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Il Meriggio


Ardirò ancor fra i desinari illustri
Sul meriggio innoltrarmi umil cantore,
Poi che troppa di te cura mi punge
Signor, ch'io spero un dì veder maestro
E dittator di graziosi modi
All'alma gioventù che Italia onora.
Tal fra le tazze e i coronati vini
Onde all'ospite suo fe' lieta pompa
La punica regina, i canti alzava
Jopa crinito; e la regina in tanto
Dal bel volto straniero iva beendo
L'oblivion del misero Sichèo:
E tale, allor che l'orba Itaca in vano
Chiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio s'udia co' versi e con la cetra
La facil mensa rallegrar de' proci,
Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli
E i petrosi licori e la consorte
Convitavano in folla. Amici or china
Giovin Signore al mio cantar gli orecchi,
Or che tra nuove Elise e nuovi proci
E tra fedeli ancor Penelopèe
Ti guidano a la mensa i versi miei.
Già dall'alto del cielo il sol fuggendo

Verge all'occaso: e i piccoli mortali
Dominati dal tempo escon di novo
A popolar le vie ch'all'oriente
Spandon ombra già grande. A te null'altro
Dominator fuor che te stesso è dato
Stirpe di numi: e il tuo meriggio è questo.
Al fin di consigliarsi al fido speglio
La tua dama cessò. Cento già volte
O chiese o rimandò novelli ornati;
E cento ancor de le agitate ognora
Damigelle or con vezzi or con garriti
Rovesciò la fortuna. A sè medesma
Quante volte convien piacque e dispiacque;
E quante volte è d'uopo a sè ragione
Fece e a' suoi lodatori. I mille intorno
Dispersi arnesi al fin raccolse in uno
La consapevol del suo cor ministra:
Al fin velata di legger zendado
È l'ara tutelar di sua beltade:
E la seggiola sacra un po' rimossa
Languidetta l'accoglie. Intorno a lei
Pochi giovani eroi van rimembrando
I cari lacci altrui, mentre da lunge
Ad altra intorno i cari lacci vostri
Pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
A le lor celie; o, s'ei si cruccia alquanto,
Del tuo lungo tardar solo si cruccia.

Nulla però di lui cura te prenda
Oggi o Signore. E s'ei del vulgo a paro
Prostrò l'animo imbelle; e non sdegnosse
Di chiamarsi marito, a par del vulgo
Senta la fame esercitargli in petto
Lo stimol fier de gli oziosi sughi
Avidi d'esca: o se a i mariti alcuno
D'anima generosa impeto resta,
Ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra
Dama al fianco si assida, il cui marito
Pranzi altrove lontan d'un'altra al fianco
Che lungi abbia lo sposo: e cosi nuove
Anella intrecci a la catena immensa
Onde alternando Amor l'anime avvince.
Pur sia che vuol; tu baldanzoso innoltra
Ne le stanze più interne. Ecco precorre
Ad annunciarti al gabinetto estremo
Il noto scalpiccio de' piedi tuoi.
Già lo sposo t'incontra. In un baleno
Sfugge dall'altrui man l'accorta mano
De la tua dama: e il suo bel labbro in tanto
Ti apparecchia un sorriso. Ognun s'arretra
Che conosce tuoi dritti; e si conforta
Con le adulte speranze, a te lasciando
Libero e scarco il più beato seggio.
Tal, colà dove in fra gelose mura
Bizanzio ed Ispaàn guardano il fiore
De la beltà che il popolato Egèo

Giuseppe Parini  -  IL GIORNO



Manda e l'Armeno e il Tartaro e il Circasso
Per delizia d'un solo, a bear entra
L'ardente sposa il grave Musulmano.
Nel maestoso passeggiar gli ondeggiano
Le late spalle, e su per l'alta testa
Le avvolte fasce: dall'arcato ciglio
Intorno ei volge imperioso il guardo:
Ed ecco al suo apparire umil chinarsi
E il piè ritrar l'effeminata occhiuta
Turba che d'alto sorridendo ei spregia.
Or comanda o signor che tutte a schiera
Vengan le grazie tue; si che a la dama
Quanto elegante esser più puoi ti mostri.
Tengasi al fianco la sinistra mano
Sotto al breve giubbon celata; e l'altra
Sul finissimo lin posi, e s'asconda
Vicino al cor; sublime alzisi il petto;
Sorgan gli omeri entrambi; a lei converso
Scenda il duttile collo; a i lati un poco
Stringansi i labbri; ver lo mezzo acuti
Escano alquanto; e da la bocca poi,
Compendiata in forma tal, sen fugga
Un non inteso mormorio. Qual fia
Che a tante di beltade arme possenti
Schermo si opponga? Ecco la destra ignuda
Già la bella ti cede. Or via la strigni;
E con soavi negligenze al labbro
Qual tua cosa l'appressa; e cader lascia

Sovra i tiepidi avorj un doppio bacio.
Siedi fra tanto; e d'una mano istrascica
Più a lei vicin la seggioletta. Ognaltro
Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto
Seco susurra ignoti detti, a cui
Concordin vicendevoli sorrisi
E sfavillar di cupidette luci,
Che amor dimostri o che il somigli al meno
Ma rimembra o signor che troppo nuoce
In amoroso cor lunga e ostinata
Tranquillità. Nell'oceàno ancora
Perigliosa è la calma. Ahi quante volte
Dall'immobile prora il buon nocchiero
Invocò la tempesta; e sì crudele
Soccorso ancor gli fu negato; e giacque
Affamato assetato estenuato
Dal venenoso aere stagnante oppresso
Fra le inutili ciurme al suol languendo!
Dunque a te giovi de la scorsa notte
Ricordar le vicende; e con obliqui
Motti pugnerla alquanto, o se nel volto
Paga più che non suole accòr fu vista
Il novello straniero, e co' bei labbri
Semiaperti aspettar quasi marina
Conca la soavissima rugiada
De' novi accenti; o se cupida troppo
Col guardo accompagnò di loggia in loggia
L'almo alunno di Marte, idol vegliante

De' femminili voti, a la cui chioma
Col lauro trionfal mille s'avvolgono
E mille frondi dell'Idalio mirto.
Colpevole o innocente allor la bella
Dama improvviso adombrerà la fronte
D'un nuvoletto di verace sdegno
O simulato, e la nevosa spalla
Scoterà un poco; e volgeransi al fine
Gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors'anco rintuzzar di tue rampogne
Saprà l'agrezza, e noverarti a punto
Le visite furtive a i cocchi a i tetti
E all'alte logge de le mogli illustri
Di ricchi popolari, a cui sovente
Scender per calle dal piacer segnato
La maestà di cavalier non teme.
Felice te, se mesta o disdegnosa
Tu la guidi a la mensa; o se tu puoi
Solo piegarla a tollerar de' cibi
La nausea universal! Sorridan pure
A le vostre dolcissime querele
I convitati; e l'un l'altro percota
Col gomito maligno. Ahi non di meno
Come fremon lor alme! e quanta invidia
Ti portan te mirando unico scopo
Di si bell'ire! Al solo sposo è dato
In cor nodrir magnanima quiete,
Aprir nel volto ingenuo riso e tanto




Docil fidanza ne le innocue luci.
Oh tre fiate avventurosi e quattro
Voi del nostro buon secolo mariti
Quanto diversi da' nostr'avi! Un tempo
Uscia d'averno con viperei crini,
Con torbid'occhi irrequieti, e fredde
Tenaci branche un indomabil mostro,
Che ansando e anelando intorno giva
A i nuziali letti, e tutto empiea
Di sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici le selve
L'onde le rupi alto ulular s'udièno
Di femminili stridi. Allor le belle
Dame con mani incrocicchiate, e luci
Pavide al ciel tremando lagrimando
Tra la pompa feral de le lugubri
Sale vedean dal truce sposo offrirsi
Le tazze attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia, il tuo furor medesmo
Oltre l'alpe oltre il mar destò le risa
Presso a gli emuli tuoi, che di gelosa
Titol ti dièro; e t'è serbato ancora
Ingiustamente. Non di cieco amore
Vicendevol desire alterno impulso,
Non di costume simiglianza or guida
Giovani incauti al talamo bramato:
Ma la prudenza co i canuti padri
Siede librando il molto oro e i divini

Antiquissimi sangui: e allor che l'uno
Bene all'altro risponda, ecco Imenèo
Scoter sue faci; e unirsi al freddo sposo,
Di lui non già ma de le nozze amante
La freddissima vergine, che in core
Già i riti volge del bel mondo; e lieta
La indifferenza maritale affronta.
Cosi non fien de la crudel Megera
Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene
Contenda or pur le desiate porte
A i gravi amanti; e di femminee risse
Turbi oriente. Italia oggi si ride
Di quello ond'era già derisa: tanto
Puote una sola età volger le menti.
Ma già rimbomba d'una in altra sala
Signore il nome tuo. Di già l'udiro
L'ime officine ove al volubil tatto
De gl'ingenui palati arduo s'appresta
Solletico che molle i nervi scota
E varia seco voluttà conduca
Fino al centro dell'alma. In bianche spoglie
Affrettansi a compir la nobil opra
Gravi ministri: e lor sue leggi detta
Una gran mente del paese uscita
Ove Colberto e Risceliù fur chiari.
Forse con tanta maestade in fronte
Presso a le navi ond'Ilio arse e cadèo
A gli ospiti famosi il grande Achille

Disegnava la cena: e seco in tanto
Le vivande cocean su i lenti fochi
Pàtroclo fido e il guidator di carri
Automedonte. O tu sagace mastro
Di lusinghe al palato, udrai fra poco
Sonar le lodi tue dall'alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar mai fallo
Nel tuo lavoro? Il tuo signor fia tosto
Campion de le tue glorie: e male a quanti
Cercator di conviti oseran motto
Pronunciar contro a te; chè sul cocente
Meriggio andran peregrinando poi
Miseri e stanchi; e non avran cui piaccia
Più popolar de le lor bocche i pranzi.
Imbandita è la mensa. In piè d'un salto
Alzati e porgi almo garzon la mano
A la tua dama; e lei dolce cadente
Sopra di te col tuo valor sostieni,
E al pranzo l'accompagna. I convitati
Vengan dopo di voi: quindi lo sposo
Ultimo segua. O prole alta di numi,
Non vergognate di donar voi anco
Brevi al cibo momenti. A voi non vile
Cura fia questa. A quei soltanto è vile
Che il duro irrefrenabile bisogno
Stimola e caccia. All'impeto di quello
Cedan l'orso la tigre il falco il nibbio
L'orca il delfino e quanti altri animanti




Crescon qua giù: ma voi con rosee labbra
La sola voluttade al pasto appelli,
La sola voluttà che le celesti
Mense apparecchia, e al nèttare convita
I viventi per sè dei sempiterni.
Vero forse non è; ma un giorno è fama
Che fur gli uomini eguali: e ignoti nomi
Fur nobili e plebei. Al cibo al bere
All'accoppiarse d'ambo i sessi al sonno
Uno istinto medesmo un'egual forza
Sospingeva gli umani: e niun consiglio
Nulla scelta d'obbietti o lochi o tempi
Era lor conceduto. A un rivo stesso
A un medesimo frutto a una stess'ombra
Convenivano insieme i primi padri
Del tuo sangue o signore e i primi padri
De la plebe spregiata: e gli stess'antri
E il medesimo suol porgeano loro
Il riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti.
Sola una cura a tutti era comune
Di sfuggire il dolore: e ignota cosa
Era il desire a gli uman petti ancora.
L'uniforme de gli uomini sembianza
Spiacque a' celesti: e a variar lor sorte
Il Piacer fu spedito. Ecco il bel Genio,
Qual già d'Ilio su i campi Iride o Giuno
A la terra s'appressa: e questa ride

Di riso ancor non conosciuto. Ei move
E l'aura estiva del cadente rivo
E dei divi odorosi a lui blandisce
Le vaghe membra; e lenemente sdrucciola
Sul tondeggiar de' muscoli gentile.
A lui giran dintorno i vezzi e i giochi;
E come ambrosia le lusinghe scorrono
Da le fraghe del labbro; e da le luci
Socchiuse languidette umide fuora
Di tremulo fulgore escon scintille,
Ond'arde l'aere che scendendo ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti o terra
Sua prima orma stamparsi: e tosto un lento
Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo tutte
Di natura le viscere commosse:
Come nell'arsa state il tuono s'ode,
Che di lontano mormorando viene,
E col profondo suon di monte in monte
Sorge; e la valle e la foresta intorno
Mugon di smisurato alto rimbombo.
Oh beati fra gli altri e cari al cielo
Viventi a cui con miglior man Titàno
Formò gli organi egregi, e meglio tese
E di fluido agilissimo inondolli!
Voi l'ignoto solletico sentiste
Del celeste motore. In voi ben tosto
La voglia s'infiammò, nacque il desio:

Voi primieri scopriste il buono il meglio
Voi con foga dolcissima correste
A possederli. Allor quel de i duo sessi,
Che necessario in prima era soltanto,
D'amabile e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride fu dato
Il primo esempio: tra femminei volti
A distinguer s'apprese: e fur sentite
Primamente le grazie. Allor tra mille
Sapor fur noti i più soavi. Allora
Fu il vin preposto all'onda; e il vin si elesse
Figlio de' tralci più riarsi, e posti
A più fervido sol ne' più sublimi
Colli dove più zolfo il suolo impingua.
Cosi l'uom si divise: e fu il signore
Da i mortali distinto, a cui nel seno
Giacquero ancor l'èbeti fibre, inette
A rimbalzar sotto a i soavi colpi
De la nova cagione onde fur tocche;
E quasi bovi al suol curvati ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andàro;
E tra la servitude e la viltade
E il travaglio e l'inopia a viver nati
Ebber nome di plebe. Or tu garzone
Che per mille feltrato invitte reni
Sangue racchiudi, poi che in altra etade
Arte forza o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette; poi che il tempo al fine




Lor divisi tesori in te raccolse,
Godi de gli ozj tuoi a te da i numi
Concessa parte: e l'umil vulgo in tanto
Dell'industria donato a te ministri
Ora i piaceri tuoi, nato a recarli
Su la mensa regal, non a gioirne.
Ecco splende il gran desco. In mille forme
E di mille sapor di color mille
La variata eredità de gli avi
Scherza in nobil di vasi ordin disposta.
Già la dama s’appressa: e già da i servi
Il morbido per lei seggio s’adatta.
Tu signor di tua mano all’agil fianco
Il sottopon si che lontana troppo
Ella non sieda o da vicin col petto
Ahi di troppo non prema: indi un bel salto
Spicca, e chino raccogli a lei del lembo
Il diffuso volume: e al fin t’assidi
Prossimo a lei. A cavalier gentile
Il lato abbandonar de la sua dama
Non fia lecito mai; se già non sorge
Strana cagione a meritar ch’ei tolga
Tanta licenza. Un nume ebber gli antiqui
Immobil sempre, che al medesmo padre
De gli dei non cedette allor ch’ei scese
Il Campidoglio ad abitar, sebbene
E Giuno e Febo e Venere e Gradivo
E tutti gli altri dei da le lor sedi

Per riverenza del tonante usciro.
Indistinto ad ognaltro il loco sia
All’alta mensa intorno: e, s’alcun arde
Ambizioso di brillar fra gli altri,
Brilli altramente. Oh come i varj ingegni
La libertà del genial convito
Desta ed infiamma! Ivi il gentil motteggio,
Malizioso svolazzando reca
Sopra le penne fuggitive ed agita
Ora i raccolti da la fama errori
De le belle lontane, or de gli amanti
Or de’ mariti i semplici costumi;
E gode di mirar l’intento sposo
Rider primiero, e di crucciar con lievi
Minacce in cor de la sua fida sposa
I timidi segreti. Ivi abbracciata
Co’ festivi racconti esulta e scherza
L’elegante licenza. Or nuda appare
Come le Grazie; or con leggiadro velo
Solletica più scaltra; e pur fatica
Di richiamar de le matrone al volto
Quella rosa natia che caro fregio
Fu dell’avole nostre; ed or ne’ campi
Cresce solinga; e tra i selvaggi scherzi
A le rozze villane il viso adorna.
Forse a la bella di sua man le dapi
Piacerà ministrar, che novi al senso
Gusti otterran da lei. Tu dunque il ferro,

Che forbito ti giace al destro lato,
Quasi spada sollecito snudando,
Fa che in alto lampeggi; e chino a lei
Magnanimo lo cedi. Or si vedranno
De la candida mano all’opra intenta
I muscoli giocar soavi e molli:
E le grazie piegandosi con essa
Vestiran nuove forme, or da le dita
Fuggevoli scorrendo, ora su l’alto
De’ bei nodi insensibili aleggiando,
Ed or de le pozzette in sen cadendo
Che de’ nodi al confin v’impresse Amore.
Mille baci di freno impazienti
Ecco sorgon dal labbro a i convitati:
Già s’arrischian già volano già un guardo
Sfugge da gli occhi tuoi, che i vanni audaci
Fulmina ed arde e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa a cui se’ caro
Il tranquillo marito immoto siede:
E nulla impression l’agita o move
Di brama o di timor; però che Imene
Da capo a piè fatollo. Imene or porta
Non più serti di rose al crine avvolti;
Ma stupido papavero grondante
Di crassa onda letèa, che solo insegna
Pur dianzi era del Sonno. Ahi quante volte
La dama delicata invoca il Sonno
Che al talamo presieda; e seco in vece




Trova Imenèo; e timida s’arretra
Quasi al meriggio stanca villanella,
Che fra l’erbe innocenti adagia il fianco
Lieta e secura; e di repente vede
Un serpe, e balza in piedi inorridita,
E le rigide man stende, e ritragge
Il cubito, e l’anelito sospende,
E immota e muta e con le labbra aperte
Il guarda obliquamente. Ahi quante volte
Incauto amante a la sua lunga pena
Cercò sollievo; e d’invocar credendo
Imène, ahi folle! invocò il Sonno: e questi
Di fredda oblivion l’alma gli asperse;
E d’invincibil noia e di torpente
Indifferenza gli ricinse il core.
Ma se a la dama dispensar non piace
Le vivande o non giova, allor tu stesso
La bell’opra intraprendi. A gli occhi altrui
Più così smaglierà l’enorme gemma,
Dolc’esca a gli usurai che quella osàro
A le promesse di signor preporre
Villanamente; e contemplati fièno
I manichetti, la più nobil opra
Che tessesser giammai angliche Aracni.
Invidieran tua delicata mano
I convitati; inarcheran le ciglia
Al difficil lavoro: e d’oggi in poi
Ti fia ceduto il trinciator coltello

Che al cadetto guerrier serban le mense.
Sia tua cura fra tanto errar su i cibi
Con sollecita occhiata, e prontamente
Scoprir qual d’essi a la tua bella è caro;
E qual di raro augel, di stranio pesce
Parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
Anatomico renda, Amor che tutte
De gli animanti annoverar le membra
Puote, e discerner sa qual aggian tutte
Uso e natura. Più d’ognaltra cosa
Però ti caglia rammentar mai sempre
Qual più cibo le noccia o qual più giovi;
E l’un rapisci a lei, l’altro concedi
Come d’uopo a te pare. Oh dio, la serba
Serbala a i cari figli. Essi, dal giorno
Che le alleviàro il delicato fianco
Non la rivider più: d’ignobil petto
Esaurirono i vasi: e la ricolma
Nitidezza lasciàro al sen materno.
Sgridala, se a te par ch’avida troppo
Al cibo agogni; e le ricorda i mali,
Che forse avranno altra cagione, e ch’ella
Al cibo imputerà nel dì venturo.
Nè al cucinier perdona, a cui non calse
Tanta salute. A te ne’ servi altrui
Ragion fu data in quel beato istante
Che la noia e l’amore ambo vi strinse
In dolce nodo; e pose ordini e leggi.

Per te sgravato d’odioso incarco
Ti fia grato colui che dritto vanta
D’impor novo cognome a la tua dama;
E pinte strascinar su gli aurei cocchi
Giunte a quelle di lei le proprie insegne:
Dritto sacro a lui sol, ch’altri giammai
Audace non tentò divider seco.
Vedi come col guardo a te fa cenno
Pago ridendo, e a le tue leggi applaude;
Mentre l’alta forcina in tanto ei volge
Di gradite vivande al piatto ancora.
Non però sempre a la tua bella intorno
Sudin gli studj tuoi. Anco tal volta
Fia lecito goder brevi riposi;
E de la quercia trionfale all’ombra,
Te de la polve olimpica tergendo,
Al vario ragionar de gli altri eroi
Porgere orecchio; e il tuo sermone a i loro
Frammischiar ozioso. Uno già scote
Le architettate del bel crine anella
Su la guancia ondeggianti; e ad ogni scossa
De’ convitati a le narici manda
Vezzoso nembo d’Arabi profumi.
A lo spirto di lui l’alma natura
Fu prodiga cosi che più non seppe
Di che il volto abbellirgli; e all’arte disse:
Tu compi il mio lavoro: e l’arte suda
Sollecita dintorno all’opra illustre.




Molli tinture preziose linfe
Polvi pastiglie delicati unguenti
Tutto arrischia per lui. Quanto di novo
E mostruoso più sa tesser spola
O bulino intagliar gallico ed anglo
A lui primo concede. Oh lui beato
Che primo ancor di non più viste forme
Tabacchiera mostrò. L’etica invidia
I grandi eguali a lui lacera e mangia;
Ed ei pago di sè, superbamente
Crudo, fa loro balenar su gli occhi
L’ultima gloria onde Parigi ornollo.
Forse altera cosi d’Egitto in faccia
Vaga prole di Sèmele apparisti
I giocondi rubini alto levando
Del grappolo primiero: e tal tu forse
Tessalico garzon mostrasti a Jolco
L’auree lane rapite al fero drago.
Or vedi or vedi qual magnanim’ira
Nell’eroe che dell’altro a canto siede
A sì novo spettacolo si desta!
Vedi quanto ei s’affanna; e il pasto sembra
Obliar declamando! Al certo al certo
Il nemico è a le porte. Oimè i Penati
Tremano e in forse è la civil salute!
Ma no; più grave a lui più preziosa
Cura lo infiamma. Oh depravato ingegno
De gli artefici nostri! In van si spera

Da la inerte lor man lavoro egregio
Felice invenzion d’uom nobil degna.
Chi sa intrecciar chi sa pulir fermaglio
A patrizio calzar; chi tesser drappo
Soffribil tanto che d’ornar presuma
I membri di signor che un lustro a pena
Conti di feudo? In van s’adopra e stanca
Chi la lor mente sonnolenta e crassa
Cerca destar: di là dall’Alpi è d’uopo
Appellar l’eleganza: e chi giammai
Fuor che il genio di Francia osato avria
Su i menomi lavori i grechi ornati
Condur felicemente? Andò romito
Il bongusto finora spaziando
Per le auguste cornici e per gli eccelsi
Timpani de le moli a i numi sacre
O a gli uomini scettrati; ed or ne scende
Vago al fin d’agitar gli austeri fregi
Entro a le man di cavalieri e dame.
Ben tosto si vedrà strascinar anco
Fra i nuziali doni e i lievi veli
Le greche travi: e docile trastullo
Fien de la moda le colonne e gli archi
Ove sedeano i secoli canuti.
"Commercio" alto gridar, gridar "commercio"
All’altro lato de la mensa or odi
Con fanatica voce: e tra il fragore
D’un peregrino d’eloquenza fiume

Di bella novità stampate al conio
Le forme apprendi, onde assai meglio poi
Brillantati i pensier picchin lo spirto.
Tu pur grida "commercio": e un motto ancora
La tua bella ne dica. Empiono è vero
Il nostro suol di Cerere i favori,
Che per folti di biade immensi campi
Ergesi altera; e pur ne mostra a pena
Tra le spighe confuso il crin dorato.
Bacco e Vertunno i lieti poggi e il monte
Ne coronan di poma: e Pale amica
Latte ne preme a larga mano; e tonde
Candidi velli; e per li prati pasce
Mille al palato uman vittime sacre.
Sorge fecondo il lin soave cura
De’ verni rusticali: e d’infinita
Serie ne cinge le campagne il tanto
Per la morte di Tisbe arbor famoso.
Che vale or ciò? Su le natie lor balze
Rodan le capre; ruminando il bue
Per li prati natii vada; e la plebe
Non dissimile a lor si nudra e vesta
De le fatiche sue: ma a le grand’alme
Di troppo agevol ben schife Cillenio
Il comodo ministri, a cui le miglia
Pregio acquistino e l’oro: e d’ogn’intorno
"Commercio" risonar s’oda "commercio".
Tale da i letti de la molle rosa



Il giorno


Il giorno è un componimento del poeta Giuseppe Parini scritto in endecasillabi sciolti, che mira a rappresentare in modo satirico l'aristocrazia di quel tempo. Con esso inizia di fatto il tempo della letteratura civile italiana.
Il poemetto era inizialmente diviso in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera. L'ultima sezione venne in seguito divisa in due parti incomplete: il Vespro e la Notte. Ecco come Parini suddivideva la giornata ideale del suo pupillo, "il giovin signore", appartenente alla nobiltà milanese.

Mattino

Il Giovin Signore si sveglia sul tardi, in quanto la sera prima è stato sommerso dai suoi onerosi impegni mondani. Una volta alzato deve scegliere tra il caffè (se tende ad ingrassare) o la cioccolata (se ha bisogno di digerire la cena della sera prima), poi verrà annoiato da delle visite importune, ad esempio un artigiano che richiede il compenso per un lavoro. Seguono le cosiddette visite gradite (per esempio il maestro di francese o di piano); dopodiché non resta che fare toeletta e darsi ad alcune letture (in senso mondano, tese a sfoggiare poi la propria "cultura"). Prima di uscire, viene vestito con abiti nuovi, si procura vari accessori tipici del gentiluomo settecentesco (quali coltello, tabacchiera, etc.), e sale in carrozza per recarsi dalla dama di cui è cavalier servente (secondo la pratica del cicisbeismo, di cui lo stesso Parini è forte critico).

Mezzogiorno, ribattezzato successivamente Meriggio.

Il Giovin Signore, arrivato a casa della dama dove verrà servito il pranzo, incontra il marito della suddetta, che appare freddo ed annoiato. Finalmente è ora di pranzo, e i discorsi attorno al desco si susseguono, fino a che un commensale vegetariano (l'essere vegetariano era una moda discretamente diffusa tra gli aristocratici del tempo, cosa che a Parini sapeva di ipocrisia dato il loro quasi disprezzo per gli uomini di casta inferiore), che sta parlando in difesa degli animali, fa ricordare alla dama il giorno funesto in cui la sua cagnolina, la vergine cuccia, venne lanciata nella polvere da un cameriere a seguito di un morso ricevuto al piede (opportunamente punito per la sua sfrontatezza con il licenziamento, dopo anni di servizio, lasciando l'ex-dipendente e la sua famiglia nella povertà. In questo passo, l'ironia sorridente di Parini si trasforma in vero sarcasmo). Segue lo sfoggio della cultura da parte dei commensali, il caffè e i giochi.

Vespro

Si apre con una descrizone del tramonto. Il Giovin Signore e la dama fanno visita agli amici e vanno in giro in carrozza, ma solo dopo che la donna ha congedato pateticamente la sua cagnetta e il Giovin Signore si è rassettato davanti allo specchio. Poi si recano da un amico ammalato (solo per lasciargli il biglietto da visita) e da una nobildonna che ha appena avuto una crisi di nervi, mentre discutono su una marea di pettegolezzi. A questo punto interviene il Giovin Signore che annuncia la nascita di un bambino, il figlio primogenito di una famiglia nobiliare.

Notte

I due amanti prendono parte ad un ricevimento notturno, ed il narratore inizia la descrizione dei diversi personaggi della sala, in particolare degli "imbecilli", caratterizzati da sciocche manie. Poi si passa alla disposizione dei posti ai tavoli da gioco (che possono risvegliare vecchi amori o creare intrighi) e infine ai giochi veri e propri. Così si conclude la "dura" giornata del nobile italiano del 1700, che tornerà a casa a notte fonda per poi risvegliarsi il mattino dopo, sempre ad ora tarda.

Stile e significato dell'opera

L'impronta ironica del poema mira innanzitutto ad una critica nei confronti della nobiltà settecentesca italiana, ambiente che lo stesso Parini aveva frequentato come precettore di famiglie aristocratiche, e che quindi conosceva molto bene. Libertinismo, licenziosità, corruzione ed oziosità sono solo alcuni dei vizi che l'autore denuncia nella sua opera, incarnati perfettamente da questa classe sociale che, a giudizio del poeta, aveva perso quel vigore necessario a farsi guida del popolo, come invece era stata in passato. Parini infatti non si pone come nemico della casta nobiliare (come al contrario molti pensatori del suo tempo erano), ma si fa portavoce di una teoria secondo la quale l'aristocrazia vada rieducata al suo originario compito di utilità sociale, compito che giustifica appieno tutti i diritti ed i privilegi di cui gode. Da qui si può comprendere come la sua polemica antinobiliare fosse in linea con il programma riformatore di Maria Teresa d'Austria, che puntava ad un reinserimento dell'aristocrazia entro i ranghi produttivi della società. A spiegare la critica pariniana, è emblematica la definizione del Giovin Signore data nel proemio del Vespro: colui "che da tutti servito a nullo serve"; giocando sull'ambivalenza del verbo "servire", che può anche significare "essere utile a". Partendo da questo punto, si può cogliere come il poeta abbia intenzionalmente costruito l'intera opera sul gioco dell'ambiguità: se per una lettura superficiale (e quindi del Giovin Signore stesso) il componimento può apparire un'esaltazione ed un'adesione agli atteggiamenti della classe nobiliare, un approfondimento fa invece emergere tutta la forza dell'ironia volta ad una vera e propria critica, nonché denuncia sociale. L'antifrasi è evidente anche nel ruolo di precettor d'amabil rito che l'autore intende assumere, incaricandosi d'insegnare, attraverso "Il Giorno", come riempire con momenti ed esperienze piacevoli la noia della giornata d'un Giovin Signore. Ciò fa sì che quest'opera rientri nel genere della poesia didascalica, molto diffusa nell'epoca classica e nei momenti dell'Illuminismo. Lo stile è senza dubbio di alto livello, tipico del poema epico antico e della lirica classica: i frequenti richiami classici ed il tono solenne non sono da intendere solo nella loro funzione di supporto all'ironia ed alla finalità critica del componimento (quali senza dubbio sono, ma non solo), ma anche come un gusto poetico estremamente colto, ricco e raffinato. La scelta stilistica del poeta di un linguaggio proprio dell'epica, di una grande attenzione ai particolari e di una minuziosità descrittiva, accompagnano quindi quell'intento di ambiguità nei confronti della materia trattata: assumendo i personaggi dell'opera come veri e propri eroi del poema, mettendo su di un piedistallo i loro vizi ed i loro modi di vivere, Parini riesce acutamente a sminuirli, provocando nel lettore sì un sorriso, ma un sorriso che sa di amaro.




Sibari un dì gridar soleva; e i lumi
Disdegnando volgea da i frutti aviti
Troppo per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin dura a le fatiche e Tiro
Pericolando per l’immenso sale
Con l’oro altrui le voluttà cambiava,
Sibari si volgea su l’altro lato;
E non premute ancor rose cercando
Pur di commercio novellava e d’arti.
Ma chi è quell’eroe che tanta parte
Colà ingombra di loco; e mangia e fiuta
E guata; e de le altrui fole ridendo
Sì superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
Mamme del suo palato! Oh da’ mortali
Invidiabil anima che siede
Fra l’ammiranda lor testura, e quindi
L’ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi più acuto di lui penètra e intende
La natura migliore? O chi più industre
Converte a suo piacer l’aria la terra
E il ferace di mostri ondoso abisso?
Qualora ei viene al desco altrui paventano
Suo gusto inesorabile le smilze
Ombre de gli avi, che per l’aria lievi
Aggiransi vegliando ancor dintorno
A i ceduti tesori; e piangon lasse
Le mal spese vigilie, i sobrj pasti,

Le in preda all’aquilon case, le antique
Digiune rozze, gli scommessi cocchi
Forte assordanti per stridente ferro
Le piazze e i tetti: e lamentando vanno
Gl’invan nudati rustici, le fami
Mal desiate, e de le sacre toghe
L’armata in vano autorità sul vulgo.
L’altro vicin chi fia? Per certo il caso
Congiunse accorto i duo leggiadri estremi,
Perchè doppio spettacolo campeggi;
E l’un dell’altro al par più lustri e splenda.
Falcato dio de gli orti, a cui la greca
Làmsaco d’asinelli offrir solea
Vittima degna, al giovane seguace
Del sapiente di Samo i doni tuoi
Reca sul desco. Egli ozioso siede
Aborrendo le carni; e le narici
Schifo raggrinza; e in nauseanti rughe
Ripiega i labbri; e poco pane in tanto
Rumina lentamente. Altro giammai
A la squallida inedia eroe non seppe
Durar sì forte: nè lassezza il vinse
Nè deliquio giammai nè febbre ardente:
Tanto importa lo aver scarze le membra
Singolare il costume e nel bel mondo
Onor di filosofico talento.
Qual anima è volgar la sua pietate
Serbi per l’uomo: e facile ribrezzo

Dèstino in lei del suo simile i danni
O i bisogni o le piaghe. Il cor di questo
Sdegna comune affetto; e i dolci moti
A più lontano limite sospigne.
"Pera colui che prima osò la mano
Armata alzar su l’innocente agnella
E sul placido bue: nè il truculento
Cor gli piegàro i teneri belati,
Nè i pietosi mugiti, nè le molli
Lingue lambenti tortuosamente
La man che il loro fato aimè stringea".
Tal ei parla o signor: ma sorge in tanto
A quel pietoso favellar da gli occhi
De la tua dama dolce lagrimetta
Pari a le stille tremule brillanti,
Che a la nova stagion gemendo vanno
Da i palmiti di Bacco entro commossi
Al tiepido spirar de le prim’aure
Fecondatrici. Or le sovvien del giorno,
Ahi fero giorno! allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna,
Giovanilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con gli eburnei denti
Segnò di lieve nota: e questi audace
Col sacrilego piè lanciolla: ed ella
Tre volte rotolò; tre volte scosse
Lo scompigliato pelo, e da le vaghe
Nari soffiò la polvere rodente:




Indi i gemiti alzando, aita aita
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei la impietosita eco rispose;
E dall’infime chiostre i mesti servi
Asceser tutti; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipitàro. Accorse ognuno: il volto
Fu d’essenze spruzzato a la tua dama:
Ella rinvenne al fine. Ira e dolore
L’agitavano ancor: fulminei sguardi
Gettò sul servo; e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
Vergine cuccia de le Grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre: a lui non valse
Zelo d’arcani ufici. Ei nudo andonne
De le assise spogliato onde pur dianzi
Era insigne a la plebe: e in van novello
Signor sperò; chè le pietose dame
Inorridiro; e del misfatto atroce
Odiàr l’autore. Il perfido si giacque
Con la squallida prole e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggero inutili lamenti:
E tu vergine cuccia idol placato

Da le vittime umane isti superba.
Nè senza i miei precetti o senza scorta
Inerudito andrai signor, qualora
Il perverso destin dal fianco amato
Ti allontani a la mensa. Avvien sovente
Che con l’aio seguace o con l’amico
Un grande illustre or l’Alpi or l’oceàno
Varchi e scenda in Ausonia, orribil ceffo
Per natura o per arte, a cui Ciprigna
Rose le nari; o sale impuro e crudo
Snudò i denti ineguali. Ora il distingue
Risibil gobba, or furiosi sguardi
Obliqui o loschi: or rantoloso avvolge
Fra le tumide fauci ampio volume
Di voce, che gorgoglia, ed esce al fine
Come da inverso fiasco onda che goccia;
Or d’avi or di cavalli ora di Frini
Instancabile parla; or de’ celesti
Le folgori deride. Aurei monili
E nastri e gemme gloriose pompe
L’ingombran tutto: e gran titolo suona
Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
Inclita stirpe ch’onorar non voglia
D’un ospite sì degno i Lari suoi?
Ei però col compagno ammessi fièno
Di Giuno a i fianchi: e tu lontan da lei
Co’ Silvani capripedi n’andrai
Presso al marito; e pranzerai negletto


Fra il popol folto de gli dei minori.
Ma negletto non già da gli occhi andrai
De la dama gentil, che a te rivolti
Incontreranno i tuoi. L’aere a quell’urto
Arderà di faville: e Amor con l’ali
L’agiterà. Nel fortunato incontro
I messagger pacifici dell’alma
Cambieran lor novelle: e alternamente
Spinti ritorneranno a voi con dolce
Delizioso tremito su i cori.
Allor tu le ubbidisci; o se t’invita
Le vivande a gustar, che a lei vicine
L’ordin dispose; o se a te chiede in vece
Quella che innanzi a te sue voglie pugne
Non col soave odor, ma con le nove
Leggiadre forme onde abbellir la seppe
Dell’ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono le dive
Sopra le nubi del brillante Olimpo:
E lor labbra immortali irrita e move
Non la materia, ma il divin lavoro.
Nè allor men destro ad ubbidir sarai
Che di raro licor la bella strigne
Colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
Serpe striscia dorata; e par che dica:
"Lungi o labbra profane: a i labbri solo
De la diva che qui soggiorna e regna
È il castissimo calice serbato:




Nè cavalier con alito maschile
Osi appannarne il nitido cristallo;
Nè dama convitata unqua presuma
I labbri apporvi; e sien pur casti e puri,
E quanto esser può mai cari all’Amore".
Tu al cenno de’ bei guardi e de la destra,
Che reggendo il bicchier sospesa ondeggia
Affettuoso attendi. I lumi tuoi
Di gioia sfavillando accolgan pronti
Il brindisi segreto: e ti prepara
In simil modo a tacita risposta.
Ecco d’estro già punta ecco la Musa
Brindisi grida all’uno e all’altro amante;
All’altrui fida sposa a cui se’ caro,
E a te signor sua dolce cura e nostra.
Quale annoso licor Lièo vi mesce,
Tale Amore a voi mesca eterna gioia
Non gustata al marito, e da coloro
Invidiata che gustata l’hanno.
Veli con l’ali sue sagace oblio
Le alterne infedeltà che un cor dall’altro
Porieno un giorno separar per sempre:
E solo a gli occhi vostri Amor discopra
Le alterne infedeltà, che in ambo i petti
Ventilar ponno le cedenti fiamme.
Di sempiterno indissolubil nodo
Canti augurj per voi vano cantore:
Nostra nobile musa a voi desia

Sol quanto piace a voi durevol nodo.
Duri fin che a voi piace: e non si scioglia
Senza che Fama sopra l’ale immense
Tolga l’alta novella; e grande n’empia
Col reboato dell’aperta tromba
L’ampia cittade e dell’Enotria i monti,
E le piagge sonanti, e s’esser puote,
La bianca Teti e Guadiana e Tule.
Il mattutino gabinetto il corso
Il teatro e la mensa in vario stile
Ne ragionin gran tempo. Ognun ne chieda
Il dolente marito: ed ei dall’alto
La lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solea
L’ombre tinte di sangue Argo piagnente,
Squallido messo al palpitante coro
Narrava come furiando Edipo
Al talamo sen corse incestuoso,
Come le porte rovescionne, come
Al subito spettacolo ristette
Quando vicina del nefando letto
Vide in un corpo solo e sposa e madre
Pender strozzata; e del fatale uncino
Le mani armosse; e con le proprie mani
A sè le care luci da la testa
Con le man proprie misero strapposse.
Ma già volge al suo fine il pranzo illustre:
Già Como e Dionisio al desco intorno

Rapidissimamente in danza girano
Con la libera Gioia. Ella saltando
Or questo or quel de’ convitati lieve
Tocca col dito: e al suo toccar scoppiettano
Brillanti vivacissime scintille,
Ch’altre ne destan poi. Sonan le risa:
Il clamoroso disputar s’accende:
La nobil vanità pugne le menti:
E l’amor di sè sol, baldo scorrendo,
Porge un scettro a ciascuno; e dice: "regna".
Questi i concili di Bellona, e quegli
Pènetra i tempj de la Pace. Un guida
I condottieri: a i consiglier consiglio
L’altro dona; e divide e capovolge
Con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Pallade l’arti e de le Muse
Giudica e libra; qual ne scopre acuto
L’alte cagioni; e i gran principj abbatte
Cui creò la natura, e che tiranni
Sopra il senso de gli uomini regnàro
Gran tempo in Grecia, e nel paese Tosco
Rinacquer poi più poderosi e forti.
Cotanto adunque di saper fia dato
A nobil capo? Oh letti oh specchi oh mense
Oh corsi oh scene oh feudi oh sangue oh avi
Che per voi non s’apprende? Or tu signore
Co’ voli arditi del felice ingegno
Sovra ognaltro t’innalza. Il campo è questo













Ove splender più dei. Nulla scienza,
Sia quant’esser mai puote arcana o grande,
Ti spaventi giammai. Se cosa udisti
O leggesti al mattino onde tu deggia
Gloria sperar; qual cacciator che segue
Circuendo la fera, e sì la guida
E volge di lontan che a poco a poco
A le insidie s’accosta e dentro piomba,
Tal tu il sermone altrui volgi sagace
Fin che là cada ove spiegar ti giove
Il tuo novo tesoro. E se pur ieri
Scesa in Italia pellegrina forma
Del parlar t’è già nota, allor tu studia
Materia espor che favellando ammetta
La nova gemma; e poi che il punto hai colto,
Ratto la scopri; e sfolgorando abbaglia
Qual altra è mente che superba andasse
Di squisita eloquenza a i gran convivj.
In simil guisa il favoloso mago,
Che fe’ gran tempo desiar l’amante
All’animosa vergin di Dordona,
Da i cavalier che l’assalien bizzarri
Oprar lasciava ogni lor possa ed arte
Poi ecco in mezzo a la terribil pugna
Strappava il velo a lo incantato scudo;
E quei sorpresi dal bagliore immenso
Ciechi spingeva e soggiogati a terra.
Talor di Zoroastro o d’Archimede

Discepol sederà teco a la mensa.
Tu a lui ti volgi, seco lui ragiona,
Suo linguaggio ne apprendi; e quello poi
Qual se innato a te fosse alto ripeti.
Nè paventar quel che l’antica fama
Narra de’ lor compagni. Oggi la diva
Urania il crin compose; e gl’irti alunni
Smarriti vergognosi balbettanti
Trasse da le lor cave, ove già tempo
Col profondo silenzio e con la notte
Tenean consiglio: e le servili braccia
Fornien di leve onnipotenti, ond’alto
Salisser poi piramidi obelischi
Ad eternar de’ popoli superbi
I gravi casi: o pur con feri dicchi
Stavan contra i gran letti: o di pignone
Audace armati, spaventosamente
Cozzavan con la piena, e giù a travers
Spezzate rovesciate dissipavano
Le tetre corna: decima fatica
D’Ercole invitto. Ora i selvaggi amici
Urania ingentilì. Baldi e leggiadri
Nel gran mondo li guida, o tra il clamore
De’ frequenti convivi, o pur tra i vezzi
De’ gabinetti; ove a la docil dama
E al caro cavalier mostran qual via
Venere tenga, e in quante forme o quali
Suo volto lucidissimo si cangi.

Nè del poeta temerai che beffi
Con satira indiscreta i detti tuoi;
O che a maligne risa esponer osi
Tuo talento immortale. All’alta mensa
Voi lo innalzaste; e tra la vostra luce
Beato l’avvolgeste; e de le Muse
A dispetto e d’Apollo al sacro coro
L’ascriveste de’ vati. Ei de la mensa
Fece il suo Pindo: e guai a lui se quindi
Le dee sdegnate giù precipitando
Con le forchette il cacciano. Meschino!
Più non poria su le dolenti membra
Del suo infermo signor chiedere aita
Da la buona Salute; o con alate
Odi ringraziar, nè tesser inni
Al barbato figliuol di Febo intonso.
Più del giorno natale i chiari albori
Salutar non potrebbe; e l’auree frecce
Nomi-sempiternanti all’arco imporre.
Non più gli urti festevoli, o sul naso
L’elegante scoccar d’illustri dita
Fora dato sperare. A lui tu dunque
Non disdegna o signor volger talora
Tu’ amabil voce; a lui tu canta i versi
Del delicato cortigian d’Augusto,
O di quel che tra Venere e Lièo
Pinse Trimalcion: la Moda impone
Ch’Arbitro o Flacco a i begli spirti ingombri

Spesso le tasche. Oh come il vate amico
Te udrà meravigliando il sermon prisco
O sciogliere o frenar qual più ti piace!
E per la sua faretra e per li cento
Destrier focosi che in Arcadia pasce
Ti giurerà che di Donato al paro
Il difficil sermone intendi e gusti!
E questo ancor di rammentar fia tempo
I novi Sofi che la Gallia o l’Alpe
Ammirando persegue; e dir qual arse
De’ volumi infelici, o andò macchiato
D’infame nota; e quale asilo appresti
Filosofia al morbido Aristippo
Del secol nostro, e qual ne appresti al novo
Diogene dell’auro sprezzatore
E della opinione de’ mortali.
Lor famosi volumi, o a te discesi
Per calle obliquo e compri a gran tesoro,
O da cortese man prestati, fièno
Lungo ornamento a lo tuo speglio innante.
Poi che brevi gli avrai scorsi momenti
Ornandoti o a la man garrendo indotta
Del parrucchier; poi che t’avran più notti
Conciliato il facil sonno, al fine
Anco a lo speglio passeran di lei,
Che comuni ha con te studj e licèo,
Ove togato in cattedra elegante
Siede interprete Amore. Or fia la mensa

Il favorevol loco, onde al sol esca
De’ brevi studj il glorioso frutto.
Chi por freni oserà d’inclita stirpe
All’animo a la mente? Il vulgo tema
Oltre natura: e quei cui dona il vulgo
Titol di saggio mediti romito
Il ver celato; e al fin cada adorando
La sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma tu come sublime aquila vola
Dietro a i sofi novelli. Alto dia plauso
Tutta la mensa al tuo poggiare audace.
Te con lo sguardo e con l’orecchio beva
La dama da le tue labbra rapita:
Con cenno approvator vezzosa il capo
Pieghi sovente: e il calcolo e la massa
E la inversa ragion sonino ancora
Su la bocca amorosa. Or più non odia
De le scole il sermone Amor maestro:
E l’accademia e i portici passeggia
De’ filosofi al fianco; e con la molle
Mano accarezza le cadenti barbe.
Ma guardati o signor guardati oh dio
Dal tossico mortal che fuora esala
Da i volumi famosi: e occulto poi
Sa per le luci penetrato all’alma
Gir serpendo ne’ cori; e con fallace
Lusinghevole stil corromper tenta
Il generoso de le stirpi orgoglio,

Che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli
Che ciascun de’ viventi all’altro è pari;
E caro a la natura e caro al cielo
E non manco dite colui che regge
I tuoi destrieri e quel ch’ara i tuoi campi;
E che la tua pietade o il tuo rispetto
Devrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni d’infermo! Intatti lascia
Così strani consigli: e solo attigni
Ciò che la dolce voluttà rinfranca,
Ciò che scioglie i desiri e ciò che nudre
La libertà magnanima. Tu questo
Reca solo a la mensa; e sol da questo
Plauso cerca ed onor: così dell’api
L’industrioso popolo ronzando
Gira di fiore in fior di prato in prato;
E i dissimili sughi raccogliendo
Tesoreggia nell’arnie: un giorno poi
Ne van colme le pàtere dorate
Sopra l’ara de’ numi; e d’ogni lato
Ribocca la fragrante alma dolcezza.
Or versa pur dall’odorato grembo
I tuoi doni o Pomona; e l’ampie colma
Tazze che d’oro e di color diversi
Fregia il Sassone industre. E tu da i greggi
Rustica Pale coronata vieni
Di melissa olezzante o di ginebro;
E co’ lavori tuoi di presso latte

Declina vergognando a chi ti chiede;
Ma deporli non osa. In su la mensa
Porien deposti le celesti nari
Pungere ahi troppo; e con ignobil senso
Gli stomachi agitar: soli torreggino
Sul ripiegato lino in varia forma
I latti tuoi cui di serbato verno
Assodarono i sali, e fecer atti
A dilettar con subito rigore
Di convitato cavalier le labbra.
Tu signor che farai poi che la dama
Con la mano e col piè lieve puntando
Move in giro i begli occhi; e altrui dà cenno
Che di sorger è tempo? In piè d’un salto
Balza primo di tutti; a lei soccorri,
La seggiola rimovi, la man porgi,
Guidala in altra stanza, e più non soffri
Che lo stagnante de le dapi odore
Il celabro le offenda. Ivi con gli altri
Gratissimo vapor la invita, ond’empie
L’aere il caffè, che preparato fuma
In tavola minor, cui vela ed orna
Indica tela. Ridolente gomma
Quinci arde in tanto, e va lustrando e purga
L’aere profano, e fuor caccia de’ cibi
Le volanti reliquie. Egri mortali,
Che la miseria e la fidanza un giorno
Sul meriggio guidàro a queste porte

Tumultuosa ignuda atroce folla
Di tronche membra e di squallide facce
E di bare e di grucce, or via da lunge
Vi confortate; e per le alzate nari
Del divin prandio il nettare beete,
Che favorevol aura a voi conduce:
Ma non osate i limitari illustri
Assediar, fastidioso offrendo
Spettacolo di mali a i nostri eroi.
E a te nobil garzon la tazza in tanto
Apprestar converrà, che i lenti sorsi
Ministri poi de la tua bella a i labbri
E memore avvertir s’ella più goda,
O sobria o liberal temprar col dolce
La bollente bevanda: o se più forse
L’ami così come sorbir la gode
Barbara sposa, allor che molle assisa
Ne’ broccati di Persia al suo signore
Con le dita pieghevoli il selvoso
Mento vezzeggia; e la svelata fronte
Alzando il guarda; e quelli sguardi han possa
Di far che a poco a poco di man cada
Al suo signore la fumante canna.
Mentre i labbri e la man v’occupa e scalda
L’odoroso licor, sublimi cose
Macchinerà tua infaticabil mente.
Quale oggi coppia di corsier de’ il carro
Condur de la tua bella; o l’alte moli

Che per le fredde piagge educa il Cimbro;
O quei che abbeverò la Drava; o quelli
Che a le vigili guardie un dì fuggiro
De la stirpe Campana: oggi qual meglio
Si convegna ornamento a i dorsi alteri;
Se semplici e negletti, o se pomposi
Di ricche nappe e variate stringhe
Andran su l’alto collo i crin volando,
E sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie
Ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
Vi porterà; se quel cui l’oro copre
Fulgido al sole; e de’ vostr’alti aspetti
Per cristallo settemplice concede
Al popolo bearsi; o quel, che tutto
Caliginoso e tristo e a la marmorea
Tomba simil che de’ vostr’avi chiude
I cadaveri eccelsi, ammette a pena
Cupido sguardo altrui. Cotanta mole
Di cose a un tempo sol nell’alto ingegno
Tu verserai; poi col supremo auriga
Arduo consiglio ne terrai; non senza
Qualche lieve garrir con la tua dama.
Servi l’auriga ogni tua legge: e in tanto
Altra cura subentri. Or mira i prodi
Compagni tuoi che, ministrato a pena
Dolce conforto di vivande a i membri,
Già scelto il campo, e già distinti in bande

Preparansi giocando a fieri assalti.
Così a queste, o signore, illustre inganno
Ore lente si faccia. E s’altri ancora
Vuole Amor che s’inganni; altronde pugni
La turba convitata; e tu da un lato
Sol con la dama tua quel gioco eleggi,
Che due soltanto a un tavoliere ammetta.
Già per ninfa gentil tacito ardea
D’insoffribile ardor misero amante,
Cui null’altra eloquenza usar con lei
Fuor che quella de gli occhi era concesso:
Poi che il rozzo marito ad Argo eguale
Vigilava mai sempre; e quasi biscia
Ora piegando or allungando il collo
Ad ogni verbo con gli orecchi acuti
Era presente. Oimè, come con cenni
O con notate tavole giammai
O con servi sedotti a la sua bella
Chieder pace ed aita? Ogni d’Amore
Stratagemma finissimo vincea
La gelosia del rustico marito.
Che più lice sperare? Al tempio ei viene
Del nume accorto che le serpi annoda
All’aurea verga, e il capo e le calcagna
D’ali fornisce. A lui si prostra umile;
E in questi detti lagrimando il prega.
"O propizio a gli amanti, o buon figliuolo
De la candida Maia, o tu che d’Argo

Deludesti i cent’occhi, e a lui rapisti
La guardata giovenca, i preghi accogli
D’un amante infelice; e a lui concedi
Se non gli occhi ingannar, gli orecchi almeno
D’importuno marito". Ecco si scote
Il divin simulacro, a lui s’inchina,
Con la verga pacifica la fronte
Gli percote tre volte: e il lieto amante
Sente dettarsi ne la mente un gioco,
Che i mariti assordisce. A lui diresti
Che l’ali del suo piè concesse ancora
Il supplicato dio, cotanto ei vola
Velocissimamente a la sua donna.
Là bipartita tavola prepara,
Ov’èbano ed avorio intarsiati
Regnan sul piano, e partono alternando
In due volte sei case ambe le sponde.
Quindici nere d’èbano rotelle
E d’avorio bianchissimo altrettante
Stan divise in due parti; e moto e norma
Da duo dadi gittati attendon, pronte
Gli spazj ad occupar, e quinci e quindi
Pugnar contrarie. Oh cara a la fortuna
Quella che corre innanzi all’altre; e seco
Trae la compagna, onde il nemico assalto
Forte sostenga! Oh giocator felice
Chi pria l’estrema casa occupa; e l’altro
De gli spazj a sè dati ordin riempie

Con doppio segno! Ei trionfante allora
Da la falange il suo rival combatte;
E in proprio ben rivolge i colpi ostili.
Al tavolier s’assidono ambidue
L’amante cupidissimo e la ninfa.
Quella una sponda ingombra e questi l’altra.
Il marito col gomito s’appoggia
All’un de’ lati; ambo gli orecchi tende;
E sotto al tavolier di quando in quando
Guata con gli occhi. Or l’agitar de i dadi
Entro a sonanti bòssoli comincia,
Ora il picchiar de’ bòssoli sul piano,
Ora il vibrar lo sparpagliar l’urtare
Il cozzar dei duo dadi, or de le mosse
Rotelle il martellar. Torcesi e freme
Sbalordito il geloso: a fuggir pensa,
Ma rattienlo il sospetto. Il fragor cresce
Il rombazzo il frastono il rovinio:
Ei più regger non puote, in piedi balza,
E con ambe le man tura gli orecchi.
Tu vincesti o Mercurio. Il cauto amante
Poco disse: e la bella intese assai.
Tal ne la ferrea età, quando gli sposi
Folle superstizion chiamava allarme
Giocato fu. Ma poi che l’aureo venne
Secol di novo; e che del prisco errore
Si spogliàro i mariti, al sol diletto
La dama e il cavalier volsero il gioco




Che la necessità trovato avea.
Fu superfluo il romor: di molle panno
La tavola vestissi e de’ patenti
Bòssoli il sen: lo schiamazzio molesto
Tal rintuzzossi: e durò al gioco il nome,
Che ancor l’antico strepito dinota.
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