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SALVATORE QUASIMODO


OBOE SOMMERSO









ALLA MIA TERRA

Un sole rompe gonfio nel sonno
e urlano alberi;
avventurosa aurora
in cui disancorata navighi,
e le stagioni marine
dolci fermentano rive nasciture.
Io qui infermo mi desto,
d’altra terra amaro
e della pietà mutevole del canto
che amore mi germina
d’uomini e di morte.

Il mio male ha nuovo verde
ma le mani sono d’aria
ai tuoi rami,
a donne che la tristezza
chiuse in abbandono
e mai le tocca il tempo,
che me discorza e imbigia.

In te mi getto: un fresco
di navate posa nel cuore;
passi nudi d’angeli
vi s’ascoltano, al buio.









NASCITA DEL CANTO

Sorgiva: luce riemersa:
foglie bruciano rosee.

Giaccio su fiumi colmi
dove son isole
specchi d’ombre e d’astri.

E mi travolge il tuo grembo celeste
che mai di gioia nutre
la mia vita diversa.

Io muoio per riaverti,
anche delusa,
adolescenza delle membra
inferme.
Letteratura

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
LA VOCE DI SALVATORE QUASIMODO
_________

di
DAVIDE DE MAGLIE
__________________
Fin dal titolo della prima raccolta, Acque e terre del 1930, la poesia di Salvatore Quasimodo esprime una tendenza all'universalità, un'aspirazione a contenere in sé elementi contrapposti. La conferma verrà dagli ossimori di molti titoli successivi, da Il falso e vero verde (1956) a Dare e avere (1966). L'intera esperienza letteraria passa quindi attraverso la contraddizione, che nel suo rimanere irrisolta testimonia una tenace vitalità. Sarà Quasimodo stesso ad affermare: «Dalla mia prima poesia a quella più recente non c'è che una maturazione verso la concretezza del linguaggio». Il poeta coglie i cambiamenti della storia e della tradizione culturale, senza per questo rinnegare la propria irriducibile essenzialità. L'originalità di Quasimodo va cercata appunto in una fedeltà a sé stesso rinnovata dal contatto con le più varie sollecitazioni, rendendo così improbabile una definizione univoca della sua poesia. In ambito critico la sua opera è stata spesso catalogata come un percorso esemplare che, partendo dall'esperienza ermetica, giunge ad una piena maturazione nelle opere del dopoguerra, con un impegno civile e sociale non esente da suggestioni neorealistiche. In realtà la sua poesia presenta continui ripensamenti e sempre nuove formulazioni, dovute certo all'incalzare degli eventi storici ma anche al lavoro dell'intellettuale: si pensi all'importanza delle traduzioni, dai classici greci e latini ma anche dai moderni, come Neruda. Costante, nel percorso che si cercherà di delineare, è l'amore per l'espressione poetica, l'irrinunciabilità di una voce che interpreta la storia e le vicissitudini degli uomini attraverso la propria personalissima modulazione.

- Il canto e la memoria

La Sicilia è per Quasimodo il punto di partenza della composizione poetica, nel senso di un esilio che si fa motivo autobiografico di molti componimenti e, al tempo stesso, come origine culturale e matrice letteraria. In Vento a Tìndari l'antica città, simbolo di un'armonia perduta e di un presente privo di gioia, rimanda alla lontananza dalla terra natale ed alla civiltà greca.
Il rapporto con l'isola viene presentato nella duplice dimensione di ricordo autobiografico ed eredità storica, favola della propria infanzia e miraggio di una civiltà lontana. Salta agli occhi una forte musicalità, ad esempio nell'aggettivo sdrucciolo del secondo verso, che conferisce una distesa solennità all'endecasillabo. Non mancano versi più realistici, dove il ritmo si fa più franto e gli aggettivi si caricano di pregnanza semantica. L'esilio è «aspro» quasi ad indicare una mancata maturazione, come lo stesso poeta ribadirà nella poesia L'Eucalyptus compresa in Òboe sommerso, raccolta pubblicata nel 1932 («non una dolcezza mi matura», p. 40). Il percorso poetico è giocato su due piani: la suggestione dell'incanto e una conoscenza della realtà che proprio qui, in Acque e terre, ha i suoi più autentici presupposti. Il poeta non si limita a rimpiangere il tempo dell'infanzia ma ne canta, riconoscendole a distanza di anni, le contraddizioni: si identifica con la sua terra e, insieme, se ne distacca. Ne abbiamo un esempio in Vicolo, un'altra lirica di Acque e terre:

Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch'erano a sera
un dondolìo di lampade
dalle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza.
Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s'udiva la notte un pianto
di cuccioli e bambini.
Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch'è paura
di restare sole nel buio.

La lirica rievoca evidentemente un passato familiare al poeta, ma alla dimensione quasi mitica dell'immagine iniziale, una «voce» che sa far rinascere «cieli ed acque», segue immediatamente la scena, niente affatto consolatrice, dei negozi aperti fino a tardi e tristemente vuoti. Nella seconda strofa, introdotta da un doppio settenario, viene poi evocato un mondo di credenze, di richiami misteriosi, un mondo non ben definito in quanto tipico dell'infanzia, età che ancora non riesce a decifrare in modo esatto le voci che giungono dal cortile e dalle strade vicine. La dimensione quasi onirica che sottende al testo non annulla comunque gli elementi concreti di un paesaggio e di una società. La compresenza di incanto memoriale e senso della realtà è confermata dalle numerose liriche dedicate a figure femminili, come Antico inverno, esemplare per concisione ed efficacia di linguaggio:

Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po'di sole, una raggera d'angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d'aria al mattino.

Anche in questo caso una realtà lontana (prima era un «altro tempo», ora si parla di un «antico inverno») viene rievocata con pochi cenni essenziali, anche attraverso l'uso, tipico di Quasimodo, dei due punti e degli spazi bianchi, alternando versi brevi ed endecasillabi. Nella lirica si riconosce una figurazione affidata ad elementi precisi - la neve, gli uccelli in cerca di cibo - che assumono però un valore simbolico, alludendo ad una provvisorietà (le parole subito raggelate) che non cancella l'intensità del ricordo. La raccolta del 1930 vive quindi di una continua oscillazione tra il racconto della propria storia e la sua trasfigurazione letteraria. La lirica I ritorni passa in rassegna i viaggi all'isola d'origine, ricordati dal poeta mentre trascorre la notte dormendo in macchina a Piazza Navona. Affiorano ricordi delle preghiere dette da bambino, ma soprattutto impressioni sensoriali che si uniscono ad un'inquietudine dalla quale non è dato liberarsi, quel sentimento misto di ribellione e rimpianto che la «terra impareggiabile» saprà sempre suscitare.
È come se, in questa lirica, Quasimodo scegliesse di mettersi a nudo di fronte al lettore, svelasse la realtà ineliminabile della sua condizione esistenziale, vero preludio di ogni rielaborazione letteraria. Tipico l'uso della preposizione "di" per elencare una serie di immagini («che sanno di grano che gonfia nelle spighe […] cantilene d'uomini e cigolìo di traini»), presente tra l'altro anche in Albero («[…] che mi spinse marzo lunare/ già d'erbe ricco e d'ali») e in Dolore di cose che ignoro («Fitta di bianche e di nere radici/ di lievito odora e lombrichi, / tagliata dall'acque la terra»). L'atteggiamento fondamentale del poeta è un esame, attento ed inquieto, dei propri moti dell'anima, di una sofferenza sentita come acuta ed indecifrabile, quasi fine a se stessa: «E fosse mia carne/ che il dono di male trasforma», auspica in Tu chiami una vita .

- Un tempo di
  maturazione

Nelle poesie di Òboe sommerso (1932) si coglie una forte presenza del mondo naturale, che talvolta si traduce in un processo di identificazione vicino al panismo dannunziano. Esemplare in questo senso è la poesia che dà il titolo alla raccolta, che attesta una condizione di solitudine e di smarrimento esistenziale:

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera:
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

La terza strofa descrive in effetti una vera e propria metamorfosi, un'estrema spersonalizzazione dell'io. A differenza di quanto accade in D'Annunzio non c'è però, in Quasimodo, la gioia sensuale di riconoscersi una parte dell'universo, ma una mancanza di armonia, la dura concretezza della realtà quotidiana («e i giorni una maceria»). Il linguaggio passa dalla solennità dei «sospirati abbandoni» all'immediatezza delle «mani erbose» e dei giorni simili a macerie. Il poeta esprime, come nella già ricordata Dolore di cose che ignoro, una sofferenza quasi assoluta, che non implica solo il rimpianto di aver abbandonato la terra d'origine ma anche una condizione di più ampia infelicità. Ecco allora che in Isola, la Sicilia è all'origine, come dice il poeta, di un «dolore che m'attrista», ma egli stesso afferma poi che «se torno a tue rive […] ansia d'altri cieli mi volge». Non resta dunque che la dimensione metafisica, cantata in Dove morti stanno ad occhi aperti («seguiremo case silenziose/ dove morti stanno ad occhi aperti […] o il cuore delle selve e la montagna, […] non ci volle altro che sogni») e, in modo ancora più esplicito, nella lirica Di fresca donna riversa sopra i fiori.
Il canto nasce dalla descrizione, precisa ed insieme assorta, di dati concreti (le stagioni dei versi iniziali, i fiori scelti dalla madre) e suggestioni emotive (le stelle con percorsi «precisi», ma «ignoti», inconoscibili per l'occhio di chi le osserva; l'«ultimo sorriso» della donna). Tutto resta come sospeso in una narrazione che, appena accenna alla notte (inizio della terza strofa), rivela l'aspetto più misterioso dell'esperienza (probabilmente un sogno), anche «le cose fatte fuggitive». Negli anni del dopoguerra ad essere "fuggitivo" non sarà il senso ultimo dei sogni o delle suggestioni della mente, ma quello della società contemporanea, dell'uomo solo con il proprio dolore. Nella Terra impareggiabile emergerà un «segreto» che ha «stratagemmi, attrazioni difficili», o la consapevolezza, alla fine della poesia dedicata al padre, che «oscuramente forte è la vita» (Al padre). In Òboe sommerso e nella raccolta successiva Erato e Apòllion (1936) sembra insomma delinearsi, dietro il filtro suggestivo del linguaggio, un tempo di necessario confronto con il proprio io bisognoso di crescere, di accettare le inevitabili difficoltà dell'esistenza. Per farlo il poeta passa attraverso un ricordo che, progressivamente, si distacca dall'assolutezza dei sentimenti infantili. Non è quindi un caso che siano frequenti, anche nel volume del 1936, le allusioni alla crescita, simbolo del passaggio ad una nuova consapevolezza, dal «corpo adolescente» (L'Ànapo) al «tempo delle mutazioni, segreto» cui allude il miele portato in dono dalle api (Isola di Ulisse). Ancora più indicativa di un rapporto tutt'altro che secondario tra le raccolte degli anni Trenta e la produzione del dopoguerra è la lirica Città straniera, dove il linguaggio, soprattutto nella prima strofa, richiama la concretezza che avranno i testi degli anni successivi.
Se le immagini dei morti e del vento esprimono una tendenza onirica già riscontrata altrove, la stella della prima strofa ricorda le «stelle sporche a galla nei canali» di Dalla natura deforme, poesia compresa nella Terra impareggiabile. Il realismo delle immagini sembra inoltre preludere alle poesie di viaggio che, circa trent'anni dopo, saranno parte essenziale di Dare e avere (1966), ultima raccolta quasimodiana. In questo senso i volumi degli anni Trenta documentano una voce poetica di indubbia originalità, ma anche una fase di maturazione letteraria ed umana, dalla quale deriveranno gli sviluppi successivi.

- Un canto disteso: dalle Nuove poesie a La terra impareggiabile

Nel volume complessivo Ed è subito sera (1942), Quasimodo pubblica, insieme alle raccolte fin qui esaminate, anche le Nuove poesie, con un'esplicita indicazione cronologica (1936-1942). Nello stesso periodo inizia il lavoro di traduzione da alcune opere classiche, come i Lirici greci (1940) ed il Fiore delle Georgiche di Virgilio (1942); nel 1945 usciranno le traduzioni da Catullo e dal Vangelo di Giovanni. Il contatto con la parola antica dà al poeta una maggiore misura espressiva, mentre sul piano tematico si avverte l'attenzione per la realtà a lui più vicina. Accanto ai ricordi della Sicilia antica (si pensi a Strada di Agrigentum), affiorano «[…] l'Adda e la pioggia, / o forse un fremere di passi umani, / fra le tenere canne delle rive» (La dolce collina), sottintendendo un bisogno di dialogo, di comunicazione che si fa evidente in Già la pioggia è con noi, dove «ancora un anno è bruciato, / senza un lamento, senza un grido/ levato a vincere d'improvviso un giorno». Il percorso di maturazione passa attraverso ricordi e contemporaneità, per concludersi in una sorta di rassegnazione virile: «Non saprò nulla della mia vita», afferma Quasimodo in Già vola il fiore magro, la penultima delle Nuove poesie, e conclude dicendo che «già vola il fiore magro/ dai rami. E io attendo/ la pazienza del suo volo irrevocabile». Il poeta sa di essere ormai giunto ad una svolta, tanto che nell'ultima poesia torna, fin dal titolo, l'immagine della crescita: «E vedo in me fanciulli/ […] turbarsi alla mia voce mutata» (Inizio di pubertà).

In Giorno dopo giorno (1947) Quasimodo canta il dolore della guerra, la violenza delle bombe, la solitudine e la paura che derivano dal conflitto. A questi temi del tutto nuovi si affianca la nota affermazione, nel discorso del 1946 Poesia contemporanea, che l'«impegno capitale» è ormai quello di «rifare l'uomo». Più che la prima lirica del volume, la giustamente celebre Alle fronde dei salici, vale la pena di ricordare, a titolo di esempio, alcuni versi di Lettera:

...La vita
non è in questo tremendo, cupo, battere
del cuore, non è pietà, non è più
che un gioco del sangue dove la morte
è in fiore. O mia dolce gazzella,
io ti ricordo quel geranio acceso
su un muro crivellato di mitraglia.
O neppure la morte ora consola
più i vivi, la morte per amore?

La guerra e la violenza vengono rievocate non per un'astratta affermazione degli ideali di pace e di fratellanza, ma perché in questo preciso momento storico il poeta si trova a doverne contemplare gli effetti, spaventosi, di morte (l'immagine del muro) e di progressiva disumanizzazione (la perdita di pietà cantata nei versi finali). Emerge l'urgenza di riscoprire una sensibilità umana, una capacità di commuoversi di fronte alle cose. Il canto di Quasimodo, che già nelle Nuove poesie aveva iniziato a guardare al di fuori di sé, giunge alla piena maturità. Il poeta non rinnega la produzione precedente ma, da questo momento in poi, il confronto con sé stesso è filtrato anche dalla storia collettiva. La natura, che tanta importanza aveva avuto nelle raccolte precedenti, ora nel ciclo delle stagioni, nel «riaprirsi del legno in un colore», si fa «saluto della terra/ umana alle domande» destinate a rimanere senza risposta (Presso l'Adda). L'io poetico di Giorno dopo giorno e delle raccolte successive mantiene quindi intatte le sue incertezze esistenziali, ma la sua voce, «mutata» come avvertivano le Nuove poesie, riesce a guardare oltre. Senza più rincorrere un'astratta forza assoluta, una sorta di sogno adolescenziale al di là del tempo e dello spazio, Quasimodo guarda dentro la realtà. Ecco allora, in La vita non è sogno (1949), il notissimo Lamento per il Sud, dove il poeta che vive ormai da anni in Lombardia canta le strade «nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse» vivendo un «assurdo contrappunto/ di dolcezze e di furori»; ecco però anche l'angoscia esistenziale, l'assillo di rivolgersi al «Dio/ dei tumori, Dio del fiore vivo» chiedendogli di aprire la solitudine dell'uomo «e il suo pianto geloso del silenzio» (Thànatos athànatos).

Il problema è sempre «rifare l'uomo», non però in nome di un generico impegno politico o civile, ma perché l'uomo sia capace, di fronte alla violenza della guerra ed alle contraddizioni della società contemporanea, di gesti o segni d'amore che riaffermino la sua dignità. Inevitabilmente in questo percorso emergono asprezze e contraddizioni, come dirà il poeta stesso alla madre: «[…] non sono/ in pace con me, ma non aspetto/ perdono da nessuno, molti mi devono lacrime/ da uomo a uomo» (Lettera alla madre). La struttura delle raccolte, dopo La vita non è sogno, si farà in alcuni casi più complessa, suddivisa in sezioni quasi a cercare di imporre un ordine razionale ai segni confusi della realtà: Il falso e vero verde (1956) si presenta suddiviso in quattro sezioni, ce ne saranno ben cinque nella Terra impareggiabile (1958). In questi due volumi si afferma una lettura disincantata della realtà, capace di raccontare, con accenti umanissimi, la Sicilia (in una sezione del Falso e vero verde) e la Grecia del nostro tempo. Così nel Falso e vero verde si parla di una «razza», quella cui appartiene il poeta, che «ha coltelli/ che ardono e lune e ferite che bruciano» (Le morte chitarre). La risata fresca di una ragazza che, davanti al tempio greco di Agrigento, ha perso il pettine, diventa un «segno/ d'ironica menzogna» mentre la statua del telamone, lì vicino, resiste ai segni del tempo «con pazienza di verme/ dell'aria […] giuntura su giuntura, / fra alberi eterni per un solo seme» (Tempio di Zeus ad Agrigento). Nella raccolta del 1958 la Sicilia ormai lontana esercita la stessa fascinazione di un tempo, ma nel quadro di una sensibilità molto più inquieta. Le «parole d'amore» per la Sicilia hanno dentro un'«ironia» che ha «natura di scure», e non possono evitare una «rottura impetuosa» ed irredimibile (La terra impareggiabile). Quasimodo canta però anche la «civiltà dell'atomo», che giunge tristemente «al suo vertice» in un anonimo bar della metropoli (Quasi un epigramma). Sul piano metrico si alternano versi brevi ed altri più regolari: spesso viene scelto l'endecasillabo, ma senza assumerlo a modello esclusivo.

- Il bilancio di una vita: Dare e avere

Pubblicata nel 1966, Dare e avere è l'ultima raccolta di Quasimodo. Molti testi sono legati ad occasioni di viaggio, anche perché la fama del poeta, già molto vasta, è andata rafforzandosi dopo il Nobel del 1959. In questi anni porta a termine molte traduzioni (nel 1966 escono ad esempio, oltre ai versi di Dare e avere, le Poesie di Tudor Arghezi), a riprova di un costante impegno intellettuale. Anche per questo l'ultimo libro di poesie acquista il valore di un bilancio: non solo, o non tanto, perché il poeta sviluppa un intenso confronto con la morte, ma soprattutto per l'alternanza, sapientemente equilibrata, di note di viaggio e riflessioni personali. I versi, quasi prosastici nel loro quieto disporsi sulla pagina, si rifanno a gesti e figure reali, serbando un'intatta capacità di leggere dentro le cose, cogliendovi un significato più ampio ed universalmente valido. Un esempio è la lirica La chiesa dei negri ad Harlem.
In questa poesia il linguaggio è quasi colloquiale, si richiama ad immagini familiari al visitatore (i dolci del Sud), che segue con sguardo attento e preciso lo svolgersi della scena. Su tutto sembra aleggiare l'umana pietà del poeta, ai cui occhi le candele sono testimonianze di anime che, tra piccoli e grandi segni, tendono all'amore. Proprio l'amore, nel suo senso più universale, è un altro grande tema della raccolta: in Balestrieri toscani leggiamo ad esempio che «l'uomo non muore, / è un soldato d'amore della vittoria continua».La storia di Quasimodo si compie dunque come l'orbita di uno sguardo che, partito dalla Sicilia, a poco a poco si allarga ad abbracciare il mondo. L'arancia del giardino «sulla sua scorza» mostra lo scorrere impassibile del tempo, ma «sul vortice del frutto», lottando con la sua immutabilità, il tempo «scrive/ una prova di vita» (Impercettibile il tempo): la stessa che, in tanti anni di scrittura, ha saputo fornire Quasimodo stesso, «emigrante/ che veglia chiuso nelle sue coperte» (Ho fiori e di notte invito i pioppi, voce inconfondibile e fedele a sé stessa.

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RIPOSO DELL’ERBA

Deriva di luce; labili vortici,
aeree zone di soli,
risalgono abissi: apro la zolla
ch’è mia e m’adagio. E dormo:
da secoli l’erba riposa
il suo cuore con me.

Mi desta la morte:
piú uno, piú solo,
battere fondo del vento:
di notte.








NELL’ANTICA LUCE DELLE MAREE

Città d’isola
sommersa nel mio cuore,
ecco discendo nell’antica luce
delle maree, presso sepolcri
in riva d’acque
che una letizia scioglie
d’alberi sognati.

Mi chiamo: si specchia
un suono in amorosa eco,
e il segreto n’è dolce, il trasalire
in ampie frane d’aria.

Una stanchezza s’abbandona
in medi precoci rinascite,
la consueta pena d’esser mio
in un’ora di là dal tempo.

E i tuoi morti sento
nei gelosi battiti
di vene vegetali
fatti men fondi:

un respirare assorto di narici.












PAROLA

Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d’intorno, e stormir d’olmi
e voci d’acque trepide;
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.

Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s’incava ai lombi e in soave moto
s’allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.

Ma se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.











DI FRESCA DONNA
RIVERSA IN MEZZO Al FIORI

S’indovinava la stagione occulta
dall’ansia delle piogge notturne,
dal variar nei cieli delle nuvole,
ondose lievi culle;
ed ero morto.

Una città a mezz’aria sospesa
m’era ultimo esilio,
e mi chiamavano intorno
le soavi donne d’un tempo,
e la madre, fatta nuova dagli anni,
la dolce mano scegliendo dalle rose
con le piú bianche mi cingeva il capo.

Fuori era notte
e gli astri seguivano precisi
ignoti cammini in curve d’oro
e le cose fatte fuggitive
mi traevano in angoli segreti
per dirmi di giardini spalancati
e del senso di vita;
ma a me doleva ultimo sorriso

di fresca donna riversa in mezzo ai fiori.









CURVA MINORE

Pèrdimi, Signore, ché non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sí che cangi la pena in moto aperto:
curva minore
del vivere m’avanza.

E fammi vento che naviga felice,
o seme d’orzo o lebbra
che sé esprima in pieno divenire.

E sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.

Io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.

Ancora mi lasci: son solo
nell’ombra che in sera si spande,
né valico s’apre al dolce
sfociare del sangue.











UN SEPOLTO IN ME CANTA

M’esilio; si colma
ombra di mirti
e il sopito spazio m’adagia.

Né amore accosta
silvani accordi felici
nell’ora sola con me:
paradiso e palude
dormono in cuore ai morti.

E un sepolto in me canta
che la pietraia forza
come radice, e tenta segni
dell’opposto cammino.








COMPAGNO

Non so che luce mi dèsti:
nuziale ellisse di bianco e di celeste
precipita e in me frana. Tu sei,
beata nascita, a toccarmi
e nei silenzi aduni figure dell’infanzia:
mitissimi occhi di pecora trafitta,
un cane che m’uccisero,
e fu un compagno brutto e aspro
dalle scapole secche.

E quel fanciullo io amavo
sopra gli altri; destro
nel gioco della lippa e delle piastre
e tacito sempre e senza riso.

Si cresceva in vista d’alti cieli
correndo terre e vapori di pianeti:
misteriosi viaggi a lume di lucerna,
e il sonno tardo mi chiudeva assorto
nei canti dei pollai, sereni,
nel primo zoccolar vicino ai forni
delle serve discinte.

M’hai dato pianto
e il nome tuo la luce non mi schiara,
ma quello bianco d’agnello
del cuore che ho sepolto.









LAMENTAZIONE D’UN FRATICELLO D’ICONA

Di assai aridità mi vivo,
mio Dio;
il mio verde squallore!

Romba alta una notte
di caldi insetti;

il cordiglio mi slega
la tunica marcia d’orbace.

Mi cardo la carne
tarlata d’acaridi:
amore, mio scheletro.

Nascosto, profondo, un cadavere
mastica terra intrisa d’orina.

Mi pento
d’averti donato il mio sangue,
Signore, mio asilo:

misericordia!












SENZA MEMORIA DI MORTE

Primavera solleva alberi e fiumi;
la voce fonda non odo,
in te perduto, amata.

Senza memoria di morte,
nella carne congiunti,
il rombo d’ultimo giorno
ci desta adolescenti.

Nessuno ci ascolta;
il lieve respiro del sangue!

Fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano.

Da piante pietre acque
nascono gli animali
al soffio dell’aria.











PREGHIERA ALLA PIOGGIA

Odore buono del cielo
sull’erbe,
pioggia di prima sera.

Nuda voce, t’ascolto:
e ne ha primizie dolci di suono
e di rifugio il cuore arato;
e mi sollevi muto adolescente,
d’altra vita sorpreso e d’ogni moto
di subite resurrezioni
che il buio esprime e trasfigura.

Pietà del tempo celeste,
della sua luce
d’acque sospese;

del nostro cuore
delle vene aperte
sulla terra.















AUTUNNO

Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.

Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:

povera cosa caduta
che la terra raccoglie.












FOCE DEL FIUME ROIA

Un vento grave d’ottoni
mortifica il mio canto,
e tu soffri a grembo aperto
la voce disumana.

Da me divisa s’autunna
ai moti estremi giovinezza
e dichina.

La sera è qui, venuta ultima,
uno strazio d’albatri;
il greto ha tonfi, sulla foce,
amari, contagio d’acque desolate.

Lievita la mia vita di caduto,
esilio morituro.









DORMONO SELVE

Matrice secca d’amore e di nati,
ti gemo accanto
da lunghi anni, disabitato.

Dormono selve
di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l’estate dei miti
immobile.

Non eri entrata a vivermi,
presagio di durevole pena.
La terra moriva sulle acque
antiche mani nei fiumi
coglievano papiri.

Non so odiarti:cosí lieve
il mio cuore d’uragano.














ALLA NOTTE

Dalla tua matrice
io salgo immemore
e piango.

Camminano angeli, muti
con me; non hanno respiro le cose;
in pietra mutata ogni voce,
silenzio di cieli sepolti.

Il primo tuo uomo
non sa, ma dolora.
















LA MIA GIORNATA PAZIENTE

La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non sanata infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia.

M’abbandono, m’abbandono;
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.














  METAMORFOSI NELL’URNA DEL SANTO

I morti maturano,
il mio cuore con essi.
Pietà di sé
nell’ultimo umore ha la terra.

Muove nei vetri dell’urna
una luce d’alberi lacustri;
mi devasta oscura mutazione,
santo ignoto: gemono al seme sparso
larve verdi:
il mio volto è loro primavera.

Nasce una memoria di buio
in fondo a pozzi murati,
un’eco di timpani sepolti:

sono la tua reliquia
patita.
















DOVE MORTI STANNO AD OCCHI APERTI

Seguiremo case silenziose
dove morti stanno ad occhi aperti
e bambini già adulti
nel riso che li attrista,
e fronde battono a vetri taciti
a mezzo delle notti.

Avremo voci di morti anche noi,
se pure fummo vivi talvolta
o il cuore delle selve e la montagna,
che ci sospinse ai fiumi,
non ci volle altro che sogni.
















DAMMI IL MIO GIORNO

Dammi il mio giorno;
ch’io mi cerchi ancora
un volto d’anni sopito
che un cavo d’acque
riporti in trasparenza,
e ch’io pianga amore di me stesso.

Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d’astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d’orbite segrete
dove siamo fitti
coi macigni e l’erbe.













CONVALESCENZA

Farsi amore un’altra morte sento
ignota a me, ma piú di questa tarda,
che mi spinge sovente alle sue forme.

Abbandoni d’alga:
mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli
su rive dense di cielo.

Il vento s’innesta
docile al mio sangue,
ed è già voce e naufragio,
mani che rinascono:

mani conserte o palma a palma giunte
in distesa rinuncia.

Di te ha sgomento
il cuore secco e dolente,
infanzia imposseduta.













L’ANGELO

Dorme l’angelo
su rose d’aria, candido,
sul fianco,
a bacio del grembo
le belle mani in croce.

La mia voce lo desta
e mi sorride,
sparsa di polline
la guancia che posava.

Canta; m’assale il cuore,
opaco cielo d’alba.
L’angelo è mio;
io lo posseggo: gelido.












VITA NASCOSTA

Filtra l’ora e lo spazio
e non ha luce presagio
nell’abbandono dell’erbe;
e il vento, il fresco vento non versa
telai di suoni e chiarità improvvise,
e quando tace anche il cielo è solo.

Dammi vita nascosta,
e se non sai me pure occulta,
notte aereo mare.

Naufrago: e in ogni sillaba m’intendi
che dalla terra scava il suo spiraglio
e nell’ombra s’allarga,
e albero diventa o pietra o sangue
in ansiosa forma d’anima
che in sé muore,
me stesso brucato dal patire
che m’asserena, profondità d’amore.














ISOLA

Io non ho che te
cuore della mia razza.

Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.

Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.















MOBILE D’ASTRI E DI QUIETE

E se di me gioia ti vince,
è nodo d’ombre.
Non altro ora consola
che il silenzio: e non ci sazia
volto mutevole d’aria e di colli,
giri la luce i suoi cieli cavi
a limite di buio.

Mobile d’astri e di quiete
ci getta notte nel veloce inganno:
pietre che l’acqua spolpa ad ogni foce.

Bambini dormono ancora nel tuo sonno;
io pure udivo un urlo talvolta
rompere e farsi carne;
e battere di mani ed una voce
dolcezze spalancarmi ignote.













FATTA BUIO ED ALTEZZA

Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in ombra a raggi
e farti nuvola d’astri intorno al capo.
E me sospeso a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell’aria accesa in arco.

Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi
fatta buio ed altezza.














L’ACQUA INFRADICIA GHIRI

Lucida alba di vetri funerari.
L’acqua infradicia ghiri
nel buio vegetale,
dai grumi dei faggi
filtrando inconsapevole
nei tronchi cavi.

Come i ghiri, il tempo che dilegua:
e brucia il tonfo ultimo,
rapina di dolcezze.

Né in te riparo,
abbandonata al sonno
da fresca gioia:
vanamente rinsanguo fatto sesso.











SEME

Alberi d’ombre,
isole naufragano in vasti acquari,
inferma notte,
sulla terra che nasce:

un suono d’ali
di nuvola che s’apre
sul mio cuore:

nessuna cosa muore,
che in me non viva.

Tu mi vedi: cosí lieve son fatto,
cosí dentro alle cose
che cammino coi cieli;

che quando Tu voglia
in seme mi getti
già stanco del peso che dorme.











ÒBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.









L’EUCALYPTUS

Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d’aspre resine.

In me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala.

M’accori, dolente rinverdire,
odore dell’infanzia
che grama gioia accolse,
inferma già per un segreto amore
di narrarsi all’acque.

Isola mattutina:
riaffiora a mezza luce
la volpe d’oro
uccisa a una sorgiva.














A ME DISCESA PER NUOVA INNOCENZA

Era beata stanotte la tua voce
a me discesa per nuova innocenza
nel tempo che patisco un nascimento
d’accorate letizie.

Tremavi bianca,
le braccia sollevate;
e io giacevo in te
con la mia vita
in poco sangue raccolta,
dimentico del canto
che già m’ha fatto estrema,
con la donna che mi tolse in disparte,

la mia tristezza
d’albero malnato.



SALVATORE QUASIMODO    - OBOE SOMMERSO











PRIMO GIORNO

Una pace d’acque distese
mi desta nel cuore
d’antichi uragani,
piccolo mostro turbato.

Son lievi al mio buio
le stelle crollate con me
in sterili globi a due poli,
tra solchi d’aurore veloci:
amore di rupi e di nubi.

È tuo il mio sangue,
Signore: moriamo.






VERDE DERIVA

Sera: luce addolorata,
pigre campane affondano.
Non dirmi parole: in me tace
amore di suoni, e l’ora è mia
come nel tempo dei colloqui
con l’aria e con le selve.

Sopori scendevano dai cieli
dentro acque lunari,
case dormivano sonno di montagne,
o angeli fermava la neve sugli ontani,
e stelle ai vetri
velati come carte d’aquiloni.

Verde deriva d’isole,
approdi di velieri,
la ciurma che seguiva mari e nuvole
in cantilena di remi e di cordami
mi lasciava la preda:
nuda e bianca, che a toccarla
si udivano in segreto
le voci dei fiumi e delle rocce.

Poi le terre posavano
su fondali d’acquario,
e ansia di noia e vita d’altri moti
cadeva in assorti firmamenti.

Averti è sgomento
che sazia d’ogni pianto,
dolcezza che l’isole richiami.










FRESCHE DI FIUMI IN SONNO

Ti trovo nei felici approdi,
della notte consorte,
ora dissepolta
quasi tepore d’una nuova gioia,
grazia amara del viver senza foce.

Vergini strade oscillano
fresche di fiumi in sonno:

E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome
quando chiamano i morti.

Ed è morte
uno spazio nel cuore.











ANELLIDE ERMAFRODITO

Mite letargo d’acque:
la neve cede chiari azzurri.

Sono memoria
d’ogni mia ora terrena,
angelo biancospino.

A te mi porgo trebbiato
senza seme; e duole dentro
pietà di magre foglie
che m’aiuta la morte.

Dalla fangaia affiora
roseo anellide
ermafrodito.







D’ALBERI SOFFERTE FORME

Ora matura primizia del sole
la luce che destò d’intorno
d’alberi sofferte forme
e sospirar d’acque
che la notte confuse alle parole,
e sollevate l’ombre
si piegano alle siepi.

Inutile giorno,
mi togli da spazi sospesi,
(deserti spenti, abbandoni)
da quiete selve
avvinte da canapi d’oro
cui non muta senso
lo stormire dei venti
che d’impeto crolla,
né volgere di stelle.

Il cuore mi scopri sotterraneo,
che ha rose e lune a dondolo
e ali di bestie di rapina
e cattedrali da cui tenta
altezze di pianeti l’alba.

Ignoto mi svegli
a vita terrena.










IO MI CRESCO UN MALE

Grato respiro una radice
esprime d’albero corrotto:

io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.






AMEN PER LA DOMENICA IN ALBIS

Non m’hai tradito, Signore:
d’ogni dolore
son fatto primo nato.
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
FINE
Quasimodo e gli altri

Oggi la critica tende ad avvicinare la scrittura poetica del primo Quasimodo a quella degli ermetici. Vi sono indubbiamente dei tratti discorsivi primari che le accomuna, ma altrettanto marcati sono quelli che le separa. Prendo in considerazione dell’ermetismo soprattutto la cosiddetta linea fiorentina, certamente la più rappresentativa (accanto a quella lombarda: Vittorio Sereni, Luciano Erba ecc.). L’ermetismo fiorentino nasce dai colloqui tra giovani universitari nel caffè (oggi famoso) delle “Giubbe rosse” a Firenze. Carlo Bo (francesista), Oreste Macrí (ispanista) e Leone Traverso (germanista) aprirono agli altri giovani i segreti (soprattutto formali) di quelli che venivano considerati, nella spinta a superare la dominante matrice dannunziana e pascoliana, i modelli da seguire: da Baudelaire a Mallarmé, da Rimbaud a Valéry, da Rilke a George, a Machado e più tardi Lorca. Il successo dei cosiddetti poeti ermetici è dovuto anche alla lettura in parte ideologica del loro chiudersi alla realtà fenomenica, un chiudersi sentito come rifiuto radicale del “fascismo”. Il loro privilegiare il suono sul significato, lo spazio dato al “silenzio” ed al mistero racchiuso nella parola poetica, la fede quasi religiosa nella poesia caratterizzano le raccolte di poesie sia di Quasimodo che di Mario Luzi, Gatto, Sinisgalli, Bigongiari, Parronchi tra gli altri. Infatti dalla parola poetica intesa come simbolo e suono alla concezione “religiosa” della stessa il passo è breve. Con passione i giovani poeti si abbandonarono al fascino di una assoluta compenetrazione nella parola tra l’io e l’oggetto, dando vita ad una poesia che accentuava gli spazi connotativi sulla scia di unità sistemiche principalmente tonali. Entro questi parametri la poesia del primo Quasimodo partecipa ai processi di smaterializzazione della parola e di intensificazione armonica delle correlazioni foniche tipici degli ermetici. L’esempio più noto è certamente la lirica Ed è subito sera.
Ciò che avvicina la poesia del primo Quasimodo agli ermetici soprattutto fiorentini – ma l’osservazione vale un po’ per tutti i poeti degli anni tra i due conflitti mondiali cosí attratti dal poetico mallarmeano – è, oltre alla ricerca d’essenzialità, l’uso della sinestesia grammaticalizzata volta a rappresentare la sensazione di un’impressione. Si mescolano, secondo le regole di un sistema testuale estranee a quelle fenomeniche, i termini di relazione afferenti al visivo all’acustico al tatto ecc.; da una parte vi è la sensazione, come spinta irrazionale, dall’altra il desiderio di una sua rappresentazione. Per la difficoltà intrinseca a tale operazione per cui il non-detto prevale sul detto, si ha un privilegiare la dimensione dell’assenza e della conseguente distanza fra l’io poetante e le cose, con la presa di coscienza opprimente dell’abisso che separa la realtà dal “sogno della realtà”. Il patetico e l’elegiaco, come pure un’intima musicalità sommessa segnano la poesia di Quasimodo nell’arco di tutta la sua vita. Linguisticamente si procede con il sovrapporre diversi piani semantici in cui i piani della sensazione si mescolano e si confondono con quelli dell’impressione. La parola perde in semanticità oggettuale, assolutizzandosi, sino ad aprire spazi in cui le analogie, le associazioni, le assonanze ecc. riescono a dar vita a nuclei semantici nuovi attraverso evocazioni memoriali, simboliche, sorrette da motivazioni sentimentali. Si riduce notevolmente la nominazione diretta dell’oggetto in favore dell’impressione che ne prova il Soggetto poetante. La sfida di fronte alla quale viene posto il lettore è d’individuare le motivazioni relazionali soggiacenti agli elementi divergenti posti in correlazione. Certo non si può dire che Quasimodo abbia subito l’influsso dell’ermetismo (J. van Ackere), trattandosi semmai di processi evolutivi paralleli, come del resto aveva a suo tempo sottolineato Carlo Bo che lo considerava tutto al più un “compagno di strada”. Consonanza è, entro certi limiti, il termine più appropriato sotto il quale sono raggruppabili anche altri poeti, oltre a Quasimodo, Ungaretti, Montale, Sereni, Luciano Erba e cosí via. Vi è però già nei versi succitati un distacco dalle poesie degli ermetici fiorentini, distacco dovuto, a mio avviso, all’aggancio ancora forte in Quasimodo con una voluta semplicità di dettato, con il discorsivo, sebbene a volte l’interlocutore sia l’io stesso. Predomina, in altre parole, un ossessivo dialogare con se stesso (o con quell’altro aspetto dell’io che per Quasimodo è il lettore, il quale non riesce ad emanciparsi dall’io, risultando sempre omologato in questi) sul senso dell’esistere e del morire, come pure sul modo di “ricevere in sé” il mondo, tanto che a ragione Luciano Anceschi ha parlato di una “metafisica dell’assoluta dissoluzione”, Angelo Marchese di un “rarefatto orfismo religioso” e Natale Tedesco di una “assidua meditazione”. Si tratta di definizioni che, pur nella loro generalità e riduttività, colgono un aspetto centrale e costante della poesia di Quasimodo, sempre tormentata dal desiderio di dar voce ai propri sentimenti più assillanti, una poesia che, nonostante le ascendenze giovanili dannunziane e pascoliane, predilige il tono “sobrio” con rare presenze della parola elegante e fine a se stessa, pur nella forte musicalità dei versi, musicalità costruita soprattutto con marcate correlazioni foniche, come le assonanze e le ripetizioni.
Il trauma della guerra
Il punto di discrimine tra la prima fase e la seconda è costituito, come già sottolineato, dalla guerra, con il 1942 come anno limite,  anno  in  cui  pubblica  in volume con il titolo Ed è subito sera,  il  verso finale  della lirica forse  di maggiore
successo posta significativamente all’inizio della raccolta. Vi si trovano le sillogi precedenti: Acque e terre(1930), Oboe sommerso (1932), Odore di Eucalyptus e altri versi (1933), Erato e Apollion (1936), già apparse con poche nuove liriche (Nuove poesie) nel 1938 con il titolo Poesie. Dopo il 1942 i toni si fanno emotivamente più carichi, la parola più diretta, quasi aggressiva, quindi apparentemente diversa da quella precedente, avendo perso parte della sua leggerezza e quel malinconico distacco che la caratterizzava. In realtà la separazione avviene quasi esclusivamente nel campo semantico, per una maggiore, voluta apertura al contesto sociale e di conseguenza con una riduzione delle implicazioni simboliche e analogiche inerenti alla parola con lo scopo di rendere la poesia una “testimonianza” del dramma della guerra, mentre sotto l’angolatura dei meccanismi testuali è ancora e sempre l’io a condizionare con la sua presenza assoluta i ritmemi delle varie liriche. Se nella prima fase la poeticizzazione della parola avveniva sulla base di un recupero di spazi (quelli siciliani) che la lontananza rendeva “mitici”, ora l’io poetante assorbe direttamente ed in prima persona la grande tragedia collettiva della guerra, sillabandola in un crescendo di rifiuto e di condanna. Il pubblico e il privato non vengono mai a costituire una giustapposizione dualistica, ma interagiscono sino ad integrarsi in una più ampia spazialità sistemica correlativa in cui l’ora e l’allora si dispongono sullo stesso piano significante e significativo grazie alla centralità dell’io poetante, narratore e protagonista. Nelle raccolte La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1954), La terra impareggiabile (1958) il tono può sembrare eccessivamente eloquente, ideologicamente condizionato, consolatorio, ma nonostante il deciso impegno civile non vengono soffocate le intense, evocative vibrazioni più intime e musicali, che dall’inizio costituivano l’aspetto più originale della sua poesia. Liriche come Quasi un madrigale, Al padre, Lettera alla madre, tra le altre, rimangono tra le creazioni più riuscite e rappresentative della sublimazione della realtà attraverso la parola poetica, una parola capace di evocare sentimenti e stati d’animo e di trasmetterli al lettore, non attraverso i procedimenti del razionale e del dimostrativo ma del “simpatetico”. Pur nell’apparente rappresentazione realistica, la figura del “muratore/architetto” che emerge dalla poesia Nell’isola (da Dare e avere) scivola decisamente dalla dimensione storico-sociale a quella mitico-evocativa.
Il gioco verbale tra il presente e l’imperfetto indicativo evidenzia la dimensione non reale delle unità sistemiche testuali. Si crea un rapporto di identità tra l’infanzia del poeta e l’infanzia del mondo, entrambe viste come itinerari di civiltà. Gioia e dolore, caos ed ordine, passione e ragione scandiscono il “cammino” umano. Il muratore/architetto si innalza nella sua mitica complessità a demiurgico emblema e significazione della lotta esistenziale dell’uomo nel corso dei secoli e della sua ingegnosa, instancabile operosità. È inoltre intercambiabile con l’io poetante e con l’uomo/lettore per il loro partecipare attivamente (e duramente) alle trasformazioni del vivere civile. La motivazione della giuria del premio Nobel, che sottolinea la sua “waardering van zijn lyrische poëzie, die met klassieke gloed de tragische ervaring vertolkt van het leven van onze tijd”, va dunque riferita a tutto l’arco della sua produzione poetica e non soltanto alla seconda fase. Il modo di servirsi della parola rimane lo stesso; costante risulta il ricorso (non innocente) a valori fonici per accentuare nuclei concettuali primari. Ed anche questo Quasimodo ha voluto sottolineare nel suo Discorso sulla poesia stampato per la prima volta in appendice alla raccolta Il falso e il vero verde nel 1956:
La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli “modifica” il mondo […]. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione. […] Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento. […] La guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori all’uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni, che possono essere traditi.
Quasimodo intendeva qui difendere la “svolta” realizzantesi nella sua poesia dopo la seconda guerra mondiale; invita i poeti a “giudicare” la storia, a giudicare i politici, ma il riferimento alla superiorità della poesia sulla filosofia e sulla scienza dice anche quanto lo scrittore fosse ancora legato ad una concezione della poesia come valore supremo, come attestazione di libertà e verità attraverso il contatto “irrazionale”, “istintivo”, “sentimentale, che s’instaura tra il testo e il lettore. Sulla stessa posizione si trovava già nel 1946 quando, in sintonia con Vittorini, affermava:
Io non credo alla poesia come “consolazione” ma come moto ad operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè “dentro” l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può abituare l’uomo all’idea della morte, non può far diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un EDEN, né un inferno più mite.
La poesia rimane dunque per Quasimodo il momento di sintesi delle contraddizioni individuali e storiche e come tale è un documento importante del nostro tempo.