CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS








































DOPO IL
TRAMONTO







PARTE SECONDA

NOTTE DI NATALE

I.
Milleottocentonovant’anni sono
Venne al mondo, se il computo non falla,
In un piccolo borgo, entro una stalla,
Il profeta di pace e di perdono.

Entro una stalla sgangherata, dove
Insiem col freddo si patia la fame;
Sen venne al mondo sovra un po’ di strame
Per terra, in mezzo all’asinello e al bove.

Fatto grande, con l’opra e con la voce
Ammaestrò quella garbata gente,
I farisei confuse, e finalmente;
Inchiodato morì sopra la croce.

Inchiodato morì fra due ladroni
Che non dovevan certo esser giudei:
Della schiatta era l’un de’ ladri rei,
E l’altro della schiatta era de’ buoni.

Il reo, se a qualchedun l’epa scuciva,
Senza discrezïon se ne beffava:
L’altro invece la gente che ammazzava
Con tutta carità la seppelliva.

Dopo, da tutto questo, io non so come
Vennero fuori i papi e i cardinali,
L’eresie, le angherie, le decretali,
E il Sant’Uffizio, sia lodato il nome.

Dicono tuttavia certi arrabbiati
Che queste cose son cresciute al rezzo,
Non della croce che sorgea nel mezzo,
Ma delle croci che sorgean dai lati.


II.
Dalla chiesa vicina un orïuolo
Squilla in suono di festa e di tripudio:
Mezzanotte è scoccata: io nel mio studio
Seggo co’ miei pensier, tacito e solo.

==>SEGUE
Di fuor cade la neve a larghe falde
E le vie spopolate e i tetti imbianca:
Un meschinel con voce rauca e stanca
Grida tossendo le bruciate calde.

Ansimando e fischiando in strani metri
A folate nel bujo il vento passa,
Scrolla le assiderate arbori, squassa
Impetuoso alle finestre i vetri.

Io davanti, al camin siedo guardando
La bragia accesa di sanguigno foco,
La bragia che sfavilla e a poco a poco
Si va di morta cenere velando.

Sopra la scrivania, giusta l’usanza,
Arde una lampa di sottil lavoro,
Che d’una luce attenuata d’oro
Empie d’intorno la quïeta stanza.

Entro una nicchia di brunito argento
Un orïuol solerte e frettoloso,
Simile al cor che non ha mai riposo,
Con leggier brulichio pulsa sgomento.

Giù nella via passa uno stuol giocondo
Di fanciulli che cantano: Alleluja!
È nato il Cristo: dalla notte buja
Dell’errore e del mal redento è il mondo.

Redento? da benefica e maestra
Mano sanato, d’ogni mal ch’egli ebbe?
Redento!... Anime mie, chi lo direbbe
Dopo esser stato un’ora alla finestra!

Come mi pesa il cor! tacita muore
Entro il camino la consunta bragia;
Sibila irato una canzon malvagia
Il vento. Ahimè, come mi pesa il core!

Quante leggiere e vaporose immagini
Danzan davanti agli occhi miei nel vano!
Danzano mute, e par che un soffio arcano
Ne le porti e le aduni e le scompagini.


==>SEGUE.
O dì fuggiti, o dì spenti in eterno!
Quanti ricordi dalla vostra notte
Levan trepidi il vol, simili a frotte
Di spauriti uccelli a mezzo il verno!

III.
Gode lo studio mio, se nol sapete,
Di più comodità, di varii pregi:
Quattro migliaja di volumi egregi
Veston dall’alto al basso la parete.

Quattro migliaia e più, com’io v’attesto,
Ordinati con senno e diligenza,
Pieni d’ogni arte e d’ogni sapïenza,
Diversi di color come di sesto.

Ce n’ha di antichi, polverose moli,
Arche di morti e seppelliti veri;
E di nuovi ce n’ha, sgusciati jeri,
Gracilini, azzimati e civettuoli.

C’è la Bibbia in tedesco ed in latino,
Con le Mille e una Notte e il Pecorone;
C’è con l’Emilio l’Imitazione,
Ci sono l’opre di Pietro Aretino.

C’è, vi so dire, il Trivio ed il Quadrivio,
Quello di jeri, d’oggi e di domani;
Nei romanzi francesi e italïani
Il quadrivio non c’è, c’è solo il trivio.

O libri, o libri miei! s’io v’ho ben cari,
E se faccio di voi sì larga stima,
Non è a stupir, però che in prosa e in rima,
Ahi! mi costate di molti denari.

Voi fate all’occhio una leggiadra mostra,
Voi fate a me fraterna compagnia,
Ed io vi debbo l’ignoranza mia,
Ch’è quasi eguale all’ignoranza vostra.

IV.
Cresce il silenzio: sol di tratto in tratto
Empie il vento d’un roco e quasi umano
Urlo la notte; giunge di lontano
Il lamentoso miagolio d’un gatto.
==>SEGUE


Il freddo punge, il silenzio s’aggreva,
Nella penombra, dentro una cornice
D’oro scialbo, guardandomi in tralice
Ride il ritratto d’una figlia d’Eva.

Viso che dalle rose s’incolora,
Occhi tinti di ciel, chioma corvina,
Seno più bianco che non è la brina:
Il resto... il resto me lo sogno ancora.

Mi guarda co’ soavi occhi languenti,
Cui mite un’ombra di mestizia vela;
Ride; ma il dolce riso un dolor cela:
E gli occhi e il riso pajon dir: Rammenti?

Rammento, sì! oh, i teneri, furtivi
Peccati pii che commettemmo insieme!
Quali fûr! quanti fûr! non so, mia speme,
Per che grazia special restammo vivi.

Grazia?... non grazia, no; ma danno e laccio
Insidïoso di maligne sorti:
Fossimo noi così peccando morti,
Quand’era tempo, l’un dell’altro in braccio!

Ahi, che due volte dee morir colui
Che muto e stanco al proprio cor sorvive,
E la tarda vecchiezza, e le nocive
Vigilie aspetta, e i voti giorni e bui.

Si, rammento, rammento, e non potrei
In eterno scordar, l’ore fugaci,
L’ebbre carezze, i sitibondi baci;
I tuoi più caldi, più sagaci i miei.

Qui la materia un po’ diventa scabra:
Ma dillo tu se di tue vaghe membra
Parte alcuna ci fu (che a me non sembra)
Cui non baciâr queste assetate labbra.

O dolce tempo che fosti sì corto!
O dolci fiamme che foste sì calde!
Ove siete? Discende a larghe falde
La neve, il foco nel camino è morto.


==>SEGUE



Arturo Graf - DOPO IL TRAMONTO - Parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885. Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».

Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
___________________
V.
Fuggono i miei pensier come uno stormo
Di spauriti uccelli a mezzo il verno:
Il volto che adorai più non discerno,
L’antico amor più non rammento, e dormo.

Dormo: un silenzio funeral, che ogni eco
Spegne, dall’alto intorno a me sprofonda.
Dormo: sale d’intorno e mi circonda
Un tenebror vertiginoso e cieco.

Simile io sono al Faraon sepolto
Nel cupo sen di smisurata mole,
Che, nelle bende della morte avvolto,
Da tremil’anni più non vide il sole.

Dormo: e nulla ricordo, e nulla agogno;
Ma dall’orror della profonda notte,
Che le cose e lo spazio e il tempo inghiotte,
Spunta, s’allarga, si colora un sogno.

Un sogno immenso! Ecco, la terra ruota
Nella deserta vastità dell’etra,
L’antica terra ancor squallida e tetra,
Di piante ignuda e d’abitanti vota.

Lente volgon le età. Muta l’enorme
Scena: concepe il mar: empie la vita
L’onde e le terre e l’aria; una infinita
Genìa d’avverse e varïanti forme.

L’una dall’altra si disnoda, e l’una
L’altra insidia ed affronta e addenta e adugna;
Una spietata e mostruosa pugna
Alla forza commessa e alla fortuna.

Formidabile pugna a cui la sorte
Né pace mai, né mai concede tregua:
La vita, che ognor dura e ognor dilegua,
Nasce di morte per pascer la morte.

Ed ecco appar sulla funesta scena
La maledetta stirpe di Caino,
La stirpe che del mitico giardino
Altro mai non gustò fuor che la pena.

==>SEGUE
Nova tragedia indi s’inizia e tale
Che di spavento e gli occhi e il cor riempie;
Una tragedia di crudeli ed empie
Vicende, ove sul mal dilaga il male.

Cresce per tardi e faticosi gradi
La prisca belva all’opre ed agl’ingegni:
Sorgono sotto al ciel cittadi e regni;
Cadono sotto al ciel regni e cittadi.

Il fratello il fratel fugge ed abborre,
Il fratello il fratel strazia ed uccide:
Di terror, di dolor, la terra stride,
La terra pia lacrime e sangue corre.

Ahi, quale atroce, obbrobrïosa, orrenda
Visïon di delitti e di ruine!
Muta e rimuta la fatal vicenda;
Ma la colpa e il dolor mai non han fine.

E muta invan negli oppugnati cieli
La progenie de’ numi, e indarno a Crono
Giove o Geova succede: i numi sono
Più degli uomini falsi e più crudeli.

Ma com’arida fronda, ecco, pel voto
Etra dilegua agli occhi miei la terra;
Ecco d’intorno si ravvolge e serra
Un ciel di bronzo, sterminato, immoto.

Splende quel ciel d’una sinistra e fissa
Luce in cui l’occhio di mirar non osa;
Orrida, spalancata e tenebrosa
In esso una voragine s’abissa.

D’ombre confuse e di parvenze un nembo
Turbina quivi ognor, denso e veloce
Giunge del cieco baratro alla foce,
Piomba alla notte disperata in grembo.

Dall’incessante e torbida ruina
Sempre si leva rimuggendo un suono,
Come di greve e faticoso tuono
Che tra le nubi lento si trascina.

==>SEGUE
E la ruina incalza, e il rombo aumenta:
Io di scatto mi desto, e ascolto, e anelo.
Le membra rotte m’irretisce il gelo;
Appare il dì; la lampada s’è spenta.

Giù nella muta via passa un giocondo
Ubbrïaco che mugola: Alleluja!
È nato il Cristo; dalla notte buja
Dell’errore e del mal redento è il mondo

GIUNGE IL NOCCHIER FUNEREO

Fosco e muto l’equoreo
Pian si distende; un tenebroso velo
Occulta all’orizzonte il ciel remoto.

Io dal lido marmoreo,
Cui non allieta mai fiore né stelo,
Guardo laggiù, dinanzi a me, nel voto.

Su pel flutto cinereo
Move una prua caliginosa e lenta,
Come una visïon tra morta e viva.

Giunge il nocchier funereo,
Che guata fiso con pupilla spenta;
Giunge per tragittarmi all’altra riva.

APE

Ciò che di te si dice, anima mia,
Forse vero sarà, ma non mi cape:
Più che uno spiritel, credo che un’ape,
Una vaga, inquïeta ape tu sia.

E un’ape aristocratica, che in seno
A’ più soavi e cari fior si posa,
E dal candido giglio e dalla rosa
Sugge — non miele, ah no! sugge veleno.

IL BANCHETTO DELLA VITA

Madre Natura largamente invita
I suoi candidi figli al così detto
Banchetto della vita,
Il quale, come lor signori sanno,
È un grande e solennissimo banchetto
Che dura tutto l’anno.
Ma, sia per un difetto
Della direzïone;
Sia per voler nascosto
Di alcun iddio malizïoso e gretto;
O per altra cagione
Che a noi celino i fati,
Non tutti gl’invitati,
Quando giunti vi son, trovano posto.
Oltre di che sono alcune persone
Che, vedendo mangiar l’altra brigata,
Stupidamente muojono di fame;
E qualcuna ve n’ha che all’impensata
Crepa d’indigestione,
Sì fattamente rimpinza il carcame.
Aggiungi che sovente
Le vivande e persino
L’acqua, a tacer del vino,
Sanno d’amaro maledettamente.
Per questo alcuni savii d’eccellenza,
Che vissero in antico,
Lasciaron scritta una bella sentenza
Quando tu del banchetto
Sazio ti senta, amico,
Lèvati e vanne chetamente a letto.
IDILLIO

Era un mattino... ahi, quante morte cose,
Quanti ricordi la mia mente scava!...
Era un mattin di maggio: imbalsamava
L’aria l’odor delle sbocciate rose.

Vibrava il ciel di luce e radïosa
L’aria vibrava: gli ondulati piani,
I lenti poggi, i culmini lontani,
E i boschi, e l’acque, era luce ogni cosa.

Io me ne gìa tra’ campi, e in cor sentiva
Una quïete desolata e stanca,
Siccome d’uom cui la speranza manca.
E che di sogni e di memorie viva.

In loco venni ove una chiara fonte
Dall’aspra selce scaturia cantando,
E balenava al sole, e saettando
Giù per la china si fuggia del monte.

Indi poco lontan, sotto l’acerba
Fronda d’un elce noderoso e involto,
Una fanciulla, ch’avea bianco il volto
E nerissimo il crin, sedea sull’erba.

Sedea soletta, e con balda gajezza
Intrecciava di fior nodi e ghirlande:
La sua virtù non doveva esser grande;
Ma oh come grande era la sua bellezza!

Parsa bella saria tra le più belle;
Tanto ch’io stetti a rimirarla fiso:
Ella si mosse, e mi guatò nel viso
Con un par d’occhi che parean due stelle.

E sorridendo disse: In cortesia,
Perché mai mi guardate in tal maniera?
Son io forse un’immagine di cera?
Son io forse la vergine Maria?

Ed io: Vi guardo perché siete un fiore,
Tal che il più bello ancor non l’ho veduto.
Poi celiando soggiunsi: Io vi saluto:
Dite, vorreste far meco all’amore?

==>SEGUE
Ella, mescendo il riso alle parole,
Rispose: Oh no, noi non faremmo il pajo.
A me piace l’amor libero e gajo,
Che nasce e cresce come l’erba al sole.

Signor no; voi non fate al caso mio:
Perché (nol dico già per farvi torto)
Mi sembrate, a guardarvi, un uomo morto.
Risuscitate, se potete. Addio.

L’INCANTESIMO

Nel precipite fianco e nell’eterna
Rupe d’un monte, ch’orrido di gelo
Leva la fronte smisurata al cielo,
S’apre cupa e profonda una caverna.

Massi di fulvi o pallidi metalli
Formano in giro le pareti, ed aspri
Scogli di selce ed onici e dïaspri
E costellanti groppi di cristalli.

Pendono dalla volta ampia e sonora
Lampade accese di raggiante foco,
Che ardendo immote empiono intorno il loco
D’una rosata chiarità d’aurora.

Sovra un talamo d’or che in vaghe forme
Mostra e sculte figure arte divina,
Giace una bionda vergine supina,
Con le man giunte sovra il petto, e dorme.

Bella al paro del sol! tutta di bianco
Vestita, e cinta d’incarnate rose
Le profluenti chiome e l’amorose
Candide braccia e il dilicato fianco.

Giace supina la gentil donzella
E dorme in pace: d’un composto e lieve
Spiro le ondeggia appena il sen di neve:
Non vide il mondo mai cosa più bella.

Tutto all’intorno, in iridate e chiare
Conche d’opale, in gran forzieri d’oro,
Vedesi accolto insiem quanto tesoro
Strappa l’uomo alla terra e invola al mare

==>SEGUE
Topazii d’aureo lume, e latteggianti
Perle, e rubini in vivo sangue tinti;
Verdi smeraldi e rutili giacinti;
Glauchi zaffiri e fulgidi adamanti.

Dalle lampade piove una tranquilla
Chiarezza, come di nascente giorno,
Sulla bella sopita, e a lei d’intorno
L’ammucchiato tesoro arde e sfavilla.

Opra il tutto è d’incanto, a cui l’antico
Savio che autor ne fu pose tal legge: —
Se alcuno mai sarà dell’uman gregge,
Re di corona, o paltonier mendico,

Che in questa grotta entrato arda d’amore
Per la fanciulla e sprezzi ogni altra cosa,
Quella, dal sonno desta, abbia in isposa,
E del tesoro ancor resti signore.

Ma chi amor sconoscendo e ciò ch’ei puote,
Abbia d’altro desio l’alma percossa,
Colei che dorme unqua destar non possa,
E si parta di quinci a mani vuote.

Tal legge il savio pose, e assai da allora
Tentâr l’impresa di quel gran riscatto:
Corser mill’anni, ed il tesoro è intatto,
E la vergine giace e dorme ancora..

MORTO CHE CAMMINA

Vi parrà qualche nuova baggianata
Da far mettere un uomo alla berlina;
Eppur, signora, è una cosa provata:
Signora, io sono un morto che cammina.

Me ne ricordo come fosse jeri:
Ero vivo e spavaldo e malaccorto:
Un dì, mentre ne gìa sopra pensieri,
Mi colse freddo e da quel dì son morto.

Morii solo, da me, senza nojose
Querele e a guisa d’un antico saggio;
Morii nel mese in cui nascon le rose;
Morii un mattino del mese di maggio.

==>SEGUE
Da quel dì mangio e bevo e vesto panni,
E discorro, e talor vado a diporto;
Ma voi non ci credete a quest’inganni;
Ma voi tenete a mente ch’io son morto.

E però, se vi guardo, e se talora
Vi parlo delle mie pene secrete,
E se dico d’amarvi, — oh, mia signora,
Per carità di voi, non mi credete.

RACCAPRICCIO

Per la selva folta e scura,
Sotto il cielo spento,
Passa come un raccapriccio di paura
Un gran brivido di vento.

Ecco, il mare delle fronde
Freme, s’agita, si lagna:
Vasto il gemito si leva e si diffonde
Tutto intorno alla campagna.

Ma di nubi incoronato,
Dietro l’erta rovinosa,
Lentamente spunta il volto insanguinato
Della luna tempestosa.

Truce volto di Medusa,
Boccheggiante, innorrescente,
Che di sbieco, fra la tenebra confusa,
Guarda in giù sinistramente.

Tosto il vento vagabondo
Nel lontan vanisce:
Sopraggiunta da novello orror profondo
La foresta ammutolisce.
I MONACI MORTI

Quando dall’erto campanil, che il volo
Turba alle nubi e l’aquile sgomenta,
Dodici squilli il lugubre orïuolo
Nel gran silenzio della notte avventa;

Giù nella chiesa solitaria e tetra,
Cui di lampade schiara un baglior livido,
Corre nell’aria e per le mura un brivido,
Si scoperchian le antiche arche di pietra,

Si spalancan gli avelli, e numerosi
Ne sbucan fuori i monaci risorti,
I monaci fedeli e virtuosi
Che già da tanti secoli son morti.

Ahimè, come risorti! altro non resta
Di lor persone che gli scheltri ignudi,
Con i sandali ai piè, con l’atre e rudi
Tonache indosso ed i cappucci in testa.

Se ne van per la chiesa a capo basso,
L’un dopo l’altro, con le man congiunte:
Crocchiano l’ossa loro ad ogni passo,
L’ossa per lunga età mezzo consunte.

Vanno l’un dopo l’altro, ed alle pile
Si segnan con le man trepide e lente;
Salutano ogni altar divotamente
E v’accendono i torchi in lunghe file,

Silenzïosi allor salgono in coro,
E seggon tutti nelle antiche scranne:
Giganteggiando l’organo sonoro
Drizza nell’ombra le lucenti canne.

E poi che curvi son rimasti alquanto,
Levano i teschi, e sogguatando fisso
Con le torbide occhiaje un crocifisso
Che d’alto pende, dan principio al canto.

Bieche sfolgoran via per la tastiera
Le scheletrite man dell’organista,
Tempestando, incalzando: al bujo mista
Rugge di voci in alto una bufera.

Oh, come strane e paurose sono
Lor voci! oh, come nelle volte cozza
Sinistro il canto, e con orribil suono
L’organo rugge e rantola e singhiozza!
O Signore, o Signore!
Da tanti secoli noi qui siam morti
Ed aspettiamo invano l’agognata mercede:

Noi vissuti d’amore,
Contro il nemico vigili e forti;
Noi d’amore vissuti, di speranza e di fede.

Per te quel mondo e il nostro
Corpo negammo con tanto zelo,
Per te la cara luce rinunziammo del sole.

Sepolti in questo chiostro,
Noi t’adorammo, sognando il cielo,
In te solo fidando e nelle tue parole.

Or perché non ci ascolti?
Bugiarda pace n’hai tu concessa;
Angoscioso è, Signore, il sonno della tomba.

Pietà di noi sepolti!
Ahi troppo tarda la tua promessa.
Troppo tarda lo squillo dell’angelica tromba.

Siccome un’onda che s’adegui cala
Nell’aria immota il canto estenuato,
L’organo con un lungo e disperato
Urlo la procellosa anima esala.

Ridiscendono i morti a capo basso,
L’un dopo l’altro, con le man congiunte:
Crocchiano l’ossa loro ad ogni passo,
L’ossa per lunga età mezzo consunte.

Inchinano ogni altar, smorzano i ceri;
Tornan dentro alle tombe orride e spente:
Cadon sopr’essi fragorosamente
I gran coperchi ponderosi e neri.

A TE

Donna, che gli occhi hai di color di notte,
È cupa come il mar l’anima tua,
Come l’arcano e invitto mar che inghiotte
Nel muto grembo la smarrita prua.

Veggo le buje chiome e il vagabondo
Lampo degli occhi tuoi; nel bianco viso
Veggo il purpureo fior del dolce riso;
Ma nell’anima tua non veggo il fondo.

Odo la voce che i tuoi labbri a modo
Versan di musicale onda profusa;
Ma nell’anima tua velata e chiusa,
Per quanto ascolti, la voce io non odo.

Fata, che gli occhi hai di color di notte,
È cupa come il mar l’anima tua,
Come l’arcano e invitto mar che inghiotte
Nel muto grembo la smarrita prua.

FRA MARE E CIELO

Sotto un cielo d’acciajo brunito,
Sullo specchio del mare infinito,
Passa grave — la livida nave
Dietro al raggio del sole che muor.

Dal traverso camin rompe un grumo
Procelloso di torbido fumo;
Dalla poppa — si spiega, si sgroppa
La bandiera d’incerto color.

Dalle buje caverne voraci,
Dove splendon le rosse fornaci,
Dal subuglio — fervente esce un muglio
Qual di mostro ferito nel cor.

Pari a larva radente l’abisso,
Incalzata sul tramite fisso,
Come un’ombra — che mobile ingombra
L’aria e l’acque d’arcano terror,

Il vascello fantastico e smorto,
Che non deve mai giungere al porto,
Passa lento — sull’onde d’argento,
Dietro al raggio del sole che muor.
RIMEMBRANZA

Oh dolcissimo sogno, oh rimembranza!
Era un giardino antico in riva al mare:
Innebbrïava l’aria una fragranza
Soporosa e sottil di piante rare.

Era la notte; una serena, augusta
Notte di giugno: ardeva il ciel, dormiva
Profondo il mare: appiè d’una vetusta
Quercia noi sedevam presso la riva.

Venia dal mar con trafelato e lento
Soffio la brezza, e tra le fronde in giro,
Colte da un lieve rabbrividimento,
Molle e calda vania come un sospiro.

Con bronzee voci, trepidanti e fioche,
Sotto il limpido ciel, nella sopita
Notte squillavan l’ore; ahimè, le poche
Ore felici della nostra vita.

Ebbra d’amor, sul petto mio la bionda
Testa tu rovesciavi, e con tenaci
Braccia a te mi stringevi, e, sitibonda,
Baci chiedevi e baci ancora e baci.

E via pel ciel con lenti e dolci lai,
Trepidanti d’amore e di speranza,
Volavan l’ore che non tornan mai.
Oh dolcissimo sogno, oh rimembranza!
INVOCAZIONE A VENERE

Voluttà di numi e d’uomini,
Venere Ericina;
O d’amor regina, o Venere,
Di beltà regina;
Di te sognano le vergini
Dall’amore avvinte e dome;
I poeti impallidiscono
Quando ascoltano il tuo nome.

I poeti di te sognano
E le pie fanciulle,
Che furtive ai dolci anelano
Talami e alle culle:
Ma tu bionda, blanda Venere,
Voluttà d’uomini e dei,
Tu fra’ numi e tu fra gli uomini
Più non regni e più non sei.

E in tua lode più non alzasi
Esultando l’inno,
Delle jonie e dell’eolie
Cetere al tintinno;
E dei mirti all’ombra tacciono
Le tue favole gioconde,
Che te nata un dì narrarono
Dal sen vitreo dell’onde.

Ma se fuor dell’onde cerule
Sfavillanti al sole,
Delle sacre onde che ridono
Nelle greche fole,
Più non sorgi ignuda e candida
Dei tritoni in mezzo al coro,
Erto il sen, fidate ai zeffiri
Le lucenti chiome d’oro;

Mentre lungo i queti margini,
Sulle zolle erbose,
Languon ebbre di lor aliti
Sotto al sol le rose;
Mentre danzano le driadi
Seminude per i prati,
E nell’alte selve trillano
Gli usignoli innamorati;    ==>SEGUE



Fuor dai gorghi di quest’anima,
Procellosi, amari,
Sfolgorante nelle tenebre,
Dea d’amor, riappari;
Fuor dai cupi e negri vortici,
Senza fondo e senza riva,
Sorridente nelle tenebre,
Sorgi, o donna, sorgi, o diva.

Sorgi! e tutto ancor m’irradia
Del tuo dolce lume:
Tu m’avvolgi e tu mi penetra
Del tuo vivo nume:
E nel tuo riso ineffabile
Che converte il lutto in gioja.
Nel tuo bacio incancellabile
Fa ch’io svenga e fa ch’io muoja.

TORQUEMADA

Nella terra ospital del sanbenito,
Entro una chiesa, il Torquemada, il grande.
Il santo inquisitor, di cui si spande
Così nobile fama, è seppellito.2

È seppellito in modo assai decente
D’una bell’arca lavorata in seno,
Opra di buono stil; ma nondimeno
Ei ci si annoja maledettamente.

Essere stato Grande Inquisitore,
Aver bruciato ottomila persone,
Per poi dover così fare il poltrone
Al bujo, ahi Dio, gli è pure un gran dolore!

(Ottomila con cifra arrotondata;
Ma furon bene ottomilaottocento:
Le centinaja, a fare ognun contento,
Si dan gratis, di giunta alla derrata).
___________________
2 Si crede da molti che Tommaso di Torquemada sia seppellito nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, in Roma; ma è questo un errore. In quella chiesa è seppellito il cardinale Giovanni, che fu zio del Grande Inquisitore.
==>SEGUE
Ei ricorda, e ci trova un po’ di sfogo,
Que’ cari tempi d’ogni pregio adorni,
Quando a dozzine, tutti i santi giorni,
Cristiani e Giudei mandava al rogo.

Ah, come ardean quei tizzoni d’inferno
Presenti il clero, il popolo e la corte!
E come, ardendo, gridavano forte
La gloria della Chiesa e dell’Eterno!

Quelli eran tempi di sicura e balda
Giustizia, di giustizia sbrigativa;
Tempi di fede generosa e viva;
Anzi diciamo pur di fede calda.

Sempre questo pensier torbido e meschio
Gli si ravvolge entro la mente in cerchio:
Egli scatta ogni tanto, ed il coperchio
Dell’arca smuove e caccia fuori il teschio.

Guarda in là per la chiesa oscura e vota,
Dove il baglior di poche, moribonde
Lampe rompe le tenebre profonde
Dinanzi a qualche immagine devota;

E com’uom cui la febbre del digiuno
Tolga il giudizio, urla con rauca voce
Nel gran silenzio: Per la Santa Croce!
O dunque! non si brucia più nessuno?

VERITÀ

Più rifrusto e rinvango,
E più mi persuado
Che della Bibbia è questa
La verità più certa e manifesta:
L’uomo, che tra le bestie ha il primo grado,
È impastato di fango.
DIALOGO INNOCENTE

Ella disse ridendo: Oh che tormento!
Sempre col mondo e con voi stesso in lite!
Che cosa mai vi ci vorrebbe, dite,
Per farvi stare un pocolin contento?

Sospirando io risposi: In cortesia,
È mia la colpa se non ho mai pace?
Se procellosa più, se è più vorace
Dell’indomito mar l’anima mia?

Credete a me, credete: è un grande strazio,
Tanto più grande quanto è più nascoso,
Questo di non potere aver riposo,
Questo di non potere esser mai sazio.

Ella ridendo mi guardava, fissi
Negli occhi miei que’ suoi grand’occhi neri:
Io, che sospiro molto e volentieri,
Trassi di nuovo un gran sospiro e dissi:

Se terra e mar, se con le stelle sue
Voi tutto il cielo mi deste in governo;
Se mi faceste Giove o Padre Eterno,
Sarei forse contento un’ora o due.

Ma, se leggendo il mio pensier, se tocca
Di pietà più sincera e più garbata,
Mi deste un bacio della vostra bocca,
Sarei contento tutta una giornata.

NUOVA TORTURA

Nuova tortura, incognita agonia!
Nel corpo che si logora ed invecchia,
Nel corpo che a morir già s’apparecchia,
Torna a ringiovanir l’anima mia.

Torna agli amori e al dolce error di pria,
E gli obliati sogni ecco risogna,
E un ben che più non può sperare agogna.
Nuova tortura, incognita agonia!
IL FONTE

Fuor della rupe livida zampilla
Dardeggiando la fonte, e il fuggitivo
Umor frangendo giù pel verde clivo,
All’oriente sol smaglia e sfavilla.

Di qua, di là, silenzïoso e fosco,
Su per le balze rovinose e brulle,
Il bosco sale e s’avviluppa, il bosco
D’antichi abeti e d’ispide betulle.

Precipitando sulle nude selci,
Sfolgora l’onda sgominata e franta;
Umili fior di campo e incise felci
Intorno a sé, fuggendo, irrora e canta.

E par che dica: È tal qual io mi sono
L’umana vita: un fuggitivo errore,
Una mobil parvenza, un debil suono;
Onda che passa e si ringorga e muore.

Fugge travolto il rivo, e, giunto al piano,
In un muto padule entra e si perde;
Ma, fuggendo, di accese iridi il vano
Aere dipinge ed il quïeto verde.

SONETTO MINIMO

Ora che i rami
Nel ciel tranquillo
Son tutti un trillo,
Dimmi se m’ami.

Or che al serpillo,
Or che agli stami
Volan gli sciami,
Se m’ami, dillo.

Viso adorato,
M’ardono i baci
Che non t’ho dato.

Ah, ti trabocca
L’anima... taci!
Baciami in bocca.


LA ROSA E IL CIPRESSO

                                   A MARIA

Una rosa, in cui tutte eran del sesso
E dell’età le grazie, un bel mattino
S’innamorò di un rigido cipresso
Che muto e nero le sorgea vicino.

Era il maggio fecondo, era l’aurora
D’un luminoso dì: sui lenti steli
Si drizzavano i fior, mal desti ancora,
Ridendo al riso che splendea ne’ cieli.

E la purpurea vergine, che poco
Avea dormito sul pungente ramo,
Dal grembo acceso in più vermiglio foco
Sospirò: Bel cipresso, io v’amo, io v’amo!

A quel sospir la taciturna e mesta
Arbore, a cui sorride invano il sole,
Rabbrividì nella sua bruna vesta,
E fremendo spirò queste parole:

Del novo amore onde te stessa inganni,
Rosa, fiore dei fior, grazie ti rendo;
Ma tu pur or se’ nata; io da cent’anni
Qui vivo e l’ora della morte attendo.

Non vedi tu, gentil, come ineguali,
Anzi contrarii ne formò la sorte?
Tu, col fiato, un vital spirito esali;
Io, con quest’ombra, diffondo la morte.

Era il maggio fecondo, era l’aurora
D’un luminoso dì: l’aure amorose
Blandian co’ baci i fior mal desti ancora,
E la rosa al suo amor così rispose:

Scuro cipresso, io v’amo! e che ne importa
Se voi cipresso, s’io rosa mi chiamo?
Nella muta ombra vostra io viva e morta
Bramo dormir. Triste cipresso, io v’amo!

Era il maggio fecondo, era l’aurora
D’un lieto dì; me ne ricordo ancora.

LA FATA

In mezzo alla foresta erma e profonda
Un’obliqua spelonca entra nel sasso:
Schizza fra’ tronchi e, susurrando, al basso,
D’un lucente ruscel sfolgora l’onda.

Sul limitar della spelonca, Oltruda,
La fata dai sereni occhi raggianti,
Sovra un letto di fresche erbe odoranti
Giacea supina, neghittosa, ignuda.

Rutilando scendea fra l’alte e scure
Piante un raggio di sol dall’occidente,
E con lingua di foco ebbra e rovente
Quelle membra lambia nitide e pure.

Ella si stava alla carezza immota,
Fatto origlier dell’una e l’altra mano,
E ascoltava il cucul, che di lontano
Vibrava al ciel la sua povera nota.

Per un sentier che si smarria nel bosco,
Sotto l’addormentata ombra solenne,
Scuro nell’armi un cavalier sen venne,
Montato sopra un gran cavallo fosco.

Poderoso e superbo a meraviglia
Mostrava il bujo cavalier l’aspetto:
Un leon nello scudo, e in mezzo al petto
Un’accesa traea croce vermiglia.

Giunse colà dove simile a un fiore
Oltruda sulle molli erbe giacea:
Mirò stupito e: Mortal donna o dea,
Esclamò, a qual patto il vostro amore?

Ella sorrise e con parole accorte
Rispose: A tal quale il destin lo indoppia
Quando mortal con immortal s’accoppia:
A me, nova bellezza; a te, la morte.

==>SEGUE
Il suo riso l’immota e solitaria
Ombra intorno irraggiò; le sue parole
Come un canto di flauti e di vïole
Ondeggiando si sparsero nell’aria.

Moriva in ciel trascolorato il giorno.
Come in un sogno che rapido svampi
Rivide il cavalier le piagge e i campi
Di Terra Santa onde facea ritorno.

E rivide il castel dove la pia
Consorte e i figli l’attendean pregando:
Giunse le palme, sospirò tremando,
E com’ebbro gridò: la morte sia.

Ella il guardò coi grandi occhi sereni;
Poi contemplò se stessa, il colmo petto,
Le bianche braccia, il fianco agile e schietto,
Il suggellato ventre, e disse: Vieni.

Il cavalier, senza ribatter voce,
Fissi gli sguardi in quel bel corpo ignudo,
Balzò di sella, arrandellò lo scudo,
Gittò lungi da sé l’armi e la croce. —

Brillâr nell’alto come accese faci
Le stelle, e intorno al talamo selvaggio,
Quanto durò di quelle faci il raggio
L’aure sonâr di gemiti e di baci.

E come in ciel spuntò l’alba novella,
Sorse la fata e trasse al rio sonoro;
In capo s’annodò le trecce d’oro,
E si vide nel rio fatta più bella.

Si destava la selva al dì risorto,
E la empievan gli augei di lieti canti:
Sovra il letto di molli erbe odoranti
Giacea disteso il cavaliero morto.
NAVE

Solca la tenebrosa onda ineguale,
Sotto l’ira del ciel la stanca nave
Della mia vita, e passa, e la fatale
Ruina estrema e il voto obblio non pave.

Dentro l’anima mia, nel più vitale
E dïafano limbo, ove la grave
Ombra del tedio e del livor non sale,
Passa un ricordo tenero a soave;

Soave come lo spirtale ardore
Delle vergini rose alla feconda
Carezza accese del florente maggio;

Tenero come una canzon d’amore
Per la limpida notte e la profonda
Quïete errante, delle stelle al raggio.
UN CASO STRANO

Mi succede, o signora, un caso strano,
Un caso da romanzo o da ballata:
Una bella ragazza di Milano
S’è di me, non so come, innamorata.

La ragazza ha vent’anni, ed io, pur troppo,
N’ho già quarantaquattro in mia malora;
Un maledetto numero, signora,
Che in materia d’amore è un grande intoppo.

E poi bella! vedesse! un’angioletta
Con due grand’occhi teneri e profondi,
Un naso greco, una bocca perfetta,
E in capo un’onda di capelli biondi.

E poi cara! l’udisse! una parola
Pensosa e calda che discende al core,
Con certe note dolci in tuon minore
Che par che l’abbia un flauto nella gola.

Io non l’avevo mai veduta ed ella
Un bel giorno mi scrisse aperto e chiaro...
Guardi, una letterina come quella
Non l’ha mai scritta il nostro Annibal Caro.

Sotto un pesco fiorito era adagiata
Sull’erba nova, ed io le dimandai:
Anima benedetta, o come mai,
Come di me vi siete innamorata?

Levommi in viso quegli azzurri e tersi
Occhi suoi, dove al sol brillava accesa
Una pia lagrimetta, e: I vostri versi,
Disse, son quelli che così m’han presa.

Sospirando soggiunsi: O cara speme,
Un doglioso pensier per voi m’accora.
Rispose: Io son tanto felice! — Allora
Di tenerezza lagrimammo insieme.


RICORDO DI ZANTE

È a mezzo il dì: nelle profonde e chiare
Trasparenze del cielo il sol sfavilla;
Sotto il bacio del sol palpita e brilla
L’azzurra e viva immensità del mare.

S’increspa l’onda e di fugaci spume
Frangia intorno la spiaggia solitaria:
Ritti e saldi com’alberi di nave
Quattro cipressi trafiggono l’aria.

Splende il ciel, splende il mar, cui sfioran l’ale
Dei vagabondi zeffiri leggieri:
Nel luminoso dì tacita sale
L’ombra dei funerali alberi neri.

Giace ivi presso tra le selci e l’erba
D’una gracil colonna il fusto infranto,
Giace travolto un capitel che serba
Intatto il fiore di foglie d’acanto.

In fondo al ciel di pallide, sfumanti
Nuvole corre una sottil falange:
Mormora antiche storie, oscuri canti
L’onda che senza fin pulsa e si frange.

L’ASTRO MORTO

Nei più remoti, inesplorati abissi
Dello spazio infinito, oltre ogni meta
Di nostro ciel, con smisurata elissi,
Fulminando in sua via ruota un pianeta.

Ruota con oscillante, obliquo polo
Per l’eterne dïafane lacune,
Seco traendo nel rapace volo
Sette in giro librate agili lune.

Ruota cerchiando un mostruoso sole,
Un incognito sol, del quale i rai
Agli occhi infermi dell’umana prole
Mai non brillâr, non brilleranno mai.

Agonizza quel sol: d’ignote, immense,
Cieche forze un dissidio, un fatal gioco
Della natura, subitano spense
La miglior parte del suo vivo foco.

Agonizza quel sol: come rovente
Carbon riarso che s’offusca e langue,
Brucia nel cupo ciel sinistramente,
Splende d’una feral luce di sangue.

Un repentino e disperato algore
Quel pianeta agghiacciò, contrasse il voto
Etra d’intorno, in un mortal rigore
Ogni vita irretì, strinse ogni moto.

Piombò nel nulla una progenie antica,
Forte, gentil, dalle latebre prime
Dell’error, con indomita fatica,
Sorta del vero alle raggianti cime.

Sperse una civiltà, non di fraterno
Sangue macchiata, non bugiarda e vile,
Ma verace, ma pia; svelse in eterno
D’arti serenatrici il fior gentile.

==>SEGUE
Quel sol si spegne, quel pianeta è morto:
Sotto il nitente arrubinato cielo,
Sparsi di prue che non vedran mai porto,
Stendonsi i mari assiderati in gelo.

Dai vasti campi, dall’emerse arene,
Sorgon l’alte città superbamente,
Cinte d’orrore, di silenzio piene,
Fatte sepolcri della morta gente.

Per l’aer fitto, neghittoso e prono
Più non guizza il balen di piaga in plaga,
Più non iscoppia rovinoso il tuono,
Più la nembosa nuvola non vaga.

Le sette lune, or giunte, or dispartite,
Con segnata vicenda, in mobil serto,
Si rincorron pel cielo, e sbigottite
Van contemplando il lugubre deserto. —

Nei più remoti, inesplorati abissi
Dello spazio infinito, oltre ogni meta
Di nostro ciel, con smisurata elissi,
Fulminando in sua via ruota un pianeta.
IL LIUTO

Il suo nome perì; ma dura in terra
La gracil opra dell’audace ingegno,
L’opra che in poche corde e in picciol legno
Tante accese e frementi anime serra.

Spesi egli avea molt’anni già, tentando
E ritentando d’infrenar nei cavi
Lombi gli agili ritmi e le soavi
Note che in mente gli fiorian cantando.

Molti e molt’anni invan: sempre l’ignava,
Insensata materia al pazïente
Di sue mani artificio, al voto ardente
Dell’indomito cor si ribellava.

Stanco alla fine e disperato e fisso
In un pensier meraviglioso e scuro,
Una notte, con orrido scongiuro,
Satana svelse dal profondo abisso.

Fuor dalle zolle lacerate ed arse,
Fulminando schizzò nell’aer cieco
L’angiol d’inferno, e tracotante e bieco
Gridò: Che vuoi? sien le parole scarse.

Quegli prese a parlar: Di pompe e d’oro
E di piacer nulla vaghezza io sento;
Ma sol di questo picciolo strumento,
Solo di questo, o Satana, m’accoro.

Dell’anima che spera, ama, desia,
Piange e si cruccia, in queste lignee foci
Io sognai di raccor tutte le voci;
Ma non resse al voler l’industria mia.

Che deggio far? pace non ho dappoi
Che m’ingombra quel sogno; e mi consumo
Tutte veggendo dileguarsi in fumo
Le mie speranze. Ajutami, se puoi.

==>SEGUE
Com’ebbe udito, una ed un’altra volta
Il maledetto con pupille accese
Guatò ghignando il dilicato arnese,
Poi: Buon consiglio saprò darti: ascolta.

Una vergine uccidi, a cui, pur ora
Nato, nel core il primo amor s’annidi;
Un cavaliere innamorato uccidi,
A morir pronto per colei che adora.

Uccidi un trovator dalla cui bocca
Sgorghi soave e lusinghiero il canto;
E una pentita, che in preghiere e in pianto
L’anima versi dalla grazia tocca.

Uccidi un pellegrin che in duro esiglio
Chiami la patria straziata e cara;
E una madre, che steso entro la bara
Vegga il corpo dell’unico suo figlio.

Uccidi; e in nome mio, la croce infranta,
Oltraggiato colui cui più non servi,
Nel cavo legno e nei distesi nervi
Le fremebonde, ignude anime incanta.

Disse, sparì. L’artefice ossequente
Giusta il precetto uccise, e nelle sorde
Fibre del legno e nelle tese corde
L’anime imprigionò perfidamente.

Ed ecco ha vita e sentimento e umana
Voce il lïuto, e di sì dolci note
Susurreggiando l’anime percote
Che dalla terra le rapisce e strana.

Egli dannato fu, senza perdono;
Ma dal lïuto donne e trovatori,
E su nel cielo gli angeli canori,
Traggono accenti d’ineffabil suono.
AMOR DI VERGINE

Donne che avete maestria d’amore,
Datevi pace e non vi disperate;
Ha l’amor delle vergini un sapore
Che il vostro non ha più, checché facciate.

Un sapor? forse no; ma una fragranza
Dilicata e sottil che assai mi piace:
Donne in cui l’arte la natura avanza,
Il vostro più non l’ha, datevi pace.
*
* *
Ella mi disse: Io v’ho donato il core,
E con il cor tutta l’anima mia.
Qual altra prova chiedete d’amore?
Come volete che più vostra sia?

Ed io le dissi: O benedetta e cara,
Sempre l’amore insazïato freme
Dentro il mio petto: io voglio il foco e l’ara:
Io voglio aver l’anima e il corpo insieme.
*
* *
Ella levò per riguardarmi fiso
Molli di pianto le pupille, e poi...
E poi, nascosto nel mio petto il viso,
Tremando balbettò: Fa’ ciò che vuoi.
*
* *
Un melagrano alle sue chiome bionde
Era di trasparente ombra cortese:
I fior sanguigni tra le verdi fronde
Labbra parean di desiderio accese.

Ed io sviai dalla sua bianca faccia,
Da’ suoi grandi occhi una dorata ciocca:
Ed io la tolsi tutta in sulle braccia,
E la baciai perdutamente in bocca.
*
* *

==>SEGUE
Per mezzo ai rami e alla frondura acerba
D’un eucalitto, ne mirava il sole:
Veggente il sol, l’erba ci accolse, l’erba
Sparsa di margherite e di vïole.

Ed io vidi rotar, ebbre, sora messe,
Le sue pupille, ed io sentii quel core
Balzar convulso: — e simile ad un fiore
Il chiuso grembo verginal s’aperse.


LA SILFIDE

Freddo e muto, entro un’orbita profonda
Di negre rupi disfidanti il cielo,
Come uno specchio terso, come una gemma tonda,
Splende alla luna il lago di liquefatto gelo.

Non gracil fiore, non diserto stelo
Avviva il greppo alla cadente sponda;
Non fiato di notturna brezza rincrespa l’onda
Al solitario e muto lago di sciolto gelo.

Di bianca luce spiritale accesa
Scende una forma tra le rupi, lieve
Come bioccol di nube nell’azzurro sospesa,
Candida come lembo d’immacolata neve.

È l’errabonda silfide che torna
Agli ermi gioghi, ai liquidi cristalli;
Torna dai proni clivi, torna dall’ime valli,
Ove l’affaticata stirpe dell’uom soggiorna.

Un dïafano vel che l’occhio illude
Men di quanto faria l’acqua d’un fonte,
Dal petto in giù le avvolge le belle membra ignude:
Un glauco dïamante le riscintilla in fronte.

Giunte in grembo ha le mani, ed a vederla,
Sembra che dorma e che rida sognando;
Ma vibran l’ale tenui di libellula, e al blando
Lume balenan iridi come di madreperla.

==>SEGUE
Discinta, e molle quale il fior del loto,
Scende la radïante in riva al lago;
Si sporge dalla rupe, e immota nell’immoto
Gorgo contempla a lungo la sua gioconda imago.

E ride, e un canto affascinato e lento
Scioglie nella quïeta alba lunare:
Guizzano nel silenzio le note acute e chiare,
Tintinnano fremendo come squille d’argento.

— Poveri amanti miei morti d’amore,
Dormite in pace nella terra oscura:
Mai per amor non batte della silfide il core;
D’amor la fredda e casta vergine non ha cura.

Molti i suoi baci e il candido tesoro
Delle sue membra desiâr; ma, sorda
Alle preghiere, ai pianti, quando se ne ricorda
L’invïolata vergine canta e ride di loro. —

Tace. D’un velo di vapori ingombra,
Dietro la balza che d’alto dirocca,
Pari a focoso bolide la luna si trabocca.
Le rupi, il lago, l’aria si spengono nell’ombra.

AI SIGNORI POETI

I.
Fratelli miei, bisogna esser discreti,
E non lagnarsi a torto:
Hanno più d’un conforto
Negato al volgo i poveri poeti.

Gli altri figli d’Adamo invecchian tutti;
Ma noi, se pure il crine
Ci s’imbianca alla fine,
Andiam d’eterna giovinezza lieti.

Vita mezzana ed uniforme il volgo
Vive sino alla morte;
Ma a noi fu dato in sorte
Di goder molto e di soffrire assai.

E mai l’usanza tedïosa e stolta
Il pensier non c’inchioda;
E, s’arrovelli o goda,
Il nostro core non si sfredda mai.

==>SEGUE

E sempre un dolce e tenero sorriso
Ha per noi la bellezza,
E sempre una carezza
E un acceso pensier per noi l’amore.

Sempre fra l’ombre delle nostre notti
Raggia un astro ne’ cieli;
Sempre, fra nebbie e geli,
Ne cresce il verno alcun leggiadro fiore.

Per noi la vita, scolorito e pigro
Sogno a vili ed ignavi,
Di fremiti soavi
E di fulgenti larve si riempie.

Per noi la morte, vergine clemente,
Spoglia le negre stole,
E di miti vïole,
E di placido ulivo orna le tempie.

II.
Fratelli miei, formiam tutti una lega
Di poeti divini:
Sarem forse pochini,
Ma di fervore pieni e di bravura.

A noi l’ombre ed i nomi, a noi le chierche
E le beghine sfatte,
A noi le bieche e sciatte
Turbe de’ farisei non fan paura.

Noi procediam per vie scoscese e scabre
Con la baldanza in fronte,
Guardando l’orizzonte
Dismisurato e l’erte cime e il sole.

Ed aquile volanti alto ne’ cieli
Sono i nostri pensieri;
Son dardi accesi e fieri
Fischianti al vento le nostre parole.

O miei fratelli, moviam guerra a tutte
L’anime cieche e sorde;
Alle vili ed ingorde,
Alle oblique e restie non diam quartiere.

==>SEGUE
Fecondiam con le lacrime e col sangue
Le zolle insterilite,
Affinché più fiorite
Ridano ai figli un dì le primavere.

O miei fratelli, nella bianca luce
Leviam sonoro il canto;
Gridiamo il dolce e santo
Verbo della bellezza e dell’amore.

Incitiamo, ajutiam la stanca e pigra
Stirpe d’Adamo, o prodi,
A sciogliersi dai nodi
Aspri della menzogna e del dolore.