Rosario, Maso l’orbo, Andrea accattone,
Giuseppe il matto, e lo sciancato Nino
Lo scotto pareggiando in unione
Con Biaggio galeotto e malandrino
Nella bettola grande di Bravasco
Mossero la battaglia ad ogni fiasco.
E dopo che sciupate fur le botti,
Cotti e stracotti,
Saltano, corrono, danzano, tuffano
Nei guazzi per le strade
Di tutta la cittade,
In mezzo a la belletta e la corrente
Spruzzano, lordano tutta la gente.
Ma intanto i semplicetti,
Ragazzi e ragazzetti,
Facchini e seggettieri,
Lacchè cogli staffieri,
Cocchieri e servitori,
Ne gían dei bevitori
Seguendo le pedate
Con baje, con berline e con fischiate.
Lor salta subito un grillo in testa,
Di un certo amico lì vicinissimo
In casa accorrere per una festa;
Festa, che davasi per certe nozze
Solennizzate con pompa rustica,
Con bizzarrissime maniere rozze.
La sposa amabile era bastarda,
Betta nomavasi arci-bruttissima;
La generarono fra Diego e Narda.
Avea la giovane imbrodolate
Le guercie luci, e le lordissime
Da mocci a grappoli guancie solcate.
Il mento turgido, il fronte ottuso;
Befana al viso, la faccia ruvida,
Il naso a buccina, di grugno il muso;
Sudiccia, orribile, grama, tapina,
Cenciosa e lacera,
Dura, disutile, e cervellina.
Lo sposo nobile era ser Rocco
Arci-devoto del nume Libero,
Ghiotto, vil, lacero, arso, pitocco.
Or ambo assiedonsi a desco molle
Tra tanti amici confidentissimi.
Ma il posto orrifico tra tutti il volle
Catarinaccia,
Negra, lordaccia,
Narda, chiamata
La spiritata,
Betta cianciera
E cinguettiera.
Angela finalmente attizza-liti,
E Rosa Sfincia attossica-mariti.
Sturando tal brigata ebra-festante
Il secondo baril di vino carico,
Dei vini il più majuscolo, e di quello
Del più antico millesimo,
Ben stipato,
Conservato,
Stagionato,
E secondo il parer che là si dava,
Era un vin che ogni petto imbalsamava.
Ben tosto a rotta guerra sopravvengono
Cedevoli, arrendevoli, e vi piombano
Trai bravi bevitori gli arcifanfani.
Quei sei alabardieri importunissimi
Franchi franchissimi colà s’infilzano,
Ad otta appunto arrivano, e gli attentano
Coll’aperto barile, e gli s’avventano.
Rosario in quella mischia il più smargiasso
Al fondo del baril stende la mano,
Come fosse Alessandro il gran sovrano;
Senza dire a quella schiera
Nè buon dì, nè buona sera,
Zitto zitto di leggiero
Subito imboccasi lo spillo intero.
Vedendo là un boccal poi preparato,
Di vino ben colmato,
Che fea l’odor di nettare squisito,
Che bolle e che spumeggia assai gradito,
L’abbranca, e mentre il tien, grida: per bacco!
Chi vien da me col pugno mio l’ammacco!
Vino vino
Vo’ ber’io;
Prendo, piglio,
Tutto è mio.
Su compagni, su cionchiamo
Ed empiamo
Ed empiam bicchieri e tini,
E mesciamo
E mesciamo entro le ciotole
Anzi in un pelago i dolci vini.
Con una corpacciata
Di questo bel siroppo
Qual daino va saltando,
Gavazza senza intoppo,
E senza risentir dei mali il pondo
L’uom vive felicissimo nel mondo.
Terrò per un minchione e cacacciano,
Disutile, baggéo, stupido e vile
Chi non s’inebria or ora a larga mano,
Chi non crepa qui sotto del barile.
Si morda il diavolo,
Vo’ fare un brindisi
Al caro e amabile
Vecchio Palermo (2);
Egli presentasi
In faccia al mondo
Per sollennissimo
Gran pisciabondo
Nel fonte centrico
Di Fieravccchia,
E sì pisciando
E ripisciando
Egli qual misero
Più ognor s’invecchia.
Bevo alla tua salute in questa tazza,
Palermo, in verde età vera cuccagna;
Sfoggiavi pompeggiando in gloria magna
Coll’elmo e coll’acciar, pala, e corazza.
Usando or da galante e parigino,
Mode, sfarzi, carrozze e splendidezza....
Cadesti, e par che sei nella bassezza,
Arso, spiantato, ahimè senza un quattrino.
L’inerzia, il gioco, e le jattanze rie
All’orlo ti portar del precipizio;
Tardi pentito or or metti giudizio,
Scontane il danno, e piscia alla mal die....
Ma vadano a diavolo
Idee sì malinconiche;
Adesso sempre in compagnia di Bacco
Qual monaco vo’ fare eremitorio,
Che col capo imbacuccato,
Senza alcun che lo molesta,
Dentro il coro e refettorio
Stassi vergine di testa.
Quando di vino
Son pieno assai,
La vita squallida
Fugge, spariscono
Palpiti e guai.
Sorte, volubil sorte, ah fa di grazia
Che cantando e ingollando alla pazzesca,
Possa cantare ed ingollar cotanto
Che l’epa rigonfiata e più che sazia
Possa dar nell’ultim’otta,
Scoppiando alfin con memoranda botta.
Dal nappo, che mi sembra una pozzanghera,
Mentre a diluvio il vin scende e mi abbevera,
Sento strano calor che il senso sganghera,
Che cupo in varie vie serpe e si scevera.
Ma già l’ignito fluido
La testa invade e domina;
Mi gira come trottola,
Qual arcolajo agguindola,
Facendo capitombolo
Quì sotto e sopra il celabro;
Già già le mura girano,
Già già le porte sbattono,
Il suolo balza e ciondola,
Il mondo s’aggomitola,
Le teste già tramballano,
Tavole e sedie alla trambusta ballano.
Salvati salva;
Che chiasso! che strepito!
Guardati guarda;
Che strage! che fremito!
Torna torna ahimè il diluvio!
Giove in cielo s’affacciò,
Tutti i portici sbarrò.
L’alto empireo porporino
A ribocco piove vino:
Tutti all’erta e pronti state,
Tini e botti preparate.
Cresce il torrente....
Ove mi caccio?
Entro repente
Come un turaccio
In questo tino....
Ma che? sbagliai,
No non è tino,
È un cado aperto
Zeppo di vino,
Che cola e che ricola
Liquor celestiale
In questo solennissimo boccale.
Mi ferve il gozzo....
Dammi o boccale
Altro baciozzo....
Questa è vernaccia....
Se alcun la tempera,
Sgrugnata in faccia
Gli menerò.
L’acqua non vuol marito, ama che vergine,
Qual nacque, stia soletta illibatissima
O nei fiumi o nei mari ovver ne’ nugoli
O tra laghi tra pozzi e tra fontane,
Pei granchi per li pesci e per le rane:
Se coll’olio si mesce, a galla è l’olio;
Se si mesce alla terra, è già fangosa;
Se si mesce col vino, è catarrosa.
In mente orsù scrivetevi
Un motto sì galante,
Che l’acqua è ognor malefica,
Il vino è ristorante.
Colui che ha fregola
Viver beato,
Di vin negr’ottimo
Sia abbeverato;
Però di quello
Che vien da Mascali,
Che per smorfia signorile
Non si cura in un barile;
Poi si compra come alchimia
Imbottigliato,
Incatramato,
E suggellato
Da un scaltro forastiero,
Che ora indietro ed or dinanzi
Va vendendo, va gridando
Trinch-lansi, vin de Fransi.
Se la chiusa monachella
Sta dolente, mesta, itterica,
Cupa cupa nella cella,
O convulsa, oppure isterica,
Beva beva alla rinfusa
Moscado di Catania e Siracusa:
Non è cura radicale,
Pur è un farmaco al suo male.
La donzelletta,
Vergognosetta,
Timida timida e ritrosetta
Pel vino calabrese si elettrizza,
D’amore al pizzicor poi ferve e guizza.
Quelle vedove piagnose
Sempre afflitte ed accorate,
Che rimembrano dogliose
Le dolcezze già passate,
Onde cessi il loro pianto
Preparino al dormir due fiaschi accanto.
Maritate, se le pene,
O la brutta gelosia
V’han divelta l’allegria,
V’han gelate pur le vene,
Di Lipari cioncando malvagia
Inforzerete,
Riscalderete;
Qual di vipera il liquore
Girando scalderà le vie del cuore.
E quegli deboli,
Ch’hanno lo stomaco
Sfinito e languido,
Viscoso, e carico
Di flemme ed acido,
La faccia pallida,
La carne flaccida,
Devono bevere
Il Risalaime
Ch’è panacea,
O il filosofico
Lapis veridico;
E se bevendolo
E ribevendolo
Non si ristorano,
Non si rinfrancano,
Tornino a bevere
Ed a ribevere
A josa piena
Questo e quel vaso,
Finchè a bizzeffe
Lor esca per gli orecchi e per il naso.
Quell’uomo sventurato ed infelice,
Dalle vane lusinghe abbarbagliato,
Che sprezza il bene ed al peggior s’addice,
Dal nembo degli oggetti affascinato,
Che sta doglioso in cor, non mai felice
Benchè alle feste, cupo, aggramagliato,
Se dei Ciaculli il vino omai l’accende,
Guarito allor di tai follie si rende.
Se qualche amabile
Donzella semplice,
Paffuta e tenera
Sente nell’anima
Qualche simpatico
Verme che rosica,
E soffre orribili
Gravezze e sincopi,
Spasmi dell’utero,
Affetti isterici,
E cento cancheri
Dentro le viscere;
Se mai desidera
Tutti erpicare,
Tutti estirpare
Tai fantastici vermazzi,
Vernaccia insacchi ognor de’ Ficarazzi:
Trinchi, cionchi la vernaccia,
Che un diavol l’altro caccia.
Ne convengo, amici cari,
Di taverne siete tutti
Informati e bene istrutti
E negar nol posso, oibò!
Dite bene, e lo confermo,
Che nel mondo tutti i vini
Son bellissimi e divini,
Son celeste ambrosia, il so.
Ma però con buona pace
Io sostengo che il primato
L’ha quel vin ch’è stagionato;
E l’attesto, e lo dirò.
Questo vino è sì pregiato,
Che da tutti è ben lodato,
E da dame e cavalieri,
Da magnati e forastieri
Con un muso raggrinzato
Vino asciutto vien chiamato.
I francesi innamorati
Vini voglion delicati,
Ora Cipri, ed or Fiorenza,
Or Pulciano, ed or Borgogna
Or Sciampagna, ed or Bordò;
Io direi con lor licenza
Non son vini questi tali,
Ma son acque trïacali.
E se l’inglese poi trinca la birra,
È prova incontrastabile
Che in mezzo all’opulenza è miserabile.
Noi che beviamo,
Tracanniamo
I vini sicoli
Vigorosissimi,
Siam certo più di lor ricchi ricchissimi.
O Castellovetrano, o mio tesoro!
Dolce fiamma del cor, nome adorato,
Se rimembro te sol, io languo e moro,
Mi sento dal piacer preso, incantato.
O Carini! o memoria! o gioia mia!
Tu sollucheri l’alma di dolcezza:
Tu o Alcamo! o Ciaculli! o Bagaria!
Sei centro della vera contentezza!
Vi piova onor benigni influssi il sole;
Vacca col corno e con li denti ingordi
Non smozzichi il magliol che morder suole,
E lungi dalle viti e merli e tordi.
O Liéo consolatore,
Solazzo dei mortali,
Nei gotti e cantimplore
Sommergi tutti i mali.
Dice per te il bugiardo
La pura verità;
Fai fervido il codardo,
Non curi gravità.
Avvigorato il sangue
Per te ribolle in seno;
Chi sdilinquito langue
Per te di forza è pieno.
Scacci la gelosia,
Tergi dagli occhi i pianti,
La dura ritrosia
Tu vinci degli amanti.
Non solo ai vati accendi
E l’estro ed i pensieri,
Ma noti al volgo rendi
D’Apolline i misteri.
Quantunque io vile e rozzo
Addetto alle cantine,
Un sorso tuo che ingozzo
Mi fa spacciar dottrine.
Voglio cantare,
Voglio ballare,
Su via suonatemi
Le naccarette:
Lungi a diavolo
Corni e trombette.
Non gravicembalo,
Non violino,
Non vo’ salterio,
Non chitarrino:
Quelle mi piacciono,
Quelle m’ispirano
Certo patetico
Dolce sonnifero,
Che ratta l’anima
Si bea.... qual’estasi!....
Me ne strabilio,
Placido placido
Vo’ in visibilio.
Orsù, compagni miei, se voi bramate,
Che canti una canzone, ormai suonate
A stil di Napoli,
Ch’è dolce e bello,
Il liuto armonico,
L’arguta cetera,
Con piastre stridule,
E il tamburello.
Amor mi ferve in petto e mi titilla;
Svolazza e quinci e quindi il mio cervello;
La bella al gozzo mio gran frega istilla;
Mi stempro al suo sapor gradito e bello.
Vieni, che a te pensando il cor mi brilla,
Vieni, te sempre anelo e sempre appello....
Vieni, bottiglia mia, te sol golio,
Vieni, gorgoglia, e scendi al petto mio.
Capperi! capperi!
Oh Dio! che sincope!
Non posso più.
Già mi precipito....
Biaggio carissimo,
Sostienmi tu.
Quali strani capogiri
D’improvviso mi fan guerra!...
Testar voglio pria ch’io spiri
E che lasci questa terra....
Scoppiata l’anima, allegri e gai
Voglio che vengano i tavernai
Con botti agli omeri, caraffe in mano;
Non voglio monaci, nè sacrestano.
Voglio il mio scheletro spolpo, tuffato
Di regio nettare nel tin colmato.
Non voglio il tumolo di un vil plebeo,
Ma un superbissimo bel mausoleo,
Alto e magnifico, secondo l’uso
Tre canne in aria da terra in suso.
Fra quelle nobili cantine, in una
Che botti in copia ricolme aduna;
E fatto a macchina vo’ che si scopra
Di botti un cumulo, ed io lì sopra.
Quel dì si spezzino in mia memoria
Ampolle ed anfore alla mia gloria.
Mesti tintinnino fiaschi e bicchieri.
E posti in ordine li cantinieri
Voglio che cantino concordemente
Del vin l’officio solennemente.
Lascio, o carissimi, nel solo vino
Un vital farmaco e peregrino,
Fonte inesausto di vero bene,
Che scaccia il torbido di negre pene.
Di vin se turgidi sarete, il mondo
Schifoso, orribile, parrà giocondo,
E in forma magica cangiata appena
D’alte delizie sarà la scena.
Vani ed inutili
Tanti spargirici
Tutti s’affumano
Soffiando mantici;
Tutti distillano
Con arte chimica
Nelle storte preparate
Mille e più zenzoverate;
Così cercano e ricercano,
Onde curisi ogni male,
Il lapis, medicina universale.
Ma s’è verissimo
Che ciò si dia,
No non ritrovasi
In speziaria
Tra quei barattoli,
Tra quegli armadii
Di tanti squallidi
Aromatarii;
Il troverete,
Se ’l cercherete
Nei bettolieri, bevoni, e facchini,
Nei cadi, nelle botti, e dentro i tini.
A tutti i miei nemici, onde le viscere
Si rodano di rabbia, a tutti lascio
Le cure che rimuovo e mando a fascio:
Pur si distillino,
Si dicervellino
Circa l’origine
Di mondo ed uomini,
Di tuoni e fulmini,
Di venti e grandini:
Perchè non penzola
Il mulo e l’asino,
La pietra in aria?
Perchè producono
Le porche e gli orti
Piatti li broccoli,
Lunghi li cavoli,
Rosse le fragole?
Perchè i cocomeri
Curvati e torti?
E perchè il vino
Dentro le fauci
Ci pugne e morsica,
Ci alletta e pizzica,
Titilla e stuzzica?
L’acqua all’ugola diventa
Floscia floscia, lenta lenta?
Tali dubbj e tai pensieri
Non gli sciolgo, nè indovino,
Ma li tuffo tutti intieri
Nella ciotola di vino.
Ecco il gentame attruppasi
A quattro a quattro.... ahimè!...
Gli occhi di fosco appannansi....
Tal novità perchè?
Pesa la testa e gravita....
Oh ciel che mai sarà!
Vo a zonzo.... sostenetemi
Amici per pietà.
Le gambe mi traballano....
Tentennano... che fu?
Oh cielo!... ciel!... mi ruzzolo...
Ahi! ahi! non posso più.
Messer Rosario sì trafelato
Svigora.... affannasi.... è rilassato;
E in mezzo a quella gente,
Con occhio immobile e tralucente,
Le braccia il misero tien penzolone,
Anza.... balbettica qual tartaglione;
Cade, precipita.... in piè risale,
Va a schisa, e ciondola, ch’è troppo frale;
Arranca e sdrajasi.... poi s’alza.... oscilla,
Girasi, girasi.... volta, vacilla,
Finchè per ultimo poi barcollando
Fa tonfo orribile giù stramazzando.
Qual monna già cottissimo
Lo stuolo inciuscherato
Accorre, e leggerissimo
L’ha a coccolon poggiato.
Qual fosse quindi un bambolo,
Con vero amor di frate,
Lo tien senza pericolo
A braccia incrocicchiate.
Così con piè geometrico
La lega camminando
Sel porta a casa in giòlito,
Cantando e festeggiando.