Alla notizia della morte di Sebastiano Satta pastori e banditi, e insieme a loro i contadini, scesero dai monti per accompagnarlo all’ultima dimora. Il poeta fu popolare e amato fra i Sardi contemporanei, che si dilettavano ad ascoltare anche in pubbliche letture i suoi canti, ispirati agli ideali di uguaglianza e di progresso sociale, ai miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), l’amore, le leggende tradizionali, il pastore, il bandito, l’odio, la vendetta, il ribellismo e l’attesa di una palingenesi. Sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, che Satta riproponeva a un nuovo pubblico, ricorrendo alla mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra Otto e Novecento.
Ma, al di là del mito, l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo. Nel succedersi dei giudizi critici sulla poesia di Satta si affacciano di continuo perplessità e riserve riguardo al valore del lavoro sulla lingua poetica da lui compiuto. I toni alti del linguaggio e dello stile, il registro prevalentemente aulico hanno fatto pensare a una piatta imitazione della poesia carducciana e, generalmente, del classicismo ottocentesco, secondo influssi non rielaborati originalmente. In realtà l’operazione poetica compiuta da Satta, se analizzata nelle sue componenti e nelle sue modalità di elaborazione (anche alla luce dei documenti, di recente studiati, sui suoi interessi linguistici), si rivela ricca di implicazioni e tutt’altro che priva di originalità. Per capire i caratteri della poesia sattiana si può prendere l’avvio da un dato ad essa esterno, ma che pure la condiziona fortemente: l’orientamento ideologico democratico e socialista di Satta, con le forti ripercussioni che esso ha non solo sulle tematiche, ma anche sullo stile e sul linguaggio, come del resto avviene in un consistente filone della poesia italiana fra Ottocento e primo Novecento. Già Francesco De Sanctis, nelle sue lezioni su Mazzini e la scuola democratica, aveva rilevato come nella letteratura di orientamento democratico fosse prevalente la disposizione al linguaggio elevato, oratorio, sia per la continuità di quelle tendenze con la tradizione classicistico-giacobina, sia per la forte presenza in esse di intenti di persuasione. Il tono alto, il linguaggio aulico, la disposizione oratoria, il rapportarsi a un complesso di immagini proprie di una tradizione letteraria nobilitata da riferimenti storici e culturali prestigiosi (in particolare il mondo classico) sono caratteri che troviamo nella letteratura democratica per tutto l’Ottocento, ma anche in molta poesia novecentesca. La formazione radicale e l’orientamento socialista di Satta hanno dunque un ruolo importante nel determinare la fisionomia del poeta e la peculiarità del suo linguaggio poetico. Egli risente non solo, in generale, degli influssi del socialismo umanitario italiano, ma anche dei caratteri che assumevano in Sardegna le prime manifestazioni intellettuali del movimento, in cui, salvo rari casi, l’astrattezza delle proposte, il carattere intellettualistico delle elaborazioni erano prevalenti. Eppure la militanza politica di Satta non fu puramente ideale se a Nuoro in quegli anni, rispetto ad altre città sarde, il socialismo ebbe una storia più mossa e se attorno a lui si formò un nucleo di giovani intellettuali progressisti, tra i quali si distinse presto Attilio Deffenu. Nell’evoluzione e maturazione della sua poesia, dalle prime prove (decisamente ricalcate su moduli carducciani e su varie manifestazioni della poesia minore del secondo Ottocento, da Stecchetti a Cavallotti, con tracce anche del realismo alla Betteloni) fino ai componimenti più complessi e originali delle raccolte maggiori, hanno un ruolo importante gli influssi, accolti in modo più duttile rispetto a quei primi riecheggiamenti della lirica italiana dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento. Per esempio, nelle Leggende pastorali o nella stessa ideazione dei Muttos hanno certo influito l’uso che da Severino Ferrari e da Pascoli fu fatto delle forme e dei toni espressivi della poesia popolare; così come nei componimenti di carattere oratorio e celebrativo è evidente l’influsso del D’Annunzio delle Laudi. Tuttavia l’elaborazione di un linguaggio sostenuto, alto, che innesta su un fondo classicistico e carducciano anche l’esperienza della poesia primo-novecentesca, perviene a risultati – pur nella loro discontinuità – assai singolari, anche per la presenza, in quel processo, di un altro fattore: il sempre più vivo interesse manifestato da Satta per la tradizione di poesia sarda, in particolare per quella usualmente definita “semicolta”, e la considerazione del ruolo da essa svolto nella cultura dell’Isola. Sulla base di questa riconsiderazione, l’ideale del poeta-vate mazziniano e carducciano viene a configurarsi anche con i tratti del poeta di quella tradizione, e la formula di Carducci riguardo al linguaggio poetico, che deve essere di intonazione «montata almeno di un grado su la prosa», si incontra con l’aulicità e ilì prestigio di quella poesia – trasmessa in forme prevalentemente orali, concepita quindi per il canto e per l’udito, di impostazione declamata – e ne riceve un’impronta e connotazioni popolari e più autoctone. I riferimenti espliciti ai poeti di quella tradizione, soprattutto nell’ultima fase della parabola di Satta, tornano più volte. Si ripetono gli elogi dei rapsodi sardi (nobilitati attraverso questo termine che li collega alla poesia greca arcaica e a Omero, con suggestioni probabilmente anche dell’omerismo più moderno, soprattutto pascoliano); elogi che descrivono questa figura con accenti fortemente celebrativi. Ma soprattutto il canto a loro dedicato, Ai rapsodi sardi, l’ultimo di Satta, pur enfatico e forse troppo diffuso, offre una serie di elementi e di suggestioni che mi paiono, anche nei loro caratteri contraddittori, rivelatori di alcuni nuclei profondi della personalità poetica di Satta. Alla base del componimento è una spiegata ammirazione per i poeti sardi estemporanei: essi vengono descritti come «aedi erranti» che vanno «per l’antica isola (…) a dispensare larghi il canto / ad ogni cuore: al mietitore affranto / tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi». La loro funzione è quindi quella di rallegrare e alleviare col canto le pene degli uditori: «Il mesto che vi ascolta / si rallegra (…) affanni e pene / dimentica, e si abbevera di gioja»; e il ricordo del canto lo accompagna nel suo cammino: «Ambia col grave ritmo delle ottave». I molti tratti che Satta fornisce disegnano la figura di un poeta consolatore, di una poesia in certo modo positivamente evasiva: «la vostra camena è una fanciulla / bellissima che vien dalla fontana / balda e dolce, la rossa anfora sulla / sua testa (…) Il pellegrino stanco chiede un sorso / per la sua sete, inclina ella la brocca / ròscida, e quegli beve e il cammin corso / oblìa e benedice». Satta tuttavia, senza togliere nulla alla positività di quella funzione, sembra auspicare per questa poesia contenuti più impegnati, considerando anche quale prestigio e potere essa possieda per il suo fascino su vasti strati popolari: «amati e venerati / siete perciò, fratelli, e senza trono / né spada, siete re (…) dinanzi vi sta il coro / e l’ansia turba: chini sull’irsuta / criniera dei cavalli, i mandriani / odon, e voi cantate. Il canto è fede: / e l’anima selvaggia ora vi chiede / se debba amare od odiar domani».
Ed ecco allora l’esortazione: «Ammonitela voi, coi vostri carmi, / o fratelli! (…) la mia terra cantate». E l’elogio di questa poesia è anche celebrazione della lingua in cui si esprime, «l’antico / idïoma del forte Logudoro», di cui vien tracciata la storia nelle sue manifestazioni fondamentali. Sulla base di questo vivo interesse per le forme e i modi della poesia in lingua sarda, l’aver adottato l’italiano, codice diverso da quello sardo, poneva a Satta problemi di non facile soluzione.
Come esprimere e rappresentare la civiltà della sua terra, in un momento di transizione e di crisi, in una lingua come l’italiano, in gran parte estranea? La prima difficoltà consisteva nell’orientarsi in un contesto nazionale che andava diversificandosi anche nel linguaggio poetico, in relazione a esperienze nuove, a realtà e gruppi emergenti, interpreti di esigenze di modernità nei comportamenti, nella mentalità, nel linguaggio poetico. Cantare liricamente i temi e le vicende della realtà sarda si presentava come un compito difficile, perché i codici di questa realtà, presente in Satta come vissuta e nota attraverso le aule del tribunale e l’esperienza sociale quotidiana, interferivano continuamente con le valenze linguistiche ed espressive della lingua poetica italiana. Si trattava di trovare e rielaborare un modello lirico narrativo, che aveva espresso modelli linguistici e letterari altamente elaborati e distanti dai modelli della lingua locale, e far sì che corrispondesse alla natura culturale del vissuto sardo, all’esperienza del mondo barbaricino, con una operazione di commutazione, di ricerca di equivalenze e di riformulazione in un altro codice. Equivalenze e commutazioni difficili, che inducono a soluzioni di compromesso al fine di non stravolgere, rendendolo irriconoscibile, quello specifico etico e culturale cui il poeta intende fare riferimento.
Nella scelta del lessico e nell’adeguamento del verso si avvertono nella poesia di Satta indizi di un preziosismo, ora arcaico ora moderno, non esteriore né superficiale, ma che forza la parola italiana a rendere un’immagine, un’idea, un sentimento finora inespressi, con elementi che conferiscono all’esito poetico del componimento risonanze e suggestioni inconsuete. Quando il poeta affronta tematiche sociali, dove il linguaggio ambisce a una comunicazione più diretta, non obliqua né ambigua, diverso è il trattamento linguistico, che si serve di un vocabolario più prosaico, più vicino all’uso quotidiano. La ricerca del vocabolo raro, arcaico, prezioso, è sostituita dalla parola più precisa e più aderente alla realtà a livello comunicativo; vi domina il verso sciolto e più libero si fa il gioco delle rime e delle strofe. L’apertura al quotidiano, alle movenze e ai toni della lingua popolare è evidente in alcuni titoli (Il palo telegrafico, La cantoniera, Emigranti); e inoltre nelle indicazioni anagrafiche precise – bimbi di dieci anni – o nelle puntualizzazioni cronologiche. Non mancano frammenti dell’oralità di tipo colloquiale, ed espressioni proverbiali e gnomiche, anch’esse dell’oralità, che concentrano una saggezza popolare garante di autorità collettiva, al di là del contingente; e locuzioni proprie dell’uso corrente, specie nei componimenti a struttura dialogico-narrativa, dove è evidente l’intento del poeta di rispettare il linguaggio dei propri personaggi. Né mancano i dialettismi, che danno colore al tessuto e all’immagine poetica, e convivono con vocaboli di diverse regioni italiane diventati d’uso generale. Prevalenti i toscanismi, che riflettono una tendenza toscaneggiante diffusa dopo l’unità d’Italia nelle varie regioni della penisola. Satta si riserva anche uno spazio di sperimentazione linguistica di matrice pascoliana, ma che ha soluzioni originali e adeguate al ritmo e alla tonalità della sua vena poetica. Si tratta di quel settore espressivo agrammaticale e fonico in cui il poeta è interessato a cogliere le valenze sonore della parola, in particolare delle onomatopee e più diffusamente dei vocaboli fonosimbolici che, mentre catturano le immagini sonore di eventi naturali (il vento, la pioggia), di esseri come la pecora, il cavallo, e di oggetti come i sonagli, intensificano il carattere comunicativo ed espressivo della lingua, proprio perché gli effetti di suono richiamano con immediatezza l’immagine e insieme ad essa il significato e le sue amplificazioni simboliche.
Alcune di queste voci risultano nei dizionari d’epoca (Crusca, Fanfani, Tommaseo), altre sono attestate a livello letterario in componimenti di Pascoli e D’Annunzio. Numerose sono le parole che esprimono suoni ed immagini del mondo naturale applicate a esseri umani (le madri «schiomate uggiola[no] sullo
spento focolare»; «di gioia nitrì / mia madre») in una sorta di rapporto ravvicinato che esalta la naturalità umana e attiva una corrispondenza emotiva e vitale tra uomo e natura. Di tipo pascoliano è anche la ricerca del termine preciso per quanto riguarda la flora e la fauna (con particolare predilezione per quella sarda): con questa caratteristica, che spesso accanto al termine d’uso è presente anche la variante rara e preziosa (lentischio, lentisco, sondro; biancospino, prunalbo) o il corrispettivo dialettale, in riferimento soprattutto al mondo animale (l’upupa, sa pupusa; la lumaca, sa croca). Un aspetto vistoso della poesia di Satta è l’uso del colore, legato a un’aggettivazione ad ampia gamma coloristica, talvolta intensificata anche dal ricorso al sostantivo metaforizzato (alabastro, argento, corallo, ecc.).
La lingua di Satta è anche lingua aperta agli influssi e agli apporti di altri codici linguistici, per lo più circoscritti al terreno lessicale: sono presenti francesismi (fenomeno diffuso a vari livelli nella seconda metà dell’Ottocento), molti già acquisiti nella lingua italiana, e ispanismi. Non mancano, sul versante colto del suo linguaggio, espressioni latine e il gusto della citazione, peraltro moderato. Ma a livello espressivo prevale ed è dominante lo sfruttamento del potere evocativo della parola, del ritmo, delle immagini, ottenuto attraverso la commistione e l’oscillazione tra elementi dialettali e italiani, spesso felice e talora forzata. L’aspetto più evidente del lavoro espressivo di Satta si coglie nello sfruttamento del patrimonio linguistico d’appartenenza, in vari settori: toponimi, elementi del paesaggio, della fauna e della flora, espressioni tipiche di gioia o di dolore o simili; nomi di persone, richiami di animali (cani, ecc.), espressioni gnomiche, calchi o voci dialettali che riprendono elementi dell’abbigliamento o oggetti d’uso; l’indicazione di arti e mestieri, nomi di esseri fantastici della tradizione popolare. Il rapporto con il sardo è costituito da un consapevole lavorio di adattamento, risolto in un difficile amalgama espressivo: ne risulta una proposta di lingua poetica italiana immersa nel contesto culturale e linguistico regionale. Questa operazione è sostenuta in particolare dal ricorso ad un espediente stilistico: l’assunzione del punto di vista interno al mondo rappresentato, che porta in primo piano uno o più personaggi, dietro cui si eclissa la voce del poeta; e ciò soprattutto nei componimenti a forte connotazione dialogica. L’operazione poetica di Satta è dunque più ambiziosa e impegnativa di quanto non sia emerso dal dibattito critico che si è sviluppato sulla sua opera. Essa si fa carico di una tradizione ìpoetica regionale, sia sul versante della tradizione in lingua sarda, sia sul versante della produzione in italiano – più modesta e recente, e tuttavia significativa –, per rilanciare, con una coscienza più scaltrita e aperta e meno subalterna, una esperienza poetica che ponga sullo stesso piano i valori di una realtà locale, trascurata ed estranea, e gli strumenti espressivi e tecnici di una tradizione colta, in un momento in cui si tende a dar voce alle culture emergenti che ambiscono ed esigono di avere diritto alla parola nel concerto nazionale.
Quali i risultati effettivi di questo lavoro nella molteplicità di testi prodotti da Satta? È utile tornare all’ideale rappresentato dai rapsodi sardi per capire le ragioni della scelta diversa, linguistica ma anche tematica, compiuta da Satta rispetto alla tradizione autoctona, pure così esaltata in quel componimento. Infatti, pur nella rappresentazione solenne e in positivo dei rapsodi, il poeta, con accenti dolorosi e significativi, dichiara non solo l’impossibilità per lui di identificarsi, ma anche di essere in consonanza con loro: «se all’anime che adoro, / – anime tristi ardenti nel silenzio / come lampe – sonasse nel canoro / accento dei miei padri la canzone / della speranza mia, monda d’assenzio / e pura d’ogni fosca visïone, / anch’io alla pensosa turba assorta / tal inno innalzerei che alle parole / alate (…) si leverebbe l’anima risorta. / Ma fu negato a me questo celeste / dono», quello cioè di poter alleviare «gli acerbi affanni e le funeste / cure col canto».
Mi pare che in questi versi si esprima consapevolmente una condizione contraddittoria, scissa e lacerata, che forse, come dicevo, ci introduce nel cuore della personalità culturale e dell’esperienza poetica di Satta. In maniera abbastanza chiara, è qui espressa la coscienza che la tradizione dei rapsodi, di cui egli aveva evidenziato il carattere sostanzialmente evasivo e consolatorio (pur nei toni celebrativi), non può essere assunta come modello primario da un poeta sardo teso verso la modernità, e pertanto animato da ideali di impegno civile e consapevole delle drammatiche contraddizioni in cui si dibatteva la comunità isolana.
Questa coscienza è il punto d’arrivo di un’evoluzione culturale che è segnata da passaggi fondamentali: la fervida assimilazione di molteplici aspetti della letteratura contemporanea, l’apertura alle esperienze e alle ideologie politiche più innovatrici, provenienti prevalentemente dalla cultura italiana, realizzatesi soprattutto durante il soggiorno sassarese; tali esperienze maturano negli anni nuoresi, per quanto concerne l’aspetto politico, con la partecipazione, soprattutto ideale, al movimento di promozione sociale e di crescita nell’ambito dell’ideologia socialista; e per quanto concerne l’aspetto letterario con l’elaborazione di una poesia che tenta diverse vie, anche intimistiche, ma che principalmente si lega alla tradizione di poesia democratica cui si è sopra accennato.
______________________