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L'INNESTO DEL VAIUOLO
AL DOTTORE GIAMMARIA BICETTI DE’ BUTTINONI
       O Genovese ove ne vai? qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
Non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio
All'intentato piano
De lo immenso oceàno?
Senti le beffe dell'Europa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.
       Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice,
Che natura ponesse all'uom confine
Di vaste acque marine,
Se gli diè mente onde lor freno imporre:
E dall'alta pendice
Insegnolli a guidare
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso canape raccorre
I venti, onde su l'acque ardito scorre.
       Cosi l'eroe nocchier pensa, ed abbatte
I paventati d'Ercole pilastri;
Saluta novelli astri;
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
Genti dell'orbe ascoso
Lo stranier portentoso.

Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
All'Europa, che il beffa ancor sul lito.
       Più dell'oro, Bicetti, all'Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell'oro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all'evento
Di chi '1 doppio tesor le reca; e sprezza
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
       Come biada orgogliosa in campo estivo,
Cresce di santi abbracciamenti il frutto.
Ringiovanisce tutto
Nell'aspetto de' figli il caro padre;
E dentro al cor giulivo
Contemplando la speme
De le sue ore estreme,
Già cultori apparecchia artieri e squadre
A la patria d'eroi famosa madre.
       Crescete o pargoletti: un dì sarete
Tu forte appoggio de le patrie mura,
E tu soave cura,
E lusinghevol'esca ai casti cori.
Ma, oh dio, qual falce miete
De la ridente messe
Le sì dolci promesse
O quai d'atroce grandine furori

Ne sfregiano il bel verde e i primi fiori?
       Fra le tenere membra orribil siede
Tacito seme: e d'improvviso il desta
Una furia funesta
De la stirpe degli uomini flagello.
Urta al di dentro, e fiede
Con lièvito mortale;
E la macchina frale
O al tutto abbatte, o le rapisce il bello,
Quasi a statua d'eroe rival scarpello.
       Tutti la furia indomita vorace
Tutti una volta assale ai più verd'anni:
E le strida e gli affanni
Dai tugurj conduce a' regj tetti;
E con la man rapace
Ne le tombe condensa
Prole d'uomini immensa.
Sfugge taluno è vero ai guardi infetti;
Ma palpitando peggior fato aspetti.
       Oh miseri! che val di medic'arte
Nè studj oprar nè farmachi nè mani?
Tutti i sudor son vani
Quando il morbo nemico è su la porta;
E vigor gli comparte
De la sorpresa salma
La non perfetta calma.
Oh debil'arte, oh mal secura scorta,
Che il male attendi, e no '1 previeni accorta!
       Già non l'attende in Oriente il folto

Giuseppe Parini  -  ODI



Popol che noi chiamiam barbaro e rude;
Ma sagace delude
Il fiero inevitabile demòne.
Poichè il buon punto ha colto
Onde il mostro conquida,
Coraggioso lo sfida;
E lo astrigne ad usar ne la tenzone
L'armi, che ottuse tra le man gli pone.
       Del regnante velen spontaneo elegge
Quel ch'è men tristo; e macolar ne suole
La ben amata prole,
Che non più recidiva
Però d'umano gregge
Va Pechino coperto;
E di femmineo merto
Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna
Ove la Dea di Cipri orba soggiorna.
       O Montegù. qual peregrina nave,
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli varj
Diseppellendo antiqui regni e vasti,
E a noi tornando grave
Di strana gemma e d'auro
Portò sì gran tesauro,
Che a pareggiare non che a vincer basti
Quel, che tu dall'Eussino a noi recasti?
       Rise l'Anglia la Francia Italia rise
Al rammentar del favoloso innesto:
E il giudizio molesto

De la falsa ragione incontro alzosse.
In van l'effetto arrise
A le imprese tentate;
Chè la falsa pietate
Contro al suo bene e contro al ver si mosse,
E di lamento femminile armosse.
       Ben fur preste a raccor gl'infausti doni
Che, attraversando l'oceàno aprico,
Lor condusse Americo;
E ad ambe man li trangugiaron pronte.
De' lacerati troni
Gli avanzi sanguinosi,
E i frutti velenosi
Strinser gioiendo; e da lo stesso fonte
De la vita succhiar spasimi ed onte.
       Tal del folle mortal tale è la sorte:
Contra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa
Contra natura che i suoi don gli porge.
Questa a schifar la morte
Insegnò madre amante
A un popolo ignorante;
E il popol colto, che tropp'alto scorge,
Contro ai consigli di tal madre insorge.
   Sempre il novo, ch'è grande, appar menzogna,
Mio Bicetti, al volgar debile ingegno:
Ma imperturbato il regno
De' saggi dietro all'utile s'ostina.

Minaccia nè vergogna
No '1 frena, no '1 rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l'idol rovina,
E la salute ai posteri destina.
       Così l'Anglia la Francia Italia vide
Drappel di saggi contro al vulgo armarse.
Lor zelo indomit'arse,
E di popolo in popolo s'accese.
Contro all'armi omicide
Non più debole e nudo;
Ma sotto a certo scudo
Il tenero garzon cauto discese,
E il fato inesorabile sorprese.
       Tu sull'orme di quelli ardito corri
Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta
La pietà violenta
Che a le Insubriche madri il core implica.
L'umanità soccorri;
Spregia l'ingiusto soglio
Ove s'arman d'orgoglio
La superstizion del ver nemica,
E l'ostinata folle scola antica.
       Quanta parte maggior d'almi nipoti
Coltiverà nostri felici campi!
E quanta fia che avvampi
D'industria in pace o di coraggio in guerra!
Quanta i soavi moti




Propagherà d'amore,
E desterà il languore
Del pigro Imene, che infecondo or erra
Contro all'util comun di terra in terra!
       Le giovinette con le man di rosa
Idalio mirto coglieranno un giorno:
All'alta quercia intorno
I giovinetti fronde coglieranno;
E a la tua chioma annosa,
Cui per doppio decoro
Già circonda l'alloro,
Intrecceran ghirlande, e canteranno:
"Questi a morte ne tolse o a lungo danno".
       Tale il nobile plettro infra le dita
Mi profeteggia armonioso e dolce,
Nobil plettro che molce
Il duro sasso dell'umana mente;
E da lunge lo invita
Con lusinghevol suono
Verso il ver, verso il buono;
Nè mai con laude bestemmiò nocente
O il falso in trono o la viltà potente.

       Oh beato terreno
Del vago Eupili mio,
Ecco al fin nel tuo seno
M'accogli; e del natio
Aere mi circondi;
E il petto avido inondi.
       Già nel polmon capace
Urta sè stesso e scende
Quest'etere vivace,
Che gli egri spirti accende,
E le forze rintegra,
E l'animo rallegra.
       Però ch'austro scortese
Qui suoi vapor non mena:
E guarda il bel paese
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid'ale.
       Nè qui giaccion paludi,
Che dall'impuro letto
Mandino a i capi ignudi
Nuvol di morbi infetto:
E il meriggio a' bei colli
Asciuga i dorsi molli.

       Pera colui che primo
A le triste oziose
Acque e al fetido limo
La mia cittade espose;
E per lucro ebbe a vile
La salute civile.
       Certo colui del fiume
Di Stige ora s'impaccia
Tra l'orribil bitume,
Onde alzando la faccia
Bestemmia il fango e l'acque,
Che radunar gli piacque.
       Mira dipinti in viso
Di mortali pallori
Entro al mal nato riso
I languenti cultori;
E trema o cittadino,
Che a te il soffri vicino.
       Io de' miei colli ameni
Nel bel clima innocente
Passerò i dì sereni
Tra la beata gente,
Che di fatiche onusta
È vegeta e robusta.
       Qui con la mente sgombra,
Di pure linfe asterso,
Sotto ad una fresc'ombra
Celebrerò col verso




I villan vispi e sciolti
Sparsi per li ricolti;
       E i membri non mai stanchi
Dietro al crescente pane;
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo,
       Dicendo: "Oh fortunate
Genti, che in dolci tempre
Quest'aura respirate
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi
E da limpidi rivi.
       Ben larga ancor natura
Fu a la città superba
Di cielo e d'aria pura:
Ma chi i bei doni or serba
Fra il lusso e l'avarizia
E la stolta pigrizia?
       Ahi non bastò che intorno
Putridi stagni avesse;
Anzi a turbarne il giorno
Sotto a le mura stesse
Trasse gli scelerati
Rivi a marcir su i prati:
       E la comun salute
Sagrificossi al pasto

D'ambiziose mute,
Che poi con crudo fasto
Calchin per l'ampie strade
Il popolo che cade.
       A voi il timo e il croco
E la menta selvaggia
L'aere per ogni loco
De' varj atomi irraggia,
Che con soavi e cari
Sensi pungon le nari.
       Ma al piè de' gran palagi
Là il fimo alto fermenta;
E di sali malvagi
Ammorba l'aria lenta,
Che a stagnar si rimase
Tra le sublimi case.
       Quivi i lari plebei
Da le spregiate crete
D'umor fracidi e rei
Versan fonti indiscrete;
Onde il vapor s'aggira,
E col fiato s'inspira.
       Spenti animai, ridotti
Per le frequenti vie,
De gli aliti corrotti
Empion l'estivo die:
Spettacolo deforme
Del cittadin su l'orme!

       Nè a pena cadde il sole
Che vaganti latrine
Con spalancate gole
Lustran ogni confine
De la città, che desta
Beve l'aura molesta.
       Gridan le leggi è vero;
E Temi bieco guata:
Ma sol di sè pensiero
Ha l'inerzia privata.
Stolto! E mirar non vuoi
Ne' comun danni i tuoi?
       Ma dove ahi corro e vago
Lontano da le belle
Colline e dal bel lago
E dalle villanelle,
A cui sì vivo e schietto
Aere ondeggiar fa il petto?
       Va per negletta via
Ognor l'util cercando
La calda fantasia,
Che sol felice è quando
L'utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.




       Perchè turbarmi l’anima,
O d’oro, o d’onor brame,
Se del mio viver Atropo
Presso è a troncar lo stame?
E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun?
       Queste che ancor ne avanzano
Ore fugaci e meste,
Belle ci renda e amabili
La libertade agreste.
Qui Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin:
Qui di fior s’inghirlanda
Bella innocenza il crin.
       So che felice stimasi
Il possessor d’un’arca,
Che Pluto abbia propizio
Di gran tesoro carca;
Ma so ancor che al potente
Palpita oppresso il cor
Sotto la man sovente
Del gelato timor.

       Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero,
Il regno de la morte.
No, ricchezza nè onore
Con frode o con viltà
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.
       Colli beati e placidi,
Che il vago Èupili mio
Cingete con dolcissimo
Insensibil pendìo,
Dal bel rapirmi sento,
Che natura vi diè;
Ed esule contento
A voi rivolgo il piè.
       Già la quïete, a gli uomini
Sì sconosciuta, in seno
De le vostr’ombre apprestami
Dolce albergo sereno:
E le cure e gli affanni
Quindi lunge volar
Scorgo, e gire i tiranni
Superbi ad agitar.
       Qual porteranno invidia
A me che, di fior cinto,
Tra la famiglia rustica
A nessun giogo avvinto,

Come solea in Anfriso
Febo pastor, vivrò,
E sempre con un viso
La cetra sonerò!
       Inni dal cor dettatimi
Alzerò spesso a i cieli,
Sì che lontan si volgano
I turbini crudeli;
E da noi lunge avvampi
L’aspro sdegno guerrier;
Nè ci calpesti i campi
L’inimico destrier.
       E te villan sollecito,
Che per nov’orme il tralcio
Saprai guidar frenandolo
Col pieghevole salcio:
E te, che steril parte
Del tuo terren, di più
Render farai con arte
Che ignota al padre fu;
       Te co’ miei carmi a i posteri
Farò passar felice:
Di te parlar più secoli
S’udirà la pendice.
E sotto l’alte piante
Vedransi a riverir
Le quete ossa compiante
I posteri venir.
       Tale a me pur concedasi




Chiuder campi beati
Nel bel vostro ricovero
I giorni fortunati.
Ah quella è vera fama
D’uom che lasciar può qui
Lunga ancor di sè brama
Dopo l’ultimo dì!

Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente
Occupi pien d'orgoglio,
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.

Con le folgori in mano
La legge alto minaccia;
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.

Al misero mortale
Ogni lume s'ammorza:
Vèr la scesa del male
Tu lo strascini a forza:
Ei di sè stesso in bando
Va giù precipitando.

Ahj l'infelice allora
I comun patti rompe;
Ogni confine ignora;
Ne' beni altrui prorompe;
Mangia i rapiti pani
Con sanguinose mani.


Ma quali odo lamenti
E stridor di catene;
E ingegnosi stromenti
Veggo d'atroci pene
Là per quegli antri oscuri
Cinti d'orridi muri?

Colà Temide armata
Tien giudizj funesti
Su la turba affannata,
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti
O padre di delitti.

Meco vieni al cospetto
Del nume che vi siede.
No non avrà dispetto
Che tu v'innoltri il piede.
Da lui con lieto volto
Anco il Bisogno è accolto.

O ministri di Temi
Le spade sospendete:
Dai pulpiti supremi
Qua l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega
Al Bisogno che prega?





"Perdon", dic'ei, "perdono
Ai miseri cruciati.
Io son l'autore io sono
De' lor primi peccati.
Sia contro a me diretta
La pubblica vendetta".

Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual dell'umana prole
A pietade si move?
Tu, Wirtz, uom saggio e giusto
Ne dai l'esempio augusto:

Tu cui sì spesso vinse
Dolor de gl'infelici,
Che il Bisogno sospinse
A por le rapitrici
Mani nell'altrui parte
O per forza o per arte:

E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti:
E dando oro ed aiuto,
Generoso insegnasti
Come senza le pene
Il fallo si previene.

       Volano i giorni rapidi
Del caro viver mio:
E giunta in sul pendio
Precipita l'età.
       Le belle oimè che al fingere
Han lingua così presta
Sol mi ripeton questa
Ingrata verità.
       Con quelle occhiate mutole
Con quel contegno avaro
Mi dicono assai chiaro:
"Noi non siam più per te".
       E fuggono e folleggiano
Tra gioventù vivace;
E rendonvi loquace
L'occhio la mano e il piè.
       Che far? Degg'io di lagrime
Bagnar per questo il ciglio?
Ah no; miglior consiglio
È di godere ancor.
       Se già di mirti teneri
Colsi mia parte in Gnido,
Lasciamo che a quel lido
Vada con altri Amor.
       
       Volgan le spalle candide
Volgano a me le belle:
Ogni piacer con elle
Non se ne parte alfin.
       A Bacco, all'Amicizia
Sacro i venturi giorni.
Cadano i mirti; e s'orni
D'ellera il misto crin.
       Che fai su questa cetera,
Corda, che amor sonasti?
Male al tenor contrasti
Del novo mio piacer.
       Or di cantar dilettami
Tra' miei giocondi amici,
Augurj a lor felici
Versando dal bicchier.
       Fugge la instabil Venere
Con la stagion de' fiori:
Ma tu Lièo ristori
Quando il dicembre uscì.
       Amor con l'età fervida
Convien che si dilegue;
Ma l'amistà ne segue
Fino a l'estremo dì.
       Le belle, ch'or s'involano
Schife da noi lontano,
Verranci allor pian piano
Lor brindisi ad offrir.



SUL TESTO


La presente edizione è fondata principalmente sugli autografi, come nell’Avvertenza ho detto. Ma qui occorre riepilogare la storia delle prime raccolte delle Odi del Parini.
Dopo che alcune odi del P., come altre sue poesie, erano uscite sparsamente in pubblico, oltre che manoscritte, per le stampe, Agostino Gambarelli, discepolo a lui devoto e raccoglitore e trascrittore di cose di lui, pubblicò il volume Odi dell’abbate Giuseppe Parini già divolgate, Milano, nella Stamperia di Giuseppe Marelli, MDCCXCI (con sul frontespizio il fregio di strumenti musicali e il motto di Orazio Postera crescet laude recens), in 8°, pagg. 182, delle quali l’ultima ha le Correzioni. Vi è premesso, anonimo, un Avviso dell’Editore, dove si afferma la gran diffusione di quei componimenti, non mai raccolti dal P.; la progressiva deformazione loro, « tanto infedeli e scorretti e mutili e svisati, da non potersi talvolta più riconoscere per fattura dello ingegno che li aveva prodotti »; le insistenze degli amici e ammiratori verso il P.: « Non mancarono essia lui, nè egli a sè stesso; accordando da ultimo (però sempre al suo modo) a quegli fra loro poco sopra accennati [cioè, al Gambarelli stesso], la facoltà di pubblicare queste Odi, e non più »; e dove, da ultimo, si avverte : «Si può frattanto asserire con certezza, che qualunque Ode, sì edita che inedita, che giri sotto il carme dell’Ab. Parini, e non sia compresa nella presente raccolta, è  farina di tutt’altro sacco che del suo ».
Tale raccolta del Gambarelli contiene :

[I] L’Innesto del vaiuolo ;
[II] La Salubrità dell’aria;
[III] La Vita rustica;
[IV] Il Bisogno ;
[V] Il Brindisi ;
[VI] La Impostura ;
[VII] Il Piacere e la Virtù;
[VIII] La Primavera. ; [
[IX] La Educazione ;
[X] La Laurea ;
[XI] ] La Musica ;
[XII] La recita de’ versi ;
[XIII] La Tempesta ;
[XIV] Le Nozze ;
[XV] La Caduta ;
[XVI] Il Pericolo;
[XVII] Piramo e Tisbe;
[XVIII] Alceste;
[XIX] La Magistratura;
[XX] In morte del maestro Sacchini;
[XXI] Il Dono;
[XXII] La Gratitudine;

e nell’ Indice delle Odi dà in più i quattro sonetti:
Ecco del mondo e meraviglia o gioco;
Qual cagion, qual virtù, qual foco innato;
Qual fra quest’erme inculte orride rupi ;
Tanta già di coturni, altero ingegno.
La indico con O.

Codesta edizione fu riprodotto immediatamente a Piacenza, presso Niccolò Orcesi, Regio Stampatore, in quel medesimo anno 1791, con lo scrupolo d’imitarne il frontespizio anche nel fregio, e d’introdurre nel testo le Correzioni (soltanto una d’esse, nella Vita rustica, sfuggì; ed è Che, invece di Chè voluto dalle suddette Correzioni nel verso Chè vide arse sue spiche); e anche fu riprodotta a Parma, Regal Palazzo, pur nel 1791, e poi a Pavia, Per gli eredi di Pietro Galeazzi, nel 1793.
Nel volume Odi di Parini, ultima edizione accresciuta (senza fregio sul frontespizio, ma col motto oraziano qui sopra riferito) che a Milano uscì, senz’anno, Presso il Bolzani alla Piazza de’ Mercanti e nella Contrada di S. Margherita all’Insegna dell’arma della Città (in 16°, pagg. 167 num.) si hanno le ventidue odi e i quattro sonetti dell’edizione del 1791 e delle derivate, coi titoli stessi e con le note relative: ma in più, da pag. 125 a pag. 143, si hanno le odi [XXIII] Per l’inclita Nice; [XXIV] A Silvia ; [XXV] Alla Musa; e a pagine 153-154, pel verso dell’ode La Caduta, «Noia le facezie e le novelle spandi » si ha la nota: «Nelle edizioni posteriori alla prima di Milano del 1791 si sono fatti de’ cangiamenti a questo verso per non essersi dagli editori avvertito alla pronunciazione toscana ed agli esempi de’ buoni scrittori nell’uso delle parole che hanno dittongo o trittongo, come accade della parola noia, gioia, ecc. ». Sì fatta nota è in una manifesta relazione con ciò che il P. scrisse a Giovanni (non Giuseppe) Bernardoni libraio, l’ 11 novembre 1795 (cfr. in questo volume la lettera n. XLVIII), e con ciò che il Bernardoni pose in nota a quel verso nella sua edizione delle Poesie scelte di G. P., Milano, Giovanni Bernardoni, 1814, come può vedersi nelle note dell’edizione presente. Ma non mi arrischio a risolvere il dubbio che il Salveraglio (pag. lviii) dedusse da G. Melzi, Dizionario di opere anonime, ecc., Milano, 1859, III, 289, intorno alla data in cui uscì l’edizione del Bolzani. L’esemplare da me posseduto di codesta rarissima, e però anche negata, edizione, ha il suddetto frontespizi; sebbene sia mutilo delle prime pagine, mancandovi forse la prosa che apre l’edizione del 1791, e mancandovi le prime due pagine, segnate con cifre arabe, contenenti le prime sei strofe dell’ode O Genovese. Al Salveraglio rimando per altre ristampe delle Odi su gli ultimi del secolo XVIII.
Le Poesie scelte, qui sopra indicate, che Giovanni Bernardoni pubblicò a Milano nel 1814 come « prima edizione milanese » (in 16°, pagg. 286), dicono Ai Leggitori che l’editore, dopo essere stata in dubbio per la scelta delle Odi, si risolvette a pubblicarle tutte: « trattone tre sole; cioè Il Piacere e la Virtù, Piramo e Tisbe e Alceste; le quali furono dallo stesso Autore rifiutate, sebbene avessero già veduto la luce con le stampe. Una non dubbia prova di tale rifiuto si vede in un esemplare delle Odi, impresse in Milano nel 1791, il quale è posseduto dall’Editore del presente volumetto, ed in cui di propria mano del Poeta sono esse cancellate; e le ultime due sono anzi, per un più manifesto indizio di disapprovazione, segnate nel principio con una croce. Tutt’e tre vennero poi anche rigettate dalla Raccolta delle Opere Pariniane, fatta dal sig. Avvocato Francesco Reina. Nè dee tacersi, che quella ancora col titolo La Primavera, da noi posta tra le Canzonette col Brindisi e con Le Nozze, vedesi cassata nell’anzidetto esemplare. Noi però abbiamo creduto bene di ritenerla. Se per avventura a Parini non andava del tutto a genio quel componimento, pressochè steso improvvisamente per compiacere ad una persona che lo desiderò da mettere in musica, esso non è tuttavia tale, che non insegni ai giovani, come anche un trito argomento trattare si possa con eleganza e con nobiltà di stile ». Questa edizione del Bernardoni (fu bene osservato dal Salveraglio) non ha valore pel testo, essendosi egli valso delle copie del Gambarelli invece che degli autografi già debitamente, se non sempre scrupolosamente, messi a profitto dal Reina. Occorrendo la cito con BERN. Quando pongo ms., intendo rimandare e ad alcun’altra e a tali copie, che (salvo in casi speciali) ho percid ritenuto superfluo distinguere più particolarmente. Con iscrupolo ho invece notato quanto il P. stesso mutò di sua propria mano in alcuna di esse copie.
Nelle Opere di G. P., curate dal Reina (Milano, presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1802, Anno I della Repubblica Italiana), le Odi occupano le pagg. 45-213,in quest’ordine e con questi titoli:

I. La Vita rustica;
II. La Salubrità dell’aria ;
III. L’ Innesto del vaiuoio ;
IV. La Impostura ;
V. Il Bisogno ;
VI. La Educazione ;
VII. La Laurea ;
VIII. La Musica ;
IX. La Recita de’ versi ;
X. La Tempesta ;
XI. Le Nozze ;
XII. La Caduta ;
XIII. Il Pericolo ;
XIV. La Magistratura ;
XV. In morte del maestro Sacchini :
XVI. Il Dono ;
XVII. La Gratitudine ;
XVIII. Il Messaggio ;
XIX. Sul vestire alla Ghigliotina [sic] ;
XX. Alla Musa.

Il Reina diede, come sopra ho rammentato, « Lezioni Varie » dagli autografi, avvertendo che « la massima parte delle Lezioni Varie, che si danno nelle Liriche, fu rifiutata dal Poeta, a differenza di molte fra quelle de’ Poemetti, le quali erano l’ultima volontà di lui». Nella parziale ristampa delle Opere di G. P. pubblicate per cura di F. Reina, Milano, Soc. Tipogr. de’ Classici Italiani, 1825, si han le Odi, coi titoli stessi, ma senza numerazione; escludendo Le Nozze, e preponendo La Impostura a L’ Innesto del vaiuolo e La Magistratura a In morte del maestro Sacchini.
Senza far la storia bibliografica delle edizioni seguenti, chè non è del mio proposito, passo a indicare Le Odi dell’abate G. P., riscontrate su manoscritti e stampe con prefazione e note di Filippo Salveraglio, Bologna, Zanichelli, 1882 (dopo un’edizione dell’anno precedente da cui «per emendazioni e aggiunte importantissime», come il Salveraglio stesso avvertì a pag. 285, questa del 1882 venne a variare). Le Odi vi sono ventuna:

I.  La libertà campestre ;
II. La salubrità dell’aria;
III. La impostura;
IV. Per la guarigione di Carlo Imbonati;
V. Al dottore G. Bicetti de’ Buttinoni;
VI. Pel pretore Wirtz
VII. La evirazione;
VIII. Per la laurea di M.P. Amoretti;
IX. Per nozze
X. Brindisi;
XI. Sopra l’uso di recitare i versi alle mense;
XII. Nell’inverno del 1785;
XIII. La tempesta;
XIV. In morte di Antonio Sacchini;
XV. Per Cecilia Tron;
XVI. Per Camillo Gritti podestà di Vicenza;
XVII. Alla marchesa, Paola Castiglioni;
XVIII. Per il card. Angelo Maria Burini;
XIX. Per l’inclita Nice;
XX. A Silvia;
XXI. Alla Musa

(seguono i Frammenti delle Odi).
Nell’Errata-corrige, pag. 281, è avvertito che L’ode in morte di A. Sacchini deve precedere quella per Cecilia Tron e vi son correzioni di date.
E anche qui, senza indicare le tante edizioni che mossero da quella del Salveraglio, passo a indicare Il Giorno e Le Odi di G. P. commentati a cura di Egidio Bellorini, Napoli, Francesco Perrella, con Avvertenza » datata Padova, 1918, perché è edizione che dalle altre grandemente si distingue : «Il lavora del Salveraglio (dice il Bellorini a pag. 12), fatto con diligenza e buon criterio, fu generalmente accolta con molto favore, e serve di fondamento a tutte le edizioni posteriori (D’Ancona, Vinci, De Castro, Bertoldi, Cerquetti, Mazzoni, Natali, Scherillo, ecc.), nelle quali, per altro, le odi vennero sempre ridotte a 19 soltanto, perché si tornò ad escludere Il Brindisi e Le Nozze. Pure, dopo un attento esame e delle stampe originali e dei manoscritti, io credo opportuno ritornare nella presente edizione, al Reina, sia pel titolo come per la lezione delle odi, giacché non posso dubitare che e quelli e questa egli derivasse dal « volume » nel quale il Parini stesso aveva raccolto le odi che « disegnava di stampare », volume che « per buona ventura » venne nella mani del vecchio editore « allorchè credevasi fatalmente smarrito ». Solo mi distacco dal Reina per adattare l’ordinamento cronologico delle odi, stabilito dagli editori moderni, per escludere dal loro novero Le Nozze, e per correggere qualche svista evidente del vecchio editore.
Mi dispenso dal tornare sui criterii generali coi quali ho condotta l’edizione presente; e rimando per ciascuna delle Odi a quanto ho annotato come indicazione del testo da me seguito. Rammento che, in conformità a essi criterii generali, neppur degli autografi ho costantemente seguita la lezione, quanto alle minuzie discrepanti; e che ho tralascialo di porre in nota tutte quante le minuzie grafiche, contentandomi di riferirne alcune più significative. Ho messo a ciascuna ode così il titolo vecchio come il nuovo, per la storia della fortuna delle Odi, e affinchè sia più agevole la consultazione.





       E noi compagni amabili
Che far con esse allora?
Seco un bicchiere ancora
Bevere, e poi morir.

       Tu dell'altro a lato al trono
Con la Iperbole ti posi:
E fra i turbini e fra il tuono
De' gran titoli fastosi
Le vergogne a lui celate
De la nuda umanitate.
       Già con Numa in sul Tarpèo
Desti al Tebro i riti santi,
Onde l'augure potèo
Co' suoi voli e co' suoi canti
Soggiogar le altere menti
Domatrici de le genti.
       Del Macedone a te piacque
Fare un dio, dinanzi a cui
Paventando l'orbe tacque:
E nell'Asia i doni tui
Fur che l'Arabo profeta
Sollevàro a sì gran meta.
       Ave dea. Tu come il sole
Giri e scaldi l'universo.
Te suo nume onora e cole
Oggi il popolo diverso:
E fortuna a te devota
Diede a volger la sua rota.
       I suoi dritti il merto cede
A la tua divinitade,
E virtù la sua mercede.
Or, se tanta potestade
Hai qua giù, col tuo favore

Che non fai pur me impostore?
       Mente pronta e ognor ferace
D'opportune utili fole
Have il tuo degno seguace:
Ha pieghevoli parole;
Ma tenace, e quasi monte
Incrollabile la fronte.
       Sopra tutto ei non oblia
Che sì fermo il tuo colosso
Nel gran tempio non staria,
Se qual base ognor col dosso
Non reggessegli il costante
Verosimile le piante.
       Con quest'arte Cluvieno,
Che al bel sesso ora è il più caro
Fra i seguaci di Galeno,
Si fa ricco e si fa chiaro;
Ed amar fa, tanto ei vale,
A le belle egre il lor male.
       Ma Cluvien dal mio destino
D'imitar non m'è concesso.
Dell'ipocrita Crispino
Vo' seguir l'orme da presso.
Tu mi guida o Dea cortese
Per lo incognito paese.
       Di tua man tu il collo alquanto
Sul manc'omero mi premi:
Tu una stilla ognor di pianto
Da mie luci aride spremi:

Prima parte
Tratto dal sito :
www.classicitaliani.it
Tutte le opere edite e inedite di Giuseppe Parini, raccolte da Guido Mazzoni, Firenze, G. Barbera editore, 1925


LA SALUBRITA' DELL'ARIA

LA VITA RUSTICA
Sulla libertà campestre

IL BISOGNO
AL SIG. WIRTZ
PRETORE PER LA REPUBBLICA ELVETICA

Oh tiranno Signore
De' miseri mortali,
Oh male oh persuasore
Orribile di mali:
Bisogno, e che non spezza
Tua indomita fierezza!

Di valli adamantini
Cinge i cor la virtude;
Ma tu gli urti e rovini;
E tutto a te si schiude.
Entri, e i nobili affetti
O strozzi od assoggetti.


IL BRINDISI


       Venerabile Impostura,
Io nel tempio almo a te sacro
Vo tenton per l'aria oscura;
E al tuo santo simulacro,
Cui gran folla urta di gente,
Già mi prostro umilemente.
       Tu de gli uomini maestra
Sola sei. Qualor tu detti
Ne la comoda palestra
I dolcissimi precetti,
Tu il discorso volgi amico
Al monarca ed al mendico.
       L'un per via piagato reggi;
E fai sì che in gridi strani
Sua miseria giganteggi;
Onde poi non culti pani
A lui frutti la semenza
De la flebile eloquenza.
       
LA IMPOSTURA





E mi faccia casto ombrello
Sopra il viso ampio cappello.
       Qual fia allor sì intatto giglio
Ch'io non macchj, e ch'io non sfrondi,
Dalle forche e dall'esiglio
Sempre salvo? A me fecondi
Di quant'oro fien gli strilli
De' clienti e de' pupilli!
       Ma qual arde amabil lume?
Ah, ti veggio ancor lontano
Verità mio solo nume,
Che m'accenni con la mano;
E m'inviti al latte schietto,
Ch'ognor bevvi al tuo bel petto.
       Deh perdona. Errai seguendo
Troppo il fervido pensiere.
I tuoi rai del mostro orrendo
Scopron or le zanne fiere.
Tu per sempre a lui mi togli;
E me nudo nuda accogli.
















IL PIACERE E LA VIRTU'


       Vada in bando ogni tormento:
Ecco riede il secol d'oro.
A scherzar tornan fra loro
Innocenza e libertà.
            Sol fra noi regni il contento;
Coroniamo il crin di rose:
Su si colgan rugiadose
Da la man dell'onestà.
    
             La virtù non move guerra
A i diletti onesti e belli.
Colà in ciel nacquer gemelli
Il piacere e la virtù.
            E gli dei portàro in terra
Un tesor cosi giocondo;
E cosi beàr del mondo
La primiera gioventù.
    
          Folle stirpe de' mortali,
Che sè stessa ognor delude!
Il piacer da la virtude
Insolente diparti.
            L'atra allor di tutti i mali
Si destò nova procella:
E la coppia amica e bella
Solo in ciel si riunì.
    
           
Ma tornàro i dì beati.
Or veggiam congiunti ancora
Con un nodo, che innamora
La virtude ed il piacer.
            Sposi eccelsi a voi siam grati,
Che il bel dono a noi rendete:
Siete voi che l'uomo ergete
A lo stato suo primier.
    
          Ah perchè velar l'aspetto
Sotto strane e varie forme?
Al fulgor de le vostr'orme
Si conosce il divin piè.
            La Virtude et il Diletto,
Ferdinando e Beatrice!
Oh spettacolo felice,
Che rapisci ogn'alma a te!
    
          Sol fra noi regni il contento:
Coroniamo il crin di rose:
Su si colgan rugiadose
Da la man dell'onestà.
            Vada in bando ogni tormento.
Ecco riede il secol d'oro:
A scherzar tornan fra loro
Innocenza e libertà.

LA PRIMAVERA


La vaga Primavera
Ecco che a noi sen viene;
E sparge le serene
Aure di molli odori.

L'erbe novelle e i fiori
Ornano il colle e il prato.
Torna a veder l'amato
Nido la rondinella.

E torna la sorella
Di lei ai pianti gravi
E tornano ai soavi
Baci le tortorelle.

Escon le pecorelle
Del lor soggiorno odioso;
E cercan l'odoroso
Timo di balza in balza.

La pastorella scalza
Ne vien con esse a paro;
Ne vien cantando il caro
Nome del suo pastore.


Ed ei, seguendo Amore,
Volge ove il canto sente;
E coglie la innocente
Ninfa sul fresco rio.

Oggi del suo desio
Amore infiamma il mondo:
Amore il suo giocondo
Senso a le cose inspira.

Sola il dolor non mira
Clori del suo fedele:
E sol quella crudele
Anima non sospira.



L’EDUCAZIONE
Per la guarigione di C. Imbonati


       Torna a fiorir la rosa
Che pur dianzi languìa;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.
       
       La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso:
E quasi lampo ardente
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.
       I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi foro,
Su l'omero disciolti
Qual ruscelletto d'oro
Forma attendon novella
D'artificiose anella.
       Vigor novo conforta
L'irrequieto piede:
Natura ecco ecco il porta
Si che al vento non cede
Fra gli utili trastulli
De' vezzosi fanciulli.
       O mio tenero verso,
Di chi parlando vai,
Che studj esser più terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto?
       Pur or cessò l'affanno
Del morbo ond'ei fu grave:
Oggi l'undecim'anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda

I figliuoli di Leda.
       Simili or dunque a dolce
Mele di favi Iblèi,
Che lento i petti molce,
Scendete o versi miei
Sopra l'ali sonore
Del giovinetto al core.
       O pianta di bon seme
Al suolo al cielo amica,
Che a coronar la speme
Cresci di mia fatica,
Salve in sì fausto giorno
Di pura luce adorno.
       Vorrei di geniali
Doni gran pregio offrirti;
Ma chi diè liberali
Essere ai sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.
       Deh perchè non somiglio
Al Tèssalo maestro,
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro!
Ben io ti farei doni
Più che d'oro e canzoni.
       Già con medica mano
Quel Centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
Il suo alunno famoso.

Ma non men che a la salma
Porgea vigore all'alma.
       A lui, che gli sedea
Sopra la irsuta schiena,
Chiron si rivolgea
Con la fronte serena,
Tentando in su la lira
Suon che virtude inspira.
       Scorrea con giovanile
Man pel selvoso mento
Del precettor gentile;
E con l'orecchio intento,
D'Eacide la prole
Bevea queste parole:
       "Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra
Perchè a la lotta e al corso
Io t'educai le membra.
Che non può un'alma ardita
Se in forti membri ha vita?
       Ben sul robusto fianco
Stai; ben stendi dell'arco
Il nervo al lato manco,
Onde al segno ch'io marco
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale.
       Ma in van, se il resto oblio,
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a dio

Fe' di sue forze abuso
Con temeraria fronte
Chi monte impose a monte?
       Di Teti odi o figliuolo
Il ver che a te si scopre.
Dall'alma origin solo
Han le lodevol'opre.
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.
       D'Èaco e di Pelèo
Col seme in te non scese
Il valor che Tesèo
Chiarì e Tirintio rese:
Sol da noi si guadagna,
E con noi s'accompagna.
       Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide;
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s'innalzi poi
Al seggio de gli eroi?
       Altri le altere cune
Lascia o Garzon che pregi.
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtù sia pago.
       Onora o figlio il Nume
Che dall'alto ti guarda:

Ma solo a lui non fume
Incenso e vittim'arda.
È d'uopo Achille alzare
Nell'alma il primo altare.
       Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani sieno
Qual albero straniero,
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.
       Perchè sì pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti;
E tu vedrai gran cose:
Quindi l'alta rettrice
Somma virtude elice.
       Sì bei doni del cielo
No, non celar Garzone
Con ipocrito velo,
Che a la virtù si oppone.
Il marchio ond'è il cor scolto
Lascia apparir nel volto.
       Da la lor meta han lode
Figlio gli affetti umani.
Tu per la Grecia prode
Insanguina le mani:
Qua volgi qua l'ardire
De le magnanim'ire.
       Ma quel più dolce senso,

Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d'armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade
E a te grida pietade.
       Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico.
Così, con legge alterna
L'animo si governa".
       Tal cantava il Centauro.
Baci il giovan gli offriva
Con ghirlande di lauro.
E Tetide che udiva,
A la fera divina
Plaudia dalla marina.


LA LAUREA
Per la laurea di Maria P. Amoretti


       Quell'ospite è gentil, che tiene ascoso
Ai molti bevitori
Entro ai dogli paterni il vino annoso
Frutto de' suoi sudori;
E liberale allora

Sul desco il reca di bei fiori adorno,
Quando i Lari di lui ridenti intorno
Degno straniere onora:
E versata in cristalli empie la stanza
Insolita di Bacco alma fragranza.
       Tal io la copia che de i versi accolgo
Entro a la mente, sordo
Niego a le brame dispensar del volgo,
Che vien di fama ingordo.
In van l'uomo, che splende
Di beata ricchezza, in van mi tenta
Sì che il bel suono de le lodi ei senta,
Che dolce al cor discende:
E in van de' grandi la potenza e l'ombra
Di facili speranze il sen m'ingombra.
       Ma quando poi sopra il cammin dei buoni
Mi comparisce innanti
Alma, che ornata di suoi propri doni
Merta l'onor dei canti,
Allor da le segrete
Sedi del mio pensiero escono i versi,
Atti a volar di viva gloria aspersi
Del tempo oltra le mete:
E donator di lode accorto e saggio
Io ne rendo al valor debito omaggio.
       Ed or che la risorta insubre Atene,
Con strana meraviglia,
Le lunghe trecce a coronar ti viene
O di Pallade figlia,

Io rapito al tuo merto
Fra i portici solenni e l'alte menti
M'innoltro, e spargo di perenni unguenti
Il nobile tuo serto:
Né mi curo se ai plausi, onde vai nota,
Pinge ingenuo rossor tua casta gota.
       Ben so, che donne valorose e belle
A tutte l'altre esempio
Veggon splender lor nomi a par di stelle
D'eternità nel tempio:
E so ben che il tuo sesso
Tra gli ufizi a noi cari e l'umil'arte
Puote innalzarsi; e ne le dotte carte
Immortalar sè stesso.
Ma tu gisti colà, Vergin preclara,
Ove di molle piè l'orma è più rara.
       Sovra salde colonne antica mole
Sorge augusta e superba,
Sacra a colei, che dell'umana prole,
Frenando, i dritti serba.
Ivi la Dea si asside
Custodendo del vero il puro foco;
Ivi breve sul marmo in alto loco
Il suo volere incide:
E già da quello stile aureo, sincero
Apprendea la giustizia il mondo intero.
       Ma d'ignari cultor turbe nemiche
Con temerario piede
Osàro entrar ne le campagne apriche,

Ove il gran tempio siede:
E la serena piaggia
Occuparon così di spini e bronchi,
Che fra i rami intricati e i folti tronchi
A pena il sol vi raggia;
E l'aere inerte per le fronde crebre
V'alza dense all'intorno atre tenèbre.
       Ben tu di Saffo e di Corinna al pari,
O donne altre famose,
Per li colli di Pindo ameni e vari
Potevi coglier rose:
Ma tua virtù s'irrìta
Ove sforzo virile a pena basta;
E nell'aspro sentier, che al piè contrasta,
Ti cimentasti ardita
Qual già vide ai perigli espor la fronte
Fiere vergini armate il Termodonte.
       Or poi, tornando dall'eccelsa impresa,
Qui sul dotto Tesino
Scoti la face al sacro foco accesa
Del bel tempio divino:
E dall'arguta voce
Tal di raro saper versi torrente,
Che il corso a seguitar de la tua mente
Vien l'applauso veloce,
Abbagliando al fulgor de' raggi tui
La invidia, che suol sempre andar con lui.
       Chi può narrar qual dal soave aspetto
E da' verginei labri

Piove ignoto finora almo diletto
Su i temi ingrati e scabri?
Ecco la folta schiera
De' giovani vivaci a te rivolta
Vede sparger di fior, mentre t'ascolta,
Sua nobile carriera:
E al novo esempio de la tua tenzone
O Sente aggiugnersi al fianco acuto sprone.
       Ai detti al volto a la grand'alma espressa
Ne' fulgid'occhi tuoi
Ognun ti crederia Temide stessa,
Che rieda oggi fra noi:
Se non che Oneglia, altrice
Nel fertil suolo di palladj ulivi,
Alza ai trionfi tuoi gridi giulivi;
E fortunata dice:
"Dopo il gran Doria, a cui died'io la culla,
È il mio secondo sol questa fanciulla".
       E il buon parente, che su l'alte cime
Di gloria oggi ti mira,
A forza i moti del suo cor comprime,
E pur con sè s'adira,
Ma poi cotanto è grande
La piena del piacer, che in sen gli abbonda,
Che l'argin di modestia alfine innonda,
E fuor trabocca e spande:
E anch'ei col pianto, che celar desia,
Grida tacendo: "Questa figlia è mia".
       Ma dal cimento glorioso e bello

Tanto stupore è nato,
Che già reca per te premio novello
L'erudito Senato.
Già vien su le tue chiome
Di lauro a serpeggiar fronda immortale:
E fra lieto tumulto in alto sale
Strepitoso il tuo nome;
E il tuo sesso leggiadro a te dà lode
De' novi onori, onde superbo ei gode.
       Oh amabil sesso, che su l'alme regni
Con sì possente incanto,
Qual'alma generosa è che si sdegni
Del novello tuo vanto?
La tirannia virile
Frema, e ti miri a gli onorati seggi
Salir togato, e de le sacre leggi
Interprete gentile,
Or che d'Europa ai popoli soggetti
Fin dall'alto dei troni anco le detti.
       Tu sei, che di ragione il dolce freno
Sul forte Russo estendi;
Tu che del chiaro Lusitan nel seno
L'antico spirto accendi.
Per te Insubria beata,
Per te Germania è gloriosa e forte;
Tal che al favor de le tue leggi accorte
Spero veder tornata
L'età dell'oro, e il viver suo giocondo,
Se tu governi, ed ammaestri il mondo.

       E l'albero medesmo, onde fu colto
Il ramoscel, che ombreggia
A la dotta Donzella il nobil volto,
Convien che a te si deggia.
In esso alta Regina
Tien conversi dal trono i suoi bei rai;
Tal che lieto rinverde, e più che mai
Al cielo s'avvicina.
Quanto è bello a veder che il grato alloro
Doni al sesso di lei pompa, e decoro!
       Ma già la Fama all'impaziente Oneglia
Le rapid'ali affretta;
E gridando le dice: olà, ti sveglia;
E la tua luce aspetta.
Insubria, onde romore
Va per mense ospitali ed atti amici,
Sa gli stranieri ancor render felici
Nel calle dell'onore.
Or quai, Vergine illustre, allegri giorni
Ti prepara la patria allor che torni?
       Pari alla gloria tua per certo a pena
Fu quella, onde si cinse
Colà d'Olimpia nell'ardente arena,
Il lottator che vinse;
Quando tra i lieti gridi
Il guadagnato serto al crin ponea;
E col premio d'onor, che l'uomo bea,
Tornava ai patrj lidi;
E scotendo le corde amiche ai vati


Pindaro lo seguia con gl'Inni alati.
SECONDA PARTE
Monumento a Giuseppe Parini
a Milano









PER L’INCLITA NICE
IL MESSAGGIO


       Quando novelle a chiedere
Manda l'inclita Nice
Del piè che me costrignere
Suole al letto infelice,
Sento repente l'intimo
Petto agitarsi del bel nome al suon.
       Rapido il sangue fluttua
Ne le mie vene: invade
Acre calor le trepide
Fibre: m'arrosso: cade
La voce; ed al rispondere
Util pensiero in van cerco e sermon.
       Ride, cred'io, partendosi
Il messo. E allor soletto
Tutta vegg'io, con l'animo
Pien di novo diletto,
Tutta di lei la immagine
Dentro a la calda fantasia venir.
       Ed ecco ed ecco sorgere
Le delicate forme
Sovra il bel fianco; e mobili
Scender con lucid'orme,
Che mal può la dovizia
Dell'ondeggiante al piè veste coprir.

       Ecco spiegarsi e l'omero
E le braccia orgogliose,
Cui di rugiada nudrono
Freschi ligustri e rose,
E il bruno sottilissimo
Crine, che sovra lor volando va:
       E quasi molle cumulo
Crescer di neve alpina
La man, che ne le floride
Dita lieve declina,
Cara de' baci invidia,
Che riverenza contener poi sa.
       Ben puoi ben puoi tu, rigido
Di bel pudor costume,
Che vano ami dell'avide
Luci render l'acume,
Altre involar delizie,
Immenso intorno a lor volgendo vel:
       Ma non celar la grazia,
Nè il vezzo che circonda
Il volto, affatto simile
A quel de la gioconda
Ebe, che nobil premio
Al magnanimo Alcide è data in ciel;
       Nè il guardo, che dissimula
Quanto in altrui prevale,
E volto poi con subito
Impeto i cori assale,
Qual Parto sagittario

Che più certi fuggendo i colpi ottien;
       Nè i labbri, or dolce tumidi,
Or dolce in sé ristretti,
A cui gelosi temono
Gli Amori pargoletti
Non omai tutto a suggere
Doni Venere madre il suo bel sen:
       I labbri onde il sorridere
Gratissimo balena,
Onde l'eletto e nitido
Parlar, che l'alme affrena,
Cade, come di limpide
Acque lungo il pendio lene rumor;
       Seco portando e i fulgidi
Sensi ora lieti or gravi,
E i geniali studii,
E i costumi soavi,
Onde salir può nobile
Chi ben d'ampia fortuna usa il favor.
       Ahi, la vivace immagine
Tanto pareggia il vero,
Che, del piè leso immemore,
L'opra del mio pensiero
Seguir già tento; e l'aria
Con la delusa man cercando vo.
       Sciocco vulgo, a che mormori,
A che su per le infeste
Dita ridendo noveri
Quante volte il celeste

A visitare Arìete
Dopo il natal mio dì Febo tornò?
       A me disse il mio genio
Allor ch'io nacqui: « L'oro
Non fia che te solleciti,
Né l’inane decoro
De’ titoli, né il perfido
Desio di superare altri in poter:
       Ma di natura i liberi
Doni ed affetti, e il grato
De la beltà spettacolo
Te renderan beato,
Te di vagare indocile
Per lungo di speranze arduo sentier ».
       Inclita Nice. Il secolo,
Che di te s'orna e splende,
Arde già gli assi: l'ultimo
Lustro già tocca, e scende
Ad incontrar le tenebre,
Onde una volta pargoletto uscì;
       E già, vicino ai limiti
Del tempo, i piedi e l'ali
Provan tra lor le vergini
Ore, che a noi mortali
Già di guidar sospirano,
Del secol che matura, il primo dì.
       Ei te vedrà nel nascere
Fresca e leggiadra ancora
Pur di recenti grazie

Gareggiar con l'aurora;
E, di mirarti cupido,
De' tuoi begli anni farà lento il vol.
       Ma io, forse già polvere,
Che senso altro non serba
Fuor che di te, giacendomi
Fra le pie zolle e l'erba,
Attenderò chi dicami
« Vale », passando, e « ti sia lieve il suol ».
       Deh, alcun che te nell'aureo
Cocchio trascorrer veggia,
Su la via che fra gli alberi
Suburbana verdeggia,
Faccia a me intorno l’aere
Modulato del tuo nome volar.
       Colpito allor da brivido
Religioso il core,
Fermerà il passo, e attonito
Udrà del tuo cantore
Le commosse reliquie
Sotto la terra argute sibilar.

A SILVIA


       Perché al bel petto e all'omero
Con subita vicenda
Perché, mia Silvia ingenua,
Togli l'indica benda,
       Che intorno al petto e all'omero,
Anzi a la gola e al mento
Sorgea pur or, qual tumida
Vela nel mare al vento?
       Forse spirar di zefiro
Senti la tiepid'òra?
Ma nel giocondo Arìete
Non venne il sole ancora.
       Ecco di neve insolita
Bianco l'ispido verno
Par che, sebben decrepito,
Voglia serbarsi eterno.
       M'inganno? O il docil animo
Già de' feminei riti
Cede al potente imperio:
E l'altre belle imìti?
       Qual nome o il caso o il genio
Al novo culto impose,
Che sì dannosa copia
Svela di gigli e rose?
       Che fia? Tu arrossi? E dubia,

Col guardo al suol dimesso,
Non so qual detto mormori
Mal da le labbra espresso?
       Parla. Ma intesi. Oh barbaro!
Oh nato da le dure
Selci chiunque togliere
Da scellerata scure
       Osò quel nome, infamia
Del secolo spietato;
E diè funesti augurii
Al femminile ornato;
       E con le truci Eumenidi
Le care Grazie avvinse;
E di crudele immagine
La tua bellezza tinse!
       Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
All'altre belle, stupide
E di mente e di core.
       Ahi, da lontana origine,
Che occultamente nòce,
Anco la molle giovane
Può divenir feroce.
       Sai de le donne esimie
Onde sì chiara ottenne
Gloria l'antico Tevere,
Silvia, sai tu che avvenne;
       Poi che la spola e il frigio

Ago e gli studi cari
Mal si recaro a tedio
E i pudibondi lari;
       E con baldanza improvvida,
Contro agli èsempi primi,
Ad ammirar convennero
I saltatori e i mimi?
       Pria tolleraron facili
I nomi di Terèo
E de la maga colchica
E del nefario Atrèo.
       Ambìto poi spettacolo
Ai loro immoti cigli
Fur ne le orrende favole
I trucidati figli.
       Quindi, perversa l'indole,
E fatto il cor più fiero
Dal finto duol, già sazie,
Corser sfrenate al vero.
       E là dove di Libia
Le belve in guerra oscena
Empiean d'urla e di fremito
E di sangue 1'arena,
       Poté all'alte patrizie
Come a la plebe oscura
Giocoso dar solletico
La soffrente natura.
       Che più? Baccanti, e cupide

D'abbominando aspetto,
So1 dall'uman pericolo
Acuto ebber diletto:
       E dai gradi e dai circoli
Co' moti e con le voci,
Di già maschili, applausero
Ai duellanti atroci:
       Creando a sé delizia
E de le membra sparte,
E degli estremi aneliti,
E del morir con arte.
       Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci; et odi
Come tutti passarono
Licenziose i modi.
       Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercato amante.
       Così, poi che dagli animi
Ogni pudor disciolse,
Vigor da la libidine
La crudeltà raccolse.
       Indi ai veleni taciti
Si preparò la mano;
Indi le madri ardirono
Di concepire in vano.
       Tal da lene principio




In fatali rovine
Cadde il valor, la gloria
De le donne latine.
       Fuggi, mia Silvia ingenua,
Quel nome e quelle forme,
Che petulante indizio
Son di misfatto enorme.
       Non obliar le origini
De la licenza antica.
Pensaci: e serba il titolo
D'umana e di pudica.



ALLA MUSA


Te il mercadante, che con ciglio asciutto
Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
Dura avarizia nel remoto flutto,
Musa, non ama.

Né quei, cui l'alma ambiziosa rode
Fulgida cura; onde salir più agogna;
E la molto fra il dì temuta frode
Torbido sogna.

Né giovane, che pari a tauro irrompa
Ove a la cieca più Venere piace:
Nè donna, che d'amanti osi gran pompa
Spiegar procace.

Sai tu, vergine dea, chi la parola
Modulata da te gusta od imìta:
Onde ingenuo piacer sgorga, e consola
L'umana vita?

Colui cui diede il ciel placido senso
E puri affetti e semplice costume;
Che, di sé pago e dell'avito censo,
Più non presume;

Che spesso al faticoso ozio de' grandi
E all'urbano clamor s'invola, e vive
Ove spande natura influssi blandi
O in colli o in rive;

E in stuol d'amici numerato e casto,
Tra parco e delicato al desco asside;
E la splendida turba e il vano fasto
Lieto deride;

Che ai buoni, ovunque sia, dona fervore;
E cerca il vero; e il bello ama innocente;
E passa l'età sua tranquilla, il core
Sano e la mente.

Dunque perché quella sì grata un giorno,
Del giovin cui diè nome il dio di Delo,
Cetra si tace; e le fa lenta intorno
Polvere velo?

Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio,
Ei già, scendendo a me, giudice fea
Me de' suoi carmi: e a me chiedea consiglio:
E lode avea.

Ma or non più. Chi sa? Simìle a rosa
Tutta fresca e vermiglia al sol che nasce,
Tutto forse di lui l'eletta sposa
L'animo pasce.

E di bellezza, di virtù, di raro
Amor, di grazie, di pudor natio
L'occupa sì, ch'ei cede ogni già caro
Studio all'oblio.

Musa, mentr'ella il vago crine annoda
A lei t'appressa; e con vezzoso dito
A lei premi l'orecchio; e dille, e t'oda
Anco il marito:

"Giovinetta crudel, perché mi togli
Tutto il mio D'Adda, e di mie cure il pregio,
E la speme concetta, e i dolci orgogli
D'alunno egregio?

Costui di me, de' genii miei si accese
Pria che di te. Codeste forme infanti
Erano ancor, quando vaghezza il prese
De' nostri canti.

Ei t'era ignoto ancor quando a me piacque.
Io di mia man per l'ombra e per la lieve
Aura de' lauri l'avviai ver l'acque
Che, al par di neve


Bianche le spume, scaturir dall'alto
Fece Aganippe il bel destrier che ha l'ale:
Onde chi beve io tra i celesti esalto
E fo immortale.

Io con le nostre il volsi arti divine
Al decente, al gentile, al raro, al bello:
Fin che tu stessa gli apparisti al fine
Caro modello.

E se nobil per lui fiamma fu desta
Nel tuo petto non conscio, e s'ei nodrìa
Nobil fiamma per te, sol opra è questa
Del cielo e mia.

Ecco già l'ale il nono mese or scioglie
Da che sua fosti, e già, deh ti sia salvo,
Te chiaramente in fra le madri accoglie
Il giovin alvo.

Lascia che a me solo un momento ei torni;
E novo entro al tuo cor sorgere affetto,
E novo sentirai dai versi adorni
Piover diletto:

Però ch'io stessa, il gomito posando
Di tua seggiola al dorso, a lui col suono
De la soave andrò tibia spirando
Facile tono:

Onde rapito, ei canterà che sposo
Già felice il rendesti, e amante amato;
E tosto il renderai dal grembo ascoso
Padre beato.

Scenderà in tanto dall'eterea mole
Giuno, che i preghi de le incinte ascolta;
E vergin io de la Memoria prole,
Nel velo avvolta,

Uscirò co' bei carmi; e andrò gentile
Dono a farne al Parini, italo cigno,
Che, ai buoni amico, alto disdegna il vile
Volgo maligno".

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