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LA MUSICA
La evirazione
       Aborro in su la scena
Un canoro elefante,
Che si strascina a pena
Su le adipose piante,
E manda per gran foce
Di bocca un fil di voce.
       Ahj pera lo spietato
Genitor che primiero
Tentò di ferro armato
L'esecrabile e fiero
Misfatto onde si duole
La mutilata prole.
       Tanto dunque de' grandi
Può l'ozioso udito,
Che a' rei colpi nefandi
Sen corra il padre ardito,
Peggio che fera od angue
Crudel contro al suo sangue?
       Oh misero mortale,
Ove cerchi il diletto?
Ei tra le placid'ale
Di natura ha ricetto:
Là con avida brama
Susurrando ti chiama.
       
       Ella femminea gola
Ti diede, onde soave
L'aere se ne vola
Or acuto ora grave;
E donò forza ad esso
Di rapirti a te stesso.
       Tu, non però contento
De' suoi doni, prorompi
Contro a lei violento,
E le sue leggi rompi;
Cangi gli uomini in mostri,
E br dignità prostri.
       Barbara gelosia
Nel superbo oriente
So che pietade oblia
Ver la misera gente,
Che da lascivo inganno
Assecura il tiranno;
       E folle rito al nudo
Ultimo Caffro impone
Il taglio atroce e crudo,
Onde al molle garzone
Il decimo funesto
Anno sorge sì presto.
       Ma a te in mano lo stile,
Italo genitore,
Pose cura più vile
Del geloso furore:

Te non error ma vizio
Spinge all'orrido ufizio.
       Arresta empio! Che fai?
Se tesoro ti preme,
Nel tuo figlio non l'hai?
Con le sue membra insieme,
Empio! il viver tu furi
Ai nipoti venturi.
       Oh cielo E tu consenti
D'oro si cruda fame?
Nè più il foco rammenti
Di Pentapoli infame,
Le cui orribil'opre
Il nero asfalto copre?
       No. Del tesor, che aperto
Già ne la mente pingi,
Tu non andrai per certo
Lieto come ti fingi
Padre crudel! Suo dritto
De' avere il tuo delitto.
       L'oltraggio, ch'or gli è occulto
Il tuo tradito figlio
Ricorderassi adulto;
Con dispettoso ciglio
Da la vista fuggendo
Del carnefice orrendo.
       In vano in van pietade
Tu cercherai: chè l'alma

Giuseppe Parini  -  ODI



In lui depressa cade
Con la troncata salma;
Ed impeto non trova
Che a virtude la mova.
       Misero! A lato a i regi
Ei sederà cantando
Fastoso d'aurei fregi;
Mentre tu mendicando
Andrai canuto e solo
Per l'Italico suolo:
       Per quel suolo, che vanta
Gran riti e leggi e studj;
E nutre infamia tanta,
Che a gli Affricani ignudi,
Benchè tant'alto saglia,
E a i barbari lo agguaglia.


LA RECITA DE’ VERSI
SOPRA L’USO DI RECITARE I VERSI ALLE MENSE, ED AVANTI PERSONE INCAPACI DI GUSTARLI


       Qual fra le mense loco
Versi offerranno, che da nobil vena
Scendano; e all'acre foco
Dell'arte imponga la sottil Camena,
Meditante lavoro,

Che sia di nostra età pregio e decoro?
       Non odi alto di voci
I convitati sollevar tumulto,
Che i Centauri feroci
Fa rammentar, quando con empio insulto
All'ospite di liti
Sparsero e guerra i nuziali riti?
       V'ha chi al negato Scaldi
Con gli abeti di Cesare veleggia;
E la vast'onda e i saldi
Muri sprezzati, già nel cor saccheggia
De' Batavi mercanti
Le molto di tesoro arche pesanti.
       A Giove altri l'armata
Destra di fulmin spoglia; ed altri a volo
Sopra l'aria domata
Osa portar novelle genti al polo.
Tal sedendo confida
Ciascuno; e sua ragion fa delle grida.
       Vincere il suon discorde
Speri colui che di clamor le folli
Mènadi, allor che lorde
Di mosto il viso balzan per li colli,
Vince; e, con alta fronte,
Gonfia d'audace verso inezie conte.
       O gran silenzio intorno
A sè vanti compor Fauno procace,
Se del pudore a scorno
Annunzia carme onde ai profani piace;

Da la cui lubric'arte
Saggia matrona vergognando parte.
       Orecchio ama placato
La musa e mente arguta e cor gentile.
Ed io, se a me fia dato
Ordir mai su la cetra opra non vile,
Non toccherò già corda
Ove la turba di sue ciance assorda.
       Ben de' numeri miei
Giudice chiedo il buon cantor, che destro
Volse a pungere i rei
Di Tullio i casi; ed or, novo maestro
A far migliori i tempi,
Gli scherzi usa del Frigio e i propri esempj.
       O te Paola, che il retto
E il bello atta a sentir formaro i Numi;
Te, che il piacer concetto
Mostri dolce intendendo i duo bei lumi,
Onde spira calore
Soavemente periglioso al core.




LA TEMPESTA


      Odi Alcone il muggito
Nell'alto mar de la crudel tempesta
E la folgor funesta,
Che con tuono infinito
Scoppia da lungi, e rimbombar fa il lito.
     Ahimè miseri legni,
Che cupidigia e ambizion sospinse;
E facil'aura vinse
Per li mobili regni
Lor speme a sciorre oltre gli Erculei segni!

     Altro sperò giocondo
Tomar da ignote preziose cave;
E d'oro e gemme grave
Opprimer col suo pondo
De la spiaggia nativa il basso fondo.

     Credeva altro d'immani
Mostri oleosi preda far nell'alto;
Altro feroce assalto
Dare a gli abeti estrani,
E dell'altrui tesoro empier suoi vani.

     Ma il tuono e il vento e l'onda
Terribilmente agita tutti e batte;
Nè le vele contratte

Nè da la doppia sponda
Il forte remigar, l'urto che abbonda

     Vince nè frena. E in tanto
Serpendo incendioso il fulmin fischia:
E fra l'orribil mischia
De' venti e il buio manto
Del cielo, ognun paventa essere infranto.

     E già più l'un non puote
L'alto durar tormento: uno al destino
Fa contrario cammino;
Un contro all'aspra cote
Di cieco scoglio il fianco urta e percote:

     E quale il flutto avverso
Beve già rotto: e qual del multiforme
Monte dell'acque enorme
Sopra di lui riverso
Cede al gran peso; e alfin piomba sommerso.

     Alcon, non ti rammenti
Quel che superbo per ornata prora
Veleggiava finora,
Di purpurei lucenti
Segni ingombrando gli alberi potenti?

     A quello d'ambo i lati
Ignivome s'aprian di bronzo bocche;

Onde pari a le rocche
Forza sprezzava e agguati
D'abete o pin contro al suo corso armati.

     E l'onde allettatrici
Stendeansi piane a lui davanti: e ai grembi
Fregiati d'aurei lembi
De' canapi felici
Spiravan ostinati i venti amici:

     Mentre Glauco e i Tritoni
Pur con le braccia lo spingean più forte;
E da le conche torte
Lusingavano i buoni
Augurj intorno a lui con alti suoni.

     E lungo i pinti banchi
Le Dee del mar sparse le chiome bionde
Carolavan per l'onde,
Che lucide su i bianchi
Dorsi fuggian strisciando e sopra i fianchi.

     Fra tanto, senza alcuno
Il beato nocchier timor che il roda,
Dall'alto de la proda
Al mattin primo e al bruno
Vespro cosi cantava inni a Nettuno:

     A te sia lode o nume,




Di cui son l'opre ognor potenti e grandi,
O se nel suol ti spandi
Con le fuggenti spume
O di Cinzia t'innalzi al chiaro lume.

     Tu col tridente altero
Al tuo piacer la terra ampia dividi;
Tu fra gli opposti lidi
Del duplice emispero
Scorrevole a i mortali apri sentiero.

     Rota per te le nuove
Con subitaneo piè veci Fortuna:
E quello, che con una
Occhiata il tutto move,
Non è di te maggior superno Giove.

     Tale adulava. Or mira
Or mira, Alcon, come del porto in faccia,
Lungi dal porto il caccia
Nettuno stesso; e a dira
Sorte con gli altri lo trasporta e aggira!

     E la ricchezza imposta
Indi con la tornante onda ritoglie;
E le lacere spoglie
Ne gitta, e la scomposta
Mole a traverso dell'arida costa.


     Ahi qual furore il mena
Pur contra noi d'ogni avarizia schivi,
Che sotto a i sacri ulivi
Radendo quest'arena
Peschiam canuti con duo remi a pena!

     Alcon, che più s'aspetta?
Ecco il turbine rio, che omai n'è sopra.
Lascia che il flutto copra
La sdrucita barchetta;
E noi nudi salvianci al sasso in vetta.

     O giovanetti, piante
Ponete in terra; qui pomi inserite;
Qui gli armenti nodrite
Sotto a le leggi sante
De la natura in suo voler costante.

     Qui semplici a regnare;
Qui gli utili prendete a ordir consigli;
Nè fidate de' figli
La sorte, o de le care
Spose a l'arbitrio del volubil mare.

LE NOZZE


       È pur dolce in su i begli anni
De la calda età novella
Lo sposar vaga donzella,
Che d'amor già ne ferì.
       In quel giorno i primi affanni
Ci ritornano al pensiere:
E maggior nasce il piacere
Da la pena che fuggì.
       Quando il sole in mar declina
Palpitare il cor si sente:
Gran tumulto è ne la mente:
Gran desio ne gli occhi appar.
       Quando sorge la mattina
A destar l'aura amorosa,
Il bel volto de la sposa
Si comincia a contemplar.
       Bel vederla in su le piume
Riposarsi al nostro fianco,
L'un de' bracci nudo e bianco
Distendendo in sul guancial:
       E il bel crine oltra il costume
Scorrer libero e negletto;
E velarle il giovin petto,
Ch'or discende or alto sal.
       Bel veder de le due gote
Sul vivissimo colore




Splender limpido madore,
Onde il sonno le spruzzò:
       Come rose ancora ignote
Sovra cui minuta cada
La freschissima rugiada,
Che l'aurora distillò.
       Bel vederla all'improvviso
I bei lumi aprire al giorno;
E cercar lo sposo intorno,
Di trovarlo incerta ancor:
       E poi schiudere il sorriso
E le molli parolette
Fra le grazie ingenue e schiette
De la brama e del pudor.
       O garzone, amabil figlio
Di famosi e grandi eroi,
Sul fiorir de gli anni tuoi
Questa sorte a te verrà.
       Tu domane aprendo il ciglio
Mirerai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
E di grazia e di beltà.
       Ma, oimè, come fugace
Se ne va l'età più fresca,
E con lei quel che ne adesca
Fior si tenero e gentil!
       Come presto a quel che piace
L'uso toglie il pregio e il vanto;
E dileguasi l'incanto

De la voglia giovanil!
       Te beato in fra gli amanti,
Che vedrai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
Di bellezza e di virtù!
       La virtù guida costanti
A la tomba i casti amori,
Poi che il tempo invola i fiori
De la cara gioventù.



LA CADUTA
Nell’inverno del 1785


       Quando Orion dal cielo
Declinando imperversa;
E pioggia e nevi e gelo
Sopra la terra ottenebrata versa,
       Me, spinto ne la iniqua
Stagione, infermo il piede,
Tra il fango e tra l'obliqua
Furia de' carri la città gir vede;
       E per avverso sasso
Mal fra gli altri sorgente,
O per lubrico passo
Lungo il cammino stramazzar sovente.
       Ride il fanciullo; e gli occhi

Tosto gonfia commosso,
Che il cubito o i ginocchi
Me scorge o il mento dal cader percosso.
       Altri accorre; e: "Oh infelice
E di men crudo fato
Degno vate!" mi dice;
E seguendo il parlar, cinge il mio lato
       Con la pietosa mano;
E di terra mi toglie;
E il cappel lordo e il vano
Baston dispersi ne la via raccoglie:
       "Te ricca di comune
Censo la patria loda;
Te sublime, te immune
Cigno da tempo che il tuo nome roda
       Chiama gridando intorno;
E te molesta incìta
Di poner fine al Giorno,
Per cui cercato a lo stranier ti addita.
       Ed ecco il debil fianco
Per anni e per natura
Vai nel suolo pur anco
Fra il danno strascinando e la paura:
       Nè il sì lodato verso
Vile cocchio ti appresta,
Che te salvi a traverso
De' trivii dal furor de la tempesta.
       Sdegnosa anima! prendi
Prendi novo consiglio,




Te ostinato amator de la tua Musa?
       Lasciala: o, pari a vile
Mima, il pudore insulti,
Dilettando scurrile
I bassi genj dietro al fasto occulti".
       Mia bile, al fin costretta
Già troppo, dal profondo
Petto rompendo, getta
Impetuosa gli argini; e rispondo:
       "Chi sei tu, che sostenti
A me questo vetusto
Pondo, e l'animo tenti
Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto.
       Buon cittadino, al segno
Dove natura e i primi
Casi ordinàr, lo ingegno
Guida così, che lui la patria estimi.
       Quando poi d'età carco
Il bisogno lo stringe,
Chiede opportuno e parco
Con fronte liberal, che l'alma pinge.
       E se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro ai mali,
Della costanza sua scudo ed usbergo.
       Nè si abbassa per duolo,
Nè s'alza per orgoglio".
E ciò dicendo, solo

Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.
       Così, grato ai soccorsi,
Ho il consiglio a dispetto;
E privo di rimorsi,
Col dubitante piè torno al mio tetto.



IL PERICOLO
Per Cecilia Tron


In vano in van la chioma
Deforme di canizie,
E l'anima già doma
Dai casi, e fatto rigido
Il senno dall'età,

Si crederà che scudo
Sien contro ad occhi fulgidi
A mobil seno a nudo
Braccio e all'altre terribili
Arme della beltà.

Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier;





E per novo periglio
Di tempeste, all'arbitrio
Darlo del cieco figlio,
Esultando con perfido
Riso del suo poter.

Ecco me di repente,
Me stesso, per l'undecimo
Lustro di già scendente,
Sentii vicino a porgere
Il piè servo ad amor:

Benchè gran tempo al saldo
Animo in van tentassero
Novello eccitar caldo
Le lusinghiere giovani
Di mia patria splendor.

Tu dai lidi sonanti
Mandasti, o torbid'Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti
E al duro sospirar;

Donna d'incliti pregi
Là fra i togati principi,
Che di consigli egregi
Fanno l'alta Venezia
Star libera sul mar.


Parve a mirar nel volto
E ne le membra Pallade,
Quando, l'elmo a sè tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin:

Se non che a lei dintomo
Le volubili grazie
Dannosamente adorno
Rendeano ai guardi cupidi
L'almo aspetto divin.

Qual, se parlando, eguale
A gigli e rose il cubito
Molle posava? Quale,
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir?

E a le nevi del petto,
Chinandosi da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero dell'alme incendio!
Permetteva fuggir?

In tanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Gia modulando i lepidi
Detti nel patrio suon.


Che più? Da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,
Che tali mai non arsero
L'amica di Faon;

Nè quando al coro intento
De le fanciulle Lesbie
L'errante violento
Per le midolle fervide
Amoroso velen;

Nè quando lo interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa cetera
Palpitandole il sen.

Ahimè quale infelice
Giogo era pronto a scendere
Su la incauta cervice,
S'io nel dolce pericolo
Tornava il quarto dì!

Ma con veloci rote
Me, quantunque mal docile,
Ratto per le remote
Campagne il mio buon Genio
Opportuno rapì.




SUL TESTO


La presente edizione è fondata principalmente sugli autografi, come nell’Avvertenza ho detto. Ma qui occorre riepilogare la storia delle prime raccolte delle Odi del Parini.
Dopo che alcune odi del P., come altre sue poesie, erano uscite sparsamente in pubblico, oltre che manoscritte, per le stampe, Agostino Gambarelli, discepolo a lui devoto e raccoglitore e trascrittore di cose di lui, pubblicò il volume Odi dell’abbate Giuseppe Parini già divolgate, Milano, nella Stamperia di Giuseppe Marelli, MDCCXCI (con sul frontespizio il fregio di strumenti musicali e il motto di Orazio Postera crescet laude recens), in 8°, pagg. 182, delle quali l’ultima ha le Correzioni. Vi è premesso, anonimo, un Avviso dell’Editore, dove si afferma la gran diffusione di quei componimenti, non mai raccolti dal P.; la progressiva deformazione loro, « tanto infedeli e scorretti e mutili e svisati, da non potersi talvolta più riconoscere per fattura dello ingegno che li aveva prodotti »; le insistenze degli amici e ammiratori verso il P.: « Non mancarono essia lui, nè egli a sè stesso; accordando da ultimo (però sempre al suo modo) a quegli fra loro poco sopra accennati [cioè, al Gambarelli stesso], la facoltà di pubblicare queste Odi, e non più »; e dove, da ultimo, si avverte : «Si può frattanto asserire con certezza, che qualunque Ode, sì edita che inedita, che giri sotto il carme dell’Ab. Parini, e non sia compresa nella presente raccolta, è  farina di tutt’altro sacco che del suo ».
Tale raccolta del Gambarelli contiene :

[I] L’Innesto del vaiuolo ;
[II] La Salubrità dell’aria;
[III] La Vita rustica;
[IV] Il Bisogno ;
[V] Il Brindisi ;
[VI] La Impostura ;
[VII] Il Piacere e la Virtù;
[VIII] La Primavera. ; [
[IX] La Educazione ;
[X] La Laurea ;
[XI] ] La Musica ;
[XII] La recita de’ versi ;
[XIII] La Tempesta ;
[XIV] Le Nozze ;
[XV] La Caduta ;
[XVI] Il Pericolo;
[XVII] Piramo e Tisbe;
[XVIII] Alceste;
[XIX] La Magistratura;
[XX] In morte del maestro Sacchini;
[XXI] Il Dono;
[XXII] La Gratitudine;

e nell’ Indice delle Odi dà in più i quattro sonetti:
Ecco del mondo e meraviglia o gioco;
Qual cagion, qual virtù, qual foco innato;
Qual fra quest’erme inculte orride rupi ;
Tanta già di coturni, altero ingegno.
La indico con O.

Codesta edizione fu riprodotto immediatamente a Piacenza, presso Niccolò Orcesi, Regio Stampatore, in quel medesimo anno 1791, con lo scrupolo d’imitarne il frontespizio anche nel fregio, e d’introdurre nel testo le Correzioni (soltanto una d’esse, nella Vita rustica, sfuggì; ed è Che, invece di Chè voluto dalle suddette Correzioni nel verso Chè vide arse sue spiche); e anche fu riprodotta a Parma, Regal Palazzo, pur nel 1791, e poi a Pavia, Per gli eredi di Pietro Galeazzi, nel 1793.
Nel volume Odi di Parini, ultima edizione accresciuta (senza fregio sul frontespizio, ma col motto oraziano qui sopra riferito) che a Milano uscì, senz’anno, Presso il Bolzani alla Piazza de’ Mercanti e nella Contrada di S. Margherita all’Insegna dell’arma della Città (in 16°, pagg. 167 num.) si hanno le ventidue odi e i quattro sonetti dell’edizione del 1791 e delle derivate, coi titoli stessi e con le note relative: ma in più, da pag. 125 a pag. 143, si hanno le odi [XXIII] Per l’inclita Nice; [XXIV] A Silvia ; [XXV] Alla Musa; e a pagine 153-154, pel verso dell’ode La Caduta, «Noia le facezie e le novelle spandi » si ha la nota: «Nelle edizioni posteriori alla prima di Milano del 1791 si sono fatti de’ cangiamenti a questo verso per non essersi dagli editori avvertito alla pronunciazione toscana ed agli esempi de’ buoni scrittori nell’uso delle parole che hanno dittongo o trittongo, come accade della parola noia, gioia, ecc. ». Sì fatta nota è in una manifesta relazione con ciò che il P. scrisse a Giovanni (non Giuseppe) Bernardoni libraio, l’ 11 novembre 1795 (cfr. in questo volume la lettera n. XLVIII), e con ciò che il Bernardoni pose in nota a quel verso nella sua edizione delle Poesie scelte di G. P., Milano, Giovanni Bernardoni, 1814, come può vedersi nelle note dell’edizione presente. Ma non mi arrischio a risolvere il dubbio che il Salveraglio (pag. lviii) dedusse da G. Melzi, Dizionario di opere anonime, ecc., Milano, 1859, III, 289, intorno alla data in cui uscì l’edizione del Bolzani. L’esemplare da me posseduto di codesta rarissima, e però anche negata, edizione, ha il suddetto frontespizi; sebbene sia mutilo delle prime pagine, mancandovi forse la prosa che apre l’edizione del 1791, e mancandovi le prime due pagine, segnate con cifre arabe, contenenti le prime sei strofe dell’ode O Genovese. Al Salveraglio rimando per altre ristampe delle Odi su gli ultimi del secolo XVIII.
Le Poesie scelte, qui sopra indicate, che Giovanni Bernardoni pubblicò a Milano nel 1814 come « prima edizione milanese » (in 16°, pagg. 286), dicono Ai Leggitori che l’editore, dopo essere stata in dubbio per la scelta delle Odi, si risolvette a pubblicarle tutte: « trattone tre sole; cioè Il Piacere e la Virtù, Piramo e Tisbe e Alceste; le quali furono dallo stesso Autore rifiutate, sebbene avessero già veduto la luce con le stampe. Una non dubbia prova di tale rifiuto si vede in un esemplare delle Odi, impresse in Milano nel 1791, il quale è posseduto dall’Editore del presente volumetto, ed in cui di propria mano del Poeta sono esse cancellate; e le ultime due sono anzi, per un più manifesto indizio di disapprovazione, segnate nel principio con una croce. Tutt’e tre vennero poi anche rigettate dalla Raccolta delle Opere Pariniane, fatta dal sig. Avvocato Francesco Reina. Nè dee tacersi, che quella ancora col titolo La Primavera, da noi posta tra le Canzonette col Brindisi e con Le Nozze, vedesi cassata nell’anzidetto esemplare. Noi però abbiamo creduto bene di ritenerla. Se per avventura a Parini non andava del tutto a genio quel componimento, pressochè steso improvvisamente per compiacere ad una persona che lo desiderò da mettere in musica, esso non è tuttavia tale, che non insegni ai giovani, come anche un trito argomento trattare si possa con eleganza e con nobiltà di stile ». Questa edizione del Bernardoni (fu bene osservato dal Salveraglio) non ha valore pel testo, essendosi egli valso delle copie del Gambarelli invece che degli autografi già debitamente, se non sempre scrupolosamente, messi a profitto dal Reina. Occorrendo la cito con BERN. Quando pongo ms., intendo rimandare e ad alcun’altra e a tali copie, che (salvo in casi speciali) ho percid ritenuto superfluo distinguere più particolarmente. Con iscrupolo ho invece notato quanto il P. stesso mutò di sua propria mano in alcuna di esse copie.
Nelle Opere di G. P., curate dal Reina (Milano, presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1802, Anno I della Repubblica Italiana), le Odi occupano le pagg. 45-213,in quest’ordine e con questi titoli:

I. La Vita rustica;
II. La Salubrità dell’aria ;
III. L’ Innesto del vaiuoio ;
IV. La Impostura ;
V. Il Bisogno ;
VI. La Educazione ;
VII. La Laurea ;
VIII. La Musica ;
IX. La Recita de’ versi ;
X. La Tempesta ;
XI. Le Nozze ;
XII. La Caduta ;
XIII. Il Pericolo ;
XIV. La Magistratura ;
XV. In morte del maestro Sacchini :
XVI. Il Dono ;
XVII. La Gratitudine ;
XVIII. Il Messaggio ;
XIX. Sul vestire alla Ghigliotina [sic] ;
XX. Alla Musa.

Il Reina diede, come sopra ho rammentato, « Lezioni Varie » dagli autografi, avvertendo che « la massima parte delle Lezioni Varie, che si danno nelle Liriche, fu rifiutata dal Poeta, a differenza di molte fra quelle de’ Poemetti, le quali erano l’ultima volontà di lui». Nella parziale ristampa delle Opere di G. P. pubblicate per cura di F. Reina, Milano, Soc. Tipogr. de’ Classici Italiani, 1825, si han le Odi, coi titoli stessi, ma senza numerazione; escludendo Le Nozze, e preponendo La Impostura a L’ Innesto del vaiuolo e La Magistratura a In morte del maestro Sacchini.
Senza far la storia bibliografica delle edizioni seguenti, chè non è del mio proposito, passo a indicare Le Odi dell’abate G. P., riscontrate su manoscritti e stampe con prefazione e note di Filippo Salveraglio, Bologna, Zanichelli, 1882 (dopo un’edizione dell’anno precedente da cui «per emendazioni e aggiunte importantissime», come il Salveraglio stesso avvertì a pag. 285, questa del 1882 venne a variare). Le Odi vi sono ventuna:

I.  La libertà campestre ;
II. La salubrità dell’aria;
III. La impostura;
IV. Per la guarigione di Carlo Imbonati;
V. Al dottore G. Bicetti de’ Buttinoni;
VI. Pel pretore Wirtz
VII. La evirazione;
VIII. Per la laurea di M.P. Amoretti;
IX. Per nozze
X. Brindisi;
XI. Sopra l’uso di recitare i versi alle mense;
XII. Nell’inverno del 1785;
XIII. La tempesta;
XIV. In morte di Antonio Sacchini;
XV. Per Cecilia Tron;
XVI. Per Camillo Gritti podestà di Vicenza;
XVII. Alla marchesa, Paola Castiglioni;
XVIII. Per il card. Angelo Maria Burini;
XIX. Per l’inclita Nice;
XX. A Silvia;
XXI. Alla Musa

(seguono i Frammenti delle Odi).
Nell’Errata-corrige, pag. 281, è avvertito che L’ode in morte di A. Sacchini deve precedere quella per Cecilia Tron e vi son correzioni di date.
E anche qui, senza indicare le tante edizioni che mossero da quella del Salveraglio, passo a indicare Il Giorno e Le Odi di G. P. commentati a cura di Egidio Bellorini, Napoli, Francesco Perrella, con Avvertenza » datata Padova, 1918, perché è edizione che dalle altre grandemente si distingue : «Il lavora del Salveraglio (dice il Bellorini a pag. 12), fatto con diligenza e buon criterio, fu generalmente accolta con molto favore, e serve di fondamento a tutte le edizioni posteriori (D’Ancona, Vinci, De Castro, Bertoldi, Cerquetti, Mazzoni, Natali, Scherillo, ecc.), nelle quali, per altro, le odi vennero sempre ridotte a 19 soltanto, perché si tornò ad escludere Il Brindisi e Le Nozze. Pure, dopo un attento esame e delle stampe originali e dei manoscritti, io credo opportuno ritornare nella presente edizione, al Reina, sia pel titolo come per la lezione delle odi, giacché non posso dubitare che e quelli e questa egli derivasse dal « volume » nel quale il Parini stesso aveva raccolto le odi che « disegnava di stampare », volume che « per buona ventura » venne nella mani del vecchio editore « allorchè credevasi fatalmente smarrito ». Solo mi distacco dal Reina per adattare l’ordinamento cronologico delle odi, stabilito dagli editori moderni, per escludere dal loro novero Le Nozze, e per correggere qualche svista evidente del vecchio editore.
Mi dispenso dal tornare sui criterii generali coi quali ho condotta l’edizione presente; e rimando per ciascuna delle Odi a quanto ho annotato come indicazione del testo da me seguito. Rammento che, in conformità a essi criterii generali, neppur degli autografi ho costantemente seguita la lezione, quanto alle minuzie discrepanti; e che ho tralascialo di porre in nota tutte quante le minuzie grafiche, contentandomi di riferirne alcune più significative. Ho messo a ciascuna ode così il titolo vecchio come il nuovo, per la storia della fortuna delle Odi, e affinchè sia più agevole la consultazione.





Tal che in tristi catene
Ai garzoni ed al popolo
Di giovanili pene
Io canuto spettacolo
Mostrato non sarò.

Bensì, nudrendo il mio
Pensier di care immagini,
Con soave desio
Intorno all'onde Adriache
Frequente volerò.



PIRAMO E TISBE
AD UNO IMPROVVISATORE


Ahi qual fiero spettacolo
Vegg'io, che il cor mi fiede,
Sotto a la luna pallida,
Là di quel gelso al piede?

Una donzella e un giovane,
In loro età più acerba,
Ecco trafitti giacciono
Insanguinando l'erba.


Oh Dio, che orror! La misera
Sembra morir pur ora;
E il crudo acciar nel tiepido
Seno sta immerso ancora.

L'altro comincia a spargere
Già le membra di gelo;
E ne la mano languida
Tien lacerato un velo.

Ahi per gelosa furia
Un tanto error commise
Il dispietato giovane...
Ma chi lui stesso uccise?

Intendo. Aperse un invido
Rivale i bianchi petti,
O un parente implacabile
Ai furtivi diletti.

Indi fuggendo, il barbaro
Ferro lasciò confitto,
Che testimon del perfido
Esser potea delitto.

Ma tu sorridi? Ingannomi
Forse nel mio pensiero?
Tu dal crudel mi libera
Dubbio; e mi spiega il vero.


A te diè di conoscere
Le cose Apollo il vanto;
E dilettarne gli uomini
Col divino tuo canto



ALCESTE
AL MEDESIMO


Ne' più remoti secoli
Apparver strane cose,
Che poi son favolose
Credute a questa età.

Lascio conversi in alberi
In sassi in fonti in fiumi
E gli uomini ed i numi,
Cose che il vulgo sa.

Sol parlo d'un miracolo,
Ch'or niegan le persone
Non so se per ragione
O per malignità.

Questo è una donna egregia
Che per salvar da morte
Uno infermo consorte
Lieta a morir sen va.


Seconda parte
Tratto dal sito :
www.classicitaliani.it
Tutte le opere edite e inedite di Giuseppe Parini, raccolte da Guido Mazzoni, Firenze, G. Barbera editore, 1925


Se il già canuto intendi
Capo sottrarre a più fatal periglio.
       Congiunti tu non hai,
Non amiche, non ville,
Che te far possan mai
Nell'urna del favor preporre a mille.
       Dunque per l'erte scale
Arrampica qual puoi;
E fa gli atrj e le sale
Ogni giorno ulular de' pianti tuoi.
       O non cessar di porte
Fra lo stuol de' clienti,
Abbracciando le porte
De gl'imi, che comandano ai potenti;
       E lor mercè penètra
Ne' recessi de' grandi;
E sopra la lor tetra
Noja le facezie e le novelle spandi.
       O, se tu sai, più astuto
I cupi sentier trova
Colà dove nel muto
Aere il destin de' popoli si cova;
       E fingendo nova esca
Al pubblico guadagno,
L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.
       Ma chi giammai potria
Guarir tua mente illusa,
O trar per altra via




Ed ei, da morte libero
E da la moglie insieme,
Odia la vita e geme
E vuol la sua, metà.

Fin che un amico intrepido,
Per lui sceso a lo inferno,
La toglie al fato eterno,
E intatta a lui la dà.

Alceste, Admeto ed Ercole
A te, gentil cantore,
Poetico furore
Veggo che inspiran già.

Dunque il bel caso pingine;
E fa, de’ prischi tempi
Veri parer gli esempi
D'amore e d’amistà.

Sai che d'Admeto pascere
Febo degnò gli armenti:
Sai che de’ suoi lamenti
Ebbe di poi pietà.

Oh quanto a tai memorie
Avrà diletto! Oh quanto
Dal sublime tuo canto
Rapito penderà!

















LA MAGISTRATURA
Per Cammillo Gritti
Pretore di Vicenza nel 1787


       Se robustezza ed oro
Utili a far cammino il ciel mi desse,
Vedriansi l'orme impresse
De le rote che lievi al par di Coro
Me porterebbon, senza
Giammai posarsi, a la gentil Vicenza:
       Onde arguta mi viene
E penetrante al cor voce di donna,
Che, vaga e bella in gonna,
Dell'altro sesso anco le glorie ottiene;
Fra le Muse immortali
Con fortunato ardir spiegando l'ali.
       E, dagli occhi di lei
Oltre lo ingegno mio fatto possente,
Rapido da la mente
Accesa il desiato inno trarrei,
Colui ponendo segno
Che degli onori tuoi, Vicenza, è degno.
       Che dissi? Abbian vigore
Di membra quei che morir denno ignoti;
E sordidi nipoti
Spargan d'avi lodati aureo splendore.
Noi, delicati e nudi
Di tesor, che nascemmo ai sacri studi,

       Noi, quale in un momento
Da mosso speglio il suo chiaror traduce
Riverberata luce,
Senza fatica in cento parti e in cento,
Noi per monti e per piani
L’agile fantasia porta lontani.
       Salute a te, salute,
Città, cui da la berica pendice
Scende la copia, altrice
De’ popoli, coperta di lanute
Pelli e di sete bionde,
Cingendo al crin con spiche uve gioconde.
       A te d'aere vivace,
A te il ciel di salubri acque fe’ dono;
Caro tuo pregio sono
Leggiadre donne, e giovani a cui piace,
Ad ogni opra gentile
L’animo esercitar pronto e sottile.
       Il verde piano e il monte,
Onde sì ricca sei, caccian la infame
Necessità, che brame
Cova malvage sotto al tetro fronte;
Mentre tu l'arti opponi
All'ozio vil corrompitor de' buoni.
       E, lungi da feroce
Licenza e in un da servitude abbietta,
Ne vai per la diletta
Strada di libertà dietro a la voce,
Onde te stessa reggi,

De’ bei costumi tuoi, de le tue leggi:
       Leggi che fin dagli anni
Prischi non tolse il domator romano;
Né cancellàr con mano
Sanguinolenta i posteri tiranni;
Fin che il Lione altero
Te amica aggiunse al suo pacato impero.
       E quei mutar non gode
Il consueto a te ordin vetusto;
Ma generoso e giusto
Vuol che ne venga vindice e custode,
Al variar de’ lustri,
Fresco valor degli ottimati illustri.
       Ahi! quale a me di bocca
Fugge parlar che te nel cor percote,
A cui già su le gote
Con le lagrime sparso il duol trabocca,
E par che solo un danno
Cotanti beni tuoi volga in affanno!
       Lassa! davanti al tempio
Che sul tuo colle tanti gradi sale,
Supplicavi che uguale
A un secol fosse, con novello esempio,
Il quinquennio sperato
Quando l'inclito Gritti a te fu dato.
       Ed ecco, a pena lieto
Sopra l'aureo sentier battea le penne,
A fulminarlo venne,
Repentino cadendo, alto decreto,

Che, quasi al vento foglie,
Ogni speranza tua dissipa e toglie.
       E qual dall'anelante
Suo sen divelto innanzi tempo vede
Lungi volgere il piede
Nova tenera sposa il caro amante,
Che tromba e gloria avita
Per la patria salute altronde invita;
       Così l'eroe tu miri
Da te partirsi: e di te stessa in bando,
Vedova afflitta errando
E di querele empiendo e di sospiri
I fori ed i teatri
E le vie già sì belle e i ponti e gli atri,
       E i templi a le divine
Cure sagrati, che, di te sì degni,
De’ tuoi famosi ingegni
Ahimè! l'arte non pose a questo fine,
Altro più ben non godi
Che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.
       Non già perch’ei non porse
Le mani a l’oro o a le lusinghe il petto;
Nè sopra l'equo e il retto
Con l'arbitro voler giammai non sorse;
Nè le fidate a lui
Spada o lanci detorse in danno altrui.
       Vile dell'uomo è pregio
Non esser reo. Costui dai chiari apprese
Atavi donde scese,

D’alte glorie a infiammar l’animo egregio,
E a gir dovunque, in forme
Più insigni, de’ miglior splendano l’orme.
       Chi sì benigno e forte
Di Temide impugnò l'util flagello?
O chi pudor sì bello
Diede all'augusta autorità consorte?
O con sì lene ciglio
Fe’ l'imperio di lei parer consiglio?
       Davanti a più maturo
Giudizio le civili andar fortune,
O starsene il comune
Censo in maggior frugalità securo
Quando giammai si vide
Ovunque il giusto le sue norme incide?
       Ei, se il dover lo impose,
Al veder lince, al provveder fu pardo;
Ei del popolo al guardo
Gli arcani altrui, non sé medesmo ascose;
Nè occulto orecchio sciolse,
Ma solenne tra i fasci il vero accolse.
       Ei gli audaci repressi
Tenne con l'alma dignità del viso;
Ei con dolce sorriso,
Poi che del grado a sollevar gli oppressi
Tutto il poter consunse,
A la giustizia i benefici aggiunse.
       E tal suo zelo sparse,
Che grande ai grandi, al cittadino pari,

Uom comune ai volgari,
Rettor, giudice, padre a tutti apparse;
Destando in tutti, estreme
Cose, amicizia e riverenza insieme.
       Ben chiamarsi beata
Può, fra povere balze e ghiacci e brume,
Gente cui sia dal nume
Simil virtude a preseder mandata.
Or qual fu tua ventura,
Città, cui tanto il ciel ride e natura!
       Ma balsamo che tolto
Vien di sotterra, e s'apre al chiaro giorno,
Subitamente intorno
Con eterea fragranza erra disciolto;
Tal che il senso lo ammira,
E ognun di possederne arde e sospira.
       Quale stupor, se brama
Del nobil figlio al gran senato nacque;
E repente, fra l'acque
Onde lungi provvede, a sé il richiama?
Di tanto senno ai raggi
Voti non sorser mai, altro che saggi.
       Non vedi quanti aduna
Ferri e fochi su l'onda e su la terra
Vasto mostro di guerra,
Che tre imperi commette a la fortuna;
E con terribil faccia
Anco l'altrui securità minaccia?
       Or convien che s'affretti,

Cotanto a le superbe ire vicina,
Del mar l'alta regina
Il suo fianco a munir d'uomini eletti,
Ov'ardan le sublimi
Anime di color che opposer primi
       Al rio furore esterno
Il valor la modestia ed i consigli;
E dai miseri esigli
Fecer l'Adria innalzarsi a soglio eterno;
E sonar con preclare
Opre del nome br la terra e il mare.
       Godi, Vicenza mia,
Che il Gritti a fin sì glorioso or vola:
E il tuo dolor consola,
Mirando qual segnò splendida via
Co' brevi esempi suoi
Alla virtù di chi verrà da poi.


IN MORTE
DEL MAESTRO SACCHINI

       Te con le rose ancora
Della felice gioventù nel volto
Vidi e conobbi, ahi tolto
Sì presto a noi da la fatal tua ora
O di suoni divini
Pur dianzi egregio trovator Sacchini!
       
Maschia beltà fioria
Nell'alte membra; dai vivaci lumi
Splendido di costumi
E di soavi affetti indizio uscia;
Il labbro era potente
Dell'animo lusinga e de la mente.
       All'armonico ingegno
Quante volte fe' plauso; e vinta poi
Dagli altri pregi tuoi
Male al tenero cor pose ritegno
Damigella immatura,
O matrona di sé troppo secura!
       Ma perfido o fastoso
Te giammai non chiamò tardi pentita:
Nè d'improvviso uscita
Madre sgridò né furibondo sposo
Te ingenuo, e del procace
Rito de' tuoi non facile seguace.
       Amò de' bei concenti
Empier la tromba sua poscia la Fama;
Tal che d'emula brama
Arser per te le più lodate genti
Che Italia chiuda, o l'Alpe
Da noi rimova, o pur l'erculea Calpe.
       E spesso a breve oblio
La da lui declinante in novo impero
Il Britanno severo
America lasciò: tanto il rapìo,
Non avveduto ai tristi

Casi, l'arguzia onde i tuoi modi ordisti.
       O, se la tua dal mare
Arte poi venne a popol più faceto,
Nel teatro inquieto
Tacquer le ardenti musicali gare;
E in te sol uno immoti
Stetter dei cori e de l'orecchio i voti:
       Poi che da' tuoi pensieri
Mirabile di suoni ordin si schiuse,
Che per l'aria diffuse
Non peranco al mortal noti piaceri,
O se tu amasti vanto
Dare ai mobili plettri, o pure al canto.
       Fra la scenica luce
Ben più superbi strascinaron gli ostri
I preziosi mostri,
Che l'Italo crudele ancor produce;
E le avare sirene
Gravi a l'alme speraro impor catene;
       Quando su le sonore
Labbra di lor tuo nobil estro scese;
E novi accenti apprese
Delle regali vergini al dolore,
O ne' tragici affanni
Turbò di modulate ire i tiranni.
       Ma tu, del non virile
Gregge sprezzando i folli orgogli e l'oro,
Innalzasti il decoro
Della bell'arte tua, spirto gentile,

Di liberi diletti
Sol avido bear gli umani petti.
       Né, se talor converse
La non cieca Fortuna a te il suo viso,
E con lieto sorriso
Fulgido di tesoro il lembo aperse,
Indivisi agli amici
I doni a te di lei parver felici.
       Ahi sperava a le belle
Sue spiagge Italia rivederti alfine,
Coronandoti il crine
Le già cresciute a lei fresche donzelle,
Use di te le lodi
Ascoltar da le madri e i dolci modi!
       Ed ecco l'atra mano
Alzò colei cui nessun pregio move;
E te, cercante nuove
Grazie lungo il sonoro ebano in vano,
Percosse; e di famose
Lagrime oggetto in su la Senna pose.
       Né gioconde pupille
Di cara donna, né d'amici affetto,
Che tante a te nel petto
Valean di senso ad eccitar faville,
Più desteranno arguto
Suono dal cener tuo per sempre muto.

IL DONO
ALLA MARCHESA
PAOLA CASTIGLIONI



Queste che il fero Allobrogo
Note piene d'affanni
Incise col terribile
Odiator de' tiranni
Pugnale, onde Melpomene
Lui fra gli'Itali spirti unico amò;

Come oh come a quest'animo
Giungon soavi e belle,
Or che la stessa Grazia
A me di sua man dielle,
Dal labbro sorridendomi,
E dalle luci, onde cotanto può!

Ma per l'urto e per l'impeto
Degli affetti tremendi,
Me per lo cieco avvolgere
De' casi, e per gli orrendi
Dei gran re precipizii,
Ove il coturno camminando va,

Segue tua dolce immagine,
Amabil donatrice,
Grata spirando ambrosia

Su la strada infelice;
E in sen nova eccitandomi
Mista al terrore acuta voluttà:

O sia che a me la fervida
Mente ti mostri, quando
In divin modi, e in vario
Sermon, dissimulando,
Versi d'ingegno copia
E saper che lo ingegno almo nodrì;

O sia quando spontaneo
Lepor tu mesci ai detti,
E di gentile aculeo
Altrui pungi e diletti,
Mal cauto da le insidie
Che de' tuoi vezzi la natura ordì.

Caro dolore, e specie
Gradevol di spavento
E' mirar finto in tavola
E squallido e di lento
Sangue rigato il giovane
Che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere
La madre degli amori,
Cingendol con le rosee
Braccia si vede, i cori
Oh quanto allor si sentono

Da giocondo tumulto agitar più!

Certo maggior, ma simile
Fra le torbide scene
Senso in me desta il pingermi
Tue sembianze serene;
E all'atre idee contessere
I bei pregi, onde sol sei pari a te.

Ben porteranno invidia
A'miei novi piaceri
Quant'altri a scorrer prendano
I volumi severi.
Che far, se amico genio
Sì amabil donatrice a lor non diè?



LA GRATITUDINE
PER ANGELO MARIA
DURINI CARDINALE


Parco di versi tessitor ben fia
Che me l'Italia chiami;
Ma non sarà che infami
Taccia d'ingrato la memoria mia.
Vieni o Cetra al mio seno;
E canto illustre al buon durini sciogli,

Cui di fortuna dispettosi orgogli
Duro non stringon freno;
Sì che il corso non volga ovunque ei sente
Non ignobil favilla arder di mente.

Me pur dall'ombra de' volgari ingegni
Tolse nel suo pensiero;
E con benigno impero
Collocò repugnante in fra i più degni.
Me fatto idolo a lui
Guatò la invidia con turbate ciglia;
Mentre in tanto splendor gran meraviglia
A me medesmo io fui:
E sdegnoso pudore il cor mi punse,
Che all'alta cortesìa stimoli aggiunse.

Solenne offrir d'ambizïose cene,
Onde frequente schiera
Sazia si parta e altera,
Non è il favor di che a bearmi ei viene.
Mortale, a cui la sorte
Cieco diede versar d'enormi censi,
Sol di tai fasti celebrar sè pensi
E la turba consorte.
Chi sovra l'alta mente il cor sublima
Meglio sè stesso e i sacri ingegni estima.

Cetra il dirai; poi che a mostrarsi grato,
Fuor che fidar nell'ali
De la fama immortali,

Non altro mezzo all'impotente è dato.
Quei, che al fianco de' regi
Tanto sparse di luce e tanto accolse
Fin che le chiome de la benda involse
Premio di fatti egregi,
A me, che l'orma umìl tra il popol segno,
Scender dall'alto suo non ebbe a sdegno.

E spesso i Lari miei, novo stupore!
Vider l'ostro romano
Riverberar nel vano
Dell'angusta parete almo fulgore:
E di quell'ostro avvolti
Vider natìa bontà, clemente affetto,
Ingenui sensi nel vivace aspetto
Alteramente scolti,
E quanti alma gentil modi ha più rari,
Onde fortuna ad esser grande impari.

Qual nel mio petto ancor siede costante
Di quel dì rimembranza,
Quando in povera stanza
L'alta forma di lui m'apparve innante!
Sirio feroce ardea:
Ed io, fra l'acque in rustic' urna immerso,
E a le Naiadi belle umil converso,
Oro non già chiedea
Che a me portasser dall'alpestre vena,
Ma te cara salute al fin serena.


Ed ecco, i passi a quello dio conforme
Cui finse antico grido
Verso il materno lido
Dal Xanto ritornar con splendid'orme,
Ei venne; e al capo mio
Vicin si assise; e da gli ardenti lumi
E da i novi spargendo atti e costumi
Sovra i miei mali oblìo,
A me di me tali degnò dir cose;
Che tenerle fia meglio al vulgo ascose.

Io del rapido tempo in vece a scorno
Custodirò il momento,
Ch'ei con nobil portento
Ruppe lo stuol, che a lui venìa dintorno;
E solo accorse; e ratto,
Me, nel sublime impazïente cocchio
Per la negata ohimè forza al ginocchio
Male ad ascender atto,
Con la man sopportò lucidi dardi
Di sacre gemme sparpagliante a i guardi.

Come la Grecia un dì gl'incliti figli
Di Tindaro credette
Agili su le vette
De le navi apparir pronti a i perigli;
E di felice raggio
Sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
Curvare i rosei dorsi; e le celesti

Porger braccia, coraggio
Dando fra l'alte minaccianti spume
Al trepido nocchier caro al lor nume:

Tale in sembianti ei parve oltra il mortale
Uso benigni allora;
Onde quell'atto ancora
Di giocondo tumulto il cor m'assale:
Chè la man, ch'io mirai
Dianzi guidar l'amata genitrice,
Ahi prima del morir tolta infelice
Del sole a i vaghi rai,
E tolta dal veder per lei dal ciglio
Sparger lagrime illustri il caro figlio:

Quella man, che gran tempo a lato a i troni
Onde frenato è il mondo,
Di consiglio profondo
Carte seppe notar propizie a i buoni:
Quella che, mentre ei presse
De le chiare provincie i sommi seggi,
Grate al popol donò salubri leggi;
Quella il mio fianco resse
Insigne aprendo a la fastosa etade
Spettacol di modestia e di pietade.

Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse
Voglie nel cor benigne,
Qualor desìo lo spigne

PRIMA PARTE



L'arti a seguir de le innocenti Muse,
Il germe in lui nativo
Con lo aggiunto vigor molce ed affina,
Pari a nobile fior, cui cittadina
Mano in tiepido clivo
Educa e nutre, e da più ricche foglie
Cara copia d'odori all'aria scioglie.

Costui, se poi dintorno a sè conteste
D'onori e di fortuna
Fulgide pompe aduna,
Pregiate allor che a la virtù son veste,
Costui de' proprj tetti
Suo ritroso favor già non circonda;
Ma con pubblica luce esce e ridonda
Sopra gl'ingegni eletti,
Destando ardor per le lodevol' opre,
Che le genti e l'età di gloria copre.

Non va la mente mia lungi smarrita
Co' versi lusinghieri;
Ma per varj sentieri
Dell'inclito durin l'indole addita:
E, come falco ordisce
Larghi giri nel ciel volto a la preda;
Tal, benchè vagabondo altri lo creda,
Me il mio canto rapisce
A dir com'egli a me davanti egregio
Uditor tacque; ed al Licèo diè pregio.


Quando dall'alto disprezzando i rudi
Tempi a cui tutto è vile
Fuor che lucro servile;
Solo de' grandi entrar fu visto; e i nudi
Scanni repente cinse
De' lucidi spiegati ostri sedendo;
E al giovane drappel, che a lui sorgendo
Di bel pudor si tinse,
Lene compagno ad ammirar sè diede;
E grande a i detti miei acquistò fede.

Onde osai seguitar del miserando
Di Làbdaco nipote
Le terribili note
E il duro fato e i casi atroci e il bando;
Quale all'Attiche genti
Già il finse di colui l'altero carme,
Che la patria onorò trattando l'arme
E le tibie piagnenti;
E de le regie dal destin converse
Sorti, e dell'arte inclito esempio offerse.

Simuli quei, che più sè stesso ammira,
fuggir l'aura odorosa
Che da i labbri di rosa
La bellissima lode a i petti inspira;
Lode figlia del cielo,
Che mentre a la virtù terge i sudori,
E soave origlier spande d'allori

A la fatica e al zelo,
Nuove in alma gentil forze compone;
E gran premio dell'opre al meglio è sprone.

Io non per certo i sensi miei scortese
Di stoïco superbo
Manto celati serbo,
Se propizia giammai voce a me scese.
Nè asconderò che grata
Ei da le labbra melodìa mi porse,
Quando facil per me grazia gli scorse
Da me non lusingata;
Poi che tropp'alto al cor voto s'imprime
D'uom che ingegno e virtudi alzan sublime.

Pur, se lice che intero il ver si scopra,
Dirò che più mi piacque
Allor che di me tacque,
E del prisco cantor fe' plauso all'opra.
Sorser le giovanili
Menti da tanta autorità commosse:
Subita fiamma inusitata scosse
Gli spiriti gentili,
Che con novo stupor dietro a gl'inviti
De la greca beltà corser rapiti.

Onde come il cultor, che sopra il grembo
De' lavorati campi
Mira con fausti lampi




Stendersi repentino estivo nembo;
E tremolar per molta
Pioggia con fresco mormorìo le frondi;
E di novi al suo piè verdi giocondi
Rider la biada folta,
Tal io fui lieto, e nel pensier descrissi
Belle speranze a la mia Insubria, e dissi:

Vedrò vedrò da le mal nate fonti,
Che di zolfo e d'impura
Fiamma e di nebbia oscura
Scendon l'Italia ad infettar da i monti;
Vedrò la gioventude
I labbri torcer disdegnosi e schivi;
E a i limpidi tornar di Grecia rivi,
Onde natura schiude
Almo sapor, che a sè contrario il folle
Secol non gusta, e pur con laudi estolle.

Questi è il Genio dell'arti. Il chiaro foco
Onde tutt'arde e splende
Irrequieto ei stende
Simile all'alto sol di loco in loco.
Il Campidoglio e Roma
Lui ancor biondo il crine ammirar vide
I supremi del bello esempi e guide,
Che lunga età non doma;
E il concetto fervore e i novi auspicj
Largo versar di Pallade a gli amici.


Nè già, benchè per rapida le penne
Strada d'onor levasse,
Da sè rimote o basse
Le prime cure onde fu vago ei tenne:
O se con detti armati
D'integra fede e cor di zelo accenso
Osò l'ardua tentar fra nuvol denso
Mente de i re scettrati;
O se nel popol poi con miti e pure
Man le date spiegò verghe e la scure.

Però che dove o fra le reggie eccelse
Loco all'arti divine
O in umili officine
O in case ignote la fortuna scelse,
Ivi amabil decoro
E saggia meraviglia al merto desta
Venne guidando, e largità modesta,
E de le grazie il coro
Co' festevoli applausi ora discinti
Or de' bei nodi de le Muse avvinti.

Anzi, come d'Alcide e di Tesèo
Suona che da le vive
Genti a le inferne rive
L'ardente cortesìa scender potèo;
Ed ei così la notte
Ruppe dove l'oblìo profondo giace;
E al lieto de la fama aere vivace

Tornò le menti dotte;
E l'opre lor, dopo molt'anni e lustri,
Di sue vigilie allo splendor fe' illustri.

Tal che onorato ancor sul mobil etra
Va del suo nome il suono
Dove il chiaro Polono
Dell'arbitro vicino al fren s'arretra;
Dove il regal Parigi
Novi a sè fati oggi prepara, e dove
L'ombra pur anco del gran Tosco move
Che gli antiqui vestigi
Del saper discoperse, e fèo la chiusa
Valle sonar di così nobil Musa.

È ver che, quali entro al lor fondo avito
I Fabrizi e i Cammilli
Tornar godean tranquilli
Pronti sempre del Tebro al sacro invito:
Tal di sè solo ei pago
Lungi dall'aura popolar s'invola;
E mentre il ciel più glorïosa stola
Forse d'ordirgli è vago,
Tra le ville natali e l'aere puro
Da i flutti or sta d'ambizïon securo.

Ma i cari studj a lui compagni annosi,
E a i popoli ed all'arti
I beneficj sparti




Son del suo corso splendidi riposi.
Vedi amplïarsi alterno
Di moli aspetto ed orti ed agri ameni,
Onde quei che al suo merto accesser beni
E il tesoro paterno
Versa; e dovunque divertir gli piaccia,
L'ozio da i campi e l'atra inopia caccia.

Vedi i portici e gli atrj ov'ei conduce
Il fervido pensiere,
E le di libri altere
Pareti, che del vero apron la luce:
O ch'ei di sè maestro
Nell'alto de le cose ami recesso
Gir meditando, o il plettro a lui concesso
Tentar con facil estro;
E in carmi, onde la bella alma si spande,
Soavi all'amistà tesser ghirlande.

Ed ecco il tempio ove, negati altronde,
Qual da novo Elicona
Premj all'ingegno ei dona;
E fiamme acri d'onore altrui diffonde.
Ecco ne' segni sculti
Quei che del nome lor la patria ornaro,
Onde sol generoso erge all'avaro
Oblìo nobili insulti;
E quelle glorie a la città rivela,
Ch'ella a sè stessa ingiuriosa cela.


Dove o Cetra? Non più. Rari i discreti
Sono: e la turba è densa
Che già derider pensa
I facili del labbro a uscir segreti.
Di lui questa all'orecchio
Parte de' sensi miei salgane occulta,
Sì che del cor, che al beneficio esulta,
Troppo limpido specchio
Non sia che fiato invidïoso appanni,
Che me di vanti e lui d'error condanni.

Lungi o profani! Io d'importuna lode
Vile mai non apersi
Cambio; nè in blandi versi
Al giudizio volgar so tesser frode.
Oro nè gemme vani
Sono al mio canto: e dove splenda il merto
Là di fiore immortal ponendo serto
Vo con libere mani:
Nè me stesso nè altrui allor lusingo
Che poetica luce al vero io cingo.

Monumento a Giuseppe Parini
a Milano
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