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SALVATORE QUASIMODO


POESIE VARIE



Auschwitz

Laggiu, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell'aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l'angelo il mostro
le nostre ore future
battere l'al di là, che è qui, in eterno
e m movimento, non in un'immagine
di sogni, di possibile pietà,
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d'un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d'ombra
il caro corpo d'Alfeo e d'Aretusa!

Da quell'inferno aperto da una scritta
bianca: «Il lavoro vi renderà liberi»
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all'alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all'acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d'animali,
o sei tu pure cenere d'Auschwitz,
medaglia di silenzio?

==>SEGUE













Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d'ebrei: sono reliquie
d'un tempo di saggezza, di sapienza
dell'uomo che si fa misura d'armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

(da Il falso e vero verde, 1954)


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
LA VOCE DI SALVATORE QUASIMODO
_________

di
DAVIDE DE MAGLIE
__________________
Fin dal titolo della prima raccolta, Acque e terre del 1930, la poesia di Salvatore Quasimodo esprime una tendenza all'universalità, un'aspirazione a contenere in sé elementi contrapposti. La conferma verrà dagli ossimori di molti titoli successivi, da Il falso e vero verde (1956) a Dare e avere (1966). L'intera esperienza letteraria passa quindi attraverso la contraddizione, che nel suo rimanere irrisolta testimonia una tenace vitalità. Sarà Quasimodo stesso ad affermare: «Dalla mia prima poesia a quella più recente non c'è che una maturazione verso la concretezza del linguaggio». Il poeta coglie i cambiamenti della storia e della tradizione culturale, senza per questo rinnegare la propria irriducibile essenzialità. L'originalità di Quasimodo va cercata appunto in una fedeltà a sé stesso rinnovata dal contatto con le più varie sollecitazioni, rendendo così improbabile una definizione univoca della sua poesia. In ambito critico la sua opera è stata spesso catalogata come un percorso esemplare che, partendo dall'esperienza ermetica, giunge ad una piena maturazione nelle opere del dopoguerra, con un impegno civile e sociale non esente da suggestioni neorealistiche. In realtà la sua poesia presenta continui ripensamenti e sempre nuove formulazioni, dovute certo all'incalzare degli eventi storici ma anche al lavoro dell'intellettuale: si pensi all'importanza delle traduzioni, dai classici greci e latini ma anche dai moderni, come Neruda. Costante, nel percorso che si cercherà di delineare, è l'amore per l'espressione poetica, l'irrinunciabilità di una voce che interpreta la storia e le vicissitudini degli uomini attraverso la propria personalissima modulazione.

- Il canto e la memoria

La Sicilia è per Quasimodo il punto di partenza della composizione poetica, nel senso di un esilio che si fa motivo autobiografico di molti componimenti e, al tempo stesso, come origine culturale e matrice letteraria. In Vento a Tìndari l'antica città, simbolo di un'armonia perduta e di un presente privo di gioia, rimanda alla lontananza dalla terra natale ed alla civiltà greca.
Il rapporto con l'isola viene presentato nella duplice dimensione di ricordo autobiografico ed eredità storica, favola della propria infanzia e miraggio di una civiltà lontana. Salta agli occhi una forte musicalità, ad esempio nell'aggettivo sdrucciolo del secondo verso, che conferisce una distesa solennità all'endecasillabo. Non mancano versi più realistici, dove il ritmo si fa più franto e gli aggettivi si caricano di pregnanza semantica. L'esilio è «aspro» quasi ad indicare una mancata maturazione, come lo stesso poeta ribadirà nella poesia L'Eucalyptus compresa in Òboe sommerso, raccolta pubblicata nel 1932 («non una dolcezza mi matura», p. 40). Il percorso poetico è giocato su due piani: la suggestione dell'incanto e una conoscenza della realtà che proprio qui, in Acque e terre, ha i suoi più autentici presupposti. Il poeta non si limita a rimpiangere il tempo dell'infanzia ma ne canta, riconoscendole a distanza di anni, le contraddizioni: si identifica con la sua terra e, insieme, se ne distacca. Ne abbiamo un esempio in Vicolo, un'altra lirica di Acque e terre:

Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch'erano a sera
un dondolìo di lampade
dalle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza.
Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s'udiva la notte un pianto
di cuccioli e bambini.
Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch'è paura
di restare sole nel buio.

La lirica rievoca evidentemente un passato familiare al poeta, ma alla dimensione quasi mitica dell'immagine iniziale, una «voce» che sa far rinascere «cieli ed acque», segue immediatamente la scena, niente affatto consolatrice, dei negozi aperti fino a tardi e tristemente vuoti. Nella seconda strofa, introdotta da un doppio settenario, viene poi evocato un mondo di credenze, di richiami misteriosi, un mondo non ben definito in quanto tipico dell'infanzia, età che ancora non riesce a decifrare in modo esatto le voci che giungono dal cortile e dalle strade vicine. La dimensione quasi onirica che sottende al testo non annulla comunque gli elementi concreti di un paesaggio e di una società. La compresenza di incanto memoriale e senso della realtà è confermata dalle numerose liriche dedicate a figure femminili, come Antico inverno, esemplare per concisione ed efficacia di linguaggio:

Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma:
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po'di sole, una raggera d'angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d'aria al mattino.

Anche in questo caso una realtà lontana (prima era un «altro tempo», ora si parla di un «antico inverno») viene rievocata con pochi cenni essenziali, anche attraverso l'uso, tipico di Quasimodo, dei due punti e degli spazi bianchi, alternando versi brevi ed endecasillabi. Nella lirica si riconosce una figurazione affidata ad elementi precisi - la neve, gli uccelli in cerca di cibo - che assumono però un valore simbolico, alludendo ad una provvisorietà (le parole subito raggelate) che non cancella l'intensità del ricordo. La raccolta del 1930 vive quindi di una continua oscillazione tra il racconto della propria storia e la sua trasfigurazione letteraria. La lirica I ritorni passa in rassegna i viaggi all'isola d'origine, ricordati dal poeta mentre trascorre la notte dormendo in macchina a Piazza Navona. Affiorano ricordi delle preghiere dette da bambino, ma soprattutto impressioni sensoriali che si uniscono ad un'inquietudine dalla quale non è dato liberarsi, quel sentimento misto di ribellione e rimpianto che la «terra impareggiabile» saprà sempre suscitare.
È come se, in questa lirica, Quasimodo scegliesse di mettersi a nudo di fronte al lettore, svelasse la realtà ineliminabile della sua condizione esistenziale, vero preludio di ogni rielaborazione letteraria. Tipico l'uso della preposizione "di" per elencare una serie di immagini («che sanno di grano che gonfia nelle spighe […] cantilene d'uomini e cigolìo di traini»), presente tra l'altro anche in Albero («[…] che mi spinse marzo lunare/ già d'erbe ricco e d'ali») e in Dolore di cose che ignoro («Fitta di bianche e di nere radici/ di lievito odora e lombrichi, / tagliata dall'acque la terra»). L'atteggiamento fondamentale del poeta è un esame, attento ed inquieto, dei propri moti dell'anima, di una sofferenza sentita come acuta ed indecifrabile, quasi fine a se stessa: «E fosse mia carne/ che il dono di male trasforma», auspica in Tu chiami una vita .

- Un tempo di
  maturazione

Nelle poesie di Òboe sommerso (1932) si coglie una forte presenza del mondo naturale, che talvolta si traduce in un processo di identificazione vicino al panismo dannunziano. Esemplare in questo senso è la poesia che dà il titolo alla raccolta, che attesta una condizione di solitudine e di smarrimento esistenziale:

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera:
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

La terza strofa descrive in effetti una vera e propria metamorfosi, un'estrema spersonalizzazione dell'io. A differenza di quanto accade in D'Annunzio non c'è però, in Quasimodo, la gioia sensuale di riconoscersi una parte dell'universo, ma una mancanza di armonia, la dura concretezza della realtà quotidiana («e i giorni una maceria»). Il linguaggio passa dalla solennità dei «sospirati abbandoni» all'immediatezza delle «mani erbose» e dei giorni simili a macerie. Il poeta esprime, come nella già ricordata Dolore di cose che ignoro, una sofferenza quasi assoluta, che non implica solo il rimpianto di aver abbandonato la terra d'origine ma anche una condizione di più ampia infelicità. Ecco allora che in Isola, la Sicilia è all'origine, come dice il poeta, di un «dolore che m'attrista», ma egli stesso afferma poi che «se torno a tue rive […] ansia d'altri cieli mi volge». Non resta dunque che la dimensione metafisica, cantata in Dove morti stanno ad occhi aperti («seguiremo case silenziose/ dove morti stanno ad occhi aperti […] o il cuore delle selve e la montagna, […] non ci volle altro che sogni») e, in modo ancora più esplicito, nella lirica Di fresca donna riversa sopra i fiori.
Il canto nasce dalla descrizione, precisa ed insieme assorta, di dati concreti (le stagioni dei versi iniziali, i fiori scelti dalla madre) e suggestioni emotive (le stelle con percorsi «precisi», ma «ignoti», inconoscibili per l'occhio di chi le osserva; l'«ultimo sorriso» della donna). Tutto resta come sospeso in una narrazione che, appena accenna alla notte (inizio della terza strofa), rivela l'aspetto più misterioso dell'esperienza (probabilmente un sogno), anche «le cose fatte fuggitive». Negli anni del dopoguerra ad essere "fuggitivo" non sarà il senso ultimo dei sogni o delle suggestioni della mente, ma quello della società contemporanea, dell'uomo solo con il proprio dolore. Nella Terra impareggiabile emergerà un «segreto» che ha «stratagemmi, attrazioni difficili», o la consapevolezza, alla fine della poesia dedicata al padre, che «oscuramente forte è la vita» (Al padre). In Òboe sommerso e nella raccolta successiva Erato e Apòllion (1936) sembra insomma delinearsi, dietro il filtro suggestivo del linguaggio, un tempo di necessario confronto con il proprio io bisognoso di crescere, di accettare le inevitabili difficoltà dell'esistenza. Per farlo il poeta passa attraverso un ricordo che, progressivamente, si distacca dall'assolutezza dei sentimenti infantili. Non è quindi un caso che siano frequenti, anche nel volume del 1936, le allusioni alla crescita, simbolo del passaggio ad una nuova consapevolezza, dal «corpo adolescente» (L'Ànapo) al «tempo delle mutazioni, segreto» cui allude il miele portato in dono dalle api (Isola di Ulisse). Ancora più indicativa di un rapporto tutt'altro che secondario tra le raccolte degli anni Trenta e la produzione del dopoguerra è la lirica Città straniera, dove il linguaggio, soprattutto nella prima strofa, richiama la concretezza che avranno i testi degli anni successivi.
Se le immagini dei morti e del vento esprimono una tendenza onirica già riscontrata altrove, la stella della prima strofa ricorda le «stelle sporche a galla nei canali» di Dalla natura deforme, poesia compresa nella Terra impareggiabile. Il realismo delle immagini sembra inoltre preludere alle poesie di viaggio che, circa trent'anni dopo, saranno parte essenziale di Dare e avere (1966), ultima raccolta quasimodiana. In questo senso i volumi degli anni Trenta documentano una voce poetica di indubbia originalità, ma anche una fase di maturazione letteraria ed umana, dalla quale deriveranno gli sviluppi successivi.

- Un canto disteso: dalle Nuove poesie a La terra impareggiabile

Nel volume complessivo Ed è subito sera (1942), Quasimodo pubblica, insieme alle raccolte fin qui esaminate, anche le Nuove poesie, con un'esplicita indicazione cronologica (1936-1942). Nello stesso periodo inizia il lavoro di traduzione da alcune opere classiche, come i Lirici greci (1940) ed il Fiore delle Georgiche di Virgilio (1942); nel 1945 usciranno le traduzioni da Catullo e dal Vangelo di Giovanni. Il contatto con la parola antica dà al poeta una maggiore misura espressiva, mentre sul piano tematico si avverte l'attenzione per la realtà a lui più vicina. Accanto ai ricordi della Sicilia antica (si pensi a Strada di Agrigentum), affiorano «[…] l'Adda e la pioggia, / o forse un fremere di passi umani, / fra le tenere canne delle rive» (La dolce collina), sottintendendo un bisogno di dialogo, di comunicazione che si fa evidente in Già la pioggia è con noi, dove «ancora un anno è bruciato, / senza un lamento, senza un grido/ levato a vincere d'improvviso un giorno». Il percorso di maturazione passa attraverso ricordi e contemporaneità, per concludersi in una sorta di rassegnazione virile: «Non saprò nulla della mia vita», afferma Quasimodo in Già vola il fiore magro, la penultima delle Nuove poesie, e conclude dicendo che «già vola il fiore magro/ dai rami. E io attendo/ la pazienza del suo volo irrevocabile». Il poeta sa di essere ormai giunto ad una svolta, tanto che nell'ultima poesia torna, fin dal titolo, l'immagine della crescita: «E vedo in me fanciulli/ […] turbarsi alla mia voce mutata» (Inizio di pubertà).

In Giorno dopo giorno (1947) Quasimodo canta il dolore della guerra, la violenza delle bombe, la solitudine e la paura che derivano dal conflitto. A questi temi del tutto nuovi si affianca la nota affermazione, nel discorso del 1946 Poesia contemporanea, che l'«impegno capitale» è ormai quello di «rifare l'uomo». Più che la prima lirica del volume, la giustamente celebre Alle fronde dei salici, vale la pena di ricordare, a titolo di esempio, alcuni versi di Lettera:

...La vita
non è in questo tremendo, cupo, battere
del cuore, non è pietà, non è più
che un gioco del sangue dove la morte
è in fiore. O mia dolce gazzella,
io ti ricordo quel geranio acceso
su un muro crivellato di mitraglia.
O neppure la morte ora consola
più i vivi, la morte per amore?

La guerra e la violenza vengono rievocate non per un'astratta affermazione degli ideali di pace e di fratellanza, ma perché in questo preciso momento storico il poeta si trova a doverne contemplare gli effetti, spaventosi, di morte (l'immagine del muro) e di progressiva disumanizzazione (la perdita di pietà cantata nei versi finali). Emerge l'urgenza di riscoprire una sensibilità umana, una capacità di commuoversi di fronte alle cose. Il canto di Quasimodo, che già nelle Nuove poesie aveva iniziato a guardare al di fuori di sé, giunge alla piena maturità. Il poeta non rinnega la produzione precedente ma, da questo momento in poi, il confronto con sé stesso è filtrato anche dalla storia collettiva. La natura, che tanta importanza aveva avuto nelle raccolte precedenti, ora nel ciclo delle stagioni, nel «riaprirsi del legno in un colore», si fa «saluto della terra/ umana alle domande» destinate a rimanere senza risposta (Presso l'Adda). L'io poetico di Giorno dopo giorno e delle raccolte successive mantiene quindi intatte le sue incertezze esistenziali, ma la sua voce, «mutata» come avvertivano le Nuove poesie, riesce a guardare oltre. Senza più rincorrere un'astratta forza assoluta, una sorta di sogno adolescenziale al di là del tempo e dello spazio, Quasimodo guarda dentro la realtà. Ecco allora, in La vita non è sogno (1949), il notissimo Lamento per il Sud, dove il poeta che vive ormai da anni in Lombardia canta le strade «nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse» vivendo un «assurdo contrappunto/ di dolcezze e di furori»; ecco però anche l'angoscia esistenziale, l'assillo di rivolgersi al «Dio/ dei tumori, Dio del fiore vivo» chiedendogli di aprire la solitudine dell'uomo «e il suo pianto geloso del silenzio» (Thànatos athànatos).

Il problema è sempre «rifare l'uomo», non però in nome di un generico impegno politico o civile, ma perché l'uomo sia capace, di fronte alla violenza della guerra ed alle contraddizioni della società contemporanea, di gesti o segni d'amore che riaffermino la sua dignità. Inevitabilmente in questo percorso emergono asprezze e contraddizioni, come dirà il poeta stesso alla madre: «[…] non sono/ in pace con me, ma non aspetto/ perdono da nessuno, molti mi devono lacrime/ da uomo a uomo» (Lettera alla madre). La struttura delle raccolte, dopo La vita non è sogno, si farà in alcuni casi più complessa, suddivisa in sezioni quasi a cercare di imporre un ordine razionale ai segni confusi della realtà: Il falso e vero verde (1956) si presenta suddiviso in quattro sezioni, ce ne saranno ben cinque nella Terra impareggiabile (1958). In questi due volumi si afferma una lettura disincantata della realtà, capace di raccontare, con accenti umanissimi, la Sicilia (in una sezione del Falso e vero verde) e la Grecia del nostro tempo. Così nel Falso e vero verde si parla di una «razza», quella cui appartiene il poeta, che «ha coltelli/ che ardono e lune e ferite che bruciano» (Le morte chitarre). La risata fresca di una ragazza che, davanti al tempio greco di Agrigento, ha perso il pettine, diventa un «segno/ d'ironica menzogna» mentre la statua del telamone, lì vicino, resiste ai segni del tempo «con pazienza di verme/ dell'aria […] giuntura su giuntura, / fra alberi eterni per un solo seme» (Tempio di Zeus ad Agrigento). Nella raccolta del 1958 la Sicilia ormai lontana esercita la stessa fascinazione di un tempo, ma nel quadro di una sensibilità molto più inquieta. Le «parole d'amore» per la Sicilia hanno dentro un'«ironia» che ha «natura di scure», e non possono evitare una «rottura impetuosa» ed irredimibile (La terra impareggiabile). Quasimodo canta però anche la «civiltà dell'atomo», che giunge tristemente «al suo vertice» in un anonimo bar della metropoli (Quasi un epigramma). Sul piano metrico si alternano versi brevi ed altri più regolari: spesso viene scelto l'endecasillabo, ma senza assumerlo a modello esclusivo.

- Il bilancio di una vita: Dare e avere

Pubblicata nel 1966, Dare e avere è l'ultima raccolta di Quasimodo. Molti testi sono legati ad occasioni di viaggio, anche perché la fama del poeta, già molto vasta, è andata rafforzandosi dopo il Nobel del 1959. In questi anni porta a termine molte traduzioni (nel 1966 escono ad esempio, oltre ai versi di Dare e avere, le Poesie di Tudor Arghezi), a riprova di un costante impegno intellettuale. Anche per questo l'ultimo libro di poesie acquista il valore di un bilancio: non solo, o non tanto, perché il poeta sviluppa un intenso confronto con la morte, ma soprattutto per l'alternanza, sapientemente equilibrata, di note di viaggio e riflessioni personali. I versi, quasi prosastici nel loro quieto disporsi sulla pagina, si rifanno a gesti e figure reali, serbando un'intatta capacità di leggere dentro le cose, cogliendovi un significato più ampio ed universalmente valido. Un esempio è la lirica La chiesa dei negri ad Harlem.
In questa poesia il linguaggio è quasi colloquiale, si richiama ad immagini familiari al visitatore (i dolci del Sud), che segue con sguardo attento e preciso lo svolgersi della scena. Su tutto sembra aleggiare l'umana pietà del poeta, ai cui occhi le candele sono testimonianze di anime che, tra piccoli e grandi segni, tendono all'amore. Proprio l'amore, nel suo senso più universale, è un altro grande tema della raccolta: in Balestrieri toscani leggiamo ad esempio che «l'uomo non muore, / è un soldato d'amore della vittoria continua».La storia di Quasimodo si compie dunque come l'orbita di uno sguardo che, partito dalla Sicilia, a poco a poco si allarga ad abbracciare il mondo. L'arancia del giardino «sulla sua scorza» mostra lo scorrere impassibile del tempo, ma «sul vortice del frutto», lottando con la sua immutabilità, il tempo «scrive/ una prova di vita» (Impercettibile il tempo): la stessa che, in tanti anni di scrittura, ha saputo fornire Quasimodo stesso, «emigrante/ che veglia chiuso nelle sue coperte» (Ho fiori e di notte invito i pioppi, voce inconfondibile e fedele a sé stessa.

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Epigrafe per i partigiani di Valenza

Questa pietra
ricorda i Partigiani di Valenza
e quelli che lottarono nella sua terra,
caduti in combattimento, fucilati, assassinati
da tedeschi e gregari di provvisorie milizie italiane.
Il loro numero è grande.
Qui li contiamo uno per uno teneramente
chiamandoli con nomi giovani
per ogni tempo.
Non maledire, eterno straniero nella tua patria,
e tu saluta, amico della libertà.
Il loro sangue è ancora fresco, silenzioso
il suo frutto.
Gli eroi sono diventati uomini: fortuna
per la civiltà. Di questi uomini
non resti mai povera l’Italia.

(da La terra impareggiabile,1958)










19 gennaio 1944

Ti leggo dolci versi d'un antico,
e le parole nate fra le vigne,
le tende, in riva ai fiumi delle terre
dell'est, come ora ricadono lugubri
e desolate in questa profondissima
notte di guerra, in cui nessuno corre
il cielo degli angeli di morte,
e s'ode il vento con rombo di crollo
se scuote le lamiere che qui in alto
dividono le logge, e la malinconia
sale dei cani che urlano dagli orti
ai colpi di moschetto delle ronde
per la vie deserte. Qualcuno vive.
Forse qualcuno vive. Ma noi, qui,
chiusi in ascolto dell'antica voce,
cerchiamo un segno che superi la vita,
l'oscuro sortilegio della terra,
dove anche fra le tombe di macerie
l'erba maligna solleva il suo fiore.

(da Giorno dopo giorno, 1947)


Ai fratelli Cervi, alla loro Italia

Ai fratelli Cervi, alla loro Italia
In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo

in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d'uomini e d'alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d'antiche meditazioni.

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d'amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell'isola lontana. E il ramo d'ulivo è sempre ardente.

Anche qui dividono in sogni la natura..
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d'amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.

Nel mio cuore finì la loro stona
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell'arsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.

==>SEGUE






Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.

Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.

(da Il falso e vero verde, 1954)


Le morte chitarre

La mia terra è sui fiumi stretta al mare,
non altro luogo ha voce così lenta

dove i miei piedi vagano
tra giunchi pesanti di lumache.

Certo è autunno: nel vento a brani
le morte chitarre sollevano le corde
su la bocca nera e una mano agita le dita
di fuoco.
Nello specchio della luna
si pettinano fanciulle col petto d'arance.
Chi piange? Chi frusta i cavalli nell'aria
rossa? Ci fermeremo a questa riva
lungo le catene d'erba e tu amore
non portarmi davanti a quello specchio
infinito: vi si guardano dentro ragazzi
che cantano e alberi altissimi e acque.
Chi piange? lo no, credimi: sui fiumi
corrono esasperati schiocchi d'una frusta,
i cavalli cupi i lampi di zolfo.
lo no, la mia razza ha coltelli
che ardono e lune e ferite che bruciano.

(Da Il falso e il vero verde, 1954)




Epigrafe per i caduti di Marzabotto

Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e  dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.

(da Il falso e vero verde, 1954)

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

(da Ed é subito sera, 1942)


Rifugio d'uccelli notturni

In alto c'è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l'abisso
col fusto piegato a balestra?
Rifugio d'uccelli notturni,
nell'ora più alta risuona
d'un battere d'ali veloce.
Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.

(da Acque e terre, 1930)

Nostalgia e Rimpianto

Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.

Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre bette il piede dei cavalli!

(da Nuove Poesie, 1942)
Al padre

Dove sull'acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie  tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da tre giorni, è dicembre d'uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele disseccate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
Quel rosso sul tuo capo era una mitria,
una corona  con le ali d'aquila.
E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d'Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo

==>SEGUE


cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
«Baciamu li mani». Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

(da La terra impareggiabile, 1958)

S'ode ancora il mare

Già da più notti s'ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d'una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d'uccelli dalle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m'eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un'eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.

(da Giorno dopo giorno, 1947)

Ride la gazza

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna !
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
o per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavallo, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.

(da Nuove Poesie, 1942)




Alla nuova luna

In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò.

Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
Parafrasi della poesia

Dio, nel suo primo giorno, creò il cielo
e la terra, poi nel giorno prestabilito
pose le stelle nel cielo
e al settimo giorno si riposò.

L’uomo, che Dio aveva fatto
a sua immagine e somiglianza,
dopo miliardi di anni,
con un’attività indefessa
con la sua intelligenza laica,
pose nel cielo sereno
di una sera d’ottobre,
senza nessun timore reverenziale verso DIO,
un nuovo satellite che girava
allo stesso modo degli altri astri naturali
che già giravano fin dalla creazione del mondo. Amen.

(da Terra impareggiabile, 1958)





Lamento per il Sud


La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve...
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d'acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d'inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d'amore senza amore.

(da La vita non è un sogno, 1949)


Ora che sale il giorno

Ora che sale il giorno
finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontanta della luna,
ora che sale il giorno '
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!

(da Nuove Poesie, 1942)

Isola
(io non ho che te,
cuore della mia razza)
    Di te amore m'attrista,
    mia terra, se oscuri profumi
    perde la sera d'aranci,
    o d'oleandri, sereno,
    cammina con rose il torrente
    che quasi n'è tocca la foce.

    Ma se torno a tue rive
    e dolce voce al canto
    chiama da strada timorosa
    non so se infanzia o amore,
    ansia d'altri cieli mi volge,
    e mi nascondo nelle perdute cose.

(da Nuove Poesie, 1942)

Sotto il capo...

Sotto il capo incrociavo le mie mani
e ricordavo i ritorni
odore di frutta che secca sui graticci,
di violaciocca, di zenzero, di spigo.

(da Nuove Poesie, 1942)
E la strada mi dava le canzoni...

E la strada mi dava le canzoni,
che sanno di grano che gonfia nelle spighe,
del fiore che imbianca gli uliveti
tra l'azzurro del lino e le giunchiglie;
risonanze nei vortici di polvere,
cantilene d'uomini e cigolìo di traini
con le lanterne che oscillano sparute
ed hanno appena il chiaro di una lucciola


Ho dimenticato il mare

Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carruo trema nel fumo delle stoppie
ho dimenticato il passo degli aironi, delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre i fiumi della Lombardia.


Estate

Cicale, sorelle, nel sole
con voi mi nascondo
nel folto dei pioppi
e aspetto le stelle..


Finita è la notte

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel silenzio,
tramonta nei canali.

È così vivo settembre in questa terra di pianura,
i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.

Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura
per restare solo a ricordati.

Come sei più lontana della luna
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli.



Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

(da Giorno dopo giorno, 1947)


Aprile

E già sulla muraglia dello stadio,
tra gli spacchi e i ciuffi d'erba pensile,
le lucertole guizzano fulminee;
e la rana ritorna nelle rogge.


Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta
E` morta: s`è udito l`ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l`usignolo
è caduto dall'antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, cosi` rossi, cosi` gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

(da Giorno dopo giorno, 1947)



Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul declivio
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.

(da Acque e terre, 1930)

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t'ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero,
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

(da Giorno dopo giorno, 1947)



Il mio paese è l'Italia

Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

(da La vita non è un sogno, 1949)


Colore di pioggia e di ferro

Dicevi:morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita. Parole delle nostre
provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.

(da La vita non è un sogno,1949)
Già  la pioggia è con noi
Già la pioggia è con noi,
scuote l'aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci:
il fieno odora oltre i recinti degli orti.

(da Nuove Poesie, 1942)

Le gemme

Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa...
E' tutto mi sa di miracolo.

(da Nuove Poesie, 1942)
VICOLO

    Mi richiama talvolta la tua voce,
    e non so che cieli ed acque
    mi si svegliano dentro:
    una rete di sole che si smaglia
    sui tuoi muri ch’erano a sera
    un dondolio di lampade
    dalle botteghe tarde
    piene di vento e di tristezza.

    Altro tempo: un telaio batteva nel cortile
    E s’udiva la notte un pianto
    Di cuccioli e di bambini.

    Vicolo: una croce di case
    Che si chiamano piano,
    e non sanno ch’ è paura
    di restare sole nel buio.

(da Acque e terre, 1930)










Imitazione della gioia

Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l'ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.

Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.

(da Nuove Poesie, 1942)

Natale

Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l'asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v'è pace nel cuore dell'uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

(da Nuove Poesie, 1942)



Ai quindici di Piazzale Loreto

Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano :
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

(da Il falso e vero verde, 1954)


Poesia d'amore

Il vento vacilla esaltato e porta
foglie sugli alberi del Parco,
l'erba è già intorno
alle mura del Castello, i barconi
di sabbia filano sul Naviglio Grande.
Irritante, scardinato, è un giorno
che torna dal gelo come un altro,
procede, vuole. Ma ci sei tu e non hai limiti:
violenta allora l'immobile morte
e prepara il nostro letto di vivi.

(da Dare e avere,1966)






Il silenzio non m'inganna

Distorto il battito
della campana di San Simpliciano
si raccoglie sui vetri della mia finestra.
Il suono non ha eco, prende un cerchio
trasparente, mi ricorda il mio nome.
Scrivo parole e analogie, tento
di tracciare un rapporto possibile
tra vita e morte. Il presente è fuori di me
e non potrà contenermi che in parte.
Il silenzio non m'inganna, la formula
è astratta. Ciò che deve venire è qui,
e se non fosse per te, amore,
il futuro avrebbe già quell'eco
che non voglio ascoltare e che vibra
sicuro come un insetto della terra.

(da Dare e avere, 1966)


Balestrieri toscani

Vestiti di broccati vivaci i balestrieri
nella piazza della città toscana,
senza tamburi vittoriosi,
tentano la sorte di colpire un centro
con una freccia medievale. I ragazzi
tendono con forza la corda della balestra
e lanciano le armi con ansia di amanti.
Rapidi ripetono il sortilegio.
Ero con te, amore, i colpi
sul bersaglio, nello stacco
della luce meridiana, la noia
dell'attesa per quei servi dell'antica
guerra, ci dissero che l'uomo non muore,
è un soldato d'amore della vittoria continua.

(da Dare e avere, 1966)





Mi chiedi parole

Mi chiedi parole. Ma il tempo
precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe
da offrire se non quelle silenziose
del sangue legate al tuo nome,
o mia vita, mio amore senza fine.

(postuma)


Che breve notte

Che breve notte, amore. Un raggio
di luce è già sulla tua fronte,
nei tuoi capelli di madonna bizantina:
e dai carrozzoni lungo il fiume
assale antiche radici
la voce dei giovani nomadi, funamboli
di gramo pane e di parole murate nello sdegno.
Riconosco il fanciullo che sul Bosforo di Sicilia
gettava la sua solitudine di isolano
isolato. Ma tu ti svegli, bellissima.
Bruna e bruciante mi svegli
a nuova vertigine; scavato d'ansie e di sangue
mi trascini nel buio, senza memoria.
Qui vivo forse la mia ultima vita.

(postuma)

VENTO A TINDARI.

    Tindari, mite ti so
    Fra larghi colli pensile sull’acque
    Delle isole dolci del dio,
    oggi m’assali
    e ti chini in cuore.

    Salgo vertici aerei precipizi,
    assorto al vento dei pini,
    e la brigata che lieve m’accompagna
    s’allontana nell’aria,
    onda di suoni e amore,
    e tu mi prendi
    da cui male mi trassi
    e paure d’ombre e di silenzi,
    rifugi di dolcezze un tempo assidue
    e morte d’anima

    A te ignota è la terra
    Ove ogni giorno affondo
    E segrete sillabe nutro:
    altra luce ti sfoglia sopra i vetri
    nella veste notturna,
    e gioia non mia riposa
    sul tuo grembo.

    Aspro è l’esilio,
    e la ricerca che chiudevo in te
    d’armonia oggi si muta
    in ansia precoce di morire;
    e ogni amore è schermo alla tristezza,
    tacito passo al buio
    dove mi hai posto
    amaro pane a rompere.

    Tindari serena torna;
    soave amico mi desta
    che mi sporga nel cielo da una rupe
    e io fingo timore a chi non sa
    che vento profondo m’ha cercato.

(da Acque e terre, 1930)






Sera nella valle di Masino

Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Non udrò fragore ancora del mare
lungo i lidi dell’infanzia omerica
il libeccio sull’isole
funebre a luna meridiana…

(da Ed é subito sera, 1942)



Visibile, invisibile

Visibile, invisibile
il carrettiere all’orizzonte
nelle braccia della strada chiama
risponde alla voce delle isole.
Anch’io non vado alla deriva,
intorno rulla il mondo, leggo
la mia storia come guardia di notte
le ore delle piogge. Il segreto ha margini
felici, stratagemmi, attrazioni difficili.
La mia vita, abitanti crudeli e sorridenti
delle mie vie, dei miei paesaggi,
è senza maniglie alle porte.
Non mi preparo alla morte,
so il principio delle cose,
la fine è una superficie dove viaggia
l’invasore della mia ombra.
Io non conosco le ombre.

(da La terra impareggiabile, 1958)









Ancora dell’inferno

Non ci direte una notte gridando
dai megafoni, una notte
di zagare, di nascite, d’amori
appena cominciati, che l’idrogeno
in nome del diritto brucia
la terra. Gli animali i boschi fondono
nell’Arca della distruzione, il fuoco
è un vischio sui crani dei cavalli,
negli occhi umani. Poi a noi morti
voi morti direte nuove tavole
della legge. Nell’antico linguaggio
altri segni, profili di pugnali.
Balbetterà qualcuno sulle scorie,
inventerà tutto ancora
o nulla nella sorte uniforme,
il mormorio delle correnti, il crepitare
della luce. Non la speranza
direte voi morti alla nostra morte
negli imbuti di fanchiglia bollente,
qui nell’inferno.

(da La terra impareggiabile, 1958)















ANNO DOMINI MCMXLVII.

Avete finito di battere i tamburi
A cadenza di morte su tutti gli orizzonti
Dietro le bare strette alle bandiere,
di rendere piaghe e lacrime a pietà
nelle città distrutte, rovina su rovina.
E più nessuno grida: «Mio Dio
Perché mi hai lasciato?». E non scorre più latte
Né sangue dal petto forato. E ora
Che avete nascosto i cannoni fra le magnolie,
lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba
al rumore dell’acqua in movimento,
delle foglie di canna fresche tra i capelli
mentre abbracciamo la donna che ci ama.
Che non suoni di colpo avanti notte
L’ora del coprifuoco. Un giorno, un solo
Giorno per noi, padroni della terra,
prima che rulli ancora l’aria e il ferro
e una scheggia ci bruci in piena fronte.

(da La vita non è un sogno,1949)










OGGI VENTUNO MARZO

Oggi ventuno marzo entra l’Ariete
nell'equinozio e picchia la sua
testa maschia contro alberi e rocce,
e tu amore stacchi
ai suoi colpi il vento d’inverno
dal tuo orecchio inclinato
sull'ultima mia parola. Galleggia
la prima schiuma sulle piante, pallida
quasi verde e non rifiuta
l’avvertimento. E la notizia corre
ai gabbiani che s’incontrano
fra gli arcobaleni: spuntano
scrosciando il loro linguaggio
di spruzzi che rintoccano
nelle grotte. Tu copri il loro grido
al mio fianco, apri il ponte
fra noi e le raffiche
che la natura prepara sottoterra
in un lampo privo di saggezza,
oltrepassi la spinta dei germogli.
Ora la primavera non ci basta.

(da La terra impareggiabile, 1958)













Una sera, la neve

Di te lontano dietro una porta
chiusa odo anèorail pianto d'animale:
cosl negli alti paesi al vento della neve ...
ulula l'aria fra i chiusi dei pastori.

Breve gioco avverso alla memoria:
la neve è qUi discesa e rode
i tetti, gonfia gli archi del vecchio Lazzaretto,
e l'arsa precipita rossa fra le nebbie.

Dove l'anca colore dei miei fiumi,
la fronte della luna dentro l'estate
densa di vespe assassinate? Resta il lutto
della tua voce umiliata nel buio delle spalle
che lamenta la mia assenza.

(da Ed é subito sera, 1942)








Piazza Fontana

Non a me più il vento fra i capelli
caro dilunga, e delusa è la fronte:
inclina il capo docile ai fanciulli
sulla piazza, agli alberi rossi in curva.

Con umana dolcezza
autunno mi consuma. E questa furia
d'ultimi uccelli estivi sulle mura
della Curia ha il grigio dei portali,
dura nell'aria e dentro il mio
quieto stormire.

Risento
il monotono ridere senile
dei migranti acquatici,
lo scroscio improvviso di colombe
che divise la sera e a noi il saluto
a riva di Hautecombe.

Esatto quel tempo s'umilia nei simboli,
e anche questo, vivo alla sua morte.

Se ne va il mio dominio da te; rapido
muta: cosi contro il vento nero
delle finestre, l'acqua della fontana
in pioggia leggera.

(da Ed é subito sera, 1942)


Epitaffio per Bice Donetti
Con gli occhi alla pioggia e agli elfi della
notte, è là, nel campo quindici a Musocco,
la donna emiliana da me amata nel
tempo triste della giovinezza.
Da poco fu giocata dalla morte
mentre guardava quieta il vento dell'autunno
scrollare i rami dei platani e le foglie
dalla grigia casa di periferia.
Il suo volto è ancora vivo di sorpresa,
come fu certo nell'infanzia, fulminato
per il mangiatore di fuoco alto sul carro.
O tu che passi, spinto da altri morti,
davanti alla fossa undici sessanta,
fermati un minuto a salutare quella
che non si dolse mai dell'uomo che
qui rimane, odiato, coi suoi versi,
uno come tanti, operaio di sogni.

(da La vita non è un sogno,1949)


Nuova primavera

Io già sento la primavera
che si avvicina coi suoi fiori.



Un'anticchissima primavera

Già sulle rive del fiume ritornano i cavalli,
gli uccelli di plude scendono dal cielo,
dalle cime dei monti
si libera azzurra fredda l'acqua e la vite
fiorisce e la verde canna spunta.
Già nelle valli risuonano
canti di primavera.

SALVATORE QUASIMODO  POESIE VARIE




Dalla natura deforme la foglia

Dalla natura deforme la foglia
simmetrica fugge, l'àncora più
non la tiene. Già l'inverno, non inverno,
fuma un falò presso il Naviglio.
Qualcuno può tradire
a quel fuoco di notte, può negare
per tre volte la terra. Com'è forte
la presa, se qui da anni, che anni, guardi
le stelle sporche a galla nei canali
senza ripugnanza, se ami qualcuno
della terra, se scricchiola
il legno fresco e arde la geometria
della foglia corrugata scaldandoti.

(da La terra impareggiabile, 1958)



I soldati piangono di notte

Né la Croce né l’infanzia bastano,
il martello del Golgota, l’angelica
memoria a schiantare la guerra.
I soldati piangono di notte
prima di morire, sono forti, cadono
ai piedi di parole imparate
sotto le armi della vita.
Numeri amanti, soldati,
anonimi scrosci di lacrime.

(da La terra impareggiabile, 1958)



Un arco aperto

La sera si frantuma nella terra
con tuono di fumo e l’assiolo
batte il tu, dice solo
il silenzio. Le isole alte, scure
schiacciano il mare, sulla spiaggia
la notte entra nelle conchiglie.
E tu misuri il futuro, il principio
che non rimane, dividi con lenta
frattura la somma di un tempo già assente.
Come la schiuma s’avvinghia
ai sassi, perdi il senso dello scorrere
impassibile della distruzione.
Non sa la morte mentre muore
il canto chiuso del chiù, tenta intorno
la sua caccia d’amore, continua
un arco aperto, rivela la sua
solitudine. Qualcuno verrà.

Un gesto o un nome dello spirito
Vita pirata, hai alzato il gran pavese
entrando nel mio mare a disperdere
insanguinare, sotto il filo della tua ascia
tambureggiante, speranze,
identità tra sogno e giorno
visibile. E spari la cavalletta
dei papaveri e il ghiro appeso ai faggi,
lo strumento a corda e la lira a lamina
vocale degli aedi, ma non i miti
protettori dei pensieri. E l’amore
cortese fu a lungo pronunce, arbìtri
rozzi, furori. Io vedo da una collina
di tufo e di conchiglie, e ronda il mare,
il mio sguardo infantile di rancore.
Mi hai strappato ogni primogenitura
bivaccando sotto la mia anima.

==>SEGUE

Ma se anche tu avessi dato un saluto
d’incontro felice col tuo segnale
alle mie pietre, agli animali, agli alberi,
non una parola interna avrei mutato
del mio ieri o futuro. Nemmeno tu
decidi un gesto o un nome dello spirito,
grossolano pirata
di saggezza, inesauribile follia.

(da La terra impareggiabile, 1958)








Altra risposta

Ma che volete pidocchi di Cristo?
Non accade nulla nel mondo e l’uomo
stringe ancora la pioggia nelle sue ali
di corvo e grida amore e dissonanza.
Per voi non manca sangue
dall’eternità. Soltanto la pecora
si torse al suo ritorno con la testa
brulla e l’occhio di sale.
Ma non accade nulla. E già è muschio
la cronaca ai muri della città
d’un arcipelago lontano.

(da La terra impareggiabile, 1958)


Che vuoi, pastore d'aria

Ed è ancora il richiamo dell'antico
corno dei pastori, aspro sui fossati
bianchi di scorze di serpenti. Forse
dà fiato dai pianori d'Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva. O da che terra il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce che già crolla; che vuoi,
pastore d'aria? Forse chiami i morti.
Tu con me non odi, confusa al mare
dal riverbero, attenta al grido basso
dei pescatori che alzano le reti.

(da Nuove Poesie, 1942)

Sillabe a Erato

A te piega il cuore in solitudine,
esilio d'oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
ora è sepolto nella notte.

Semicerchi d'aria ti splendono
sul volto; ecco m'appari
nel tempo che prima ansia accora
e mi fai bianco, tarda la bocca
a luce di sorriso.

Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.

(da Nuove Poesie, 1942)




Angeli

Perduta ogni dolcezza in te di vita,
il sogno esalti; ignota riva incontro
ti venga avanti giorno
a cui tranquille acque muovono appena
folte d'angeli di verdi alberi in cerchio.

Infinito ti sia; che superi ogni ora
nel tempo che parve eterna,
riso di giovinezza, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.

(da Ed é subito sera, 1942)





Neve

Scende la sera: ancora ci lasciate,
o immagini care della terra, alberi,
animali, povera gente chiusa
dentro i mantelli dei soldati, madri
dal ventre inaridito dalle lacrime.
E la neve ci illumina dai prati
come luna. Oh, questi morti. Battete
sulla fronte, battete fino al cuore.
Che urli almeno qualcuno nel silenzio,
in questo cerchio bianco di sepolti.

(da Giorno dopo giorno, 1947)




IL MURO

Contro di te alzano un muro
in silenzio, pietra e calce pietra e odio,
ogni giorno da zone piu’ elevate
calano il filo a piombo. I muratori
sono tutti uguali, piccoli, scuri
in faccia, maliziosi. Sopra il muro
segnano giudizi sui doveri
del mondo, e se la pioggia li cancella
li riscrivono, ancora con geometrie
piu’ ampie. Ogni tanto qualcuno precipita
dall’impalcatura e subito un altro
corre al suo posto. Non vestono tute
azzurre e parlano un gergo allusivo.
Alto e’ il muro di roccia,
nei buchi delle travi ora s’infilano
gechi e scorpioni, pendono erbe nere.
L’oscura difesa verticale evita
da un orizzonte solo i meridiani
della terra, e il cielo non lo copre.
Di la’ da questo schermo
tu non chiedi grazia ne’ confusione.

(da La terra impareggiabile, 1958)


IN QUESTA CITTA’

In questa citta’ c’e’ pure la macchina
che stritola i sogni: con un gettone
vivo, un piccolo disco di dolore
sei subito di la’, su questa terra,
ignoto in mezzo ad ombre deliranti
su alghe di fosforo funghi di fumo:
una giostra di mostri
che gira su conchiglie
che si spezzano putride sonando.
E’ in un bar d’angolo laggiu’ alla svolta
dei platani, qui nella metropoli
o altrove. Su, gia’ scatta la manopola.

(da La terra impareggiabile, 1958)


Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
FINE
Ora l'autunno

Ora l'autunno guasta il verde ai colli,
o miei dolci animali. Ancora udremo,
prima di notte, l'ultimo lamento
degli uccelli, il richiamo della grigia
pianura che va incontro a quel rumore
alto di mare. E l'odore di legno
alla pioggia, l'odore delle tane,
comè vivo qui fra le case,
fra gli uomini, o miei dolci animali...
Questo volto che gira gli occhi lenti,
questa mano che segna il cielo dove
romba un tuono, sono vostri, o miei lupi,
mie volpi bruciate dal sangue.
Ogni mano, ogni volto, sono vostri.
Tu mi dici che tutto è stato vano,
la vita, i giorno corrosi da un’acqua
assidua, mentre sale dai giardini
un canto di fanciulli. Ora lontani,
dunque, da noi? Ma cedono nell’aria
come ombre appena. Questa la tua voce.
Ma forse io so che tutto non è stato.


Lettera alla madre

«Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo.
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m 'ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio mia dulcissima mater»

(da La vita non è un sogno,1949)
Cavalli di luna e di vulcani

Isole che ho abitato
verdi su mari immobili.

D'alghe arse, di fossili marini
le spiagge ove corrono in amore
cavalli di luna e di vulcani.

Nel tempo delle frane
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;

le colombe volano
dalle spalle nude dei fanciulli.

Qui finita è la terra:
con fatica e con sangue
mi faccio una prigione.

Per te dovrò gettarmi
ai piedi dei potenti,
addolcire il mio cuore di predone.

Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio
infante a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi:

ivi la latomia d'arancio greco
feconda per gli imenei dei numi.

(da Ed é subito sera, 1942)



Con una fronda di mirto

Con una fronda di mirto giocava
ed una fresca rosa;

e la sua chioma
le ombrava lieve e gli omeri e le spalle.




Tu Chiami Una Vita

Fatica d'amore, tristezza,
tu chiami una vita
che dentro, profonda, ha nomi
di cieli e giardini.

E fosse mia carne
che il dono di male trasforma.



Vicino a una torre saracena, per il fratello morto

Io stavo ad una chiara
conchiglia del mio mare
e nel suono lontano udivo cuori
crescere con me, battere
uguale età. Di dèi o di bestie, timidi
o diavoli: favole avverse della
mente. Forse le attente
morse delle tagliole
cupe per volpi lupi
iene, sotto la luna a vela lacera,
scattarono per noi,
cuori di viole delicate, cuori
di fiori irti. O non dovevano crescere
e scendere dal suono: il tuono tetro
su dall'arcobaleno d'aria e pietra,
all'orecchio del mare rombava una
infanzia errata, eredità di sogni
a rovescio, alla terra di misure
astratte, ove ogni cosa
è più forte dell'uomo.

(da Il falso e vero verde, 1954)


La conchiglia marina

O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.




Quasi un madrigale

Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo
occhio in rovina e l'aria dell'estate
s'addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S'allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.

Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull'argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l'acqua, i primi rami dentro
il suo colore verde che s'oscura.
E l'uomo che in silenzio s'avvicina
non nasconde un coltello fra le mani,
ma un fiore di geranio.

(da La vita non è un sogno, 1949)



Voglio pensare al cuore che hai mentre danzi

…voglio pensare al cuore che hai mentre danzi,
e scavi le braccia e il capo sollevi come a donarti intera all’aria.
Quel cuore io cerco;
con esso raggiungerai il gesto preciso che ti farà alta nell’arte che ami,
e per la quale, come me, consumi ogni fuoco.
Ma come sei distante nel tempo!
Mi pare talvolta, e lo temo fino all’angoscia nella mia solitudine di uomo,
che tu possa scomparire come sei apparsa improvvisamente quella sera
con un po’ di fuoco nei capelli e sulla fronte.
Penso anche che andrai ora dove non posso vederti, ancora più distaccata da me.
La memoria mi aiuterà a soffrire ancor più;
perché in fondo noi siamo della razza di coloro
che hanno per legge questa assidua pena di cercare armonia
conquistando il dolore.




Giorno dopo giorno

Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue
e l'oro. Vi riconosco, miei simili, o mostri
della terra. Al vostro morso è caduta la pietà,
e la croce gentile ci ha lasciati.
E piú non posso tornare nel mio eliso.
Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati,
ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi.
Con noi la morte ha piú volte giocato:
s'udiva nell'aria un battere monotono di foglie,
come nella brughiera se al vento di scirocco
la folaga palustre sale sulla nube.

(da Giorno dopo giorno, 1947)



Sulle rive del Lambro

Illeso spari da noi quel giorno
nell'acqua coi velieri capovolti.
Ci lasciarono i pini,
parvenza di fumo sulle case,
e la marina in festa
con voce alle bandiere
di piccoli cavalli.

Nel sereno colore
che qui risale a morte della luna
e affila i colli di Brianza,
tu ancora vaga movendo
hai pause di foglia.

Le api secche di miele
leggere salgono con le spoglie dei grani,
già mutano luce le Vergilie.

Al fiume che solleva ora in un tonfo
di ruota il vuoto della valle,
si rinnova l'infanzia giocata coi sessi.

Mi abbandono al suo sangue
lucente sulla fronte,
alla sua voce in servitú di dolore
huuesta nel silenzio del petto.
putto che tni resta è già perduto:

Nel nord della mia isola e nell'est
e un vento portato dalle pietre
ad acque amate: a primavera
apre le tombe degli Svevi;
i re d'oro si vestono di fiori.

==>SEGUE
Apparenza d'eterno alla pietà
un ordine perdura nelle cose
che ricorda l'esilio
Sul ciglio della frana
èsita il macigno per sempre,
la radice resiste ai denti della talpa.
E dentro la mia sera uccelli
odorosi di arancia oscillano
sugli eucalyptus.

Qui autunno è ancora nel midollo
delle piante; ma covano i sassi
nell'alvo di terra che li tiene;
e lunghi fiori bucano le siepi.
Non ricorda ribrezzo ora il tepore
quasi umano di corolle pelose.

(da Nuove Poesie, 1942)


Un’anfora di rame

Le spine dei fichidindia
sulla siepe, il tuo corpetto strappato
appena azzurro e nuovo, un dolore
al centro del cuore scavato,
forse a Lentini vicino la palude
di Iacopo notaio d’anguille
e d’amori. Che cosa racconta
la terra, il fischio dei merli
nascosti nel meriggio affamato
di frutta dura di semi
viola e ocra. I tuoi capelli
sulle orecchie in tempesta
che non si svegliano ora, capelli
d’acquarello, di colore perduto.
Un’anfora di rame su una porta
luccica di gocce d’acqua
e fili rossi d’erba.

(da La terra impareggiabile, 1958)







ISOLA DI ULISSE

Ferma e’ l’antica voce.
Odo risonanze effimere,
oblio di piena notte
nell’acqua stellata.

Dal fuoco celeste
nasce l’isola di Ulisse.
Fiumi lenti portano alberi e cieli
nel rombo di rive lunari.

Le api, amata, ci recano l’oro:
tempo delle mutazioni, segreto.

(da Erato e Apòllion, 1936)



Quasi un epigramma

Il contorsionista nel bar, melanconico
e zingaro, si alza di colpo
da un angolo e invita a un rapido
spettacolo. Si toglie la giacca
e nel maglione rosso curva la schiena
a rovescio e afferra come un cane
un fazzoletto sporco
con la bocca. Ripete per due volte
il ponte scamiciato e poi s'inchina
col suo piatto di plastica. Augura
con gli occhi di furetto
un bel colpo alla Sisal e scompare.
La civiltà dell'atomo è al suo vertice.

(da La terra impareggiabile, 1958)





MICENE

Sulla strada di Micene alberata
di eucalyptus puoi trovare fromaggio
di pecora e vino resinato “Á la belle
Hélène de Ménélas”, un’osteria
che svia il pensiero dal sangue
degli Atridi. La tua reggia, Agamennone,
è covo di briganti sotto il monte
Zara di sasso non scalfito
da radici a strapiombo su burroni
sghembi. I poeti parlano molto
di te, dell’invenzione del delitto
nella tua casa di crisi,
del furore funebre di Elettra,
che nutri per dieci anni con l’occhio
del sesso il fratello lontano
al matricidio, parlano i diabolici
della logica della regina,
la moglie del soldato assente
Agamennone, mente, spada tradita.
E tu solo ti sei perduto,
Oreste, il tuo viso scomparve senza
maschera d’oro. Ai Leoni della porta,
agli scheletri dell’armonia scenica
rialzati dai filologi delle pietre,
il mio saluto di siculo greco.

(da La terra impareggiabile, 1958)





Seguendo l’Alfeo

….Io non cerco che dissonanze Alfeo,
qualcosa di più della perfezione.
…. Non un luogo dell’infanzia cerco,
e seguendo sottomare il fiume,
già prima della foce di Aretusa,
annodare la corda spezzata dell’arrivo

(da La terra impareggiabile, 1958)




Minotauro a Cnosso

I giovani di Creta avevano vita
sottile e fianchi rotondi. Il Minotauro
mugghiava nel Labirinto anche per loro.
Sapienza, Arianna, dei sensi di Pasifae
che schiumò immagini bestiali col toro
scattato come Venere dal mare.
Ma l'arte, gli arnesi dell'uomo, i segni
raffinati d'una vita civile
sono vostri, cretesi, non c'è morte.
Ma non c'è più nessuno che accoltella
il mostro a Cnosso, e nel mercato
d'Hiràklion confuso e sporco d'Oriente
non c'è nulla che assomigli
alla Grecia di prima della Grecia

(da La terra impareggiabile, 1958)






Alla Liguria

Sulle tue montagne, nella ruota
di giovinezza, ho costruito una strada,
in alto tra i castagni;
gli sterratori sollevavano macigni
e stanavano vipere a grappoli.
Era l’estate degli usignoli
meridiani, delle terre bianche,
della focce del fiume Roja.
Scrivevo versi della più oscura
materia delle cose,
volendo mutare la distruzione,
cercando amore e saggezza
nella solitudine delle tue foglie sole.
E franava la montagna e l’estate.
Anche lungo il mare
avara in Liguria è la terra,
come misurato è il gesto
di chi nasce sulle pietre
delle sue rive. Ma se il ligure
alza una mano,
la muove in segno di giustizia.
Carico della pazienza
di tutto il tempo della sua tristezza.
E sempre il navigatore
spinge lontano il mare
dalle sue case per crescere la terra
al suo passo di figlio delle acque.

(da Dare e avere, 1966)



Basta un giorno a equillibrare il mondo

L’intelligenza, la morte, il sogno
negano la speranza. In questa notte
a Brasov nei Carpazi, fra alberi
non miei cerco nel tempo
una donna d’amore. L’afa spacca
le foglie dei pioppi e io
mi dico parole che non conosco,
rovescio terre di memoria.
Un jazz buio, canzoni italiane
passano capovolte sul colore degli iris.
Nello scroscio delle fontane
s’è perduta la tua voce:
basta un giorno a equilibrare il mondo.

(da Dare e avere, 1966)



DARE E AVERE

Nulla mi dài, non dài nulla
tu che mi ascolti. Il sangue
delle guerre s'è asciugato,
il disprezzo è un desiderio puro
e non provoca un gesto
da un pensiero umano,
fuori dall'ora della pietà.
Dare e avere. Nella mia voce
c'è almeno un segno
di geometria viva,
nella tua, una conchiglia
morta con lamenti funebri.

(da Dare e avere, 1966)







HO FIORI e di NOTTE INVITO i PIOPPI

La mia ombra è su un altro muro
d'ospedale. Ho fiori e di notte
invito i pioppi e i platani del parco,
alberi di foglie cadute, non gialle,
quasi bianche. Le monache irlandesi
non parlano mai di morte, sembrano
mosse dal vento, non si meravigliano
di essere giovani e gentili: un voto
che si libera nelle preghiere aspre.
Mi sembra di essere un emigrante
che veglia chiuso nelle sue coperte,
tranquillo, per terra. Forse muoio sempre.
Ma ascolto volentieri le parole della vita
che non ho mai inteso, mi fermo
su lunghe ipotesi. Certo non potrò sfuggire;
sarò fedele alla vita e alla morte
nel corpo e nello spirito
in ogni direzione prevista, visibile.
A intervalli qualcosa mi supera
leggera, un tempo paziente,
l'assurda  differenza che corre
tra la morte e l'illusione
del battere del cuore.

(da Dare e avere,1966)
I Maya a Mérida
La pioggia a Metida cade calda
e scura si Maya, fuori dai portici
con sillabe salmastre. Gente
di pianti millenari,
di ambizione civile. Uomini piccoli
raccolti nelle spalle ondulate.
Stanno davanti alle botteghe
di gelati e di focacce a sentire l'odore
dei grassi fritti tra carte di vecchi
e bucce di frutti tropicali.
rifiutati, ironici o grotteschi
corna le sculture nane
che stanno agli angoli e nei portali
delle chiese romaniche. Non torneranno più
con gli uomini, buttati nell'inerzia
infinita. Mai più; dispersi, piagati,
narrano i loro sogni dormendo su vecchie
panchine di giardini pubblici
dentro le chiese durante la messa, distesi
nei loro stracci liberi. l'America e
la Spagna li guardano in quel Sud marcio
rompersi negli scheletri come dal della morte.

(da Dare e avere,1966)

IL SILENZIO NON M'INGANNA
Distorto il battito
della campana di San Simpliciano
si raccoglie sui vetri della mia finestra.
Il suono non ha eco, prende un cerchio
trasparente, mi ricorda il mio nome.
Scrivo parole e analogie, tento
di tracciare un rapporto possibile
tra vita e morte. Il presente è fuori di me
e non potrà contenermi che in parte.
Il silenzio non m'inganna, la formula
è astratta.Ciò che deve venire è qui,
e se non fosse per te, amore,
il futuro avrebbe già quell'eco
che non voglio ascoltare e che vibra
sicuro come un insetto della terra.

(da Dare e avere,1966)




Impercettibile il tempo

Nel giardino si fa rossa
l'arancia, impercettibile
il tempo danza
sulla sua scorza,
la ruota del mulino si stacca
alla piena dell'acqua
ma continua il suo giro
e avvolge un minuto
al minuto passato
o futuro. Diverso il tempo
sul vortice del frutto;
indeclinabile sul corpo
che riflette la morte,
scivola contorto
chiude la presa
alla mente, scrive
una prova di vita.

(da Dare e avere,1966)


La Chiesa dei negri ad Harlem

La Chiesa dei negri ad Harlem
è il primo piano di una casa e sembra
un atelier. Si entra come per comprare
un feticcio o un ricordo sacro.
Il luogo ha un altare decorato
come certi dolci del Sud, con rotonde
macchie rosse, azzurre, gialle.

(da Dare e avere,1966)

Non ho perduto nulla

Sono ancora qui, il sole gira
alle spalle come un falco e la terra
ripete la mia voce nella tua.
E ricomincia il tempo visibile
nell'occhio che riscopre la luce.
Non ho perduto nulla.
Perdere è andare di là
da un diagramma del cielo
lungo movimenti di sogni, un fiume
pieno di foglie.

(da Dare e avere,1966)


Solo che amore ti colpisca

Non dimenticare che vivi in mezzo agli animali
i cavalli i gatti i topi di fogna
bruni cometa donna di Salomone tremendo
campo a bandiere spiegate,
non dimenticare il cane dalla lingua e la coda
d'armonie dell'irreale né il ramarro il merlo
l'usignolo la vipera il fuco. O ti piace pensare
che vivi fra uomini puri e donne
di virtù che non toccano
l'urlo della rana in amore, verde
come il più verde ramo del sangue.
Gli uccelli ti guardano dagli alberi e le foglie
non ignorano che la Mente è morta
per sempre, la sua reliquia sa di cartilagine
bruciata di plastica corrotta; non dimenticare
di essere abile animale e sinuoso
che violenta torrido e vuote tutto qui
sulla terra prima dell'ultimo grido
quando il corpo è cadenza di memorie accartocciate
e lo spirito sollecita alla fine eterna:
ricorda che puoi essere l'essere dell'essere
solo che amore ti colpisca bene alle viscere.

(da Dare e avere,1966)






Una notte di settembre

“Timor mortis conturbat me”?

Un tamburo cavo tonfa
Nella notte straniera
Su nodi del sangue. Cadono corvi
Fra la neve presi da un piombo
Silenzioso. E di colpo il mio corpo
Sale su un albero d’arancio a picco
Sul mare Jonio. Ma sei qui, alla fine,
non un segno s’incrocia alla resa
dello spirito, solo con te ascolti
i pensieri lontani, gli ultimi
sospesi sotto una volta gotica.
In che luogo ombre sotterranee?
Uguale a sé la morte:
Una porta si apre, si ode un piano
Sul video nella corsia a tende
Di narcotici. Entra nella mente
un dialogo con l’al di là,
di sillabe a spirale che avvolgono
requiem su curve d’ombra;
un sì o un forse involontario.
Non devo confessioni alla terra,
nemmeno a te morte, oltre la tua
porta aperta sul video della vita.


(da Dare e avere,1966)






Varvara Alexandrovna

Un ramo arido di betulle batte
con dentro il verde su una finestra a vortice
di Mosca. Di notte la Siberia stacca il suo vento
lucente sul vetro di schiuma, una trama
di corde astratte nella mente. Sono malato:
sono io che posso morire da un minuto all'altro;
proprio io, Varvàra Alexandrovna, che giri
per le stanze del Botkin con le scarpette di feltro
e gli occhi frettolosi, infermiera della sorte.
Non ho paura della morte
come non ho avuto timore della vita.
O penso che sia un altro qui disteso.
Forse non ricordo amore, pietà, la terra
che sgretola la natura inseparabile, il livido
suono della solitudine, posso
cadere dalla vita.
Scotta la tua mano notturna, Varvàra
Alexandrovna; sono le dita di mia madre
che stringono per lasciare lunga pace
sotto la violenza. Sei la Russia umana
del tempo di Tolstoj o di Majakovschij,
sei la Russia, non un paesaggio di neve
riflesso in uno specchio d'ospedale
sei una moltitudine di mani che cercano altre mani.

(da Dare e avere,1966)