In un ambiente così vivo e pieno di stimoli operò il nostro poeta. La sua formazione fu caratterizzata da esperienze e incontri che ne hanno segnato il pensiero e rafforzato certe convinzioni. Fin dallo svolgimento del servizio militare a Bologna, tra il 1887 e il 1888, il giovane ebbe repulsione per la vita di caserma, avendo come destinatario internodei suoi “Versi ribelli” il commilitone, e più tardi, quando tornò a Sassari da universitario, si rivolse all’ambiente goliardico sassarese che per tradizioni libertarie e repubblicane era già ricco di battaglie politiche antimilitaristiche. Il pacifismo, come critica feroce alla guerra e opposizione della vita alla morte violenta, è il tema conduttore più scoperto dei “Versi ribelli”, in cui l’unica composizione in quartine “Tiri di combattimento”, è una decisa requisitoria contro i non-valori della guerra-morte, in nome della vita. Egli ha cantato la ribellione del suo essere sardo e pacifista, il profondo legame d’amore con la madre e con la terra d’origine, dalla quale il Satta bolognese fu separato e alla quale tornò per non distaccarsene mai più. La poesia di Sebastiano Satta smuove, oltre che quelle dell’uomo e dell’artista, le problematiche antiche di una Sardegna investita dalla piaga della “questione sarda”, all’interno di una più ampia e irrisolta “questione meridionale”. Gli anni trascorsi da Satta in Sardegna, in poco più di mezzo secolo, sono gli anni che conducono l’Italia dalla sua unità allo sconquasso della stessa con l’erompere della prima guerra mondiale. Egli vive e soffre il suo tempo, sente il dramma dei piccoli proprietari terrieri, degli abusi nelle campagne dopo l’Editto delle chiudende, che porterà Nuoro ai moti de “Su connottu”. Egli sta da sempre dalla parte dell’indifeso, veste i panni del difensore, anche per sondare la profonda piaga del banditismo che schiera romanticamente “eroi baldi e rivoluzionari”, a dispetto di tanta letteratura positivistica “socio-criminale” dispensata da Lombroso, Orano, Ferri, Niceforo, che parte da “crani spiccatamente dolicocefali” per trarre considerazioni sul criminale per natura. Infatti, in questa produzione, il bandito è presentato come un ribelle isolato e un giustiziere, idealizzato dalla fantasia popolare, in lotta contro le leggi di uno Stato estraneo che esige solo tributi e che abbandona a se stesso il debole e l’indifeso. Il ribelle finisce così per farsi giustizia da sé e, dopo aver rubato e ucciso, è costretto ad allontanarsi dal paese e a rifugiarsi nelle montagne, isolato e braccato fino alla morte. Questo bandito segue un codice d’onore a cui non può sottrarsi: la sacralità dell’amicizia e
della famiglia, l’esaltazione del coraggio, la vendetta e l’omicidio praticati come giustizia, il rifiuto di essere un sicario che alimenti l’odio altrui. Sebastiano Satta insieme a Gastone Chiesi, fondatori de “L’Isola”, accettarono nel 1894 di fare un’intervista, in una grotta segreta, a tre latitanti, uno dei quali era il celebre Derosas, che terrorizzava il Logudoro, mentre gli altri due erano Delogu e Angius.
Il Derosas, con questa intervista, vuole affidare la sua verità alla stampa, visto che su di lui erano state dette troppe menzogne. Il bandito era noto per la strage del paese natale di Usini, nella quale colpì dei falsi testimoni, responsabili della sua ingiusta condanna a dieci anni di carcere. Da quel momento la vendetta aveva regolato la sua vita: essa è ammessa come giustificazione di gravi reati nel codice barbaricino e nella visione mitico- romantica, presente in tanta letteratura sarda. Il Derosas spiegava nell’intervista che la sua vendetta nasceva nel momento in cui la concezione sacra dell’amicizia venne messa a dura prova da Luigi Dettori di Cossoine, amico fidato, diventato delatore e spia, che lo aveva venduto ai carabinieri. Dettori venne ucciso e la sua testa esemplarmente portata al nuraghe Idda.
In questo contesto si tentò di idealizzare la ribellione dei banditi, identificandola con l’insofferenza sociale del mondo rurale, e nei “Canti Barbaricini” Satta li definisce, attraverso dei versi che rimarranno indelebili nel tempo ”belli, feroci, prodi”. Ricorrente è nella sua poesia la rappresentazione del dolore della madre per la morte violenta del figlio, nel clima di odio e di faide che fa parte della società sarda del tempo, a cui neanche gli esseri più innocenti riescono a sottrarsi. Così avviene nella poesia: ”La madre di Orgosolo”, paese in cui neanche i più piccoli sfuggono all’amara e inesorabile legge della vendetta, sentimento avvertito come doveroso e che accompagna sempre il dolore per la morte dei propri cari. Nella lirica, il figlio si trova in cielo tra gli asfodeli, in una dimensione di gioia e bellezza, ma risente dell’assenza del padre, tutto preso da un dovere da compiere: la vendetta. Così la madre risponde al bambino ”babbo non viene ancora a queste parti, è rimasto laggiù per vendicarti”.
- L’adesione al socialismo utopistico.
Nelle sue poesie Satta cantò anche le tragedie e gli sconvolgimenti sociali avvenuti nell’isola, che ebbero una vasta eco a livello nazionale. All’inizio del Novecento una grave crisi economica investì soprattutto il settore minerario dell’iglesiente, che occupava 15000 minatori. Le tensioni qui erano forti a causa dello sfruttamento degli operai e negli ultimi decenni del secolo erano aumentati gli scioperi e le agitazioni.
Tra questi il più famoso fu quello che portò all’eccidio di Buggerru nel 1904, che fu determinato dalla rivolta dei minatori, gravati da tredici ore di lavoro giornaliero con salari insufficienti e il rischio della silicosi. Nacque uno stato di tensione tra i duemila operai e il direttore della miniera Georgiadès, che nel settembre del 1904 cambiò gli orari di lavoro, riducendo il riposo previsto per il pranzo; ciò suscitò la reazione dei minatori, attraverso i sindacalisti Battelli e Cavallera.Intervenne la forza pubblica, che aprì il fuoco, uccise tre minatori e ne ferì altri undici. Questo fatto provocò scalpore in tutta Italia e il settentrionale socialista “Primavera d’Italia” ne diede un resoconto scrivendo “il sangue dei poveri bagnava Buggerru”.
In seguito alla vicenda, che si aggiungeva ad altre manifestazioni di malcontento in Italia, i sindacati proclamarono lo sciopero generale nazionale, il primo della storia del movimento operaio italiano, che andò dal 15 al 20 settembre, in segno di protesta contro il governo e le forze dell’ordine. Questi eventi sociali e politici sono narrati, assieme alle vicende del protagonista Angelo Uras, nel romanzo di Giuseppe Dessì “Paese d’ombre” in modo molto drammatico. Ma anche Satta venne colpito da questo eccidio e nella sezione “Icnusie” dei “Canti barbaricini” inserisce la poesia: "I morti di Buggerru"
Questa poesia è un canto di morte, ma anche di speranza, perché il poeta vide nei primi gruppi di operai sardi del Sulcis-Igliesiente, il nucleo capace di lottare non solo a difesa della classe operaia, ma allo stesso tempo di usare la sua forza d’urto per smuovere e modificare la società agro-pastorale barbaricina. Proprio per questo continuo riferimento al mondo dei poveri, agli strati sociali più umili e gravati dalle ingiustizie che colpirono sempre di più gli ambienti agropastoriali sardi, a partire dalla legge delle chiudende, si parla di ideologia socialista in Satta, che si identifica con quella utopistico-umanitaria presente già in Pascoli e altri letterati del ‘900. Ma mentre in Pascoli si salda con i suoi principi religiosi, l’atteggiamento del nostro poeta è spesso decisamente anticlericale. Le ingiustizie sociali in Sardegna apparivano strettamente legate alle ingiustizie che per secoli i sardi avevano subito, perciò le lotte presenti gli apparivano come la naturale prosecuzione delle lotte del passato. Il Socialismo del Satta sarà un socialismo tutto suo, umanitaristico, sentimentale,per alcuni critici addirittura più vicino a quello di un De Amicis che non a quello di Pascoli, ma sempre di sapore locale, secondo le esigenze di rinascita della Sardegna. I costi delle guerre avevano spinto il governo a imporre imposte onerose che avevano colpito soprattutto pastori e contadini, che si videro raddoppiati e triplicati i prezzi degli affitti delle terre, alle quali avevano prima accesso mediante modesti canoni. Conseguenza di tutto ciò furono il banditismo e l’emigrazione. Nacque una nuova coscienza etica e democratica in Satta e in altri, come Dessanai, Murru e Rubeddu, poeti in sardo, che si sviluppò nell’ambito del positivismo. La “Poesia senza titolo” supererà i toni teneri e lacrimosi dei “Canti di Lazzaro” e passerà ad una poesia più dura ed efficace, dove il Satta appare vicino alle lotte popolari, e al diritto che sancisce la proprietà della terra a chi lavora. Cristo è visto come primo socialista, raffigurato come un capo politico che svolge un nuovo programma sovversivo, che prende ai ricchi per dare ai poveri.
Il socialismo di Satta è dunque utopistico, populista, non scientifico. In questo senso “ideologico” si spiega anche il suo “Garibaldinismo” espresso in versi e in prosa. Garibaldi stesso nel 1880, due anni prima di morire aveva dichiarato:”Il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista”. Il socialismo del Satta era del cuore e non della mente, fatto di umanità , giustizia, libertà, come quando espresse il suo aperto dissenso contro i decreti del Governo Pelloux nel 1900, decreti che limitavano la libertà di stampa. Sappiamo però anche che, quando si trovò a collaborare con Gastone Chiesi alla rivista “L’Isola”(1893/94), la politica con accenti sovversivi è lasciata al Chiesi mentre egli si rinchiuse nelle note di costume e nelle prose sentimentali a firma “Povero Jorick”.
Questa adesione al socialismo avrebbe dovuto garantire il riscatto della Sardegna e percorreva una linea precisa e ben delineata, che passava per le “Icnusie”, dove si esaltavano personaggi di spicco come G.M. Angioy, l’Alternos, fino ad arrivare alle figure ideali di Garibaldi, Gorky e i minatori di Buggerru, che rappresentano un moto di ribellione, legato a realtà più moderne. Però anche l’idea di un Satta sempre e solo tribuno e vate, ribelle e protestatorio, incorreggibile, è vera solo fino ad un certo punto. Certo, Carducci e Pascoli suggestionarono il Satta, che tentò una poesia storica e sociale, e cioè oratoria, troppo inferiore alla sua tipica poesia barbaricina, in cui invece si trova un mondo singolare e inconfondibile.
Critici letterari come Ravegnani, Sinsini, Pancrazi, hanno osservato queste cose, ponendo in evidenza proprio le peculiarità locali, in temi alti e internazionali. Egli visse a Sassari e a Nuoro le idee mazziniane, repubblicane e socialiste, l’antireligione e il progresso, tutti gli ideali democratici incrociandoli con il costume, la fedeltà e la fierezza isolani, e quegli alti ideali prendevano un colore ancora più acceso e risentito. Si vantava ateo ed empio ma cantava la Madonna e Gesù Bambino, si considerava repubblicano di antico stampo, socialista, e adorava Garibaldi. Infatti, in occasione del centenario della morte dell’eroe, il poeta si reca a Caprera e visita la tomba dell’eroe dei due mondi, che definisce nella poesia ”A Garibaldi” “il leone in sepoltura”.
Garibaldi stesso si era dichiarato socialista e Satta lo celebra nel suo discorso come animatore di nuovi ideali, che avrebbero garantito l’annessione di Trento e Trieste all’Italia, e come promulgatore di nuovi moti di rivolta.
- La scelta linguistica
Il poeta si era reso conto dell’enorme chiusura che l’uso esclusivo del vernacolo determinava e non lo aveva più usato. A Bologna, in modo particolare, aveva capito che bisognava sprovincializzarsi, uscire da un’area culturale limitata, per farsi conoscere e per esprimere la verità, l’ansia di ribellione e mutamento della sua Sardegna. Essere poeta dialettale significa farsi conoscere solo in ambiti ristretti, ma utilizzare l’italiano, per artisti come Grazia Deledda, Giovanni Verga e Sebastiano Satta, significa far soccombere la propria arte. Essi sono veramente grandi quando rievocano il mondo nel quale trascorsero la prima infanzia e l’adolescenza, l’ambiente degli avi, profondamente radicato nel proprio animo. Il Satta, proprio perché poeta ricchissimo di umanità e molto sensibile alle sventure altrui e della sua terra, fa la sua scelta, preferendo esprimersi in lingua italiana, ma il mezzo linguistico continentale non gli permise di affermare in modo adeguato tutta la profondità del suo mondo interiore; per molti rimaneva un imitatore di Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Certamente l’energia, l’umorismo presenti nella sua oratoria, emergono soprattutto nei sonetti in lingua sarda, che Satta inserisce nella raccolta ”Dalla terra dei nuraghes”. Uno di questi è veramente curioso, dedicato dal poeta a Enrico Berlinguer, nonno dell’omonimo segretario del Partito Comunista Italiano, al quale lui raccomanda che tutti si rivolgano come a un buon avvocato, al contrario di “Bustianu” che, ironizzando su se stesso, dice che non è in grado di mettere insieme due parole.
Inserire Sebastiano Satta fra i grandi intellettuali che hanno dato lustro all’isola è fin troppo semplice. Inserirlo in un contesto nazionale, in occasione poi, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia è invece più difficile, se si tiene conto sia della data di nascita di questo poeta, 1867, che della sua formazione culturale avvenuta in un contesto storico-sociale, quello della cittadina di Nuoro, piuttosto chiuso e apparentemente poco propenso a scambi con realtà esterne nazionali o internazionali. Ma come ebbe a dire Cavour, se era importante fare l’Italia, ben più complesso sarebbe stato fare gli italiani. Sebastiano Satta, seppure in un ambiente arretrato e geograficamente circoscritto, ha saputo offrire riflessioni, osservazioni acute e profonde, perfettamente legate e coerenti con certe correnti di pensiero nazionali che si sarebbero, nel tempo, affermate in Italia, contribuendo attivamente al rafforzamento del sentimento nazionale. Pensiamo al senso di appartenenza a un luogo, ai sentimenti di giustizia sociale e di solidarietà, cari a tutti gli italiani, senza i quali l’Italia non sarebbe arrivata ad essere importante come lo è nei fatti.
Per alcuni critici letterari come Petronio, in Satta i movimenti non carducciani sono rari, e di Carducci riprenderebbe i versi paganeggianti e parnassianeggianti de “Le odi barbare”: la polemica anti-cristiana, il vagheggiamento di un’antichità greca e latina, l’entusiasmo per la civiltà delle macchine di vecchio stampo positivistico e utopistico. Anche la protesta sociale più che essere protesa al futuro, consapevole del presente, sarebbe nostalgia di un passato di ribellione, di reazione e di banditi. Per questo la sua poesia sarebbe debole dal punto di vista dei risultati letterari.
Di fatto canta le macchine, i pali del telegrafo e avverte bene che con quei pali e quelle automobili muore tutto un mondo caro al suo cuore e alla sua fantasia. Li esalta non in odio al passato (come i Futuristi o d’Annunzio) ma per la perfetta consapevolezza della loro utilità sociale, consigliando ai “custodi dell’antico costume” di seppellire in mare la vecchia patria senza pianti(“L’automobile passa” in “Canti”).
Il poeta avverte che quel passaggio dall’antico al moderno è necessario e l’ideologia del Satta non si collega in alcun modo né all’attivismo né al nicianesimo: essa invece continua il Socialismo positivistico e umanitario che fu proprio del secondo ‘800 e ne riprendi alcuni miti essenziali: il maestro, la macchina, la lotta per l’uguaglianza e il progresso sociale, la speranza per un domani migliore.
Dunque, un poeta-vate, ma anche un uomo semplice, che ha amato profondamente la sua terra, esaltandola e mitizzandola nei suoi canti.
Uomo locale eppure nazionale che forse senza volerlo ha dato ai suoi compaesani e conterranei spunti per sentirsi parte integrante di uno Stato unitario, perché ha cantato la necessità della lotta insieme, unico strumento per uscire dalla miseria e dai soprusi, dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Egli ha capito i problemi della sua terra e ha tracciato la via per uscirne: la lotta senza indugi, la solidarietà imposta dalla tradizione nuorese e sarda, la vicinanza con chi soffre. Certo non ha parlato a platee vaste nè a folle oceaniche, ma il suo pensiero resta vivo e tuttora valido per tutti coloro che vogliono che l’Italia resti unita, questo è il filo sottile che ci unisce tutti: giustizia e solidarietà con chiunque calchi questa terra-madre.
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