CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS












































MORGANA







LIBRO SECONDO

DUE VOCI

Sotto il livido ciel, nel lume smorto,
Parea languire ogni cosa creata: —
E io udii una voce angosciata
Che gridava piangendo - Amore è morto!

Sotto l’azzurro ciel parea gioire
Nel novo lume ogni creata cosa: —
E io udii una voce festosa
Che allelujava: Amor non può morire!

BARBAGLI FRA LE TENEBRE

Ond’è ch’io mi ricordo, nell’ore stanche e mute,
Di tante strane cose che non ho mai vedute?

E come avvien che quanto m’è più vicino e noto
Più mi sembra talvolta incognito e remoto?

E perché mai sì spesso, vo rivedendo in sogno
Quello cui più non credo, quello che non agogno?

Forse d’un altro mondo, forse d’un’altra vita,
Dentro di me risorge la visïon smarrita?

O, da’ suoi lacci sciolta, l’anima s’infutura,
E la presente vita al suo veder s’oscura?

O in me forse un ignoto ospite pur contende,
E un’anima s’ammorza mentre un’altra s’accende?
AURORA

O translucente e rubiconda aurora,
Che dall’azzurro mar ti levi e spandi,
Tutte dissipi l’ombre, o t’inghirlandi
Solo di nubi che il tuo riso infiora;

Giuliva aurora, tu che sfreni i blandi
Zeffiri dietro alla volante prora;
Tu che gli effluvii onde l’aprile odora
Agli amorosi zeffiri accomandi:

Come sereno e placido il tuo lume
Sale e s’irradia nei superni giri,
Piove e balena sulle ondanti spume!

Come benigno e grazïoso scende
In cor che muto pianga e si martiri;
E la speranza vi ravviva e accende!



NOTTE

Placida notte e di silenzio piena,
Mentre indugia la stanca alba lunare;
Placida notte, cui fa specchio il mare
Che lambe, steso, la deserta arena:

E voi, cui l’occhio dei mortali appena
Può noverar, stelle immortali e chiare;
Stelle, che quanta in suo gran cerchio appare
Ingemmate di voi l’aria serena;

Oh, come dolce e pia quïete scende
Da voi nel cor, che con se stesso invano
E con l’oscuro suo destin contende!

Da quel ciel, che più terso e più lontano
Sua ruota gira, eterna luce splende
Consolatrice dell’esilio umano.

RISCONTRO

Io vidi poco fa l’arcobaleno
Rifiorir di sua vaga dipintura
Una gran nube avviluppata e scura
Ch’avea tutto sommerso il ciel sereno.

E mi sovvenne della vita mia;
E che tutte le gioje, o vere o finte,
Ch’io m’ebbi in sorte, apparvero dipinte
Sopra un gran fondo di melanconia.

LA MIA CACCIA

Di buon mattino men vado alla caccia.
Sotto l’azzurro la vita si desta.
Giù per la valle, in seno alla foresta,
Io vago dietro una voce, una traccia.

Alla caccia men vo di buon mattino,
E poi men torno ciascuna fïata
Con qualche strofa sonante ed alata,
Che frulla e canta come un cardellino.

LA LEGGENTE

Presso lo schermo di color di rosa
Che al fulgente doppier mitiga il lume,
La gentil sopra il nitido volume
China la faccia bianca e pensierosa.

Nella quïeta stanza erra l’acume
D’un esotico olezzo, e fan giojosa
Gara luci e colori, e in ogni cosa
È gusto eletto e signoril costume.

Ella, come se in cor le rigermogli
Pentimento o desio, tien le pupille
Ferme sul libro, ma non volge i fogli.

Svaniti sogni, immagini remote
Par che contempli, e due lucide stille
Silenzïose le rigan le gote.



LE BAGNANTI

Appiè del balzo dirupato e rude,
Che di selvaggio amaraco s’infronda
Molle di sabbia e d’alighe la sponda
In declive e lunato arco si schiude.

Quivi, brigata garrula e gioconda
(Lieve sogno le lievi anime illude),
Tripudïando le bagnanti ignude
Sotto l’occhio del sol calan nell’onda.

Freme di voluttà l’aura sonora,
E l’onda glauca ai rosei corpi intorno
Tutta di spume candide s’infiora.

Van per l’azzurro alcune bianche e sole
Nuvolette vagando, e a mezzo il giorno
Ride sull’acque sterminate il sole.



SOLE INVERNALE

Candida e lieve le indurate ajuole
Copre la neve e il nudo poggio e i prati:
Rosseggiando, fra gli alberi sfrondati
Traluce l’occhio del cadente sole.

Il sanguigno fulgor, che incerto e breve
Tra i negri rami intirizziti splende,
Falde d’accesa porpora distende
E lembi d’oro sulla bianca neve.

Terra, il novo saluto e le promesse
Del sol ricevi: ancor rinverdirai;
Ancor, sciolta dal gel, ti coprirai
Di vaghi fiori e di gioconda messe.

Ma tu, mio cor, tu dall’antico lutto
Mai più, mai più non ti sciorrai. Che giova
Il sole a te? mio cor, chi ti rinnova?
Tu non darai mai più fiore né frutto.




Arturo Graf - MORGANA - Libro II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
LIBRICCIUOLO

Questa mattina apersi
Un libricciuol, che in dono
Ebbi molt’anni sono;
Un libricciuol di versi.

Caro pegno diserto,
Come lo strinsi al seno!
Eran dieci anni almeno
Che non l’avevo aperto.

Dal candido volume
Spirava una dolcezza
Triste, raggiava un lume
Come di giovinezza.

Esalava un aroma
Soave e delicato,
Quale d’un’aurea chioma
E d’un seno rosato.

Immortale fragranza
D’un amor puro e forte,
Di cui la rimembranza
Vince il tempo e la morte.

Rividi nella mente
La man bianca e leggiera.
Che del libro una sera
M’avea fatto presente.

Rividi il caro viso,
Innamorato e triste,
Ove apparian col riso
Le lacrime commiste;

E i grand’occhi pensosi,
Gli occhi ove a quando a quando
S’affacciavan tremando
I desiderii ascosi.

Udii come un incanto
Di parole adorate...
E ribagnai di pianto
Le pagine obliate.
L’URNA

O feconda letizia, o pio ritorno
Sempre invocato dell’april! — Corrosa
E dagli anni e dal gel, sul disadorno
Cippo la bianca e breve urna riposa. —

O graziosa primavera! intorno
Mormora il bosco, freme l’onda ascosa,
Cantan gli uccelli quant’è lungo il giorno. —
L’urna tra ’l verde sta, silenzïosa. —

O primavera tenera e gioconda!
Tutto ride il terren d’erbe e di fiori. —
L’urna ignuda non ha fiore né fronda. —

O primavera fervida e serena!
Avvampa il mondo di novelli amori. —
L’urna di freddo cenere è ripiena.



FUOCHI FATUI

Pallide e nude
Sulla palude
Danzan le animule
Dei fochi fatui
Cui l’ombra illude.

Una folata
D’aria gelata
Passando sperpera
Sull’onda squallida
La lor brigata.

Più vïolento
Rincalza il vento:
Le smorte fiammule
Tutte si spengono
In un momento.


PARAGONE POETICO

Quando al piè di repente
L’ultimo vel le scese,
Il vel che ondeggia ed ole,
Ella apparì splendente
Come una lama fina
D’acciajo aragonese
Che fuor della guaina
Balzi e risplenda al sole.

MEDAGLIA ANTICA

Fugge dal vento dispersa
La torbida nuvolaglia,
Risplende la luna, tersa
Come un’antica medaglia.

Medaglia di fino argento,
Alquanto frusta nel conio,
Segnata d’un semispento
Pallido volto gorgonio.

Medaglia che d’un ignoto
Nume ancor serba l’impronta.
E che d’un mondo remoto
La buja storia racconta.

LODOLETTA

O lodoletta che, fiorendo il maggio,
Via per l’azzurro vai battendo l’ali,
E inebbrïata nell’acceso raggio
Del mattutino sol palpiti e sali;

O lodoletta, chi di noi più saggio?
Tu che trillando tua letizia esali,
Ovver quell’io che del mortal vïaggio
Vado i perigli noverando e i mali?

Tu quel tuo breve e semplice stornello
Senza cura cinguetti, e qual tu sei,
Lodoletta gentil, tal è pur quello.

Io con acre fatica i versi miei
Picchio, ripicchio, tempero, cesello,
E non mi vengon mai com’io vorrei.

AL MIO MUCINO

O mio caro mucino,
Bello, lindo, pastoso,
Lepido, grazïoso;
Ficchino, naccherino:

Mentre al quïeto lume
D’una lampa modello,
Io, com’è mio costume,
Sui libri mi scervello;

Mentre assassino l’ore
Cercando il pel nell’uovo,
O con l’antico errore
Affastellando il nuovo;

Tu vieni quatto quatto
A farmi compagnia,
E mi schizzi d’un tratto
Sopra la scrivania.

Ti freghi a coda ritta
Fra libri e scartafacci,
Poi sulla carta scritta
Placido t’accovacci.

O mio caro mucino,
Bello, lindo, pastoso,
Lepido, grazïoso;
Ficchino, naccherino:

Io prendo gran satolle
Di testi con le note;
Tu rimani in panciolle
Sulle morbide piote.

E beato sonnecchi,
Pien di scïenza infusa,
O mi guardi sottecchi,
Sbadigli e fai le fusa.

E non so se m’inganno;
Ma talvolta direi
Che tu, così soppanno,
Ridi de’ fatti miei.

==>SEGUE
Poi, quando finalmente
Ci vengono a chiamare,
E come l’altra gente
Andiamo a desinare;

Io mangio quanto un grillo,
Consunto d’etisia;
Tu pappi, franco e arzillo,
La tua parte e la mia.

ROSA SPECCHIATA

Tersa e lucida è l’acqua, e la novella
Rosa si specchia dalla verde sponda:
Bella è la rosa fresca e vereconda;
Ma l’immagine sua forse è più bella,
Così svenuta nell’immobil onda.
Non so che luce di mistero in quella
Dolcemente la vela e la circonda;
Tempra il vermiglio foco e nol cancella.

FOGLIA DI ROSA

Sull’aduggiata spera
Del picciol lago posa,
Immobile, leggiera,
Una foglia di rosa.

Così della mia mente
Sull’onda oscura e grave
Un ricordo soave
Del mio tempo fiorente.


CAMMINA, CAMMINA

Già la luce vien manco
E la notte è vicina.
Pellegrino, sei stanco?
Non importa; cammina.

Pellegrin curvo e bianco,
Non vedrai la mattina;
Dunque cingiti il fianco,
E cammina e cammina.

Aspra e forte è la china,
Ma per fortuna è corta;
Dunque, su via, cammina.

In fondo è la ruina
Tenebrosa: che importa?
Cammina, cammina, cammina.


DUBBIO

Per istrada, passandomi vicino,
Quasi mi tocca un frate cappuccino.
Egli mi sbircia con un pio ribrezzo:
Io lo guardo con aria di disprezzo:
— Empio! — Bizzocco! — Satanasso! — Bue! —
Dubbio: chi è più bestia di noi due?

NELLA CITTÀ DEGLI AVI

Nella placida notte e in mezzo al blando
Odor di rose del morente aprile,
Stanca d’antichità dormia sognando
Sotto la luna la città gentile.

Dormia, sognando di sua prisca gente
Le favolose origini, la muta
Povertà de’ primordii e la crescente
Fama e il lungo trionfo e la caduta.

Alta quiete il molle e sonnolento
Aer tenea: solo, pel vasto albore,
Siccome frecce sibilanti al vento
Di tratto in tratto saettavan l’ore.

Per lunghe vie silenziose e vote,
Per piazze e corsi, per crocicchi e chiassi,
Io, vagabondo ed ultimo nipote
D’avi oblïati, gìa traendo i passi.

Vedea cupole e torri entro il sereno
Lume levarsi, e nereggiar quadrati
Palazzi antichi, e alla penombra in seno
Dileguar fughe d’archi e colonnati.

Sentia nel core un fremito confuso,
Come di voci affiochite e lontane,
E suscitarsi e fluttuar nel chiuso
Sbiaditi sogni e rimembranze vane.

E dicea nel mio cor: Tra queste mura
Gli avi degli avi miei ebber lor nido,
Pria che l’odio di parte, o la sventura,
Li cacciasse a vagar di lido in lido.

Quali fûr? di lor senno o di lor possa
Orma alcuna riman? quale di tanto
Travaglio il frutto? e dove giaccion l’ossa
Cui non consola de’ nipoti il pianto? —

Alta quïete il molle e sonnolento
Aer tenea: solo, pel vasto albore,
Siccome frecce sibilanti al vento
Di tratto in tratto saettavan l’ore.
VENEZIA

I.
IN LAGUNA

Dietro il sottil traforo
Del vecchio campanile
Lenta nel ciel d’aprile
Passa una nube d’oro.

Nubi d’oro attraverso
Pendon sull’acque chiare;
È tutto d’oro il mare,
Alluminato e terso.

Il cielo si scolora
E il mare a poco a poco:
Una lingua di foco
Lambe il ponente ancora.

Da una negra peota
Giungon voci lontane;
Un salmo di campane
Muore nell’aria immota.

Treman leggieri canti,
Indistinti susurri;
Sboccian pei campi azzurri
Le stelle palpitanti.

Lungo la curva sponda
S’accendono i fanali;
Serpi di luce e strali
Guizzano a fior dell’onda.

Dal vitreo mar sognando
Spunta la luna piena:
S’irradia la serena
Notte d’un lume blando.

E come un’ala stanca
Che rada lenta il mare,
Passa nella lunare
Alba una vela bianca.


II.
IL CANALE

Nel luminoso e caldo
Meriggio, a solatio,
Pigro s’allunga il rio,
Più verde che smeraldo.

Di qua, di là, palazzi
Di marmo e di mattoni
I rugginosi toni
Specchian ne’ verdi guazzi.

Specchian bifore strane,
Porte intarlate e nere,
Balconcelli e ringhiere
E fumajoli e altane.

Dall’una all’altra sponda.
Esili ponti lievi
Saettan gli archi brevi
Accavalcando l’onda.

Arrancandosi fuori
D’un cortiletto, un grande
Ramo di lilla spande
La festa de’ suoi fiori.

Sopra un gradino smosso
Brilla un secchio di rame;
Penzola da un serrame
Al sole un cencio rosso.

Un volo di colombe
L’aria diguazza e sciacqua;
I palazzi sull’acqua
Son muti come tombe.

Solo di quando in quando
Il suono arrantolato
D’un cembalo scordato
Vien di lontan, vagando.

Larva leggiera e scorta.
Dileguante chimera,
Una gondola nera
Scorre sull’onda morta.

==>SEGUE
Come animal ch’aombra
Balza sull’onda stanca:
Splende una faccia bianca
Allo sportel, fra l’ombra,

Bianca faccia delusa
Di donna innamorata
Che sospirando guata
Una finestra chiusa.

La gondola fugace
Passa, svolta, sparisce...
Sull’onde verdi e lisce
Che silenzio, che pace!

III.
IL CAMPIELLO

Da un lato del campiello,
Sotto la vecchia gronda
Un’inglesina bionda
Sciaguatta un acquerello.

Quasi nel centro, un pozzo,
Sul cui marmoreo fianco
Frondeggia, attrito e stanco,
D’un rilievo lo sbozzo.

In giro torricciuole
E palazzetti antichi,
Nobilucci mendichi
Che si scaldano al sole.

Là dove il lastricato
Ondeggiando si snerba,
Sprizza dai solchi l’erba
E qualche fior di prato.

Sovra un’altana è un poco
D’ortaglia e di giardino;
Raggia nel ciel turchino
Un girasol di foco.

D’una porta nel vano
Sta seduta una vecchia,
E sbadiglia e sonnecchia
Colla calzetta in mano.

==>SEGUE
Carezzevole e blando
Un micio di pel rosso
Le si strofina addosso,
Dolce mïagolando.

Sull’angolo, davanti
Alla sua botteghina,
Un rigattier sciorina
Robe e sciarpe ai passanti.

Stracci d’ogni colore.
Libri senza cartoni,
Sedie zoppe, fiasconi,
Quadri d’ignoto autore.

Nella buona stagione,
E quando il tempo è bello,
Passano dal campiello
Più di cento persone.

IV.
MOTIVO AMOROSO

O mia Venezia, il core
Che non ebbe ventura
D’amar tra le tue mura
Non ben conosce amore.

O Venezia, ben io
Ebbi sì dolce grazia,
E il mio cor non si sazia
Di benedirne Iddio.

Era di contro all’arco
D’un ponte, in una calle
Solitaria, alle spalle
Di quel caro San Marco.

Ognuno può capire
Che della calle il nome
Io ben ricordo e come...
Ma non lo voglio dire.

Era un palazzo antico:
Arredi vecchi e gale
Vecchie in più vecchie sale:
Vecchia ogni cosa, dico.

==>SEGUE
Gli bei giorni sereni!...
Oh messa insieme intesa
Un mattin, nella chiesa
Deserta degli Armeni!

Ore passate in piazza
A guardare i colombi,
Il campanile, i piombi,
Un Turco, una ragazza!

Oh piacer sovrumano
D’amatori novizzi,
Comperar trine e pizzi
E vetri di Murano!

Oh spiaggia singolare
Del Lido! Oh vespri accesi,
Beatamente spesi
Guardando il cielo e il mare

Oh dolci sere estive!
Oh fughe e scorribande
Liete sul Canal Grande,
In gondole furtive!

Oh notti arcidivine,
Cui sospiri e parole
Imploravan che il sole
Mai non ponesse fine!

Oh dell’età fuggita
Caro sogno gentile;
Oh confidente aprile
Dell’amorosa vita!

Oh città di bellezza,
Oh amore e rapimento!
Sempre ch’io vi rammento
Piango di tenerezza!

V.
PLENILUNIO

Nel mite incantamento
Del plenilunio estivo
(Oh fiato semivivo,
Ebbro languor del vento!...)

==>SEGUE

Fosca salendo all’etra
Dal mansueto mare,
Venezia un sogno pare
Di favolosa pietra.

Dalle finestre acute
Il palazzo ducale
Come un vecchio corsale
Guata nell’onde mute.

Poggia superbo e nero
Sulle colonne mozze,
Sogna trionfi e nozze,
Sogna il perduto impero.

Nell’aria queta e sgombra
Par che un bisbiglio giri:
O Ponte dei Sospiri,
Mormori tu nell’ombra?

Sulla colonna antica
Il leon di San Marco
D’anni e di gloria carco
Spiega l’ali a fatica.

E l’isolette arcane,
Che il vitreo mar produce,
Entro la vaga luce
Sembran parvenze vane.

Spiando i miti albori.
Spiando l’ombre urgenti,
Batton co’ grevi e lenti
Magli le ore i Mori.

Battono l’ore, come
Nel bel tempo giocondo,
Quando, o Venezia, il mondo
S’inchinava al tuo nome.

Ma invan la notte e il giorno
Batton co’ magli l’ore;
L’ore del tuo fulgore
Non fanno più ritorno.

==>SEGUE
Oh città glorïosa!
Oh città desolata!
Oh donna abbandonata,
Del mar regina e sposa!...

Lucido il mar s’invetra,
Di nimbi il ciel si screzia:
Fra mare e ciel Venezia
Sembra un sogno di pietra.

NAPOLI

I.
INTORNO AL GOLFO

I miei anni migliori,
I miei anni più santi,
L’età dei primi canti,
L’età dei primi amori,

Trassi nel dolce eliso
Della sponda tirrena
Ch’ebbe dalla sirena
Il caro nome e il riso.

Sempre ho negli occhi il lume
Di quel beato cielo
Ove del monte anelo
Fuma l’arso cacume,

Sempre l’onda turchina
Di quel placido mare
Che le felici ghiare
Lambe di Mergellina.

Veggo Misen, di fole
Garrulo nido, e Baja,
Ninfa impudica e gaja.
Antico amor del sole.

Ischia veggo, l’aulente,
Che sul ceruleo piano
Erge del suo vulcano
L’aride cime spente.

==>SEGUE


Di lauri e d’aranceti
Ischia vago ritiro;
Ischia dolce sospiro
D’amanti e di poeti.

Ecco l’aspra e scogliosa
Capri, che in mezzo al mare
In somiglianza appare
D’alto leon che posa.

Capri cui cinge i fianchi
Il pampino festoso;
Capri, verde riposo
D’imperatori stanchi.

Ecco sull’erta rupe
La leggiadra Sorrento,
Che il molle atteggiamento
Specchia nell’onde cupo.

Sorrento incoronata
Di generosi clivi;
Sorrento da lascivi
Zeffiri accarezzata. —

Discinta d’ogni , velo,
Napoli mia delira,
E gaudïosa mira
L’acqua, il Vesuvio, il cielo.

Sente l’antica ebbrezza
Che lei infervora il sangue,
E innamorata langue
Di sua propria bellezza.

II.
NOTTURNO

Empiea la notte un lento
Odor d’aranci in fiore;
Era tutto un fulgore
Di gemme il firmamento:

E per poco le dotte
Carte lasciando e il vero,
Io l’augusto mistero
Della siderea notte
     ==>SEGUE
Dal sospeso poggiolo
Vagheggiavo, e gli arcati
Cieli, e de’ sogni alati
Il taciturno volo.

Vasto, profondo, in giro
Stendeasi il mar, fremente
Di voluttà latente
E d’inesausto spiro.

E senza fine un novo
D’insorte onde tumulto
Rompea, nell’ombra occulto,
Contro il Castel dell’Ovo. —

Era sereno il cielo,
Era quïeto il mare;
Ardean le stelle, chiare
Nel sempiterno gelo;

E tu, focoso monte,
Che su dal mar ti levi,
Fosca ne’ cieli ergevi!
La fulminosa fronte,

E di vampe ingombrando
E di fumane il polo,
Stavi superbo e solo
Nel silenzio tonando.

Sbieca, la serpe accesa
Della sanguigna lava
Torcendosi rigava
La schiena discoscesa.

E già pendea sui lieti
Campi e sui verdi clivi
Dove allignan gli ulivi
E ridono i vigneti;

E muta in suo stupore,
Sotto il vitreo sereno,
L’onda specchiava in seno
Quel funereo bagliore.

==>SEGUE
Allora agli occhi miei,
Là, sull’adusta riva,
L’immagine appariva
Della morta Pompei:

E nell’alto mistero
Della vicenda antica
Che le cose affatica
Smarriasi il mio pensiero.

III.
PARANZE

Nubi di foco accese
Sotto il cielo turchino;
Lumeggi d’oro fino
Sopra l’acque distese.

Dolci memorie, care
Fuggitive sembianze!...
A frotte le paranze
Tornan dall’alto mare,

Tornan con l’ali aperte
Accivettando il vento;
Passan con muto e lento
Volo sull’onda inerte.

Passano nel bagliore
Del moribondo lume,
Cinte di bianche spume
Le nereggianti prore.

Tornano al conscio lido
Ai fidati riposi,
Come uccelli vogliosi
Che riduconsi al nido.

O paranze, paranze!
Corser molt’anni e molte
Vicende, e in nulla volte
Andar fedi e speranze.

In nulla!... Eppur nell’ora
Che fulvo il sol declina,
Si fuca la marina
E il ciel si trascolora.
==>SEGUE



Voi taciturne e lente,
Con l’ali al ciel drizzate,
Passate e ripassate
Dinanzi alla mia mente.

IV.
PESCATORI

Sull’onda che susurra
Vola una brezza franca;
Trine di spuma bianca
Fioriscon l’onda azzurra.

Di fiotti e di querele
Affanna il mar le rive;
Com’ali fuggitive
Passan lontan le vele.

Per sabbie e per ghiareti,
Fra l’alighe odoranti,
I pescatori ansanti
Traggon dal mar le reti.

Infaticati e rudi
S’alternano al cimento:
Sferzano il sole e il vento
I corpi seminudi.

Validi corpi in grame
Vesti: petti villosi,
Lacerti poderosi,
Tinti in color di rame.

Dietro la tesa fune
Ecco una rete oscilla;
Guizza la preda e brilla
Dentro le maglie brune...

Or chi vuol ricordare.
Pericoli e strapazzi?
Buona pesca, ragazzi!
Sia benedetto il mare!

V.
MANDOLINI

Dorme, fiottando appena,
Sotto la luna il mare:     ==>SEGUE


Oh dolce trasognare
Nella notte serena!

O pia luce che tremi
Sopra l’acque disciolta...
Ma blando il vento... Ascolta!
Pei silenzii supremi,

Susurri clandestini,
Tocchi ed arpeggi... O cara,
Odi? nell’aria chiara
Cantano i mandolini.

I mandolini arguti
Dalle voci tremanti,
Onde perdon lor vanti
Arpe, flauti, lïuti.

Cantano. Gioja, amore!
A gioja amor ne invita.
Amor! non ha la vita
Altro più gajo fiore.

Cantano. Guerre e paci.
pianto e riso. Desiri
Balbettanti, sospiri
Muti, carezze, baci.

Teneri chiacchierini,
Che un zeffiro seduce,
Nella gigliata luce
Cantano i mandolini.

Cantano tuttavia,
Or concitati, or lenti,
Con ansie e smarrimenti
Di dolce frenesia.

Fior d’appio e di ginestra!
Luisella!... Grazïella!...
O cara, o ritrosella,
T’affaccia alla finestra.

Amore, amor! — La schiuma
Bacia ridendo il greto:
Alto nel ciel quïeto
Vampa il Vesuvio e fuma.
NEL CANTONE DI URI

In fondo all’erme valli,
Sopra i declivii erbosi,
I culmini nevosi
Splendon come cristalli.

Pini ed abeti antichi
Coronano le rupi,
Panneggiano di cupi
Festoni i dorsi aprichi.

Fugge tra i sassi e il verde
Un torrentel selvaggio,
Specchia del sole il raggio
E in un burron si perde.

Erran per balze e gole
Pascolando le vacche,
O s’adagiano stracche
E sonnolente al sole.

Passano mute e lente
In quella pace l’ore:
S’allungan l’ombre: muore
Il dì placidamente.

Alta nel ciel turchino,
Forando all’ombre il velo,
Una punta di gelo
Splende come un rubino.
LE CAMPANE DI LUCERNA

Le campane di Lucerna
Romban cupe in cieli oscuri:
Agli afflitti, ai morituri
Fan sognar la vita eterna.

La lor voce è come un tuono
Che sorvoli ai monti, ai piani,
Conclamando accenti arcani
Di corruccio e di perdono.

Quei che prega e si prosterna,
Quei che nega e si rivolta,
Ciascun freme allor che ascolta
Le campane di Lucerna.

A quel suono che accommiata
L’ore stanche, i dì consunti,
Treman l’ossa dei defunti
Nella terra consacrata.

O desio di vita eterna,
Come pungi e come aneli,
Quando rombano ne’ cieli
Le campane di Lucerna!

LA CIMA

Tumultuando, i branchi
Della scura bufera
Premon dell’alpe altera
I rovinosi fianchi.

Sulle pendenti selve,
Sui borri angusti e cupi,
Sulle squarciate rupi,
Nidi d’alate belve,

Con immenso frastuono
Cozzano i venti in prova,
Scroscia la greve piova,
Mugghia e sprofonda il tuono.

==>SEGUE
Ma sul cieco trambusto,
Che invan la stringe e incalza
Vittorïosa innalza
L’alpe il vertice augusto;

E candida di gelo,
Incontro al sol levante,
Smisurato adamante
Alta risplende in cielo.


IL CANNETO

Lungo l’arcata riva
Del lago azzurro e queto
Verdeggia nell’estiva
Alba chiara il canneto.

Come fosse di gelo
L’acqua lucente posa;
In orïente il cielo
Si colora di rosa.

La brezza mattutina
Via pel seren si scioglie,
L’agili cime inclina,
Fa tremolar le foglie.

Sull’acqua solitaria
Corrono voci blande,
Di sospiri nell’aria
Un mormorio si spande.

Che favella è mai questa?
Chi parla nel canneto?
Anima oscura e mesta,
Svelami il tuo secreto.


NOVEMBRE

Oh come triste e disperato e fiero
Fischia tra le sfrondate arbori il vento,
Empie il bosco di strida e in suo tormento
Trae delle foglie il cenere leggiero!

==>SEGUE
Simile a fumo procelloso e nero
Da borea scende un ravviluppamento
Di tetre nubi, è d’ombra e di sgomento
Tutto colma del ciel l’ampio emisfero.

Lungo i botri scoscesi e le fiumare,
E in vetta al colle desolato, gela
Tremando al vento l’erica selvaggia.

Sotto l’immensa e cieca nube il mare,
Cupo, senza un baglior, senza una vela,
Flagella urlando la scogliosa spiaggia.

CRISANTEMI

Quando più tristi, al declinar del mite
Autunno, fansi i dì nebbiosi e scemi,
E col fuggente sol par che si stremi
L’anima occulta nelle verdi vite;

O colorata pompa, o crisantemi,
Voi con profusa carità fiorite,
Consolando le zolle insterilite,
Vedove di corolle e di racemi.

Con gioja l’uomo e con stupor vi mira;
Poi sua vita pensando e la fugace
Apparenza del mondo, invan sospira.

Forma di voi manipolo e corona,
Ed alle tombe ove i suoi morti han pace
Pietosamente vi consacra e dona.

ULTIME FOGLIE

Torbida nebbia nell’aria s’accoglie
E avvolge i clivi di lenti velami:
Trascolorato, l’albero pei grami
Bronchi distilla, si sfascia, si scioglie.

Pallide, lievi, inanimate spoglie,
Che tu, gran madre, al tuo grembo richiami,
Dall’alte vette, dai contorti rami,
Ad una ad una si staccan le foglie.

==>SEGUE
Scendon con breve, titubante volo,
E appiè del tronco ond’ebber vita, e in giro.
Copron di lor scialba fralezza il suolo.

Povere foglie ché già furon verdi!
Tu bieco irrompi, o boreale spiro,
E via rugghiando le trascini e sperdi.



IL RAGGIO

Vasto, tumultuoso e fumolento
Sui campi arati e sulle verdi sponde,
Sulle torbide selve alte e profonde,
Balza e ruina il boreal tormento.

Corron del turbo e si rattorcon l’onde
Con un suon pieno d’ira e di spavento,
E nell’algida piova e nello spento
Giorno sviene ogni forma e si confonde.

Ma repentinamente un aureo, puro
Raggio di sol l’avviluppato e denso
Delle nuvole orror squarcia e scoscende.

E imperturbato e terso entro l’oscuro
Gorgo devastator, per l’etra immenso,
Di cielo in terra saettando, splende.
A TUTTE LE ROSE

Rose, soavi rose,
Candide, porporine,
Incarnate, citrine;
O tenere e vezzose!

Rose, soavi rose,
Delicate, novelle;
Caste più che zitelle,
Ardenti come spose!

Fiorite, o rose aulenti,
Per i prati, pei clivi;
Fiorite lungo i rivi
Muti tra ’l verde e lenti.

Fiorite nelle ajuole,
Fiorite infra le spine,
Fiorite senza fine
Ovunque splenda il sole.

Ai figli del dolore,
Cui la vita contrista,
Rallegrate la vista,
Rasserenate il core.

Sempre di voi s’abbelli
Nostra sorte comune:
Infiorate le cune,
Infiorate gli avelli.
NUVOLE, SOGNI, AMORI

Pallidi, lungo l’erboso margine,
Stendonsi in curvo filare i salici,
Tremano al soffio blando de’ zeffiri
E nella cerula onda si specchiano.

Qui mi lasciate sull’erbe tenere
Giacer supino com’uomo estatico,
E con lo sguardo seguir le nuvole
Che per l’azzurro lente dileguano.

Passeran l’ore quiete e tacite,
Fuori del mondo, lontan dagli uomini,
E nel silenzio che i sensi affascina
Non io frattanto saprò di vivere.

Ma contemplando le bianche nuvole
Che per l’azzurro lente dileguano,
Ricorderommi dei sogni lucidi
E degli amori degli anni giovani.

NUVOLE NOTTURNE

Chiara, fredda, tranquilla è la notte, la prima
Notte dell’anno. Come per l’aria, a stuolo a stuolo,
Passan gli uccelli, quando migrano ad altro clima,
Così passan le nuvole sotto la luna a volo.

Passan sui colli ignudi, passan sui campi arati.
Passan sul mar che a un soffio di vento si corruga;
E tu dall’alto, o luna, pallida e muta guati
Via per i cieli immensi quella tacita fuga.

Con un gemito sordo, con un rantolo roco.
Nel camino la vampa sale, s’attorce, anela;
Splende nell’aria, scialbo spiritello di foco,
La tremebonda, aguzza fiamma d’una candela.

Nella smortita luce d’un’antica specchiera.
Come in un’acqua cheta si riflette la stanza:
Sembra ogni cosa un’ombra dïafana e leggiera,
Visïone di sogno, baglior di rimembranza.
==>SEGUE


Nel picciol vano io seggo della finestra, al vetro
Assiderato e netto appoggiando la fronte;
E con l’errante sguardo e col pensier vo dietro
Alle nubi che passano, calando all’orizzonte.

O mutabili forme, o lievi peregrine,
Dove vi caccia il vento per quest’etra infinita?
O sogni avventurosi, o speranze divine,
Dove v’ha dissipati il vento della vita?

DULCIA, TRISTIA...

Se non vi spiace, io mi vorrei sdrajare
Su questa ripa: — è così bello il mare!

Chi preferisce camminar cammini.
Io sento un poco di stanchezza... e poi,
Mi piace tanto il mare... eh, più che a voi!
E mi piacciono molto anche i giardini.

Amabil rezzo di novelle fronde
Che verdi e folte si specchian nell’onde!

Care un tempo mi fûr le cittadine
Mura e le vie di sfaccendati ingombre:
Ora i giardini solitarii e l’ombre
Quïete ho care e i poggi e le marine.

Molle sospira tra le fronde il vento;
L’onda si frange con dolce lamento.

Muta l’uomo con gli anni. Un dì mi piacque
Degli amici festosi il chiacchierio:
Ora meglio s’avviene al gusto mio
Il mormorar dei zeffiri e dell’acque.

In fondo al ciel rade una bianca vela
L’orlo dell’acqua e a mano a man si cela.

Sino dal tempo dell’età mia prima
Corsi i mari, calcai remoti lidi:
Ora, sedendo, penso a ciò ch’io vidi,
E qualche volta ne ragiono in rima.

Queste farfalle che trescan sui fiori,
Che vaghezza di forme e di colori!

==>SEGUE
Le donne che adorai (povere vite!)
Quali avean chiome bionde e quali nere;
Eran tenere e vaghe e un po’ leggiere,
E adesso non so più dove sien ite.

Le foglie morte il vento le disperde...
Quante rose novelle in mezzo al verde!

Solo i poeti e gli amatori sanno
Con degne lodi celebrar le rose:
Oh caste! oh blande! oh scinte! oh desïose!...
Ma dove mai sono le rose d’anno?

Un uccellin nella serena pace
Sgrana tre note al vento e poi si tace.

Fiore di gelsomin!... Fiore d’assenzio!...
Un pensier nella mente mi stornella:
Dolce è l’amor, la giovinezza è bella!...
Amleto, e il resto che cos’è? — Silenzio».

PASSEGGIATA DI PRIMAVERA

Maggio, bel maggio, se’ tu rivenuto?
Assai l’inverno fu crudo agli amori!
Ma già di nuovo tu ridi e t’infiori:.
Caro maggio, bel maggio, io ti saluto.

Errar pei campi, costeggiare il rivo,
Tal gaudio or chiede ogni anima invaghita;
Forre anguste esplorar, salire un clivo,
Sedere all’ombra di pianta fiorita.

O venterello fresco di ponente,
Vola e folleggia tra l’agili fronde;
Tu suoni e parli così dolcemente
Che ogni anima t’ascolta e ti risponde.

O ruscelletto fuggevole e terso,
Che via baleni sui greppi, fra l’erbe,
Come addormenta l’effuso tuo verso
I crucci amari, le voglie superbe!

Volan via per l’azzurro a quando a quando
Lievi e candidi cirri in braccio ai venti:
Nel diffuso baglior guizzan fischiando,
Vive frecce, le rondini lucenti.
==>SEGUE
O diserti fioretti, umili figli
Del prato erboso, del folto pruneto,
Candidi, gialli, turchini, vermigli,
Udite tutti un mio picciol secreto.

Assai mi piace la purpurea rosa
Quando tutta s’accende in lento foco,
E, fra le spine, tenera, vezzosa,
Ai dolci amori par che inviti e al gioco.

Ancor mi piace sul rizzato stelo
Il giglio assai, coppa d’intatta neve,
Che sembra offrirsi dalla terra al cielo,
E l’aurea luce e la rugiada beve.

Molt’altri fiori delicati e fini,
Pomposi e lieti, non mi piaccion meno,
Onde ridono, Italia, i tuoi giardini,
E accese donne ornan le tempie e il seno.

Ma d’ogni fior cui la bellezza stampi,
Di tutti i fior più graziosi e rari,
Voi, fioretti dei margini e dei campi,
Voi sempre al gusto mio foste più cari.

Così, così: tra le selci, tra ’l verde,
Aprite a gara le corolle nove:
Uom non cura di voi; ma il ciel non perde
Quella virtù che in voi col lume piove.

O fioretti, fioretti umili e gai,
Fate il suol che vi nutre aulente e vago,
E non temete ch’io vi colga: assai
Di pur mirarvi godo, assai m’appago.

Questi uccelletti, che matta semenza!
Come sfringuellano e trescano in coro!
Non si direbbe, santa pazïenza,
Che d’ogni cosa son padroni loro?

Pallido salcio che spandi i tuoi rami
In riva al lago, ove l’onda si strema,
Certo del sole tu gioisci e brami
Di giù specchiarti nell’acqua che trema.



==>SEGUE
Sia benedetto il sol che il lago e il rivo
Colma con l’acque degli sciolti ghiacci,
E fa chiazze parer di sangue vivo
Tra ’l freschissimo verde i rosolacci.

Erra per campi da mattina a sera
Di villeschi stornelli un’armonia:
Oh, come dolce e dilettosa e pia
Sotto l’occhio del sol la primavera!

Che gentile armonia, che vivo olezzo,
Che beato seren! l’aria sonora
Tutta pregna è di luce; odora il rezzo
Mite, la luce radïosa odora.

Nuvole bianche sdraiate sui colli,
Nuvole erranti pel ciel luminoso,
O molli ganze de’ zeffiri molli,
Date sogni alla via, sogni al riposo.

E voi, nitide nevi alabastrine,
Che su pei gioghi sfavillate al raggio
Del fulvo sole, scioglietevi alfine,
Scendete a valle, è ritornato il maggio.




SUSURRI DEL VENTO

Che cosa dice tra le verdi cime,
Giù per la valle, susurrando, il vento?
Oh vezzosa dolcezza, oh blandimento
D’incerte voci e di confuse rime!

Vecchio è il mio cor, madre Natura, e l’ore
Precipitar di mia giornata io sento;
E pur, tra ’l verde susurrando, il vento
Sempre favella a questo vecchio core.
SVAGO INNOCENTE

Sarà stranezza; ma io non conosco,
Figliuoli cari, più dolce diletto
Che andar vagando soletto, soletto,
Di buon mattino nel folto d’un bosco.

Sotto il frascame si spande una luce
Velata e infusa di blando mistero;
A me dinanzi serpeggia un sentiero,
Ed io men vo dove quel mi conduce.

Dai vecchi tronchi, ove un’anima indura,
Dal novo verde, dall’ombra che tace,
Scender mi sento nel core una pace,
Oh, non so dir come tenera e pura!

Per mezzo il folto cammino cammino,
Sgranando gli occhi, tendendo l’orecchio...
Figliuoli, pare impossibile un vecchio
Come alle volte ritorna bambino.

Piccola o grande ogni cosa m’alletta,
Flebile o gajo ogni suono m’incanta;
E, sì, degli anni n’ho più di cinquanta,
E dei malanni, Dio buono, che incetta!

Un’acqua chiara, fra l’erbe nascosa,
Ciancia e gorgheggia fuggendo veloce,
E mi ricorda tal quale la voce
D’una mia buona e leggiadra amorosa.

Un’aura molle, con lenti raggiri,
Tra i rami fiata dolcissimamente,
E il caro tempo mi torna alla mente,
Il caro tempo dei dolci sospiri.

Un uccelletto che vuol compagnia
Trilla e cinguetta radendo le cime:
Io son poeta, e in udir quelle rime
In cor mi nasce una gran gelosia.

Scordo in un punto con gli anni i malanni,
I tempi tristi, gli amici perversi,
E, canticchiando, mi metto a far versi,
Come se avessi (Dio buono!) vent’anni.
PASSEGGIATA D’AUTUNNO

All’entrar del novembre, e pria che il mite
Cielo turbino i venti e l’aer fosco.
Oh dolce cosa passeggiar nel bosco
Sovra un tappeto di foglie appassite!

Oh come dolce e come triste! È l’ora
Che stanco il sol tra nugoli s’adagia:
Arde scenato il ciel; lume di bragia
L’inviluppo de’ rami apre e strafora.

Non bisbiglia sommesso uccello in frasca.
Non vento freme, non acqua gorgoglia:
Di tratto in tratto una pallida foglia
Si spicca lenta dal suo ramo e casca.

Tu vai soletto, pur verso occidente,
Lontan da luoghi frequentati o colti,
E crepitar sotto i tuoi passi ascolti
La fragil trama delle foglie spente.

Soletto vai nella quïete muta,
Smemorato del mondo e di sue arti;
Ed ecco un sogno, un breve sogno parti
(Già muore il dì) la vita c’hai vissuta.

Com’è lontana, lontana, lontana,
La giovinezza amorosa e gentile!
Rose di maggio, viole d’aprile...
Un canto, un riso, una favola vana!

E già son presso (dilagano l’ombre)
Della vecchiezza i dì torbidi e brevi...
Squallor del verno, caligini e nevi!
Ore di tedio velate ed ingombre!

Tu vai soletto. A che pensi? Non sai.
In fondo al core una musica antica
Ti par d’udire e una voce che dica:
Il giorno è volto e non torna più mai.

Altri corranno le rose novelle...
Tu vai soletto pel bosco deserto,
E guardi su, nel crepuscolo incerto,
Come tremando s’accendon le stelle.
VECCHIO CORE

Mio vecchio core, mio povero core,
Perché se’ tu così triste e inquïeto?
Celi tu forse, nell’ombra, un secreto?
Implori forse, tacendo, l’amore?

Mio vecchio core, mio povero core,
Son troppi gli anni, son troppi i malanni:
Passato è ’l tempo de’ teneri inganni,
Passata è l’ora propizia all’amore.

Mio vecchio core, mio povero core,
Lusinghe vane, fuggevoli forme...
Quando s’è troppo vegliato si dorme;
Quando s’è troppo vissuto si muore.



PICCIOLA FONTE

Picciola fonte che pulluli e canti
Dentro il mio core così dolcemente;
Oh nel silenzio sonora, lucente
Nel fondo cupo, fra l’ombre sognanti!

Limpido gorgo, che lento, raccolto,
Fluisci e canti nel chiuso, nell’imo;
O gorgo, sino dal tempo mio primo
Io quella mite tua musica ascolto.

Molt’anni e molti già corsero, assai
Mutaron casi, svanirono amori:
Picciola fonte che alletti e ristori,
Non t’esaurisci, non scemi tu mai?

Il dì vien meno: già d’ombre crescenti
La terra muta, già ’l cielo s’ammanta:
Picciola fonte, tu pullula e canta
Dentro il mio core fin ch’io m’addormenti.
CON LICENZA

Uomini gravi che mai non sognate,
Benevolmente lasciate ch’io sogni:
È il sognar dolce cosa, e non crediate,
Uomini gravi, ch’io me ne vergogni.

È il sognar dolce cosa! allor che intorno
Verdeggia il bosco, s’infoca la rosa...
E quando manca la luce del giorno...
Oh come dolce, come dolce cosa!

E come saggia! — Non tutto è menzogna
Ciò che risplende fra l’ombre quiete:
Uomini gravi, chi tacito sogna
Vede assai cose che voi non vedete.




EXPLICIT

Non uno de’ ben vani, in ch’io già confidai,
Mi tenne fede mai. —
Ciò mi riempie il core, che a soffrir mal s’avvezza,
D’una grande amarezza.

Non una delle colpe, ch’io commisi in mia vita,
È rimasta impunita: —
Ciò mi riempie il core (povera, nuda stanza!)
D’una grande speranza.
   Il primo dovere del galantuomo sarà di non fare il male; il secondo, di non lasciarsi sopraffare e maltrattare.
Che serve che uno sia galantuomo, se il primo furfante a cui s'abbatte se lo può mettere sotto i piedi?

-- Arturo Graf --
    Le anime generose si studiano di fare scaturire dalle anime comuni quanto in esse s'accoglie di buono; le maligne, quanto in esse s'accoglie di reo.

-- Arturo Graf --