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Sebastiano
Satta

CANTI DEL SALTO E DELLA TANCA




La neve venne a notte: cielo e terra
Si confuser fra loro, e forre e selve
Miagolaron al vento, al rude vento
Che corre tutta l’Isola, lamento,
Pianto di mari d’uomini di belve.
E Lia, la madre, sola, fra la guerra

Della terra e del cielo, aveva il ploro:
Un singulto di allodola ferita.
Cercò il dirupo — o mamma o mamma o mamma! —
Pur riscaldando con l’ultima fiamma
Di quella anima sua, della sua vita,
Il suo nato innocente, il suo tesoro.

Ma ecco giù dalla valle, tra gli aneli
Sospiri della macchia, alto uno scoppio
Salì di gioja: un volo di colombe
Sui risonanti vanni, e suoni e rombe
E squilli vivi di campane, il doppio
Di Natale, un immenso osanna ai cieli.

Ancora supplicò: — Vergine, giglio
Del cielo, in questa notte senza pene,
Voi allattaste il bambino Gesù;
Pietà, nostra Signora, io non ho più
Una goccia di sangue nelle vene
Per allattare l’innocente figlio

Del mio peccato! — Simili a viole
Rifiorironle i seni, e caldo e pieno
Il latte le salì. Con l’arancino
Manto, dal mare si levò il mattino,
E rise il sole: e dall’amato seno
Rise a sua madre il bambinello e al sole.
IL FOCOLARE

Non veglie allegre, sardo focolare,
Alla tua fiamma, ma pensose fronti:
Il padre antico, l’ospite che ai fonti
Lontani beve, e prega nell’entrare.

E la madre che al ciel crepuscolare
Più ripensa gli erranti, mentre ai monti
Fa vento, e vanno i figli con i pronti
Mastini dietro i branchi a vigilare.

Siedono intorno: invan soffian severe
Le Sùrbili, ché brilla l’animosa
Ridente fiamma ai mesti in ogni sorte.

E brillerà perpetua fin che in nere
E gialle bende, bianca e sanguinosa,
Batta alle soglie fumide la Morte.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Sebastiano Satta e il suo tempo
_________

a cura di
Annamaria Marras
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In un ambiente così vivo e pieno di stimoli operò il nostro poeta. La sua formazione fu caratterizzata da esperienze e incontri che ne hanno segnato il pensiero e rafforzato certe convinzioni. Fin dallo svolgimento del servizio militare a Bologna, tra il 1887 e il 1888, il giovane ebbe repulsione per la vita di caserma, avendo come destinatario internodei suoi “Versi ribelli” il commilitone, e più tardi, quando tornò a Sassari da universitario, si rivolse all’ambiente goliardico sassarese che per tradizioni libertarie e repubblicane era già ricco di battaglie politiche antimilitaristiche. Il pacifismo, come critica feroce alla guerra e opposizione della vita alla morte violenta, è il tema conduttore più scoperto dei “Versi ribelli”, in cui l’unica composizione in quartine “Tiri di combattimento”, è una decisa requisitoria contro i non-valori della guerra-morte, in nome della vita. Egli ha cantato la ribellione del suo essere sardo e pacifista, il profondo legame d’amore con la madre e con la terra d’origine, dalla quale il Satta bolognese fu separato e alla quale tornò per non distaccarsene mai più. La poesia di Sebastiano Satta smuove, oltre che quelle dell’uomo e dell’artista, le problematiche antiche di una Sardegna investita dalla piaga della “questione sarda”, all’interno di una più ampia e irrisolta “questione meridionale”. Gli anni trascorsi da Satta in Sardegna, in poco più di mezzo secolo, sono gli anni che conducono l’Italia dalla sua unità allo sconquasso della stessa con l’erompere della prima guerra mondiale. Egli vive e soffre il suo tempo, sente il dramma dei piccoli proprietari terrieri, degli abusi nelle campagne dopo l’Editto delle chiudende, che porterà Nuoro ai moti de “Su connottu”. Egli sta da sempre dalla parte dell’indifeso, veste i panni del difensore, anche per sondare la profonda piaga del banditismo che schiera romanticamente “eroi baldi e rivoluzionari”, a dispetto di tanta letteratura positivistica “socio-criminale” dispensata da Lombroso, Orano, Ferri, Niceforo, che parte da “crani spiccatamente dolicocefali” per trarre considerazioni sul criminale per natura. Infatti, in questa produzione, il bandito è presentato come un ribelle isolato e un giustiziere, idealizzato dalla fantasia popolare, in lotta contro le leggi di uno Stato estraneo che esige solo tributi e che abbandona a se stesso il debole e l’indifeso. Il ribelle finisce così per farsi giustizia da sé e, dopo aver rubato e ucciso, è costretto ad allontanarsi dal paese e a rifugiarsi nelle montagne, isolato e braccato fino alla morte. Questo bandito segue un codice d’onore a cui non può sottrarsi: la sacralità dell’amicizia e
della famiglia, l’esaltazione del coraggio, la vendetta e l’omicidio praticati come giustizia, il rifiuto di essere un sicario che alimenti l’odio altrui. Sebastiano Satta insieme a Gastone Chiesi, fondatori de “L’Isola”, accettarono nel 1894 di fare un’intervista, in una grotta segreta, a tre latitanti, uno dei quali era il celebre Derosas, che terrorizzava il Logudoro, mentre gli altri due erano Delogu e Angius.
Il Derosas, con questa intervista, vuole affidare la sua verità alla stampa, visto che su di lui erano state dette troppe menzogne. Il bandito era noto per la strage del paese natale di Usini, nella quale colpì dei falsi testimoni, responsabili della sua ingiusta condanna a dieci anni di carcere. Da quel momento la vendetta aveva regolato la sua vita: essa è ammessa come giustificazione di gravi reati nel codice barbaricino e nella visione mitico- romantica, presente in tanta letteratura sarda. Il Derosas spiegava nell’intervista che la sua vendetta nasceva nel momento in cui la concezione sacra dell’amicizia venne messa a dura prova da Luigi Dettori di Cossoine, amico fidato, diventato delatore e spia, che lo aveva venduto ai carabinieri. Dettori venne ucciso e la sua testa esemplarmente portata al nuraghe Idda.
In questo contesto si tentò di idealizzare la ribellione dei banditi, identificandola con l’insofferenza sociale del mondo rurale, e nei “Canti Barbaricini” Satta li definisce, attraverso dei versi che rimarranno indelebili nel tempo ”belli, feroci, prodi”. Ricorrente è nella sua poesia la rappresentazione del dolore della madre per la morte violenta del figlio, nel clima di odio e di faide che fa parte della società sarda del tempo, a cui neanche gli esseri più innocenti riescono a sottrarsi. Così avviene nella poesia: ”La madre di Orgosolo”, paese in cui neanche i più piccoli sfuggono all’amara e inesorabile legge della vendetta, sentimento avvertito come doveroso e che accompagna sempre il dolore per la morte dei propri cari. Nella lirica, il figlio si trova in cielo tra gli asfodeli, in una dimensione di gioia e bellezza, ma risente dell’assenza del padre, tutto preso da un dovere da compiere: la vendetta. Così la madre risponde al bambino ”babbo non viene ancora a queste parti, è rimasto laggiù per vendicarti”.

- L’adesione al socialismo utopistico.

Nelle sue poesie Satta cantò anche le tragedie e gli sconvolgimenti sociali avvenuti nell’isola, che ebbero una vasta eco a livello nazionale. All’inizio del Novecento una grave crisi economica investì soprattutto il settore minerario dell’iglesiente, che occupava 15000 minatori. Le tensioni qui erano forti a causa dello sfruttamento degli operai e negli ultimi decenni del secolo erano aumentati gli scioperi e le agitazioni.
Tra questi il più famoso fu quello che portò all’eccidio di Buggerru nel 1904, che fu determinato dalla rivolta dei minatori, gravati da tredici ore di lavoro giornaliero con salari insufficienti e il rischio della silicosi. Nacque uno stato di tensione tra i duemila operai e il direttore della miniera Georgiadès, che nel settembre del 1904 cambiò gli orari di lavoro, riducendo il riposo previsto per il pranzo; ciò suscitò la reazione dei minatori, attraverso i sindacalisti Battelli e Cavallera.Intervenne la forza pubblica, che aprì il fuoco, uccise tre minatori e ne ferì altri undici. Questo fatto provocò scalpore in tutta Italia e il settentrionale socialista “Primavera d’Italia” ne diede un resoconto scrivendo “il sangue dei poveri bagnava Buggerru”.
In seguito alla vicenda, che si aggiungeva ad altre manifestazioni di malcontento in Italia, i sindacati proclamarono lo sciopero generale nazionale, il primo della storia del movimento operaio italiano, che andò dal 15 al 20 settembre, in segno di protesta contro il governo e le forze dell’ordine. Questi eventi sociali e politici sono narrati, assieme alle vicende del protagonista Angelo Uras, nel romanzo di Giuseppe Dessì “Paese d’ombre” in modo molto drammatico. Ma anche Satta venne colpito da questo eccidio e nella sezione “Icnusie” dei “Canti barbaricini” inserisce la poesia: "I morti di Buggerru"
Questa poesia è un canto di morte, ma anche di speranza, perché il poeta vide nei primi gruppi di operai sardi del Sulcis-Igliesiente, il nucleo capace di lottare non solo a difesa della classe operaia, ma allo stesso tempo di usare la sua forza d’urto per smuovere e modificare la società agro-pastorale barbaricina. Proprio per questo continuo riferimento al mondo dei poveri, agli strati sociali più umili e gravati dalle ingiustizie che colpirono sempre di più gli ambienti agropastoriali sardi, a partire dalla legge delle chiudende, si parla di ideologia socialista in Satta, che si identifica con quella utopistico-umanitaria presente già in Pascoli e altri letterati del ‘900. Ma mentre in Pascoli si salda con i suoi principi religiosi, l’atteggiamento del nostro poeta è spesso decisamente anticlericale. Le ingiustizie sociali in Sardegna apparivano strettamente legate alle ingiustizie che per secoli i sardi avevano subito, perciò le lotte presenti gli apparivano come la naturale prosecuzione delle lotte del passato. Il Socialismo del Satta sarà un socialismo tutto suo, umanitaristico, sentimentale,per alcuni critici addirittura più vicino a quello di un De Amicis che non a quello di Pascoli, ma sempre di sapore locale, secondo le esigenze di rinascita della Sardegna. I costi delle guerre avevano spinto il governo a imporre imposte onerose che avevano colpito soprattutto pastori e contadini, che si videro raddoppiati e triplicati i prezzi degli affitti delle terre, alle quali avevano prima accesso mediante modesti canoni. Conseguenza di tutto ciò furono il banditismo e l’emigrazione. Nacque una nuova coscienza etica e democratica in Satta e in altri, come Dessanai, Murru e Rubeddu, poeti in sardo, che si sviluppò nell’ambito del positivismo. La “Poesia senza titolo” supererà i toni teneri e lacrimosi dei “Canti di Lazzaro” e passerà ad una poesia più dura ed efficace, dove il Satta appare vicino alle lotte popolari, e al diritto che sancisce la proprietà della terra a chi  lavora. Cristo è visto come primo socialista, raffigurato come un capo politico che svolge un nuovo programma sovversivo, che prende ai ricchi per dare ai poveri.
Il socialismo di Satta è dunque utopistico, populista, non scientifico. In questo senso “ideologico” si spiega anche il suo “Garibaldinismo” espresso in versi e in prosa. Garibaldi stesso nel 1880, due anni prima di morire aveva dichiarato:”Il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista”. Il socialismo del Satta era del cuore e non della mente, fatto di umanità , giustizia, libertà, come quando espresse il suo aperto dissenso contro i decreti del Governo Pelloux nel 1900, decreti che limitavano la libertà di stampa. Sappiamo però anche che, quando si trovò a collaborare con Gastone Chiesi alla rivista “L’Isola”(1893/94), la politica con accenti sovversivi è lasciata al Chiesi mentre egli si rinchiuse nelle note di costume e nelle prose sentimentali a firma “Povero Jorick”.
Questa adesione al socialismo avrebbe dovuto garantire il riscatto della Sardegna e percorreva una linea precisa e ben delineata, che passava per le “Icnusie”, dove si esaltavano personaggi di spicco come G.M. Angioy, l’Alternos, fino ad arrivare alle figure ideali di Garibaldi, Gorky e i minatori di Buggerru, che rappresentano un moto di ribellione, legato a realtà più moderne. Però anche l’idea di un Satta sempre e solo tribuno e vate, ribelle e protestatorio, incorreggibile, è vera solo fino ad un certo punto. Certo, Carducci e Pascoli suggestionarono il Satta, che tentò una poesia storica e sociale, e cioè oratoria, troppo inferiore alla sua tipica poesia barbaricina, in cui invece si trova un mondo singolare e inconfondibile.
Critici letterari come Ravegnani, Sinsini, Pancrazi, hanno osservato queste cose, ponendo in evidenza proprio le peculiarità locali, in temi alti e internazionali. Egli visse a Sassari e a Nuoro le idee mazziniane, repubblicane e socialiste, l’antireligione e il progresso, tutti gli ideali democratici incrociandoli con il costume, la fedeltà e la fierezza isolani, e quegli alti ideali prendevano un colore ancora più acceso e risentito. Si vantava ateo ed empio ma cantava la Madonna e Gesù Bambino, si considerava repubblicano di antico stampo, socialista, e adorava Garibaldi. Infatti, in occasione del centenario della morte dell’eroe, il poeta si reca a Caprera e visita la tomba dell’eroe dei due mondi, che definisce nella poesia ”A Garibaldi” “il leone in sepoltura”.
Garibaldi stesso si era dichiarato socialista e Satta lo celebra nel suo discorso come animatore di nuovi ideali, che avrebbero garantito l’annessione di Trento e Trieste all’Italia, e come promulgatore di nuovi moti di rivolta.

- La scelta linguistica

Il poeta si era reso conto dell’enorme chiusura che l’uso esclusivo del vernacolo determinava e non lo aveva più usato. A Bologna, in modo particolare, aveva capito che bisognava sprovincializzarsi, uscire da un’area culturale limitata, per farsi conoscere e per esprimere la verità, l’ansia di ribellione e mutamento della sua Sardegna. Essere poeta dialettale significa farsi conoscere solo in ambiti ristretti, ma utilizzare l’italiano, per artisti come Grazia Deledda, Giovanni Verga e Sebastiano Satta, significa far soccombere la propria arte. Essi sono veramente grandi quando rievocano il mondo nel quale trascorsero la prima infanzia e l’adolescenza, l’ambiente degli avi, profondamente radicato nel proprio animo. Il Satta, proprio perché poeta ricchissimo di umanità e molto sensibile alle sventure altrui e della sua terra, fa la sua scelta, preferendo esprimersi in lingua italiana, ma il mezzo linguistico continentale non gli permise di affermare in modo adeguato tutta la profondità del suo mondo interiore; per molti rimaneva un imitatore di Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Certamente l’energia, l’umorismo presenti nella sua oratoria, emergono soprattutto nei sonetti in lingua sarda, che Satta inserisce nella raccolta ”Dalla terra dei nuraghes”. Uno di questi è veramente curioso, dedicato dal poeta a Enrico Berlinguer, nonno dell’omonimo segretario del Partito Comunista Italiano, al quale lui raccomanda che tutti si rivolgano come a un buon avvocato, al contrario di “Bustianu” che, ironizzando su se stesso, dice che non è in grado di mettere insieme due parole.

Inserire Sebastiano Satta fra i grandi intellettuali che hanno dato lustro all’isola è fin troppo semplice. Inserirlo in un contesto nazionale, in occasione poi, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia è invece più difficile, se si tiene conto sia della data di nascita di questo poeta, 1867, che della sua formazione culturale avvenuta in un contesto storico-sociale, quello della cittadina di Nuoro, piuttosto chiuso e apparentemente poco propenso a scambi con realtà esterne nazionali o internazionali. Ma come ebbe a dire Cavour, se era importante fare l’Italia, ben più complesso sarebbe stato fare gli italiani. Sebastiano Satta, seppure in un ambiente arretrato e geograficamente circoscritto, ha saputo offrire riflessioni, osservazioni acute e profonde, perfettamente legate e coerenti con certe correnti di pensiero nazionali che si sarebbero, nel tempo, affermate in Italia, contribuendo attivamente al rafforzamento del sentimento nazionale. Pensiamo al senso di appartenenza a un luogo, ai sentimenti di giustizia sociale e di solidarietà, cari a tutti gli italiani, senza i quali l’Italia non sarebbe arrivata ad essere importante come lo è nei fatti.

Per alcuni critici letterari come Petronio, in Satta i movimenti non carducciani sono rari, e di Carducci riprenderebbe i versi paganeggianti e parnassianeggianti de “Le odi barbare”: la polemica anti-cristiana, il vagheggiamento di un’antichità greca e latina, l’entusiasmo per la civiltà delle macchine di vecchio stampo positivistico e utopistico. Anche la protesta sociale più che essere protesa al futuro, consapevole del presente, sarebbe nostalgia di un passato di ribellione, di reazione e di banditi. Per questo la sua poesia sarebbe debole dal punto di vista dei risultati letterari.
Di fatto canta le macchine, i pali del telegrafo e avverte bene che con quei pali e quelle automobili muore tutto un mondo caro al suo cuore e alla sua fantasia. Li esalta non in odio al passato (come i Futuristi o d’Annunzio) ma per la perfetta consapevolezza della loro utilità sociale, consigliando ai “custodi dell’antico costume” di seppellire in mare la vecchia patria senza pianti(“L’automobile passa” in “Canti”).
Il poeta avverte che quel passaggio dall’antico al moderno è necessario e l’ideologia del Satta non si collega in alcun modo né all’attivismo né al nicianesimo: essa invece continua il Socialismo positivistico e umanitario che fu proprio del secondo ‘800 e ne riprendi alcuni miti essenziali: il maestro, la macchina, la lotta per l’uguaglianza e il progresso sociale, la speranza per un domani migliore.

Dunque, un poeta-vate, ma anche un uomo semplice, che ha amato profondamente la sua terra, esaltandola e mitizzandola nei suoi canti.
Uomo locale eppure nazionale che forse senza volerlo ha dato ai suoi compaesani e conterranei spunti per sentirsi parte integrante di uno Stato unitario, perché ha cantato la necessità della lotta insieme, unico strumento per uscire dalla miseria e dai soprusi, dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Egli ha capito i problemi della sua terra e ha tracciato la via per uscirne: la lotta senza indugi, la solidarietà imposta dalla tradizione nuorese e sarda, la vicinanza con chi soffre. Certo non ha parlato a platee vaste nè a folle oceaniche, ma il suo pensiero resta vivo e tuttora valido per tutti coloro che vogliono che l’Italia resti unita, questo è il filo sottile che ci unisce tutti: giustizia e solidarietà con chiunque calchi questa terra-madre.
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IL PRESENTE
Per le nozze di Emilio Sechi

Oh se fossi un pastore! Un re pastore
Come quelli di Fonni che governano
Greggie di agnelle innumeri:
O se pur fossi come quel chiomato
Patriarca d’Orgòsolo, padrone
Di cento armati servi,
Che nell’ottobre chiaro, quando scende
Dal suo bel Sangiovanni al Tirso e al mare,
Con le sue mandre, — giovanil corona
Gli fanno i maschi figli —
Campeggia tutta l’Isola,
E l’urlìo dei mastini
E degli agnelli il tremulo belìo,
Copre il sonante fremito del mare.

Se pari a questi fossi, amico mio,
Ecco, direi, ai miei servi pastori,
Nove carri di lana caricate,
Di lana matricina,
Di quella bianca e pura come il fiore
Del mandorlo, e tre velli

Di montone, pur essi, molli e candidi,
Come d’aprile i cumuli,
E andate dall’amico del mio core,
E ditegli: L’amico tuo, devoto
Al buon costume antico,
Ti manda questa lana e questi velli.
La lana per la rocca veneranda
Della tua sposa bruna;
Le pelli per i cari pargoletti
Che vi nascano in pace ed in fortuna.
Ma, fratello! passò
Vasto l’incendio sul mio dolce ovile:
E del mio lieto gregge di speranze
Un agnello mi resta,
Che fiero nutro con la madre cara,
Vindice dell’infranto mio destino!

Pure ti posso offrire
Un dono più soave,
Un serto agresto
Di motteti d’amore:

==>SEGUE
Freschi fiori natii,
Che udirono gli azzurri pigolii
Dei nidi a primavera,
Che sentirono i canti del pastore
Lieti, se torni a sera al focolare,
Dove la dolce sposa sta a ninnare.



MUTTOS

PRIMAVERA

Fiorita è la brughiera.
Dormon ne l’erba in fiore
Servi, mastini e armenti;
Fiorita è la brughiera…

O uccel di primavera,
Volale dentro il cuore
E dille i miei tormenti.
Canti Sebastiano Satta

CUORI LONTANI

Una cerva dal piano
Con una freccia al fianco
Sale a bagnarsi al fonte…
Una cerva dal piano…

Dalla chiesa del Monte
Vedo il mare lontano,
E piango e piango e piango!

CUORI LONTANI

Uccelli che volate
Ai venti, all’aria nera
Sino alle terre more…
Uccelli che volate…

Almen per una sera
Le ali mi prestate
Ch’io vada dal mio cuore!



SALUTO DAL CAMPIDANO

Lassù fonti di diamante
Sono in boschi fronzuti:
Qui la rana si lagna…
Lassù fonti di diamante…

Nubi che alla montagna
Andate, i miei saluti
Recate al mio gigante!

IL MIETITORE

Un tristo mietitore
In terre non cristiane
Spighe taglia di tosco…
Un tristo mietitore…

M’hai tradito! Che il pane
Ti sia contrario, e nostro
Figlio ti strappi il core.

IL VIOLENTO

Cani e ferro al cinghiale:
Ma in verde selva ombrosa,
Dolci panie all’uccello…
Cani e ferro al cinghiale…

Colomba, a te una rosa
E un bacio: a tuo fratello
Tre fitte di pugnale!

LA LUNA NERA

Nel cielo insanguinato
La luna brilla nera
Ché morto è l’usignolo…
Nel cielo insanguinato…

Vado come una fiera
Per salti e tanche solo!
Perché tu m’hai lasciato?




SPOSA

Sul colle, a primavera,
C’è un mandorlo fiorito
Ronzante d’api d’oro…
Sul colle a primavera…

Oh quella dolce sera
Con qual core smarrito
Ti separai da loro!

LA PORTATRICE D’ACQUA

I frati di Monteraso
Pingon la Maddalena
Con una rosa in bocca…
I frati di Monteraso…

Bevi alla mia brocca,
Bevimi da ogni vena
Il sangue che m’è rimaso!

LA SURBILE

La cuna urla d’affanno
Ché la Sùrbile col laccio
Fischia sotto le porte…
La cuna urla d’affanno…

Ti son caduta in braccio!
Dammi meglio la morte,
Ma non mi fare inganno.

IL BANDITO

Rosso il turbine venta
Sugli stazzi d’Alà:
Le cagne rignan forte…
Rosso il turbine venta…

È nato in mala sorte,
Alla morte s’avventa
Chi amare mi vorrà!
IL NOMADE

Vedo da punta Uddè
La fonte della Rosa
Il mare e il sol levante…
Vedo da punta Uddè…

Colomba graziosa,
Dietro il mio branco errante
Venire vuoi con me?

LA MADRE

Ai ruscelli la menta,
Al cielo l’astro d’oro,
All’anima la fede…
Ai ruscelli la menta…

Dormi dormi, tesoro!
La lampana s’è spenta
Ma il mio cuore ti vede.

SAN FRANCESCO

Stamane al primo albore,
Cantando i rosignoli,
Son passati i tre Re…

Oh andare andar con te,
A San Francesco, soli,
In promessa d’amore!

GONARE

A meglio udir cantare
Gli usignoli, i tre Re
Han fermato i cavalli…

Oh andare andar con te,
Per monti verdi e valli,
Sposi freschi a Gonare!
NOVEMBRE

Sotto il cielo piovorno
Scendon branchi e mandriani
Dal monte alla marina…

Oh fossi un de’ tuoi cani
Per esserti vicina
Sempre, la notte e il giorno!


APRILE

Per la strada fiorita
Tornano al caro monte
La greggia ed il pastore…

Alla svolta, sul ponte,
Ti rivedrò, bel fiore,
Cantando all’apparita.


IL FALCO

Alto, nell’alba fresca,
Il falco, occhioni d’oro,
Vaga qua e là sul vento…

Uno solo ne adoro,
E tu ne adori cento,
Ogni volto t’invesca.


L’AQUILA

Dal ciel l’aquila piomba
Sul branco, a rapinare
La più bella agnelletta…

Cento ne so guardare,
Ma tu sei la diletta
Dell’anima, colomba!
AUGURALE

Bianca la notte tace:
Chi picchia alla mia porta
Con la mazza d’alloro?

O capo d’anno porta
Frumenti al Logudoro,
E alla Barbagia pace!

IL CACCIATORE

Componi il fuoco: venta
La neve dalla gola
D’Orùne. Empi il boccale.

Componi il fuoco: venta…
Ma tu tracci il cinghiale
Sul monte, e il cuor diventa
Allegro alla tormenta.

NUORO D’INVERNO
All’esule

Freddo nido. A mezzodì
Fuggendo il sole lustra
Tugurî e vie fangose.
Freddo nido. A mezzodì…

Vero: anzi una lustra
Tra montagne nevose;
Pure il tuo cuore è qui!

A VINDICINO

Zio Grillo nella vallata
Ha smarrito gli agresti
Pifferi tra la bruma.
Zio Grillo nella vallata…

Vedi? Il diavolo spiuma
Le colombe celesti,
E fa la nevicata.

ALL’AMATA

Ecco gli ultimi squilli.
Il tizzo manda arguto
Gli ultimi bagliori.
Ecco gli ultimi squilli…

Oh accanto a te seduto,
In questa notte, e odori
L’arrosto e il vino brilli!



STELLA

La stella dei tre Re
Sul dirupo! Ha un sorriso
Di grazia ogni granito:
La stella dei tre Re…

Sette nemici ho ucciso,
Sono armato bandito,
E tremo innanzi a te!…



LE PREFICHE
Dedicata all’amico G. Boldetti

Notte di vento, notte di lamenti!
Tre prefiche stan ritte sopra i monti:
Vigili e tristi stanno a lamentare.
Non femmine ma Dee: sul focolare
Degli antri fan lamento con le fonti,
E il cuor divino gittano sui venti.

Barbaricine Dee che sui dirupi
Celan in arche dalle cento chiavi,
I sensi e i segni delle nostre vite:
Implacabili Mire redimite
D’alma quercia: Eumenidi soavi
E invincibili: e piangon sulle rupi.

Piangon col vento, gemon cantilene,
Nenie di madri su infiorate cune:
Ruggon bestemmie mormoran preghiere,
Latrano come cagne sperse in nere
Montagne, sotto cieli di sfortuna,
Ridon dementi, sognano serene.

Urlan d’amore sotto il ciel crudele:
Singhiozzan come voi, spose, sui fidi
Cuori defunti: spasiman feroci,
Avventan sorde disperate voci
Di vedovate madri lungo lidi
Deserti, dietro le fuggenti vele.

— O Deu, o Deu, o Deu! — grida, raccolti
Nel busto d’oro i seni, la marina
Prefica del Bàrdia. Al mesto grido
Rompon in pianto sul deserto lido
Le sirene: ma i cuori e la supina
Terra, paion in gran sonno sepolti.

— O Deu, o Deu! Barbagia, è la tua notte
Profonda e perigliosa: né ginepri
Hai tu per le tue fiaccole, né miele
Per le ferite tue. O di assenzio e fiele
Abbeverata madre! Aspri di vepri
Sono i tuoi colli, e son deserte e rotte



==>SEGUE

Le argentee porte dei tuoi gioghi. Il sole
Brucia il tuo pane, e son fatti scorzini
I tuoi pastori e serve le pastore.
Oh antichi maggi, odorate aurore
Di serpillo! Salìa dai cilestrini
Borghi, un ronzìo di pecchie e argute spole.

Ora la febbre stilla dalla esausta
Idria, l’acqua agli scalzi falciatori
Di giunchi e biodo, nei maligni greti;
I poggi senza canti ed i forteti
Senza fontane, assonnan tra i vapori
Gravi estuosi sotto l’aria infausta.

Perfida e grigia sta sopra Coràsi
L’altra prefica; siede al focolare
Spento, ché bene la riscalda il vampo
Del cuor crudele. — Ohi! Immé! Immé! Il lampo
Insanguina la tanca il salto il mare,
Urlan le Furie sui vertici rasi

Dai dèmoni del vento. — Immé! la pietra
Del focolare è fredda e tutta nera
Di sangue! O miei selvaggi figli morti!
Per gli ovili deserti urlano i torti
Nembi: son spenti i fuochi e nella fiera
Solitudine, il mio cuore s’impietra.

Sciagura al dì che al disperato cuore
Scese il congedo vostro, o mandrïani.
Esuli dalla tanca, in mozze chiome,
Leccaste il rancio della ciurma, come
Cani da piatto, e i turbini lontani
Invocai avversi alle migranti prore.

Ora badate i porci nella pampa,
E siete servi e siete manovali
Smarriti e inermi: ed ogni eremitano
Vi sputa addosso, e avete dell’estrano
Paese, modi e fogge, e siete quali
La gente di bisaccia, senza vampa

Di vergogna sul viso. O miei banditi,
Meglio meglio gli sdegni ed i corrucci
Vostri ed il vostro sangue, che non questo
Vil seme di bastardi! O asilo agresto
Dei monti, ultimo asilo, di che crucci
Fremé il mio seno, quando, tra i graniti,

==>SEGUE
Belli e violenti i vendicatori
Giacquero uccisi! E tu, aquila grigia,
Re di strada, canuta gioventù
Fulminata sul greppo! Ora non più
La brava tua canzon, mentre meriggia
La montagna, richiama i cacciatori.

Tornate, esuli imbelli, alle divine
Montagne. Già da tempo hanno le volpi
Guastato la vendemmia, e han fatto tane
Negli ovili i cignali. Alle lontane
Mandre tornate, alle baldanze, ai colpi
Di fucile, tornate alle rapine. —

Estrema voce al disperato coro
Vien giù da Bruncuspina. La nivale
Prefica piange: piange fuor dei boschi
Fragorosi, più su dei cieli foschi,
Nell’aere immacolato, in un nimbale
Diadema di nevi e d’astri d’oro:

— Donne, filate nella triste veglia
Le lane nere, i peciati velli
Degli arieti cresciuti nelle spiagge;
Filate, mentre anch’esse le selvagge
Fiere dormono e gli alberi e gli uccelli,
E solo la dolente anima veglia.

Donne, tessete con lo stame nero
Il fosco orbace, e lo tagliate tutto
Tutto tutto ad un nero vestimento.
Ahi! non bastano cento e cento e cento
Canne d’ordito, per vestir di lutto
Tutti i vostri pensieri e il mio pensiero!

E, donne, sospendete all’architrave
Di ginepro, le lampade di ferro:
E sia spento e spazzato il focolare,
E in devoto cerchio a lamentare
Siedete su sgabelli alti di cerro,
E bruciate l’olibano soave.

Ché vostra madre — verde alpestre ramo
Di leccio, amor dell’aquile, cuor mite
Ed atroce — già compie il suo destino.
Fatele onore, ché altra, nel divino
Cuore di madre, non portò ferite
Più di questa Selvaggia che piangiamo.

==>SEGUE
E neppur dieci coppie di quei buoi
Fortissimi, nutriti nel pianoro
Con la quercia, potrebbero in sette anni
Trainare la soma degli affanni
Tuoi, o madre veneranda, e del martoro
Tuo, e dell’odio di tutti i figli tuoi!

Fatele onore, ché fu madre antica
Di pastori patriarchi, che al verno
Popolavan di greggi i Campidani
E i paesi del mare, e avevan cani
E cavalli bellissimi, e governo
Avean sulla genìa scalza ed aprica.

E fu nutrice di servi fedeli
Che, delle spose immemori, nell’uzza
Del mattino, sui monti vigilavano
I verri, ed imperterriti cacciavano
L’irto cignale, con la selce aguzza,
E con la fionda l’aquila dei cieli.

E fu madre di vecchi e di garzoni
Arguti ai canti come la cicala
Del poggio, esperti al coro ed alla gara:
E d’agricoli fu madre preclara,
Abili nel guidare sopra un’ala
Di monte, i plaustri gravi di covoni.

Fatele onore! E voi, strani romiti
Pastori di Lodé, che vi cibate
Di carne e miele, voi di bassa fronte:
E voi pastori miei del Supramonte
Di Orgòsolo, aspre stirpi coronate
Di nera chioma, indomiti Pelliti,

Ecco, voi tutti, presso le fontane
Dei vostri ermi valloni, tra la selva
Cedua, stanate coi magri mastini
Il gran cervo solone; dai quercini
Boschi caduti, moribonda belva,
Salì le solitudini montane.

Qui l’uccidete ed arrostite i lombi
Sull’ampio focolare, e focolare
Sia un cerchio di nuraghe, e dal caprino
Otre fremente voi spillate il vino,
E pranzate nel bosco secolare
Ultimo, tutto vivo di colombi.

==>SEGUE


Fate il banchetto funebre, ed il canto
Triste e fatale ogni lamentatrice
Intoni cinta delle bende gialle:
La domatrice rude di cavalle,
La fiericida, la vendicatrice,
Stesa è sui monti col grande arco infranto!

L’AUTOMOBILE PASSA
a Claudio Demartis e a Baravelli


IL VILLAGGIO

È l’alba, un’alba nuova, pur se il gallo
Non canti e taccia il corno
Del capraro, ché incombe al triste vallo
E al mare il mezzogiorno.
Alba di vita è questa! Donne, il vino
Date agli uomini, e il miele
Ai fanciulli, e a tutti il bacio e il divino
Riso del cuor fedele.
Rotto è l’incanto desolato: avrà
Un pio palpito umano
Anch’esso il mio cuor rude: la città
Lieta mi dà la mano.



LO STAZZO

O Febbre che fu? Un’aquila, una freccia,
Col volo fremebondo,
Mi corse sulla strada aspra di breccia,
E mi parlò del mondo!



LA TANCA

Divina solitudine, che fu?
Nel silenzio dell’ora,
Udivo nascer l’erba e scender giù
Il pianto dell’aurora.
Or, ecco, un rombo strano e strane belve
Passano. O rusignoli
Antelucani, o fiori, o mandrie, o selve,
Ora non siam più soli.


LA BARDANA

Io son ferita! O miei feroci alunni,
Con la soga e la ronca
Che guidai nelle lune degli autunni
Ventosi, alla spelonca
Del mandrïano, a cui feci dai loschi
Occhi, recer la vita,
O miei figli, tornate ai vostri boschi,
La leggenda è finita!


IL POETA

Udite, morituri archimandriti,
Patriarchi custodi
Dell’antico costume, e voi, banditi,
Belli feroci prodi:
La patria che nudrì l’anima amara
Di crucci, è moribonda.

Or voi con l’elce fatele una bara
Grande grave profonda,
E, morta, ve la chiudete, nei manti
Neri del secolare
Suo silenzio ravvolta, e senza pianti,
Sprofondatela in mare.

TRE PRIMAVERE

O arsa Baronìa, se la pernice
Tra i fieni guidi la covata, e il grano
Biondeggi lieto, sogna nel tuo piano,
Tra fiume e mare, il tuo figlio felice:
Di primavera a me piace tra’ pioppi
Sieder cantando, e udir donne a cantare
Motti d’amore. Fra sereni scoppi
Di risa, quella che m’à preso il cuore
Fugge e mi sfida: chi potrà legare
La bella fiera coi lacci d’amore?

Ma sogna il figlio del verde pianoro,
L’uomo vestito di broccato e d’oro:

Di primavera sento nelle bianche
Notti di luna un fremer di cavalli.
Ecco io deliro correr per le tanche
Fiorite, su un puledro di tre anni,
Correre sempre, correr fin che i gialli
Fuochi del sole indorin San Giovanni!

Ma pensa il figlio della rupe, cuore
Tutto di selce ed anima d’astore:

Di primavera l’anima m’investe
Un folle soffio di rapinamento!
Oh calar dai dirupi, con agreste
Torma orgolese, a saccheggiar gli ovili,
E poi salire, anzi volar sul vento
Dell’aürora, al monte, ai noti asili!

EMIGRANTI

Non dormono, ma sognano: l’artiglio
D’un nostalgico sogno s’è confitto
Loro nel cuore: non più il bel coritto
A fiamme azzurre, il coritto vermiglio
Che li vestía di luce, ma il fustagno
Vile e la fuscïacca! Il sogno al rullo
Della nave si culla: fosco e brullo
Dentro il cuore è il villaggio, erto grifagno
Sulla deserta rupe: al limitare
Filano nere donne taciturne.
==>SEGUE


Ed ecco la montagna e grotte ed urne
Sonore al vento che vien su dal mare.
Pascon lungi i mufloni. I padri, soli,
Nelle capanne. È sera: dall’altura
Sale la luna: van per la frescura
Armenti e greggi e cantan gli usignoli.

NINNANANNA DI VINDICE

Tacciono i galli e taccion gli usignoli
Poi che sul colle tramontò la luna.
Ninnananna, tesoro! i grilli soli
Strepono fuori della zolla bruna.
Quando sarai grandino, ninnananna,
Coi giunchi caccierai per la foresta
I pettegoli grilli, ninnananna,
Che al triste padre tuo rompon la testa.

Cala la luna: dalle balze d’oro
Si leva, cinto di coralli, il sole.
Su su su su! Le vipere tra loro
Sibilano e le biscie fan carole.
Quando sarai più grande, ninnananna,
Sarai più ardito e destro cacciator:
Schiaccia la testa ai serpi, ninnananna,
Che al triste padre tuo schizzan tra’ fior.

Oh notte della colma primavera!
Or scendon i cinghiali dalle selve
A sgretolar le spiche; l’ombra nera
È tiepida d’aneliti di belve.
Su, in groppa, con lo schioppo, ninnananna,
Caccia i cinghiali e uccidili sul monte:
I falchetti son desti, ninnananna,
E il primo raggio imbianca l’orizzonte.

L’alba è vicina: accendi la tua face
Al primo raggio, o mio Vindice. Al piano
Vanno i rei mostri in guerra col mendace
Stuolo dei sogni: all’erta, o mio sovrano!
Sei fatto grande e fiero, ninnananna!
Son mille più di mille i tuoi compagni:
Allegri, cacciatori, ninnananna,
Che l’aria è corsa da continui lagni.

==>SEGUE

EPITALAMIO BARBARICINO

Un gallo canta e gli risponde un gallo.
Rintrona il corno pastoral: riapre
La servetta le stalle, escon le capre
Bianche pavide: il greppo è di corallo.
Ma perché oggi ronzano l’albata
L’api dell’orto e mormoran tra loro?
Stasera vien la sposa inanellata,
In nivea benda, col bel cinto d’oro.

Pendon uccise pecore e montoni
Dai cavicchi di corno: nei canestri
Olezzan fichi e pesche, e di campestri
Gigli è sparsa la corte. Oh quanti suoni
E balli avremo qui, ché dai paesi
Corsi dai soffi ardenti della Libia
Son venuti stanotte i Marrubbiesi
Esperti della falce e della tibia.

Or riposan nel portico, su letti
Di pervinca; nell’ora vespertina
Intoneranno la pelicordina,
La danza dei mandriani giovinetti.
E tu, labbro di miele, tu rapsodo,
Che le generazioni e le scritture
Sacre conosci, e sai, divino, il modo
Di allietare tutte le creature,

Che sei signor dei sogni e re degli inni,
E col tuo verbo leghi gli usignoli,
Su levati, già s’aprono i boccioli
Del beldigiorno e squillano i cachinni
Delle operose serve, e un canto intessi
Memore e bello che allegrezza dia
Ai mesti: al falciatore tra le messi,
E al nomade pastor nella sua via.

E tu, nutrice antica, apri il portone:
Spalancalo, ché or vengon dagli ovili
I guardiani dei branchi, coi fucili
A pietra, e portan tutti il forchettone
Fausto, ravvolto in salvia ed in mortelle,
E portan pur cignali e mufle d’oro,
Piegate, sanguinanti dalle selle
E le trote e le anguille del Taloro.
==>SEGUE
EGLOGA

Sono in prigione i piccoli pastori,
E maggio scende giù dalla ferrata
E batte ai cuori. Non la madre afflitta
Essi pensano, sì le nicchie azzurre
Della montagna, le sublimi tazze
Dell’aquila e del cervo.
Verdi di pino gli altipiani odòrano;
I cavalli son sciolti e i padri cacciano
Canuti sulla rupe.
Doghi e molossi latrano,
Ma i giovinetti stesi, sulla sella
La bruna testa, vedono passare
Alti voli di astori e cilestrine
Ombre di nubi, mentre il servo antico
Fa racconti di sangue e di rapine.

IL PADRE

Figlio innocente! Il marmo ed il granito
Son fragili ricordi, e il bronzo e il ferro
Sono in balìa dei fulmini.
E quella pietra nera
A cui presso ti vidi
— E ti era accosto il dogo
Che avea rotto le soghe —
Sì, quel nero basalto battezzato
Col tuo sangue, sarà roso dai secoli.
L’odio soltanto sta nei cuori eterno.
O figli, o figlie cui dolce fratello
Egli fu, o miei figli!
E voi nepoti, figli
Della settima generazïone,
E più in là, mandrïani,
Aratori, pastori,
Banditi, quando ai rivi e alle fontane
Vi dissetate, proni come belve,
E quando con lo sguardo muto e acuto
Voi giudicate il pascolo ed il solco,
Vi guardin di sotterra
Gli occhi suoi di colomba,
Fisi, e vi s’anneri intorno il mondo
Pe ’l suo ricordo e per la sua vendetta.






LA MADRE DI ORGÒSOLO

La madre cerca il figlioletto ucciso:
Era una palma, un fiore di narciso!

E aspettandolo, in pianti s’addormenta:
Un nembo di vendette fuori venta.

Sognando cerca tutta la campagna,
La valle il piano il bosco la montagna.

E cerca e cerca lo ritrova in cielo,
Con la mandra, in un campo d’asfodelo.

«O mamma, t’aspettavo e sei venuta:
Ma come piangi, come sei sparuta!

Oh rimanti con me! Ecco, è l’aurora,
E il padre il padre mio non viene ancora».

«Babbo non viene ancora a queste parti,
È rimasto laggiù per vendicarti!»

CANI DA BATTAGLIA
Per la guerra libica

Sardi mastini di gran possa, voci
Nell’ombra formidabili, mastini
Di quel buon sangue antico, che gli atroci
Padri aizzaron contro i legionari:
Alani d’Orzulè, barbaricini
Doghi cogitabondi sanguinari:

Cani di Fonni, vigili sui monti
Deserti al passo dei rapinatori:
Pugnace razza implacabile, pronti
Sempre all’assalto, come l’aura lievi,
Seguaci come l’ombra, negli orrori
Delle notti ventose, tra le nevi,

Soli compagni al nomade e al bandito:
— Il bandito nel fiero odio tenace
Richiama il suo fedel dogo nutrito
Di strage: Murrazzànu, Sorgolino,
Leone, Traïtor! ma più gli piace
Il nome fratricida di Caino.

Cani di tutta l’Isola, al pastore
Presidio ed all’armento, dalle acute
Zanne bramose a sradicare il cuore,
Ecco: la Guerra suona la dïana,
La Cacciatrice chiama le sue mute
Alla gran caccia, come alla bardana.

Ma si caccia altrimenti che nei freschi
Querceti di Gallura e Logudoro,
Qui cuor per cuore sia, cani sardeschi!
Siate tremendi e prodi a gara a gara,
Come in quel germinale, sul sonoro
Lido di Quarto, in Capo Carbonara.

O pastore d’Ogliastra, tu che calchi
Primo gli ultimi ghiacci dell’Orisa,
E ne sai tutti i venti e tutti i valchi,
Grande un mastino d’Àrzana tu scaglia:
Egli saprà cacciare in quella guisa
Che sui dirupi, in mezzo alla battaglia.
==>SEGUE

Egli tracci quell’un, che il tuo vicino
Straziò innocente, e a lui cavi l’entragna
Come all’agreste verro il buon mastino!
Ecco ritorna. Pedra Liana ai raggi
Del sol morente è un’ara: la montagna
È rossa di garofani selvaggi.

Aquile nere vanno incontro al sole,
Alte divine; Gennargentu splende
Nella gran sera cinta di viole.
Torna il mastino d’Àrzana. — Alle porte
Schiuse al duolo, una madre in nere bende
Sta grande e fiera in un pensier di morte. —

Verrà, Ogliastra, sanguinoso a bere
Prima al tuo monte. Dagli a dissetarlo
Tutte le vene delle tue scogliere,
Ma non lavarlo, no! Sian rosse ed adre
Le sue zanne di sangue, ché a mirarlo
Gioja ne avrà quell’aspettante madre.

PICCOLO GIAMBO

Bocche che ancor sentite
Il desio di materni
Baci, e agli immiti inverni,
Come gigli sfiorite:

Lievi manine fatte
Per sorprender farfalle,
Per coglier nella valle
I nidi tra le fratte:

O piedini cui morde
Frizzando acuto il gelo,
Se agghiaccia terra e cielo
Il Dio misericorde:

Chi vi fa ramingare
Così, sempre, o piedini?
O poveri bambini,
Chi vi fa mendicare?

Perché piangono i cigli
Vostri, o bambini leggiadri?
Non han più scure i padri
Non han le madri, artigli?



LA SCUOLA DI CHILIVÀNI

Tornavo alle mie rupi, alla mia lustra,
A una tomba romita
Tornavo: — oh tomba innocente, che lustra
Dalla montagna la nascente luna! —
Pioveva: nel livido orizzonte
Era un sorriso solo
Di crisantemi rossi.

Per la stazione desolata e vasta
Non ombre o voci. I treni eran partiti
Per terre di dolore
Portando altri dolori.
Nel piovoso orizzonte
L’aiuoletta ridea
Davanti a un dolce nido:
La scuola… Salve, pia scuola, nel verno
Delle tanche ventose incoronata
Di fiori: arnia ronzante
Di cento voci d’oro.

Alla fredda mattina,
Quando gli armenti bradi
E l’errante pastore
Escono dalla notte
Torvi, con l’occhio insonne,
E canuti di brina,
Voi dalle cantoniere
Dal Logudoro antico,
Del pampineo Meilogu,
Armonioso, amico
Dei vati, e delle nere
Di solchi piane d’Àrdara,
Dai bianchi bugni
Solitari e tediosi,
Voi sciamate, piccini,
A quest’arnia festosa,
Sul tonante convoglio
Che vi attende e vi porta.

E la scuola vi accoglie
E vi abbraccia, o miei figli;
Vi accoglie col sorriso

==>SEGUE


De’ suoi fiori vermigli
Coi tepori d’un nido,
Con la parola augusta
Delle vostre regine,
Le madri che, in divine
Ansie mortali, il cuore
Hanno sempre sospeso
Pei loro figli e per i figli altrui;
Con la dolce parola
Di quelle vostre madri giovinette,
Delle vergini madri,
Le vigili sorelle
Vostre maggiori, liete
Nell’opera gentile,
Pari a lodolette quando s’alzano
Dai solchi dell’aprile
E in vista al nido cantano.
E le vigili schierano
A voi la strada oscura
Con la facella d’oro.
E vi ammoniscon: — Gloria
A chi sparge il buon seme
Per la trebbia futura:
E gloria a tutti i cuori
Palpitanti d’amore,
In terra e sotterra:
Gloria alle braccia umane
Faticanti nel mondo
Pei piani per i monti per gli ocèani. —
Ma alle vostre vetrate
Grida il vento sinistro,
Urla il sinistro fischio
Del dèmone che va
Con la sua turba nera,
Col rapido traino
Di gioje e di tormenti.

Che se l’uggia vi avvolga e quel lavoro
Vostro, la nobilissima fatica,
Vi sembri dura ed inamabil cosa,
Ripensate alle pene vagabonde
Travedute nel vostro breve volo,
Nel vostro breve viaggio cinguettante;

==>SEGUE

Ripensate la pena
Nel piccolo pastore,
Che invidia velli ed erbe alla sua greggia,
E se ne va ramingo sotto il cielo
Vasto, che lo minaccia e lo percote
Cieco, con le sue raffiche di gelo;
Ripensate la pena
Del misero aratore
Che ara senza canti, tra la sizza
Del gelido mattino,
La terra che un altro uomo mieterà;

E riandate la pena
Di quel seminatore
Che avete visto torvo contro il nembo,
Seminare il suo solco, e avea nell’atto,
Spoglio di santità,
Una crudel tristezza, una minaccia
Folle: parea che il misero gittasse
Semente d’odio sulla terra antica.

Or ecco è l’ora del ritorno, e tu
Sbuchi, ronzante sciame luminoso,
E s’allegra il deserto.
Ed è l’ora che i treni
Sono giunti dal mare,
Spinti dalle tempeste,
E giù dai monti neri,
Aneli a rincontrarsi
In questo muto cuore
Dell’Isola. La turba
Nera che viene e va
Sui fumosi convogli,
La varia turba oscura
Che parla tace e canta:

L’operajo, il signore,
La placida signora,
La madre del bandito
Che trema come fronda,
Il ladro catenato,
Il soldato che fischia
E canticchia, l’astuto
Cellonajo, l’anziano

==>SEGUE



Coi calzoni di saia,
Ed il rapsodo, arguto
Re dei canti, in bisaccia,
E il nomade col sago,
Barbuto e taciturno,
Tutti con un palpito
Di gioja guardan voi,
Piccoli alunni, figli
Di tutti i cuori, fiori
Fioriti in rudi solchi,
Albe aspettate in tormentose notti.
E sospirano: Gloria
A te, buono, per questo
Albergo ai voli onesti,
Per quest’arnia sicura
Agli innocenti sciami,
Per questa fonte pura
Scavata nel deserto.
L’AQUILASTRO

Smarriti, a notte, andavano. Melchiorre
Guardingo, innanzi. Rombava la voce
Della bufera, grande tra le forre.

Era l’ira di Dio in quell’atroce
Valle d’Orune. Ai lampi, camellieri
Servi e re si facevano la croce,

E gridavano: Siamo passeggeri
Sperduti a mezza strada. Aiuto, aiuto
Ai re magi, porcari di Marreri!

Chiamavano al deserto: ché l’irsuto
Guardiano, se infuria la bufera,
Più bada e pensa al suo verro sperduto,

Che non ai re. D’un tratto un’ombra nera
Scorge Melchiorre: un piccolo servetto
Pastore vede, in pelli e in ventrïera,

Un aquilastro, con un suo branchetto
Smunto, a un ridosso per la tramontana.
Dolce gli parla: — O bel sardignoletto,

Salute! Odi, fa opera cristiana:
Noi siamo forestieri e abbiam smarrita
La strada. Andiamo a Nuoro: è lontana

Nuoro? — Eh! fa lui, una bestia spedita
Vi giunge in un’oretta, ma un pedone
Ne impiega quattro, ché è tutta salita.

Ma voi chi siete? Da quale regione
Venite? Forse siete proprietari
In cerca di bestiame o di pascione?

E codesti animali straordinari
Che diavolo sono? — Son cammelli,
Questi a due gobbe, gli altri dromedari;

E noi siamo i tre re. Senza vascelli
Siam venuti dai regni d’oltremare,
A recare speranze e sogni belli.

==>SEGUE
Ora si va a Nuoro. Ci vuoi fare
La strada fino a Nuoro? Su, ride
Già l’astro, e abbiamo a cuore d’arrivare. —

Sì, la stella lucea su Puntafide,
Grande e chiara. La vede ed a cavallo
Baldo salta il fanciullo, il falconide,

E va coi re. All’alba, il nudo vallo
Tutto è desto; le mandre per gli ovili
Bianche vagan tra’ sondri di corallo.

Il bimbo trotta e ciarla: — Oh voi, fucili
Non ne avete… Mio padre n’avea uno
Lungo, di canne sottili sottili.

Mio padre? L’han sgozzato presso al pruno
Del limite: arava in Punta Fumosa
Arava: non facea male a nessuno!

Io son servo. Mia madre Graziarosa
È sola in casa, sola, ora. — Ed al pio
Ricordo della madre dolorosa

Tacque. Poi borbottò in quel natìo
Suo modo un canto che sembrava il pianto
Di un affanno che non conosce oblìo.

Ma ecco Nuoro: ecco il camposanto,
La tanca della morte, e la chiesetta
Sola: la Solitudine, e d’accanto

L’abituro di Lino, con l’erbetta
Argentea innanzi: e in fondo della via
Il dazïere nella sua garetta.

Nuoro squillava all’epifanìa.
— Eccovi giunti, disse l’aquilastro,
Io torno, e voi andate con Maria. —

— E tu con Dio, risposero, e che l’astro
Nostro ti segua, e dovunque tu vada
Ti si muti in olivo l’olivastro.

Però, prima, hai da sceglier ciò che aggrada
Di più a te, tra’ bei donuzzi ch’oggi
Noi portiamo ai bebè d’ogni contrada. —

==>SEGUE
Ecco gli ospiti amici arsi dal sole,
Arrivati da Òrfili e dai salti
Marini, belli con legati agli alti
Arcioni, il serramanico e le pistole,
Con l’esili archibugi e le cinture
Di cordovano azzurro, e la bisaccia
Fiorita. In dono recan confetture
Di cedro e il moscatello e la vernaccia.

Non vino: ché stan chiuse nel celliere
Molte botti, e tutte d’olianese
Ambrosia, che prigioniera intese
Il palpito di venti primavere.
Sangue del sole espresso dalle rupi
Calcaree, amaro come il fior del vepro,
Ardente e aulente come su le rupi
Di Puntanidos fiamma di ginepro.

Rompete i cocci e i piatti! Ed entra, o sposa,
Nella tua nuova casa. E voi, leggiadre
Vergini, sospingetela alla madre
Nuova: ella l’abbracci con lacrimosa
Gioja! E voi tutti, reverenti, doni
Datele e il bacio, e le fanciulle intanto
Appresentino i vini ed i torroni.
E tu, rapsodo, tu libera il canto:

Amore suona forte la sua tromba,
E intìma guerra in un giardin fiorito.
Volata è qua, col suo cuore ferito,
Una gentile e candida colomba.
Datele un amuleto di verbasco
E vino dolce e pane di frumento,
Fatele un letto d’oro e di damasco
E una culla con tavole d’argento.



Ogni cor lo respinge. Un pane d’orzo
E poco latte, fuor della capanna,
A lui porge il pastore, e Lino siede
In un canto, lontan dal focolare
Che solo splende ai buoni. Indi solingo
Dagli ovili si toglie, e va col vento

Per le tanche randagio, né l’acuto
Assiduo gelo della mortal febbre,
Che le misere sue membra raggriccia,
Scioglier potrian pur quelle che sul folto
Ortobene, nereggian elci annose,
Se ardesser tutte tutte in un sol rogo.

Ora lassù nell’antro suo, che al vento
S’empie di voci, Lino ascolta il nembo
Folgoreggiando dirupare al piano,
E fra l’èmpito sente, e il rotolare
Grave dei tuoni, fremer con la nostra
L’ira di Dio. —

Così dall’aquilino
Reo sguardo, balenando l’implacato
Odio, il vecchio parlò.

Dal vasto piano
Fra il gemito e lo scroscio delle quercie,
Passionate dai flammei abbracciamenti
Del fulmine, salìa vario il tumulto
Degli armenti e dei greggi, e voci e sibili
Dei mandriani, e dei torrenti il tuono.

Ruppe allor dalla mia anima il grido
Su la procella. O rivi che, dai vertici
Fulminati, correte alacri al mare:
E negri uccelli, voi che dei divini
Cieli siete i pensier torbidi: e voi
Venti, che siete degli aperti cieli
Il palpito e la voce, con voi lungi
Rapite il seme onde germoglia l’odio
Che il cor ci strugge, e dolce sopra l’anima
Scenda un sogno di pace, qual, su torva
Fronte, scende una pia mano materna.
LIA

Gonari, il monte, avea la benda oscura,
E Lia fuggì col suo nato innocente.
L’accompagnò la rabbia di sua madre,
La maledizione di suo padre,
Il riso e la bestemmia della gente:
Ma Lia si strinse al cuor la creatura,

E andò col suo peccato. Gli aratori
Aravano sereni al piano e al monte;
Incitavano i buoi: Boe montadì!
Dal piano rispondean: Boe porporì!
E nella rosea sera l’orizzonte
Palpitava di mugghi e di clamori.

— Uomini santi, la pietà d’un pane,
Ché non ha latte il cuoricino mio:
Pietà, uomini santi! — Ahi! che i bottoli
L’azzannaro, i fanciulli pe’ viottoli
La rincorsero, e gli uomini: Che Dio
Ti salvi! mormoraron, le lontane

Figlie pensando, e aperta la bisaccia
Presso il fuoco, con l’olio dell’olivo
Tinsero i pani d’orzo per la cena.
Ed ella se ne andò con la sua pena,
Riscaldando quel suo redo mal vivo
Col pianto che rigavale la faccia.

E cammina cammina, ecco le mandre,
Ecco i pastori vestiti di pelli
E fiamma, coi fucili e il manto nero:
E tanche inseminate e nel mistero
Del salto, stazzi fumidi ed agnelli,
E cani e greggi e voli di calandre.

Lia pregò: Miei pastori, sono sola
Su questa terra: mi è fuggito il latte
Pel patimento, e questo pegno fido
È come implume caduto dal nido,
Né so nutrirlo, ché ho le membra sfatte
Dal pianto. Son la cenere che vola.

==>SEGUE



Oh datemi ristoro, cristiani,
D’un po’ di latte, un sorso appena, un sorso
Per imboccare questo piccolino.
E se ciò non potete, ah! che il piccino
Succhi almen dalla pecora che il dorso
Ha spelato, ed è bolsa, o mandriani. —

Bofonchiaron gli anziani, i principali:
— Costei è figlia del demonio, e ci ha
Il malocchio che fa intristire i branchi:
Andiamo! — E dietro ai greggi neri e bianchi
Sparvero nella luminosità
Del mattino, coi lunghi pastorali.

E cammina cammina, ecco il villaggio,
Un abituro un uscio il focolare:
Presso la mola una giumenta sciolta
E redata, e una vecchia. — Se Dio molta
Pace vi dia, pregò dal limitare
La mesta, cui brillava in cuore un raggio,

Fate ch’io possa munger la giumenta
Per allattare questa malfatata
Creatura del mio seno. — Oh via, peccato
Mortale! — Ardea per tutto il vicinato
L’allegria del vin novo, e un’aura grata
Salia dei sanguinacci con la menta.

Andò per la montagna. Era la sera.
Il monte di Gonari avea il cappotto
Bigio. Tremava nel silenzio il bosco
Delle quercie, aspettando dal ciel fosco
La neve: intorno altre montagne e sotto,
Coi lentischi e col fiume, la brughiera.

Tornavano i pastori sui ronzini
Con gli agnelli all’arcione; i fanciulletti,
Passeri stormeggianti, dalle siepi
Cogliean le bacche rosse pe’ presepi;
Tornavan gli aratori, e nei boschetti
Accendevano i fuochi gli scorzini.



==>SEGUE
Cadono i mostri. Alla tua culla santa
Piovono i cieli fiamme di rubini;
Taccion sotterra i grilli canterini,
Ma il gallo, ninnananna, il gallo canta!

Ninnananna, tesoro, il gallo canta!




IL PALO TELEGRAFICO

Sulla deserta vetta
Il palo telegrafico
Ronza perpetuo ai venti.

L’orfanello eremita,
Il servetto capraro
Batte con una selce l’esil palo,
E ascolta la profonda
Segreta melodia
Che si sprigiona dal percosso legno.

Or si ricorda quando sua madre
A Nuoro venne: era nel luglio ardente;
Nel gran sole tonavan le campane
Dalla chiesa maggiore, e, dentro, l’organo
Sospiroso gemea con simil voce.

Fuori una turba oscura,
Ed urli e pianti, e l’ululo
Di sua madre, e suo padre condannato.

Il cuore amaro sussultò. Non piange:
Sa che il sardo non deve pianger mai.
SEBASTIANO SATTA  - CANTI DEL SALTO E DELLA TANCA
LA SPIA

— Giù dall’antro di Lino la bufera
Si sferra, disse il vecchio, con lo sguardo
Segnando il nembo. Entrammo: la capanna
Tra i selvatici olivi come un nido,
Tremava al vento. Un pargolo assonnava
Cullato da una strana ninnananna.
Accucciata dappresso era la madre,
Bruna scarna: una schiava!

Oggi né mai
Avrà pace la spia, Lino la spia,
Disse il vecchio. Ché a lui per poco infame
Prezzo, piacque tradir gli ospiti suoi.
Eran banditi, e Dio spinse quei mesti
Alla casa di Lino. Il vino e il pane
Agli ospiti egli porse, poi nel sonno
Li uccise: il sonno uccise!

Ahi! da quel giorno
La sua casa ruinò. Sonava intorno
D’opre e di canti la tranquilla casa.
Tolto dai bugni candidi, nei ziri
Chiariva il miele, e dentro saldi tini
Di castagno fervea, gioja dei prandi,
Il vino. Or tutto se ne andò sul vento,
Come la piuma degli uccelli. Morta
Senza pur quella pace che ai più mesti
Destini Dio non nega, è la sua sposa,
Già florida e ridente come un mandorlo
In fiore.

Solo, misero, percosso
Or dall’odio di mille anime, Lino
Va per la terra, va per gli sterpigni
Campi, sui monti, nelle solitarie
Valli, tremando, ché implacata sente
Sui passi suoi la pesta d’altri passi,
Non visti mai, che sempre mai lo seguono,
E non lo giungon mai.

Se mendicando
A le nostre capanne egli si affaccia,

==>SEGUE

E le oprate bisaccie a fiori roggi
Versâr tanti giocattoli, che il brullo
Piccolo spiazzo se ne empiva a moggi.

Ma l’aquilastro non trovò un trastullo
Alla sua pena: sempre ha fitto in core
Suo padre ucciso; il misero fanciullo.

Ah no! Tra quei balocchi, al suo dolore
Ride, disperso fuori dalla fida
Guaina, un bel pugnale a passacore.

Lo ghermisce, ché l’odio fratricida
Del suo perverso seme nel rubesto
Cuor ratto gli divampa, ed: — Ecco, grida,

Ecco il trastullo mio: datemi questo!


MURRAZZÀNU

L’uomo dev’esser contro all’uom nemico
Simile a Murrazzànu.
Murrazzànu, il molosso, all’albeggiare
Levò il cignale e fiero l’inseguì.
Sotto le quercie, all’ombra, a meriggiare
Stavan pastori e branchi a mezzodì,
Quando il molosso ansante ritornò,
E l’ansima dal petto gli cacciò
Il sanguinante cuore della belva.


ORTHOBÈNE

Elci solenni, erboso limitare
Di eremi deserti, un vol d’astore
Nel mezzogiorno, palpiti di mare,
Una preghiera, un canto di pastore.

E giù Nuoro, soave e maledetta,
Cuor di Sardegna: e intorno, nell’aperto
Fulgore del mattino, il vasto serto
Dei monti, arsi di sole e di vendetta.
AI RAPSODI SARDI

AI RAPSODI SARDI

O fratelli, rapsodi dalla chiara
Voce, dal cor soave più che il fiore
Della melissa, ai canti ed alla gara
Aneli, come indomiti morelli
All’invito del vento emulatore,
Là nel pianoro bianco di olivelli:
O poeti, se all’anime che adoro,
— Anime tristi ardenti nel silenzio
Come lampe — sonasse nel canoro
Accento dei miei padri la canzone
Della speranza mia, monda d’assenzio
E pura d’ogni fosca visïone,
Anch’io alla pensosa turba assorta
Tal inno innalzerei che alle parole
Alate, trionfante aquila al sole,
Si leverebbe l’anima risorta.

Ma fu negato a me questo celeste
Dono, d’un pietoso nume dono,
Molcer gli acerbi affanni e le funeste
Cure col canto. E amati e venerati
Siete perciò, fratelli, e senza trono
Né spada, siete re: ché allor che ai prati
Ritorna il nuovo april cinto di foglie
E prìmule, recando sogni e grate
Ombre ai pastori, all’erme vostre soglie
Batte con una rama d’asfodelo
Il sole e v’incorona, e l’umil vate
Fatto è re della terra e re del cielo.
E andate per l’antica isola, aedi
Erranti, a dispensare larghi il canto
Ad ogni cuore: al mietitore affranto
Tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi.

O gioja in rimirarvi alti rapiti
Sulla festosa folla che vi abbraccia
Rinfiammandovi in cuor gli estri sopiti,
Col suo palpito immenso! Ecco, un’ebrezza

==>SEGUE
Il solco tuo diritto, e i canti adorni
Ti aleggiano d’intorno come ai biondi
Frumenti, stormi garruli. Tu il branco
Guidi, pastore aedo, alle sorgenti
Benignamente: la verga di bianco
Tamarisco è il tuo scettro, poiché sdegni
Il rissoso bastone, e nei lucenti
Silenzi della notte — quando i segni
Del ciel ridon più belli, e il cor che sa
Ode sperse armonie — l’anima carca
D’innocenza, tu incedi, patrïarca
D’antico tempo nella nostra età.

Tu nella rosea nitida pietraia
Batti sui ferrei cogni col mazzuolo,
In pugna col granito. La giogaia
Ti avvolge col suo anelito e con grandi
Velari d’ombra, e in quel silenzio, solo,
Con la tua mazza nella selce scandi
Picchi tìnnuli, sì che un’armonia
Pare anch’esso quel tuo rude lavoro.
Ma negli ozi leggiadri in solatìa
Piazza, o in ampio cortil, la gara arguta
Adùnavi. Dinanzi vi sta il coro
E l’ansia turba: chini sull’irsuta
Criniera dei cavalli, i mandriani
Odon, e voi cantate. Il canto è fede:
E l’anima selvaggia ora vi chiede
Se debba amare od odiar domani.

Ammonitela voi, coi vostri carmi,
O fratelli! Cantatele dei padri
Che contro Roma caddero con l’armi
In pugno: celebrate la perversa
Virtù dei vinti, cui scovò dagli adri
Covili di Belvì, la rabbia avversa
Dei mastini famelici: dei vinti
Che nei fôri dell’Urbe, presso i templi
Marmorei, di ferrei ceppi avvinti,
Parevan di sì mala domatura
Che nessun li comprava, sì dagli empi
Cuor la vendetta tralucea sicura.
Glorificate l’odio secolare,

==>SEGUE
Visibile v’inebria: arde la faccia
Alla sùbita febbre, e la lietezza
Dell’anima trabocca in inni e in canti
Meravigliosi. Ed è come stillante
Favo la vostra bocca, dei fragranti
Favi il più colmo e ambrosio: e il vostro cuore
È un montanello sulla onduleggiante
Vetta del pioppo, quando il giorno muore,
E ridon d’oro i colli e vien la sera
Silenzïosa, e dalla rosea rama
Immoto pia pia e canta e chiama
Tutte le melodie di primavera.

Oh gioja udirvi allora, quando piena
Vi sale l’onda delle rime al labbro
Grazïoso! Da quale ignota vena
Tanta dolcezza? Il mesto che vi ascolta
Si rallegra: gli par che un ventilabro
D’oro nel cuor gli ventoli una folta
Messe di speme incognita. E va lento
Per piane verdi d’orzi, alla sua tanca
Vermiglia e azzurra sospirante al vento.
Ambia col grave ritmo delle ottave,
In sogno sulla sua cavalla bianca
Stellata, in groppa avvinta la soave
Compagna. Monte Spada ecco dimoia:
Acque d’argento scendon con serene
Rime: il mesto indugia e affanni e pene
Dimentica, e si abbevera di gioja.

Ché la vostra camena è una fanciulla
Bellissima che vien dalla fontana
Balda e dolce, la rossa anfora sulla
Sua testa d’aquiletta: il cuor le vola
Lieto innanzi, la bella filograna
Tinnisce il riso dell’aperta gola.
Il pellegrino stanco chiede un sorso
Per la sua sete, inclina ella la brocca
Ròscida, e quegli beve e il cammin corso
Oblìa e benedice. Ella sorride
E lontanando, dalla rosea bocca
Versa motti d’amore. Tal ne arride

==>SEGUE
La vostra musa ingenua, a cui l’antico
Idïoma del forte Logudoro
Cinge doppia corona: una d’alloro,
L’altra di rose e d’olivastro aprico.

O sacro idioma, nato tra nuraghi
E tombe e selve in cuore alla pianura,
Lieta di messi d’opre e branchi vaghi:
Maschio eloquio fiorito perché i padri
Ti parlassero gravi sull’altura
Quali profeti, puro a che le madri
Ninniassero i figli, o uccisi o morti
Li piangessero: accento alto d’impero
Sul labbro a Leonora: urlo di forti
Schiuso in un inno dal deserto grembo,
Madre, minace tuo, inno del nero
Tuo cuor, Sardegna, quando il breve nembo
Folgorò su’ tuoi sonni. Oh bel picchiare
All’alba, di quel verso che ruggì,
Martellando i battenti, «Cando si
Tenet bentu est prezisu bentulare».

Gloria, fratelli, al fabbro di quell’inno
Che per nere capanne e spersi ovili
Cercò i cuori, e col suo fiero tintinno
Li trasse verso il sole a le vendette.
Oh! i cavalier di soga e i bianchi e vili
Lacchè, incontro ai menghi e alle berrette!
E gloria ai padri aedi, gloria al sacro
Coro che dal Limbara al mare azzurro
Di Spartivento, insino al solco macro
Di Aritzo, per l’intera taciturna
Isola, sospirò come un sussurro
Di primavera sulle fosse. E un’urna
Di miele versò sulla tristezza
Dell’uomo. Quando Luca, in aspre selve,
Ai banditi cantava, quelle belve
Si scioglievano in pianti di dolcezza.

Voi siete buoni come si conviene
All’uomo amico delle muse, e i giorni
Trascorrete nell’opere serene
Del monte e della valle. Tu profondi

==>SEGUE
L’amore eterno, avvalorate i cuori.
O poeti, cantate gli splendori
Della Sardegna libera sul mare.

Madre fatale e bella a tutti ignota
Anche ai tuoi figli, chi ti adorerà
Com’io t’adoro! Agli strani remota
Io ti vorrei: sinistra sanguinosa
Coi tuoi banditi, con le tue città
Morte, ingioconda atroce febbricosa,
Ma tutta sola e oprante e senza pianti.
Io ti vedrei mandriana ai dolci maggi
Salire, coronata di ronzanti
Pecchie, il tuo monte acceso dall’aurora,
Dietro i branchi, e passar sui bai selvaggi,
Prima nell’àrdia, ardita corridora.
Oh nei sereni monti in cime e in grotte,
Alte fiamme di pace, quando i cieli
S’imbrunan vasti, e dormon i fedeli
Armentari alla virginëa notte!

Io ti vedrei nel vespero di giugno,
Sugli aerosi miei colli sereni,
Bella e discinta con la falce in pugno,
Mieter cantando quell’ultima randa,
E spulare coi zeffiri tirreni
Il frumento sull’aja veneranda.
Spartiresti il tuo pane ai tuoi figlioli
Giustamente, ché lungo fonti chiari
E verdi vigne e sussurranti broli,
Gli elcini carri carichi di grano
Tu guideresti ai nostri limitari
Fioriti di giaggioli e zafferano.
E siederesti poi, madre, sul monte,
In cuor secura con la certa fionda
E la scure. Chi toccherà la fronda
Di quercia che ti ombreggerà la fronte?

Ma ti vedo raminga nella tanca
Sterpigna, lungo il lido, ad ascoltare
La gran voce del flutto che s’imbianca
Ululando: lì presso un branco bela
Melanconico, e tu guati il tuo mare

==>SEGUE
Deserto. Dimmi, quale amica vela
Navigò a te dalle felici prode,
Recando una speranza alla tua pena,
Un nettareo nepente al tuo cuor prode,
Una facella d’oro a questa nera
Tua notte, o taciturna? Il ciel balena
Tacito e cala tacita la sera
Obliosa. — Da qual vermiglia vetta
Ti vestirà l’aurora di splendore?
Tu l’aspetti nell’ombra, ed hai nel core
Sogni di gioja e sogni di vendetta.
Eppur, fratelli, io m’inebriai di questa
Triste patria che sta sola sul mare,
E nutre come l’aquila rubesta,
I figlioli di sangue. Ed il mio cuore
Risorto palpitò d’una solare
Letizia nel suo seno, e il mio dolore
Si tramutò in un sogno di speranza.
L’anima si confuse nella luce
Sulla montagna, e seppe la fragranza
Dei fiori agresti nati sulle tombe
Dei primitivi, e nella selva truce
Degli orgolesi apprese, tra le rombe
Del ponente, l’urrà del sanguinario
Pallido e triste come un sire, e in Monte
Rasu, sentì sull’erba e sul bel fonte,
Sotto l’elce e il ginepro solitario,

Sparsa la santità di San Francesco.
E venerò nei boschi d’oleastri
Un dio pellita, e navigò nel fresco
Mattino, dalla rada umile, bianca
Di greggi, alla Caprera cinta d’astri
E d’inni; e là dove più chiara e franca
Risuona l’onda sull’azzurro abisso,
La scogliera mirò donde le sarde
Donne traeano il prezioso bisso
Per vestire l’Eroe. E nel tepente
Vernal meriggio — oh come dolce m’arde
Quel ricordo! — solcò, tra la clemente
Selva di glauchi ulivi, l’armoniosa
Onda del Temo: su, tuona la caccia,
E giù, ai battelli le flessuose braccia
Protendono i rosai con una rosa.
==>SEGUE
E sognò lungo una deserta riva
Fra due rovine: il mare infaticabile
Abbracciava la terra che gli offriva
I suoi gigli languenti, e sole e cielo
Folgoravano flammei un immutabile
Riso alla terra e al mare. Là, tra i veli
Del Tirso, la città degli Arborensi
Dormìa: bella per sue case tacenti
Quali sepolcri, tra profondi incensi
D’orti, lungo silenziose vie
Cinte di palme: mesta di piangenti
Campane: soavissima per pie
Rosee mattine, in vago chiuso aulente
Di viole e di mandorli: solenne
E sacra per il tempio che contenne,
In faccia al mare, il dio di nostra gente.

Così sognò e sperò, sardi rapsòdi,
Il mio cuor rude chiuso sopra l’atro
Sen della madre mia: pur le melodi
Ignorò del mistero ond’ella è sacra.
O fratelli, vorrei esser l’aratro
Che morde il seno della tanca e l’acra
Viscera della rupe, a penetrare
Tutta l’ombra e le desolazioni
Che l’ammantano eterne. O focolare
Di porfido spazzato dalla morte,
Sepolcri di giganti, alti burroni
Degli aspri monti, dove alle risorte
Primavere, fremono chiomati
Teschi di mandriani e di banditi:
Sparsi nuraghi, e voi, santi graniti
Del limite, temuti e venerati,

È in voi questo mistero? O ne’ villaggi
Sepolti nelle valli come in bare?
O nei debbi notturni e nei selvaggi
Valichi, ove urge le spaurite torme
La bardana dal tacito calzare?
Non io lo so: ben so che questa enorme
Tristezza è sovrumana e ch’è divino
Questo silenzio, e che mia madre è dea!
Sia gloria a lei dal mare al cilestrino
Cerchio dei monti. O candidi fratelli,

==>SEGUE
Cinti di gioja, se alcun’ombra rea
Mai v’aduggi — ché ai nostri cuor rubelli
Voi siete come agli orti l’usignolo,
Ed all’arso oliveto la cicala,
Voci di gioja — in cuor temprate l’ala,
A un canto che convien sia forte al volo.

La mia terra cantate. E chi la gara
Vinca, si avrà in premio un bel poledro
Che Osilo domò, Osilo chiara
Altrice e domatrice di cavalli.
E in premio pur si avrà una di cedro
Cavezza adorna, e una di fior gialli
Ben oprata bisaccia, valorosi
Incliti doni. Ma più prezioso
Dono è il serto fiorito nei muscosi
Dirupi d’Ortobene; al vincitore
Fanciulla l’offrirà per radioso
Occhio insigne, nel pallido languore
Dell’amplesso divina. Ella, sul monte,
In vista all’Oleastra e alla Gallura,
Oh gloria! Cingerà con l’elce pura
Al vincitore la superba fronte.
NOTE AI CANTI DEL SALTO E DELLA TANCA

MUTTOS
Quasi "motti o motteti". Li ho derivati dalla poesia popolare sarda. In essi mi è piaciuto conservare talora le stranezze e di concetto e di verso e di rima, quali graziosamente fioriscono sulle labbra dei sardi poeti, quasi sempre improvvisatori.
Sùrbili: spiriti erranti sulle montagne di Barbagia nelle notti ventose, vampiri alle culle.

Le prefiche
È il sogno d’una notte d’inverno ed è un canto funebre. Le prefiche della razza piangono sui venti tutto ciò che in terra di Barbagia muore dilegua emigra.
Eremitano, Cani da piatto: li ho derivati dal dialetto, perché mi pare che non vi sia un vocabolo italiano che li traduca perfettamente. Eremitanu è voce dialettale che serve a denotare l’uomo miserabile e infingardo, di vil cuore. Cane de isterju (cane da piatto) è quel cane che negli ovili non sa guardare le capanne e i branchi, e non fa che leccare i mastelli dei latticini: ed è attributo che si dà comunemente ad un uomo vile e dappoco.
Aquila grigia: era un forte e vecchio bandito che sapeva tutte le vie del piano e del monte. Morì mentre un aquilotto, un fanciullo, gli squittiva dappresso: il quale, gridandogli coraggio, cadde con lui negli amari passi della fuga. Era una vecchiezza gioviale: cantava canzoni di guerra, ed era anche buon compagno di cacciatori e canattieri nelle serene caccie sui monti nuoresi.
Cervo solone: non è l’alces maschilis, ma pure è un gran cervo di cui si va sperdendo la razza sui monti dell’isola. Chi canterà l’elegia alle ultime aquile alle ultime fiere agli ultimi boschi agonizzanti sui gioghi della patria?

Cani da battaglia
In Ogliastra, presso il piccolo villaggio di Àrzana, era nato il tenente medico Demurtas, ucciso a Sciara-Sciat, mentre medicava i feriti.
Capo Carbonara: ricorda ai sardi il tentativo di sbarco dei francesi, nel marzo 1793, respinto principalmente ad opera dei fieri mastini dei pastori. Così almeno la leggenda.
Murrazzànu, Sorgolino, Leone, Traitore (traditore), Caino: comuni appellativi di cani sardi.

La scuola di Chilivàni
Chilivani è nodo centrale, in aperta campagna, di tutte le ferrovie dell’isola. Un munifico donatore istituì, presso alla stazione, una scuola elementare per i bambini dei ferrovieri e dei casellanti sparsi sulle varie linee. I treni del mattino raccolgono i piccoli alunni che poi, a sera, riportano alle loro case.

Murrazzànu
Cane famoso, caro a tutti i cacciatori del Nuorese. L’episodio della caccia è vero.

AI RAPSODI SARDI
"Cando si — Tenet bentu est prezisu bentulare": "Quando si leva vento occorre trebbiare". È il ritornello del logudorese inno angioino, al cui canto la Sardegna insorse contro gli ordinamenti feudali. Gli accenni che seguono nei versi riguardano episodi della rivoluzione.
Àrdia: gara di corse a cavallo.