GIORNATA SESTA
NELLA QUALE CREÒ DIO OGNI SPECIE DI BRUTI, E L'UOMO
ARGOMENTO
S’introduce l’Autore, dai giuochi dell’antica Pisa, ne’ quali era l’ultimo giorno di maggior fatica e pericolo degli altri, a dir che l’istesso avviene a lui in questo ultimo giorno della creazione del mondo. Perciò dopo avere assomigliato il Pontefice a Dio nel giudicar sopra le opere umane, chiede aiuto agli amici per ispiegar quest’ultima azione divina; e con invitarli ad inalzar per loro mezzo la mente all’eterna gloria, dice non moversi egli per avidità d’onore terreno, dovendo trattar della natura de’ bruti, e di quella dell’uomo. Epiloga le opere passate, e riprova l’opinione di chi assegnò l’anima alla terra, dimostrando la diversità delle nature della terra e dell’acqua. Passa a parlare dell’anima de’ bruti, e riprovando le opinioni circa l’identità d’essa anima con quella dell’ uomo, addduce vari pareri d’antichi filosofi. Con la similitudine d’una palla percossa dimostra che la natura opera del continuo conservando nel proprio essere ciascuna specie; e descrive indi la natura del leone, della pantera, dell’orsa, nella quale siccome in altri animali ancora, narrando la diligenza nel curare le proprie infermità, biasima la trascuraggine dell’uomo ne’ rimedi dell’ anima. Narra come la natura insegna ai bruti certi presagi dei futuri tempi; e mostrando la Provvidenza di Dio uguale nelle grandi e nelle piccole cose, ci stimola con l’esempio della formica a pensare alla futura vita. Si diffonde quindi intorno all’accortezza della cerva nel partorire, e sulla natura della femmina e del maschio, e mostrando l’amor de’ figli esser non meno che nell’uomo potentissimo ne’ bruti, passa a dimostrare l’acutezza del cane; indi la sua gratitudine e la fedeltà, di cui narra un caso avvenuto in Antiochia. Passa alla lode del cavallo, ed esagerando la sua gloria ed alterezza, lo pospone all’asinello, mostrando che più ne viene dal Cielo gradita l’umiltà che la superbia. Ritorna alla Provvidenza di Dio nel creare tanta diversità d’animali; e discorrendo succintamente della natura d’alcuni, si diffonde intorno all’elefante, e mostra come tutti sono all’uomo sottoposti. Dice che non deesi biasimare la Divina Provvidenza nell’aver creato gli animali velenosi; dai quali con l’esempio di S. Paola mostra non rimanere offeso chi confida in Dio. Parlando quindi d’alcune specie di essi, si trasferisce agli atomi volanti, e agli animali nascenti da putridi corpi, affermando che non solo i bruti, la piante e l’erbe, ma il mondo anch’esso fu creato perfetto. Reca la cagione, onde vengano prodotti i mostri, e perchè il concetto sia or maschio, or femmina. Indi, numerando alcuni mostruosi parti, accenna le idolatrie degli antichi, e mostra che le nature numerose ne’ parti, li producono talora confusi; ed accennando l’idra apparsa in sogno a San Giovanni, soggiunge diversi mostri creduti dagli antichi, i quali dice essere alle volte segni delle minacce di Dio, da cui afferma non essere stati creati i muli, e le mule, ed essere illegittima prole: indi, recando varie opinioni di filosofi intorno alla loro generazione, assegna in qual parte più si ritrovino, soggiungendo che non solo essi, ma dalla congiunzione di diverse specie altri bastardi animali si concepiscono, di breve successione però, perchè non creati da Dio, che fece perpetua la stirpe d’ogni animale. Accenna alcune altre specie di bruti, che finge d’aver tralasciate inavvedutamente; e trasportandosi alla creazione dell’ uomo, colla similitudine d’un figlio, che trattenutosi in giorno di festa tra la bassa plebe, vedendo presso il re assiso il padre, a lui sen corre, dice che anch’egli, dopo aver dimorato fra le meraviglie di tante altre cose create, scorgendo l’uomo nel Paradiso, lascia il tutto, e si rivolge a lui solo, come somigliante a Dio. Indi, asserendo che l’umana mente non conosce se stessa, se non viene illuminata dalla grazia, n’esorta a purgar con essa le sue macchie. Spiega come Dio nella creazione dell’uomo consigliò se medesimo, riprendendo la cecità de’ Giudei in non conoscere la SS. Trinità, la quale ci figura nelle tre potenza dell’anima: la cui bellezza conseguita nella creazione, soggiunge esser contaminata dalle colpe. Mostra come Dio fece l’uomo superiore a tutte le cose; e biasimando perchè di Re nato nel mondo, si faccia servo degli affetti e del peccato, narra la felicità del primo padre, mentre egli era nello stato d’innocenza; e termina concludendo che anco dopo la trasgressione al divino precetto restò all’uomo l’impero sopra gli altri animali.
Là dove inalza il celebrato Olimpo,
Creduto degli dei lucente albergo,
Sovra tutte le nubi e sovra i venti
Ne l'aria queta la serena fronte;
E dove Alfeo nelle sue lucide onde
Portar solea già l'onorata polve
De' vincitori, a cui le membra asperse,
Propose i varj premi a' giochi illustri
L'antica Pisa; e i più veloci e i forti
Vide sovente in dubbia lotta o 'n corso
Affaticarsi, e i cavalieri e i carri
Con le fervide ruote all'alta meta
Girarsi intorno, e 'n varie altre contese
Ricercar pregio e fama e chiaro grido;
E vide a prova ancor sublimi ingegni
Far di sè paragone, e 'n dolce canto
O con soave pur faconda lingua
Gli udì maravigliando; e ben conobbe
Che pari non avea mercede o palma.
Ma i primi dì nelle tenzoni antiche
Talvolta sen passâr dubbiosi e 'ncerti
Senza corona, e sol nel giorno estremo,
In cui maggior fu la fatica e 'l rischio
Del contrastare, o 'l vergognoso scorno
Di ceder vinto, diede i cari pregi
Fermo giudicio al vincitor felice,
E rimbombar d'intorno il chiaro nome
Udissi al suon della canora tromba.
Ma in questo quasi agone e quasi campo
Di sapïenza, ove adoriamo assiso
In altissima sede, a Dio sembiante,
Quel cui permise il giudicarne in terra
Giudice non severo, anzi Clemente,
Più sollicita ancora e più gravosa
Cura incerta d'onor ne preme e 'ngombra
Nel giorno estremo e nell'estremo corso,
In cui di faticosa aspra contesa
Quasi corona, o premio è posto inanzi;
Dura pena all'incontra altrui minaccia.
Già non è pari il gioco, e pari il frutto
Tra quel che lotta col nemico, o canta
Al dolce suon delle sonore corde,
E 'l mio (se lece dir) contrasto indegno,
Ch'ivi il periglio è sol fastidio e scherno
Degli uditori, e 'n questo è danno e morte.
Amici, adunque a me pietoso aiuto
Date, vi prego, e quasi lena e spirto.
E di par meco entrate in questo adorno
Maraviglioso grande ampio teatro
Delle cose create, in cui mirando
Il magistero del gran Padre eterno,
Quasi per gradi alziam la pura mente
A l'invisibil suo felice regno,
Ove gli ultimi premi altrui riserba.
Nè già ricerco io qui verde ghirlanda
D'allor frondoso, che si sfronda e perde
In breve tempo la vaghezza e 'l pregio;
O di pallida pur famosa oliva,
Qual da' gran fonti già del gelido Istro
La riportò d'Anfitrione il figlio.
Ma siano i pregi miei salute e pace
In terra, e più ne gli stellanti chiostri.
Intanto a voi questa corona eccelsa
È posta inanzi, e voi medesmi al vostro
Puro giudicio di lodevole opra
Bramo di coronare. Udite adunque
Con pietosa audienza, o fidi amici,
L'aspra natura de l'estranie belve,
De l'umil gregge e de i terreni armenti,
E de l'uom, cui di terra il Padre eterno
Creò da sezzo, e da principio umile
Formollo imperioso a scettro, a regno,
E di vita immortal, se propria colpa
Non era a lui di faticoso esiglio
Dura cagione e d'odïosa morte.
Poich'ebbe il grande Iddio spiegato il cielo
Sovrano, e stesa ancor l'infima terra,
E fermato il ritegno in mezzo all'acque,
Che sovra e sotto le distingue e parte;
E comandato che s'aduni insieme
Quella natura instabile e vagante,
E 'mposto al mare ed a la terra il nome,
E l'arida di piante ornata e d'erbe,
Indi si volse a far più bello il mondo.
E diede al giorno ed all'algente notte
I duo lumi maggiori e più lucenti,
E tutti variò di stelle e d'auro
Con diverse figure e vaghi giri
I primi corpi, e con perpetue tempre
Maravigliosa fè la vista e 'l corso.
Poscia prodotti entro l'ondoso grembo
De l'acque amare o dolci i varj pesci,
E nell'aria i volanti e levi augelli,
Disse Dio creator (e 'l sacro detto
Fu certo impero e 'nviolabil legge):
L'anime de' viventi ancor produca
D'ogni sorte la terra, e 'n quattro piedi
Altri appoggi il corporeo e grave pondo,
Altri nel suol disteso il porti e serpa;
E la progenie ancor produca e figli
Di qualunque altro va rependo; e insieme
Con le fere produca armenti e gregge.
Così Dio fece le terrene belve
E le cornute o pur lanose mandre
De' mansueti, e quei ch'al suol congiunti
Strisciando se n'andar col giro obliquo.
Dunque animata è questa antica madre?
Dunque anima ha la terra, ond'ella al parto,
Quasi femina, fu bramosa e pronta?
E loco han pur i Manichei superbi
Di saper vano, e le menzogne antiche
Di chi filosofando e mente e spirto
Diede a questa mondana ed ampia mole?
Lo qual per entro lei trapassa e spira,
Com'a lor parve; e 'l cielo e l'ima terra,
E la spera del sol lucente e vaga,
E 'l globo della luna e l'auree stelle,
E de l'aria e del mare i larghi campi
Nutre; e misto al gran corpo in varj modi
Move agitando le diverse membra?
Ma chi vestire osò d'alma spirante
La terra, o volle dar sua mente al mondo,
E farlo Dio, non che spirante e vivo
Animal, che tutti altri accoglie in grembo,
Male intese di Dio que' sacri detti,
E 'n peggior parte la sentenzia ei torse.
Perch'alma non avea l'arida terra,
Ma chi le comandò, largille ancora
La virtù di produrre i nuovi parti.
Nè quando detto fu: Germogli il fieno,
E ferace di frutti il verde tronco,
Ella il produsse allor, sì come occulto
Il si tenesse nel profondo seno.
Nè palma o quercia o bel cipresso od elce,
Pur come ascoso dal fecondo ventre
Di fuor mandò sovra l'inculto suolo.
Ma delle cose, che si fanno o fersi,
È il divino parlar natura e vita.
Dunque quando il Signor disse: Germogli,
Intese in sua divina alta favella:
Non cacci fuor quel che raccoglie in grembo,
Ma quel ch'ella non ha di nuovo acquisti.
E la forza a lei diede il Padre eterno.
E 'n questa guisa or le comanda e dice:
produca l'alma; e non de l'alma innata
Intender vuol, ma di virtù largita
Con la mirabil sua divina voce.
Ma non comanda all'acque al modo istesso,
Sol l'impone il produr chi serpe e striscia
Con alma viva; ed a la terra impone
Che partorisca l'anima vivente.
E così disse Dio, se dritto estimo,
Perchè nell'acque a gli umidi notanti
Compartir volle men perfetta vita,
E men degna natura. E quinci avviene
Ch'entro il denso elemento e 'mpuro e misto
Abian via men acuti e puri i sensi.
Grave è l'udire, e 'l lor vedere ottuso,
E memoria non hanno, e non s'imprime
Nel senso interno immaginata immago,
Nè contezza è fra loro o per lungo uso
Notizia alcuna: onde in sì rozza vita
La carne e 'l ventre signoreggia e regna.
Ma ne' terrestri imperatrice e donna
È l'alma in guisa, che talor si crede
Che di ragione e d'immortale ingegno
Ella abbia larga parte e ricca dote.
Interi sensi, e ne' presenti oggetti
Acuti sono, e del passato impressi
Alti vestigi, e non dubbiose o 'ncerte
Son le memorie; e lor virtù non langue.
E con la voce non oscura i segni
Sogliono dar di loro interni affetti.
E quinci in lieto o 'n suon dolente e mesto
L'allegrezza si mostra o 'l duolo appare,
O di cibo il desio di fuor si scopre,
O rimbomba l'amor ch'entro gl'infiamma,
E non può starsi in fero petto ascoso
Sotto tenera lana, o duro ed aspro
Ispido vello: onde 'l belar de l'agne,
E 'l nitrir e 'l ringhiar son quasi note,
E 'l latrar, l'ulular in monte e 'n bosco,
O pur lungo un corrente e chiaro fiume,
E 'l muggire e 'l ruggir d'affetto interno.
Mille altri affetti ancor con mille voci
Suol variando dimostrar natura.
Dall'altra parte degli ondosi regni
L'errante abitator non solo è muto,
Ma immansueto, e dall'usanza aborre
Di nostra vita, e per lusinga o vezzo
Mai non s'avvezza, e nulla apprende o prende
Di nostra umanità. Ma schiva e fugge
D'esser consorte all'animal che regna.
In questa guisa Dio creò nell'acque
Corpi animati, e nella terra ei volle
L'alme crear da cui si regge il corpo.
Quinci il suo possessor fu noto al bue,
Conobbe l'asinel l'umil presepio
Del suo Signor, ma non conobbe il pesce
Il nutritor. Tale entro l'acque e tanto
Fu lo stupor di tardo e grave senso.
Conobbe l'asinel l'usata voce,
E conobbe la via ch'egli trapassa,
E fu duce talora all'uomo errante
Ne l'incerto sentier ond'ei travia.
Nè di più acuto udire o più sottile,
Se 'l ver si narra, altro animal terrestre
Vantar si può sotto sì rozze membra.
Ma nel camelo portatore estrano
Di gravi pesi e d'african deforme,
È de l'ingiurie alta memoria e salda,
Ed ira grave al vendicar costante.
E, percosso talor, l'ira profonda
Lunga stagion riposta in sen riserba
Pur come estinta, e la ripiglia a tempo,
Rendendo il male e 'l ricevuto oltraggio.
Udite voi, che di virtute in guisa
La memoria de l'onte in voi, di sdegno
E d'astio e di rancor nutrite occulta.
Udite il paragone, a cui sembianti
Fate voi stessi, mentre l'ire ascose
Tenete pur, come faville ardenti
Sotto ingannevol cenere sepolte,
Che accendendosi poscia in secco legno
O 'n arida esca, fiammeggiar repente
Sogliono, e rinuovare il foco estinto.
In cotal guisa l'anima superba
Fu ne' bruti prodotta; e voi l'esempio
Seguite pur delle sdegnose belve.
Ma qual si fosse già nel primo parto
L'alma vostra immortal, fia noto appresso;
Or de l'alma ferina a voi si parla.
L'alma d'animal fero è vita e sangue,
Ma 'l sangue in carne si condensa e cangia,
E la carne corrotta alfine in terra
Pur si risolve: onde mortale è l'alma
Di feroce animale, anzi più tosto
Un non so che di morto. Udite adunque
Perch'a la terra Iddio produrre impose
L'anima de' viventi, e come segua
Che l'alma in sangue si trasmuti e volga,
E 'l sangue in carne, e quella carne in terra.
E per le stesse vie si volge e riede
La terra in carne, e poi la carne in sangue,
E 'l sangue in alma, onde ritrovi e vedi
Che l'anima de' bruti è sangue e terra.
E non pensar che più del corpo antica
Sia l'alma fera onde rimanga in vita
Poscia che 'l suo mortale estinto giacque.
Ma riconosci le cangiate forme
E i variati giri, e fuggi intanto
Degli ingegnosi le canore ciancie,
Che starian meglio in lor silenzio occulte.
Non hanno questi pur rossore e scorno
Di far che l'alma, ond'uom ragiona e 'ntende,
Sia quella stessa, onde latrando il cane
Sen corse, e sibilando empio serpente.
E fingon se medesmi in varie forme
Esser mutati; e non pur servi e regi
Sotto varj sembianti e varie membra
Esser già stati, ma vezzose donne,
O pur marini pesci o piante o sterpi.
E ciò scrivendo, più di pesce o tronco
Si mostrar di ragione ignudi e d'alma.
Ma fra tanti superbi e varj ingegni
Non sorse alcuno in quella età vetusta,
Che l'anima stimasse o limo o terra.
Ma seguendo del moto o pur del senso,
Incerti duci, le vestigia e i segni,
Altri la credea spirto ed aer leve,
Altri foco sottile e viva fiamma,
Altri pur la stimò nativo umore,
Altri vapor da quei fumante e misto:
Terra nessun. Così la madre antica,
La terra dico, che produce e figlia
L'alma de' vivi, quasi inculto germe,
Fu defraudata allor del proprio onore
Da que' superbi e 'n contrastar costanti,
E discordi fra lor ritrosi ingegni.
Ma noi rendiamo alla gran madre antica
L'onor devuto del suo nobil parto,
E sua figlia chiamiam l'alma spirante
Di feroce animal. Or non ci caglia,
Se nulla ora di nuovo o di vetusto
Delle figure della vasta terra
Osiamo d'affermar con certe prove,
Quasi giudici giusti in tanta lite.
Perch'altri vuol ch'ella figura e forma
Abbia di spera; altri la varia e finge
Quasi un cilindro, e somigliante al disco.
Altri la fa, come sia cesta od aia,
Vacua e cava nel mezzo, e d'ogni parte
Pur egualmente la polisce ed orna.
E quel che rapto, immaginando, al cielo
Fu, come scrisse ne' toscani carmi,
Indi pur vide, o di veder gli parve,
La terra che ci fa tanto feroci,
Quasi una bassa aiuola in vil sembianza,
Ma pur in giro ei la circonda e forma.
Ed altri ancor nelle due estreme fasce
E nell'ampia di mezzo e larga zona
La privò d'abitanti e nuda ed erma,
E con squallido aspetto orrida in vista
La ci dipinse; e 'n alta neve e 'n gelo
Sepolte figurò le parti estreme.
E 'l maggior cinto dalle fiamme acceso,
Sol due zone lasciò soggette al sole,
Che mai per dritto non l'infiamma e scalda,
In due grandi emisperi, e sempre avverso
Fa con obliqui rai più dolci tempre.
E noi l'una abitiam, che quinci e quindi
Viviam ristretti in breve spazio angusto
Dal gel perpetuo o dall'ardor soverchio.
L'altra sotto altro ciel barbare genti
Accoglie, a cui sparito è il Carro e l'Orsa.
Ma la novella età discopre e mostra
Ch'ogni di lei gelata o accesa parte
L'uom dalla prima sua terrena stirpe
Duro animal costante alberga e pasce.
Talchè non sembra l'abitata terra
Timpano più, com'affermando insegna
Il gran maestro di color che sanno,
Nè 'n forma di lorica a gli occhi appare;
Ma pur in cerchio si rivolge e gira
Di pomo in guisa che si fende ed apre.
Isola no, chè non si giace in seno
Al gran padre Oceaàn, ma 'l tiene in grembo
Come osa d'affermar l'età novella,
Che per troppo veder men alto intende.
Ma sia di ciò quel che ragione e senso
Può dimostrar ne' più vicini obietti.
Or tacciam sue figure, e i larghi spazi
Non misuriam qual geometra in giro,
E non vogliam superbi al Re del cielo
Di sapere agguagliarci e di possanza.
Perch'ei la terra nella man rinchiuse,
E misurò pur con la mano i mari,
E tutte l'acque insieme e 'l ciel col palmo.
Chi pose i monti spaventosi in libra?
E 'n giogo i boschi, e l'aspre rupi in lance?
Chi tien de l'ampia terra il largo giro,
E 'n guisa di locuste in lei dispose
Gli sparsi abitatori, e 'l ciel sublime
Quasi camera sua si fece in volta,
Se non il Re, che lui sostiene e folce?
Non affermiamo ancor con vano orgoglio
Quanto l'opaca e tenebrosa terra
L'ombra fosca ed algente inalzi e stenda.
Nè come privi di splendor l'errante
Luna, quando ella giunge incontr'al sole,
Nè s'ella di Ciprigna ancora adombri
Il vago aspetto, e la sua luce imbruni,
Ma tutti siam per maraviglia intesi
Alla voce di Dio, che corre e passa
Alle cose create, e compie il mondo
Nelle parti di mezzo e nell'estreme.
Qual ampia spera o pur marmorea palla,
Ch'è da robusta man percossa e spinta,
Giunge in loco pendente, ed indi a basso
Dal sito che s'avvalla e 'n giù dechina,
E dalla propria sua volubil forma
Con veloci rivolte in giù rotando
Portata va, sinchè l'arresta il corso
La piana terra, in cui si giace e posa;
Tal della santa voce al suon commossa
La natura trascorre, e passa a dentro
In tutto quel che nasce e si corrompe,
E va servando ogni progenie e stirpe
Simile a sè, finch'ella al fine aggiunga.
E del cavallo il successor corrente
Fa che ci nasca, e pur sembiante al padre;
Dal tauro il tauro con sue dure corna;
Dal superbo leon villoso il tergo
Nasce il leone, ed ha pungente artiglio;
E 'nsieme col leon l'impeto e l'ira
Nacque, e quel suo magnanimo disdegno,
Onde l'umil nemico a terra steso
Trapassa alteramente, e non l'offende.
Nacque l'amor di solitaria vita,
Per cui sprezza i compagni e quasi aborre,
E per deserte arene, o 'n alta selva
De' Mauritani e de' Numidi errante
In caccia e ne i perigli, ei va solingo,
O pur fra 'l Nesso e l'Acheloo corrente,
Dove i leoni producea l'Europa.
E 'n guisa di possente aspro tiranno,
E per natura indomito e superbo,
Nè degna egual, nè de l'esterno cibo
Pascer la cruda sua fame profonda.
Cotanto schiva il disdegnoso gusto
L'avanzo di non presa e immonda preda.
Sì larghe canne ancor le diede in sorte
Natura, e grande è sì l'orribil voce,
Che l'alto suo ruggir di tema ingombra
I più veloci e più leggieri al corso,
E sbigottiti alfin gli arresta e prende.
Ma dopo il pasto egli è giocoso e lieto,
E festeggiando con gli amici ei scherza,
Quasi di nulla tema, e non sospetti.
Poi fatto grave nell'età vetusta
E tardo in caccia, osa il feroce veglio
A le città far periglioso assalto,
E gli uomini infestar fra le alte mura.
Ma questa così fiera orrida belva,
Quando più superbisce e 'n maggior rabbia
Divenuta crudel, lo sdegno accende,
Teme d'ardente face e fugge il foco;
E sbigottito ancora ei fugge il gallo,
E 'mpaurito è più dove biancheggia
Il bel candor delle spiegate penne.
E la pantera, impetuosa belva
E repente agitata, a' varj moti
De l'alma sua veloce ha 'l corpo acconcio,
E le membra pieghevoli e leggiere.
E delle macchie sue quasi dipinto
Mostra il bel pardo varïata pelle,
Ed ascondendo il suo feroce aspetto,
Con la pittura delle spoglie allice
I semplici animali e troppo incauti.
Così gli prende, e 'nsidiosa fraude
Le giova più nella selvaggia preda,
Che 'l suo corso veloce o 'l leggier salto.
Ma l'orsa è neghittosa e pigra e tarda,
E di costumi occulti e 'n alto ascosi,
E di simil figura ammanta e veste
L'alma feroce; ha grave e rozzo il corpo
Quasi indistinta e mal composta mole,
Ch'entro l'algente ed orrida spelunca
Ha sue latebre, ove s'agghiaccia e torpe.
Ma poscia nel furor s'infiamma e ferve,
E cerca d'ogni ingiuria aspra vendetta.
E 'ncontra il ferro ella s'avventa e rota
Ne' monti alpestri, e piaga aggiunge a piaga,
Correndo quasi a volontaria morte.
Ma pur con lingua industre informa e finge,
Di fabro in guisa, i suoi deformi orsacchi.
E tu, più rozzo assai d'orsa silvestre,
I costumi de' figli inculti ed aspri,
Mentre è l'etate ancor tenera e molle,
Non formi e non polisci e non adorni?
Nè in pietosa opra hai lusinghiera lingua,
Ma 'n officio crudel pungente e dura?
E l'orsa ancora a le sue proprie piaghe
Sa, com'insegna la natura industre,
Ritrovare il rimedio onde risana:
Perchè quando più son profonde e gravi
Col verbasio le tura, e l'arida erba
Terge la parte sanguinosa, e secca.
E la serpe d'inferma e scura vista,
Di finocchio si nutre, e così scaccia
Quell'infelice umor che gli occhi appanna.
L'aquila ancor con la lattuca agreste
Conferma il vacillante, il debil lume.
La testudine allor che 'l fiero tosco
Della serpe l'ancide, e dentro serpe
Il pasciuto velen, salute e vita
Dall'origano cerca, e non indarno.
E l'egra volpe in discacciar la morte
Che le sovrasta, usa nel proprio male
Due lacrimette di stillante pino.
E la montana capra, allor ch'affisso
Di pennata saetta in mezzo al fianco
Ha 'l duro ferro, medicar se stessa
Sa con quell'arte che natura insegna;
E 'l dittamo pascendo, il duro strale
L'esce per dall'interna e grave piaga.
Della scimia il leon languente ed egro
Avidamente cerca il fero pasto,
E beve 'l pardo della capra il sangue,
E pasce i ramoscei d'oliva il cervo.
E tu de l'alma tua languida a morte
Il rimedio non trovi, e non conosci
La vera medicina, e non delibi
Succo vital dalle sacrate carte?
E i presagi del tempo ancora insegna
Mastra natura, e 'l variar del cielo
Dal caldo al freddo, e dal sereno al fosco;
E qual tempesta indi minacci o turbo.
Tal che 'n antiveder la pioggia e i venti
E le procelle torbide e sonanti
Talor men dotti son gli umani ingegni.
La pecorella all'appressar del verno
Di largo cibo si provvede e pasce:
Quasi antivede la futura inopia,
Che l'oscura stagion gelando apporta.
E i buoi rinchiusi nel più freddo tempo
Entro le calde loro immonde stalle,
Quando la primavera a noi ritorna,
Mossi dal lor nativo e certo senso,
La domita cervice e 'l collo irsuto
Stendono oltre i presepi, e pur guardando
Braman d'uscire al tepido sereno.
L'istrice ancor nelle sue proprie lustre
Fa doppia quasi porta onde respiri,
E di lor una è volta al nubilo Austro,
E l'altra al fiato d'Aquilone algente,
E se teme di Borea il fiero spirto,
Contra il settentrion si tura il varco;
Ma se 'l vento african l'offende e turba,
Quel suo foro ventoso incontra chiude,
E si ricovra a la contraria parte.
E quinci chiaramente a' sensi appare
Che l'alta Providenza in ogni lato
Trascorre e passa, e 'l tutto adempie ed orna;
E per le cose eccelse e per l'illustri,
Non mette ella in non cal l'oscure e basse;
Ma nel vile animale un certo senso
Suol destar del futuro, onde provveggia
Egli a se stesso. E l'uom mai sempre intento
Si starà nel presente e quasi a bada,
Senza pensar nella futura vita?
Deh rimiri il lodato e raro esempio
Della formica faticosa e 'ndustre,
Che 'l vitto onde si pasca al freddo verno,
Ripon la state. E benchè lunge ancora
Sian di stagion molesta i giorni algenti,
Neghittosa non cessa e non s'allenta
La negra turba, anzi se stessa avezza
Nelle fatiche; e per gli adusti campi
Ferve l'opra, non men che l'ora e 'l giorno,
Sin che abbia ne' suoi spechi il gran riposto.
Essa con l'unghie proprie incide e sega
I cari frutti, e inumiditi, al sole
Gli asciuga e secca; e 'l bel tempo sereno
Spiando, già prevede i lieti giorni.
Talchè quando ella i grani a' raggi espone,
Pioggia non stilla dall'oscure nubi,
E di serenità l'indizio è certo.
Quinci ripon nelle sue celle anguste
L'asciutta messe, e poi la serba e parte,
Custode e dispensiera, e 'ntenta all'opre.
E non sol mentre il sole accende i campi,
Ma le fatiche sue notturne ancora
Dal ciel rimira la ritonda luna;
E quelle più serene e calde notti
Tolte al dolce riposo, al queto sonno,
E giunte al travagliar continuo e lungo:
Tanta in minuto corpo industria e lena
Di spirto infaticabile e 'ngegnoso
Pose natura, ch'è mirabil madre;
Anzi della natura il sommo Padre
Tanta virtù le diede in raro dono.
Oh come grandi sono e come eccelse,
Come maravigliose, o mastro eterno,
Tutte l'opere tue, che tu facesti
Con infinita sapienza ed arte!
Ma noi nepoti del vetusto Adamo,
Pur quasi doni di natura e doti,
Abbiam molte virtù, che proprie e nate
Con l'ignudo bambin d'un seme stesso
Sono, ed uscite da' materni chiostri.
Nè legge od arte o pur antica usanza,
O nuovo esempio le dimostra e 'nsegna
A l'alma ancora simplicetta e vaga
Che pargoleggia entro le molli membra.
Ma sua propria vaghezza e suo desio
L'inchina e move con amico affetto.
Chi n'insegna d'odiar la febre e i morbi
Seguaci e gravi, ond'è languente ed egra
L'umanitate? e d'aborrir la morte
Senza maestro e senza altrui consiglio?
Non arte, non ragion, non uso o legge,
Ma quella che ne fa cotanto amici
A noi medesmi, lusinghiera e dolce
Nostra natura a noi l'insegna e detta.
In questa guisa ancor la nobile alma
Dechina il vizio, e volontaria il fugge
Senza altra cura o magistero od uso.
E veggendo virtù, ch'è bella in vista,
Se n'invaghisce e la ricerca e segue,
Talch'è fuga del vizio il primo passo,
Ond'ella i suoi vestigi indrizza al cielo.
Ed ogni vizio è male interno, e morbo
De l'alma inferma e 'n van desire accesa.
E la virtù, ch'è sempre al vizio opposta,
È sanità de l'alma: ond'è nell'opre
E ne gli offici suoi costante e salda.
E quinci a tutti la giustizia è cara,
E cara la prudenza, e grazie e laude
Ha la modestia; e 'n più mirabil vista
La fortezza, virtù de l'alma invitta,
Mal grado di fortuna empia e superba,
S'onora e cole; e simolacri ed archi
Le sono alzati, e sacri altari e tempi.
E queste ha per fedeli e care amiche
L'alma domesticata, e se n'adorna
Più che di sanità le membra e 'l corpo.
Amate i padri, o voi pietosi figli,
E voi pietosi padri i figli amate,
Senza irritar il giovenile sdegno,
Chè natura il v'insegna e ve 'n costringe.
S'ama la leonessa, orrida belva,
I pargoletti suoi, se 'l fero lupo
Difende i lupicini, e insino a morte
Per lor combatte, avrà suoi nati a scherno,
Più crudel delle fere, il crudo padre?
Tanto rigor, tanto odio e tanto oblio
Di natura sarà nel petto umano?
Oh del materno amor soave e dolce
Forza, che pieghi la feroce tigre,
E dalla preda, a cui vicina e stanca
Corre anelando, la rivolgi indietro
A la difesa de' suoi cari parti!
Com'ella trova depredato e sgombro
Il suo covil della gradita prole,
Repente corre, e le vestigia impresse
Preme del cacciator, che seco porta
La cara preda. E quel rapido inanzi
Fugge portato dal destrier corrente,
E per sottrarsi a la veloce belva,
Ch'altra fuga non giova od altro scampo,
Con questa fraude d'ingegnoso ordigno
Delude la rabbiosa, e sè difende.
Perchè di trasparente e chiaro vetro
Una palla le gitta inanzi a gli occhi,
Onde schernita dalla falsa immago
La si crede sua prole, e ferma il corso
E l'impeto raffrena, e 'l dolce parto
Brama raccôr nel solitario calle,
E riportarlo a la sua fredda tana.
E ritenuta pur dal falso inganno
Delle mentite forme, anco ritorna
Via più veloce assai, ch'ira l'affretta,
Dietro a quel predator ch'inanzi fugge,
E gli sovrasta omai rabbiosa al tergo.
Ma quel di nuovo col fallace obietto
De lo speglio bugiardo affrena e tarda
Il corso della tigre, e si dilegua.
Nè della madre per oblio si perde
La sollecita cura e 'l pronto amore,
Ma l'infelice si raggira intorno
A quella vana e ingannatrice immago,
Quasi dar voglia a' proprj figli il latte.
E 'n questa guisa la schernita belva
La cara prole e la vendetta ancora
Perde in un tempo, ch'è bramata e dolce.
E se 'n tal guisa suole amar la tigre
E la consorte del leon superbo,
Od il famelico orso i proprj figli,
Qual maraviglia fia s'amar vedrassi
La mansueta ed innocente agnella,
E la cerva selvaggia e fuggitiva
Il dianzi nato ancor tenero parto?
Fra molte pecorelle in ampia mandra
Il simplicetto agnel scherzando a salti,
Esce dal chiuso ovile, e di lontano
Ei riconosce la materna voce,
E ricercando del suo proprio latte
I dolci fonti affretta il debil corso,
E dove sian le desiate mamme
Vote del proprio umor ei se n'appaga,
Nè fugge l'altre più gravose e piene,
Ma le tralascia, e 'l suo dovuto cibo
Sol dalla madre sua ricerca e brama.
La madre 'l dolce pargoletto figlio
Fra mille e mille al suo belar conosce.
In questa guisa di ragion sublime
Ogni difetto un largo senso adempie,
Che per natura in umil greggia abonda,
Forse acuto via più del nostro ingegno.
Ma nel suo partorir solinga cerva
Mostra via più d'accorgimento e d'arte
D'altro animal, ch'abbia alcun seme o parte
Di providenza e di ragione industre.
Però più tosto a la pietate umana
De' suoi cerbiatti cede il nuovo parto,
Delle fere temendo; e l'aspre rupi,
E le selvagge lustre, e i lochi inculti
Fugge la paurosa; e dove scorge
De' piedi umani le vestigia impresse,
Presso le vie da lor calcate e corse,
Ivi secura il suo portato espone,
E de l'erba siselia ivi si pasce;
O nelle stalle poi ricovra e scampa
Gli artigli e i denti di selvaggia belva;
O dura cuna in rotta pietra elegge
Là dove s'apre un solo e un picciol varco,
E i pargoletti suoi difende e guarda;
E lor da quattro mamme il latte istilla,
E da due mamme quelle a cui natura
Fu di tal nutrimento avara e parca.
E perch'ella di fele amaro è priva,
Ha lunghissima vita, onde talvolta
Candida appare, e nel candor senile
È venerata dall'amiche genti:
Sì come quella che sen giva errando
Libera e sciolta la solitaria chiostra,
Che liberolla il suo felice augusto.
La vaga fama a la famosa cerva
Le corna d'oro ancor figura e finge,
E le circonda di monile il collo;
Ma de l'onor delle ramose corna,
E di questa nativa altera pompa
La natura privolle, avara madre,
E ne fu più cortese e larga ai cervi,
I quai le soglion rinnovar sovente,
E lasciando le vecchie a terra sparse
Dal proprio peso, onde son piene e dense,
Rifar le nuove a la superba fronte.
E ciascuno anno un lungo e nuovo ramo
Aggiungon pur delle ramose corna.
Dalle quali anco germogliò talvolta
L'edra seguace frondeggiando in alto.
Oh maraviglia, onde natura accrebbe
Vaghezza e pompa all'animal fugace,
Ch'è pur fugace e paventoso e vile
In così altero e così fero aspetto,
Armato di sue lunghe e 'nutili arme.
E 'l suo gran core, onde 'l formò natura,
Non è d'orgoglio o d'orgoglioso ardire,
Ma di viltate e di timore albergo.
E 'n guisa pur di timidetta lepre
Il suo liquido sangue a pena ha fibre,
E quinci avien che non l'accoglie e stringe
Tenace e saldo, ma simiglia il latte
Mal senza caglio appreso, ond'ei trascorre.
Ma talvolta d'amore acceso e punto,
Ne la stagion che intepidita il grembo
Apre la verde terra, e 'l pigro gelo
Già si dilegua, e per disfatta neve
Corron turbati i rapidi torrenti,
Risveglia il cervo al cor guerriero spirto,
E fa battaglia e di ferire ardisce,
S'alcun per alta selva a caso incontra.
Ed allora non pur le tigri e i lupi,
E gli orsi informi o la dipinta lince,
E 'l cinghial, che fregando al duro tronco
L'orride coste, di tenace fango
Fassi a le dure spalle aspra lorica;
Ma cupida d'amor la fiera madre
Erra, obliando i pargoletti inermi,
Che non han fatto ancor gli artigli e 'l vello:
E i più timidi ancora in furia e 'n foco
Sospinti son da stimoli pungenti.
Smisurato furor conduce e porta
Oltre il sonante Ascanio, e i gioghi alpestri
D'Ida sublime, oltre l'Eufrate e 'l Tauro
L'avide madri del guerriero armento.
Passano i monti, e gli alti fiumi a nuoto,
Fuggon tra sassi dirupati e scogli,
E per valli profonde, e non incontra,
O sole, al nascer tuo, nè contr'ad Euro,
Ma verso Borea e Cauro, e donde attrista
D'oscura pioggia i cieli il nubilo Austro.
Quinci lento veneno alfin distilla,
Che ippomane chiamò la prisca lingua
Degli antichi pastori. E fu sovente
Scelto già dall'iniqua empia matrigna,
E con erbe maligne, e con parole
Non innocenti, fu adoprato e misto.
Tanto potea l'amore e 'l dolce zelo
Di più tenera prole in fero petto,
Tanto ardente desio di nozze immonde,
Che per natura si risveglia e 'nfiamma,
E ne gli orridi boschi ad aspra guerra
Move non pur le dispietate belve,
Ma i duci ancor de' mansueti armenti
Pendon sospesi a la battaglia incerta,
Che di piaghe e di sangue il petto irsuto
Lor empie e sparge, e la superba fronte,
Le mute spose e le cornute torme,
Di cui debban seguir l'audace impero,
E la vittoriosa altera scorta.
E non osan partir la fera zuffa
Maravigliando i lor maestri istessi.
E se l'amor de' figli, o quel ch'aggiunge
Insieme a generar cupida coppia,
Può tanto in cor ferino e 'n rigida alma,
In quei che fa di sè vaghi e superbi
Nostra ragione e 'l nostro umano orgoglio,
Quanto potrà? Qual maraviglia adunque,
S'una e due volte, anzi tre volte e quattro
Per l'istessa cagion s'accese ed arse
De l'odio antico inestinguibil fiamma?
E l'Asia e incontra la superba Europa
Di ferro e di furore armata in guerra,
Strage e ruine, e fieri incendi ardenti
Meschiando, ne 'ngombrar la terra e l'onde.
Nel fido cane ancor, se dritto estimi,
Dove manca ragione il senso abonda;
E quel che a pena i più sublimi ingegni,
Filosofando nell'antiche scole
Conobber degli acuti sillogismi,
Mentre varie figure in varie guise
Tessean di lor con intricati nodi,
Quello istesso, dico io, subito il cane
Per sua natura agevolmente apprende.
Perchè trovando le vestigia impresse
Della timida lepre o pur del cervo,
Arriva là dove si fende e parte
Una strada in più strade; e 'ntorno a' primi
Princìpi delle vie s'avolge e gira,
Odorando i sentieri o i passi sparsi.
E fra se stesso in questa guisa intanto
Sembra sillogizzar: La vaga fera
O 'n quella parte o 'n questa ha volto il corso,
O per quest'altra almen s'indrizza e corre,
Ma non sen va per questo o quel sentiero:
Dunque per questa calle i passi affretta.
Così conchiude argomentando il cane,
E 'l pronto senso è di lunga arte in vece,
Per cui rifiuta il falso e trova il vero.
Nè più ne ritrovar le varie sette,
Scrivendo con lo stile o con la verga
Ne l'arena del lido o 'n secca polve,
Degli argomenti le diverse forme.
E di tre varie cose ivi descritte
Due condennando, come false, a morte,
L'altra approvâro, in cui rimase impressa
La verità, che nel soffiar dell'Austro
Poi si cancella o nel gonfiar dell'onda.
E non s'avvedella superba mente
Degli orgogliosi e miseri mortali
Che in polve è scritta ed in minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin, che l'alme illustra.
Onde nell'imbrunir d'un breve giorno
La si porta e disperde il mare e 'l turbo.
E benchè antica età si glori e vanti
Di sacre note e di colonne eccelse,
In cui descritte fur le nobili arti
In quel sacro a Mercurio adorno tempio,
E sian per fama ancora illustri e conte
L'altre colonne in cui serbar credeva
Da' diluvj sicure e da gli incendj
Mille antiche memorie a terra sparte;
In queste e quelle e nel cangiar del tempo
Non rimane di lor vestigio o polve,
Sì lunga notte involve i nomi e l'opre.
Ma contra il senso de' veloci cani
I timidi animali han senso ed arte,
Onde sovente i lor vestigi istessi
Soglion guastar, perchè la fuga occulta
Segno palese non discopra e mostri.
E conoscono ancora i venti e l'aure,
Ond'è portato a gli odoranti cani
Il noto odor che gli tradisce e perde.
Così la Providenza in ogni parte
Trapassa e giunge; ed al fugace scampo
De' paurosi ella talora intende,
E spesso lor concede in giusta preda
A gli animosi, e la virtù ferina
Con le spoglie de' vinti onora, e pasce
Pur di rapina le robuste forze.
Ma qual memoria è sì tenace e salda,
Com'è quella talor del fido cane?
O qual d'animo grato e di costante
Altri può meritar più chiara laude,
S'ardisce il fido can con fiero assalto
Scacciar empio latron dal caro albergo,
Vietando i furti al predator notturno?
Ed al pugnare ed al morire è pronto
Con l'amato signore, o per l'amato
Signore almeno, e conservarlo in vita,
Se stesso offrendo a glorïosa morte.
Spesso inanzi al sublime altero seggio
De' giudici severi il fido cane
Fu de' nocenti accusator latrando,
E spesso il muto testimonio indegno
Non fu di fede; e cade in giusta parte
Sovra il reo la temuta orrida pena.
In Antiochia già (come si narra)
In solitaria parte estinto giacque
Un uom, ch'un fedel cane avea compagno,
Ne l'ora che, tra 'l lume incerta e l'ombra,
La queta notte dal sonoro giorno
Strepitosa divide, e desta all'opre
I mortai faticosi, e gli richiama
Dalle fatiche al lor riposo amico.
E l'uccisor ch'ebbe mercede in guerra,
Era uom crudel di sangue e di corrucci,
Che si pensò celar la fiera morte
Sotto l'oscuro e tenebroso manto
Della caliginosa e fredda notte;
E dal medesmo manto andò coperto
In più lontana e più secura parte.
Giacea nell'atro sangue il corpo estinto,
Squallido, immondo e pien di morte il volto.
Sparso era intorno a rimirarlo il volgo.
Il can gemendo in lagrimabil suono
Piangea del suo signor l'orrida morte.
Intanto quel che de l'iniquo fatto
Dianzi contaminato indi partissi,
Per non esser sospetto e 'ntiera fede
D'innocenzia acquistarsi, ivi con gli altri
A parlar de l'atroce orribil caso
Facea ritorno con sicura fronte,
(Tanta è la fraude de l'umano ingegno).
Entrando in quella folta ampia corona
Del popol vario, assai pietoso in vista
S'appressava a colui ch'anciso giacque.
Allor cessando alquanto il fido cane
Dal lamentabil gemito dolente,
Prese della vendetta orribil armi,
E preso il tenne con gli acuti denti,
E mormorando in miserabil verso
Tutti converse in doloroso pianto.
E fede ei fatta a la mirabil prova,
Solo il tenne fra molti, e non lasciollo,
Nè rallentollo da' tenaci morsi;
Alfin turbato il reo dal certo indizio,
Ritorcer in altrui la grave colpa
Non potea più de l'odio e de lo sdegno
E de l'ingiurioso e grave oltraggio,
Nè 'l sospetto estirpar del proprio fallo
Ne l'altrui mente infisso. E 'n questa guisa
Far vendetta potea, ma non difesa,
Da un quasi muto accusator latrante.
È preso e vinto, e condannato a morte.
Ma chi potria le maraviglie antiche
Narrar de' cani e i rari illustri esempi?
E chi sepolti entro l'istessa tomba
Mostrarli col signore? o 'n rogo ardente
Co' medesmi onorarli accesi ed arsi?
O 'n guerra pur tra folte schiere ed armi
Celebrar la nativa e invitta fede?
Chi de' tiranni e de' nemici estinti
Oserà di sacrar sanguigne spoglie
A la gloria de' cani, e 'n viva pietra
Scolpirli, e 'n lei segnar l'imprese e i nomi
Di quei famosi, che da lunga guerra
E lungo esilio trionfando insieme
Co' fidi amici, ritornaro alfine
Nell'alta patria che circonda il mare?
Seppelo ben la Grecia antica e 'l vide,
Che tante isole in seno inonda e chiude.
Taccio ne' monti e nell'alpestri selve
Tante vittorie loro antiche e nuove,
Taccio i capi recisi e 'n alto affissi,
E taccio di feroci orride belve
In guisa di trofei sospese spoglie.
Ma dove ancora io voi tralascio a dietro,
O 'n brevissimo dir astringo e premo,
Destrier veloci e portatori illustri
De' cavalieri in glorïosa guerra
E 'n polveroso arringo, e 'n largo campo
Degli onori compagni e del periglio?
Sete guerrieri voi, che mossi a prova
Al chiaro suon della canora tromba
Avete parte in sanguinosa preda,
E 'n auree spoglie e 'n onorata palma.
E 'l vide già non pur l'antica Pisa
Ne' varj giochi, e 'l celebrato Olimpo,
Ma Tebe e Troia, anzi gli spazi e i lustri
Ch'ebber d'Olimpo misurato il nome,
E Maratona e Leutria, e poscia ed ante
Della nobil Farsaglia i piani e i monti,
Ove portando pria sul forte dorso
Nelle battaglie il cavalier novello,
Miracol nuovo e non veduto mostro,
Somigliaste il biforme alto centauro.
Chi potrebbe di voi le spoglie e i pregi
Narrare a pieno e le fatiche e i merti?
Voi spargeste non pur nell'alte imprese
Col piagato signore il largo sangue,
Ma, se creder ciò lece, il largo pianto
Ancor versaste con affetto umano,
Lagrimando sua dura, acerba morte.
Voi parte in gran trionfo e 'n nobil tomba
Co' regi aveste e con gli eroi vetusti,
E deste 'l nome a la città famosa
Sepolta, e serba ancor la fama il grido.
E voi non di tridente, onde percossa
Partorisca la terra, altera prole
Foste, nè vi formò terrena destra.
Ma l'alta voce del Signore eterno,
Più di tromba sonante, al nascer vostro
Principio diè, pria che di terra in terra
La sua possente man formasse Adamo.
E questa, che più chiara ognor rimbomba
Nella natura ubbidïente ancella,
Di voi perpetua la progenie e 'l nome.
Ma quel guerriero in voi superbo spirto,
Ch'all'uom quasi vi fa d'onor congiunti,
Umilii con l'esempio il Re celeste,
Che fra ben mille olive e mille palme
Premer degnò d'un asinello il tergo,
E voi concesse a' gloriosi augusti,
A' magnanimi regi, a' duci invitti.
In guisa tal che l'alterezza e 'l fasto
Ed ogni altra mondana illustre pompa
A l'umiltà conceda i primi onori,
Ed a quell'umil sofferenza e queta
Ch'al mansueto gli omeri prepara,
E nel presepio ha più sublime luogo
E più vicino al Regnator celeste,
Che 'n ciel tra' favolosi e vani onori
Non ha il destriero, o sua fallace immago.
Ma qual mi porta spazïando e tarda
Studio o vaghezza oltre il prescritto giro?
Torniamo a contemplar de l'opre estreme
Fatte da Dio la providenza e l'arte.
Chè providenza fu, non sorte o caso,
Che de l'atroci e immansuete belve
Fè la progenie indomita e superba
Quasi infeconda, e la ristrinse in pochi.
Fece all'incontra fertile e feconda
De' timorosi la fugace prole,
Di cui suol farsi agevolmente in caccia
Larga e diversa preda. E quinci aviene
Che molti figli suol produrre al parto
La timidetta lepre. A coppia a coppia
Gli parturisce la selvaggia capra,
E de' gemelli ancor l'agna silvestre
Suol andar grave, e generarli insieme,
Perchè non manchi da vorace fera
Consumata la stirpe. E d'altra parte
La fiera leonessa a pena è madre
D'un figlio sol, che 'l lacerato ventre
S'apre co' duri artigli; e 'n questa guisa
Ancidendo la madre allor ch'ei nasce,
Al nascer suo fa sanguinoso il varco.
E la vipera ancor fiera mercede
Rende a la genitrice, e fuor se n'esce
Rodendo l'alvo a la pregnante serpe.
Se de' varj animali ancor rimiri
Le varie parti, a te non fia nascosto
Il magistero del fattore eterno,
Che nulla fece in lor soverchio o manco.
Perchè volle adattare acuti denti,
E quinci e quindi, a le feroci belve
Devoratrici di sanguigno pasto.
Ma d'una parte sola armaro i denti
Quelle c'han vario cibo e varj paschi
Ne' verdi prati, e 'l ruminar concesse
Alle innocenti in ozïosa vita.
E le gole e le pelli e i ventri e i seni
E le reti con l'altre incerte parti
Ove s'accoglie, onde trapassa il cibo,
Onde nutrisce le diverse membra
Il puro e leve, e l'altro impuro e grave
Poi ritrova all'uscir aperto il varco,
Non son vani artifici, o fatti indarno,
Ma necessari; e di ciascuno appare
E l'uso e 'l pro per cui mantiensi in vita,
O breve o lunga, l'animal terrestre.
Del cammello Affricano è lungo il collo
In guisa tal ch'a' piedi egli s'adegua,
E giunge all'erbe onde si pasce e vive.
Quasi a le spalle il breve collo inesta
L'orsa e 'l leone e la vorace tigre,
E gli altri tali che di frutti e d'erba
Non hanno il caro nutrimento usato,
Nè son costretti d'inchinarsi a terra,
Ma sol vivon di sangue e di rapina.
A qual uso è prodotto e che ricerca
Quel de' grandi elefanti orribil naso,
Che proboscide ancor l'Italia appella?
Ad animal sì grande, e quasi vasto,
Che di grandezza ogni terrena avanza
Bestia superba, gli fu dato ad arte,
Perchè dar possa altrui tema e spavento.
Quasi di collo ancor l'officio adempie,
Però che breve ha 'l collo, e non l'agguaglia
A' piedi, e se l'avesse ancor più lungo
Mal sostener potria la mole e 'l pondo.
Però col naso ei si provede, e prende
Col naso il cibo, e 'n guisa è cavo a dentro
L'estranio naso, che raccoglie e serva
Nel voto suo del ragunato umore
I quasi laghi onde la sete estingua.
Di fiume in guisa poi gli irriga e sparge,
Come lucido fonte in bianco marmo
Scolpito da maestra e dotta mano.
E d'urna in vece effigiata belva
Con estrania sembianza orrida in atto,
La qual dal naso o dall'aperta bocca,
O d'altra parte d'acqua infonde e versa
I larghi rivi, e 'l suol n'asperge intorno.
Così la smisurata indica fera
Del pria raccolto umor fa larga copia
Mirabilmente: onde il suo naso assembra
Fontana di natura emula e d'arte.
Ma con l'istesso naso ancor sovente
Suol far l'officio di pieghevol mano,
In tante guise egli il ritorce e stende,
E col medesmo ancor placido e queto
Ed innocente, ei suol passar per mezzo
Le mansuete e semplicette gregge
Senza noiar le pecorelle umili,
Che le cedono il passo e quinci e quindi.
Ma i più feroci impetuoso afferra
E leva in aria, e poi gli spinge a forza
Precipitando orribilmente a terra.
Così gran sasso, ancor levato in alto
Da machina, talor ruina a basso
Da lei sospinto o dal suo proprio pondo.
Ma come il collo e la cervice è breve,
Altrimenti saria soverchio peso
Del vasto corpo, che s'appoggia e ferma
Sovra i suoi mal composti e rozzi piedi,
Che non mostran giuntura onde distinti
Siano, e le gambe son di travi in vece,
O di colonne a la gravosa mole.
E 'n guisa d'uomo ei sol l'incurva e piega
Mentre egli siede, ma si volge e pende
Sempre o sul manco lato o pur sul destro,
Perchè impedito dal soverchio pondo,
Sovra entrambi non può star dritto e pari:
Però si vede ognor pendente e chino
Ne l'un de' lati allor che siede e posa.
Anzi delle ginocchia ei sol ripiega
Le diretane, e l'uomo in ciò somiglia;
L'altre rigide stansi e dure e salde,
Onde s'appoggia ad un selvaggio tronco
D'orrida pianta. Ivi riposa e dorme
Un suo duro profondo e pigro sonno;
Ma la pianta si piega al peso e frange.
Talvolta ancora ella recisa e tronca
Dal cacciator, che dei suoi lunghi denti
Cerca l'avorio, ch'è si cara merce
Onde si faccia poi mirabil opra
E di barbara man raro lavoro,
Cade al cader del suo rotto sostegno
La fera belva ruinosa a basso,
Come edificio che di scossa terra
Il moto crolla, e vacillando adegua
Al suol ch'è di ruine ingombro e sparso.
Nè potendo ella poi levarsi in alto,
È dal gemito suo tradita a morte,
Chè gli passan con l'armi il molle ventre;
Nè potean penetrar l'irsuto dorso
Con lance e strali, e l'altre esterne parti
De l'elefante, che si lagna e more.
Ma sovra le sue grosse orride spalle
Ei suol portare in perigliosa guerra
Torre che grave appar d'armate genti;
E portando il gran peso ei tutto atterra
Ciò che rincontra, e par volubil monte
Od animata rocca il fero mostro,
Onde solean già gli Africani e gl'Indi
Perturbar le nemiche avverse schiere,
E l'armi sanguinose a terra sparse
Calcar sovente e le abbattute squadre.
Questa gran fera, se non more o cade
In lacrimosa guerra o 'n fera caccia,
Anni trecento vive; e senso e spirto
Ha di pietà, talchè devota adora
L'algente luna che le notti illustra.
Un'altra fera è là nel freddo clima,
Dove l'Orsa dal cielo i fiumi agghiaccia,
Nè di pietà, nè di grandezza eguale.
La qual pensando a la futura fame,
Conserva fa del divorato pasto
In un proprio nativo e largo vaso
Ove il ripone, e al maggior uopo, e serva.
Trattone 'l poscia, indi si ciba e pasce.
Così di cibo l'un, d'umore e d'onda
Provido l'altro, non patisce inopia,
In guisa di città ch'assedio e guerra
Aspetta, e 'ntanto si provede, ed empie
Di ciò ch'al vitto uom chiede, i cari alberghi
E i larghi vasi e le profonde fosse.
Ma pur questo animal sì fiero e grande,
Cui Roma vide trionfante e lieta
Quando Leon sedea nell'alta sede,
Domato all'uom soggiace. E 'n questa guisa
Volle mostrarne Dio, che tutto fece,
I feroci animali all'uom soggetti,
A l'uom sua viva e sua diletta immago,
A l'uom che 'n guisa d'immortale erede
Delle cose divine elegge e chiama
A l'alta gloria del celeste regno.
E non sol lece contemplar mirando
Ne gli animali più feroci e grandi
Quella divina provvidenza ed arte.
Chè ne' piccioli ancora ella si mostra,
Sì come ancor non men de l'alto monte
Che vicino a le nubi al ciel s'inalza,
Mirabil sembra la profonda valle,
Dove si schivi il fiero orgoglio e l'ira
De' venti usati a ricercar mai sempre
L'eccelse parti, e si ricovra e scampa
In queta parte e sotto un puro cielo
Che 'n sè conserva tepido, sereno.
A l'elefante, ch'è sì fero e grande,
Spavento dà con paurosa vista
(chi 'l crederebbe?) il vile e picciol topo.
Lo scorpio ancora orrido appare a' grandi,
D'armi pungenti e di veleno armato.
Ma non però la temeraria lingua
Il suo veleno in Dio rivolga e versi,
Nè le dia colpa che 'l serpente e 'l drago
Egli facesse e 'l verme e 'l picciol angue,
Che lunge saettando amaro tosco
Ancide l'uom con dolorosa morte.
Chè 'n questa guisa ancor s'accusa il mastro,
Se dalla temeraria età proterva,
Che ribellando a la ragion contrasta,
Temer si fa con la severa sferza,
E con dure percosse e dure piaghe.
E 'l medico in tal modo ancor s'incolpa,
Ch'indi ricerca medicina a' mali.
Tu, se confidi in Dio, securo ascendi
Il basilisco venenoso e l'aspe,
E 'l leone e 'l dragon supprimi e calca,
Che sopporran al piè securo e giusto
La domita cervice e 'l collo a forza.
E di Paulo t'affidi il chiaro esempio,
A la cui santa e inviolabil destra,
(Mentr'ei disceso nell'apriche rive
Di Malta raccogliea materia al foco),
La vipera non diè tormento o morte,
Nè quel che di leggier s'appiglia e serpe
Tosco micidïale a lei s'apprese,
Tanto la grazia può d'alma innocente.
Ma debbo io far noiosa e fiera istoria
Di vipere crudeli e di ceraste?
D'idre, che di colubri un folto vallo
Sibilando si fan d'intorno al collo
Ceruleo e gonfio, ed all'orribil testa?
O pur d'aspidi sordi al forte carme?
O di faree, di cencri e di chelidri?
D'alfasibene, o del serpente acceso,
Che dardo sembra, e come dardo il tosco
Uccisor de' mortali avventa e lancia?
O pur di te, che più famosa palma
Fra le pesti africane ancor t'acquisti
Nocendo altrui? nè sol lo spirto e l'alma,
Ma 'l cadavero istesso a morte involi,
Anzi il rapisci, e gliel consumi a forza?
Come il pittor che delle membra estinte
Il pallor, lo squallor dipinge, ed orna
Di colori di morte esangue aspetto,
Parte ci aggiunge orride fere e mostri
Spaventosi, e gli fa sembianti al vero,
Ma dove il vero di spavento ingombra,
Delle pinte sembianze il falso inganno
Altrui diletta e 'l magistero adorno;
Così con questi miei colori e lumi
Di poetico stil, con queste insieme
Ombre di poesia, terribil forme
Fingo, e fingendo di piacer m'ingegno
A gli alti ingegni, e dal profondo orrore
Trar quel diletto che i più saggi appaghi.
Ma pur ischivo altrui fastidio e scherno,
E per questa di fere e di serpenti
Arida, adusta e spaventosa arena
Più non mi spazio; ed a più lieti obbietti
Quasi nuovo Caton mirando io varco.
Ma i frettolosi passi anco ritarda
Larga schiera di estrani orridi mostri,
E di varj animai volanti a stuolo,
Che da putride membra estinto corpo
Produsse; o senza seme e senza padre
L'antica madre ancor produce e figlia
Dal riscaldato e 'nsieme umido grembo.
E queste innumerabili e vaganti
Danno anzi noia che terrore o doglia.
Quante, oh quante ne veggio in nubi o 'n ombra
Volarmi intorno ed oscurarne il cielo!
Ma chi gli scaccia in trapassando e sgombra?
Il tuo lume gli scacci, o Padre eterno,
Ch'io chiedo a te, dove dal santo il santo
Par che discordi e fu contrario in parte,
Se tu Dio fosti creator di mosche.
Io, quanto lece per ragione umana,
Ch'al tuo lume divin si illustri e 'nformi,
Oso affermar che tu creasti allora
In lor perfetta età maturi i parti.
E la progenie e le diverse stirpi
Di piante e d'animai perfette usciro
Nel bel paese della chiara luce
A l'alta voce del suo santo impero;
E non fu alcuna tralasciata a dietro
Delle selvaggie ed infeconde piante,
O pur delle feconde; e già nascendo
Sin dal principio erano adorne e gravi
Di sue frondi ciascuna e de' suoi frutti.
E non, come oggi aviene, oggi a vicenda;
Mentre sue volte ogni stagione alterna,
Son generate, e non già tutte insieme.
Prima il fecondo seme è sparso in terra,
O pur la stirpe in suol profondo affissa,
E poi nascer veggiam le piante e l'erbe,
Ed avanzar crescendo; e d'una parte
Le radici mandar sotterra a dentro
Di fondamenti in guisa, e d'altro lato
Verso il cielo inalzare il tronco e i rami,
E poscia germogliar le fronde e i fiori.
Ultimo nasce il frutto, e 'nchino ei pende,
Ma non maturo nè perfetto ancora
A poco a poco ei si trasmuta, e cangia
Molti varj sembianti e molte forme.
Prima minuto è sì che gli occhi inganna,
E quasi dalla vista egli s'invola,
E rassomiglia gli atomi volanti
Che ci appaion del sole a' chiari raggi;
Da poi nutrito de l'umor terrestre
Ed irrigato da rugiade ed aure,
Si nutre e cresce e si colora e tinge,
Come opra ei fusse di pittore illustre.
Ma quando Dio creò di nuovo il mondo,
Tutte le selve di frondose piante
Perfette egli produsse, e i dolci frutti
Tra' rami si vedean, non mica acerbi
Quasi a pena cominci, anzi maturi
Faceano invito a' non ancor prodotti
Animali, e devean la fame e 'l gusto
Lusingar tosto a le dolcezze ignote.
Gravida ancora a quel sovrano impero
La terra partorì la stirpe e l'erbe
E dolci frutti, in cui virtù nativa
Era nascosta di fecondo germe
E di seme immortal, che quasi eterno
Devea poi rinuovar le cose estinte.
E gli animali poi creati insieme
Vestiti fur delle sue pelli irsute,
O di candida, molle e pura lana,
E di sue corna e di pungenti artigli
Ciascun apparve immantinente armato
Ne l'età sua perfetta e già matura.
Nè della prima infanzia allor conobbe
Alcuno il tempo, e in non cresciute membra.
Anzi questa gran mole ancor novella,
Questo grande, dico io, mirabil mondo
Non conobbe l'infanzia, e tutto insieme
Perfetto apparve, e nell'aspettto adorno.
Ma non fur opre tue gli orridi mostri?
Opre tue non fur già, maestro e padre
Della natura, ma sol vizio e colpa
Della materia a dismisura ingiusta,
Ch'or ha difetto, or nel soverchio abonda.
E s'adivien giamai che 'l maschio seme
Debole e raro sia del veglio stanco,
O sparso dal fanciul, nè vincer possa
Con quella sua virtù ch'informa e move
Ne' chiostri occulti del femineo ventre
L'indigesta materia umida e informe,
Femina nasce; e ch'ella nasca è d'uopo,
E se non caro, è necessario il parto.
Ma d'uopo già non è che sia prodotto
Orrido mostro al mondo; e non ci nasce
Per grazïoso fin, ma grazia o fine
Non ha nascendo, e la materia invitta
E ribellante a la miglior natura,
Ch'al meglio è sempre in operando intenta,
È impossente cagion del nato mostro.
Ma la materia vinta, e non ribella
Nè 'n contender ritrosa, accoglie in grembo
Le forme obedïente, e quinci nasce
Maschio il figliolo, e di bellezze adorno
E di fattezze al genitor sembiante.
E chiunque traligna, al proprio padre
Ed a la stirpe de' maggior antica
Dissimil fatto, è quasi al mondo un mostro.
E spesso avien ch'egli traligni in guisa
Degenerando da progenie illustre,
Che dall'umanità quasi è diverso.
Ned uomo è più, ma d'odioso aspetto
Del male sparso e mal concetto seme
Un mal nato animal ci nasce e vive
Ch'è detto mostro. E la natura istessa
Lo schiva ed odia, e disdegnando abborre.
E già, come divolga antica istoria,
Con testa di monton nacque un fanciullo,
E con testa di bue poi l'altro apparse.
Ed un vitello ancora ebbe nascendo
Il capo di fanciul, l'ebbe di toro
Un'umil pecorella e mansueta.
Ma chi non sa la mostruosa forma
Della chimera, in cui la capra aggiunta
Era al leone e 'l leon giunto al drago?
E chi non sa sì come accoppia e mesce
L'istessa fama a la giumenta il grifo
Là fra le nevi d'iperborei monti
O de' Rifei, dove ei difende e guarda
L'or sì bramato da' mortali erranti?
E forme sono ancora illustri e conte
Quelle che figurò l'antico Egitto,
O l'Africa arenosa. E questa affisse
A l'uom di bue la spaventosa fronte,
E col vel ricoprì l'altere corna,
Giove Amon nominando il falso nume,
Ed adorollo in suo famoso tempio,
Ch'un tempestoso mar d'arene intorno
Cinger solea ne' solitari campi.
Quel con faccia di cane altrui dipinse
O pur impresse il suo latrante Anubi,
Oltre mille altri idoli suoi bugiardi.
E la Giudea dall'africano inganno
Non fè diverso il simulacro o 'l mostro,
Quando a Moloc i sacrifici offerse.
Ed a questo fallace e vano errore
Origin prima diè natura, errando
Oltre il suo fin nel mostruoso parto.
Suol partorir ancor di molte membra
Confusi i mostri, e sul medesmo busto
Molte giungere insieme orride teste,
O molti piè supporre al corpo istesso.
E quinci preso ardir la Fama audace
Briareo fece ed Egeòn gigante,
E gli armò cento mani e cento braccia.
E di corone ancora ornò la fronte
Di Gerione, e nell'antica Spagna
Collocollo in sublime ed alta sede.
Ma in questa guisa forse ella dipinse
L'anima umana imperïosa altera
In cui son tre potenze insieme aggiunte.
Or lasciando da parte occulti sensi
E di favole antiche ombre e misteri,
Onde sua luce al vero ancor s'adombra,
Simigliante cagion produce i mostri,
E d'offeso animal confonde e guasta
Dentro al materno sen tenere membra,
O sia difetto di confuso seme
O di materia pur maligna colpa
E vizio innato; e ciò più spesso incontra
In quei che fan sì numeroso il parto.
Tal è del gallo la pennata madre,
E tale ancor la semplice colomba,
I cui figli talor confuse e miste
Ebber le membra. E con due teste ancora
Fu già veduto un orrido serpente.
Ed al buon servo di Gesù diletto
In quel sogno divin con sette apparse
L'estrania belva, a cui lasciva donna
Premendo assisa alteramente il tergo,
Attrasse i regi a gli impudici amori.
Con sette è finto l'animal di Lerna,
Orrida peste, e rinascenti al ferro
Fur creduti que' capi e 'ndarno tronchi.
Tralascio alfin de l'animal rinchiuso
Nel laberinto la dubbiosa forma,
E tralascio di Sfingi e di Centauri,
Di Polifemo e di Ciclopi appresso,
Di Satiri, di Fauni e di Silvani,
Di Pani e d'Egipani e d'altri erranti,
Ch'empier le solitarie inculte selve,
L'antiche maraviglie; e quello accolto
Esercito di Bacco in Orïente,
Ond'egli vinse e trionfò de gl'Indi,
Tornando glorioso a' greci lidi,
Sì com'è favoloso antico grido.
E lascio gli Arimaspi, e quei ch'al sole
Si fan col piè giacendo e schermo ed ombra;
E i Pigmei favolosi in lunga guerra
Con le gru rimarransi, e quanto unquanco
Dipinse in carte l'Africa bugiarda.
Perchè vero non è che mai prodotti
Fosser sì mostruosi e varj aspetti
Dalla natura; e s'è pur vero in parte,
Dio non produsse allor creando i mostri.
Però che mostro è quello in cui s'incolpa
Difetto di materia o pur soverchio,
Onde al suo genitor dissimil nasce;
Ma rade volte, e 'n odiosa vista
È di natura vergognoso scorno.
O pur è segno onde il gran Re superno
Sgomenta gli egri e miseri mortali,
E minaccia lor pena, morte e scempio.
Non fece allor creando il Fabro eterno
I muli o pur le mule, e quelli e queste
Illegittima prole e dubbio parto
Fur poscia d'animai ch'aggiunse insieme
Desio sfrenato di natura, e nacque
D'asino il forte mulo e di giumenta,
E di pronto destrier veloce al corso
La mula, ma di pigra e tarda madre.
E somigliando il generoso padre,
Corse talvolta nell'Olimpo a prova
E riportò correndo il caro pregio.
Ed or si gloria di portar sul dosso
Sacri purpurei padri in Vaticano
In dì festo ed altero, e nobil pompa,
E incontra muove a' messaggieri eletti
Degli altri regi e de' famosi augusti.
Nacque talvolta del destrier corrente
Il mulo ancora, e l'asina si vanta
Pur anco di veloce e nobil madre.
Ma l'uno sparge non fecondo il seme,
L'altra l'accoglie in non fecondo ventre.
Però nascer non suol del mulo il mulo,
Come dall'un veggiam nascer sovente
L'altro cavallo, e nel guerriero armento
Succeder generoso al padre il figlio,
E la cagion di ciò varia s'adduce.
A' corrotti meati il cieco veglio
La reca, quel, dico io, per fama illustre,
Ch'al vaneggiar de' miseri mortali
Rider soleva, e le sciagure e i danni
Del suo dotto ei degnò continuo riso.
Ma quel che si lanciò nel foco ardente
D'Etna sublime, e la sua vita (ahi folle!)
Volse finir nella fumante fiamma,
Giudicò poi che mal s'apprenda insieme
Il liquido col liquido commisto,
E si mescoli meglio il molle e 'l denso:
Come adiviene a chi disface e fonde
I metalli diversi, e lor confonde,
Che lo stagno e l'argento in un condensa.
Altri di più sublime e chiaro ingegno,
Che fu maestro di color che sanno
Quanto in mille sue scole insegna il mondo,
Della sterilità più tosto assegna
La più vera cagione al freddo seme.
Perch'è freddo animale e pigro e tardo
L'asino, e intolerante al freddo verno:
Però di Scizia nel gelato clima
Ei non ci nasce fra le nevi e 'l gelo,
Benchè tra' Franchi ei nasca e fra' Britanni.
E de l'asino nato è freddo il mulo,
Però sembiante al padre il freddo seme
Il figlio non produce in freddo grembo.
Ma se addita talor per raro mostro,
Meravigliando, della mula il parto;
E 'l mulo ancor, quando sette anni ei compie,
Si mesce alla giumenta, ed ella espone
Nuovo portato del mirabil figlio.
Ma dove ardente sol la Siria accende
Sovra Fenicia, già ne' tempi antichi
Solean le mule partorir sovente
E de' muli nascean sembianti i muli,
Talchè passò ne gli ultimi nepoti
La memoria degli avi, e lungo tempo
La bastarda progenie in pregio fue.
Or mancata è la stirpe, e spento il nome
Tra nuovi Siriani e tra Fenici,
Nè vantar se ne può Sidone o Tiro.
Nascer soleva ancor ne' primi tempi
Di cavallo e di cervo il figlio misto,
Che prendeva l'onor di lunga chioma
E le vaghe ramose altere corna
D'entrambo suoi parenti insieme aggiunti:
Illegittimo sì, ma bello e grande
Mirabil figlio, e leve e presto al corso.
E poi crescendo gli pendeva al mento,
Pur come barba fosse, il lungo vello.
Fra gli Ajaceti già l'antiche selve
Libera già pascendo errante fera,
Dove pascer soleano i buoi selvaggi,
Con muso adunco e con ritorte corna,
Con nero pelo e con robuste membra.
Or non so chi più 'l veggia o dove appaia,
Benchè ne' climi algenti orridi boschi
Sogliano anco nutrire i buoi silvestri,
E sian fra noi famosi e gli uri e l'alce.
Ma del cavallo e del corrente cervo
Par che non sia più noto il misto figlio;
Nè 'l feroce destrier si giunge al pardo
In guisa tal che ne veggiamo il figlio,
Sì come il rimirò l'età vetusta,
Tanto l'onor della bastarda prole
Manca, volgendo gli anni, e 'l nome e 'l grido.
E questo avien perchè fatture ed opre
Non fur di quel celeste eterno Fabro,
Il qual perpetue fa le varie stirpi
Degli animali, e lor rinnova e serba.
Mancate son ancor l'estranie e miste
Forme confuse d'animai feroci,
Che presso a' fiumi accoppia Africa adusta,
D'orribil nuovità fiera e superba.
O van mancando, chè serbarsi in vita
Lungamente non può di vario seme
La progenie illegittima ed incerta.
Sol legittima stirpe è quasi eterna,
Sì come piacque al suo fattor creando.
Ma già vicino all'alta e nobil meta,
A cui lasso cursor m'affretto e corro,
Del bonaso m'avveggio e dell'iena
Lasciata adietro, e de l'orribil fera
Che l'ossa umane trae d'oscura tomba,
E la voce de l'uomo assembra e finge.
Veggio il rinoceronte adunco il naso,
E veggio te, che d'un bel corno altero,
Purghi del tosco le turbate fonti.
Veggio che fra le nevi e l'alto ghiaccio
Il rangifero, occulto al nostro mondo,
Porta correndo le veloci rote.
Veggio mille altri, e nell'algente zona
E 'n quella che più ferve e più s'infiamma,
Qui non visti animai, ma chiari e conti
Per lungo grido di perpetua fama.
Ma però non ritardo il lento corso,
Già stanco e grave, e là m'appresso e giungo
Dove tra le fiorite ombrose piante,
E tra mille vaghezze e mille odori,
L'uom creato da Dio m'aspetta e chiama.
Quale esperto figliuol che 'n festa e 'n pompa
Spazïò per città calcata e piena
Della minuta errante e bassa plebe,
Se vede alfine in più sublime parte
Del caro padre il venerato aspetto
Là dove adorno di lontan risplende
Un re possente di corone e d'ostro,
Sdegna la varia turba e l'umil volgo,
E là ricovra ove l'affida e 'nvita
Presso l'altera maiestate augusta
Del genitore antico il lieto cenno
O pur l'imperïosa e nota voce;
Tal per questo creato adorno mondo,
Ch'è città di mortali e d'immortali
Grande e sublime, in cui perpetue leggi
Son prefisse ab eterno al viver nostro,
Pur dianzi io m'avolgea bramoso e vago
Di tante maraviglie a parte a parte,
Tutte cercando e rimirando intorno,
Onde fermai talvolta i tardi passi
Fra gli animai, che son l'ignobil volgo.
Or che mi s'offre in venerabil fronte
Nel paradiso il genitor vetusto,
Non diviso anco dal suo Re sublime,
Obliando tutto altro, a lui mi volgo,
Ed odo voce che nel cor rimbomba,
Non già da statua del bugiardo Apollo,
O da ruvida quercia o da spelunca,
Nè d'idolo scolpito in legno o 'n marmi,
Ma sin dal cielo e ben celeste assembra:
Uom, conosci te stesso! Oh santa scorta
Che per questo sentiero a Dio conduci,
Perchè la nostra mente a Dio s'inalza
Sovra se stessa, e lui conosce e intende,
Nè contemplando i bei stellanti chiostri
E 'l gran giro del sol che tutto illustra,
Così possiam nell'invisibil luce
Conoscere il gran Dio che fece il mondo,
Come dal contemplar la nostra mente
A conoscer la sua leviamo in alto
L'ali del pronto e fervido pensiero,
Che non si ferma ne gli umani obietti.
Ma qual luce degli occhi, ove si giri,
Ove si fermi, ivi rimira e scorge
Prati, selve, campagne e mari e fiumi,
Aspri monti, erti poggi ed ime valli,
Pur non vede se stessa, e 'n chiaro speglio
Sol di sè può veder la vera immago:
Tal mente umana, che tutto altro intende,
Quanto di fuor di lei dipinge ed orna
La mano e l'arte del gran mastro eterno,
Non intende se stessa, e non conosce
Quel ch'ella sia, se non s'illustra al sole
Di verità, quasi cristallo ardente;
Ed illustrata non rimira e guarda
Come in ispeglio pur la propria forma,
E quel Signor che della propria immago
La fece adorna, e di beltà sembiante.
S'ella è dunque di macchie orride aspersa,
Tergasi, e puro in sè raccoglia il raggio
Della divinità, che in lei fiammeggia.
Poich'ebbe fatti gli animai terrestri,
L'opre sue buone Dio conobbe e disse:
Facciam noi l'uom, come è la nostra immago
Simil'a noi. Fece la terra e 'l cielo
Pur dianzi, e 'l sole e gli stellanti chiostri,
Nè chiese aiuto o dimandò consiglio;
Ed or creando l'uomo Ei si consiglia.
Tanta opra fu! Giudeo protervo ed empio,
Odi la voce del Signor che parla.
Ed a chi parla? A se medesmo e seco.
Tu, che di verità sol vedi il lume,
Sì come per fenestra acceso raggio,
Ritroso e ribellante ancor ripugni?
Nè tre varie persone in Dio conosci,
Quasi sotto un bel velo a noi dimostre?
Qual sollecito mai notturno fabro,
O qual maestro di men nobile arte,
Solo sedendo fra' suoi proprj ordigni
Là dove niuno altro insieme adopra,
Dice a se stesso, e se medesmo affretta
Con importuno e frettoloso impero:
Facciam la spada, o pur l'adunca falce
Facciamo immantinente, o 'l curvo aratro?
Ciance son queste, anzi calunnie espresse
Di falsa lingua a le menzogne avezza.
E s'infinge il giudeo, mentre figura
A se medesmo pur mentite larve.
E come orride belve all'uomo infeste,
In angusta prigion ristrette e chiuse,
Non potendo adempir l'ardente rabbia
Fremono in quel serraglio, e 'n fero suono
Dimostran l'amaror de l'ira accolto,
E la natia lor feritate interna;
Così gli Ebrei sospinti a passi angusti
Osano d'affermar che 'l Padre eterno
Con gli angeli ragioni in questa guisa,
Con gli angeli che stanno a lui d'intorno,
E gli angeli ministri all'opre inviti.
Quasi egli chiami del consiglio a parte
I servi suoi, che sono all'uom conservi,
E gli faccia signori in sì grande opra
In cui l'uomo è creato a Dio sembiante.
Qual magistero al suo maestro eguale
Esser potrebbe? Oh sorda e cieca mente,
Oh sciocchezza, oh follia d'alma profana!
Molti servi raccorre e farli degni
Di tanto officio, e rifiutare il figlio?
Pensa a quel che poi segue: A nostra immago
L'uomo facciam. Forse una immagin sola
Ha con gli angeli Dio, come una forma
Istessa è necessaria al Padre, al Figlio?
Ma nell'uomo ed in Dio l'alta sembianza
Non è figura o qualità del corpo,
Ma solo è proprio a la divina mente
L'immago, onde l'umana ancor s'informa,
E 'n tre potenze interne Iddio figura.
Perchè, sì come Dio se stesso intende,
E se stesso intendendo ama se stesso,
E quinci nasce l'intelletto eterno,
E d'ambo quindi e quinci eterno Amore
Spira, e tre lumi sono e non tre dei,
Ma tre persone in un sol Dio congiunte;
Così la nostra mente in noi produce
La volontate e la memoria appresso
Di questa e quella si figura e forma.
In guisa tal che la natura umana,
Bench'una sia da tre virtù distinta,
In sè dimostra la divina immago
Ed in se stessa Dio conosce ed ama.
Fece ancor somigliante il Padre eterno
L'anima e la ragion, ch'è l'uomo esterno,
A se medesmo, ch'è divino amore,
E de l'esterno Adam vestito intorno,
Il tenne occulto e ricoperto a' sensi.
E però ch'egli è buono e saggio e giusto,
Pietoso e forte in tolerar gli oltraggi,
Lunga stagion ne soffre, e non s'affretta
A vendicarsi, e poi si placa e molce.
Tale ei creò l'uom primo, e 'l feo sembiante
Nel puro amor, ch'è la virtù primiera,
E d'ogni altra virtù divina e sacra
Impresse in lui mirabilmente i segni.
Come il pittore a la sua bella immago
Col suo leggiadro stil colori e lumi
Varj e diversi ognora aggiunge e sparge,
Ed ombreggiando anco la va d'intorno,
Sin ch'è perfetta la figura e l'arte;
Così il pittor di nostra umana mente
Colorò l'alma, e de' suoi raggi illustre
Tutta la fece, e del color distinto
Sempre accrescendo a lei splendori e lumi.
E come lo scultore al bianco marmo
Col duro ferro e toglie sempre e scema
Quel ch'è soverchio, e dall'incisa pietra
Spira alfin quasi viva e vera forma,
Così togliendo a la materia il Fabro
Della natura, glorïoso, eterno,
Quel ch'avea di più duro e di terrestre,
L'uman sembiante in viva terra apparve:
Talchè divenne l'uom sembiante immago
Della divinità che in Dio risplende.
Ma que' colori e la mirabil luce
D'altri falsi colori asperge e macchia
La progenie ch'ognor traligna e perde
Le sue prime sembianze, e tutto adombra,
Talchè Dio non somiglia, e quasi assembra
Pittura tinta col pennel d'Averno
Ed affumata in Flegetonte o in Lete,
La nostra umanità macchiata e lorda.
Dunque in se stesso l'uomo omai conosca
Contaminate le divine forme,
E, mentre può, si ripolisca e terga,
E sempre all'alma aggiunga e toglia al corpo,
Perchè simil si veggia al primo esempio;
E l'uom figliolo al Re del ciel si mostri
E degno erede del celeste regno.
Poi benedisse Dio la cara immago
Di sè, da sè creata, e disse appresso:
Crescete in numerosa e bella prole,
Riempite la terra, e lei soggetta
Fate all'arbitrio vostro, al vostro impero.
Signoreggiate in mar gli umidi pesci,
E ne i campi de l'aria i vaghi augelli,
E qualunque animal si move in terra
Soggetto sia non meno al vostro regno.
In questa guisa tu creato a pena,
Uom, creato re fosti, e l'alto impero
E la sublime potestate impressa
Non ti fu data in secco o 'n fragil legno,
O nelle pieghe pur di breve carta,
Perchè la roda alfin putrido verme,
Ma la natura scritta in sè riserba
L'alta voce divina, e 'l chiaro suono
Comandi, e 'l naturale e giusto impero
In terra estenda e dentro il mar sonante,
E nel sublime ancor de l'aria vaga.
Imperioso tu nascesti in prima.
Or perchè dunque servi a proprj affetti
E la tua dignità disprezzi e perdi,
Ligio omai fatto del peccato e servo?
Perchè te stesso prigionier cattivo
Fai di Satanno, in sue catene avolto,
Se già nascendo sei principe detto
Delle cose create e re terrestre?
Perchè, quasi gittando, a terra spargi
Quel che nostra natura ha in sè più degno
Di riverenza e di sublime onore?
Qual all'imperio tuo prescritto in terra
È fine, o pur nell'aria o 'n mar profondo?
Se ben te stesso e lui misuri e scorgi,
Non hai tu penne da volar nel cielo?
Ma l'ardita ragion nulla ritiene.
Questa con l'ali sue trapassa a volo
Non pur dell'aria i più ventosi campi,
Ma del ciel gli stellanti ed aurei chiostri.
E via men cupo e men profondo il mare
È del suo peregrino e vago ingegno,
Che va spiando dentro a' salsi regni
I secreti de l'onde, e i seni, e i fondi,
E le sue occulte maraviglie, e quindi
Vittorïoso alfin ritorna in alto,
Di saper ricco e d'immortal tesoro.
Così per arte de l'umano ingegno
Prende tutte le cose e fa soggette.
E disse Dio di nuovo: Ecco a voi diedi
Ogni erba che da seme in terra sparso
Germogli, ed ogni pianta, in cui semenza
È di sua stirpe. E quinci 'l cibo e l'esca
Avrete, e 'l vitto insieme ancor n'avranno
I volanti del ciel sublimi augelli,
E i più gravi animai che in su la terra
Move e trasporta l'anima vivente.
E 'n questa guisa nell'antico stato
De l'innocenza, anco innocente il cibo
Non macchiato di sangue e d'empia morte
Contaminato, o da rapina ingiusta,
Fu conceduto all'uomo, e dato insieme
A l'animal, che senza sdegno ed ira
Era soggetto al mansueto impero.
Non uccideva ancor d'erba nocente
Maligno tosco o pur d'orribil angue,
Ma tutto quel che producea nel grembo
La madre terra era salubre e caro.
Nè tinto ancor si avea l'artiglio e i denti
L'affamato leone o 'l lupo o l'orso;
Nè l'avoltoio allor da corpo estinto
Cercava il cibo, perchè morto ancora
Non era alcuno, e delle morte membra
Non era ancor molesto e grave il lezzo.
Ma pascolar ne' verdi erbosi prati,
In guisa di canori e bianchi cigni,
E sì come veggiam talvolta i cani,
Cui la natura è mastra, andar pascendo
E ritrovar la medicina occulta,
Così pascevan quei l'erbe novelle
Ch'or son voraci di sanguigno pasto.
Non si faceva ancora ingiuria in caccia,
Non eran tese ancor l'insidie ascoste
A la selvaggia e solitaria vita.
E i feroci animali all'uomo amici,
Tutti con lieto e con benigno aspetto,
Placidi, umili, ivano errando intorno
Obedienti a quel sì giusto impero.
Perchè non solo re d'orride belve,
E di serpenti o pur d'augei sublimi,
E di volanti in mare umidi pesci
Era l'uom primo; ma signore e donno
Ne' proprj affetti avea lo scettro e 'l regno,
E suoi proprj pensier teneva a freno
Saldo e costante, imperioso e grave.
Ma poichè ribellante al santo impero
Del Creator sprezzò l'alto divieto,
A lui mostrarsi ancor ribelle in guerra
L'orride belve; e le caduche membra,
Che strugger poi devea l'orrida morte,
Altro cibo nutria di sangue asperso,
Cibo mortale, a' miseri mortali
Dato per esca in men felice stato,
Da poi che l'acque nel diluvio accolte
Ondeggiando coprir le piagge e i monti.
Ma perchè l'uom, divina e sacra immago,
L'alta origine prisca anco riserba,
Non perde il natural suo primo impero
Sovra le fiere, e può con giusta legge,
Anzi con giusta e conceduta guerra,
Farne preda e rapina e cibo e veste
A le sue faticose e dure membra.
Nè questa legge è ingiuriosa ed empia,
Ma di natura, anzi del Re superno,
Che fece serve all'uom l'orride belve,
E le greggia e gli armenti e i vaghi augelli
E gli abitanti ancor del mare ondoso.
Così fu fatto. E Dio conobbe e vide
L'opere sue perfette. E 'l sesto giorno
Ebbe qui fine, ed egli in sè riposo.