorto,
ca ccà nun se pò manco risciatà!

Dint’ a stu vico ntruppecuso e stuorto
manco lu sole se ce pò mpezzà,
e addimannate: uno sulo c’ è muorto
pe lu culera de duie anne fa!

Ma sta disgrazzia – si, pe nu mumento,
vuie ce trasite – nun ve pare overa:
so’ muorte vinte? Ne so’ nate ciento.

E sta gente nzevata e strellazzera
cresce sempe, e mo so’ mille e treciento.
Nun è nu vico. È na scarrafunera.



II
E quanno dint’ ’o forte de ll’ està
dorme la gente e dormeno li ccase,
dint’ ’a cuntrora, nun se sente n’a,
nisciuno vide ascì, nisciuno trase.

Gente ve pare ca nun ce ne sta;
ma che puzza! appilateve lu nase!…
cierti vvote ve saglie a vummecà
sulo vedenno chilli panne spase…

Na funtanella d’acqua d’ ’o Serino,
dint’ a n’ angolo, a ll’ombra, chiacchiarea,
e ghienghe sempe nu catillo chino…

E po’?… Nu muntunciello de menesta,
li scarde verde de na scafarea,
e na gatta affacciata a na fenesta.
III
– Giesù! – Sentite appriesso… Io nun murette
chella matina, donna Rosa mia,
proprio pecché lu cielo nun vulette…
Fosse morta, cummà, meglio sarria!

Basta, la lengua ncanna me scennette
e cchiù la voce nun truvaie la via,
tanto, cummara mia, ca me credette
ca fosse quacche tocco… – Eh!… Arrassusia!

– Che ll’ avisseve ditto!… Io sola, sola,
vecchia mputente, che puteva di’?
Nun rispunnette manco na parola.

E li ccose fernettero accussì…
Ma… a vuie pozzo parlà… Mbè, rispunneva
malamente… e si chella me vatteva?



IV
– Che!… Ve vatteva!… – No!… Pe carità!
Nun ’o dicite manco pe pazzia!
Nun è figliola de fa’ chesto ccà!…
Io… diceva… pe di’, cummara mia!

Seh! mme faceva chesta nfamità!
Seh! mme vatteva!… Fìgliema!… Maria!…
Basta, sentite… Pe v’ abbrevià,
ne vuleva da’ parte ’a pulezzia.

Po’ mme mettette scuorno: vuie capite,
llà mme sanno… Vicienzo mme fuie acciso…
Ilà sto scritta pur’ io: Malia dde Vite…

E pe stu scuorno ca me songo miso,
fìgliema mia… mo… mo… – Meh, nun chiagnite!
Ll’ ha vuluto essa, pecché nun v’ ha ntiso!





V
Ll’ avite vista cchiù? – Chi? Mariella?
Ve pare! Comme! Sere fa venette…
Cummara mia, s’ è fatta accussì bella
c’ a pprimma botta nun ’a canuscette.

Che sciucquaglie, cummà, c’ oro, c’ anella!
E c’ addore purtava, e che merlette!…
I’ senteva na voce: «Mammarella!
Mammarella addó sta?..» Ntela e currette.

– Che dicette? – Sentite; dice: «Oi ma’!
Che ve ne pare de sta figlia vosta?…
Vuie comme state? …Embè!… Nun c’ è che fa’…»

– Neh? (Ma ce vo’ na bella faccia tosta! )
– E mme purtaie nu taglio ’e satinè…
Trasite, ca v’ ’o voglio fa’ vedé…
’O GUAIO

Peppina e Lucia Aiello, mamma e figlia, assettate vicino ’o ffuoco. Peppina s’è addubbecchiata. Voce da la strata:

– Arresta! Arresta!… Ferma!… – Uh, mamma mia!
che sarrà?… Vuie sentite?… Che sarrà?…
Scetateve!… – Faranno… pe… pazzia…
– Arresta! Arresta! – Vuie sentite, oi ma’?

– Secutano a quaccuno mmiez’ ’a via…
Iamm’ a vedé… – No… che n’ avimma fa’?…
Bene mio! Sta saglienno ’a pulezzia!
Giesù, ch’ è stato?!…Oi ma’!…Ma’!…Ascite ccà!

– Ch’ è stato? – Siete voi Giuseppa Aiello?
– Sissignore, signo’… – Ci avete un figlio?
– Nu figlio… sissignore… Peppeniello…

– Ha avuto quattro colpi di cortello…
– Madonna!…– E ’a chi?…– Da un certo Ciro
Giglio.
– Figlio mio!… – Frate mio!… – Figlio mio bello!

LL’ APPUNTAMENTO P’ ’O DICHIARAMENTO

Erricuccio Benevento dint’ ’a casa d’ ’a nnammurata. Fultanarosa «’o ricciulillo».

– Vuie site don Errico Benevento?
– A servirve. – ’O nepote ’e donna Rosa?
– Giusto. – Putite ascì pe nu mumento?
– E pecché? – V’ aggia dicere na cosa…

– Fora? E pecché, ccà dinto nun ce sento?
– Me parite na zita cuntignosa!
Nun capite?… È pe chill’ appuntamento…
– Ah! Be’, scusate… – Io so’ Funtanarosa.

– Funtanarosa? Aniello? – Proprio, Aniello…
– Frate cugino a chillo mio signore?
– Nonzignore, lle songo cumpariello.

– Io mo nun m’ aspettavo tant’ onore!
– Onore è mio… – Va be’… dicitecello
ca ce vedimmo… Ilà mmerzo cinc’ ore.

SCHIATTIGLIA

Taniello Granata nfaccia ’o bancone ’e solachianiello. Teresina «’a brunettella» all’impiete, vicino a isso.

– Siente, io mo nn’ aggio avuto nfamità,
ma sti nfamità toie so grosse assaie!
– Tu che buo’? – Schiatta ossà! Voglio parlà!
Me puo’ mpedì? – Neh, ma pecché mm’ ’o faie?

– Sì, sì, va buono, i’ che te pozzo fa’?
Pozzo sapé tu addó cancaro vaie?
Si fosse n’ ommo!… – Ma me vuo’ ncuità?…
– Sì, sì, va buono!… – Aggio passato ’o guaio!

– Aissera addó stiste? – Cammenanno.
– Già! Piglianno aria! Iettanno suspire!
Sti cammenate toie, gué, ni’, se sanno!…

– Neh?… «Carulì cu st’ uocchie nire nire…»
– Puozz’ esse’ acciso cantanno cantanno!
– Accussì spero!… «tu me faie murire!…»

’O NTERESSE

’A se’ Maria va esiggenno. Nnarella Scuotto.

– Quante so’? – So’ se’ solde… – Embè?… – Scusate;
Il’ ati quatto v’ ’e ddongo viernarì…
– Sette, allora. – Comm’ è? M’ aumentate
tre solde pe tre ghiuorne, se’ Marì?!

– Te cummiene? – Ma comme? Ve pigliate
chisto nteresse? – Oi ne’, tu ’e buo’ accussì?
M’ e’ ditto niente quanno t’ ’aggio date?…
– È troppo giusto.. che ve pozzo dì?…

Penzate ca marìtemo sta a spasso,
ca nun me porta niente pe magnà,
ca sta facenno ll’ arte ’e Micalasso!…

– Bella mia, tu che buo’? Che t’ aggia fa’?
– È giusto, è giusto… nun ve mporta niente…
Vevitevillo, ’o sango de la gente!…

LA MALA NTENZIONE

Pascale, Ferdinando, Rafela e Ntunetta Jodice, tutte a tavola. Trase Ciccillo Liotta, aliasse «’o studente ».

– Favurite cu nuie! – Salute e bene .
– Assettateve… – Grazie… Ce sta Vito?
– È asciuto nu mumento, ma mo vene…
Pruvate stu mellone!… È sapurito…

Na fellicciolla, meh!… – Nun me ne tene.
– Meh! – No: grazie… me spezza ll’ appetito…
– E mo ve do na cosa c’ ’o mantene,
nu dito ’e vino… – Manco miezo dito…

– ’O vedite ccà Vito. – Con permesso,
v’ aggia pregà… – Vuie cumannate. Ascimmo…
– Neh, permettete… – Ma turnate ampresso!

Addó iate? – Aspettate, mo venimmo…
… Dunque?… Mo me putite cummannà…
Ah!… M’ ha acciso! Aiutà… teme… Aiu… tà…

’A FATTURA

Na casa scura a ll úrdemo d’ o Fúnneco. Cristinella de Gregorio e ’a fattucchiara Marianna. Doie galline spennate puzzuleieno peterra. Nu pignatiello vólle ncopp’ ’o ffuoco

– Mo che v’ aggia di’ cchiù? Facite vuie:
v’ aggio ditto lu comme e lu pecché…
Facite vuie… – Tiene ’e capille suie?
– Teng’ ’o ritratto… ’o vulite vedé?

– Me serveno ’e capille ’e tutte e duie,
si no che faccio? Nun se ponno avé?
Fattille da’… – Chillo me vede e fuie!…
– Tu ’e ttiene!… ’a verità! – Ll’ aggia tené…

– Ma si facimmo sti vummechiarie, ,
si t’ accummience a mettere paura,
che Cristo, allora bonanotte, addie!

Siente a me, mo te faccio na fattura
ca quanno è doppo m’ annummenarraie ..
– Ma mm’ ha da vulé bene!… – Quantu maie!

DOPP’ ’O MAGNATISMO

Vatassare Alvia è ghiuto a vede e se ne torna c’ ’a vocca aperta. A mugliera s’è assettata mmiezo ’o lietto e isso se spoglia.

– So’ stato a ’o Fondo. – Ah, neh? Che se faceva?
– ’O magnatismo. – Uh! cónteme quaccosa!
– Giesù! Parola mia nun m’ ’o credeva!
Giesù! Giesù! Giesù! Che bella cosa!

Uno penzava chello che vuleva,
per esempio nu sciore va, na rosa…
– E anduvinava? – Llà ppe llà. Diceva:
«Stati penzante a una cosa odirosa.»

– Overamente?… – Quant’ è certo Dio!
’A verità, pur’ io me so’ accustato,
e mme so’ fatto anduvinà pur’ io.

I’ penzava a na cosa… puzzulente…
– Lete, lè!… – Embè, chillo ha induvinato!
– E che t’ ha ditto? – Ch’ era nu fetente.

’A SUPPRESA ’O IUOCO PICCOLO

Rose Funzeca assettata mmiez’ a la gradiata, cu làppese, liste e denare nzinu. Attuorno a essa Maria Luzzo, Peppenella Guarino, Vito Orofino, Francischella Battimelli. Teresa Granata e Ntunetta «’a pezzecata»

– Iucateme sei quinto. – Vintisette
sicondo. – Trentasette, otto, e bintuno…
– Mo, mo, aspettate; iammo a uno a uno,
chi ha ditto otto? – Aggio ditto trentasette,

otto e bintuno. – Appriesso. – Diciassette,
quatto e «carne arrustuta». – Fa trentuno,
si nun me sbaglio; chi ’o ssape? Nisciuno?…
Duie solde ncopp’ ’o cinche chi nc’ ’e mmette?

– Ma pecché, cinche è buono? – Ca si no
pecché mmitava? – E vuie mettitencille,
tenite… – Pur’ a me! – Pur’ io! – Mo! mo!

Nuvanta songo ’e nummere, no mille!
Cinche se ll ’ha pigliato ’onna Maria ..
– Bravo’ Continuate?… – Uh!… Mamma mia!!!





’A STRAZZIONE

Doie cummare ncopp’ ’o ballaturo, una a primmo piano,
n’ ata a siconno piano.
Stanmo c’ ’o suttanino e ’a camicetta;
chella d’ ’o primmo piano, assettata,
se scioscia c’ ’o ventaglio d’ ’o fuoco.
E de luglio.

– Cummà, ch’ è asciuto?… – Nun ’o saccio ancora.
– E c’or’ è? – Songo ’e ccinche. – Overamente!?…
Neh, comme va ca nun se sape niente?
’A strazzione avesse cagnata ora?…

– Cummà! – Dicite. – Aiere, ’int’ ’a cuntrora,
mme sunnaie nu tavuto e tre pezziente…
– Dicite chesto?… I ’mme sunnaie, ccà fora,
ca mm’erano cadute tutt’ ’e diente!

– Sti suonne overo so’ nzìpete assaie!
– ’E diente!… – E tre pezziente e nu tavuto!…
– Faccio buono i’ ca nun mm’ ’e ghioco maie!…

’A vi’ lloco! ’a vi’ lloco! – Oi ni’, ch ’è asciuto?…
– Trentadoie primm’ aletto! – Uh! ’E diente! – E po’?
– Nuvanta! – Uh! ’E pezziente!… Uh, sciorta,
scio’!…








’A VAMMANA ’’E PRESSA

Eduardo Rota, c’ ’o bavero aizato, sott’ ’o palazziello
d’ ’a vammana, appiccia nu fiammifero e trova ’a funicella
d’ ’o campaniello. E ll’ una doppo mezanotte.

Ndlin ndlin! ndlin ndlin! ndlin ndlin!
– Donna Carmèeee!
– Chi è?… Chi è?… – So’ ’o frate ’e Peppeniello!…
– E che buo’? Chesta che maniera è?
N’ ato ppoco mme rumpe ’o campaniello!

– Chella ’a mugliera sta figlianno! – Ah, neh?
Ha ditto c’ ’o vo’ fa’ stu bammeniello?
– Vo’ ca venite mo, nziemme cu mme…
– Aspè!… Famme truvà nu scialletiello…

(Ah, Signore! Che vita disperata!
P’ arrepusarme manc’ ’a notte tengo!…
Puozz’ esse accisa tu ca mm’ e’ chiammata!…) –

Ndlin ndlin! ndlin ndlin! ndlin ndlin!
– Mo! mo! Mo vengo!
– Ccà fa friddo! – Mo, aspè!.. – Ma lesto lesto…
– Stong’ ambéttola!.. Mo… Quanto me vesto!…






NNAMMURATE NFUCATE

Stanno assettate azzicco zzicco ncopp’ a nu divano ’e telapella, tutto spellicchiato. Fa nu mmalora ’e caudo! De rimpetto ’o miérolo d’ ’o scarparo canta: Don Nicò! Don Nicò!

– Tengo n’ attaccamiento ’e nervatura!
– Tiene? – Nun saccio che te vurria fa’!…
– Overo? Mme faie mettere paura…
– Meh! Nun fa’ ’o vummecuso, cionca ccà!

Tu… mme vuo’ bene? E giurammello! Giura!…
– T’ ’o giuro ncopp’ a ll’ anema ’e papà!
Pozza murì dint’ a na casa scura!…
– Mo t’ affoco!… – Neh?!… gué! nun pazzià!…

– Di’ ’a verità, vulisse nu vasillo?…
– No! – Meh! – No! – Siente a me, accussì te passa.
… Allora… m’ ’o vuo’ da’?… – Manco. –
Dammillo!…

– Fann’ a meno… – Dicive? E chi te lassa!?…
– …Ah! traditore! Seh! Ma io nun t’ ’o deva!
– Tu che cancaro dice!… I’ mo mureva!…






SCUNGIURO DOPP’ A NU GUAIO

Nu vacile cu acqua e sale ncopp ’a tavola, mmiezo ’a cammera. È notte. Giulia «’a signurinella », arravugliata dint’a nu sciallo niro, s’è appuiata vicino ’o lietto ’e Marianna, che vota ll’ acqua cu nu mazzariello. Chiove.

– Dammle ccà sti capille… Aglie e fravaglie!
Dint’ a na pezza v’ arravoglio e cóso,
cu sse’ spingole e sette cape d’aglie,
po’ sedogno sta cera e la spertoso,

ma si sta cera vergene se squaglie…
– Che vo’ di’, ca m’ ’o sposo o nun m’ ’o sposo?…
– Zitto!… Si ncopp’ a ll’acqua se ne saglie,
mattuóglielo, mattuo’, te cóso e scóso!

– …E che vo’ di’? – Ca si se squaglia ’a cera,
tu nun ce penzà cchiù, se sposa a n’ ata…
– Sceppatecella, chell’ anema nera!…

– Mo vedimmo. Si ’a cera s’ è squagliata…
.. A puverella’… – S’ è… squagliata? – Sì…
– Scellerato!… ’O putite fa’ murì?!…





CHIACCHIARIATELLA ’E NIENTE

So’ ’e sette mmeza d’ ’a sera. Ndriuccio Abbate e Vicenzino Lazzaro chiacchiareano, fumanno, assettate for’ ’a cantina. Da luntanose sente nu pianino che sona Capille nire.

– Avite fatto attenzione maie
quant’ è bona ’a figliasta d’ ’a se’ Stella?
– Peppenella? – ’a figliasta, Peppenella;
ve dico a vuie ca me piace assaie.

– Neh, ve piace? e vuie spusatevella.
– Aspettate nu poco; i’ ce penzaie,
ma po’, sapite doppo c’ appuraie?…
– Faceva ’ammore? – No; nun è… zetella.

– Scuse! – Capite? I’ nun sapeva niente,
me ll’ hanno ditto e mme so’ riguardato;
vi’ che bella figura nnanz’ ’a gente!

– Ma è bona assaie!… Pur’ io m’ era cecato…
– Pure vuie! – M’era cuotto, c’ aggia fa’?…
– E mo?… – Ma che! Faciteme appiccià…

’A DISGRAZZIATA
Malia de Vita e Koia Schiattarella

I
– «Figlia mia, siente a me, figlia mia bella,
siente a mamma! Sta vita nun è cosa;
si’ fatta grossa, miette cerevella:
quann’ ero io comm’ a te steva annascosa!

Mo na zetella nun è cchiù zetella
mmocc’ a la gente, si nun è gelosa
de li pprete che tocca la vunnella;
penza ca tutto è carità pelosa!

Tu nun me siente o te ne faie na risa,
pecché so’ vecchia e nun t’ aggio che fa’…
Siéntela a mamma, chello che t’ avisa!

Figlia, io la saccio chella genta llà;
core mio, t’ accarezza, sì, t’ allisce!
ma po’… luntano sia… tu me capisce!»

II
Ogne ghiuorno accussí, cummara mia,
e ogne sera, quann’ essa se spugliava,
io lle faceva chesta letania
e a la Madonna l’ arraccumannava.

«Madò, tienela mente pe la via!
Dalle lume, Madò!…» Nun me curcava
senza di’ groliapatre e avummaria
anfino a quanno nun se retirava.

«Addó si’ stata?» Primma rispunneva:
«Addó so’ stata? Ncopp’ addó Nannina…
Addimannatecello… me vuleva…»

Po’ se cagnaie. Sapite na matina
che me dicette? Me dicette: «Oi ma’!
Faciteme fa’ chello c’ aggia fa’!»



IV
ZI’ MUNACELLA
________________________________________________________
I
’A fenetura ’’a strata ’e Tribbunale,
ncopp’ a mancina (e proprio de rimpette
a ’o semplicista Errico Cannavale,
ca tene ll’ erba p’ ’o catarro ’e piette),

ce sta na cchiesiella. È tale e quale
comm’ era anticamente e, pe rispette,
se nce mantene ancora nu stutale
d’ ’o millecincucientuttantasette.

’A dinto è scura. Quacche vvota ’o sole
dà fuoco ’a gelusia tutta ndurata,
e ne fa na sparata ’e terziole.

Ll’ oro luce e pazzea. D’ oro pittata
na fascia, ncielo, porta sti parole:
A Maria del Rifuggio conzacrata.

II
Mmiez’ ’e Bianche, attaccato e accumpagnato
cu sette sbirre, ’a copp’ ’a Vecaria,
primma d’ essere mpiso, ’o cundannato
ce scenneva a sentì na letania.

Tutto ’e velluto niro era aparato
l’ altare ’e miezo. Nnanz’ ’a sacrestia,
dinto a nu scaravattolo ndurato,
stenneva ’e braccia ’a Vergine Maria.

E faceva silenzio. E se senteva
chiagnere zitto zitto ’a bona gente
c’ attuorno attuorno a ’o sfurtunato steva.

’O sacrestano, doppo nchiuse ’e pporte,
faceva nu signale a ll’ assistente,
e accumminciava ’a letania d’ ’a morte…


III
Arreto ’’a gelusia na munacella
mmitava, e rispunneveno diece ate;
e chi mmitava era ’a cchiù figliulella,
mmiezo a sti cape ’‘e pezza addenucchiate.

– Figlia (accussì ’’a batessa ’int’ a la cella
ll’ aveva ditto), figlia mia, fermate
a Ianua coeli. Ccà, figlia mia bella,
stateve zitte e cchiù nnanze nun ghiate.

Sta parola è signale cunvenuto;
ll’ uso ’o mettette santa Margarita,
ma ’o tiempo de sti ssante ogge è fenuto.

Cu sta parola salvate na vita,
ma ve perdite ’a meglia giuventù,
pecché ’a ccà dinto nun ascite cchiù! –




IV
Comme capite, senz’ eccezione,
ieveno a morte tutt’ ’e cundannate,
ca ’e munacelle, munacelle e bbone,
nun lle sunava ’e rummané nzerrate.

Vecchia era ’a cchiesia e antica ’a funzione.
e se nc’ erano troppo abbituate;
addio speranze, addio cumpassione…
s’ erano fatte ’e pprimme scellarate!

(Seh, ma simmo curiuse, ’a verità;
nuie mettimmece dint’ ’e panne lloro:
sti ppuverelle c’ avevano fa’?

Tutto chello ca luce nun è oro;
’e moneche so’ Scalze, so’ Pentite,
ma ’e moneche so’ femmene e… capite?)



V
Nu poco doppo ’o fatto ’e Masaniello,
nun saccio mmano a quale vicerré,
fuie cundannato nu giuvinuttiello
pe nu mmicidio ’int’ ’o vico Tre Re.

Se chiammava pe nomme Affunzetiello,
pe scangianomme «’o frate ’e Teppe tté»;
e aveva acciso a nu mastedasciello,
ca po’ doppo ve dico lu pecché.

Fuie purtato a sta cchiesia e cunfessato;
e doppo cunfessato se sentette
na messa ’e requie, nterra addenucchiato;

e quanno ’a messa ’e requie fenette
e ll’ organo d’ ’o suonno se scetaie,
’A letania, da coppa, accumminciaie…





VI
«Salve Regina!» armuniosa e bella
’A voce de na moneca cantaie,
e, addereto a nu poco ’e fenestella,
ianca ianca, na faccia s’ affacciaie;

e cu sta faccia ianca ’a munacella
tenette mente abbascio e se vutaie;
«Salve Regina! Ave, maris stella!
Mater intemerata!» seguitaie.

Tremmava ’a gente, abbascio. A poco a poco,
cantanno ’a letania, tremmava ’a voce
comme a na mana ’e viecchio accant’ ’o fuoco.

Zitte!… Ausuliate!… Doce doce
ha ditto Ianua coeli!… ’O cundannato
s’ è salvato!… ’o ssentite? S’ è salvato!…



VII
– Figlia, ch’ aie fatto!… E mo? Rieste nzerrata,
senza speranza ’e te n’ ascì cchiù maie!…
Mo de sta vita toia che te ne faie?
’A bella giuventù te ll’ e’ iucata!

– Nun me mporta!… Na vita aggio salvata,
e a paté Giesù Cristo ce mparaie,
ca pe la gente ca vo’ bene assaie
quaccosa ce starrà, ncielo astipata…

– Mo siente, quanno ’o ssape ’o vicerré!
– Dicitele accussì ca so’ stat’io.
– Nun te ne piente?… – No, madre baté!

– Povera a te! Cerca perduono a Dio!
– Dio me perdona. E sapite pecché?
Aggio salvato ’o nnammurato mio!…


VIII
– Ah, sfurtunata, sfurtunata a te!…
(E ’a batessa p’ ’o vraccio ll’ afferraie)
Viene, – dicette – viene ccà cu mme…
(E dinto ’a cella soia s’ ’a strascenaie).

Dimme mo: ’a causa e’ stu mmicidio ’a saie?
– Nonzignore… – No?… – No, madre baté…
– Aìze ’a mano nnanze a Dio! – (Ll’ aizaie).
– Giura! – (Giuraie). Dice ’a batessa: – Embè,

sienteme, figlia benedetta mia,
siente pe chi te si’ sacrificata,
pe chi e’ priata ’a Vergine Maria.

St’ ommo s’ è perzo pe la nnammurata,
s’ è nfuso ’e sango pe la gelusia…
Ma no pe te!… Ma no pe te!… Pe n’ata!
NANNINA

I
Uocchie de suonno, nire, appassiunate,
ca de lu mmele la ducezza avite,
pecché, cu sti guardate ca facite,
vuie nu vrasiero mpietto m’appicciate?

Ve manca la parola e mme parlate,
pare ca senza lacreme chiagnite,
de sta faccella ianca anema site,
uocchie belle, uocchie doce, uocchie affatate

Vuie, ca nziemme a li sciure v’arapite
e nziemme cu li sciure ve nzerrate,
sciure de passione mme parite.

Vuie, sentimento de li nnammurate,
mm’avite fatto male e lu ssapite,
uocchie de suonno, nire, appassiunate!



II
A ll’ ùnnece lu vico s’ è scetato
pe lu rummore ca fanno li suone;
da vascio, nu cucchiero affemmenato
se sta sbrucanno sotto a nu barcone.

Ncopp’ a nu pandulino accumpagnato
isso s’ammullechea cu na canzone;
nzuócolo se ne va lu vicenato:
«Che bella voce, neh, che spressione!»

– Aràpela, Nannì, sta fenestella!
Siente la santanotte, anema mia!
Salutame, Nannì, cu sta manella! –

E addereto a li llastre fa la spia,
cu Il’ uocchie nire nire, Nanninella…
Ah! ca mo moro pe la gelusia!





III
E apposta pe lu vico addó affacciate,
gioia, doppo tre ssere io so’ passato;
li ddoie feneste steveno nzerrate,
sulo lu barcunciello allumenato.

Doppo d’avé pe n’ ora spassiato,
mm’ è parzo de sentì strille e resate;
è asciuto ’o guardaporta e m’ ha chiammato,
m’ ha ditto: – Mio signo’, vuie c’aspettate? –

Ll’ aggio risposto: – Duie bell’ uocchie nire
stanno ccà ncoppa e li vvoglio vedere
Il’ ùrdema vota, e po’ voglio murire!

– Levàteve da capo sti penziere, –
isso m’ ha ditto – ve ne putit’ ire:
st’ uocchie nire mo so’ de nu cucchiere…
III

’O FÙNNECO VERDE




POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Prima