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Salvatore
Di Giacomo

V

’O MUNASTERIO



VI
’O purtinaro è n’ ommo attempatiello
ca moneco a trent’ anne se facette;
sempe ca passo, ’a quanno mme vedette,
– Figlio, – mme dice – santo e vicchiariello! –

Io dico: – Giesù Cristo sia lodato! –
e chillo mme risponne: – Ogge e a tutt’ore!
E da che nasce ’o sole anfi’ a che more,
sott’ ’a porta, a penzà, resta assettato.
A che penza? Luntano, a poco a poco,
’o sole scenne arreto a li muntagne,
ncielo se spanne nu lenzuolo ’e fuoco,
e nu cucù mmiezzo a li fronne chiagne…

VII
Ogne tanto nchiudo ll’ uocchie,
nnanze a st’ uocchie passa ’o mare:
e de sèntere mme pare,
quanno canta n’auciello,
na canzona ’e marenare
ncopp’ a n’arbero ’e vasciello…

VIII
Quatt’ore ’e notte.

Sott’ ’o Castiello ’e ll’ Uovo
pescano a purpetielle,
e lampe ’e fuoco vivo,
a poppa ’e paranzielle,
fanno li marenare
pe guardà nfunno ’o mare…

Ma ’o mare traditore
nun se fa scanaglià,
ca nun esiste luce
pe sti prufunnità;
e chisto munastero
me pare ’o mare overo!…

Ca si mme voto attuorno
mme veco mmiez’ a gente
ca fuie, ca s’ annasconne,
ca nun me dice niente…
E penzo: Ah, sfurtunato!
Addó si’ capitato!…


IX
Serata ’e luna.

Santa Lucia, luntana e benedetta,
è nu martirio si mme viene a mmente
Quanta suspire dint’a na varchetta,
quanta guardate senza dirce niente!

Frutte ’e mare adduruse, èvera ’e mare,
mare, gulìo d’ ’a luna ca spuntava,
luna, lanterna de li marenare
ca dint’ ’o specchio ’e ll’ acqua se mmirava…

Penzate a me! Nu marenaro er’ io…
Meglio si a mare me ieva a ghiettare!
T’ ’o pozza perdunà sultanto Dio
stu desiderio ca tengo d’ ’o mare!

X
Fra Libberato è n’ ommo nchiuso assaie
c’ annascoste li ppene se mantene,
meza parola nun ’a dice maie,
va trova dint’ ’o core che ce tene!…

Chello ca tene ’e bello songo ll’ uocchie,
atturniate da na macchia scura…
ma n’ha da tené chiaie nfacc’ ’e denocchie,
se n’ha da fa’ martirie a carna annura!

XI
Fratié, preia a Dio tutta stanotte!

– Tutto more, tutto passa,
sulamente Dio nun more!
Beneditto!
Beneditto!
Ogge e sempe e a tutte ll’ ore!

– Ma murenno ognuno lassa
ncopp’ ’o munno, a piezze, ’o core!…

==>SEGUE


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
__________________
"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
______________________
– Statte zitto!
Beneditto!
Ogge e sempe e a tutte ll’ore!
Aizanno ll’ uocchie ncielo,
acalanno ll’ uocchie nterra,
addó è pace o addó sta guerra,
Dio se trova, Dio ce sta.

E li braccie aperte stenne
pur’ a ’o cchiù gran peccatore…
Carità ca nun s’arrenne,
benedetta a tutte ll’ ore!…

XII
E si Dio nun ce sta? Si Dio nun fosse
ca nu nomme e nient’ato?
Si tanta e tanta vote inutilmente
Il’ avesse annummenato?
Si ll’ avesse priato
pe nun ne caccià niente?

Povera mamma mia ca ce credeva,
e a Dio, cantanno, m’ arraccummannava
’A quanno ’int’ a na cónnela io durmeva,
senza sapé che sciorta m’aspettava!

Vicchiarè, vicchiarè, si pe nu poco
n’ ata vota arapisse
st’ uocchie nzerrate eternamente, e nfaccia
tu me tenisse mente,
quanto te pentarrisse
’e quanno mme dicive: «Figlio mio,
figlio, nun t’abbelì, lassa fa’ a Dio!»

Io priava stu Dio sera e matina
pecché pàtemo mio nun fosse muorto:
io priava stu Dio pecché vicina,
sempe vicina a me, dint’a la casa
addó male patenno mme facette,
màmmema bella mia fosse rummasa!

E pàtemo murette
senza n’aiuto, e a màmmema nchiudette
ll’ uocchie, desideruse
d’ ’o figlio suio luntano,
nun già sta mano mia ma n’ ata mano!…


XIII
De li lacreme meie, mmiezzo a stu core,
s’ arraccugliette comm’ a nu pantano,
e dint’ a st’ acqua scura,
tutta cumposta ’e spaseme e paura,
appena n’ ata lacrema cadeva
tutte chell’ ati llacreme smuveva.

Spuntaie na vota ’o sole. A poco a poco
s’allargaie, se spannette,
mpietto n’ ato calore,
quase na mpressione ’e ragge ’e fuoco,
n’anema nova nova mme sentette..

Si te mannava Dio, comme diciste
e comm’io te credette,
tu, ca tutto na vota,
pure tu, scumpariste…
va, ca te maledico!

E maleditto sia
chillu iuorno ca t’aggio canusciuta
e ca mme t’ha nchiuvata
dint’ a stu core e dint’ a stu penziero
chillu destino ca me fa campà!
No, ca nun è overo
ca pe nuie ce sta Dio!… Dio nun ce sta!

XIV
…Aizanno ll’ uocchie ncielo,
acalanno ll’ uocchie nterra,
addó è pace e addó sta guerra,
Dio se trova, Dio ce sta!
E li braccie aperte stenne
pure a ’o cchiù gran peccatore,
carità ca nun s’ arrenne,
benedetta ogge e a tutt’ore!

Mo ch’ è passata
n’ ata iurnata
d’ ’a vita nosta disgrazziata,
sia ringraziato
Giesù Signore,

==>SEGUE


specchio de sole,
luce d’ ammore.’
Sia beneditto!
Sia beneditto!
Ogge e sempe e a tutte ll’ ore!

È passata n’ at’ ora d’ ’a vita nostra.
Fratié, ringrazziammene a Dio!

XV
Mea culpa! Mea culpa!

Scenne ’a cielo na voce
dint’ a st’ anema mia:
– Penza ch’ è muorto ncroce!
E beneditto sia!

Giesù, Giesù Signore!…
No… no… nun me dannà!…
Guarda a stu peccatore
c’ a’ faccia nterra sta!

…………………
Mo mme sento cchiù forte,
mo mme sento cagnato,
e si vene la morte
mme trova appriparato…

XVI
Fratié, ll’ acqua p’ o’ refettorio!

Mmiezzo ’o curtile na cesterna sta,
ognuno ’o cato suio se va a tirà,
ma st’ acqua sape ’e sale. Comme va?
Fosse acqua santa pure chesta ccà?…

XVII
Na chitarra s’io tenesse,
cu sta luna ca ce sta,
a sunà mo mme mettesse,
e accussì vurria cantà:

«La luna nova ncopp’ a lu mare
stenne na fascia d’ argiento fino,

==>SEGUE




dint’ a la varca lu marenare
quase s’ addorme c’ ’a rezza nzino…
nun durmì, scétete, oi marenà,
votta sta rezza, penza a vucà!…

Dorme e suspira stu marenare,
se sta sunnanno la nnammurata,
zitto e…»

XVIII
Tuppe ttuppe!
– Chi è?
– Fratié, songh’ io…
– Fratié, che buo’?
– Fratié, ccà nun se canta:
aggiu pacienzia, chesta è casa santa:
ccà nun se canta, ccà se preia a Dio.

XIX
Chiove… Tutto na vota
Il’ aria s’ è fatta scura…
’O tiempo se revota…
Che lampo!… Che paura!…

XX
Mezanotte .

Fernuto è ll’ uoglio e lu lume mo more
comme a chi tirà nnanze non pò cchiù…
Cchiù se fa miccio cchiù me sbatte ’o core,
ah, Giesù Cristo, damme forza tu!

Stonco tremmanno comm’ a nu guaglione,
’o sanco dint’ ’e vvene s’ è gelato…
Curaggio!… Chest’ è tutta apprenzione…
Va… facimmece ’a croce… Ah! s’ è stutato!…

XXI
Avummaria!… Chiagnenno, addenucchiato
ncopp’ a li pprete de sta cella mia,
mo ca mme sento sulo e abbandunato,
io mme t’ arraccumanno… Avummaria!…

==>SEGUE
Si sponta dint’ a st’ uocchie appassiunate
na lacrema ’e piatà pe tanta gente,
si tiene mente a tanta sfurtunate,
Addelurata mia, tieneme mente!

E o muovete a piatà, mamma d’ ammore,
vedenno ’a vita mia nera accussì,
o ca si no tu spezzeme stu core,
Madonna bella mia, famme murì!…

XXII
Stanotte, a ll’ una e meza,
sentenno nu lamiento,
io mme songo scetato…
nun me pareva ’o viento…

No!… Chi s’ allamentava
era fra Libberato…

E aggio ntiso, tremmanno,
c’ ’a recchia ’a mascatura,
quatto o cinche parole…

Ah, Giesù!… che paura!
C’ allibbrezza!… Sapite
chist’ ommo disperato
ch’ ha fatto?… Ha acciso ’o frato!…

XXIII
Mbonl Mbon!…
– Fratié, ch’ è stato?
– Fratiello, ’a cella nzerra;
fratiello Libberato
nun è cchiù de sta terra.
C’ ’o crucefisso a fianco
ll’ hanno truvato stiso
mmiez’ a na macchia ’e sanco…
E mo sta mparaviso.

– Mparaviso!…
– Fratiello,
io saccio che buo’ di’:
si avette ’o puveriello
==>SEGUE




’o tiempo ’e se pentì…
Lassa fa’ Dio, ca tene
misericordia assaie,
ca ne patette pene
e pure perdunaie!
Ca si fra Libberato
na vota sulamente
se c’ è raccummannato,
si ll’ ha priato overo
c’ ’o core e c’ ’‘o penziero,
è stato perdunato… –

Mbon! Mbon!…
– Va, nzerra ’a cella,
nun rummané a penzà…
’A vita è chesta ccà… –

Mbon! Mbon!
– Iammo ’a cappella…

XXIV
’O funnarale

Abbascio ’a chiesia ’e muonece so’ scise
cu na cannela e cu nu libbro mmano,
e attuorno ’a castellana se so’ mmise,
quattuordece vicine e seie luntano.

A mmano manca ’e ll’ altare maggiore,
ncopp’ a na seggia ’e velluto granato,
murmulea letanie pur’ ’o priore,
c’ ’o libbro mmano e nu servente allato.

E se moveno e saglieno da ’e ccere
sierpe ’e fummo pe ll’ aria pesante,
e accampagneno ncielo sti prighiere
a san Francisco e a tutte ll’ ati sante…

E d’ ’e feneste pe li betriate
trase ’o sole e p’ ’a chiesia se spanne,
e vasa ’e scaravattule ndurate,
e se stenne pe terra e ncopp’ ’e scanne…

==>SEGUE
Luceno ’e frasche, luceno ’e lampiere:
ncopp’ a ll’altare ’o calice s’appiccia,
e ’a luce rossa de li canneliere
mmiezo ’a luce d’ o sole se fa miccia…

For’ ’a chiesia na chiorma d’ aucielle
ogni tantillo passa allegramente,
e de na cumpagnia de passarielle
’e strille de priezza ’a chiesia sente…

XXV
Doppo fatta ’a funziona
nu pezzullo ’e carta scritto
’o priore ha dispenzato,
e nce ha ditto:
– Chesta è ’a prighiera pe fra Libberato.

XXVI
«Eterno patre, a st’ ommo addeventato
cennera n’ ata vota,
a stu verme d’ ’a terra
ca da li stesse vierme
sta p’ essere mangiato,
mo c’ ’a morte le nzerra
l’uocchie pe sempe, dint’ a lu tavuto
dàlle pace pe sempe,
si tu saie ca chill’uocchie hanno chiagnuto.
Ca si, pe farle perdunà, sta vita
nosta mo ce vulesse,
o ca si scritto stesse
ca quaccheduno ’e nuie
pene amare patesse,
e tu, tutte sti pene
tu fancelle patì,
e tu fance murì!
Ca tutto chello ca tu faie sta bene!»

XXVII
Comm’uno ca patesce ’e sbenimente
p’ ’o mmale ’e luna e ll’ esce ’a scumma rossa
d’ ’a vocca e stregne forte forte ’e diente
e nzerra ’e ddete e nun fa cchiù na mossa,

==>SEGUE
accussì vedett’ io fra Libberato
stiso nterra, e accussì stu puveriello
paricchie notte me ll’ aggio sunnato,
comm’ uno acciso ’a na botta ’e curtiello…

XXVIII
Dopp ’o offiggio. Vintidoie ore.

Si nu penziero dint’ ’o core vuosto
vuie tenite annascuosto,
e si tutto na vota
ll’ anema vosta sbatte e se revota
ca vurria caccià fora
chello ca ve sentite,
site nu nfamo si l’ annascunnite.

Sentite a me: nun c’ è cchiù bella cosa
d’ ’a verità. Quanno uno è sfurtunato
meglio è ca parla e nun se mette scuorno:
pecché doppo parlato,
pecché doppo sfucato,
si pe nu poco isso se vota attuorno
e a ll’ ati sfurtunate tene mente,
trova ’e stesse dulure,
trova ’e stesse penziere,
mmiez’ a tant’ ata gente…

E, accusì, na buscia,
si dicesse c’ a te nun penzo cchiù,
io certo diciarria;
o si di’ nun vulesse
ca pe tte sulamente
io sarraggio dannato eternamente!
Pecché prianno a Dio
nun’ o tengo presente,

e tu, tu si’ ca nun m’ ’o faie vedé!
Pecché sta vocca mia
si dice: Avummaria…
nun ’a dice ’a Madonna: ’a dice a te!



==>SEGUE


XXIX
Ah, si tenesse a màmmema
io mo nu starria ccà!
Ca sulamente màmmema
mme putarria sanà!

Chi cchiù d’ ’a mamma tiennero
’o core mpietto tene?
Qua’ lacreme so’ lacreme
si nun so’ chelli lla?

Oi ma’, chiammeme, scétete!
Si ancora mme vo’ bene
d’ ’o campusanto pàrtete
e vieneme a piglià!…

XXX
Vuie c’ ancora tenite
a mamma vosta, si nun ’a stimate,
pe vulé bene a n’ata
ca cchiù bene ve vo’ vuie ve credite;
gente, o nfama o ngannata,
nun ’e mettite a paragone maie,
ca l’ ammore d’ ’a mamma è gruosso assaie!

Na vota ce steva uno
ca pe la nnammurata
tutta ’a furtuna soia dopp’ asseccata,
pròpeto nun sapeva cchiù che fa’
p’ ’a puté cuntentà.
– Damme – essa lle diceva –
oro, anielle, brillante! –
Oro, anielle, brillante isso le deva…
– Puorte! – E chillo purtava.
E si diceva: – Arruobbe! – isso arrubbava.
E si diceva: – Accide! – isso accedeva!
– Che buo’ cchiú? Si’ cuntenta?
C’ ato t’ aggia da da’?
– No, cuntenta nun songo,
nun m’ avasta. – E tu parla,
dimme, c’ ato aggia fa’?
– Ma ’o ffaie? Giura! – T’ ’o giuro!
– E si no st’ uocchie mieie
tu cchiù nun vedarraie,
si chello ca te dico nun farraie.

==>SEGUE
Te’! chist’ è nu curtiello,
addó màmmeta va,
scìppele ’o core, e portammillo ccà! –
E chillo nfamo iette,
e stu curaggio avette!…
Ma c’ ’o stesso curtiello
(c’ ’a mano scellerata le tremmaie),
sceppanno ’o core ’a mamma,
nu dito se tagliaie…
E sapite sta mamma,
gente, che lle dicette?
Dicette: – Figlio, te si’ fatto male? –
E guardannele ’o dito,
suspiranno, murette…

XXXI
’A nervatura mia cchiù nun m’aiuta,
mme se chiéieno ’e gamme ogne mumento,
poco ce veco cchiù, poco ce sento,
vi’ c’ ata malatia ca mm’ è venuta!…

Mme sento ’int’ ’e denocchie e dint’ ’e mmane
na debulezza curiosa assaie,
e, da che suonno io nun teneva maie,
mo durmesse ’e ghiurnate sane sane…

XXXII
Quanno moro io vogli’ esse’ accumpagnato
menanno sciure ncopp’ ’o cuorpo mio,
e a nu pizzo stramane sutterrato,
addó me vede sulamente Dio.

Sotto a n’ arbero, a ll’ ombra e a lu cupierto,
accunciateme st’ osse addelurate,
e ncopp’ ’o cuorpo mio sbattuto e spierto
menatece nu sciore si passate…

Ma nfino a tanto ca stu pède ’e noce
farrà li fronne ncopp’ a la muntagna,
vuie sentarrate chest’ affritta voce
ch’esce da sott’ a ll’arbero e se lagna…

Nun arreposo, no!… Vuie ca passate,
ienno cercanno attuorno ’a carità,
fratielle mieie, nun ve meravigliate:
ammore dura pe n’ aternità!…


XXXIII
– Comme sta fra Sarvatore?
– Accussì, patre prio’!…
– Arreposa?
– Sissignore,
s’ è addurmuto proprio mo.

– Ma che tene? Che se sente?
– Patre prio’, che v’ aggia di’?
Tene tutto e tene niente,
pò sta’ buono e pò murì…
Sputa sanco…
– Uh, mamma mia.
Figlio mio, tu che mme dice?
Va, sperammo, e accussì sia,
c’ ’o Signore ’o benedice!
– Accussì sperammo a Dio!
Ma… ve dico ’a verità…
– Va dicenno, figlio mio…
– Chillo sta cchiù a llà c’ a ccà!…

XXXIV
Luna doce, ca staie de rimpetto
a guardà ca te stonco a guardà:
luna ianca, ca dint’ a stu lietto,
chiano chiano mme viene a truvà,

si d’ ’a morte lu suonno cuieto
sarrà chisto ca sto pe durmì,
da stu suonno si cchiù nun me sceto,
statte, luna, a vederme murì…

Marenare so’ stato a lu munno
ma nu scuoglio la varca rumpette:
quant’ è brutto quann’ uno va nfunno
senza manco na stella vedé!…

L’ acqua saglie, te stregne, t’ affoca,
tu non può manco cchiù risciatà…
Luna, lu’!… Marenà!… Voca! voca!
Miette… vela… Vucammo!… vucà!…

Tu chi si’?… Tu che buo’?… Si’ Carmela?…
E… che buo’?… Nun te saccio… va llà!…
Voglio ’o mare!… Oi cumpà… miette vela…
sponta ’a luna… Oi cumpare!… oi cumpà!…


XXXV
– Fratié, scavate ’o fuosso ’int’ ’o ciardino,
fra Sarvatore l’atterrammo llà,
na rosa pastenatece vicino,
e maie nun ve scurdate ’e ll’ adacquà…

XXXVI
Ohè, I’ammore è bello! ohè! ohè!
Canzone antica.

Na dummeneca ’e maggio
arrivaieno stracque a ’o munastero
nu giovene e na giovene,
ca, facenno viaggio,
e nun avenno addó s’ arrepusà,
se fermaieno llà.

Doppo mangiato pane e na frettata,
ca lle fece purtà patre priore,
sta figliola dicette
ca s’ era assaie seccata,
e se ne vuleva i’;
ca si pe doie tre ore
avess’ avuto rummané llà dinto,
era cosa ’e murì!

– Facite buon viaggio –
rispunnette ’o priore – e si passate
p’ ’o ciardeniello nuosto
’e sciure a nomm’ ’e Dio nun ’e ttuccate.
e spicialmente chelli rose ’e maggio…
Sotto a sti rose dorme nsanta pace
nu servo ’e Dio. Si vuie tuccate ’e sciure
è Dio ca se dispiace! –

Dicite a nu guaglione:
«Piccerì nun fa’ chesto!
Piccerì, nun ghi’ llà!»

E chillo, mpertinente e dispettuso,
niente, chello vo’ fa’!
niente, nun se vo’ sta’!
Proprio accussì sta giovene facette
passanno p’ ’o ciardino…
Ncopp’ a na fossa, ’a poco cummigliata,
na bella rosa gialla era schiuppata…
E chella, pe dispietto…
cugliette ’a rosa e s’ ’a mettette mpietto…


XXXVII
Priate pe me!

Tutt’ ’a notte nu lamiento
p’ ’o ciardino se sentette,
e nu povero avuciello
appaura se mettette;

pecché, nziemm’ a ’e figlie suoie,
iusto ncopp’ ’o pède ’e noce
isso steva, e da llà sotto
se senteva chella voce…

«Scellerata! Pure muorto
tu mme viene a ncuità!
Pure ’e sciure ’a copp’ ’a fossa
a stu muorto vuo’ sceppà?…»

L’ avuciello, appaurato,
mamma e figlie se pigliaie,
e da ll’ arbero de noce 15
a n’ ato arbero ’e purtaie…

’O «Munasterio» è fernuto.
VI

CANZONE
___________________________



OI MARENÀ

Mmiezo a lu mare vocame, varchetta,
e tu, mare, tu famme nonna nonna;
io m’ addormo penzanno a chi m’ aspetta,
a na fenesta e a na faccella tonna…

Fenesta piccerella piccerella,
ne tengo una pur’ io dint’ a lu core;
si da llà me fa segno na manella,
da ccà risponne ammore.

Ammore, oi marenà!
Lu mare e ba!

Quanto vurria sapé che sta facenno
nennella mia, si dorme o sta scetata…
Core mme dice che starrà redenno…
La nfama sta varchetta ha ncatenata!

L’ ha ncatenata, e longa è la catena,
da ccà se stenne anfino a la fenesta,
si sta varca se move appena appena,
nenna la tira lesta…

Tira, si vuo’ tirà!
Lu mare e ba!


REGINELLA

Reginella se sose albante iuorno,
se ntrezza li capille a la fenesta;
io passo e guardo; essa se mette scuorno,
se ne fuie rossa rossa e lesta lesta.
Embè, ve dico ca so’ cchiù cuntento,
pecché ammore scurnuso è ammore vero;
cchiù da luntano sta vucella sento,
cchiù ce metto stu core e lu penziero.
Ca la vedesse chi la vo’ vedé,
ca Reginella mia vo’ bene a me!

Fenesta piccerella piccerella,
ne tengo una pur’ io dint’ a lu core;
da llà s’ affaccia a ghiuorno Reginella,
da ccà na passiona a tutte ll’ ore;
e a tutte ll’ ore e a tutte li mumente,
si ce sta sole o ssi nun ce ne sta,
sta passiona mia canta a la gente:
ca la guardasse chi la vo’ guardà,
ca la vedesse chi la vo’ vedé,
ca Reginella mia vo’ bene a me!

A MARECHIARE

Quanno sponta la luna a Marechiare
pure li pisce nce fanno all’ammore,
se revoteno ll’ onne de lu mare,
pe la priezza cagneno culore,
quanno sponta la luna a Marechiare…

A Marechiare ce sta na fenesta,
la passiona mia ce tuzzulea,
nu carofano addora ’int’ a na testa,
passa ll’ acqua pe sotto e murmulea…
a Marechiare ce sta na fenesta…

Chi dice ca li stelle so’ lucente
nun sape st’ uocchie ca tu tiene nfronte,
sti doie stelle li ssaccio io sulamente,
dint’ a lu core ne tengo li ppónte,
chi dice ca li stelle so’ lucente?…

Scétete, Carulì, ca ll’ aria è doce,
quanno maie tanto tiempo aggio aspettato?
P’ accumpagnà li suone cu la voce,
stasera na chitarra aggio purtata…
Scétete, Carulì, ca ll’ aria è doce!…
ERA DE MAGGIO…

Era de maggio e te cadeano nzino
a schiocche a schiocche li ccerase rosse,
fresca era ll’ aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe.

Era de maggio; io, no, nun me ne scordo,
na canzona cantàvemo a doie voce;
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’ aria e la canzona doce.

E diceva: «Core, core!
core mio, luntano vaie;
tu me lasse e io conto ll’ ore,
chi sa quanno turnarraie!»

Rispunneva io: «Turnarraggio
quanno tornano li rrose,
si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stonco ccà.»

E so’ turnato, e mo, comm’ a na vota,
cantammo nzieme lu mutivo antico;
passa lu tiempo e lu munno s’avota,
ma ammore vero, no, nun vota vico.

De te, bellezza mia, m’ annammuraie,
si t’ allicuorde, nnanz’ a la funtana:
Il’ acqua llà dinto nun se secca maie,
e ferita d’ammore nun se sana.

Nun se sana: ca sanata
si se fosse, gioia mia,
mmiezzo a st’ aria mbarzamata
a guardarte io nu’ starria!

E te dico: «Core, core!
core mio, turnato io so’,
torna maggio e torna ammore,
fa de me chello che buo’!»
LUNA NOVA

La luna nova ncopp’ a lu mare
stenne na fascia d’argiento fino:
dint’ a la varca nu marenare
quase s’addorme c’ ’a rezza nzino..

Nun durmì, scétete, oi marenà!
votta sta rezza, penza a vucà!

Dorme e suspira stu marenare,
se sta sunnanno la nnammurata…
Zitto e cuieto se sta lu mare,
pure la luna se nc’ è ncantata…

Luna d’argiento, lass’ ’o sunnà,
vaselo nfronte, nun ’o scetà…

Comme a stu suonno de marenare
tu duorme, Napule, viat’ a tte!
Duorme, ma nzuonno lacreme amare
tu chiagne, Napule!… Scétete, sce’!…

Puozze na vota resuscità!…
Scétete, scétete, Napule, Na’!…


’E SPINGOLE FRANGESE

Nu iuorno mme ne iette da la casa,
ienno vennenno spingole frangese;
mme chiamma na figliola: – Trase, trase!
Quanta spingole daie pe nu turnese? –
E io che songo nu poco veziuso,
subbeto me mmuccaie dint’ a sta casa…
«Ah, chi vo’ belli spingole frangese!
Ah, chi vo’ belli spingole, ah, chi vo’!…»

Dich’io: – Si tu mme daie tre quatto vase
te dongo tutt’ ’e spingole frangese!
Pìzzeche e vase nun fanno pertose,
e puo’ iénghere ’e spingole ’o paese. –
Sentite a me, ca pure mparaviso
’e vase vanno a cinco nu turnese.
«Ah, chi vo’ belli spingole frangese!
Ah, chi vo’ belli spingole, ah, chi vo’!…»

Dicette: – Core mio, chist’ è ’o paese,
ca si te próre ’o naso muore acciso! –
E io rispunnette: – Agge pacienzia, scuse;
’A tengo ’a nnammurata e sta ’o paese…
E tene ’a faccia comme ’e ffronne ’e rosa,
e tene ’a vocca comme a na cerasa!… –
«Ah, chi vo’ belli spingole frangese!
Ah, chi vo’ belli spingole, ah, chi vo’!…»
’A NUVENA

Nu zampugnaro ’e nu paese ’e fora
lassaie quase nfiglianza la mugliera,
se partette pe Napule ’e bon’ora,
sunanno, allero allero: Ullèro ullèro…

E ullèro, ullèro…
(ma nun era overo,
’o zampugnaro
penzava ’a mugliera
e suspirava,
e ’a zampogna ’e suspire s’abbuffava).

Cuccato ncopp’ a paglia ’o Bammeniello,
senza manco ’a miseria ’e na cuperta,
durmeva mmiez’ ’a vacca e ’o ciucciariello,
cu ll’ uocchie nchiuse e c’ ’a vucchella aperta.

E ullèro, ullèro…
che bella faccella,
che bella resella
faceva Giesù,
quanno ’a Madonna
cantava: «Core mio, fa nonna nonna!»

Mmerz’ ’e vintuno o vintiduie d’ ’o mese
na lettera le dettero ’a lucanna;
sta lettera veneva d’ ’o pagghiese.
e sotto era firmata: Marianna.

«E ullèro, ullèro ,
sto bene in salulte
e così spero
sentire di te:
sono sgravata,
e duie figlie aggio fatto una figliata.»

Tu scendi dalle stelle, o re del cielo,
e nuie pigliammo ’e guaie cchiù alleramente,
tasse, case cadute e freddo gelo,
figlie a zeffunno, e pure nun fa niente…

Ullèro, ullèro!
Sunate e cantate!

==>SEGUE




Sparate! sparate!
Ch’ è nato Giesù!
Giesù Bambino…
E ’a Vergine Maria s’ ’o tene nzino!…


TIRITÌ TIRITOMMOLÀ!

Sta cantina è bella e bbona,
ma è cchiù meglio la patrona;
la patrona tene na…
E tiritì, tiritommolà!

Tene n’aria ’e na riggina,
na manella ianca e fina
li periette pe sciacquà…
E tiritì, tiritommolà!

Tiritàppete e pane grattato,
cantenè, so’ caduto malato,
ce vulesse pe farme sanà…
E tiritì, tiritommolà!

Ce vulesse ’e sta vucchella
na parola aggraziatella.
Na parola mo che fa?
E tiritì. tiritommolà!

E che fa si, doppo a chesto,
chiano chiano vene ’o riesto?
Vene ’o riesto? E che sarrà?
E tiritì, tiritommolà !

Tiritàppete e pane grattato,
cantenè, so’ caduto malato,
vuie tenite pe farme sanà…
E tiritì, tiritommolà!

Vuie tenite, int’ ’a cantina,
quacche bona medicina:
neh, ’a putesseme assaggià?
E tiritì, tiritommolà!

L’ha assaggiata ’o sposo vuosto
ca mo sta gagliardo e tuosto
e fa mmidia e no piatà…
E tiritì, tiritommolà!

==>SEGUE

Tiritàppete e pane grattato,
isso stesso me l’ha cunzigliato!
– Premmettete? – Patrone, cumpà!… –
E tiritì, tiritommolà!

E pur’ io, ch’era cchiù sicco
d’ ’o llignammo ’e nu palicco,
mo… mme pozzo cuntentà…
E tiritì, tiritommolà!

Stu remmedio overo è santo,
e io mme sento n’ ato ttanto;
chesta è ’a vera carità!
E tiritì, tiritommolà!

Tiritàppete e pane grattato,
cantenè, me so’ quase sanato;
n’ ato mese sta cura aggia fa’…
E tiritì, tiritommolà!

ALL’ERTA, SENTINELLA!

Cu li stelle accumpagnata
lenta lenta ’a notte scenne,
e ’o silenzio ’e sta serata
me fa ’e llacreme venì.

Ianca è ’a luna e ll’ ’aria è doce,
io sto ’e guardia a ’e carcerate,
e ogne tanto sento ’a voce
ca si veglio vo’ sapé…

Addio, Rosa mia bella,
vederme cchiù nun puo’! …
– All’erta, sentinella!
– All’erta sto!

Nnanze a me, d’argiento vivo
murmuleia, tremanno, ’o mare
e de sèntere me pare
ca me chiamma, ca me vo’.

==>SEGUE

E ncantato ’o tengo mente
c’accarezza e vasa ’e scuoglie,
e me passeno p’ ’a mente
tante brutte vuluntà…

Addio, Rosa mia bella,
vederme cchiù nun puo’!…
– All’erta, sentinella!
– All’erta sto!

De chi sta dint’ a sti mmure
quase quase io mmidio ’a sorte,
carcerato stonco io pure
e nun esco a libbertà.

Addio frasche, addio funtana.
addio sciure, ca d’ammore
tanta vote, a core a core,
ce sentisteve parlà!…

Addio, Rosa mia bella,
vederme cchiù nun puo’! …
– All’erta, sentinella!
– All’erta sto!

Ma me nganno, o ncopp’ a ll’onne
anfi’ a me na voce arriva?
Chi sarrà ca mme risponne?
Ca me chiamma chi sarrà?

Nun si’ tu, Rosa mia bella,
c’ a stu core ntussecato
dice: «All’erta, sentinella;
pienze a me, nun me scurdà»?

Stu core, oi Rusinella,
farrà chello che buo’.
– All’erta, sentinella!
All’erta sto!
SERENATA NAPULITANA

Dimme, dimme, a chi pienze assettata
sola sola addereto a sti llastre?
Nfacci’ ’o muro ’e rimpetto stampata
veco n’ ombra e chest’ ombra si’ tu!

Fresca è ’a notte: na luna d’ argiento
saglie ncielo e cchiù ghianca addeventa:
e nu sciato, ogne tanto, d’ ’o viento
mmiez’ a st’ aria se sente passà…

Ah, che notte, ah, che notte!…
Ma pecché nun t’ affacce?
Ma pecché, ma pecché me ne cacce,
Catarì, senza manco parlà?…

Ma ce sta nu destino,
e io ce credo e ce spero…
Catarì! Nun è overo!
Tu cuntenta nun si’!…

Catarì, Catarì, mm’ e’ lassato,
tutto nzieme st’ ammore è fenuto:
tutto nzieme t’ e’ scìveto a n’ ato,
mm’ e’ nchiantato e mm’ e’ ditto bonnì!

E a chist’ ato ca mo tu vuo’ bene
staie penzanno e, scetata, ll’ aspiette:
ma chist’ ato stasera nun vene
e maie cchiù, t’ ’o dico io, venarrà!…

No! Nun vene, nun vene…
Ll’ aggio visto p’ ’a strata
cammenà core a core cu n’ ata,
e, rerenno, parlaveno ’e te…

Tu si’ stata traduta!
Tu si’ stata lassata!
Tu si’ stata nchiantata!
Pure tu! Pure tu!…
PUSILLECO

Guarda, guarda che luna lucente
ncopp’ a ll’acque s’acala e se mmira,
e de st’ acque, c’ ’a tèneno mente,
siente ’a voce c’ ’a chiamma e suspira…

Cccà cchiù forte stu core me sbatte,
ccà cchiù chiaro me pare stu cielo…
Chesta luna cchiù ghianca d’ ’o latte
sulamente a Pusilleco sponta,
sulamente a Pusilleco sta! …

Dimme, dimme, Marì, nun te pare
ca na smania stasera ce vene?
Sarrà, forze, sta luna o stu mare,
ma stasera io te voglio cchiù bene…

A te pure stu core te sbatte,
pure a te tanta pace te ncanta,
ca sta luna cchiù ghianca d’ ’o latte
sulamente a Pusilleco sponta,
sulamente a Pusilleco sta!…

CHITARRATA

Chella ca sta chitarra sta sunanno
canzona malinconica nun è:
suspire e chianto nun m’ abbrucarranno,
te puo’ mettere a sèntere, Cuncè,
chello ca sta chitarra sta sunanno.

Parole dint’ ’e llacreme mmiscate,
bella mbriana mia, cheste nun so’:
nun so’ lamiente eterne e disperate,
ca ’o ssaccio ca lamiente nun ne vuo’,
e parole ’int’ ’e llacreme mmiscate.

Capace te si’ fatta finalmente;
te si’ ddicisa, e mme ll’ e’ fatto di’:
«Venesse martedì sicuramente…»
E ’o bbi’ ccà, so’ benuto. È martedì…
Capace te si’ fatta, finalmente!

Sona chitarra! Sona ’a serenata!
E a sta fenesta affaccete, Cuncè!
Guarda sta luna… Guarda che nuttata…
E sta canzona mia dimme comm’ è…
Sona chitarra! Sona ’a serenata!…




TARANTELLA SORRENTINA

– Chi mme chiamma? Chi mme chiamma?
– Scinne, scinne, e che bonora!
Carulì, te chiamma ’a gnora
ca cu ttico vo’ parlà!…

– Ma sta voce, si nun sbaglio,
nun è chella ’e masto Tore?
– Sissignore, sissignore…
na mmasciata t’ ha da fa’…

– Oi masto To’, scusate si nu’ scengo…
Oi masto To’, scusate si nu’ scengo…
Sto facenno nu poco ’e tulettella:
aggi’ abballà stasera
’A tarantella!

– E… scusateme ll’ ardire
Carulì, che ve mettite?
Pe ttramente ve vestite,
m’ ’o pputite fa’ sapé…

– Io me metto na cammisa
ricamata ’e seta rosa,
e nu busto ch’ è na cosa
ca fa proprio stravedé!…

– Oi Carulì, tenite ’o cavaliero?
Oi Carulì, tenite ’o cavaliero?
Cu vuie ca site ’a cchiù cianciosa e bella
voglio abballà stasera
’A tarantella…

– Masto To’, saglite ncoppa!… –
Carulina rispunnette.
E accussì piglia e sagliette
masto Tore a cuncertà!

– Neh, ched’ è? – dicette ’a gnora –
sto sentenno nu remmore…
– Gnora mamma, è masto Tore
ca mme mpara ’o pirulè…

==>SEGUE

ASSIEME:

Oi gnora ma’, scennimmo a n’ ato ppoco…
Oi gnora ma’, scennimmo a n’ ato ppoco…

– Me sta nzignanno | na mossa nuvella…
– Lle sto nzignanno
– Mme sto mparanno bbona… | ’a tarantella’…
– Lle sto mparanno bbona…
’A tarantella.

AMMORE PICCERILLO!

– Ce steveno na vota duie guagliune…
– Uno era masculillo…
– N’ ata era femmenella…
– Isso era accunciulillo accunciulillo…
– Essa era cianciusella cianciusella…
– Isso teneva ’o pède
piccerillo
piccerillo …
– Essa teneva ’a mano
piccerella
piccerella …
– E chesti ddoie vucelle
era doce a sentì
cantà, nzieme, accussì:

«Ammore, ammore, ammore!
Dà fuoco a ll’ erba secca
chi nzieme mette a sbattere duie core…
Gnorsì! Gnorsì!
’O munno va accussì!
E po’ che ce sta ’e male? È naturale…

È naturale!
– ’a Napule partettero pe fora…
– Cantanno canzuncelle…
– Chiene ’e vase e squasille…
– «Bene mio, bene mio, quanto so’ belle!
diceva ’a gente – sti duie piccerille!»

==>SEGUE
– Chi sa si ’o masculillo
piccerillo
piccerillo…
– Vo’ bene ’a femmenella
piccerella
piccerella,
quanno cu sta vucella
ch’ è assaie doce a sentì,
lle suspira accussì:

«Ammore, ammore, ammore!
Dà fuoco a ll’ erba secca
chi nzieme mette a sbattere duie core…
Gnorsì! Gnorsì!
’O munno va accussì!
E po’ che ce sta ’e male? È naturale…
È naturale!»

– Passano ll’ anne, aiemmé, pe tuttu quante…
– E già cchiù grussicella…
– E già cchiù strappatiello…
– S’ è fatta, a poco a poco, ’a guagliuncella…
– S’ è fatto, a poco a poco, ’o guagliunciello…
– N’ ammore ch’ era nato
piccerillo
piccerillo…
– Na certa passiuncella
piccerella
piccerella…
Mo ’e fa tremmà ’e vucelle,
mo ’e fa cantà e sperì,
e lle fa di’ accussì:

«Ammore, ammore, ammore!
Dà fuoco a ll’ erba secca
chi nzieme mette a sbattere duie core…

Gnorsì! Gnorsì!
’O munno va accussi.
E po’ che ce sta ’e male? È naturale…
È naturale!…»

’A CAMMISA AFFATATA

Stu felato, Carmè, pe chi file?
St’ ariatella, Carmè, pe chi vuote?
Pe chi tiesse sta tela suttile
ca cchiù fina ogni ghiuorno se fa?…

E, tessenno, Carmela dicette:
«Voglio fa’ na cammisa affatata,
ca si ncuollo quaccuno s’ ’a mette
nisciun’ arma ferì nun ’o pò!»

E ffila e tesse e gira
e vota ’o rucchiello…
Tene ncopp’ ’e denocchie
’e seta na matassa;
tene ’e llacreme a ll’ uocchie…
E canta, sola sola,
’A povera figliola:
«Pecché m’ appauro? – pecché accussì scuro
mme sento, tessenno, stu core, pecché?
Carmè, puverella – te chiammano bella…
Ma bella e scuntenta nun sanno che si’!…»

Giuvinotte, lassate sta terra
ca sudanno adacquate e zappate;
sta muvenno ’o rre nuosto na guerra
a nu rre ca fa’ schiave nce vo’…

E tu cacce ’a cammisa affatata,
nun ’o vvide? ’O mumento è benuto:
nn’ ’a tené cchiù gelosa nzerrata,
nun ’o ssiente ca fràteto ’a vo’?…

E ffila e tesse e gira
e vota ’o rucchiello…
Sempre ncopp’ ’e denocchie
tene ’a matassa ’e seta…
Tene ’e llacreme a ll’ uocchie…
E canta, sola sola,
’A povera figliola:

==>SEGUE
LARIULÀ

– Frutto ’e granato mio, frutto ’e granato,
quanto t’ aggio stimato a tiempo antico!
Tienete ’o muccaturo arricamato,
tutta sta robba mia t’ ’a benedico.

– Quanto si’ bello e quanto si’ curtese!
Io t’ era indifferente e mo se vede:
tècchete ’o muccaturo ’e seta ingrese,
fussero accise ll’ uommene e chi ’e crede!

Ah, lariulà,
lariu – lariu – lariulà!
L’ammore s’ è addurmuto,
nun ’o pozzo cchiù scetà!

– E quanno è chesto, siente che te dico:
io faccio ’ammore cu na farenara;
tene nu magazzino ’int’ a stu vico,
Il’ uocchie che tene so’ na cosa rara!

– E quanno è chesto, io pure faccio ’ammore,
e a n’ ato ninno mo tengo ’o penziere;
s’ ereno date a ffuoco anema e core;
mme so’ raccumannata a nu pumpiere…

Ah, lariulà,
lariu – lariu – lariulà!
L’ammore s’ è addurmuto,
nun ’o pozzo cchiù scetà!

– Ah, vocca rossa comme a nu granato!
Chi ’o ssape ’o tiempo antico si è fernuto?…
Chello ch’è certo è ch’io sto frasturnato,
e ’o sapore d’ ’o pane aggio perduto!

– Si’ stato sempe bello e ntussecuso,
e pure, siente, vide che te dico,
nun me ne mporta ca si’ furiuso,
voglio campà cu te, murì cu ttico!

Ah, lariulà,
lariu – lariu – lariulà!
L’ammore s’è scetato,
s’è scetato e lariulà!



’A SIRENA

Quann’ ’a luna affacciannese ncielo
passa e splenne e ’int’ a ll’ acqua se mmira,
e ce stenne d’ argiento nu velo,
mentre ’o viento d’ ’a sera suspira;

quann’ io sento pe st’ aria addurosa,
comm’ ’a voce d’ ’a terra luntana,
lenta lenta sunà na campana,
nteneruto me metto a vucà…

Tutte me diceno:
– Pe sotto Pròceta
si passe, scanzete,
ca c’ è pericolo!
Ce sta na femmena
ca ncanta ll’ uommene;
s’ ’e chiamma… e all’úrdemo
po’ ’e fa murì! –

Ma na santa tengo io ca mme prutegge
e me scanza p’ ’a via…
Santa Lucia! Santa Lucia!
Ohè! Ohè!

Voca!… Voca!… ’a i’ ccà Pròceta, nera
sott’ ’o cielo sereno e stellato:
’A vi’ ccà, mmiez’ a st’ aria d’ ’a sera,
tale e quale a nu monte affatato…

’A vi’ ccà!… Che silenzio e che pace!…
Ll’ ora è chesta d’ ’a bella sirena…
Scenne, sciúlia, s’abbìa ncopp’ arena…
e nu segno c ’a mano mme fa…
Na voce amabele
tremma pe ll’ aria:
– Scanzete, scanzete
ca staie mpericolo!
chesta è sta femmena
ca sotto Pròceta
ncantate ll’ uommene
fa rummané… –

==>SEGUE


Ma na santa tengo io ca mme prutegge
e me scanza p’ ’a via…
Santa Lucia! Santa Lucia!
Ohè! Ohè!…

Voca, voca!… ’a sirena mm’ aspetta…
Mme fa segno e cantanno mme dice:
– Piscató, vuo’ cagnà sta varchetta
cu nu regno e na vita felice? –

Voca fora!… Sta voce ’a canosco!…
chi mme chiamma se chiamma Isabella…
Prucetana, si’ nfama e si’ bella…
E mme stive facenno murì…

Na voce amabele
tremma ppe ll’ aria…
ma è tutt’ inutele…
nun me pò vencere!…
Saccio a sta femmena
ca, sotto Pròceta,
ncantate ll’ uommene
fa rummané!…

Ma na santa tengo io ca mme prutegge
e me scanza p’ ’a via…
Santa Lucia! Santa Lucia!
Ohè! Ohè!



NANNINA PALOMMA

Oi manella chiattulella
ca passanno io veco appena,
sott’ ’o lume d’ ’o bancone,
mmiez’ ’o muto e nu peretto,
ncopp’ ’a carta ’e nu fuglietto
fa’ na penna cammenà…

            CORO
Fa na penna cammenà…
E tarantè, tarantì tarantà!

Manella ianca, purposa, addurosa!
Manella ’e riggina!
Manella cenèra!
Ossà te canosco!
Si ’ ’a mano ’e Nannina!

            CORO
Nannina Palomma ’a cantenera!…

Nanninella, figliulella,
se spusaie n’ ommo abbasato:
neh, scusate, e a bintott’ anne
se pò sta’ cu sissantuno?
C’ ha dda fa’ si a quaccheduno
quacche vota penzarrà?

            CORO
Quacche vota penzarrà…
E tarantè, tarantì, tarantà!

Stu quaccheduno che fa si songh’ io?
Che fa si a ’o marito
lle so’ sangiuvanne?
Si tene trent’ anne
cchiù assaie d’ ’a mugliera
pò… nchiudere ll’ uocchie
cu ’a cantenera…

==>SEGUE
          



CORO
Pò nchiudere ll’ uocchie
cu ’a cantenera!

Cu na luce eguale e ddoce
ca dà fuoco a sti capille,
ncopp’ ’a spalla grassuttella
sciuilia ’a luce d’ ’a carsella;
ioca a ccarte ’o principale
e ’o guarzone attuorno va…

            CORO
E ’o guarzone attuorno va…
E tarantè, tarantì, tarantà!

Rafè, – diciste – si passe stasera,
si vide ca i’ scrivo,
vo’ di’ ca t’ aspetto
dimane, ’a stess’ ora
d’ ’a vota passata,
vicino ’o puntone
d’ ’a stessa strata!

            CORO
Vo’ di’ ca t’ aspetta
vicino ’o puntone,
vicino ’o puntone
d’ ’a stessa strata…






SEGUE  

VI
CANZONE

PARTE TERZA
I
Mez’ora dopp‘ ’avummaria.

Iettaie stu core mio mmiez’ a la strata
e ncopp’ a na muntagna mme ne iette,
e, pe na passiona sfurtunata,
moneco ’e san Francisco me facette.

Tuppe ttuppe!
– Chi è?
– Ccà ce stesse uno
ca ll’ è caduto ’o core mmiez’ ’a via?
– Bella figliò, ccà nun ce sta nisciuno,
va, iatevénne cu Giesù e Maria… –

Se ne iette cantanno: Ammore, ammore,
cchiù nun te vó zi’ moneco vicino!…
E p’ ’a muntagna se purtaie stu core,
arravugliato dint’ ’o mantesino…

II
Vintiquatt ’ore.

– Patre priore, dateme ’o permesso
scengo a fa’ legna pe sta muntagnella…
– Figlio, a chest’ora?
– Patre, io torno ampresso,
mme sento ’o friddo ncuollo ’int’ a sta cella!
– ’O purtinaro è ghiuto a repusà:
ma nun fa niente, figlio, t’aspett’ io…
– Patre prio’, mez’ora e stonco ccà…
– Va, figlio, va fa’ legna, a nomm’ ’e Dio.

III
No, nun so’ legne ca vaco truvanno:
fredda nun è sta cammarella mia:
Il’ aria me manca, ll’ aria vaco ascianno!

Io voglio risciatà st’ aria d’ ’a sera
ca passa e murmulea tanta parole
chiacchiarianno de la primmavera;

sciure voglio i’ cuglienno pe stu monte,
e, stiso nterra, tené mente ncielo,
sentenneme na fronna cadé nfronte…
==>SEGUE





Penziere mieie, diciteme, addó iate?
Mme pare de sta’ dinto a nu deserto…
Fronne, sciure, parlateme, parlate!…

IV
– Figlio, e addó stanno ’e llegne?
Pecché nun n’ aie purtate?
– Patre… mme perdunate?
– A nomm’ ’e Dio, pecché?

– Embè, patre, sentite…
io nun me so’ fidato:
stu cuorpo addelurato
nun pò cchiù faticà…

– Che só sti rose?
– Io… Il’aggio…
còvete… – P’ ’a Madonna?
– Patre… – P’ ’o mese ’e maggio?
Va, portancelle, va…

V
Primma d’ ’o refettorio.

È arrivato nu moneco nuviello
e s’ ha fatto chiammà fra Libberato,
s’ ha fatto benedicere ’o mantiello
e subbeto ’int’ ’a cella s’ è mpezzato.

’A cella soia fa nummero trentuno,
’A mia fa trentadoie; stammo vicino;
ma nun se fa vedé quase ’a nisciuno,
sulamente ogge è sciso a matutino.

A matutino nfaccia ll’ aggio visto;
tene na faccia ca te fa piatà,
na barbetella comme a Giesù Cristo,
e nu felillo ’e voce pe cantà.

E, pe ntramente ca steva cantanno,
a ll’ ufficio na pagena ha vutata,
e ll’ ha nchiuso… Il’ ha nchiuso suspiranno,
e na lacrema dinto nce ha nzerrata…


CANZONA AMIROSA

Chi dice ca ll’ammore fa fa’ chiatto,
o sbaglia, o pure ’o dice pe pazzia,
o pure ammore nn’avvarrà maie fatto;
pecché ammore è na brutta malatia!

Ah, piripiripì!
Nfru, nfru, nfru, nfru!
Oh, Margherita, non sei più tu!

Vuie site stata comme a nu mastrillo,
e cchiù peggio ’e nu sorece i’ so’ stato;
aggio ntiso ll’ addore d’ ’o ccasillo,
me so’ accustato e m’avite acchiappato!

Ah, piripiripì!
Nfru, nfru, nfru, nfru!
Oh, Margherita, non sei più tu!

Na voce me diceva: «Addò te nficche?
Scappa, guaglione!» Ma che buo’ scappà!
Stu core è fatto ’e pasta ’e franfellicche,
e sta vucchella toia pe s’ ’o zucà!

E piripiripì!
E nfru, nfru, nfru, nfru!
Oh, Margherita, non sei più tu!




POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Seconda
«Pecché m’ appauro? – pecché accussì scuro
mme sento, tessenno, stu core, pecché?
Lassammo sta terra – va fràtemo nguerra!
Chi sape si vence, si torna… chi sa!…»

Ma Carmela n’ amante teneva
scellarato pe quanto era bello,
ca sapenno ’a cammisa addó steva
na nuttata s’ ’a iett’ ’arrubbà.

Traditore d’ ’a patria addó è nato,
p’ ’o partito cuntrario cumbatte:
llà s’ è fatto piglià pe surdato,
llà cu ’e pegge nemice s’ ’a fa!…

E ffila e tesse e gira
e vota ’o rucchiello…
Sempe ncopp’ ’e denocchie
tene ’a matassa ’e seta…
Tene ’e llacreme a ll’ uocchie…
E canta, sola sola,
’A povera figliola:
«Felanno e tessenno, – cantanno e chiagnenno,
’o sole ogne ghiuorno mme vede accussì…
Aiemmé! ’O nnammurato – m’ ha acciso a nu frato…
E chesta è ’a canzona ca, sola, canto i’!…»