CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
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Sebastiano
Satta


CANTI BARBARICINI



NOTTE DI S. SILVESTRO

Un tempo — oh povertà
Che ti pasci di grami desideri! —
Quando tu, Madre, ci crescevi sola
E triste, come l’aquila selvaggia
Che nutre i figli sulla rupe, ed eri
E grande e veneranda a tutti i cuori;

Poiché era scarso il fuoco
Del focolare, e poco,
O nulla, il vino della cena — in nero
Cerchio sedendo, sempre nel silenzio
Noi volgevamo un unico pensiero
Di affanno —, io che nel core
Già mi sentivo ad ogni
Palpito un vol di sogni,
Qual d’api sovra un fiore;

Io già sognavo, o Madre, questa casa
Che a noi sola commise
L’invitta tua virtù,
La casa che tu regni, o Madre buona;
E noi già grandi, e tu
Serena, e noi tuo scudo e tua corona
Di vittoria. Ah non rise
L’antico sogno invano!

Vedi: nel focolare
Arde l’elce ed il selvaggio
Olivo; il vino brilla
Nei nitidi bicchieri; l’alta loggia
S’apre ai miei sogni su l’azzurro incanto
Delle vette e dei piani.
E anch’essa, odi? la pioggia
Non ci piange più il pianto
Di quegli anni lontani.
INTIMA

Mia madre quando mio fratello viaggia
Accende una pia lampada,
Ed io penso: Sul capo amato raggia
Più luce questa lampada

Materna che non Sirio ardente o l’Orsa.
Entro quel raggio un’anima
Segue a notte la prua fragile, morsa
Dalle indomite ràffiche.

E mamma, tutta assorta nel lontano
Figlio, la testa tremula
Reclina, quasi il vol dell’uragano
Senta d’intorno striderle.

Pensa, o buona! già il dì che dai lontani
Lidi la prima lettera
Verrà. Sul breve foglio, tra le mani
Trepide, quante lacrime!

CIMITERO ALPESTRE

Sui recinti di ferro
Stretti dalle vitalbe,
Sulle lapidi scialbe,
Sulle croci di cerro,

Nevica. Un cardellino
Svola plora rivola
Da un nudo biancospino
A una deserta aiuola.

Rabbrividisce al vento
Un gracil crisantemo,
Schiuso a un suo riso estremo
Il calice d’argento.

Su, dalla terra algente,
Fiorisce ultimo fiore,
Come un sogno d’amore
In anima dolente.
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
CANTI
Canti barbaricini
Canti del salto e della tanca
_________

a cura di
Giovanni Pirodda
__________________
Alla notizia della morte di Sebastiano Satta pastori e banditi, e insieme a loro i contadini, scesero dai monti per accompagnarlo all’ultima dimora. Il poeta fu popolare e amato fra i Sardi  contemporanei, che si dilettavano ad ascoltare anche in pubbliche letture i suoi canti, ispirati agli ideali di uguaglianza e di progresso sociale, ai miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), l’amore, le leggende tradizionali, il pastore, il bandito, l’odio, la vendetta, il ribellismo e l’attesa di una palingenesi. Sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, che Satta riproponeva a un nuovo pubblico, ricorrendo alla mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra Otto e Novecento.
Ma, al di là del mito, l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo. Nel succedersi dei giudizi critici sulla poesia di Satta si affacciano di continuo perplessità e riserve riguardo al valore del lavoro sulla lingua poetica da lui compiuto. I toni alti del linguaggio e dello stile, il registro prevalentemente aulico hanno fatto pensare a una piatta imitazione della poesia carducciana e, generalmente, del classicismo ottocentesco, secondo influssi non rielaborati originalmente. In realtà l’operazione poetica compiuta da Satta, se analizzata nelle sue componenti e nelle sue modalità di elaborazione (anche alla luce dei documenti, di recente studiati, sui suoi interessi linguistici), si rivela ricca di implicazioni e tutt’altro che priva di originalità. Per capire i caratteri della poesia sattiana si può prendere l’avvio da un dato ad essa esterno, ma che pure la condiziona fortemente: l’orientamento ideologico democratico e socialista di Satta, con le forti ripercussioni che esso ha non solo sulle tematiche, ma anche sullo stile e sul linguaggio, come del resto avviene in un consistente filone della poesia italiana fra Ottocento e primo Novecento. Già Francesco De Sanctis, nelle sue lezioni su Mazzini e la scuola democratica, aveva rilevato come nella letteratura di orientamento democratico fosse prevalente la disposizione al linguaggio elevato, oratorio, sia per la continuità di quelle tendenze con la tradizione classicistico-giacobina, sia per la forte presenza in esse di intenti di persuasione. Il tono alto, il linguaggio aulico, la disposizione oratoria, il rapportarsi a un complesso di immagini proprie di una tradizione letteraria nobilitata da riferimenti storici e culturali prestigiosi (in particolare il mondo classico) sono caratteri che troviamo nella letteratura democratica per tutto l’Ottocento, ma anche in molta poesia novecentesca. La formazione radicale e l’orientamento socialista di Satta hanno dunque un ruolo importante nel determinare la fisionomia del poeta e la peculiarità del suo linguaggio poetico. Egli risente non solo, in generale, degli influssi del socialismo umanitario italiano, ma anche dei caratteri che assumevano in Sardegna le prime manifestazioni intellettuali del movimento, in cui, salvo rari casi, l’astrattezza delle proposte, il carattere intellettualistico delle elaborazioni erano prevalenti. Eppure la militanza politica di Satta non fu puramente ideale se a Nuoro in quegli anni, rispetto ad altre città sarde, il socialismo ebbe una storia più mossa e se attorno a lui si formò un nucleo di giovani intellettuali progressisti, tra i quali si distinse presto Attilio Deffenu. Nell’evoluzione e maturazione della sua poesia, dalle prime prove (decisamente ricalcate su moduli carducciani e su varie manifestazioni della poesia minore del secondo Ottocento, da Stecchetti a Cavallotti, con tracce anche del realismo alla Betteloni) fino ai componimenti più complessi e originali delle raccolte maggiori, hanno un ruolo importante gli influssi, accolti in modo più duttile rispetto a quei primi riecheggiamenti della lirica italiana dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento. Per esempio, nelle Leggende pastorali o nella stessa ideazione dei Muttos hanno certo influito l’uso che da Severino Ferrari e da Pascoli fu fatto delle forme e dei toni espressivi della poesia popolare; così come nei componimenti di carattere oratorio e celebrativo è evidente l’influsso del D’Annunzio delle Laudi. Tuttavia l’elaborazione di un linguaggio sostenuto, alto, che innesta su un fondo classicistico e carducciano anche l’esperienza della poesia primo-novecentesca, perviene a risultati – pur nella loro discontinuità – assai singolari, anche per la presenza, in quel processo, di un altro fattore: il sempre più vivo interesse manifestato da Satta per la tradizione di poesia sarda, in particolare per quella usualmente definita “semicolta”, e la considerazione del ruolo da essa svolto nella cultura dell’Isola. Sulla base di questa riconsiderazione, l’ideale del poeta-vate mazziniano e carducciano viene a configurarsi anche con i tratti del poeta di quella tradizione, e la formula di Carducci riguardo al linguaggio poetico, che deve essere di intonazione «montata almeno di un grado su la prosa», si incontra con l’aulicità e ilì prestigio di quella poesia – trasmessa in forme prevalentemente orali, concepita quindi per il canto e per l’udito, di impostazione declamata – e ne riceve un’impronta e connotazioni popolari e più autoctone. I riferimenti espliciti ai poeti di quella tradizione, soprattutto nell’ultima fase della parabola di Satta, tornano più volte. Si ripetono gli elogi dei rapsodi sardi (nobilitati attraverso questo termine che li collega alla poesia greca arcaica e a Omero, con suggestioni probabilmente anche dell’omerismo più moderno, soprattutto pascoliano); elogi che descrivono questa figura con accenti fortemente celebrativi. Ma soprattutto il canto a loro dedicato, Ai rapsodi sardi, l’ultimo di Satta, pur enfatico e forse troppo diffuso, offre una serie di elementi e di suggestioni che mi paiono, anche nei loro caratteri contraddittori, rivelatori di alcuni nuclei profondi della personalità poetica di Satta. Alla base del componimento è una spiegata ammirazione per i poeti sardi estemporanei: essi vengono descritti come «aedi erranti» che vanno «per l’antica isola (…) a dispensare larghi il canto / ad ogni cuore: al mietitore affranto / tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi». La loro funzione è quindi quella di rallegrare e alleviare col canto le pene degli uditori: «Il mesto che vi ascolta / si rallegra (…) affanni e pene / dimentica, e si abbevera di gioja»; e il ricordo del canto lo accompagna nel suo cammino: «Ambia col grave ritmo delle ottave». I molti tratti che Satta fornisce disegnano la figura di un poeta consolatore, di una poesia in certo modo positivamente evasiva: «la vostra camena è una fanciulla / bellissima che vien dalla fontana / balda e dolce, la rossa anfora sulla / sua testa (…) Il pellegrino stanco chiede un sorso / per la sua sete, inclina ella la brocca / ròscida, e quegli beve e il cammin corso / oblìa e benedice». Satta tuttavia, senza togliere nulla alla positività di quella funzione, sembra auspicare per questa poesia contenuti più impegnati, considerando anche quale prestigio e potere essa possieda per il suo fascino su vasti strati popolari: «amati e venerati / siete perciò, fratelli, e senza trono / né spada, siete re (…) dinanzi vi sta il coro / e l’ansia turba: chini sull’irsuta / criniera dei cavalli, i mandriani / odon, e voi cantate. Il canto è fede: / e l’anima selvaggia ora vi chiede / se debba amare od odiar domani».
Ed ecco allora l’esortazione: «Ammonitela voi, coi vostri carmi, / o fratelli! (…) la mia terra cantate». E l’elogio di questa poesia è anche celebrazione della lingua in cui si esprime, «l’antico / idïoma del forte Logudoro», di cui vien tracciata la storia nelle sue manifestazioni fondamentali. Sulla base di questo vivo interesse per le forme e i modi della poesia in lingua sarda, l’aver adottato l’italiano, codice diverso da quello sardo, poneva a Satta problemi di non facile soluzione.
Come esprimere e rappresentare la civiltà della sua terra, in un momento di transizione e di crisi, in una lingua come l’italiano, in gran parte estranea? La prima difficoltà consisteva nell’orientarsi in un contesto nazionale che andava diversificandosi anche nel linguaggio poetico, in relazione a esperienze nuove, a realtà e gruppi emergenti, interpreti di esigenze di modernità nei comportamenti, nella mentalità, nel linguaggio poetico. Cantare liricamente i temi e le vicende della realtà sarda si presentava come un compito difficile, perché i codici di questa realtà, presente in Satta come vissuta e nota attraverso le aule del tribunale e l’esperienza sociale quotidiana, interferivano continuamente con le valenze linguistiche ed espressive della lingua poetica italiana. Si trattava di trovare e rielaborare un modello lirico narrativo, che aveva espresso modelli linguistici e letterari altamente elaborati e distanti dai modelli della lingua locale, e far sì che corrispondesse alla natura culturale del vissuto sardo, all’esperienza del mondo barbaricino, con una operazione di commutazione, di ricerca di equivalenze e di riformulazione in un altro codice. Equivalenze e commutazioni difficili, che inducono a soluzioni di compromesso al fine di non stravolgere, rendendolo irriconoscibile, quello specifico etico e culturale cui il poeta intende fare riferimento.
Nella scelta del lessico e nell’adeguamento del verso si avvertono nella poesia di Satta indizi di un preziosismo, ora arcaico ora moderno, non esteriore né superficiale, ma che forza la parola italiana a rendere un’immagine, un’idea, un sentimento finora inespressi, con elementi che conferiscono all’esito poetico del componimento risonanze e suggestioni inconsuete. Quando il poeta affronta tematiche sociali, dove il linguaggio ambisce a una comunicazione più diretta, non obliqua né ambigua, diverso è il trattamento linguistico, che si serve di un vocabolario più prosaico, più vicino all’uso quotidiano. La ricerca del vocabolo raro, arcaico, prezioso, è sostituita dalla parola più precisa e più aderente alla realtà a livello comunicativo; vi domina il verso sciolto e più libero si fa il gioco delle rime e delle strofe. L’apertura al quotidiano, alle movenze e ai toni della lingua popolare è evidente in alcuni titoli (Il palo telegrafico, La cantoniera, Emigranti); e inoltre nelle indicazioni anagrafiche precise – bimbi di dieci anni – o nelle puntualizzazioni cronologiche. Non mancano frammenti dell’oralità di tipo colloquiale, ed espressioni proverbiali e gnomiche, anch’esse dell’oralità, che concentrano una saggezza popolare garante di autorità collettiva, al di là del contingente; e locuzioni proprie dell’uso corrente, specie nei componimenti a struttura dialogico-narrativa, dove è evidente l’intento del poeta di rispettare il linguaggio dei propri personaggi. Né mancano i dialettismi, che danno colore al tessuto e all’immagine poetica, e convivono con vocaboli di diverse regioni italiane diventati d’uso generale. Prevalenti i toscanismi, che riflettono una tendenza toscaneggiante diffusa dopo l’unità d’Italia nelle varie regioni della penisola. Satta si riserva anche uno spazio di sperimentazione linguistica di matrice pascoliana, ma che ha soluzioni originali e adeguate al ritmo e alla tonalità della sua vena poetica. Si tratta di quel settore espressivo agrammaticale e fonico in cui il poeta è interessato a cogliere le valenze sonore della parola, in particolare delle onomatopee e più diffusamente dei vocaboli fonosimbolici che, mentre catturano le immagini sonore di eventi naturali (il vento, la pioggia), di esseri come la pecora, il cavallo, e di oggetti come i sonagli, intensificano il carattere comunicativo ed espressivo della lingua, proprio perché gli effetti di suono richiamano con immediatezza l’immagine e insieme ad essa il significato e le sue amplificazioni simboliche.
Alcune di queste voci risultano nei dizionari d’epoca (Crusca, Fanfani, Tommaseo), altre sono attestate a livello letterario in componimenti di Pascoli e D’Annunzio. Numerose sono le parole che esprimono suoni ed immagini del mondo naturale applicate a esseri umani (le madri «schiomate uggiola[no] sullo
spento focolare»; «di gioia nitrì / mia madre») in una sorta di rapporto ravvicinato che esalta la naturalità umana e attiva una corrispondenza emotiva e vitale tra uomo e natura. Di tipo pascoliano è anche la ricerca del termine preciso per quanto riguarda la flora e la fauna (con particolare predilezione per quella sarda): con questa caratteristica, che spesso accanto al termine d’uso è presente anche la variante rara e preziosa (lentischio, lentisco, sondro; biancospino, prunalbo) o il corrispettivo dialettale, in riferimento soprattutto al mondo animale (l’upupa, sa pupusa; la lumaca, sa croca). Un aspetto vistoso della poesia di Satta è l’uso del colore, legato a un’aggettivazione ad ampia gamma coloristica, talvolta intensificata anche dal ricorso al sostantivo metaforizzato (alabastro, argento, corallo, ecc.).
La lingua di Satta è anche lingua aperta agli influssi e agli apporti di altri codici linguistici, per lo più circoscritti al terreno lessicale: sono presenti francesismi (fenomeno diffuso a vari livelli nella seconda metà dell’Ottocento), molti già acquisiti nella lingua italiana, e ispanismi. Non mancano, sul versante colto del suo linguaggio, espressioni latine e il gusto della citazione, peraltro moderato. Ma a livello espressivo prevale ed è dominante lo sfruttamento del potere evocativo della parola, del ritmo, delle immagini, ottenuto attraverso la commistione e l’oscillazione tra elementi dialettali e italiani, spesso felice e talora forzata. L’aspetto più evidente del lavoro espressivo di Satta si coglie nello sfruttamento del patrimonio linguistico d’appartenenza, in vari settori: toponimi, elementi del paesaggio, della fauna e della flora, espressioni tipiche di gioia o di dolore o simili; nomi di persone, richiami di animali (cani, ecc.), espressioni gnomiche, calchi o voci dialettali che riprendono elementi dell’abbigliamento o oggetti d’uso; l’indicazione di arti e mestieri, nomi di esseri fantastici della tradizione popolare. Il rapporto con il sardo è costituito da un consapevole lavorio di adattamento, risolto in un difficile amalgama espressivo: ne risulta una proposta di lingua poetica italiana immersa nel contesto culturale e linguistico regionale. Questa operazione è sostenuta in particolare dal ricorso ad un espediente stilistico: l’assunzione del punto di vista interno al mondo rappresentato, che porta in primo piano uno o più personaggi, dietro cui si eclissa la voce del poeta; e ciò soprattutto nei componimenti a forte connotazione dialogica. L’operazione poetica di Satta è dunque più ambiziosa e impegnativa di quanto non sia emerso dal dibattito critico che si è sviluppato sulla sua opera. Essa si fa carico di una tradizione ìpoetica regionale, sia sul versante della tradizione in lingua sarda, sia sul versante della produzione in italiano – più modesta e recente, e tuttavia significativa –, per rilanciare, con una coscienza più scaltrita e aperta e meno subalterna, una esperienza poetica che ponga sullo stesso piano i valori di una realtà locale, trascurata ed estranea, e gli strumenti espressivi e tecnici di una tradizione colta, in un momento in cui si tende a dar voce alle culture emergenti che ambiscono ed esigono di avere diritto alla parola nel concerto nazionale.
Quali i risultati effettivi di questo lavoro nella molteplicità di testi prodotti da Satta? È utile tornare all’ideale rappresentato dai rapsodi sardi per capire le ragioni della scelta diversa, linguistica ma anche tematica, compiuta da Satta rispetto alla tradizione autoctona, pure così esaltata in quel componimento. Infatti, pur nella rappresentazione solenne e in positivo dei rapsodi, il poeta, con accenti dolorosi e significativi, dichiara non solo l’impossibilità per lui di identificarsi, ma anche di essere in consonanza con loro: «se all’anime che adoro, / – anime tristi ardenti nel silenzio / come lampe – sonasse nel canoro / accento dei miei padri la canzone / della speranza mia, monda d’assenzio / e pura d’ogni fosca visïone, / anch’io alla pensosa turba assorta / tal inno innalzerei che alle parole / alate (…) si leverebbe l’anima risorta. / Ma fu negato a me questo celeste / dono», quello cioè di poter alleviare «gli acerbi affanni e le funeste / cure col canto».
Mi pare che in questi versi si esprima consapevolmente una condizione contraddittoria, scissa e lacerata, che forse, come dicevo, ci introduce nel cuore della personalità culturale e dell’esperienza poetica di Satta. In maniera abbastanza chiara, è qui espressa la coscienza che la tradizione dei rapsodi, di cui egli aveva evidenziato il carattere sostanzialmente evasivo e consolatorio (pur nei toni celebrativi), non può essere assunta come modello primario da un poeta sardo teso verso la modernità, e pertanto animato da ideali di impegno civile e consapevole delle drammatiche contraddizioni in cui si dibatteva la comunità isolana.
Questa coscienza è il punto d’arrivo di un’evoluzione culturale che è segnata da passaggi fondamentali: la fervida assimilazione di molteplici aspetti della letteratura contemporanea, l’apertura alle esperienze e alle ideologie politiche più innovatrici, provenienti prevalentemente dalla cultura italiana, realizzatesi soprattutto durante il soggiorno sassarese; tali esperienze maturano negli anni nuoresi, per quanto concerne l’aspetto politico, con la partecipazione, soprattutto ideale, al movimento di promozione sociale e di crescita nell’ambito dell’ideologia socialista; e per quanto concerne l’aspetto letterario con l’elaborazione di una poesia che tenta diverse vie, anche intimistiche, ma che principalmente si lega alla tradizione di poesia democratica cui si è sopra accennato.
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IL PANE

Pane, lievito santo come il germe
Chiuso nel grembo, dopo quanta guerra
Ti conquistò il debil uomo inerme,
Prono sugli aspri solchi della Serra!

E ti bagnò pur di suo sangue in erme
Tanche ed in salti inospiti, dov’erra
Triste l’armento brado, e pendon ferme
Nubi d’incendio a desolar la terra.

Sia pace per la croce della mano
Che t’intrise e ti stese, e per l’ignoto
Sangue che ti bagnò, pane, sia pace.

E di te si abbia gioia anche chi al piano
Non scese a seminare, e va, pel vuoto
Mondo, con solo il suo dolor seguace.




IN MORTE D’UN BAMBINO
Per G. A. Deffenu

Dio, vecchio gatto grigio! Un topolino
Nelle tue grinfe tremule incappò…
Tu scherzavi col piccolo bambino.
Egli rideva e non dicea di no!

Oh le febbri! oh le veglie! oh quel sorriso!…
E disse: o mamma, io vado; tornerò.
Ma forse tu gli apristi il paradiso,
Tu, gatto grigio, e più non ritornò.
TEDIO

In altra terra, o patria, io bevvi il vino
De’ tuoi colli: e rividi, in una gaia
Visione, la fulgida giogaia
Di Montalbo e il mio bel monte vicino.

Cantava il capinero e il cardellino
Presso la fonte lungo la giuncaia,
E, nel sogno, odorava il rosmarino
Lungo i filari dove l’uva invaia.

O patria, o sogno! Ora nel cuor mi tace
Anche questo desìo, ché in più romito
Angolo il mio pensiero si raccoglie.

Pur là vi canta, nella vitrea pace
De l’alba, un nido: e s’apre tra il granito
Delle tombe la rosa centifoglie.


IL FABBRO

Ah tu semini stelle con la mano!
Arde l’ultima fiamma, ecco, su Monte
Atha e tu picchi ancora, o buon titano,

Dall’alba! I carratori volti al mare
Vedon rider nell’ombra, fin dal ponte,
Quel tuo stambugio come un focolare.

A quel sonìo la sedula massaia
Si desta per la casa e dice ai figli:
— O figli, è l’ora: Già sulla giogaia
Trema il Grappolo, e i cieli son vermigli. —

Vengono a te i garzoni e dicon: — Zio,
Tu maestro del ferro, eccoti il vecchio
Ferro, e tu facci un vomere. — Con pio

Vigor tu batti ed ecco dalle mani
Ti esce il vomere. E quello come specchio
Ben poi risplende quando gli anzïani

Spargon pregando la semente, e i solchi
Fumigan sciolti, e ascoltano tra snelle
Selve il brusìo degli orzi alti i bifolchi.

Ed ecco pur, battuti in quel tuo roggio
Antro, falcetti e industriose falci.
O bel cantare del ricolto! Il poggio
Tutto ne suona tra le messi e i tralci.

Ed al ricolto, premio al tuo lavoro,
Ecco grappoli azzurri, ecco mannelle
Di spighe d’oro, una corona d’oro!




NOTTE TRA I MONTI

Io non odo che quei noci
Stormeggiare nella notte;
Io non odo che le voci
Cupe e lugubri del vento.

Fila, vecchia parca, fila,
Qual dall’ombra esce un mistero,
Esce un’ombra, essa da negre
Lane trae lo stame nero.

Negro stame di mia vita!
Fila e canta: — Tra le rotte
Rupi sovra il monte un corvo
Picchia e batte tutta notte.

È tanti anni che egli picchia!
Non vi ha rupe, non vi ha cerro
Che non tremi al martellare
Di quel suo rostro di ferro.

Tutto il monte a poco a poco
Egli deve sgretolare…
Senti, senti giù, nell’orride
Forre, i massi rintronare…

Fila e fila. Nella notte
Io non sento che il ronzìo
Di quel fuso, e il martellare
Di quel rostro sul cuor mio.

LA LAMPANA
A Valmar

Nutrito ho per te la mia lampana
Di rame con olio d’oliva.
Con zirbo, se manchimi l’olio,
Per te la terrò sempre viva.

Se zirbo non ho, dalle tanche
Vo’ cogliere al sole e al nevisco
Le bacche, e vivrà la tua lampana
Con l’olio dell’aspro lentisco.

E se pur lentisco non ho,
Se nieghi l’arbusto il suo fiore,
Darò per nutrir la tua lampana
Il sangue del vivo mio core.

E se pur il sangue mi fugga
Dal cuore — penato ho già tanto! —
Darò per nutrir la tua lampana
Un pianto infinito: il mio pianto!

IL BOCCALE

Boccale, alla serena Baronia
Ti portò da Levante una paranza
Bianca, che aveva a prora una speranza
D’oro, e la buona stella di Maria.

Ecco: ed io ti arrubino or mentre danza
La neve al vento e cuopre alta la via,
Con questo vin natìo che ha la fragranza
Degli arsi greppi e odora di lumìa.

E vedo nel tuo seno andar le nubi
Marine: odo dagli orti in riva al mare
Stormire i melograni ed i carrubi:

E belle donne nel lido sonoro
Cantar di quando con galee corsare
Venne in armi da Tripoli il Re moro.
CALA GONONE

Ecco la luna: tra i cespugli roridi
L’aura notturna mormorando va,
Come un sospiro della diva, un alito
Effuso a notte per l’immensità.

Lontano piange il mare. Di quante anime
Dolenti suona il pianto in quel fragor?
Quanti sogni d’amanti anime passano
Sull’aure, dentro questo cheto albor?

SULL’ORTOBENE

Meriggiano le pecore e i pastori.
Elci e felci non fremono a una stanca
Ala di vento; il mare si spalanca
Da monte Bardia fino a Galtellì.

L’ombra di un volo e un grido di rapina:
L’aquila. Con un dondolìo lento
Si rimescola il branco sonnolento:
L’ombra dilegua in seno al mezzodì.

LA CANTONIERA

Quanti anni! Un’erma casa cantoniera.
Io la rivedo come dentro un velo
Di lagrime e ricordi: un vecchio melo
Pispigliava di nidi alla vetriera.

I cavalli scotean la sonagliera,
Annitrendo al mattino, e per il cielo
Bianco movean profumi d’asfodelo
E spigo dalla rorida brughiera.

Era la tappa. Oh garrulo vïaggio!
— Paska, guancia fiorita, or per l’addio
Mesci i bianchi sorrisi e l’acquavita…

Poi te salutavamo, nel gran raggio
D’estate, con non mai spento desio,
O mio vecchio Ortobene, all’apparita.

SONETTI DELLA PRIMAVERA
Ad Antonio Ballero,
Pittore di Barbagia

IL VINO

Sanguinasti dal cuore del granito,
E dentro un cavo tronco aspro di alburno
Ti franse, o vino, un uomo taciturno
E truce come in funerëo rito.

E, o vino, — nella sera, odi? un viburno
Canta a un elce un dionisiaco mito —
Io chiamo nel mio cuore dal notturno
Cielo i miei sogni a un funebre convito.

E li inebrio di te: ché mal l’incerto
Volo ferman sull’anima romita
Da che vi giacquer morte le chimere.

Ahi! ma vinto l’incanto, dal deserto
Cuor rivolan stridendo oltre la vita,
Dentro cieli di fiamma, aquile nere.

ALBA

Or i sardi pastori, all’indorarsi
Dei cieli, mentre van con tintinnìo
Dolce le greggi a ricercar gli sparsi
Rivi, levan le fronti e adoran Dio.

Rapiti, quasi sentano levarsi
La luce in seno, fremono ad un pio
Sgomento come quercie, su per gli arsi
Greppi, dei venti roridi al desio.

Poi vanno lungo il risonante mare,
Fra prati d’asfodelo e per le rupi,
Vanno fantasmi d’una antica età.

Torbidi e soli nel fatale andare,
Il cuore schiavo di pensieri cupi,
L’occhio smarrito nell’immensità.
LA CAPANNA

Dolce, o capanna, quando agli uragani
La selva si querela e si dispoglia,
Riparar nel tuo nido, sulla spoglia
Di un montone, e parlar di cacce e cani.

Ma più dolce, se ridano i lontani
Fuochi dai poggi, e palpiti ogni foglia
Alla sera, indugiar sulla tua soglia
Erbosa tra il brusìo largo dei piani.

Sulla giogaia pendono ghirlande
Di stelle: van le greggi per profonde
Serenità, fra luccicar di fonti.

Poi nell’ombra un nitrito! Ché già grande,
Tra mormorii di rivoli e di fronde,
S’alza la luna a benedire i monti.

LE API

Api ingegnose che sulla collina
Disegnate con vaga architettura
I bei favi, se a voi nieghi la dura
Terra il fiorrancio e la margheritina,

Voi sciamate sull’aria, auree, all’altura
Azzurra e ai fiori della selva elcina;
E lieta è della vostra ebbra divina
Gioia ogni fronda ed ogni creatura.

Oh lieta di tal gioia, nel lontano
Mare, l’Isola antica che s’inciela
Dall’Ortobene a monte Atha sovrano

Arrida, quando fulgida si svela
A chi naviga il mar meridiano,
Dolce sognando all’ombra della vela!



IL POLEDRO

Meraviglia a vederlo! la cervice
Stellante tra la nitida criniera
Erse il poledro, schiusa la narice
Ai soffi ardenti della primavera.

Nessun dei giovinetti, audace schiera
Di ardimenti e di prove sfidatrice,
Osava premer quella groppa nera
Come il tormento e correr la pendice.

— Gloria a chi primo lo cavalca! — disse
Il vecchio. Ai giovinetti tremò il cuore.
Allor nella criniera gli confisse

Egli l’artiglio, e saldo in groppa come
Un drago, sparì via col corridore,
Dritto il bel capo tra le grigie chiome.

PACE

Van le placide greggi per gli steli
Bianchi di luna; brillano vermigli
Fuochi dappresso e attorno, su pei cigli
Rocciosi, sotto il puro arco dei cieli.

Ammonisce il vegliardo ora i fedeli
Pastori, a lui devoti come figli:
La sua parola suona nei consigli
Grave e solenne come nei vangeli.

Della pace egli parla che nel cuore
Siede a colui che con le mani monde
Di sangue vive: e spargon tant’amore

Le sue parole, e versan tanta pace
I cieli, che nelle anime iraconde
Ogni torva passione alfin si tace.

LEGGENDE PASTORALI

LA GREGGIA

Quando nacque la greggia — ed era bianca
E lieve come nuvola — fu Dio
Che a lei cinse una sua fiorita tanca
Con siepi di asfodelo in Ugolio.

Ma la pecora matta rase il pio
Chiuso e la siepe: e bruca e musa e arranca
Si fuggì. Sì che a lei disse il buon Dio:
— E tu vattene, va’, né sii mai stanca

Di andare! — E va la greggia, da quell’alba
Remota, va dai monti al grigio lido
Di Sardegna, va e va, umile e scialba.

E dietro a lei, seguendo nella traccia
Delle nuvole il suo sogno, va il fido
Pastore, con la mazza e la bisaccia…

IL PANE DELLA BONTÀ

I tetti fumigavano
Dalle scandule brune, tra il nevisco,
E tre donne sfornavano e infornavano
Al lume del lentisco.

Venne uno stormo di fanciulli — O zia
Un pane. — Va’ in malora! —
— O zia, zïetta mia,
Un pane. — Va’ in malora! —
— O zia, mammina mia,
Un pane… — Va’ in malora! —

Ah che dopo l’avaro
Diniego, ingrato e amaro
Si fece il pane! E allora
Passò Gesù bambino;
Gesù bambino venne
Al borgo di Barbagia:
— Donne, un pane! — Per te, vieni, piccino. —

==>SEGUE
E una donna distese
Un po’ di pasta d’orzo sulla bragia:
Ed ecco che quel poco
Divenne molto, e sì divenne grande
Quel pane che a sfornarlo
Ci vollero tre pale.

Ché sempre cresce e crescerà più sempre
Il pan della Bontà.

IL CAMPO DEI FANCIULLI

— Caprai di Lula, e voi che pei meandri
Di Corrasi spargete all’alba i branchi
Snelli, e voi, donne, che tra gli oleandri
Lavate lungo le fiumane i bianchi

Lini e le lane: avete visto il padre
Nostro? Noi lo cerchiamo da più giorni
Invano, e invano al vento che su le adre
Selve vola gridiamo ch’ei ritorni.

È forte e bello. Se egli debbia ai piani
Ardon le macchie come eccelsi roghi,
E in un sol giorno falcian le sue mani
Quanta terra in un giorno aran due gioghi… —

Così gemendo, i pargoletti figli
Cercano il padre. Van per la brughiera
E per la selva: ridon di vermigli
Alti fuochi le mandrie nella sera.

Chieggon del padre a quanti al focolare
Patrio s’affrettan dalla fosca serra,
Ed a quanti dagli orti in riva al mare
Salgon con le primizie della terra.

— O voi, vedeste il padre nostro? — Il padre
Vostro noi non vedemmo. — Or sotto il cielo
Morto gemon quei cuori: — O padre, madre
Nostra, ove sei? — Ed han negli occhi un velo

Di pianto. Ahi! le colombe alte sul monte
Svolano, né s’accolgono leggiere
Sull’onda, ché dà sangue oggi la fonte,
E le colombe non ci voglion bere.

==>SEGUE
O figli, è sangue del cuor vostro! Prono
Sull’acque è il padre, dalla rotta gola
Versa l’ultimo sangue: non più il suono
Udrete, o figli, della sua parola.

— Talvolta, o padre, nella gran calura
Così indugiavi sulla fonte bruna;
Ma poi sorgevi e nella mietitura
Lucea la falce tua come la luna.

Or non ti levi. Or chi oprerà le falci
Tue, chi il lucido aratro, chi il tuo carro?
Chi poterà gli ulivi alti ed i tralci?
Chi, padre, a noi darà, miseri, il farro?

Né più vedremo, a giugno, alto e lucente
Dalla tua terra l’orzo biondeggiare:
Il solco è aperto e manca la semente,
E non sappiamo come seminare!… —

Chi il pianto vostro udì, fanciulli? In cielo
Passavan stormi garruli d’uccelli
Volti all’albergo; e appresero l’anelo
Gemito vostro, o piccoli orfanelli.

Appresero. E alla notte — tutta bianca
Di luna era la terra — sovra il piano
Che il padre arò, con ala non mai stanca
Corser gli uccelli a seminarvi il grano.

Iva e redìa la nuvola canora:
Ogni altro campo diede per quei brulli
Solchi un chicco: e così, verso l’aurora,
Fiorì di messi il campo dei fanciulli.
I TRE RE
A Clinio Quaranta

Fratello, un sasso, senza voci e serto
Di fonti, è sotto cielo algido e greve
Montalbo; e anch’essa sua sorella Neve
Lo sdegna, tanto pare aspro e diserto.
Dalle sue vene lucide di schisto
Qualche erba rada e poco cisto s’apre:
Tristi pastori spargono le capre
A pascer di quell’erba e di quel cisto.

Or una volta per i greppi impervi
Di questo monte c’eran tre pastori,
Tre fanciulli che avevan degli astori
Gli artiglietti e le brame, ed eran servi.
E un giorno — eran le capre per la frasca
Sul vertice — siedevan presso un botro
Senza più pane, ed era come un otro
Esausto e secco la lor vecchia tasca.

Ed uno sospirava: – Oh le lontane
Sere di maggio quando io pasco l’orzo,
Ch’è nelle spighe tenero, e poi smorzo
La mia piccola sete alle fontane! —
E l’altro sospirava: — Oh fosse giugno,
A smelar miele agreste, il miele nostro:
L’elce lo geme, simile a colostro,
Ogni ferula ronza come un bugno! —

E il terzo: — Oh andare, andare, a passi tardi,
Da tanca a tanca fino a Dïortoro,
E coglier l’erbe buone e i cardi d’oro
E mangiar di quell’erbe e di quei cardi! —
Ahi! la fame trebbiava come pula
Le lor voglie. Era il vespro di Natale;
Svariava oltre i lentischi, nel brumale
Fumar dei tetti, solitaria Lula.

— O fratres, disse e rise il più grandino
Dei fanciulli, io lo vedo e non lo vedo:
Ma in ogni focolare c’è lo spiedo
Oggi, e le olive col finocchio e il vino.

==>SEGUE
Ma noi siam sbrici, o cuoricin mio bello.
Lo spiedo, sì, ce lo può dare un’elce:
La fiamma, sì, ce la può dar la selce:
Ma chi, fratelli, ci darà l’agnello?

Ah l’agnello! Lo avremo nell’artiglio
Noi pure il nostro agnello, o fratellini.
Io so un branco d’agnelli trimestrini:
Uno stupore: bianchi come il giglio.
E li governa un vecchio di cent’anni
Che ci ha l’ovile dentro una spelonca;
Quando esce con la fune e con la ronca
Taglia le rame e si compone i manni;

Poi li raccatta, geme e si rimbuca:
Conta i mastelli e guarda la cannizza,
Rivoltola le forme, e riattizza
Il fuoco, e giace nella sua mastruca.
E il suo stramazzo sono sette agnelle,
E due montoni sono i capezzali.
Il vecchio, senza beni e senza mali,
Dormiglia e sogna pascoli e fiscelle.

Ma c’è il mastino a scompigliar la tana;
E alla spiga granita c’è la golpe;
A pollaio che canta va la volpe;
E a pastore che dorme la bardana.
Facciamo la bardana! Il mandrïale
È stanco, e dorme sodo, o miei fratelli.
Corriam sul vecchio, gli rubiam gli agnelli
E facciamo l’arrosto di Natale! —

Si mossero: e li vide San Francesco
Dalla sua casa e non gli disse nulla.
Il vento galoppava per la brulla
Landa, col suo sonaglio gigantesco.
Venivan dagli sparsi ovili i fischi
Dei pastori lontani ed il gannire
Dei cani. Tetro spasimava alle ire
Della bufera il salto dei lentischi.

Poi nell’ombra uno strido ultimo: il nibbio.
E sulle tanche il palpitar di un velo
Tenue pallido gelido, e dal cielo,
==>SEGUE


Da tutti i cieli, turbinò il sinibbio.
Il sinibbio… la neve giù dai monti
Al pianoro, da Corte a monte Spada;
La neve che asserraglia la contrada
Ai cavallari, e lega rivi e fonti.

La neve che sommessa dice ai cani
Di non rignare: l’inimico spettro
Dei branchi, che con sue dita di vetro
Scioglie alle morte pecore i campani:
La neve che con sue lame argentine
Taglia le carni, e coi suoi baci beve
Il pianto amaro; il turbine, la neve
Con tutte le sue sferze e le sue spine.

La neve muta e cieca, o cuor di mamma!
— Ah! un palmino di terra quanto basta
Per riporvi la paglia ch’è rimasta
In una greppia, e riveder la fiamma!
Mamma del cielo! —
Ed ecco alla randagia
Covata si offrì un’elce con sua veste
Di lutto eterno, come quelle meste
Vedove donne tue, sacra Barbagia.

E l’elce li raccolse con dolcezza
Di madre, nel suo pio grembo ospitale.
I tre cuori, dimentichi del male,
Sentiron rifiorir la fanciullezza.
Tremò nell’ombra un lumicino d’oro…
La stella… E nel silenzio delle valli
Squillò un vario nitrito di cavalli,
Un ambiar gaio, un fremito sonoro.

E non erano, Aritzo, i tuoi ben conti
Mercantuzzi, e non erano i tuoi rossi
Ronzini, scesi dai tuoi boschi mossi
Dal rifòlo, o Regina delle fonti.
Ma Gaspero, Melchior e Baldassare:
Erano i re d’Arabia, i tre re magi,
Cavalcavan per piani e per ambagi;
Avean passato il Logudoro e il mare.


==>SEGUE
E portavan bisacce con dovizie
Di balsami e di mirra e d’oro e gemme.
Andavano coi servi a Betelemme;
E i servi aveano i cibi e le primizie.
E videro i fanciulli, che nel sogno
Dormivan buoni, dolcemente avvinti:
I capelli sembravano giacinti,
E il molle volto un fiore di cotogno.

Sostarono i re buoni; e con un manto
Di broccato, coprirono i fanciulli;
Nelle lor mani posero trastulli
D’oro, e un balsamo ad addolcirne il pianto;
E accanto a loro posero un agnello,
E i bianchi pani e delizioso vino.
Così, fuori del male, il lor festino
Si ebbero anch’essi, i miseri, o fratello!
I COLLOQUI COI MORTI


LA CENA DEI MORTI

Oh spillatemi il vin di Valditortora
Pieno di sole. Candida ed allegra
Splenda al mezzo la mensa; molta negra
Elce bruci nel vasto focolar.
E poiché i fior ricordano le vivide
Aure, cogliete molti fior negli orti,
E spargeteli: a salutarmi i morti
Verran stanotte e qui vorran cenar.

Ecco già giungon, ma non più nel memore
Cuore echeggia il rumor dei passi noti:
Dai sepolcreti gelidi e remoti
Come ritornan silenziosi a me!
Varcan la soglia, e lieti attorno al candido
Desco siedono. O dolce compagnia,
Tutta piena è di te l’anima mia,
L’anima in cui sfioriro amor e fé.

Quanti anni di silenzio e solitudine
Melanconicamente sono volti
A te pensando! Invano in altri volti
Amati il tuo sorriso il cuor cercò.
Or qui rimani! — Brillan tra le grigie
E brune chiome rossi crisantemi;
Stanno negli occhi ancora i sogni estremi,
I sogni che la morte vi troncò.

Mescete, o morti, il vino! Il vin purpureo
Al cuor vostro ricordi i campi e i clivi
Aurei di luce e spighe, e i vecchi olivi
Azzurri nel fiammante mezzodì.
Ricordi al vostro cuor la coppa agli ospiti
Pòrta tra i canti, e l’opere e le prove
Magnanime, e la patria terra dove
Il bel fiore dei vostri anni fiorì.

E tu, che solo, e lungi ai figli e al placido
Tuo tetto, oltre le grandi acque riposi,
Tu, padre, che tra i sogni lacrimosi
Dell’infanzia vedemmo a noi sfuggir,

==>SEGUE
LA FANCIULLA

Biblina, dolce figlia, figlia morta
Nel fior degli anni tuoi come in un sogno!
Vieni a cena: serbato ti ho una torta
Di uva passe e di poma di cotogno. —

— O mamma mia, non voglio la mia cena;
Voglio solo affacciarmi al limitare.
Sai? ancor mi tormenta quella pena
Antica e non mi lascia riposare!
Oh! cessata dei servi la gazzarra
Ebbra, a me salga dalla siepe bruna
Un fremebondo suono di chitarra,
Sotto la luna. —



LO SPOSO

Il fiume travolsemi, o Lia,
Mi uccise col rosso cavallo.
Or dormo in una casa di cristallo
Giù nel mar di Baronia.

Pur nella notte sacra posso
Ritornare al mio focolare:
E mi vedrai, mia Lia! verrò dal mare
Ritto sul cavallo rosso.

E ne udrai da lungi la pesta,
E il fremito della criniera.
O Lia, togliti allora dalla testa,
O mia Lia, la benda nera.

Io ti veda vestita d’oro
Vestita di fiamma, o mio fiore.
E ancor ti avvolgan i canti del coro,
E le fiamme del mio cuore.
IL PASTORE

—Ululi come un cane, anima uccisa!
Io ti sento nel vento della notte. —
— Senza fucile, vò per piani e grotte
Con la gola recisa. —

— O mio core! con le tremanti mani
Ti seppellii: ne pianse ogni pastore. —
— Ahi! la greggia mi bruca sopra il cuore
E mi abbaiano i cani. —

— Dormono gli altri morti: e tu per le erte
Cime sobbalzi dispettoso e torto. —
— Gli altri morti hanno pace: io sono un morto
Con le pupille aperte. —

— Dimanda dunque a qualche morto amico
La medicina che ti faccia bene! —
— Padre! la medicina è nelle vene
Del mio coral nemico. —






LE SELVAGGE

DISPERATA NUZIALE

Il padre tu m’hai morto! Pur ti accoglie
Oggi il corteo di nozze. Ecco la sposa:
Dal busto d’oro, come un fior di rosa,
Le sboccia il seno: un fiore tra le foglie.

Offron la lana, e dicono i pastori:
—Così bianca ti veda un’altra età,
Quando la figlia, sposa, se ne andrà,
Trepidando, fra gli inni dei cantori.

Ed ecco, o sposo, il miele! Agreste timo
Tanta dolcezza mai non stillerà,
Quanta ne avrai nel cuore il dì che il primo
Figlio il rude puledro inforcherà. —

E andate. E bianche mani ove tu passi
Spargon coi fiori il buon grano augurale.
Ma io che piango, su te verso il sale,
Il sale, o traditore, su’ tuoi passi.

LA SPOSA

O sposo vestito di grana,
La sposa tua piange: perché?
Bevuto hai dall’anfora rossa
Di quella fanciulla lontana?
Smarrito ha l’anello tuo d’oro,
Lavandosi nella fontana?
Veduta ha la stella diana
Sul monte vicino alla luna?
O entrata è la mala fortuna
In casa di un dolce parente?

— Non bevvi dall’anfora rossa
Di quella fanciulla lontana;
Smarrito non ha l’anel d’oro
Lavandosi nella fontana;
Né ha visto la stella diana
Sul monte vicino alla luna;

==>SEGUE
Né entrata è la mala fortuna
In casa d’un dolce parente.
Ma piange, ma piange, io lo so,
Ma piange, ma piange perché
Tra i cumuli bianchi di lana,
Un bioccolo nero trovò.

NOTTE NEL SALTO

Null’altro sentivo che i colpi
Dell’irto cignale negli elci:
Un lento brusire di felci
E a tratti il bramir delle volpi.

Il fuoco taceva. I guardiani,
Ravvolti nei manti di albagio,
Seguivan nel sonno il randagio
Vagar delle greggi e dei cani.

Quand’ecco, nel cielo senz’astri,
Vibrò dagli ovili vicini
Il vigile urlìo dei mastini
E un largo sfrascar d’oleastri;

E giù dalla vetta soprana
Al nostro bivacco, tra i radi
Ginepri, volgendosi ai guadi
Notturni, passò la bardana.

VESPRO DI NATALE

Incappucciati, foschi, a passo lento
Tre banditi ascendevano la strada
Deserta e grigia, tra la selva rada
Dei sughereti, sotto il ciel d’argento.

Non rumore di mandre o voci, il vento
Agitava per l’algida contrada.
Vasto silenzio. In fondo, Monte Spada
Ridea bianco nel vespro sonnolento.

O vespro di Natale! Dentro il core
Ai banditi piangea la nostalgia
Di te, pur senza udirne le campane:

E mesti eran, pensando al buon odore
Del porchetto e del vino, e all’allegria
Del ceppo, nelle lor case lontane.

IL RITORNO

Ferito, a notte, giunsi all’abituro;
Giunsi alla dolce soglia e mi fermai.
Ah! io non vidi, non vedrò più mai,
Il cielo così grande e così puro.

Il sangue mi gocciava dalle vene:
Le prefiche cantavan la mia morte:
Mamma piangeva la mia mala sorte.
Esse cantavan tragiche e serene.

Cadea sui volti scarni la criniera
Arsiccia e grigia come l’olivastro:
«Cuor di tua madre, fiore di mentastro,
Molle di sangue nella terra nera!»

Ecco, balzai tra loro: il limitare
Vampò di gioia e di gioia nitrì
Mia madre, ed ogni prefica mi offrì
Il pane e il vino presso il focolare.


I GRASSATORI

Anelavano ai boschi dell’altura,
Arsi, felini. Il vento dell’aurora
Agitava i lor velli irti e le chiome.
I cavalli, già vinti dalle some
Inique, procedean stanchi. Era l’ora
Dell’adunata e della partitura.

E con loro era Liba, il mandrïano
Di molte greggi, Liba, il domatore
Di giovenchi e poledri. Ora non più:
Ché già sulla sua forte gioventù
Scendeva l’ombra; e aveva rotto il cuore
E bianco il viso e debole la mano.

Li avea seguiti a lungo. Or su per l’erta
Mal reggeva al cavallo il duro freno,
E invan chiedeva balsami alle fonti.
Or si moriva. E, in sogno, udìa dai monti
Un tinnir di campani al ciel sereno…
Ahi! forse era la sua mandria diserta.

Ma sul monte al ferito, a pié degli elci,
Ecco i giovani stesero il giaciglio
Di molli fronde; mentre gli anzïani
Sceglieano i tronchi e, con le accorte mani
E col ferro, destavano il vermiglio
Seme del fuoco dalle acute selci.

E brillarono i fuochi. Ed: O fratelli,
— Disse il più vecchio — io spartirò le prede,
E ognun se l’abbia come vuol la sorte.
Faremo come quando, posti a morte
I cervi che la caccia ilare diede,
E le carni si spartono e le pelli. —

Tacquero e si segnarono. E dai sacchi
Caprini ei tolse le orerie, tesori
Ignoti, e molti calici e boccali
Di argento, e gli otri e i roridi fïali
E le pelli, conforto ai tuoi pastori,
O Barbagia, nei gelidi bivacchi.

==>SEGUE


Tolse i rasi e i damaschi, e con le mani
Sanguinose li svolse. Eran giardini
Di gigli d’oro, fiori di malìa…
Li avean portati all’arsa Baronia
Sulle devote barche i levantini,
In tempi antichi, da lidi lontani.

Mostrò i broccati, simbolo di gloria
Alle aspettanti vergini, ed i freni
E l’armi ed i monili ed i coralli.
E monete istoriate di cavalli
Non mai visti: cavalli saraceni,
Lievi, chiomati, cari alla Vittoria.

Or guardavano intenti e avean nei tetri
Cuori l’empia follia dello sparviero
Selvaggio. Era tra l’erbe un lucer d’astri.
Non mai quelle lor mani, che i vincastri
Stendevan dolcemente sull’impero
Delle greggie errabonde, come scetri,

Non mai — né pur nei sogni — avean ghermito
Cose sì belle. Trassero le sorti,
E spartiron le prede. E nei boccali
E nei calici voller gli augurali
Vini mescere: i giovani ai più forti
Davan le tazze, come in un convito.

Beveano in cerchio. E a Liba anche, in quel loro
Gaudio, porsero il calice di argento,
Augurando. Egli bevve con un riso
Estremo. Erano i cieli di narciso;
Bianche mandre di nubi sopra il vento
Migravano al lontano Logudoro.

— Liba, mio piccol cuore, — parlò allora
Un antico, che degli Evangelisti
Aveva il grave eloquio — o Liba, noi
Sovra un letto di quercia ai luoghi tuoi
Ti porterem stanotte, e là, non visti,
Ne verranno i tuoi vecchi sull’aurora.

==>SEGUE

Or prendi, intanto: è tuo questo dipinto
Freno e quest’armi, che ti pongo a lato;
Tuo questo miele; tuo questo boccale;
Tuo questo drappo che non ha l’uguale:
È a palme d’oro, un palio di broccato,
Il più bello di quanti tu ne hai vinto. —

— Oh! disse lui, non l’armi e non il freno,
E null’altro io più voglio. Già minaccia
L’astore e il nido plora su la frasca!
O piccol zio, voi solo date a Paska
Quel drappo d’oro, e, come le mie braccia,
Quelle palme le avvolgano il bel seno. —

IL VOTO

Nostra Signora bella,
Che sul monte Gonare
Hai la casta dimora
In vista ad ogni terra,
In vista a tutti i mari:

Se a te salgan pei cieli tempestosi
Di procelle e destini,
Le preghiere degli umili marini
E i voti delle barche coralline:

Se a te salgan sull’aure vespertine
I sospiri fidenti
Delle vegliate culle e dei bivacchi:

Se a te giungan sui venti
Meridïani l’affanno degli arsi
Mietitori, e l’anelito
Degli scalzi pedoni,
E dei mendichi erranti,
Perché sei vista dalle opposte strade,
Che vanno tra i frumenti e i melograni,
Che vanno tra gli elceti e viti d’oro,
Ai gialli Campidani,
E al verde Logudoro:
M’ascolta tu, Signora di Gonare!

==>SEGUE



E tu, santo Francesco,
Che non tolleri ambagi;
Ed hai la bianca casa a pié del monte
Privo di fonti, — poiché tu sei solo
Fontana di fortezza e verità —
Ed hai servi pastori,
Ed hai tanche e giovenche,
E serbi nel tuo cuore formidabile
Chiuso con tre suggelli,

L’affanno e le rancure
Dell’atterrito micidiale, il tardo
Pianto delle galere,
Ed il segreto pianto
Delle madri davanti alle prigioni;
Santo dei forti, santo dei banditi,
E dei rapinatori;

Ascoltate il mio priego: io non vi voglio
Pascoli di trifoglio
Al gregge mio; non voglio

Ricchezze, né mastini
Da presa, né cavalli
Corridori, né ori
Alla mia donna. Voglio
Solo una grazia, voglio

Che il mio mortal nemico
Affoghi nel suo sangue;
La sua femmina, madre dei suoi figli
Accatti negli ovili;

Questo vi chiedo. E a voi, nostra Signora,
Adornerò le mani
Di un’alba cornïola;
E a te, Santo di Lula,
Accenderò una lampada,
Che in notte di procella
Sia vista dai caprai di Bruncuspina,

E alle anime penanti in purgatorio
Una giovenca matterò, più bianca

==>SEGUE

Della neve, spettacolo ai pastori
Che accorrono dai salti ad ammirarla.
E i miei servi la chiamano,
Tra il rosso mareggiar della fiorita
Tanca: Bandier’in-mare.



DITIRAMBO DI GIOVINEZZA
A Vittoria Ciusa

Date l’acquavite alle mani,
Prendete la tasca e lo schioppo
E andiamo. Ohià! che galoppo,
Che rombo tra l’urlo dei cani.

Prenderemo i cavalli che a frotte
Corron nitrendo le tanche,
Gli figgerem nel collo le branche,
Li avventeremo contro la notte.

Versatemi il vin di Marreri
Che mi apre le vene del cuore.
O donna, apparecchia i taglieri,
E poi… hutalabì! col corridore.

Ho un sogno nell’anima torva,
O uccellin mio di Primavera!
Vo’ traversar la Costera,
Vo’ entrar nell’aspra Bonorva.

Là nella chiesa, sul coro,
Vi è una santa d’oro, vi è!
Voglio portarti quella santa d’oro:
Ruberò la Madonna per te!
SPERDUTI
E giunsero al villaggio
Che ardeano i focolari:
Dai chiusi limitari
Ne traspariva ancora qualche raggio.
— Ai piccoli raminghi
Aprite, o cristiani! —
Non gli uomini, ma i cani
A quel grido risposero coi ringhi.

E andaron per le piane
Nevose e per le grotte;
Vagaron giorno e notte,
Penando, senza fuoco e senza pane,
Ahi soli nei perigli!
Ben sapevan le belve
Nelle natie lor selve,
Dar cibo e pace ai lor piccoli figli.

Fuggiron tra il nevischio,
Pregando. Ecco la chiesa:
Solenne erma sospesa
Sui dirupi, tra l’elci ed il lentischio.
— Aprici, o Dio, Signore! —
Sui cardini di ferro,
L’alta porta di cerro
Rimase anch’essa chiusa come un cuore.

MASSIMO GORKI
Io ti vidi, poeta. Il ciel senz’astri
Rompeva in pianti sopra la brughiera.
Balenavano i fuochi della sera
Intorno intorno pe’ deserti castri.

E tu venisti, scalzo, tra i mentastri
A quei fuochi; e i pastori, in quella spera
Spasimante di fiamme alla bufera,
Ti guardarono curvi sui vincastri.

Tutta l’anima triste di Barbagia
Ti guardava in quegli occhi, e ti si offrìa
Con quel fuoco ogni cuore non ignaro:

Ché sentivano dentro la randagia
Procella che batteva la tua via,
Lo strazio loro e il tuo, Massimo Amaro!
L’ARATORE

— Il tempo, o zïetto, è sì dolco!
Venite alla seminatura. —
— Profondo assai più d’ogni solco
È il solco ov’io giaccio, o crëatura! —

— Sfornato vi ho sette focaccie
E vi ho rammendato il gabbano;
La cavallina ha le bisaccie
Con le tasche ricolme di grano. —

— Un’altra cavalla sul dorso
Mi ha sviato nel gran mezzogiorno;
Rapito mi ha fuor d’ogni corso
Per strade che non hanno ritorno. —

— Zïetto, se è fredda la sera
Vi scalderete al focolare;
Io dirò nella mia preghiera,
Che il sole vi venga a riscaldare. —

— Più dolce è del miele del bugno
La vampa del fuoco tuo vivo.
Ma il sol, creatura, è cattivo:
Mi ha ucciso con la falce nel pugno. —



E guidavan nel debbio l’util fuoco come un cane,
Nell’aer vivo di ogni ardore,
Vigili a contenere quelle lor fiamme lontane
Dalla siepe del Signore.
E nelle notti, quando scende fra li orzi alle fonti
Cauto a bevere il cignale;
Quando il cielo si annera vasto, e brontola dai monti
Balenando il temporale,

Essi urgevan la greggia nomade e gli armenti bradi
Ai pianori dalle valli,
Avvolti in nere pelli, avventando ai torbi guadi
Con felino urlo i cavalli…

Oh! ma sempre nel cuore li seguiste voi, dolenti.
E se il fuoco d’olivastro
Garriva alla bufera; e se ardea nei cieli intenti
Presso il novilunio un astro,
Fu più vivo l’affanno. E a precorrere l’aurora
Spiavate dalle soglie
Fumide il cielo, e al vostro gemito tacea, nell’ora
Grande, il vento tra le foglie.

Poi all’alba per loro voi tesseste il rude albagio
E torceste l’aspro lino.
E nulla fu per voi: non la lana del randagio
Gregge, non il miele o il vino.
E tutto fu per loro: e quel molto, e più quel poco
Che fu vostro. E in ogni giorno
Serbaste a loro un dono: quel giaciglio accanto al fuoco
Per le sere del ritorno,

E il pane delle nozze, e la dolce uva vernina,
E le poma del cotogno,
E sovra tutto il vostro cuore, colmo di divina
Bontà, vivo di un sol sogno!
Ma pur i figli, reduci dagli ovili, nelle mani
Vi poneano umili un loro
Dono: un’util conocchia, istoriata sui lontani
Monti, in un ramo di alloro.

==>SEGUE


E brillò la conocchia per voi nel crepuscol tetro
E nella serenità
Dell’alba, o Madri antiche: e fu il segno e fu lo scetro
Della vostra deità.

Ma non sempre il lor ferro seguì docile, nel riso
Dell’ingenuo cor, la pace
Dell’opra onde scolpite si mesceano al fior d’aliso
L’uva e l’edera seguace.
E non sempre le mani si snodarono innocenti
Al musar trepido e lieve
Dei redi, o nel soffolcere le ulivete mal gementi
Sotto il peso della neve;

Ma irroraron di sangue, di fraterno sangue, i dumi
Delle tanche: arsi, feriti,
Tra le voci del vento, discendeano ai verdi fiumi
A lavarsi, i cainiti!
Cupa l’eco dei monti iterò le fratricide
Voci ai glauchi anfiteatri:
E solcaron la terra torvi, con l’armi omicide
Annodate ai santi aratri!

E voi tutto sapeste, tutto voi sentiste, o Madri!
Ed appresero le balze
Anch’esse il vostro strazio quando, abbandonati i quadri
Focolari, usciste scalze
A cercarlo il cuor vostro, Madri! Prefiche ed Erinni
Che di canti e vaticinî
Ghirlandate le culle, di che tetri e vindici inni
Coronaste i letti elcini!

I letti che la scure strappò all’elce: dove i morti
Furono stesi ad ascoltare
Gli ultimi canti: i letti dove giacquer biechi e torti,
Volti i piedi al limitare.
Madri, d’allor sull’anima vostra fu tutto il silenzio
Sconsolato che è nel piano

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Flagellato dal sole, quando fiammeggia l’assenzio,
E il ciel sembra più lontano.

Le mani che infioravan come un canestro votivo
I presenti nuzïali;
Le mani che tremando stendean l’olio d’ulivo
Su le ferite mortali;
Le mani che poneano nei caprini sacchi il pane
Al pastore e all’aratore;
Le mani che versavano sulle nostre lotte insane
Tutti i balsami del core;

Quelle supplici mani si serraron stanche e scarne
Ahi! per sempre nella muta
Preghiera, e mai non ebbe altre pene più la carne,
Da quel pianto combattuta.
O Madri, o Madri! i cieli vi mentirono, e mentito
Vi ha nei secoli Gesù:
E il suo regno non venne, e quel suo sogno è svanito
E non tornerà mai più.

E non da lui la gioia verrà a voi; ma vi verrà
Dalla montagna e dal mare,
Vasta e tacita come la luce; e non avverrà
Da quel vostro umil pregare;
Non dall’uomo o da Dio; ma sarà l’ardente figlia
Del cuor vostro e dell’umano
Volere, e saprà molcere quanti seni e quante ciglia
Han pregato ai cieli invano!

Madri! col puro latte, odorato del rupestre
Timo, a quella gioia io libo.
Se vitale mi fu, come il primo soffio alpestre
Che mi avvolse, e come il cibo
Primo, il dolore, o Madri! se mi fu sacro ogni vostro
Dolor, Madri, nel dolore

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Di mia Madre (e salimmo, o fratello, il viver nostro
Con quell’ombra dentro il cuore!)

Madri, io libo. Io non veda voi più curve, come l’elce
Tòrta dal vento, su gli anni
Morti, dir alla fiamma che vi nasce dalla selce
E dal ferro, i vostri affanni:
Non vi veda con gli occhi fisi al muto limitare
Aspettare chi non torna,
E gemere e penare e plorare ed implorare
Quando annotta e quando aggiorna:

Non vi veda schiomate uggiolare sullo spento
Focolare nei villaggi
Taciturni. — Oh solinghe voci profughe sul vento
Nel delirio di selvaggi
Riti. Oh voci di Madri! monodie di prefiche ebbre
Di vendetta e mala sorte,
Sulle terre precinte dal silenzio della febbre,
Dal silenzio della morte —

Madri, io libo! La terra come voi ci sia materna,
E dia pane e dia letizia
Ai figli, ai vostri figli: e vi regni augusta eterna
La Giustizia.




CANTI BARBARICINI
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SEGUE
A VINDICE MIO FIGLIO

            Io ti veda calar dal Gennargentu
            Con un cavallo innanzi e l’altro dopo,
            E baldo, con la tua pipa d’ottone!

Ninnananna dei sorbettieri d’Aritzo


PRELUDIO


DON CHISCIOTTE

O primavera di Barbagia, io torno
Alle tue tanche, tra il fiorir del cisto
E del prunalbo. Come dolce e tristo
È il tuo sorriso sotto il ciel piovorno!

Dalle montagne e dalla Serra, intorno
Balena. Oh sogno mio di gloria, visto
Sempre e perduto sempre! Oh come misto
Di lacrime e di gioia fai ritorno!

E ancor ti següo. Ahi! ma mentre vado
Per tanche e solitudini ravviso
In me, pur senza spada e roncinante,

Quel Don Chisciotte quando uscì nel riso
Dell’aurora e da hidalgo asosegado
Divenne, o sogno, gaballero andante!…





LE BARBARICINE

NELLA TANCA

Ecco: non fu che un subito
Sogno del sole il raggio;
E lunghe fredde assidue
Stagnan sul pian selvaggio

L’ombre in eterno. Stendesi
Nuda silenzïosa,
Sino ai lontani vertici,
La terra lacrimosa.

Solo un pastore, immobile,
Col manto e con la tasca,
Guarda quel regno gelido
Di tenebra e burrasca…

MERIGGIO

Sulle mute fontane,
Specchi fidi dei boschi,
Pendon viluppi foschi
D’ellere e di lïane.

Non il frullar d’un’ala
Per gli orti e nella serra.
Nel silenzio la terra
La grande anima esala.

Sol due cipressi neri,
Dagli aurei raggi avvolti,
Scuoton la testa, colti
Chi sa da quai pensieri.
Arridimi! Svaniron della pallida
Infanzia i sogni tristi, e della bruna
Vita l’ombre. Toccando in cuor più d’una
Ferita, muoviam lieti all’avvenir.

E tu, nutrice, a cui cingean le grigie
Chiome e i casti pensieri una ghirlanda,
O mia nutrice, buona e veneranda
Come una madre, arridimi anche tu.
Ed amatemi, o morti. La mia povera
Casa è gioconda sol per il ritorno
Vostro, e io solo per voi sento d’attorno
Squillare i canti della gioventù.

Ma già i fiori avvizziscono, e fiammeggiano
Smorte le vampe della luce scialba;
Si affaccia tra le stelle ultime l’alba,
Tornano i morti ai sepolcreti lor.
Partono i morti e accennano e mi chiamano:
Io li guardo sparir con gli occhi in pianto;
Il mio calice cade a terra infranto;
Essi mi accennan e chiamano ancor.

LA MADRE
Il vento or si tace ora sfrasca,
Ascolti? fra i noci e i noccioli:
Ritornano i morti figlioli,
O madre, col ronco e la tasca.

Li vedi: e ti balza nel cielo
Il cuore come una calandra.
Ritornan da lande di gelo
Dove mai non pasce una mandra.

Ritornan da terre lontane.
Ti chiedon la cena: tu guardi.
O madre, oh i tuoi poveri sguardi
Di pianto che cercano un pane!

E un pane, un sol pane non l’hai
O mamma, pei figli tuoi morti.
— O figli che piansi, che amai,
Che piango, o miei figli risorti! —

E gli occhi le brucian di fiamma,
E piange, o figlioli, per voi.
— O mamma non piangere. O mamma,
Oh vieni a cenare con noi! —
SEBASTIANO SATTA  - CANTI BARBARICINI - Parte Prima
Questo libro, che ha in fronte il nome del mio bambino e si chiude con i ricordi di una pena indimenticabile, canta o, meglio, narra il dolore della mia gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Coràsi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli. “Barbaricini” ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude ed antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi. “Le selvagge”, che sono il cuore nero del libro, ricordano gli ultimi anni di sconforto e di tenebra, quando gli ovili erano deserti e tremende e tragiche suonavano le monodie delle prefiche, e l’animo era smarrito e percosso da sciagure e odî nefandi. Ah, il poeta vide veramente quelle madri vagare sui monti cercando i figli feriti nelle stragi omicide, e vide veramente arar la terra coi fucili legati all’aratro!
Ma la notte dileguò e si udirono i canti antelucani…
S. S.
Nuoro (Sardegna), ottobre 1909
ALLE MADRI DI BARBAGIA

ALLE MADRI DI BARBAGIA

Io dico questo canto a voi, Madri dolorose
Di Sardegna: oggi che rudi
Mani avvolgon all’elce verde le purpuree rose,
E riposan magli e incudini.
Fugge la notte, o Madri. Sul risveglio della landa,
Nel gran cielo antelucano,
Solitaria ne brilla qualche stella: una ghirlanda
Di astri uscitale di mano.

E dall’ombra or il canto, o madri, va a chi spera
Va a chi sogna, a nunzïare
La luce, come uccello, figlio della Primavera,
Che improvviso vien dal mare.
Madri che dolorando il dolor di tutti i cuori
Guardavate i muti cieli;
Voi, che perdute nell’ombra degli antichi errori
Prone tra le fami e i geli,

Mormoraste: O Dio, sia fatta la tua volontà!
Che sentiste arder nel pio
Seno l’alta promessa che vi sorridea: Verrà
In terra il regno di Dio.
O Madri, o Madri! I cieli vi mentirono, e mentito
Vi ha Gesù mille e mille anni,
E vi ruinò dai ferrei taciti evi un infinito
Gorgo di odio e d’onte e affanni.

E vedeste per terre fosche di albatri e di assenzio,
Dove dormon le remote
Stirpi, pur essi i figli spasimare nel silenzio
Delle assidue opere ignote.
Curvi sui torti aratri, iteravano il cammino
Delle glebe, oggi, domani,
Finché non traboccavano di quei solchi sul confino,
Con la stiva nelle mani.

==>SEGUE