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TORQUATO TASSO


AMINTA
FAVOLA BOSCHERECCIA
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
PERCHÉ TASSO È UN CLASSICO?
_________

TORQUATO TASSO  - AMINTA

FINE

1. Perché il suo linguaggio poetico, armonicamente disarmonico, appare come la fedele rappresentazione della temperie culturale del Manierismo e dei nuovi problemi che essa suscitava nell’uomo.
2. Perché ha saputo fare della poesia non solo lo specchio del proprio tempo e della propria vita, ma anche uno strumento per indagare la realtà. Il suo progetto poetico si fondava infatti sul tentativo di restituire alla poesia un’alta dignità conoscitiva, alla pari della filosofia, della teologia e della scienza.
3. Perché, specialmente in età romantica, è stato visto come il prototipo del poeta sfortunato e perseguitato, in lotta con le istituzioni del proprio tempo.

LE COSTANTI LETTERARIE

Il primo poeta “italiano”
Figlio di padre bergamasco e madre pistoiese, vissuto in molte città diverse, da Napoli a Venezia, a Tasso mancò il radicamento in una particolare realtà territoriale; ciò segnò il suo temperamento irrequieto e nevrotico, ma ne fece anche il primo letterato veramente “italiano”, punto di passaggio fra l’età umanistico-rinascimentale e l’età moderna.

Il rapporto con la cultura ufficiale
Al mancato radicamento territoriale fa riscontro un mancato radicamento sociale; Tasso mantenne sempre un rapporto di amore-odio nei confronti delle corti, delle accademie e della società colta del suo tempo. In particolare nei confronti dell’ambiente delle corti manifestò un atteggiamento di disagio, se non di conflitto. Così pure fu iscritto a numerose accademie ma al tempo stesso ne subì gli attacchi – in particolare dall’Accademia della
Crusca –, che molto lo addolorarono e assieme stimolarono in lui la riflessione sulla poetica.

La composizione poetica e la riflessione
Altra costante è la capacità di Tasso di sviluppare in parallelo la creazione poetica e la riflessione teorica. In questo egli fu un caso unico nel suo tempo: Tasso giunse ad assegnare alla poesia un ruolo conoscitivo fondamentale e ad attribuirle la dignità di una disciplina finalizzataalla verità.

LE OPERE

L’Aminta [1573]
Si tratta di una favola (cioè una commedia) pastorale suddivisa in un prologo e cinque atti, in endecasillabi e settenari, composta nella primavera del 1573 e rappresentata nel luglio dello stesso anno dalla Compagnia dei Gelosi di fronte alla corte estense. Dietro alcuni personaggi si possono intravedere i membri della corte ferrarese.
- La trama
Aminta ama Silvia, che rifiuta l’amore. Anche quando il giovane pastore la salva dal tentativo di violenza da parte di un satiro, la ninfa non gli dimostra alcuna riconoscenza. Quando però Silvia viene creduta morta durante una battuta di caccia, Aminta per la disperazione si getta in un dirupo; all’amaro pentimento della fanciulla fa seguito il ritrovamento del giovane, rimasto miracolosamente illeso: la vicenda può così concludersi con un lieto fine.
- I significati
Tasso tentò di elevare la favola pastorale alla dignità della tragedia, introducendo i cori e sviluppando argomenti di sostanza filosofica, in particolare il problema del libero arbitrio e il rapporto natura-civiltà. I protagonisti vivono un amore sfasato: Aminta infatti ama Silvia, che non lo ricambia; il libero arbitrio deve misurarsi con le leggi dell’amore nei due protagonisti, che vivono ciascuno un diverso ma parallelo processo di formazione, dall’adolescenza all’età adulta, confrontandosi anche con l’esperienza della morte e giungendo faticosamente ad annullare la parte negativa di se stessi: Aminta il desiderio sessuale fine a se stesso e Silvia il pudore asociale e contro natura.
Un coro è dedicato in particolare alla riflessione sul contrasto tra civiltà e natura. Se in un primo momento l’amore e la libertà (valori perduti nella società moderna e rintracciabili solo nel semplice mondo dei pastori) appaiono in netta antitesi rispetto all’onore e alla legge, il percorso di formazione compiuto dai due protagonisti mostra come in realtà questi elementi siano tra loro in rapporto dialettico: solo misurandosi con la legge morale la libertà dell’individuo può creare relazioni interpersonali autentiche, superando lo sterile egoismo.

La Gerusalemme liberata [1559-1593]
- La storia del testo
La vicenda editoriale del poema fu lunga e complessa; al 1559 risale il primo canto del Gierusalemme, cui seguì, nel 1562, la pubblicazione del Rinaldo. Tasso riprese quindi il Gierusalemme, terminato nel 1575 con il titolo provvisorio di Goffredo; ebbe quindi inizio un profondo processo di revisione che si concluse solo nel 1593 con la pubblicazione della Gerusalemme conquistata, edizione che Tasso considerò definitiva. Nel frattempo
però, mentre il poeta era detenuto a Sant’Anna, erano circolate edizioni “pirata” del Goffredo, che avevano preceduto quella del letterato Angelo Ingegneri (1581) intitolata, su iniziativa dell’editore, Gerusalemme liberata.
- La trama
Nell’ultimo anno della prima crociata Dio invia l’arcangelo Gabriele da Goffredo di Buglione per esortarlo ad assumere il comando dell’armata cristiana. Nel frattempo a Gerusalemme il sultano Aladino, fallito il tentativo di rubare in una chiesa un’immagine della Vergine che renderebbe Gerusalemme inespugnabile, minaccia i cristiani; la bella Sofronia si immola e con lei Olindo, che ne è innamorato. I due stanno per essere arsi sul rogo, ma all’ultimo istante vengono salvati dalla guerriera pagana Clorinda. Intanto l’esercito cristiano giunge sotto le mura di Gerusalemme; durante uno scontro Clorinda affronta il guerriero cristiano Tancredi, che se ne innamora e le salva la vita, mentre il pagano Argante fa strage di cristiani. A questo punto i diavoli intervengono nel conflitto; su loro ispirazione al campo cristiano viene inviata la bellissima maga Armida, che seduce molti crociati per allontanarli da Gerusalemme. Rinaldo, il più forte guerriero cristiano, uccide in duello un compagno d’armi e, per evitare la punizione, fugge dal campo crociato [libri I-V].
Argante e Tancredi si sfidano a duello. Calata la notte e sospeso lo scontro, la pagana Erminia, segretamente innamorata di Tancredi, esce da Gerusalemme indossando l’armatura di Clorinda per far visita all’amato ferito, ma viene sorpresa dalle sentinelle e costretta alla fuga. Ospitata nell’umile dimora di un pastore, decide di abbandonare per sempre la vita di corte e le pene d’amore. Tancredi intanto, che ha inseguito Erminia scambiandola per l’amata Clorinda, è fatto prigioniero nel castello incantato di Armida. Fra cristiani e pagani la tregua d’armi è rotta e questi ultimi, sostenuti dai diavoli, hanno momentaneamente la meglio. La disperazione si impadronisce dei cristiani: gli attesi rinforzi cadono in una trappola e vengono massacrati, Rinaldo è creduto morto e contro Goffredo scoppia una rivolta sedata a fatica. Rinnovatasi la battaglia sotto le mura di Gerusalemme, i cristiani stanno per avere la peggio e vengono salvati dall’inatteso sopraggiungere di un manipolo di valorosi guerrieri: si tratta dei cavalieri fuggiti con Armida e da lei stregati; Rinaldo li ha liberati sulla strada per Antiochia [canti VI-X].
I cristiani assalgono con impeto Gerusalemme e riescono ad aprire una breccia nelle mura, anche grazie a una torre di legno. Clorinda e Argante evitano il peggio, e la battaglia è interrotta dal sopraggiungere della notte. Con il favore delle tenebre i due campioni pagani distruggono la torre, ma Clorinda non riesce a rientrare in città e si scontra con Tancredi, che non l’ha riconosciuta e al termine di un feroce duello la uccide; in punto di morte Clorinda ottiene da Tancredi il battesimo. Il mago pagano Ismeno lancia un incantesimo sulla selva che circonda Gerusalemme, impedendo ai cristiani di procurarsi legna per ricostruire la torre d’assedio. L’incantesimo potrà essere spezzato solo da Rinaldo, che però è caduto vittima delle seduzioni di Armida. Con l’aiuto di un “mago naturale” (cioè uno scienziato) due cavalieri cristiani lo raggiungono e spezzano l’incantesimo; Rinaldo parte con loro, mentre Armida giura di vendicarsi [canti XI-XV].
Giunto al campo cristiano con nuove armi, su cui è istoriata la storia della casata degli Este, di cui è il capostipite, Rinaldo ottiene il perdono e spezza l’incantesimo della selva. Costruite nuove macchine d’assedio, i crociati rinnovano l’assalto ed espugnano Gerusalemme. Tancredi e Argante riprendono il duello interrotto; il campione cristiano ha la meglio, ma sviene per le ferite ed è curato da Erminia. Nel frattempo sopraggiunge
l’esercito egiziano, battuto grazie alle gesta eroiche di Tancredi e Rinaldo, il quale persuade Armida a convertirsi alla fede cristiana. Il duello finale tra il comandante egiziano Emireno e Goffredo di Buglione si conclude con la vittoria di quest’ultimo, che può infine sciogliere il suo voto al Santo Sepolcro offrendo a Dio le sue armi [canti XVI-XX].
- Dalla Liberata alla Conquistata
Negli ultimi anni Tasso lavorò alla definitiva revisione del poema, allo scopo di renderlo più coerente con le regole di Aristotele e con la morale cristiana. Rispetto alla Liberata, la Conquistata evidenzia: un aumento delle dimensioni dell’opera, da venti a ventiquattro canti; un maggiore rispetto del vero storico e un’ispirazione più “realistica”; diversi mutamenti di nome dei protagonisti (per esempio Rinaldo diventa Riccardo, Armida diventa Nicea ecc.); l’eliminazione di diversi episodi secondari in omaggio all’unità d’azione; una riduzione dell’importanza del tema amoroso a vantaggio di quello guerresco; un approfondimento del lato umano di alcuni protagonisti, come Argante. Paradossalmente, critica e pubblico decretarono il successo della Gerusalemme liberata, contro le aspettative e la volontà dello stesso autore.
- Dal romanzo cavalleresco al poema eroico
I modelli con cui Tasso dovette confrontarsi furono l’Orlando furioso di Ariosto, che ignorava le regole aristoteliche ma riscuoteva un enorme successo, e l’Italia liberata dai goti di Trissino, che seguiva rigorosamente le norme di Aristotele ma che nessuno leggeva e pochissimi apprezzavano. Tasso si pose pertanto il problema di aderire ai precetti della Poetica, in particolare alle tre unità di tempo, luogo e azione, che soli potevano garantire all’opera lo status di poema eroico conferendogli la stessa dignità della tragedia, evitando al tempo stesso la monotonia e assicurandosi il successo del pubblico. La soluzione di Tasso fu la varietà nell’unità: un’unica vicenda principale arricchita da azioni accessorie che all’avvenimento principale continuamente rimandano. Il poema epico si fa così specchio del mondo, che è assieme uno e molteplice.
- Il vero storico, il verosimile e il meraviglioso
Tasso racconta un evento storico, la prima crociata, lontano nel tempo, convinto che la verità attiri l’interesse del lettore, e garantendosi al tempo stesso la massima libertà nella narrazione dei particolari. Oggetto della poesia del resto non è il vero ma il verosimile, e ciò che conta è che quanto i personaggi dicono o fanno risulti sempre appropriato e plausibile. Nei miracoli e nelle magie, che rendono interessante l’opera, per Tasso il verosimile sposa il meraviglioso “cristiano”, in quanto si tratta di azioni operate da Dio o dal demonio. Unire insegnamento e divertimento, utile e piacevole, è l’obiettivo fondamentale di Tasso, convinto che il compito della letteratura sia la ricerca della verità.
- I temi
Opera-mondo, la Gerusalemme liberata sviluppa moltissime tematiche, tra cui prevalgono quelle della religiosità, della natura e dell’amore. Il tema religioso è inquadrato nel cosmico conflitto fra bene e male, che coinvolge la sfera umana e quella soprannaturale; connessi a questo tema sono quelli della guerra e della magia, distinta in bianca e nera; l’esito finale non deve ingannare, perché il fatto che ai tempi di Tasso Gerusalemme fosse nuovamente in mano ai musulmani dimostra quanto la vittoria del bene su questa terra sia fragile e mai definitiva.
Quanto al tema della natura, nel poema il paesaggio diviene per la prima volta elemento strutturale: non solo infatti visualizza gli stati d’animo dei protagonisti, ma si carica di valori simbolici funzionali al racconto (è il caso per esempio del contrasto luce-ombra).
Il tema amoroso appare infine declinato in forme problematiche: gli amori nel poema appaiono sempre sfasati e sembrano potersi realizzare solo attraverso il sacrificio di sé. Il fatto poi che quasi tutte le vicende amorose coinvolgano personaggi appartenenenti ai due opposti schieramenti, dimostra che l’amore è l’unica forza capace di conciliare i contrasti.
- I personaggi
I personaggi del poema sono assai diversi rispetto a quelli della tradizione cavalleresca; Tasso ne fa delle autentiche persone, con una profondità psicologica e un mondo interiore individuale, fatto di problematicità e contraddizioni.
Esemplare è in questo senso il personaggio di Tancredi, che anticipa aspetti della sensibilità romantica.
- Lo stile
Tasso cercò di elevare il poema eroico alla dignità della tragedia, perseguendo l’obiettivo di una classicità moderna attraverso uno stile “magnifico” e “sublime”. L’obiettivo fu conseguito ricorrendo a frequenti citazioni classiche, a una musicalità prima sconosciuta, all’uso intenso delle figure retoriche e a una particolare attenzione alla dispositio; rispetto all’armonioso canone petrarchesco, Tasso scelse una disarmonia armonica.

- La produzione lirica
Tasso compose circa duemila poesie, più di qualunque altro poeta italiano. Ciò si deve sia al fatto che egli era un poeta cortigiano, quindi un professionista delle lettere, sia al fatto che fu il primo a estendere l’ambito del poetabile ben al di là del petrarchismo. Tasso curò solo tre stampe delle sue poesie, in particolare l’edizione in due parti delle Rime (nel 1591 le rime amorose e nel 1593 le lodi e gli encomi), sviluppando una grande varietà di argomenti, molti dei quali anticipano la lirica barocca, e introducendo richiami continui alla propria tormentata autobiografia.
Lo stile è sempre nobile, più vicino al sublime tragico che al medio lirico, innovativo soprattutto nel linguaggio; su un fondo petrarchesco Tasso introduce latinismi, dantismi e lombardismi, perseguendo l’obiettivo di una lingua chiara e musicale. Frequente è anche il ricorso all’arguzia, cioè all’accostamento inedito e ardito di concetti, altra anticipazione della sensibilità barocca.
Dal punto di vista metrico Tasso privilegiò tre metri: la canzone, il sonetto e il madrigale, rinnovandoli dall’interno.
Nel sonetto, in particolare, fece entrare in conflitto lo schema metrico e la sintassi per mezzo di enjambements e forti cesure interne. Tasso rinnovò inoltre profondamente il madrigale, rendendolo uno schema metrico molto più libero rispetto alla tradizione petrarchesca.
I madrigali tassiani sono organismi complessi dal punto di vista fonico e rigorosi sotto il profilo logico: sovente sviluppano un’argomentazione tripartita in dichiarazione, sviluppo e riflessione conclusiva.

- Gli scritti teorici
Dai Discorsi dell’arte poetica ai Discorsi del poema eroico [1562-1594]
Iniziati intorno al 1562, quando Tasso frequentava a Padova le lezioni sulla Poetica di Aristotele, e pubblicati nel 1587, i Discorsi dell’arte poetica sono suddivisi in tre libri, dedicati rispettivamente alla materia, alla forma e allo stile più adatti al poema eroico. Parallelamente al rifacimento della Liberata in Conquistata Tasso rivide completamente il trattato, ripubblicandolo in sei libri nel 1594 con il nuovo titolo di Discorsi del poema eroico, avvicinandosi maggiormente alle indicazioni aristoteliche in particolare per quanto riguarda la storicità dei fatti narrati e il carattere educativo e morale del poema.
Il Giudizio sovra la sua «Gerusalemme» da lui medesimo riformata [1593-1595] Composto fra il 1593 e il 1595, rimase inedito e fu pubblicato postumo solo nel 1666. Tasso mette a confronto la Liberata e la Conquistata a tutto vantaggio della seconda; in particolare nel primo libro il poeta parifica poesia e filosofia, nel secondo accosta il poeta al teologo.

Il Re Torrismondo [1573-1587]
Iniziata nel 1573 con il titolo provvisorio di Galealto, la tragedia fu rielaborata e pubblicata nel 1587 con il titolo di Re Torrismondo. Ambientata in un tempo imprecisato e in un paesaggio nordico tempestoso e barbarico, mette in scena la vicenda di Torrismondo che, innamoratosi della bella Alvida, promessa sposa dell’amico Germondo, e da lei ricambiato, cade in preda ai sensi di colpa e a un profondo turbamento psicologico, che si conclude con il suicidio della coppia allorché i due scoprono di essere fratello e sorella. Tasso recupera il tema dell’incesto inconsapevole dall’Edipo
re di Sofocle, e insieme le indicazioni di Aristotele per il quale solo un personaggio in parte colpevole e in parte innocente può innescare nel pubblico la catarsi tragica.

I Dialoghi [1575-1595]
Tra il 1575 e il 1595 Tasso compose ventotto dialoghi dedicati ad argomenti vari: l’amore, la nobilità, la virtù, la corte ecc. La forma dialogica, risalente a Platone ma che aveva conosciuto una nuova fortuna nei secoli XV e XVI, permette di mettere in scena una «civil conversazione» cui partecipano amici o ospiti del poeta, confrontando idee e posizioni anche molto differenti, espresse in un linguaggio sempre estremamente curato.

Le ultime opere
Negli ultimi anni Tasso compose diverse opere di ispirazione cortigiana o religiosa, come i poemetti in ottave La genealogia di Casa Gonzaga (1591), Monte Oliveto (1588, incompiuto, dedicato alla descrizione del monastero napoletano dove Tasso fu ospitato dai frati olivetani), Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo (1593). La più importante è però il poema in endecasillabi sciolti Le sette giornate del mondo creato, composto fra il 1592 e il 1594 e pubblicato postumo nel 1607. Contrapponendosi alla filosofia materialista e razionalista di Epicuro (predicata dal poeta latino Lucrezio nel poema De rerum natura), Tasso qui si fa decisamente poeta-teologo nel tentativo di costruire un sistema filosofico e poetico cristiano.

Le lettere
Tasso indirizzò durante la sua vita numerosissime lettere a svariati personaggi, destinate sovente già nelle intenzioni dell’autore a essere lette in pubblico. Ne pubblicò egli stesso alcune, in particolare le Lettere familiari (1588), in cui Tasso contribuisce alla creazione del proprio mito di intellettuale malinconico e solitario, dolorosamente consapevole della propria genialità, in conflitto con la sua epoca, con il mondo delle corti e, in generale, con le istituzioni religiose e civili. Non sempre attendibili sotto il profilo autobiografico, queste lettere vanno considerate a tutti gli effetti come un’opera letteraria.




AMINTA
FAVOLA BOSCHERECCIA





INTERLOCUTORI

AMORE, in abito pastorale

DAFNE, compagna di Silvia

SILVIA, amata da Aminta

AMINTA, innamorato di Silvia

TIRSI, compagno d’Aminta

SATIRO, innamorato di Silvia

NERINA, messaggera

ERGASTO, nunzio

ELPINO, pastore

CORO DEI PASTORI.



PROLOGO

AMORE in abito pastorale.

Chi crederia che sotto umane forme
e sotto queste pastorali spoglie
fosse nascosto un dio? non mica un dio
selvaggio, o de la plebe de gli dei,
ma tra’ grandi e celesti il più potente, 5
che fa spesso cader di mano a Marte
la sanguinosa spada, ed a Nettuno
scotitor de la terra il gran tridente,
ed i folgori eterni al sommo Giove.
In questo aspetto, certo, e in questi panni 10
non riconoscerà sí di leggiero
Venere madre me suo figlio Amore.
Io da lei son constretto di fuggire
e celarmi da lei, perch’ella vuole
ch’io di me stesso e de le mie saette 15
faccia a suo senno; e, qual femina, e quale
vana ed ambiziosa, mi rispinge
pur tra le corti e tra corone e scettri,
e quivi vuol che impieghi ogni mia prova,
e solo al volgo de’ ministri miei, 20
miei minori fratelli, ella consente
l’albergar tra le selve ed oprar l’armi
ne’ rozzi petti. Io, che non son fanciullo,
se ben ho volto fanciullesco ed atti,
voglio dispor di me come a me piace: 25
ch’a me fu, non a lei, concessa in sorte
la face onnipotente e l’arco d’oro.
Però spesso celandomi, e fuggendo
l’imperio no, che in me non ha, ma i preghi,
c’han forza porti da importuna madre, 30
ricovero ne’ boschi e ne le case
de le genti minute; ella mi segue,
dar promettendo a chi m’insegna a lei
o dolci baci o cosa altra più cara:
quasi io di dare in cambio non sia buono, 35
a chi mi tace o mi nasconde a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara.
Questo io so certo almen: che i baci miei
saran sempre più cari a le fanciulle,
se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo: 40
onde sovente ella mi cerca in vano,
ché rivelarmi altri non vuole, e tace.

==>SEGUE


le rustiche sampogne; e se mia madre,
che si sdegna vedermi errar fra’ boschi,
ciò non conosce, è cieca ella, e non io, 90
cui cieco a torto il cieco volgo appella.







ATTO PRIMO

scena prima

Dafne, Silvia

[DAFNE]
Vorrai dunque pur, Silvia,
da i piaceri di Venere lontana
menarne tu questa tua giovanezza?
Né ’l dolce nome di madre udirai, 95
né intorno ti vedrai vezzosamente
scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia,
cangia, prego, consiglio,
pazzarella che sei.
SILVIA
Altri segua i diletti de l’amore, 100
se pur v’è ne l’amor alcun diletto:
me questa vita giova, e ’l mio trastullo
è la cura de l’arco e de gli strali;
seguir le fere fugaci, e le forti
atterrar combattendo; e se non mancano 105
saette a la faretra o fere al bosco,
non tem’io che a me manchino diporti.
DAFNE
Insipidi diporti veramente,
ed insipida vita; e s’a te piace
è sol perché non hai provata l’altra. 110
Così la gente prima, che già visse
nel mondo ancora semplice ed infate,
stimò dolce bevanda e dolce cibo
l’acqua e le ghiande, ed or l’acqua e le ghiande
sono cibo e bevanda d’animali, 115
poi che s’è posto in uso il grano e l’uva.
Forse, se tu gustassi anco una volta
la millesima parte de le gioie
che gusta un cor amato riamando,
diresti, ripentita, sospirando: 120
“Perduto è tutto il tempo
che in amar non si spende”.
O mia fuggita etate,
quante vedove notti,
quanti dì solitari 125
ho consumati indarno,

==>SEGUE

che si poteano impiegar in quest’uso,
il qual più replicato è più soave!
Cangia, cangia consiglio,
pazzarella che sei: 130
ché ’l pentirsi da sezzo nulla giova.
SILVIA
Quando io dirò, pentita, sospirando,
queste parole che tu fingi ed orni
come a te piace, torneranno i fiumi
a le lor fonti, e i lupi fuggiranno 135
da gli agni, e ’l veltro le timide lepri;
amerà l’orso il mare, e ’l delfin l’alpi.
DAFNE
Conosco la ritrosa fanciullezza:
qual tu sei, tal io fui: così portava
la vita e ’l volto, e così biondo il crine, 140
e così vermigliuzza avea la bocca,
e così mista col candor la rosa
ne le guancie pienotte e delicate.
Era il mio sommo gusto (or me n’avveggio
gusto di sciocca) sol tender le reti, 145
ed invescar le panie, ed aguzzare
il dardo ad una cote, e spiar l’orme
e ’l covil de le fere; e se talora
vedea guatarmi da cupido amante,
chinava gli occhi rustica e selvaggia, 150
piena di sdegno e di vergogna, e m’era
mal grata la mia grazia, e dispiacente
quanto di me piaceva altrui: pur come
fosse mia colpa e mia onta e mio scorno
l’esser guardata, amata e desiata. 155
Ma che non puote il tempo? e che non puote,
servendo, meritando, supplicando,
fare un fedele ed importuno amante?
Fui vinta, io te ’l confesso, e furon l’armi
del vincitore umiltà, sofferenza, 160
pianti, sospiri e dimandar mercede.
Mostrommi l’ombra d’una breve notte
allora quel che ’l lungo corso e ’l lume
di mille giorni non m’avea mostrato;
ripresi allor me stessa e la mia cieca 165
simplicitate, e dissi sospirando:
“Eccoti, Cinzia, il corno, eccoti l’arco,
ch’io rinunzio i tuoi strali e la tua vita”.

==>SEGUE


Così spero veder ch’anco il tuo Aminta
pur un giorno domestichi la tua 170
rozza salvatichezza, ed ammollisca
questo tuo cor di ferro e di macigno.
Forse ch’ei non è bello? o ch’ei non t’ama?
o ch’altri lui non ama? o ch’ei si cambia
per l’amor d’altri? over per l’odio tuo? 175
forse ch’in gentilezza egli ti cede?
Se tu sei figlia di Cidippe, a cui
fu padre di dio di questo nobil fiume,
ed egli è figlio di Silvano, a cui
Pane fu padre, il gran dio de’ pastori. 180
Non è men di te bella, se ti guardi
dentro lo specchio mai d’alcuna fonte,
la candida Amarilli; e pur ei sprezza
le sue dolci lusinghe, e segue i tuoi
dispettosi fastidi. Or fingi (e voglia 185
pur Dio che questo fingere sia vano)
ch’egli, teco sdegnato, al fin procuri
ch’a lui piaccia colei cui tanto ei piace;
qual animo fia il tuo? o con quali occhi
li vedrai fatto altrui? fatto felice 190
ne l’altrui braccia, e te schernir ridendo?
SILVIA
Faccia Aminta di sé e de’ suoi amori
quel ch’a lui piace: a me nulla ne cale;
e pur che non sia mio, sia di chi vuole;
ma esser non può mio s’io lui non voglio; 195
né, s’anco egli mio fosse, io sarei sua.
DAFNE
Onde nasce il tuo odio?
SILVIA
Dal suo amore.
DAFNE
Piacevol padre di figlio crudele.
Ma quando mai da i manueti agnelli
naquer le tigri? o da i bei cigni i corvi? 200
O me inganni o te stessa.
SILVIA
Odio il suo amore
ch’odia la mia onestate, ed amai lui
mentr’ei volse di me quel ch’io voleva.
DAFNE
Tu volevi il tuo peggio: egli a te brama
quel ch’a sé brama.

==>SEGUE


SILVIA
Dafne, o taci, o parla
d’altro, se vuoi risposta.
DAFNE
Or guata modi!
guata che dispettosa giovinetta!
Or rispondimi almen: s’altri t’amasse,
gradiresti il suo amore in questa guisa?
SILVIA
In queta guisa gradirei ciascuno 210
insidiator di mia virginitate,
che tu dimandi amante ed io nimico.
DAFNE
Stimi dunque nemico
il monton de l’agnella?
de la giovenca il toro? 215
Stimi dunque nemico
il tortore a la fida tortorella?
Stimi dunque stagione
di nimicizia e d’ira
la dolce primavera, 220
ch’or allegra e ridente
riconsiglia ad amare
il mondo e gli animali
e gli uomini e le donne? e non t’accorgi
come tutte le cose 225
or sono innamorate
d’un amor pien di gioia e di salute?
Mira là quel colombo
con che dolce susurro lusingando
bacia la sua compagna. 230
Odi quell’usignolo
che va di ramo in ramo
cantando: “Io amo, io amo”; e se non ’l sai,
la biscia lascia il suo veleno e corre
cupida al suo amatore; 235
van le tigri in amore;
ama il leon superbo; e tu sol, fiera
più che tutte le fere,
albergo gli dineghi nel tuo petto.
Ma che dico leoni e tigri e serpi, 240
che pur han sentimento? amano ancora
gli alberi. Veder puoi con quanto affetto
e con quanti iterati abbracciamenti
la vite s’avviticchia al suo marito;

==>SEGUE




l’abete ama l’abete, il pino il pino, 245
l’orno per l’orno e per la salce il salce,
e l’un per l’altro faggio arde e sospira.
Quella quercia che pare
sì ruvida e selvaggia,
o sent’anch’ella il potere 250
de l’amoroso foco; e se tu avessi
spirto e senso d’amore, intenderesti
i suoi muti sospiri. Or tu da meno
esser vuoi de le piante,
per non esser amante? 255
Cangia, cangia consiglio,
pazzarella che sei.
SILVIA
Or su, quando i sospiri
udirò de le piante,
io son contenta allor d’esser amante. 260
DAFNE
Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli
e burli mie ragioni? O in amore
sorda non men che sciocca? Ma va pure,
ché verrà tempo che ti pentirai
non averli seguiti. e Già non dico 265
allor che fuggirai le fonti, ov’ora
spesso ti specchi e forse ti vagheggi,
allor che fuggirai le fonti, solo
per tema di vederti crespa e brutta:
questo avverratti ben; ma non t’annuncio 270
già questo solo, ché, bench’è gran male,
è però mal commune. Or non rammenti
ciò che l’altr’ieri Elpino raccontava,
il saggio Elpino a la bella Licori,
Licori ch’in Elpin puote con gli occhi 275
quel ch’ei potere in lei dovria col canto
se ’l doere in amor si ritrovasse?
E ’l raccontava udendo Batto e Tirsi,
gran maestri d’amore, e ’l raccontava
ne l’antro de l’Aurora, ove su l’uscio 280
è scritto: “Lungi, ah lungi ite, profani”.
Diceva egli, e diceva che glie’l disse
quel grande che cantò l’armi e gli amori,
ch’a lui lasciò la fistola morendo,
che là giù ne lo ’nferno è un vero speco,
là dove essala un fumo pien di puzza
da le triste fornaci d’Acheronte;

==>SEGUE


   

SILVIA
Io qui trapasso il tempo ragionando,
né mi sovviene ch’oggi è ’l dì prescritto 325
ch’andar si deve a la caccia ordinata
ne l’Eliceto. Or, se ti pare, aspetta
ch’io pria deponga nel solito fonte
il sudore e la polve, ond’ier mi sparsi
seguendo in caccia una damma veloce,
ch’al fin giunsi ed ancisi. 330

DAFNE
Aspetterotti,
e forse anch’io mi bagnerò nel fonte.
Ma sino a le mie case ir prima voglio,
ché l’ora non è tarda, come pare.
Tu ne le tue m’aspetta ch’a te venga,
e pensa in tanto pur quel che più importa 335
de la caccia e del fonte; e se non sai,
credi di non saper, e credi a’ savi.


scena seconda

Aminta, Tirsi.

[AMINTA]
Ho visto al pianto mio
risponder per pietate i sassi e l’onde,
e sospirar le fronde 340
ho visto al pianto mio;
ma non ho visto mai,
né spero di vedere,
compassion ne la crudele e bella,
che non so s’io mi chiami o donna o fera; 345
ma niega d’esser donna,
poiché nega pietate
a chi non la negaro
le cose inanimate.
TIRSI
Pasce l’agna l’erbette, il lupo l’agne, 350
ma il crudo Amor di lagrime si pasce,
né se ne mostra mai satollo.
AMINTA
Ahi, lasso,
ch’Amor satollo è del mio pianto omai,
e solo ha sete del mio sangue, e tosto
voglio ch’egli e quest’empia il sangue mio 355
bevan con gli occhi.
TIRSI
Ahi, Aminta, ahi, Aminta,
che parli? o che vaneggi? Or ti conforta,
ch’un’altra troverai, se ti disprezza
questa crudele.
AMINTA
Ohimè, come poss’io
altri trovar, se me trovar non posso? 360
Se perduto ho me stesso, quale acquisto
farò mai che mi piaccia?
TIRSI
O miserello,
non disperar, ch’acquisterai costei.
La lunga etate insegna a l’uom di porre
freno a i leoni ed a le tigri ircane. 365
AMINTA
Ma il misero non puote a la sua morte
indugio sostener di lungo tempo.

==>SEGUE
    

TIRSI
Sarà corto l’indugio: in breve spazio
s’adira e in breve spazio anco si placa
femina, cosa mobil per natura 370
più che fraschetta al vento e più che cima
di pieghevole spica. Ma, ti prego,
fa ch’io sappia più a dentro de la tua
dura condizione e de l’amore:
ché se ben confessato m’hai più volte 375
d’amare, mi tacesti però dove
fosse posto l’amore. Ed è ben degna
la fedele amicizia ed il commune
studio de le muse ch’a me scuopra
ciò ch’a gli altri si cela. 380
AMINTA
Io son contento,
Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti
e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.
Ch’io sono omai sì prossimo a la morte,
ch’è ben ragion ch’io lasci chi ridica
la cagion del morire, e che l’incida 385
ne la scorza d’un faggio, presso il luogo
dove sarà sepolto il corpo essangue:
sì che tal or passandovi quell’empia,
si goda di calcar l’oassa infelici
co ’l piè superbo, e tra sé dica: “È questo 390
pur mio trionfo”; e goda di vedere
che nota sia la sua vittoria a tutti
li pastor paesani e pellegrini
che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero
troppo alte cose) un giorno esser potrebbe 395
ch’ella, commossa da tarda pietate,
piangesse morto chi già vivo uccise,
dicendo: “Oh pur qui fosse, e fosse mio!”
Or odi.
TIRSI
Segui pur, ch’io ben t’ascolto,
e forse a miglior fin che tu non pensi. 400
Essendo io fanciulletto, sì che a pena
giunger potea con la man pargoletta
a corre i frutti da i piegati rami
de gli arboscelli, intrinseco divenni
de la più vaga e cara verginella 405
che mai spiegasse al vento chioma d’oro.
La figliuola conosci di Cidippe

==>SEGUE


    


e di Montan, ricchissimo d’armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l’alme?
Di queta parlo, ahi lasso; vissi a questa 410
così unito alcun tempo, che fra due
tortorelle più fida compagnia
non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
ma più congiunti i cori; 415
conforme era l’etate,
ma ’l pensier più conforme:
seco tendeva insidie con le reti
a i pesci ed a gli augelli, e seguitava
i cervi seco e le veloci damme; 420
e ’l diletto e la preda era commune.
Ma, mentre io fea rapina d’animali,
fui non so come a me stesso rapito.
A poco a poco nacque nel mio petto,
non so da qual radice, 425
com’erba suol che per se stessa germini,
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d’esser sempre presente
a la mia bella Silvia; 430
e bevea da’ suoi lumi
un’estranea dolcezza,
che lasciava nel fine
un non so che d’amaro;
sospirava sovente, e non sapeva 435
la cagion de’ sospiri.
Così fui prima amante ch’intendessi
che cosa fosse amore.
Ben me n’accorsi al fin; ed in qual modo,
ora m’ascolta, e nota. 440
TIRSI
È da notare.
AMINTA
A l’ombra d’un bel faggio Silvia e Filli
sedean un giorno, ed io con loro insieme,
quando un’ape ingegnosa, che cogliendo
sen’ giva il mel per que’ prati fioriti,
a le guancie di Fillide volando, 445
a le guancie vermiglie come rosa,
lme morse e le rimorse avidamente:
ch’a la similitudine ingannata
forse un fior le credette. Allora Filli

==>SEGUE



cominciò lamentarsi, impaziente 450
de l’acuta puntura;
ma la mia bella Silvia disse: “Taci,
taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
con parole d’incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita. 455
A me insegnò già questo secreto
la saggia Aresia, e n’ebbe per mercede
quel mio corno d’avolio ornato d’oro”.
Così dicendo, avvicinò le labra
de la sua bella e dolcissima bocca 460
a la guancia rimorsa, e con soave
susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! Sentì tosto
cessar la doglia, o forse la virtute
di que’ magici detti o, com’io credo, 465
la virtù de la bocca
che sana ciò che tocca.
Io, che sino a quel punto altro non volsi
che ’l soave splendor de gli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci 470
che ’l mormorar d’un lento fiumicello
che rompa il corso fra minuti sassi,
o che ’l garrir de l’aura infra le frondi,
allor sentii nel cor novo desire
d’appressare a la sua questa mia bocca; 475
e fatto non so come astuto e scaltro
più de l’usato (guarda quanto Amore
aguzza l’intelletto!), mi sovvenne
d’un inganno gentile, co ’l qual io
recar potessi a fine il mio talento: 480
ché fingendo ch’un’ape avesse morso
il mio labro di sotto, incominciai a
lamentarmi di cotal maniera,
che quella medicina che la lingua
non richiedeva, il volto richiedeva. 485
La semplicetta Silvia,
pietosa del mio male,
s’offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso, e fece
più cupa e più mortale 490
la mia piaga verace,
quando le labra sue
giunse a le labra mie.
N’é l’api d’alcun fiore

==>SEGUE


coglion sì dolce il mel ch’allora io colsi 495
da quelle fresche rose,
se ben gli ardenti baci,
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli 500
più lenti e meno audaci.
Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
d’un secreto veleno,
tal diletto n’avea 505
che, fingendo ch’ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei sì ch’ella più volte
vi replicò l’incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo 510
il desire e l’affanno impaziente
che, non potendo più capir nel petto,
fu forza che scoppiasse; ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori
e facevamo alcuni nostri giuochi, 515
ché ciascun ne l’orecchio del vicino
mormorando diceva un suo secreto,
“Silvia,” le dissi “io per te ardo, e certo
morrò, se non m’aiti.” A quel parlare
chinò ela il bel volto, e fuor le venne 520
un improviso, insolito rossore
che diede segno di vergogna e d’ira;
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie. Indi si tolse, e più non volle 525
né vedermi né udirmi. E già tre volte
ha il nudo mietitor tronche le spighe,
ed altretante il verno ha scossi i boschi
de le lor verdi chiome; ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora;
e morrò volontier, pur ch’io sia certo
ch’ella o se ne compiaccia o se ne doglia;
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore 535
a la mia fede, e maggior ricompensa
a la mia morte; ma bramar non deggio
cosa che turbi il bel lume sereno
a gli occhi cari, e affanni quel bel petto.

==>SEGUE

TIRSI
È possibil però che, s’ella un giorno 540
udisse tai parole, non t’amasse?
AMINTA
Non so, né ’l credo; ma fugge i miei detti
come l’aspe l’incanto.
TIRSI
Or ti confida,
ch’a me dà cuor di far ch’ella t’ascolti.
AMINTA
O nulla impetrerai o, se tu impetri 545
ch’io parli, io nulla impetrerò parlando.
TIRSI
Perché disperi sì?
AMINTA
Giusta cagione
ho del mio disperar, ché il saggio Mopso
mi predisse la mia cruda ventura,
Mopso ch’intende il parlar degli augelli 550
e la virtù de l’erbe e de le fonti.
TIRSI
Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso
ch’a ne la lingua melate parole,
e ne le labra un amichevol ghigno,
e la fraude nel seno, ed il rasoio 555
tien sotto il manto? Or su, sta di bon core,
ché i sciaurati pronostichi infelici
ch’ei vende a’ mal accorti con quel grave
suo supercilio, non han mai effetto;
e per prova so io ciò che ti dico: 560
anzi, da questo sol ch’ei t’ha predetto,
mi giova di sperar felice fine
a l’amor tuo.
AMINTA
Se sai cosa per prova,
che conforti mia speme, non tacerla.
TIRSI
Dirolla volentieri. Allor che prima 565
mia sorte mi condusse in queste selve,
costui conobbi, e lo stimava io tale
qual tu lo stimi; in tanto un dì mi venne
e bisogno e talento d’irne dove
siede la gran cittade in ripa al fiume, 570
ed a costui ne feci motto; ed egli
così mi disse: “Andrai ne la gran terra,

==>SEGUE
   

ove gli astuti e scaltri cittadini
e i cortigian malvagi molte volte
prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni 575
di noi rustici incauti: però, figlio,
va su l’avviso, e non t’appressar troppo
ove sian drappi colorati e d’oro,
e pennacchi e divise e foggie nove;
ma sopra tutto guarda che mal fato 580
o giovenil vaghezza non ti meni
al magazzino de le ciancie: ah fuggi,
fuggi quell’incantato alloggiamento”.
“Che luogo è questo?” io chiesi; ed ei soggiunse:
“Quivi abitan le maghe, che incantando 585
far traveder e traudir ciascuno.
Ciò che diamante sembra ed oro fino,
è vetro e rame; e quelle arche d’argento,
che stimeresti piene di tesoro,
sporte son piene di vesciche bugge. 590
Quivi le mura son fatte con arte,
che parlano e rispondono a i parlanti;
né già rispondon la parola mozza,
com’Eco suole ne le nostre selve,
ma la replican tutta intiera intiera, 595
con giunta anco di quel ch’altri non disse.
I trespidi, le tavole e le panche,
le scranne, le lettiere, le cortine,
e gli arnesi di camera e di sala
han tutti lingua e voce, e gridan sempre. 600
Quivi le ciancie in forma di bambine
vanno trescando, e se un muto v’entrasse,
un muto ciancerebbe a suo dispetto.
Ma questo è ’l minor mal che ti potesse
incontrar: tu potresti indi restarne 605
converso in selce, in fera, in acqua, o in oco:
acqua di pianto, e foco di sospiri”.
Così diss’egli; ed io n’andai con questo
fallace antiveder ne la cittade;
e, come volse il ciel benigno, a caso 610
passai per là dov’è ’l felice albergo.
Quindi uscian fuor voci canore e dolci
e di cigni e di ninfe e di sirene,
di sirene celesti; e n’uscian suoni
soavi e chiari; e tanto altro diletto, 615
ch’attonito godendo ed ammirando
mi fermai buona pezza. Era su l’uscio,

==>SEGUE

   
Particolare di un affresco
del Ghirlandaio


Ma per istarne anco più occulto, ond’ella
ritrovar non mi possa a i contrassegni,
deposto ho l’ali, la faretra e l’arco. 45
Non però disarmato io qui ne vengo,
ché questa, che par verga, è la mia face
(così l’ho trasformata), e tutta spira
d’indivisibili fiamme; e questo dardo,
se bene egli non ha la punta d’oro, 50
è di tempre divine, e imprime amore
dovunque fiede. Io voglio oggi con questo
far cupa e immedicabile ferita
nel duro sen de la più cruda ninfa
che mai seguisse il coro di Diana. 55
Né la piaga di Silvia fia minore
(ché questo è ’l nome de l’alpestre ninfa)
che fosse quella che pur feci io stesso
nel molle sen d’Aminta, or son molt’anni,
quando lei tenerella ei tenerello 60
seguiva ne le caccie e ne i diporti.
E, perché il colpo mio più in lei s’interni,
aspeterò che la pietà mollisca
quel duro gelo che d’intorno al core
l’ha ristretto il rigor de l’onestate 65
e del virginal fasto; ed in quel punto
ch’ei fia più molle, lancerogli il dardo.
E, per far sì bell’opra a mio grand’agio,
io ne vo a mescolarmi infra la turba
de’ pastori festanti e coronati, 70
che già qui s’è inviata, ove a diporto
si sta nè dì solenni, esser fingendo
uno di loro schiera; e in questo luogo,
in questo luogo a punto io farò il colpo,
che veder non potrallo occhio mortale. 75
Queste selve oggi ragionar d’Amore
s’udranno in nuova guisa; e ben parrassi
che la mia deità sia qui presente
in se medesma, e non ne’ suoi ministri.
Sospirerò nobil sensi a’ rozzi petti, 80
raddolcitò de le lor lingue il suono:
perché, ovunque ’i mi sia, io sono Amore,
ne’ pastori non men che ne gli eroi,
e la disagguaglianza de’ soggetti
come a me piace agguaglio; e questa è pure 85
suprema gloria e gran miracol mio:
render simili a le più dotte cetre
==>SEGUE




e che quivi punite eternamente
in tormenti di tenebre e di pianto
son le femine ingrate e sconoscenti. 290
Quivi aspetta ch’albergo s’apparecchi
a la tua feritate;
e dritto è ben ch’il fumo
tragga mai sempre il pianto da quegli occhi,
onde trarlo giamai 295
non poté la pietate.
Segui, segui tuo stile,
ostinata che sei.
SILVIA
Ma che fé allor Licori? e com’ rispose
a queste cose? 300
DAFNE
Tu e’ fatti propri
nulla ti curi, e vuoi saper gli altrui.
Con gli occhi gli rispose.
Come risponder sol poté con gli occhi?
DAFNE
Risposer questi con dolce sorriso,
volti ad Elpino: “Il core e noi siam tuoi; 305
tu bramar più non dei: costei non puote
più darti”. E tanto solo basterebbe
per intiera mercede al casto amante,
se stimasse veraci come belli
quegli occhi, e lor prestasse intera fede. 310

SILVIA
E perché lor non crede?

DAFNE
Or tu non sai
ciò che Tirsi ne scrisse, allor ch’ardendo
forsennato egli errò per le foreste,
sì ch’insieme movea pietate e riso
ne le vezzose ninfe e ne’ pastori? 315
se ben cose facea degne di riso
Né già cose scrivea degne di riso.
Lo scrisse in mille piante, e con le piante
crebbero i versi; e così lessi in una:
“Specchi del cor, fallaci infidi lumi, 320
ben riconosco in voi gli inganni vostri;
ma che pro, se schivarli Amor mi toglie?”

==>SEGUE

quasi per guardia de le cose belle,
uom d’aspetto magnanimo e robusto,
di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi 620
s’egli sia miglior duce o cavaliero,
che con fronte benigna insieme e grave,
con regal cortesia invitò dentro,
ei grande e ’n pregio, me negletto e basso.
Oh che sentii? che vidi allora? I’ vidi 625
celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
novi Lini ed Orfei: ed oltre ancora,
senza vel, senza nube, e quale e quanta
a gl’immortali appar, vergine Aurora
sparger d’argento e d’or rugiade e raggi; 630
e fecondando illuminar d’intorno
vidi Febo e le Muse; ed in quel punto
sentii me far di me stesso maggiore,
pien di nova virtú, pieno di nova 635
deitade, e cantai guerre ed eroi,
sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi (come altrui piacque) feci
ritorno a queste selve, io pur ritenni
parte di quello spirto; né già suona 640
la mia sampogna umil come soleva;
ma di voce più altera e più sonora,
emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia; e con maligno
guardo mirando affascinommi: ond’io
roco divenni, e poi gran tempo tacqui,
quando i pastor credean ch’io fossi stato
visto dal lupo, e ’l lupo era costui.
Questo t’ho detto, acciò che sappi quanto
il parlar di costui di fede è degno; 650
e dei bene sperar, sol perché ei vuole
che nulla speri.
AMINTA
Piacemi d’udire
quanto mi narri. A te dunque rimetto
la cura di mia vita.
TIRSI
Io n’avrò cura.
Tu fra mezz’ora qui trovar ti lassa. 655
CORO
O bella età de l’oro,
non già perché di latte
sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco;

==>SEGUE

non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte 660
le terre, e gli angui errar senz’ira o tosco;
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna, 665
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino;
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto, 670
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura ’l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno 675
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: “S’ei piace, ei lice”.
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti sen’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe 685
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose, 690
ch’or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.
Tu prima, Onor, velasti 695
la fonte de i diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete;
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete; 700
tu raccogliesti in rete
le chiome e l’aura sparte;
tu i dolci atti lascivi

==>SEGUE

festi ritrosi e schivi;
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte:
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore, e di Natura donno, 710
tu domator de’ regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
a gl’illustri e potenti: 715
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua. 720
Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.



ATTO SECONDO

scena prima

SATIRO solo.

Picciola è l’ape, e fa col picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite; 725
ma qual cosa è più picciola d’Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s’asconde
in ogni breve spazio? or sotto a l’ombra
de le palpebre, or tra’ minuti rivi
d’un biondo crine, or dentro le pozzette 730
che forma un dolce riso in bella guancia;
e pur fa tanto grandi e sì mortali
e così immedicabili le piaghe.
Ohimè, che tutte piaga e tutte sangue
son le viscere mie; e mille spiedi 735
ha negli occhi di Silvia il crudo Amore.
Crudele Amor, Silvia crudele ed empia
più che le selve! Oh come a te confassi
tal nome, e quanto vide chi te ’l pose!
Celan le selve angui, leoni ed orsi 740
dentro il lor verde; e tu dentro al bel petto
nascondi odio, disdegno, ed impietate,
fere peggior ch’angui, leoni ed orsi:
ché si placano quei, questi placarsi
non possono per prego né per dono. 745
Ohimè, quando ti porto i fior novelli,
tu li ricusi, ritrosetta, forse
perché fior via più belli hai nel bel volto.
Ohimè, quando io ti porgo i vaghi pomi,
tu li rifiuti, disdegnosa, forse 750
perché pomi più vaghi hai nel ben seno.
Lasso, quand’io t’offrisco il dolce mele,
tu lo disprezzi, dispettosa, forse
perché mel via più dolce hai ne le labra.
Ma se mia povertà non può donarti 755
cosa ch’in te non sia più bella e dolce,
me medesmo ti dono. Or perché iniqua
scherni ed abborri il dono? non sono io
da disprezzar, se ben me stesso vidi
nel liquido del mar, quando l’altr’ieri 760
taceano i venti ed ei giacea senz’onda.

==>SEGUE

Questa mia faccia di color sanguigno,
queste mie spalle larghe, e queste braccia
torose e nerborute, e questo petto
setoso, e queste mie velate coscie 765
son di virilità, di robustezza
indicio; e se no ’l credi, fanne prova.
Che vuoi tu far di questi tenerelli,
che di molle lanugine fiorite
hanno a pena le guancie? e che con arte 770
dispongono i capelli in ordinanza?
Femine nel sembiante e ne le forze
sono costoro. Or dì ch’alcun ti segua
per le selve e pe i monti, e ’ncontra gi orsi
ed incontra i cinghiai per te combatta. 775
Non sono io brutto, no, né tu mi sprezzi
perché si fatto io sia, ma solamente
perché povero sono: ahi, ché le ville
seguon l’essempio de le gran cittadi;
e veramente il secol d’oro è questo, 780
poiché sol vince l’oro e regna l’oro.
O chiunque tu fosti, che insegnasti
primo a vender l’amor, sia maledetto
il tuo cener sepolto e l’ossa fredde.
e non si trovi mai pastore o ninfa 785
che lor dica passando: “Abbiate pace”;
ma le bagni la pioggia e mova il vento,
e con piè immondo la greggia il calpesti
e ’l peregrin. Tu prima svergognasti
la nobiltà d’amor; tu le sue liete 790
dolcezze inamaristi. Amor venale,
amor servo de l’oro è il maggior mostro
ed il più abominabile e il più sozzo,
che produca la terra o ’l mar fra l’onde.
Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno 795
quell’armi che gli ha date la natura
per sua salute: il cervo adopra il corso,
il leone gli artigli, ed il bavoso
cinghiale il dente; e son potenza ed armi
de la donna bellezza e leggiadria; 800
io perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fé natura
atto a far violenza ed a rapire?
Sforzerò, rapirò quel che costei
mi niega, ingrata, in merto de l’amore: 805
che, per quanto un caprar testé mi ha detto,

==>SEGUE

ch’osservato ha suo stile, ella ha per uso
d’andar sovente a rinfrescarsi a un fonte;
e mostrato m’ha il loco. Ivi io disegno
tra i cespugli appiattarmi e tra gli arbusti, 810
ed aspettar fin che vi venga; e, come
veggia l’occasion, correrle adosso.
Quel contrasto col corso o con le braccia
potrà fare una tenera fanciulla
contra me sì veloce e sì possente? 815
Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo
di pietà, di bellezza: che, s’io posso
questa mano ravvoglierle nel crine,
indi non partirà, ch’io pria non tinga
l’armi mie per vendetta nel suo sangue. 820




scena seconda

Dafne, Tirsi.

[DAFNE]
Tirsi, com’io t’ho detto, io m’era accorta
ch’Aminta amava Silvia; e Dio sa quanti
buoni officii n’ho fatti, e son per farli
tanto più volontier, quant’or vi aggiungi
le tue preghiere; ma torrei più tosto 825
a domar un giuvenco, un orso, un tigre,
che a domar una semplice fanciulla:
fanciulla tanto sciocca quanto bella,
che non s’avveggia ancor come sian calde
l’armi di sua bellezza, e come acute; 830
ma ridendo e piangendo uccida altrui,
e l’uccida e non sappia di ferire.
TIRSI
Ma quale è così semplice fanciulla
che, uscita da le fascie, non apprenda
l’arte del parer bella e del piacere, 835
de l’uccider piacendo, e del sapere
qual arme fera, e qual dia morte, e quale
sani e ritorni in vita?
DAFNE
Chi è ’l mastro
di cotant’arte?

==>SEGUE

TIRSI
Tu fingi, e mi tenti:
quel che insegna a gli augelli il canto e ’l volo, 840
a’ pesci il nuoto ed a’ montoni il cozzo,
al toro usar il corno, ed al pavone
spiegar la pompa de l’occhiute piume.
DAFNE
Come ha nome ’l gran mastro?
TIRSI
Dafne ha nome.
DAFNE
Lingua bugiarda! 845
TIRSI
E perché? tu non sei
atta a tener mille fanciulle a scola?
Benché, per dir il ver, non han bisogno
di maestro: maestra è la natura,
ma la madre e la balia anco v’han parte.
DAFNE
In somma, tu sei goffo insieme e tristo. 850
Ora, per dirti il ver, non mi risolvo
se Silvia è semplicetta come pare
a le parole, a gli atti. Ier vidi un segno
che me ne mette in dubbio. Io la trovai
là presso la cittade in quei gran prati, 855
ove fra stagni giace un’isoletta,
sovra essa un lago limpido e tranquillo,
tutta pendente in atto che parea
vagheggiar se medesma, e ’nsieme insieme
chieder consiglio a l’acque in qual maniera 860
dispor dovesse in su la fronte i crini,
e sovra i crini il velo, e sovra ’l velo
i fior che tenea in grembo; e spesso spesso
or prendeva un ligustro, or una rosa,
e l’accostava al bel candido collo, 865
a le guancie vermiglie, e de’ colori
fea paragone; e poi, sì come lieta
de la vittoria, lampeggiava un riso
che parea che dicesse: “Io pur vi vinco,
né porto voi per ornamento mio, 870
ma porto voi sol per vergogna vostra,
perché si veggia quanto mi cedete”.
Ma mentre ella s’ornava e vagheggiava,
rivolse gli occhi a caso, e si fu accorta
ch’io di lei m’era accorta, e vergognando 875

==>SEGUE

rizzosi tosto, e i fior lasciò cadere.
In tanto io più ridea del suo rossore,
ella più s’arrossia del riso mio.
Ma perché accolta una parte de’ crini
e l’altra aveva sparsa, una o due volte 880
con gli occhi al fonte consiglier ricorse,
e si mirò quasi di furto, pure
temendo ch’io nel suo guatar guatassi;
ed incolta si vide, e si compiacque
perché bella si vide ancor che incolta. 885
Io me n’avvidi, e tacqui.
TIRSI
Tu mi narri
quel ch’io credeva a punto. Or non m’apposi?
DAFNE
Ben t’apponesti; ma pur odo dire
che non erano pria le pastorelle
né le ninfe sì accorte; né io tale 890
fui in mia fanciullezza. Il mondo invecchia,
e invecchiando intristisce.
TIRSI
Forse allora
non usavan sì spesso i cittadini
ne le selve e ne i campi, né sì spesso
le nostre forosette aveano in uso 895
d’andare a la cittade. Or son mischiate
schiatte e costumi. Ma lasciam da parte
questi discorsi: or non farai ch’un giorno
Silvia contenta sia che le ragioni
Aminta, o solo, o almeno in tua presenza? 900
DAFNE
Non so. Silvia è ritrosa fuor di modo.
TIRSI
E costui rispettoso è fuor di modo.
DAFNE
È spacciato un amante rispettoso:
consiglial pur che faccia altro mestiero,
poich’egli è tal. Chi imparar vuol d’amare, 905
disimpari il rispetto: osi, domandi,
solleciti, importuni, al fine involi;
e se questo non basta, anco rapisca.
Or non sai tu com’è fatta la donna?
Fugge, e fuggendo vuol che altri la giunga; 910
niega, e negando vuol ch’altri si toglia;
pugna, e pugnando vuol ch’altri la vinca.

==>SEGUE

Ve’, Tirsi, io parlo teco in confidenza:
non ridir ch’io ciò dica. E sovra tutto
non porlo in rime. Tu sai s’io saprei 915
renderti poi per versi altro che versi.
TIRSI
Non hai cagion di sospettar ch’io dica
cosa giamai che sia contra tuo grado.
Ma ti prego, o mia Dafne, per la dolce
memoria di tua fresca giovanezza, 920
che tu m’aiti ad aitar Aminta
miserel, che si muore.
DAFNE
Oh che gentile
scongiuro ha ritrovato questo sciocco
di rammentarmi la mia giovanezza,
il ben passato e la presente noia! 925
Ma che vuoi tu ch’io faccia?
TIRSI
A te non manca
né saper, né consiglio. Basta sol che
ti disponga a voler.
DAFNE
Or su, dirotti:
debbiamo in breve andare Silvia ed io
al fonte che s’appella di Diana, 930
là dove a le dolci acque fa dolce ombra
quel platano ch’invita al fresco seggio
le ninfe cacciatrici. Ivi so certo
che tufferà le belle membra ignude.
TIRSI
Ma che però? 935
DAFNE
Ma che però? Da poco
intenditor! s’hai senno, tanto basti.
TIRSI
Intendo; ma non so s’egli avrà tanto
d’ardir.
DAFNE
S’ei non l’avrà, stiasi, ed aspetti
ch’altri lui cerchi.
TIRSI
Egli è ben tal che ’l merta.
DAFNE
Ma non vogliamo noi parlar alquanto 940
di te medesmo? Or su, Tirsi, non vuoi

==>SEGUE

tu inamorati? sei giovane ancora,
né passi di quattr’anni il quinto lustro,
se ben sovviemmi quando eri fanciullo:
vuoi viver neghittoso e senza gioia? 945
ché sol amando uom sa che sia diletto.
TIRSI
I diletti di Venere non lascia
l’uom che schiva l’amor, ma coglile e gusta
le dolcezze d’amor senza l’amaro.
DAFNE
Insipido è quel dolce che condito 950
non è di qualche amaro, e tosto sazia.
TIRSI
È meglio saziarsi, ch’esser sempre
famelico nel cibo e dopo ’l cibo.
DAFNE
Ma non, se ’l cibo si possede e piace,
e gustato a gustar sempre n’invoglia. 955
TIRSI
Ma chi possede sì quel che gli piace
che l’abbia sempre presso a la sua fame?
DAFNE
Ma chi ritrova il ben, s’egli no’l cerca?
TIRSI
Periglioso è cercar quel che trovato
trastulla sì, ma più tormenta assai 960
non ritrovato. Allor vedrassi amante
Tirsi mai più, ch’Amor nel seggio suo
non avrà più né pianti né sospiri.
A bastanza ho già pianto e sospirato.
Faccia altri la sua parte. 965
DAFNE
Ma non hai
già goduto a bastanza.
TIRSI
Né desio
goder, se così caro egli si compra.
DAFNE
Sarà forza l’amar, se non fia voglia.
TIRSI
Ma non si può forzar chi sta lontano.
DAFNE
Ma chi lung’ è d’Amor? 970
TIRSI
Chi teme e fugge.

==>SEGUE
DAFNE
E che giova fuggir da lui, c’ha l’ali?
TIRSI
Amor nascente ha corte l’ali: a pena
può su tenerle, e non le spiega a volo.
DAFNE
Pur non s’accorge l’uom quand’egli nasce;
e, quando uom se n’accorge, è grande e vola. 975
TIRSI
Non, s’altra volta nascer non l’ha visto.
DAFNE
Vedrem, Tirsi, s’avrai la fuga e gli occhi
come tu dici. Io ti protesto, poi
che fai del corridore e del cerviero,
che, quando ti vedrò chieder aita, 980
non moverei per aiutarti un passo,
un dito, un detto, una palpebra sola.
TIRSI
Crudel, daratti il cor veder morto?
Se vuoi pur ch’ami, ama tu me: facciamo
l’amor d’accordo. 985
DAFNE
Tu mi scherni, e forse
non merti amante così fatta: ahi quanti
n’inganna il viso colorito e liscio!
TIRSI
Non burlo io, no; ma tu con tal protesto
non accetti il mio amor, pur come è l’uso
di tutte quante; ma, se non mi vuoi, 990
viverò senza amor.
DAFNE
Contento vivi
più che mai fossi, o Tirsi, in ozio vivi:
ché ne l’ozio l’amor sempre germoglia.
TIRSI
O Dafne, a me quet’ozii ha fatto Dio:
colui che Dio qui può stimarsi, a cui 995
si pascon gli ampi armenti e l’ampie greggie
da l’uno a l’altro mare, e per li lieti
colti di fecondissime campagne,
e per gli alpestri dossi d’Apennino.
Egli mi disse, allor che suo mi fece: 1000
“Tirsi, altri scacci i lupi e i ladri, e guardi
i miei murati ovili; altri comparta
le pene e i premii a’ miei ministri; ed altri
pasca e curi le greggi; altri conservi

==>SEGUE

le lane e ’l latte, ed altri le dispensi: 1005
tu canta, or che se’ ’n ozio”. Ond’è ben giusto
che non gli scherzi di terreno amore,
ma canti gli avi del mio vivo e vero
non so s’io lui mi chiami Apollo o Giove,
ché ne l’opre e nel volto ambi somiglia; 1010
gli avi più degni di Saturno o Celo:
agreste Musa a regal merto; e pure,
chiara o roca che suoni, ei non la sprezza.
Non canto lui, però che lui non posso
degnamente onorar se non tacendo 1015
e riverendo; ma non fian giamai
gli altari suoi senza i miei fiori, e senza
soave fumo d’odorati incensi;
ed allor questa semplice e devota
religion mi si torrà dal core, 1020
che d’aria pasceransi in aria i cervi,
e che, mutando i fiumi e letto e corso,
il Perso bea la Sona, il Gallo il Tigre.
DAFNE
Oh, tu vai alto; or su, discendi un poco
al proposito nostro. 1025
TIRSI
Il punto è questo:
che tu in andando al fonte con colei,
cerchi d’intenerirla; ed io fra tanto
procurerò ch’Aminta là ne venga.
Né la mia forse men difficil cura
sarà di questa tua. Or vanne. 1030
DAFNE
Io vado,
ma il proposito nostro altro intendeva.
TIRSI
Se ben ravviso di lontan la faccia,
Aminta è quel che di là spunta. È desso.


scena terza

Aminta, Tirsi.

[AMINTA]
Vorrò veder ciò che Tirsi avrà fatto;
e, s’avrà fatto nulla, 1035
prima ch’io vada in nulla
uccider vo’ me stesso inanzi a gli occhi
de la crudel fanciulla.
A lei, cui tanto piace
la piaga del mio core, 1040
colpo de’ suoi begli occhi,
altrettanto piacer devrà per certo
la piaga del mio petto,
colpo de la mia mano.
TIRSI
Nove, Aminta, t’annuncio di conforto: 1045
lascia omai questo tanto lamentarti.
AMINTA
Ohimè, che di’? che porte?
O la vita o la morte?
TIRSI
Porto salute e vita, s’ardirai
di farti loro incontra; ma fa d’uopo 1050
d’esser un uom, Aminta, un uom ardito.
AMINTA
Qual ardir mi bisogna, e ’ncontra a cui?
TIRSI
Se la tua donna fosse in mezz’un bosco
che, cinto intorno d’altissime rupi,
desse albergo e le tigri ed a’ leoni, 1055
v’andresti tu?
AMINTA
V’andrei sicuro e baldo
più che di festa villanella al ballo.
TIRSI
E s’ella fosse tra ladroni ed armi,
v’andresti tu?
AMINTA
V’andrei più lieto e pronto
che l’assetato cervo e la fontana. 1060
TIRSI
Bisogna a maggior prova ardir più grande,

==>SEGUE
AMINTA
Andrò per mezzo i rapidi torrenti,
quando la neve si discioglie e gonfi
li manda al mare; andrò per mezzo ’l foco
e ne l’inferno, quando ella vi sia, 1065
s’esser può inferno ov’è cosa sì bella.
Orsù, scuoprimi il tutto.
TIRSI
Odi.
AMINTA
Dì tosto.
TIRSI
Silvia t’attende a un fonte, ignuda e sola.
Ardirai tu d’andarvi?
AMINTA
Oh, che mi dici?
Silvia m’attende ignuda e sola? 1070
TIRSI
Sola,
se non quanto v’è Dafne, ch’è per noi.
AMINTA
Ignuda ella m’aspetta?
TIRSI
Ignuda; ma...
AMINTA
Ohimè, che “ma”? Tu taci: tu m’uccidi.
TIRSI
Ma non sa già che tu v’abbi d’andare.
AMINTA
Dura conclusion, che tutte attosca 1075
le dolcezze passate. Or, con qual arte,
crudel, tu mi tormenti?
Poco dunque ti pare
che infelice io sia,
che a crescer vieni la miseria mia? 1080
TIRSI
S’a mio senno farai, sarai felice.
AMINTA
E che consigil?
TIRSI
Che tu prenda quello
che la fortuna amica t’appresenta.
AMINTA
Tolga Dio che mai faccia
cosa che le dispiaccia: 1085

==>SEGUE

cosa io non feci mai che le spiacesse,
fuor che l’amarla; e questo a me fu forza,
forza di sua bellezza e non mia colpa.
Non sarà dunque ver ch’in quanto io posso
non cerchi compiacerla. 1090
TIRSI
Ormai rispondi:
se fosse il tuo poter di non amarla,
lascieresti d’amarla per piacerle?
AMINTA
Né questo mi consente Amor ch’io dica,
né ch’imagini pur d’aver già mai
a lasciar il suo amor, bench’io potessi. 1095
TIRSI
Dunque tu l’ameresti al suo dispetto,
quando potessi far di non amarla.
AMINTA
Al suo dispetto no, ma l’amerei.
TIRSI
Dunque fuor di sua voglia.
AMINTA
Sì per certo.
TIRSI
Perché dunque non osi oltra sua voglia 1100
prenderne quel che, se ben grava in prima,
al fin, al fin le sarà caro e dolce
che l’abbi preso?
AMINTA
Ahi, Tirsi, Amor risponda
per me: ché quanto a mezz’ il cor mi parla,
non so ridir. Tu troppo scaltro sei 1105
già per lungo uso a ragionar d’amore:
a me lega la lingua
quel che mi lega il core.
TIRSI
Dunque andar non vogliamo?
AMINTA
Andare io voglio,
ma non dove tu stimi. 1110
TIRSI
E dove?
AMINTA
A morte,
s’altro in mio pro non hai fatto che quanto
ora mi narri.

==>SEGUE
TIRSI
E poco parti questo?
Credi tu dunque, sciocco, che mai Dafne
consigliasse l’andar, se non vedesse
in parte il cor di Silvia? E forse ch’ella 1115
il sa, né però vuol ch’altri risappia
ch’ella ciò sappia. Or, se ’l consenso espresso
cerchi di lei, non vedi che tu cerchi
quel che più le dispiace? Or dove è dunque
questo tuo desiderio di piacerle? 1120
E s’ella vuol che ’l tuo diletto sia
tuo furto o tua rapina, e non suo dono
né sua mercede, a te, folle, che importa
più l’un modo che l’altro?
AMINTA
E chi m’accerta
che il suo desir sia tale? 1125
TIRSI
Oh mentecatto!
Ecco, tu chiedi pur quella certezza
ch’a lei dispiace, e dispiacer le deve
direttamente,e tu cercar non dei.
Ma chi t’accerta ancor che non sia tale?
Or s’ella fosse tale, e non v’andassi? 1130
Eguale è il dubbio, e ’l rischio. Ahi, pur è meglio
come ardito morir, che come vile.
Tu taci: tu sei vinto. Ora confessa
questa perdita tua, che fia cagione
di vittoria maggiore. Andianne. 1135
AMINTA
Aspetta.
TIRSI
Che “Aspetta”? non sai ben che ’l tempo fugge?
AMINTA
Deh, pensiam pria se ciò dee farsi, e come.
TIRSI
Per strada penserem ciò che vi resta;
ma nulla fa chi troppe cose pensa.
CORO
Amore, in quale scola, 1140
da qual mastro s’apprende
la tua sì lunga e dubbia arte d’amare?
Chi n’insegna a spiegare
ciò che la mente intende,
mentre con l’ali tue sovra il ciel vola? 1145
Non già la dotta Atene,

==>SEGUE
né ’l Liceo ne ’l dimostra;
non Febo in Elicona,
che sì d’Amor ragiona
come colui ch’impara: 1150
freddo ne parla, e poco;
non ha voce di foco
come a te si conviene;
non alza i suoi pensieri
a par de’ tuoi ministeri. 1155
Amor, degno maestro
sol tu sei di te stesso,
e sol tu sei da te medesmo espresso;
tu di legger insegni
a i più rustici ingegni 1160
quelle mirabil cose,
che con lettre amorose
scrivi di propria man ne gli occhi altrui;
tu in bei facondi detti
sciogli la lingua de’ fedeli tuoi; 1165
e spesso (oh strana e nova
eloquenza d’Amore!),
spesso in un dir confuso
e ’n parole interrotte
meglio si esprime il core 1170
e più par che si mova,
che non si fa con voci adorne e dotte;
e ’l silenzio ancor suole
aver prieghi e parole.
Amor, leggan pur gli altri 1175
le socratiche carte,
ch’io in due begli occhi apprenderò quest’arte;
e perderan le rime
de le penne più saggie
appo le mie selvaggie, 1180
che rozza mano in rozza scorza imprime.

ATTO TERZO

scena prima

Tirsi, Coro.

[TIRSI]
Oh crudeltate estrema, oh ingrato core,
oh donna ingrata, oh tre fiate e quattro
ingratissimo sesso! E tu, Natura,
negligente maestra, perché solo 1185
a le donne nel volto e in quel di fuori
ponesti quanto in loro è di gentile,
di mansueto e di cortese, e tutte
l’altre parti obliasti? Ahi, miserello,
forse ha se stesso ucciso: ei non appare. 1190
Io l’ho cerco e ricerco omai tre ore
nel loco ov’io il lasciai e ne i contorni;
né trovo lui né orme de’ suoi passi.
Ahi, che s’è certo ucciso! Io vo’ novella
chiederne a que’ pastor che colà veggio. 1195
Amici, avete visto Aminta, o inteso
novella di lui forse?
CORO
Tu mi pari
così turbato; e qual cagion t’affanna?
Ond’è questo sudor e questo ansare?
Havvi nulla di mal? fa che ’l sappiamo. 1200
TIRSI
Temo del mal d’Aminta: avetel visto?
CORO
Noi visto non l’abbiam dapoi che teco,
buona pezza, partì; ma che ne temi?
TIRSI
Ch’egli non s’abbia ucciso di sua mano.
CORO
Ucciso di sua mano? or perché questo? 1205
chye ne stimi cagione?
TIRSI
Odio ed amore.
CORO
Duo potenti inimici insieme aggiunti
che far non ponno? Ma parla più chiaro.
TIRSI
L’amar troppo una ninfa, e l’esser troppo
odiato da lei. 1210
==>SEGUE


CORO
Deh, narra il tutto:
questo è luogo di passo, e forse intanto
alcun verrà che nova di lui rechi;
forse arrivar potrebbe anch’egli istesso.
TIRSI
Dirollo volentier, ché non è giusto
che tanta ingratitudine e sì strana 1215
senza l’infamia debita si resti.
Presentito avea Aminta (ed io fui, lasso,
colui che riferì’ lo e che ’l condussi;
or me ne pento) che Silvia dovea
con Dafne ire a lavarsi ad una fonte. 1220
Là dunque s’inviò dubbio ed incerto,
mosso non dal suo cor ma sol dal mio
stimolar importuno; e spesso in forse
fu di tornar indietro, ed io ’l sospinsi,
pur mal suo grado, inanzi. Or quando omai 1225
c’era il fonte vicino, ecco, sentiamo
un feminil lamento; e quasi a un tempo
Dafne veggiam, che battea palma a palma;
la qual, come ci vide, alzò la voce:
“Ah, correte,” gridò “Silvia è sforzata”. 1230
L’inamorato Aminta, che ciò intese,
si spiccò com’ un pardo, ed io segui’lo.
Ecco miriamo a un’arbore legata
la giovinetta ignuda come nacque,
ed a legarla fune era il suo crine: 1235
il suo crine medesmo in mille nodi
a la pianta era avvolto; e ’l suo bel cinto,
che del sen virginal fu pria custode,
di quello stupro era ministro, ed ambe
le mani al duro tronco le stringea; 1240
e la pianta medesma avea prestati
legami contra lei: ch’una ritorta
d’un pieghevole ramo avea a ciascuna
de le tenere gambe. A fronte a fronte
un Satiro villan noi le vedemmo, 1245
che di legarla pur allor finia.
Ella quanto potea faceva schermo;
ma che potuto avrebbe a lungo andare?
Aminta con un dardo che tenea
ne la man destra, al Satiro avventossi 1250
come un leone, ed io fra tanto pieno
m’avea di sassi il grembo: onde fuggissi.
Come la fuga de l’altro concesse
==>SEGUE


spazio a lui di mirare, egli rivolse
i cupidi occhi in quelle membra belle, 1255
che, come suole tremolare il latte
ne’ giunchi, sì parean morbide e bianche.
E tutto ’l vidi sfavillar nel viso;
poscia accostossi pianamente a lei
tutto modesto, e disse: “O bella Silvia, 1260
perdona a queste man, se troppo ardire
è l’appressarsi a le tue dolci membra,
perché necessità dura le sforza:
necessità di scioglier questi nodi;
né questa grazia che fortuna vuole 1265
conceder loro, tuo mal grado sia”.
CORO
Parole d’ammollir un cor di sasso.
Ma che rispose allor?
TIRSI
Nulla rispose,
ma disdegnosa e vergognosa a terra
chinava il viso, e ’l delicato seno 1270
quanto potea torcendosi celava.
Egli, fattosi inanzi, il biondo crine
cominciò a sviluppare, e disse in tanto:
“Già di nodi sì bei non era degno
così ruvido tronco: or, che vantaggio 1275
hanno i servi d’Amor, se lor commune
è con le piante il prezioso laccio?
Pianta crudel, potesti quel bel crine
offender tu, ch’a te feo tanto onore?”
Quinci con le sue man le man le sciolse 1280
in modo tal, che parea che temesse
pur di toccarle, e desiasse insieme:
si chinò poi per islegarle i piedi;
ma come SIlvia in libertà le mani
si vide, disse in atto dispettoso: 1285
“Pastor, non mi toccar: son di Diana:
per me stessa saprò sciogliermi i piedi”.
CORO
Or tanto orgoglio alberga in cor di ninfa?
Ahi d’opra graziosa ingrato merto!
TIRSI
Ei si trasse in disparte riverente, 1290
non alzando pur gli occhi per mirarla,
negando a se medesmo il suo piacere
per torre a lei fatica di negarlo.
Io, che m’era nascoso, e vedea il tutto
==>SEGUE


ed udia il tutto, allor fui per gridare; 1295
pur mi ritenni. Or odi strana cosa.
Dopo molta fatica ella si sciolse;
e, sciolta a pena, senza dire “A Dio”,
a fuggir cominciò com’una cerva;
e pur nulla cagione avea di tema, 1300
ché l’era noto il rispeto d’Aminta.
CORO
Perché dunque fuggissi?
TIRSI
A la sua fuga
volse l’obligo aver, non a l’altrui
modesto amore.
CORO
Ed in quest’anco è ingrata.
Ma che fé ’l miserello allor? che disse? 1305
TIRSI
No ’l so, ch’io, pien di mal talento, corsi
per arrivarla e ritenerla, e ’nvano,
ch’io la smarrii; e poi tornando dove
lasciai Aminta al fonte, no’l trovai;
ma presago è il mio cor di qualche male. 1310
So ch’egli era disposto di morire,
prima che ciò avvenisse.
CORO
È uso ed arte
di ciascun ch’ama minacciarsi morte;
ma rade volte poi segue l’effetto.
TIRSI
Dio faccia ch’ei non sia tra questi rari. 1315
coro
Non sarà, no.
TIRSI
Io voglio irmene a l’antro
del saggio Elpino: ivi, s’è vivo, forse
sarà ridotto, ove sovente suole
raddolcir gli amarissimi martiri
al dolce suon de la sampogna chiara, 1320
ch’ad udir trae da gli alti monti i sassi,
e correr fa di puro latte i fiumi,
e stillar mele da le dure scorze.



scena seconda

Aminta, Dafne, Nerina.

[AMINTA]
Dispietata pietate
fu la tua veramente, o Dafne, allora 1325
che ritenesti il dardo:
però che ’l mio morire
più amaro sarà, quanto più tardo.
Ed or perché m’avvolgi
per sì diverse strade e per sì varii 1330
ragionamenti in vano? di che temi?
ch’io non m’uccida? Temi del mio bene.
DAFNE
Non disperar, Aminta,
ché, s’io lei ben conosco,
sola vergogna fu, non crudeltate, 1335
quella che mosse SIlvia a fuggir via.
AMINTA
Ohimè, che mia salute
sarebbe il disperare,
poiché sol la speranza,
è stata mia rovina; ed anco, ahi lasso, 1340
tenta di germogliar dentr’al mio petto,
sol perché io viva; e quale è maggior male
de la vita d’un misero com’io?
DAFNE
Vivi, misero vivi
ne la miseria tua; e questo stato 1345
sopporta sol per divenir felice
quando che sia. Fia premio de la speme,
se vivendo e sperando ti mantieni,
quel che vedesti ne la bella ignuda.
AMINTA
Non pareva ad Amor e a mia fortuna 1350
ch’a pien misero fossi, s’anco a pieno
non m’era dimostrato
quel che m’era negato.
NERINA
Dunque a me pur convien esser sinistra
còrnice d’amarissima novella! 1355
Oh per mai sempre misero Montano,
qual animo fia ’l tuo quando udirai
de l’unica tua Silvia il duro caso?
Padre vecchio, orbo padre: ahi, non più padre!
==>SEGUE


DAFNE
Odo una mesta voce. 1360
AMINTA
Io odo ’l nome
di Silvia, che gli orecchi e ’l cor mi fere;
ma chi è che la noma?
DAFNE
Ella è Nerina,
ninfa gentil che tanto a Cinzia è cara,
c’ha sì begli occhi e così belle mani
e modi sì avvenenti e graziosi. 1365
NERINA
E pur voglio che ’l sappi e che procuri
di ritrovar le reliquie infelici,
se nulla ve ne resta. Ahi Silvia, ahi dura
infelice tua sorte!
AMINTA
Ohimè, che fia? che costei dice? 1370
NERINA
Dafne!
DAFNE
Che parli fra te stessa, e perché nomi
tu Silvia, e poi sospiri?
NERINA
Ahi, ch’a ragione
sospiro l’aspro caso!
AMINTA
Ahi, di qual caso
può ragionar costei? Io sento, io sento
che mi s’agghiaccia il core e mi si chiude 1375
lo spirto. È viva?
DAFNE
Narra, qual aspro caso è quel che dici?
NERINA
O Dio, perché son io
la messaggiera? E pur convien narrarlo.
Venne Silvia al mio albergo ignuda; e quale 1380
fosse l’occasion, saper la dei;
poi rivestita mi pregò che seco
ir volessi a la caccia che ordinata
era nel bosco c’ha nome da l’elci.
Io la compiacqui: andammo; e ritrovammo 1385
molte ninfe ridotte; ed indi a poco
ecco, di non so d’onde, un lupo sbuca,
grande fuor di misura, e da le labra
gocciolava una bava sanguinosa.

==>SEGUE
Silvia un quadrello adatta su la corda 1390
d’un arco ch’io le diedi, e tira, e ’l coglie
a sommo ’l capo: ei si rinselva, ed ella,
vibrando un dardo, dentro ’l bosco il segue.
AMINTA
Oh dolente principio; ohimè, qual fine
già mi s’annuncia? 1395
NERINA
Io con un altro dardo
seguo la traccia, ma lontana assai:
ché più tarda mi mossi. Come furo
dentro a la selva, più non la rividi;
ma pur per l’orme lor tanto m’avvolsi,
che giunsi nel più folto e più deserto. 1400
Quivi il dardo di Silvia in terra scorsi,
né molto indi lontano un bianco velo
ch’io stessa le ravvolsi al crine; e, mentre
mi guardo intorno, vidi sette lupi
che leccavan di terra alquanto sangue 1405
sparto intorno a cert’ossa affatto nude;
e fu mia sorte ch’io non fui veduta
da loro, tanto intenti erano al pasto:
tal che, piena di tema e di pietate,
indietro ritornai; e questo è quanto 1410
posso dirvi di Silvia; ed ecco ’l velo.
AMINTA
Poco parti aver detto? Oh velo, oh sangue,
oh Silvia, tu se’ morta!
DAFNE
Oh miserello,
tramortito è d’affanno, e forse morto.
NERINA
Egli rispira pure: questo fia 1415
un breve svenimento; ecco, riviene.
AMINTA
Dolor, che sì mi crucii,
ché non m’uccidi omai? tu sei pur lento!
Forse lasci l’officio a la mia mano.
Io son, io son contento 1420
ch’ella prenda tal cura,
poi che tu la ricusi o che non puoi.
Ohimè, se nulla manca
a la certezza omai,
e nulla manca al colmo 1425
de la miseria mia,
che bado? che più aspetto? O Dafne, o Dafne,
==>SEGUE


a questo amaro fin tu mi salvasti,
a questo fine amaro?
Bello e dolce morir fu certo allora 1430
che uccidere io mi volsi.
Tu me ’l negasti, e ’l ciel, a cui parea
ch’io precorressi col morir la noia
ch’apprestata m’avea.
Or che fatt’ha l’estremo 1435
de la sua crudeltate,
ben soffrirà ch’io moia,
e tu soffrir lo dei.
DAFNE
Aspetta a la tua morte,
sin che ’l ver meglio intenda. 1440
AMINTA
Ohimè, che vuoi ch’attenda?
Ohimè, che troppo ho atteso, e troppo inteso.
NERINA
Deh, foss’io stata muta!
AMINTA
Ninfa, dammi, ti prego,
quel velo ch’è di lei 1445
solo e misero avanzo,
sì ch’egli m’accompagne
per questo breve spazio
e di via e di vita che mi resta,
e con la sua presenza 1450
accresca quel martire,
ch’è ben picciol martire
s’ho bisogno d’aiuto al mio morire.
NERINA
Debbo darlo o negarlo?
La cagion perché ’l chiedi 1455
fa ch’io debba negarlo.
AMINTA
Crudel, sì picciol dono
mi nieghi al punto estremo?
E ’n questo anco maligno
mi si mostra il mio fato. Io cedo, io cedo: 1460
a te si resti; e voi restate ancora,
ch’io vo per non tornare.
DAFNE
Aminta, aspetta, ascolta…
Ohimè, con quanta furia egli si parte!
NERINA
Egli va sì veloce, 1465
==>SEGUE


che fia vano il seguirlo: ond’è pur meglio
ch’io segua il mio viaggio; e forse è meglio
ch’io taccia e nulla conti
al misero Montano
CORO
Non bisogna la morte, 1470
ch’a stringer nobil core
prima basta la fede, e poi l’amore.
Né quella che si cerca
è sì difficil fama
seguendo chi ben ama, 1475
ch’amore è merce, e con amar si merca.
E cercando l’amor si trova spesso
gloria immortal appresso.

ATTO QUARTO

scena prima

Dafne, Silvia, Coro.

[DAFNE]
Ne porti il vento, con la ria novella 1480
che s’era di te sparta, ogni tuo male
e presente e futuro. Tu sei viva
e sana, Dio lodato; ed io per morta
pur ora ti tenea: in tal maniera
m’avea Nerina il tuo caso dipinto.
Ahi, fosse stata muta ed altri sordo! 1485
SILVIA
Certo ’l rischio fu grande, ed ella avea
giusta cagion di sospettarmi morta.
DAFNE
Ma non giusta cagion avea di dirlo.
Or narra tu qual fosse ’l rischio, e come
tu lo fuggisti. 1490
Io, seguitando un lupo,
mi rinselvai nel più profondo bosco,
tanto ch’io ne perdei la traccia. Or, mentre
cerco di ritornar onde mi tolsi,
il vidi, e riconobbi a un stral che fitto
di mia man press’un orecchio.
Il vidi con molt’altri intorno a un corpo 1495
d’un animal ch’avea di fresco ucciso;
ma non distinsi ben la forma. Il lupo
ferito, credo, mi conobbe, e ’ncontro
mi venne con la bocca sanguinosa. 1500
Io l’aspettava ardita, e con la destra
vibrava un dardo. Tu sai ben s’io sono
maestra di ferire, e se mai soglio
far colpo in fallo. Or, quando il vidi tanto
vicin, che giusto spazio mi parea 1505
a la percossa, lanciai un dardo, e ’n vano:
ché, colpa di fortuna o pur mia colpa,
in vece sua colsi una pianta. Allora
più ingordo incontro ei mi venia; ed io,
che ’l vidi sì vicin che stimai vano 1510
l’uso de l’arco, non avendo altr’armi,
a la fuga ricorsi. Io fuggo, ed egli
non resta di seguirmi. Or odi caso:
==>SEGUE


un vel, ch’avea involto intorno al crine,
si spiegò in parte, e giva ventilando, 1515
sì ch’ad un ramo avviluppossi. Io sento
che non so chi mi tien e mi ritarda.
Io, per la tema del morir, raddoppio
la forza al corso, e d’altra parte il ramo
non cede, e non mia lascia; al fin mi svolgo 1520
del velo, e alquanto de’ miei crini ancora
lascio svelti co ’l velo; e cotant’ali
m’impennò la paura a i piè fugaci,
ch’ei non mi giunse, e salva uscii del bosco.
Poi, tornando al mio albergo, io t’incontrai 1525
tutta turbata, e mi stupii vedendo
stupirti al mio apparir.
DAFNE
Ohimè, tu vivi,
altri non già.
SILVIA
Che dici? ti rincresce
forse ch’io viva sia? M’odii tu tanto?
DAFNE
Mi piace di tua vita, ma mi duole
de l’altrui morte.
SILVIA
E di qual morte intendi?
DAFNE
De la morte d’Aminta.
SILVIA
Ahi, come è morto?
DAFNE
Il come non so dir, né so dir anco
s’è ver l’effetto; ma per certo il credo.
SILVIA
Ch’è ciò che tu mi dici? ed a chi rechi 1535
la cagion di sua morte?
DAFNE
A la tua morte.
SILVIA
Io non t’intendo.
DAFNE
La dura novella
de la tua morte, ch’egli udì e credette,
avrà porto al meschino il laccio o ’l ferro,
od altra cosa tal che l’avrà ucciso. 1540
SILVIA
Vano il sospetto in te de la sua morte
==>SEGUE


sarà, come fu van de la mia morte:
ch’ognuno a suo poter salva la vita.
DAFNE
O Silvia, Silvia, tu non sai né credi
quanto ’l foco d’amor possa in un petto, 1545
che petto sia di carne e non di pietra
com’è cotesto tuo: ché, se creduto
l’avessi, avresti amato chi t’amava
più che le care pupille de gli occhi,
più che lo spirto de la vita sua. 1550
Il credo io ben, anzi l’ho visto e sollo:
il vidi, quando tu fuggisti, e fera
più che tigre crudel, ed in quel punto
ch’abbracciar lo dovevi, il vidi un dardo
rivolgere in se stesso, e quello al petto 1555
premersi disperato, né pentirsi
poscia nel fatto, che le vesti ed anco
la pelle trapassossi, e nel suo sangue
lo tinse; e ’l ferro saria giunto a dentro,
e passato quel cor che tu passasti 1560
più duramente, se non ch’io gli tenni
il braccio, e l’impedii ch’altro non fesse.
Ahi lassa, e forse quella breve piaga
solo una prova fu del suo furore
e de la disperata sua costanza, 1565
e mostrò quella strada al ferro audace,
che correr poi dovea liberamente.
SILVIA
Oh, che mi narri?
DAFNE
Il vidi poscia, allora
ch’intese l’amarissima novella
de la tua morte, tramortir d’affanno,
e poi partirsi furioso in fretta
per uccider se stesso; e s’avrà ucciso
veracemente.
SILVIA
E ciò per fermo tieni?
DAFNE
Io non v’ho dubbio.
SILVIA
Ohimè, tu no’l seguisti
per impedirlo? Ohimè, cerchiamo, andiamo, 1575
che, poi ch’egli moria per la mia morte,
de’ per la vita mia restar in vita.
==>SEGUE


DAFNE
Io lo seguii, ma correa sì veloce
che mi sparì tosto dinanzi, e ’ndarno
poi mi girai per le sue orme. Or dove 1580
vuoi tu cercar, se non n’hai traccia alcuna?
SILVIA
Egi morrà, se no’l troviamo, ahi lassa;
e sarà l’omicida ei di se stesso.
DAFNE
Crudel, forse t’incresce ch’a te tolga
la gloria di quest’atto? esser tu dunque 1585
l’omicida vorresti? e non ti pare
che la sua cruda morte esser debb’opra
d’altri che di tua mano? Or ti consola,
ché, comunque egli muoia, per te muore,
e tu sei che l’uccidi. 1590
SILVIA
Ohimè, che tu m’accori, e quel cordoglio
ch’io sento del suo caso inacerbisce
con l’acerba memoria
de la mia crudeltate,
ch’io chiamava onestate; e ben fu tale; 1595
ma fu troppo severa e rigorosa.
or me n’accordo e pento.
DAFNE
Oh, quel ch’io odo!
Tu sei pietosa, tu, ti senti al core
spirto alcun di pietate? oh che vegg’io?
tu piangi, tu, superba? oh maraviglia! 1600
Che pianto è questo tuo? pianto d’amore?
SILVIA
Pianto d’amor non già, ma di pietate.
DAFNE
La pietà messaggiera è de l’amore,
come ’l lampo del tuono.
CORO
Anzi sovente,
quando gli vuol ne’ petti virginelli 1605
occulto entrare, onde fu prima escluso
da severa onestà, l’abito prende,
prende l’aspetto de la sua ministra
e sua nuncia, pietate; e con tai larve
le semplici ingannando, è dentro accolto. 1610
DAFNE
Questo è pianto d’amor: ché troppo abonda.
Tu taci? ami tu, Silvia? ami, ma in vano.

==>SEGUE
Oh potenza d’Amor, giusto castigo
manda sovra costei. Misero Aminta!
Tu, in guisa d’ape che ferendo muore 1615
e ne le piaghe altrui lascia la vita,
con la tua morte hai pur trafitto al fine
quel duro cor che non potesti mai
punger vivendo; Or, se tu, spirto, errante,
sì come io credo, e de le membra ignudo, 1620
qui intorno sei, mira il suo pianto, e godi.
Amante in vita, amato in morte; e s’era
tuo destin che tu fossi in morte amato,
e se questa crudel volea l’amore
venderti sol con prezzo così caro, 1625
desti quel prezzo tu ch’ella richiese,
e l’amor suo col tuo morir comprasti.
CORO
Caro prezzo a chi ’l diede; a chi ’l riceve
prezzo inutile e infame.
SILVIA
Oh potess’io
con l’amor mio comprar la vita sua; 1630
anzi pur con la mia la vita sua,
s’egli è pur morto!
DAFNE
O tardi saggia, e tardi
pietosa, quando ciò nulla rileva!

scena seconda

Ergasto, Coro, Silvia, Dafne.

[ERGASTO]
Io ho sì pieno il petto di pietate
e sì pieno d’orror, che non rimiro 1635
né odo alcuna cosa, ond’io mi volga,
la qual non mi spaventi e non m’affanni.
CORO
Or ch’apporta costui,
ch’è sì turbato in vista ed in favella?
ERGASTO
Porto l’aspra novella 1640
de la morte d’Aminta.
SILVIA
Ohimè, che dice?
ERGASTO
Il più nobil pastor di queste selve,
che fu così gentil, così leggiadro,
così caro a le ninfe ed a le Muse,
ed è morto fanciullo, ahi, di che morte! 1645
CORO
Contane, prego, il tutto, acciò che teco
pianger possiam la sua sciagura e nostra.
SILVIA
Ohimè, ch’io non ardisco
appressarmi ad udire
quel ch’è pur forza udire. Empio mio core, 1650
mio duro alpestre core,
di che, di che paventi?
Vattene incontra pure
a quei coltei pungenti,
che costui porta ne la lingua, e quivi 1655
mostra la tua fierezza.
Pastore, io vengo a parte
di quel dolor che tu prometti altrui:
ché a me ben si conviene
più che forse non pensi; ed io ’l ricevo 1660
come dovuta cosa. Or tu di lui
non mi sii dunque scarso.
ERGASTO
Ninfa, io ti credo bene,
ch’io sentii quel meschino in su la morte
finir la vita sua 1665
co ’l chiamar il tuo nome.
==>SEGUE


DAFNE
Ora comincia omai
questa dolente istoria.
ERGASTO
Io ero a mezzo ’l colle, ove avea tese
certe mie reti, quando assai vicino 1670
vidi passar Aminta, in volto e in atti
troppo mutato da quel ch’ei soleva,
troppo turbato e scuro. Io corsi, e corsi
tanto che ’l giunsi, e lo fermai; ed egli
mi disse: “Ergasto, io vo’ che tu mi faccia 1675
un gran piacer: quest’è, che tu ne venga
meco per testimonio d’un mio fatto;
ma pria voglio da te che tu mi leghi
di stretto giuramento la tua fede
di startene in disparte e non por mano 1680
per impedirmi in quel che son per fare”.
Io (chi pensato avria caso sì strano,
né sì pazzo furor?), com’egli volse,
feci scongiuri orribili, chiamando
e Pane e Pale e Priapo e Pomona 1665
ed Ecate notturna. Indi si mosse,
e mi condusse ov’è scosceso il colle,
e giù per balzi, e per dirupi incolti
strada non già, ché non v’è strada alcuna,
ma cala un precipizio in una valle. 1690
Qui ci fermammo. Io, rimirando a basso,
tutto sentii raccapricciarmi, e ’ndietro
tosto mi trassi; ed egli un cotal poco
parve ridesse, e serenossi in viso:
onde quell’atto più rassicurommi. 1695
Indi parlommi sì: “Fa che tu conti
a le ninfe e a i pastor ciò che vedrai”.
Poi disse, in giù guardando:
“Se presti a mio volere
così aver io potessi 1700
la gola e i denti de gli avidi lupi,
com’ho questi dirupi,
sol vorrei far la morte
che fece la mia vita:
vorrei che queste mie membra meschine 1705
sì fosser lacerate,
ohimè, come già foro
quelle sue delicate.
Poi che non posso, e ’l cielo
dinega al mio desire 1710
==>SEGUE


gi animali voraci,
che ben verriano a tempo, io prender voglio
altra strada al morire:
prenderò quela via
che, se non la devuta, 1715
almen fia la più breve.
Silvia, io ti seguo, io vengo
a farti copagnia,
se non la sdegnerai;
e morirei contento, 1720
s’io fossi certo almeno
che ’l mio venirti dietro
turbar non ti dovesse,
e che fosse finita
l’ira tua con la vita. 1725
Silvia, io ti seguo, io vengo”. Così detto,
precipitossi d’alto
co ’l capo in giuso; ed io restai di ghiaccio.
DAFNE
Misero Aminta!
SILVIA
Ohimè!
CORO
Perché non l’impedisti? 1730
Forse ti fu ritegno a ritenerlo
il fatto giuramento?
ERGASTO
Questo no, ché sprezzando i giuramenti,
vani forse in tal caso,
quand’io m’accorsi del suo pazzo ed empio 1735
proponimento, con la man vi corsi,
e, come volse la sua dura sorte,
lo presi in questa fascia di zendado
che lo cingeva; la qual, non potendo
l’impeto e ’l peso sostener del corpo, 1740
che s’era tutto abandonato, in mano
spezzata mi rimase.
CORO
E che divenne
de l’infeilce corpo?
ERGASTO
Io no’l so dire:
ch’era sì pien d’orrore e di pietate,
che non mi diede il cor di rimirarvi 1745
per non vederlo in pezzi.
==>SEGUE


CORO
Oh strano caso!
SILVIA
Ohimè, ben son di sasso,
poi che questa novella non m’uccide.
Ahi, se la falsa morte
di chi tanto l’odiava 1750
a lui tolse la vita,
ben sarebbe ragione
che la verace morte
di chi tanto m’amava
togliesse a me la vita; 1755
e vo’ che la mi tolga,
se non potrà co ’l duol, almen co ’l ferro,
o pur con questa fascia,
che non senza cagione
non seguì le ruine 1760
del suo dolce signore,
ma restò sol per fare in me vendetta
de l’empio mio rigore
e del suo amaro fine.
Cinto infelice, cinto 1765
di signor più infelice,
non ti spiaccia restare
in sì odioso albergo,
ché tu vi resti sol per instrumento
di vendetta e di pena. 1770
Dovea certo, io dovea
esser compagna al mondo
de l’infelice Aminta.
Poscia ch’allor non volsi,
sarò per opra tua 1775
sua compagna a l’inferno.
CORO
Consòlati, meschina,
che questo è di fortuna e non tua colpa.
SILVIA
Pastor, di che piangete?
Se piangete il mio affanno, 1780
io non merto pietate,
ché non la seppi usare;
se piangete il morire
del misero innocente,
questo è picciolo segno 1785
a sì alta cagione. E tu rasciuga,
Dafne, queste tue lagrime, per Dio.
==>SEGUE
Se cagion ne son io,
ben ti voglio pregare,
non per pietà di me, ma per pietate 1790
di chi degno ne fue,
che m’aiuti a cercare
l’infelici sue membra e a sepelirle.
Questo sol mi ritiene
ch’or ora non m’uccida: 1795
pagar vo’ questo ufficio,
poi ch’altro non m’avanza,
a l’amor ch’ei portommi;
e se ben quest’empia
mano contaminare 1800
potesse la pietà de l’opra, pure
so che gli sarà cara
l’opra di questa mano:
ché so certo ch’ei m’ama,
come mostrò morendo. 1805
DAFNE
Son contenta aiutarti in questo ufficio;
ma tu già non pensare
d’aver poscia a morire.
SILVIA
Sin qui vissi a me stessa,
a la mia feritate: or, quel ch’avanza, 1810
viver voglio ad Aminta;
e, se non posso a lui,
viverò al freddo suo
cadavero infelice.
Tanto, e non più, mi lice 1815
restar nel mondo, e poi finir a un punto
e l’essequie e la vita.
Pastor, ma quale strada
ci conduce a la valle ove il dirupo
va a terminare? 1820
ERGASTO
Questa vi conduce;
e quinci poco spazio ella è lontana.
DAFNE
Andiam, che verrò teco e guiderotti:
ché ben rammento il luogo.
SILVIA
A Dio, pastori;
piagge, a Dio; a Dio, selve; e fiumi, a Dio.
ERGASTO
Costei parla di modo, che dimostra 1825
==>SEGUE
d’esser disposta a l’ultima partita.
CORO
Ciò che morte rallenta, Amor, restringi,
amico tu di pace, ella di guerra,
e del suo trionfar trionfi e regni;
e mentre due bell’alme annodi e cingi, 1830
così rendi sembiante al ciel la terra,
che d’abitarla tu non fuggi o sdegni.
Non sono ire là su: gli umani ingegni
tu placidi ne rendi, e l’odio interno
sgombri, signor, da’ mansueti cori, 1835
sgombri mille furori;
e quasi fai col tuo valor superno
de le cose mortali un giro eterno.
ATTO QUINTO

scena prima

Elpino, Coro.

[ELPINO]
Veramente la legge con che Amore
il suo impero governa eternamente 1840
non è dura, né obliqua; e l’opre sue,
piene di providenza e di mistero,
altri a torto condanna. Oh con quant’arte,
e per che ignote strade egi conduce
l’uom ad esser beato, e fra le gioie 1845
del suo amoroso paradiso il pone,
quando ei più crede al fondo esser de’ mali!
Ecco, precipitando, Aminta ascende
al colmo, al sommo d’ogni contentezza.
Oh fortunato Aminta, oh te felice 1850
tanto più, quanto misero più fosti!
Or co ’l tuo essempio a me lice sperare,
quando che sia, che quella bella ed empia,
che sotto il riso di pietà ricopre
il mortal ferro di sua feritate, 1855
sani le piaghe mie con pietà vera,
che con finta pietate al cor mi fece.
CORO
Quel che qui viene è il saggio Elpino, e parla
così d’Aminta come vivo ei fosse,
chiamandolo felice e fortunato: 1860
dura condizione de gli amanti!
Forse egli stima fortunato amante
chi muore, e morto al fin pietà ritrova
nel cor de la sua ninfa; e questo chiama
paradiso d’Amore, e questo spera. 1865
Di che lieve mercé l’alato dio
i suoi servi contenta! Elpin, tu dunque
in sì misero stato sei, che chiami
fortunata la morte miserabile
de l’infelie Aminta? e un simil fine 1870
sortir vorresti?
ELPINO
Amici, state allegri,
ché falso è quel romor che a voi pervenne
de la sua morte.

==>SEGUE
CORO
Oh che ci narri, e quanto
ci racconsoli! E non è dunque il vero
che si precipitasse? 1875
ELPINO
Anzi è pur vero,
ma fu felice il precipizio; e sotto
una dolente imagine di morte
gli recò vita e gioia. Egli or si giace
nel seno accolto de l’amata ninfa,
quanto spietata già, tanto or pietosa; 1880
e le rasciuga da’ begli occhi il pianto
con la sua bocca. Io a trovar ne vado
Montano, di lei madre, ed a condurlo
colà dov’essi stanno; e solo il suo
volere è quel che manca, e che prolunga 1885
il concorde voler d’ambidue loro.
CORO
Pari è l’età, la gentilezza è pari,
e concorde il desio; e ’l buon Montano
vago è d’aver nipoti e di munire
di sì dolce presidio la vecchiaia: 1890
sì che farà del lor voler il suo.
Ma tu, deh, Elpin, narra qual dio, qual sorte
nel periglioso precipizio Aminta
abbia salvato.
ELPINO
Io son contento: udite,
udite quel che con quest’occhi ho visto. 1895
Io era anzi il mio speco, che si giace
presso la valle, e quasi a piè del colle,
dove la costa face di sé grembo:
quivi con Tirsi ragionando andava
pur di colei che ne l’istessa rete 1900
lui prima a me dapoi ravvolse e strinse,
e proponendo a la sua fuga, al suo
libero stato, il mio dolce servigio,
quando ci trasse gli occhi ad alto un grido;
e ’l veder rovinar un uom dal sommo,
e ’l vederlo cader sovra una macchia, 1905
fu tutto un punto. Sporgea fuor del colle,
poco di sopra a noi, d’erbe e di spini
e d’altri rami strettamente giunti
e quasi in un tessuti, un fascio grande. 1910
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
a cader venne; e bench’egli col’ peso

==>SEGUE
lo sfondasse, e più in giuso indi cadesse,
quasi su’ nostri piedi, quel ritegno
tanto d’impeto tolse a la caduta, 1915
ch’ella non fu mortal; fu nondimeno
grave così, ch’ei giacque un’ora e piue
stordito affatto e di se stesso fuori.
Noi muti di pietate e di stupore
restammo a lo spettacolo improviso, 1920
riconoscendo lui; ma conoscendo
ch’egli morto non era, e che non era
per morir forse, mitighiam l’affanno.
Allora Tirsi mi diè notizia intiera
de’ suoi secreti ed angosciosi amori. 1925
Ma mentre procuriam di ravvivarlo
con diversi argomenti, avendo in tanto
già mandato a chiamar Alfesibeo,
a cui Febo insegnò la medica arte
allor che diede a me la cetra e ’l plettro, 1930
sopragiunsero insieme Dafne e Silvia,
che, come intesi poi, givan cercando
quel corpo che credean di vita privo.
Ma come Silvia il riconobbe, e vide
le belle guancie tenere d’Aminta 1935
iscolorite in sì leggiadri modi
che viola non è che impallidisca
sì dolcemente, e lui languir sì fatto
che parea già ne gli ultimi sospiri
essalar l’alma, in guisa di baccante 1940
gridando e percotendosi il bel petto,
lasciò cadersi in su ’l giacente corpo:
e giunse viso a viso e bocca a bocca.
CORO
Or non ritenne adunque la vergogna
lei, ch’è tanto severa e schiva tanto? 1945
ELPINO
La vergogna ritien debile amore,
ma debil freno è di potente amore.
Poi, sì come ne gli occhi avesse un fonte,
inaffiar cominciò co ’l pianto suo
il colui freddo viso, e fu quell’aqua 1950
di cotanta virtù, ch’egli rivenne;
e gli occhi aprendo, un doloroso “ohimè”
spinse dal petto interno;
ma quell’“ohimè”, ch’amaro
così dal cor partissi, 1955
s’incontrò ne lo spirto

==>SEGUE
de la sua cara Silvia, e fu raccolto
da la soave bocca, e tutto quivi
subito raddolcissi.
Or chi potrebbe dir come in quel punto 1960
rimanessero entrambi, fatto certo
ciascun de l’altrui vita, e fatto certo
Aminta de l’amor de la sua ninfa,
e vistosi con lei congiunto e stretto?
Chi è servo d’Amor, per sé lo stimi; 1965
ma non si può stimar, non che ridire.
CORO
Aminta è sano sì, ch’egli sia fuori
del rischio del la vita?
ELPINO
Aminta è sano,
se non ch’alquanto pur graffiat’ha ’l viso,
ed alquanto dirotta la persona; 1970
ma sarà nulla, ed ei per nulla il tiene.
Felice lui, che sì gran segno ha dato
d’amore, e de l’amor il dolce or giusta,
a cui gli affanni scorsi ed i perigli
fanno soave e dolce condimento; 1975
ma restate con Dio, ch’io vo’ seguire
il mio viaggio, e ritrovar Montano.
CORO
Non so se il molto amaro
che provato ha costui servendo, amando,
piangendo e disperando, 1980
raddolcito puot’esser pienamente
d’alcun dolce presente;
ma, se più caro viene
e più si gusta dopo ’l male il bene,
io non ti cheggio, Amore, 1985
questa beatitudine maggiore;
bea pur gli altri in tal guisa;
me la mia ninfa accoglia
dopo brevi preghiere e servir breve;
e siano i condimenti 1990
de le nostre dolcezze
non sì gravi tormenti,
ma soavi disdegni
e soavi ripulse,
risse e guerre a cui segua, 1995
reintegrando i cori, o pace o tregua.




APPENDICE

A SUA ECCELLENZA LA SIGNORA MARCHESA
ANNA MALASPINA DELLA BASTIA

I bei carmi divini, onde i sospiri
In tanto grido si levar d’Aminta,
Sì che parve minor della zampogna
L’epica tromba, e al paragon geloso
Dei primi onori dubitò Goffredo,
Non è, Donna immortal, senza consiglio
Che al tuo nome li sacro, e della tua
Per senno e per beltade inclita figlia
L’orecchio e il core a lusingar li reco,
Or che di prode giovinetto in braccio
Amor la guida. Amor più che le Muse
A Torquato dettò questo gentile
Ascreo lavoro; e infino allor più dolce
Linguaggio non avea posto quel Dio
Su Mortal labbro, benché assai di Grecia
Erudito l’avessero i maestri,
E quel di Siracusa, e l’infelice
Esul di Ponto. Or qual v’ha cosa in pregio
Che ai misteri d’Amor più si convegna
D’Amoroso volume? E qual può dono
Al genio Malaspino esser più grato
Che il canto d’Elicona? Al suo favore
Più che all’ombre cirrée crebber mai sempre
Famose e verdi l’apollinee frondi
“Onor d’Imperatori e di Poeti”.
Del gran padre Alighier ti risovvenga,
Quando ramingo dalla patria, e caldo
D’ira e di bile ghibellina il petto,
Per l’itale vago guaste contrade,
Fuggendo il vincitor Guelfo crudele,
Simile ad uom che va di porta in porta
Accattando la vita. Il fato avverso
Stette contra il gran Vate, e contra il fato
Morello Malaspina. Egli all’illustre
Esul fu scudo: liberal l’accolse
L’amistà sulle soglie, e il venerando
Ghibellino parea Giove nascoso
Nella casa di Pelope. Venute
Le fanciulle di Pindo eran con esso,
L’itala Poesia bambina ancora

==>SEGUE
Seco traendo, che gigante e diva
Si fe’ di tanto precettore al fianco:
Poiché un Nume gli avea fra le tempeste
Fatto quest’ozio. Risonò il Castello
Dei cantici divini, e il nome ancora
Del sublime cantor serba la Torre.
Fama è ch’ivi talor melodioso
Errar s’oda uno spirto, ed empia tutto
Di riverenza e d’orror sacro il loco.
Del Vate è quella la magnanim’ombra,
Che tratta dal desio del nido antico
Viene i silenzi a visitarne, e grata
Dell’ospite pietoso alla memoria
De’ nipoti nel cor dolce e segreto
L’amor tramanda delle sante Muse.
E per Comante già tutto l’avea,
Eccelsa Donna, in trasfuso: ed egli
Lieto all’ombra de’ tuoi possenti auspici,
Trattando la maggior lira di Tebe,
Emulò quella di Venosa, e fece
Parer men dolci i Savonesi accenti;
Padre incorrotto di corrotti figli,
Che prodighi d’ampolle e di parole
Tutto contaminar d’Apollo il regno.
Erano d’ogni cor tormento allora
Della vezzosa Malaspina i neri
Occhi lucenti, e corse grido in Pindo
Che a lei tu stesso, Amor, cedesti un giorno
Le tue saette, né saccorse l’arco
Del già mutato arciero: e se il destino
Non s’opponeva, nel tuo cor s’apria
Da mortal mano la seconda piaga.
Tutte allor di Mnemosine le figlie
Fur viste abbandonar Parnaso e Cirra,
E calar sulla Parma; e le seguia
Palla Minerva, con dolor fuggendo
Le cecropie ruine. E qui, siccome
Di Giove era il voler, composto ai santi
Suoi studi il seggio, e degli spenti altari
Ridestate le fiamme, e d’Academo
Fe’ riviver le selve, e di sublimi
Ragionamenti risonar le volte
D’un altro Peripato, che di gravi
Salde dottrine, dagli eterni fonti
Scaturite del Ver, vincea l’antico.
Perocché, duce ed auspice Fernando,

==>SEGUE
D’un Péricle novel l’opra e il consiglio,
E la beltate, l’eloquenza, il senno
D’un’Aspasia miglior scienze ed arti,
Che le città fan belle e chiari i regni,
Suscitando allegrar Febo e Sofia.
Tu fulgid’astro dell’ausonio cielo,
Pieno d’alto saver, splendesti allora,
Dotto Piaciaudi mio; nome che dolce
Nell’anima mi suona, e sempre acerba,
Così piacque agli Dei, sempre onorata
Rimembranza sarammi. Ombra diletta,
Che sei sovente di mie notti il sogno,
E pietosa a posarti in sulla sponda
Vieni del letto ov’io sospiro, e vedi
Di che lagrime amare io pianga ancora
La tua partita; se laggiù ne’ campi
Del pacifico Eliso, ove tranquillo
Godi il piacer della seconda vita,
Se colà giunge il mio pregar, né troppo
S’alza su l’ali il buon desio, Torquato
Per me saluta, e digli il lungo amore
Con che sculsi per lui questa novella
Di tipi leggiadria; digli in che scelte
Forme più care al cupid’occhio offerti
I lai del suo pastor fan dolce invito;
Digli il bel nome che gli adorna, e cresce
Alle carte splendor. Certo di gioia
A quel divino rideran le luci,
Ed Anna Malaspina andrà per l’ombre
Ripetendo d’Eliso, e fia che dica:
Perché non l’ebbe il secol mio! memoria
Non sonerebbe sì dolente al mondo
Di mie tante sventure. E se domato
Non avessi il livor (ché tal nemico
Mai non si doma, né Maron lo vinse,
Né Meonio cantor), non tutti almeno
Chiusi a pietade avrei trovato i petti.
Stata ella fora tutelar mio Nume
La Parmense Eroina; e di mia vita
Ch’ebbe dall’opre del felice ingegno
Sì lieta aurora e splendido meriggio,
Non forse avrebbe la crudel fortuna
Né Amor tiranno in negre ombre ravvolto
L’inonorato e torbido tramonto.