CULTURA
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GIORNATA QUINTA

NELLA QUALE FURONO DA DIO CREATI I PESCI E GLI AUGELLI

ARGOMENTO

S’introduce con vaga similitudine a mostrar l’obbligo, che nel trasferirci al Cielo, nostra vera patria, dobbiamo tenere alla terra nostra nutrice. Indi narrando come tutte le acque, per divino comandamento, divenissero feconde, riprova l’opinione dell’anima sensitiva nelle piante, e passa a descrivere la varietà dei pesci, e dice perchè l’acqua a lor si convenga e perchè non favellino. Dimostra come si faccia il suono, che formano i pesci; quali lo formino ec. Dice ritrovarsi in alcuni non solo la voce, ma il sonno, e ne rende il perchè; e confutando le favole d’alcuni Dei marittimi, afferma trovarsi in alcuni pesci un non so che di pietà. Si diffonde intorno alla lor varia natura nel partorire, e nell’allevare i propri parti, mostrando la lor progenie non esser mista, come di alcuni altri animali, ed esser vario il lor nutrimento: e descrivendo l’ingordigia de’ pesci maggiori verso i minori, l’applica agli avvenimenti degli uomini. Biasimando poi le favole dei Greci, mostra la forza e la grandezza d’alcuni pesci coll’esempio di Giona e con vaghe metafore del mare, parla del final Giudizio, e del Vangelo. Passa alla creazione degli augelli, e prendendo motivo dal loro canto, invita l’uomo a lodare Dio: indi mostrando la somiglianza e dissomiglianza tra i pesci e gli augelli, spiega la natura dell’api, e del re loro, con proporne l’esempio ai Cristiani. Descrive la vigilanza delle gru, la difesa delle cornici per le cicogne, e la pietosa providenza di queste verso i loro padri: inoltre la diligenza delle rondinelle nel curare i propri figli, e di tutto a noi propone l’esempio. Mostra come al parto dell’alcione si tranquillano le tempeste del mare, e come la tortorella vive solinga dopo la morte del compagno: come l’Aquila non alleva tutti i suoi figli, come la Cornice nudrisce quelli che l’aquila rifiuta; e di tutto applica diversamente l’esempio agli uomini. Mostra come alcuni augelli concepiscano senza partecipazione del maschio, e riprovando l’incredulità degli Eretici intorno al parto della B. Vergine, spiega la natura d’alcuni altri augelli, e nel bombice ci figura la nostra resurrezione. Descrive quindi la selva ove abita la fenice; e in lei figura la Resurrezione di G. Cristo.

L'antico abitator d'estrania parte,
Che tornar pensa a la sua patria illustre,
Dopo varie fortune e grave essiglio,
E molti in faticosa e dura vita
Trascorsi lustri, al suo fedele albergo,
Ed al cortese albergator si mostra
Grato ed amico anzi il partire estremo;
Così noi, che bramiam di far ritorno
Al ciel, quando che sia, tardi o per tempo,
Da questa men sublime opaca chiostra
Della terra e del mar, che intorno inonda,
Da cui molti anni il nudrimento e 'l cibo
Sì caro avemmo, e sì gradito ostello,
Debbiam gli ultimi offici e i detti e i doni
Di pietate e d'amor, debbiamo i pegni
Di non oscura e non mortal memoria
A questa nostra sì pietosa e cara
Nudrice antica, che fanciulli in grembo
Ne accolse, e vecchi ne sostiene e folce,
A questo mar, che ne trasporta e pasce,
A questo, onde spiriamo, aer sereno.
Dunque narriam come la santa destra,
Poichè in tal guisa ebbe ciascuno adorno,
Di varj abitator frequenti e lieti
Facesse tutti alfin nel giorno quinto,
Sì che non vi lasciò spazio nè clima
Di vasta solitudine e dolente,
Nè di perpetuo orrore incolto ed ermo.
    Avea la dotta man del mastro eterno

De' bei fiori di stelle il ciel dipinto,
E pur come occhi suoi lucenti e vaghi,
Già con la luna in lui creato il sole,
Quando egli disse: L'acqua omai produca,
E seco l'aria partorisca insieme
Ogni vivo animal che vola e repe.
E nel suo commandar tutti repente
I fiumi diventar fecondi e i laghi,
E' vaghi armenti e le squammose torme
De' proprj notatori il mar produsse.
E quanto ancor d'immondo e di palustre
Limo è ripieno, e senza corso o moto
Ristagna ed impaluda in pigro letto,
Sortì il proprio ornamento e 'l proprio onore,
E non rimase neghittoso e voto,
Allorchè Dio creò di nuovo il mondo
Ch'immantinente gracidar nascendo
Ne lo stagnante umor rane palustri,
E sì fatti animai nasceano insieme,
In guisa ad esseguire il sommo impero
Si mostrâr l'acque frettolose e pronte.
E tutti quei, di cui potriansi a pena
Le varie sorti annoverar parlando,
Subito nati, in operosa vita
E sè movente, disegnaro a prova
Di quei che gli creò, l'alta possanza,
Che narrar non si può con lingua umana.
Ed allor prima fu creato, e nacque
Dotato l'animal d'alma e di senso.
Perchè le piante e le frondose sterpi
Degli arbori ch'al ciel spiegar le chiome,
Benchè abbian vita, onde si nutre e cresce
Dall'umide radici il verde tronco,
Animali non son, nè in cara dote
Ebber dal Padre eterno il senso e l'alma,
Onde sentiamo sì diversi obietti.
Benchè vi sia chi non dinieghi e toglia
A le scorze selvagge, a' rozzi tronchi
Un inchinarsi, un ripiegar se stesso,
Un distendere i rami in cara parte,
Ch'è quasi un moto di frondose braccia
Per secreto desio d'amore occulto.
E nelle piante ancor stupido senso
Conobbe alcuno antico, o che gli parve.
Ma resti pur questa sentenzia errante
In quel silenzio, a lor cotanto amico.
Come si sia, creati il quinto giorno
Fur gli animanti, a cui non lega e 'ndura
Rozzo e tardo stupore i pigri sensi.
E qualunque animale, o repe o guizza,
O nel sommo de l'acque o pur nel fondo,
Prodotto fu per obedir al suono
Della divina ed immutabil voce.
Nè in pochi e brevi detti alcun rimase
Escluso dal soprano eterno impero.
Non quei, che l'animal figliando in parto,
Soglion vivo produr, delfini e foche;
Nè meno 'l picciol pesce, onde sovente
La man del pescatore al fune avolta,
Per secreta virtù stupisce e torpe;
Non chi l'ova produce, o chi si copre
Di molle squamma o di più dura scorza;
Non quei c'hanno le penne o pur non l'hanno,
Ma tutti fur nelle parole accolti,
E quasi inchiusi sotto certa legge,
Del lito i vaghi abitator guizzanti.
E quei che nel profondo il mare alberga,
E quei ch'affissi stanno a' duri scogli,
E quei che vanno insieme in ampia greggia,
E quelli ancor ch'erran dispersi a nuoto,
E le balene smisurate e l'orche,
Co' pesci picciolissimi e minuti.
E se fra questi ha pur chi 'l molle peso
Del corpo sovra i piè sostiene e porta,
Son di natura ambigua e quasi incerta,
E 'l gemino lor vitto in terra e 'n onda
Van ricercando, non contenti a pieno
Di semplice esca, o d'un sol cibo al pasto.
E son fra questi le stridenti rane,
E granchi di più branche, a cui s'aggiunge
Il cocodrillo, e 'l notator cavallo
Che del Nilo trascorre i larghi campi,
Ed ondeggianti per l'asciutte rive.
Perchè i piccioli, i grandi, i dubbi e i certi,
Sotto il decreto d'uno eguale impero
Esser vario sortiro e varia vita,
Allorchè disse Dio: Producan l'acque.
E dimostrò con la mirabil voce
Quanto la vaga ed umida natura
De l'instabile umor convenga a' pesci.
Però che quale è l'aria a' levi augelli,
O pur ad animal che spiri in terra,
Cotale è l'acqua al notator marino,
Ed a qualunque guizzi in fiume e 'n lago.
E la cagione è manifesta a' sensi,
Perchè il pulmon nella sinistra parte
Fra le viscere nostre ha 'l proprio sito
Spongioso e raro e trasparente, in guisa
Di specchio, o d'altro che riceve immago
E la ritorna; e si ristringe ed apre,
Quasi mantice o folle, e 'l rezzo e l'aura
Spirando e respirando, accoglie e rende,
E ventilando è refrigerio al core,
Che di purpureo sangue è caldo fonte.
E con l'istesso spirto, onde rinfresca
L'interna arsura, anco si forma e finge
In varj detti la sonora voce.
Ma diè natura a le guizzanti torme
In vece di pulmon le curve branche,
E mentre le distende e le raccoglie,
Dentro l'acqua riceve o pur la sparge;
E così in loro il proprio officio adempie,
Ch'è quasi un respirar d'umore e d'onda.
Ma pur voce non manda il muto pesce,
Nè domestico mai, nè mansueto
Diventa, nè sostiene il tatto e i vezzi,
Onde palpa e lusinga umana destra.
Perchè d'alcuni pur si narri e scriva
C'han per propria natura e propria sorte,
Oltre l'uso comun, sonoro spirto;
Altri suono non pur, ma voce ancora,
Altri quasi parole, in cui distingue
Non ben loquace lingua i proprj affetti.
Perchè non basta al suon lo spirto interno,
Ond'ei si forma, e 'l suo spongioso e raro
Pulmone, e la sua vota umida canna,
Fistola detta; ma la voce appresso
Sol nella gola si figura e finge.
A le parole ancor la lingua e i denti
Son d'uopo: onde non parla, e non informa
Gli accenti suoi quel che di lingua è privo.
Ma 'l suon dall'altre parti ancor si frange,
Come nel cinto che traversa e fascia
Le vespe e l'api, si percote e rompe
L'interno spirto; e quinci s'ode un roco
Mormorar, che per l'aria intorno aggira.
Altri rompendo nell'istessa fascia,
Che cinge il corpo suo, lo spirto interno,
Canta, battendo l'ali, e i verdi boschi
Suonano intorno a quei sonori accenti
Della cicala a' lunghi estivi giorni.
Ma fra' pesci nel mare o 'n fiume o 'n lago
Che sia molle, o di crosta almen coperto,
Alcun non manda fuori o voce o suono,
Altri con vario suon grunnisce e stride,
Talchè del suo stridor risuona intorno
L'onda sovente; e dal concento il nome
Prese quel pesce in mar, che detto è lira.
Stride il pettine ancora, e stride a prova
La rondine marina, e questo e quella
Stridendo vola, e si solleva in alto
Con lunghe e larghe penne, e 'l mar non tocca.
Ma nel fiume Acheloo non solo stride,
Ma voce il suo cinghiale aver si crede,
E 'l cucco notatore ha voce anch'egli,
Ond'al cucco volante è quasi eguale.
Ma non è vera voce, e voce assembra
L'interno spirto, che si frega e frange
In quell'orride branche, ond'ei risuona.
    Ma sue parole quasi e sua favella

Tra l'acqua e 'l limo ha la loquace rana,
Delle paludi abitatrice immonda.
E questo avien perc'ha pulmone e lingua,
Di cui compiuta è l'una e l'altra parte:
La prima ha 'l modo pur degli altri pesci,
E l'altra ancor, che manda il roco suono,
Al gorgozzul s'attacca e si congiunge.
Ed ulular le rane, e gli altri ancora
Sotto l'acque s'udir pesci lascivi.
E l'ululare è un amoroso invito,
Onde il cupido maschio alletta e chiama
La femina consorte dolci nozze.
Ma 'l veloce delfino ha voce e suono,
Perch'ei non è senza pulmone e sangue;
Ma non ha lingua, ond'ei formi e distingua
Quel suon che s'ode mormorar su l'acque.
Ma ronfar già dormendo ancora udisti,
E dormir son veduti umidi pesci,
E quei che dura crosta involve e copre,
Benchè non abbian l'umide palpebre,
Le quai chinate nel soave sonno
Ricopron gli occhi a' notatori stanchi.
Ma dal placido lor queto riposo,
In cui sol mossa è la guizzante coda,
L'accorto pescator conosce il sonno.
Nè gli trafigge sol col suo tridente,
Ma con la cauta man gli palpa e prende.
E spesso preda fa di quei ch'affissi
Sono a gli scogli o nell'arene avolti,
O sotto un sasso o sotto il curvo lido
Dormono ascosamente o in imo gorgo.
In questa guisa è col pungente ferro
Presa l'orata; e 'l lupo altri percosse:
Si desta a pena, in così fisso ed alto
Sopore è immerso, e 'l fin del suo riposo
È col principio di sua morte aggiunto,
Anzi dal breve nel perpetuo sonno
Desto ei trapassa, e se n'avede a pena.
    Ma 'l veloce delfin, la grande e vasta

Balena, mentre dorme in mezzo all'onde,
Fuor dal sommo de l'acque inalza e sparge
La sua fistola cava, ond'ella spira,
E leggiermente le sue pinne intanto
Agita e muove. E nell'ombrosa notte
Via più che in altro tempo, il sonno a' pesci
S'irriga, e pur in sul meriggio estivo,
Allorchè pasce i favolosi armenti
Proteo nelle marine ampie spelunche,
Come creduto fu, le pistri e l'orche,
A cui fa l'alga immonda un pigro letto,
Dormono i lunghi giorni; e dorme appresso
L'indovino pastor, tre volte e quattro
Già numerate le squammose greggie.
Ma le favole antiche in altra parte
Han più opportuno loco. Io taccio adunque
Di Proteo e d'Arion, che tratto a riva
Dal veloce delfin, campò da morte.
E taccio ancora i mal creduti amori
Del pio delfino e del fanciullo estinto,
Per cui si dolse il suo marino amante,
E vinto al fin dal suo dolore insano,
Morì gemendo in su l'asciutta arena.
Ma se di ciò si nega a prisca fama
Credenza alcuna, almen di fede indegna
Non sia l'antica istoria, in cui si legge
Che la natura ancor pietate insegna,
Quasi maestra a' pesci e quasi madre.
Quinci al curvo delfin le gonfie mamme
Diede, perchè nudrisca i cari figli,
Anzi ei di nuovo ancor nel curvo ventre
Raccoglie i pargoletti; e si rientra,
Onde uscì prima, il non cresciuto parto,
Quando è più tempestoso il mar sonante.
Cresciuto poi fra le procelle e i nembi,
Securo apprende il gir per l'onde a nuoto,
Senza temer flutto spumoso o turbo,
Arte paterna. E pur col padre appare
Qual fida aita a' naviganti audaci:
Onde antivede il buon nocchiero accorto
L'orrida guerra de' contrari venti,
E drizza al porto l'agitata proda.
Ma qual canuto pescatore e lasso,
Ch'appo le rive del Tireno invecchi,
O del mar d'Adria o dell'Egeo canoro,
O lungo il Caspio o lungo il Ponto Eussino,
O 'n su' lidi vermigli, o dove inonda
Il gran padre Ocean Germani e Franchi,
Scoti e Britanni od Etiopi ed Indi;
Qual, dico, abbia ivi l'età fornita
Ne l'infeconde e solitarie arene
E 'ntorno a' cavernosi e duri scogli,
Or l'amo ed or le reti in mar gittando,
Narrar potria degli umidi notanti
Le tante sorti, in cui distinta e scevra
È lor natura e la progenie antica,
E ben mille maniere e mille modi
Di varia vita, e di costumi e d'opre
Pur variate, e lor diverse parti?
Perch'altri ne conosce il mar d'Egitto,
E l'Eritreo, che fa l'onde sanguigne,
Altri l'Ircano, e quel d'Assiri e Persi,
Altri quello in cui lava i piedi Atlante,
E quello in cui biancheggia Indo ed Idaspe,
Che sono al nostro mare o in tutto estrani,
Od in gran parte peregrini ignoti.
Quanti ancor ne produce in grembo e pasce
L'Ocean sotto l'Orse, o sotto il cielo
In cui più non appare il Carro e l'Orsa,
Che qui saria quasi mirabil mostro?
Ma pur da prima gli produsse in vita
Tutti egualmente la divina voce,
E 'n sì varie maniere anco distinse.
E quinci avien ch'altri nel primo parto
Manda fuor l'ovo, e nol riscalda e cova,
D'augello in guisa, e non si forma il nido,
Nè con molta fatica i figli ei nutre.
Ma l'acqua il peso in sè caduto accoglie,
E 'l fa vivo animal, che guizza e nuota.
Altri produce l'animal da prima.
    Nè come 'n terra 'l mulo, o pur nell'aria

Soglion molti meschiar l'incerta prole
Lascivi augelli, ma progenie immista
Si perpetua fra lor sempre feconda
Con legittime nozze. Se natura
Ha certe leggi, onde i consorti accoppia,
E se pur mesce la murena al fiero
Maschio serpente: l'un depone il tosco,
L'altra nol fugge, o 'l suo marito aborre.
Nulla sorte di pesci ha d'una parte
La bocca armata degli acuti denti,
Da l'altra affatto inerme e quasi ignuda,
Come ha fra noi la pecorella e 'l bue.
E niun pesce ancor, come si narra,
Suol ruminar omai sazio del pasto,
Se lo scaro ne traggi; e tutti a prova
Hanno in guisa di seca i bianchi denti
In due fila ristretti; e quinci e quindi
Vario e distinto è il cibo. Altri di fango
Si pasce e nutre, altri di fungi e d'alga,
Altri d'erbe marine over palustri,
O di quelle onde i fiumi han verde il fondo.
Ed altri corre frettoloso all'esca,
Che suol gittar nell'acque umana destra,
E pur di cibo uman vago si mostra;
Altri il pesce minor nell'amo ingoia.
La maggior parte pur de' pesci ingordi
Scambievolmente si divora e strugge,
E del maggior sempre il minore è pasto.
E spesso avien che nell'istesso modo
Quel che pur dianzi del minor satolla
Fece l'avida fame, or fugga invano
Il suo maggior, che lo persegue e scaccia,
E dal gran predator sia preso al fine,
Ed empia l'uno e l'altro il ventre istesso.
    E questo ancor fra noi più spesso incontra,

Perchè il possente, a cui fu dato in sorte
Sovra umil plebe il greve imperio e 'ngiusto,
Pasce de' più minuti avido il sangue,
E di qualunque gli è soggetto e servo.
E 'n che diverso è un fiero ingordo petto,
Ch'avara fame di ricchezze e d'oro
Stimola sempre e 'nsaziabil rende,
Dal gran mostro del mar, che mille e mille
Via men forti di lui persegue ed empie
Di lor la sua profonda alta vorago?
Già colui, fatto ingiurioso ed empio,
Del poverel vicino i beni ingombra;
E tu di lui, rapito e preso a forza,
Godi le prede; e le rapine antiche
Con tirannico dente e rodi e struggi,
E quasi parto a tue ricchezze aggiungi
Quel che 'n molt'anni egli usurpò rapace,
E 'n guisa tal più de l'avaro avaro,
E de l'ingiusto più n'appari ingiusto.
Guarda che non t'attenda il fine istesso,
Nel quale incappa e se medesmo avolge,
Mentre gli altri persegue, il pesce incauto,
Io dico amo pungente o nascia o rete.
Non fuggirai, non fuggirai superbo,
Dopo tanti altrui fatti iniqui oltraggi,
L'ultima pena, che sovrasta e tarda,
E qual sasso pendente al fin minaccia.
    Or d'un minuto animaletto e vile

Riconosci l'insidie e i falsi inganni,
E fuggi omai di frodi indegno esempio.
Il granchio la soave e dolce carne
Brama della marina e nobil conca,
Difficil preda e preziosa e cara,
Perch'a tenero cibo un duro vallo
Fece natura, e circondollo intorno,
E perchè in guisa si congiunge e serra
L'una con l'altra forte e salda testa,
Che non vi ponno entrar l'orride branche.
Che fa dunque egli? quando in mar tranquillo,
Sotto il sereno cielo al chiaro giorno,
De' dolci raggi e del soave aspetto
Gode la conca, e si dispiega e spande,
Allor quasi di furto egli nascoso
Un piccol sasso entro vi getta, e vieta
Ch'ella più si ricopra e si rinchiuda.
E 'n questa guisa della debil forza
Può adempire i difetti astuto ingegno.
Oh di malizia, e d'uomo iniquo e scaltro,
Ma pur di rozza e d'infeconda lingua
Maligno magistero e muta fraude!
Tu, se brami imitar l'industria e l'arte
Nell'acquistar, de' tuoi vicini il danno
Schiva, e non fare a' tuoi fratelli oltraggio.
Fuggi de' condennati il vile esempio,
E di povero aver contento e lieto,
La povertà, ch'a se medesma basti,
A' diletti molesti, a' servi onori
Umil preponi, all'alterezza, al fasto,
E di te stesso in te trionfa e regna,
Chè non han regno eguale o Sciti od Indi
    Nè del polipo indietro i furti io lascio

E i falsi inganni: chè se mai s'appiglia
A qualunque si sia marina pietra,
Egli repente si dipinge e veste
Di colori di quella, e lei rassembra.
Però se 'l pesce, che trascorre a nuoto,
Da' sembianti ingannato in lui s'aviene,
Pur duro sasso il crede in mare occulto,
E di leggiero è sua rapina e cibo.
Di tai costumi i lusinghieri accorti
Son ne' palagi de' possenti augusti
O de' regi sublimi, e 'n questa guisa
S'inchinan pronti ad onorar l'altezza
Della fortuna; e trasmutar se stessi
Sogliono in color mille e 'n mille forme,
Sì come l'uso o 'l tempo, o come chiede
La voglia del Signore o 'l suo diletto,
Varïando tenor, sembianti e gesti,
Parole e modi, e co' modesti insieme
Sono modesti, e sospirosi in atto
Co' più dolenti; e con gli allegri, allegri,
Protervi co' protervi. E legge e norma
Si fanno d'altrui senno e d'altrui gusto,
Talchè agevol non sembra, o leve cura
Schivar l'insidïoso e duro incontro
Di questi, in guisa che si cessi 'l danno,
Che l'empietà sotto il contrario aspetto
Della pietà suole apportar sovente.
Di tai costumi ancor rapaci lupi
Soglion vestir di mansueto agnello
Candido manto, e semplicetti in vista
Altrui mostrarsi. Fuggi, ah fuggi, amico,
Il costume sì doppio e sì perverso.
Segui la verità. Gradisci ed ama
Il sincero candor d'alma innocente,
E la non vïolata e pura fede.
    Vario è 'l serpente e l'angue; e quinci avenne

Che 'l condannò sentenza antiqua e giusta
A trar per terra steso il proprio corpo.
Sincero è il giusto, e nulla mente o finge,
Come Giacob. Però gli accoglie e loca
L'alto Signore in sua magione eterna.
Ma questo così vario e 'ncerto albergo,
Ove abitiam vivendo, e l'ampio mare
È grande e vasto, in cui serpenti e draghi
S'aggiran senza fine, e fieri mostri;
E 'n lui co' grandi son confusi e misti
I piccioli animali, e tutti insieme
Saggio governo e giusta legge affrena
I popoli natanti. Ed hai ben onde
Seguir d'alcun tu possa il raro esempio.
Non accusarlo sol, se vizio o colpa
Di natura imperfetta in lor conosci.
E prima tu non pensi, e non rimiri,
Come sian compartiti a' vaghi pesci
I proprj luoghi, e quasi i proprj alberghi,
E i proprj regni: onde da quello a questo
Non soglion trapassar, se non di rado,
Gli altrui campi usurpando e 'l letto e 'l cibo,
Ma tra' confini suoi quasi ristretto
Ciascun si spazia entro 'l sortito regno.
Nè geometra i lunghi spazi ed ampi
Divise lor, nè d'alte mura intorno
Circondò le magioni umide algenti,
Nè termine vi pose, e d'ogni parte
Quel che lor giova è largamente aperto,
E quasi destinato in propria sorte.
Questo sen questi pesci accoglie e nutre;
L'altro pasce quegli altri, e fiume o monti
Con l'aspre rupi, e con distesi gioghi
Non gli disparte, e non recide il passo.
Ma certa legge di natura a tutti
Divide con misura eguale e giusta,
Come è pro di ciascun, l'albergo e 'l loco,
Ove con gli altri ci si raduni e pasca,
E quel che basti in un sol giorno al vitto.
    Già tali non siam noi, del padre Adamo

Contaminata prole, e 'n Dio superba:
Perchè noi trasportiam de' padri antichi
I termini già affissi; ed ampio acquisto
Facciam pur sempre d'occupata terra,
Casa a casa giungendo, e campo a campo,
Città spesso a cittate, e regno a regno,
Ch'a' vicini si scema e toglie a forza.
Conobber prima le balene e l'orche
Il loco che natura a lor prescrisse,
E 'l preparato pasto; e 'l mar profondo
D'isole desolato oltre i paesi
Abitati occupar, dove non resta
D'alcuna parte più la stabil terra,
Dove più non appare o lido o monte,
Dove arar non si ponno i vasti campi
D'innavigabil mare, ove non giunse,
Spiando nuove genti e nuovi regni
E nuova gloria, il navigante audace.
Ove non prisca istoria o vecchia fama,
Non ardir, non pensiero umano ed alto
Del folle immaginar la nave approda.
Ma quel medesmo ignoto immenso mare
Ingombrâr le balene eguali a' monti,
Come si narra da' nocchieri esperti,
Nè d'isola o cittate oltraggio o danno
Da lor riceve, o la nemica forza
Provano unquanco ingiuriosa e 'nfesta,
Ma qualunque di lor maniera e sorte,
Quasi in città, quasi in contrada amica,
Anzi paterna, con antique leggi
Nelle parti del mare, ove sortilla
Voler divino, e sua natura accampa.
    Peregrinando ancor sen vanno i pesci,

E dalla patria in voluntario esilio
Son relegati in parte ignota e strana.
E si partono insieme accolti a stuolo,
E 'n guisa di guerrier, ch'al dato segno
Lascian le proprie tende e 'l primo campo,
Seguendo il suon della canora tromba,
Allor che 'l tempo destinato appressa,
Desti dalla possente antica legge
Della natura, e frettolosi e pronti
Verso il settentrione han volto il corso.
E gli vedresti, di torrente in guisa,
Correr dalla Propontide congiunti
Nel mar Eussino. Or chi gli move e regge?
Qual imperio di regi? o qual d'araldo
Al suon di trombe publicato editto
Il già prefisso tempo a lor dimostra?
Chi guida i peregrini? Or non conosci
L'ordine eterno, che penetra e passa
Per le minute parti, e il tutto adempie?
    Non fa contesa a la divina legge

Ubediente 'l pesce, e lei contrasta
L'uomo, indarno ritroso e ribellante.
Perchè sia muto, non avere a scherno
Il privo di ragion, chè via più folle
Se' tu, mentre ripugni all'alto impero
Del Re celeste. Odi la voce, ascolta
Del muto pesce le parole e i detti.
Perchè ci parla quasi il moto e l'opre,
Onde a peregrinar t'invita e desta,
Ed a lasciar torbido flutto amaro,
Cercando in altra parte acque più dolci
Ne' regni d'Aquilone, ove riscalda
Men co' suoi raggi il sol, e meno attragge
Delle sue parti più leggiere in alto.
Nè l'avaro desio di merci e d'auro
Lor move a trapassar i mari e i fiumi,
Come gli uomini suol, ma sol d'immista
E legittima prole amore e zelo.
    Ma ricerchiam perch'i giganti altieri

Più la natura non produce, e figlia
La terra pregna de l'orribil parto.
Ma d'elefanti ancora e di balene
Non si ripente. E se fatture ed opre
Son pur della divina eterna destra,
Son buone, e buone fur da lei prodotte;
Che le produsse grandi, a' monti alpestri
Ed all'isole eguali; e 'l nostro orgoglio
Volle abbassare, e darne alto spavento
Con quel sì monstruoso e fiero aspetto,
E con la smisurata orribil mole.
Perocchè Dio quando creò primiero
Tanti animali, e sì distinti e varj
E d'opere e di moto e di sembianti,
Altri a servirne gli produsse in terra
Per uso umano e ubedienti al nostro
Placido impero, e talor grave ed aspro.
Per sua grandezza e per sua gloria ancora
Alcuni altri produsse, e 'n lor dimostra
Quella, che fa gran cose, arte divina,
E divina virtù, che presso e lunge
Più e men chiaramente altrui risplende.
Ma de gl'industri Greci il folle ingegno
Le maraviglie del Signore eterno
Rivolse in gioco, ed adombrarle in parte
Volle con varie sue menzogne adorne;
Mentre descrisse oltre le mete e i segni
D'Alcide invitto i favolosi regni
Di que' felici, e le già illustri e conte
Isole Fortunate, e 'l lungo corso
Di temeraria nave, e ci dipinse
Lo smisurato pesce, e 'l vasto grembo
Che popoli diversi in sè rinchiude:
Talchè 'l profondo e tenebroso ventre
A le genti nemiche, all'arme infeste
È di battaglia un periglioso campo.
Ma le navi da' pesci in mar sommerse,
Anzi da un pesce solo il fero assalto
Fatto a mille superbe armate navi,
Favola non fu già, nè scherzo o gioco.
Nè favola è quel Giona in mar sommerso,
Ed inghiottito dal vorace mostro.
Ma de l'alto Signor l'alta possanza
Nelle picciole cose altrui si scopre,
Non sol nelle più grandi. Ecco trascorre
A vele piene e sparse il mar sonante
Con destro vento corredata nave;
E pesce minutissimo repente
Tarda e ritiene il suo veloce corso,
Come s'ella radici in mar profondo
Avesse fatte; e quinci al pesce il nome
Dal ritardar fu dato. E gran temenza
Non solo danno altrui balene ed orche,
O la sega marina acuta i denti,
O 'l cane o quella pur che spada assembra.
Ma tal pesce è nel mar, ch'alfine estinto
È spaventoso ancora, e 'n guisa punge
Che presta apporta inevitabil morte,
E la picciola ancor marina lepre
Repente ancide. E pur s'agguagli il danno
In paragon col pro, l'utile avanza,
E ci giova de' pesci ancor l'esempio.
    Ma se te stesso ben misuri e stimi,

Uom, tu sei pesce, e questa vita è il mare,
Ed a la rete che si lancia in alto,
E tanti varj pesci in sè raccoglie,
È somigliante il gran regno del cielo,
Che ne' suoi lacci ne raguna e stringe,
E poi gli eletti ne' suoi vasi accoglie,
Gli altri fuor gitta, e gli distingue e parte.
Così avverrà nel consumar del mondo
Che gli angeli usciran santi ministri
Del giudicio divino, e fian divisi
I rei da i giusti; e quei dannati al foco,
Questi a la gloria destinati in cielo.
Vi son dunque de' pesci e buoni e rei;
E 'l buon la rete non involve e lega,
Ma 'l leva in alto, e l'amo non l'ancide,
Ma d'innocente il bagna e puro sangue
Di piaga preziosa. Uom, tu sei pesce,
Tu sei quel pesce, a cui l'aperta bocca
Dimostrò la statera entro nascosa.
E 'l libero voler, che 'n te riserbi,
Son le bilancie tue distorte, o pari.
Uom, tu sei pesce; e 'l pescatore è Pietro,
O chi di Pietro ha qui sembianza e vece.
Questo mare è il Vangelo, in cui si fonda
La Chiesa, ch'è di Dio sacrato albergo.
Non temer, o buon pesce, o rete od amo,
Che non ancide altrui, ma sol consacra.
Se pesce sei, fuor delle torbide onde
Sorgi sublime, e 'l tempestoso flutto
Non ti sommerga, e s'è tempesta in alto,
Nuota sicuro o ti ricovra al fondo.
E s'è tranquillo il mar, fra l'onde scherza,
E s'è procella pur sonora e turbo,
Guarda che 'l nembo impetuoso e denso
Non ti percuota fra gli scogli al lito.
    Ma sorgi omai, sorgi dal mar profondo,

E 'l nostro ragionar dall'onde emerga.
Miriamo in alto, alziamo al cielo i lumi,
Veggiam mirabilmente il lido adorno;
Il sal tratto dall'onde in bianco marmo
Quasi indurarsi, e qual purpurea pietra
Rosseggiar sotto il cielo il bel corallo
Che dentro al mar fu molle e tenera erba,
E tra le conche biancheggiar lucente
La dura perla, e tra l'inculte arene
Fiammeggiar l'oro, e quasi care gemme
Di più colori le dipinte pietre.
Nutrito ancor nell'acque è l'aureo vello.
Ed ha l'onda i suoi fior, che sparge e porta
Sovra le sponde; e quivi il lucido ostro
Anco risplende. E ciò che i duci invitti
In lieta pompa trionfale adorna,
Ciò che s'adora ne' possenti regi,
O ne' purpurei padri oggi s'onora,
È bellezza e tesoro, e cara merce
Del mare, anzi del mar cortese dono.
Mille altre aggiunge ancor bellezze e feste,
E maritime vaghe altere pompe.
Spira il vento soave, e placida aura
Con dolce mormorar susurra e vaga,
E 'ncrespa l'onda, che spummoso argento
Pur tra gli scogli o presso al curvo lido
Somiglia, e spesso a' lucidi zaffiri
L'acqua profonda, ed a' soavi raggi
Del sol si tinge di piropo in guisa.
Le vele sparse ventilar lontano
Veggonsi biancheggiando a cento, a mille,
E 'n corso superar cavalli e carri.
E spiegar le famose insegne antiche
Dipinte navi, e co' pungenti rostri
Fender l'umili vie; guizzare intorno
Gli umidi pesci, e dimostrar sovente
Il veloce delfino il curvo tergo.
E liete rimbombare a suon di tromba
Le sponde e l'acque e gli arsenali, e i porti
Pieni di navi e d'altri in varie forme
Contesti legni. E bella antica mole
Far ampia strada a' cavalieri illustri,
E frenar di Nettun l'ira e l'orgoglio,
E i premi ancora, e l'onorate palme
De' vincitori io scorgo; e 'n varie antenne
La gloriosa inchino alta corona.
Ma già com'uom che dentr'al seno ondoso
Dell'Adrian si tuffi in lieto giorno,
E 'n celebrato onor di pompa antica,
E cerchi i più riposti oscuri fondi,
E i duri e sotto l'acque accolti scogli,
E i secreti che 'l mare asconde in grembo,
Per riportarne su gittata gemma
Tra' suoi purpurei padri al veglio duce;
Così dal suo profondo anch'io risorgo,
E da gli oscuri e tenebrosi abissi
La bella verità, ch'è più lucente
Di gemme onde abbian pregio Arabi ed Indi,
La bella verità, ch'ivi sommersa
Par che si giaccia, porto in chiara luce.
E pura a gli occhi de' mortali esposta
L'offro da contemplar; nè manto appanna
Le care membra o velo il crin adombra.
    Or da gli ondosi campi alzarmi a volo

A' ventosi de l'aria ardisco e tento.
Chi mi dà l'ale in guisa di colomba,
Perch'io sovra le nubi e sovra i venti
M'inalzi? e fra' volanti al ciel vicino
Mi spazj? Quel che sovra il ciel ne scorse,
M'affidi ancor, mi porti e mi sostegna
Per questo procelloso e 'ncerto regno
Della fortuna che si varia e cangia
In tante guise; e tanti alberga e pasce
Turbini e venti e pioggie e nevi e fiamme,
Ond'è turbato delli augelli il volo.
Era già ornato il cielo e pieno il mare,
Verdeggiavano i boschi e i prati e i monti,
Quando Dio comandò che sovra il suolo
Terrestre isser volando i vaghi augelli
Per l'aria, in cui s'accoglie e si condensa
Quell'umido vapor, ch'esala in alto
Dal freddo grembo dell'opaca terra.
Talchè repente gli animai pennuti
Ne l'aere incominciaro il volo e 'l canto.
E chi tra' muti pesci era pur dianzi
Desto, tra 'l suon di tanti augei canori
Or darà gli occhi in preda al pigro sonno?
    E neghittoso e lento a i vaghi augelli

Cederà nel lodare il Re superno,
O 'n render grazie a chi ci nutre e pasce?
Quelli due volte a prova e inanzi il giorno,
E quando il sol da sera i raggi accoglie,
E l'Orïente scolorito imbruna,
Fan di soavi note un bel concento.
Ed or tacita l'alba, e non sonoro
Trar vorrà l'uno e l'altro estremo tempo,
Che s'appella dal suono e 'n lui si chiude,
E s'apre il giorno strepitoso e 'ntento
A l'opre faticose de' mortali?
Ah non sia ver! Ma raccontiam seguendo
Del quinto dì le buone e nobili opre.
Sono a' pesci sembianti i vaghi augelli,
E tra 'l notante e 'l volatore alato
È quasi parentado: a quello il nuoto,
A questo il volo diè natura in sorte.
E l'uno e l'altro i liquidi sentieri
Con le sue penne seca e con la coda,
Or mossa alquanto, or quasi in giro attorta,
Che 'n vece di timon governa il corso.
Son diversi però, ch'a' pesci il cibo
Ministra l'onda instabile e vagante,
A gli augelli la ferma e stabil terra.
Però al notante necessarj i piedi
Non son, come al volante; e quinci avviene
Che questo n'è fornito, e quel n'è privo.
Ma pur al cocodrillo, il qual sovente
Scende a predar su l'arenose rive
Del Nilo, i corti piè natura diede.
Anzi i piedi dal suolo ebbero il nome,
Chè pedo il suol fu detto in greca lingua.
A l'incontra un augel per l'aria a volo
Si spazia, e sovra l'ali ognora il peso
Porta e sostiene del suo debil corpo,
A cui piedi negò l'alma natura;
Come gl'insegni nel sublime volo
A mirar alto, a disprezzar la terra,
E quinci porge esempio a nobile alma,
Ch'aspira al cielo e prende il suolo a scherno.
Questo a la rondinella appar simíle,
E tra sassi pendenti in verde speco
Si forma il nido di tenace fango,
In cui s'apre a gran pena angusto il varco:
Cipselo il nominò la Grecia antica.
Altri de' volatori han piedi in sorte,
Ma pur son male acconci al far rapina
Ed al cacciar il nutrimento, e l'esca
Cercar nell'aria. Annoverar fra questi
Si può la rondinella peregrina,
A cui di piedi in vece è il basso volo,
Che vicino al terren con l'ali il rade.
E quella ancor ch'è dell'erbose rive
Abitatrice, onde Riparia è detta.
Sono in molte altre guise ancor diversi
Gli augelli, e di grandezza e di figura,
E varj di color, varj di vita,
D'opere varïate e di costumi.
Ora lasciando a dietro i molti modi,
Ond'han le penne scisse, o insieme aggiunte,
Quasi di pelle o di vagina avolte,
O fuor di modo pur tenere e molli,
Dirò ch'altri sian puri ed altri impuri.
Quelle, innocenti e mansuete, in terra
Scelgono il vitto pur di seme o d'erba;
Queste son vaghe di più fero pasto,
Di cruda carne e d'atro sangue 'ngorde,
Però l'unghie pungenti, e curvo il rostro
Ebbero in vece d'armi, e penne al volo
Più de l'altre veloci: onde la preda
Sia tosto presa, e lacerata in parti.
E non si fa di queste o stormo o greggia,
Ma soglion le feroci andar solinghe
A la rapina, e sol l'accoppia e giunge
Amoroso desio di cara prole.
L'altre raccolte sono in varj stormi,
D'amica compagnia bramose e liete,
Secure no: chè le perturba e sparge,
E spesso ancide il predator rapace.
E tali son le candide colombe,
A cui sì prezïoso e bel monile
Fa la natura di colori e d'auro,
E le grù peregrine e i magri storni.
Di questi, altri soggetti a grave impero
Non sono, e 'n libertà tranquilla vita
Vivon, quasi con proprie antiche leggi.
Altre hanno 'l duce, ed ordinate a squadre
Seguon la scorta lor per l'aria a volo.
Altre son proprie abitatrici antiche
Del suol nativo; altre volar da lunge
Sogliono in terra estrana, e 'n altro clima
Cercar più caldi soli inanzi al verno.
Altre ritornan pur co' freddi giorni,
Peregrinando a la stagione estiva.
Tornano al fin d'autunno i tordi a volo
Nel tepido confin del verno algente,
Dove son tesi lor ben mille aguati
Nell'inospite terra. Altri l'inganna
Con l'infedele e insidiosa gabbia.
Alcun le prende col tenace visco,
E nelle reti alcun gl'involge e lega.
E la cicogna ritornando, innalza
La primavera le sue verdi insegne.
Altri son della mano a' vezzi avezzi,
Che dolcemente li lusinga e molce,
Ed a la mensa del signore usate.
Altri son timorosi; e i dolci nidi
Fann'alcun'altri ne gli umani alberghi.
Altri selvaggie quasi e quasi alpestri,
Prendono i luoghi solitarj in grado.
Ma gran varietà la voce e 'l suono
Fa ne' volanti augelli, e gran divaro.
Altri taciti sono, altri loquaci;
Senza musica alcuni e senza canto,
Alcun'altri canori. Ad altri insegna
D'assomigliar del suono i varj accenti
La natura maestra, e l'uso e l'arte.
E la pieghevol voce in dolci modi
Inchina ed alza; altri ritrosi, indotti,
Con perpetuo tenore in un sol tono
Mandan fuor sempre l'immutabil voce.
È pomposo il pavon, superbo il gallo,
È la colomba placida e lasciva,
È la pernice perfida e gelosa,
Ch'a depredare i cacciatori aiuta.
Amano alcune di raccorsi insieme,
E congiunger le forze e i cari alberghi,
Quasi in una città comune a tutti,
Sotto un lor proprio re. L'imperio e 'l fasto
Ricusan altre del signor superbo,
Talchè ciascuna a sè provede e pensa.
    Sia da quegli il principio, onde l'esempio

Prendiam per l'uso de l'umana vita.
Comuni han l'api le cittadi, e i tetti
Di molle cera e l'odorate celle;
Comune il volo e la fatica, e l'opre
Di mirabil lavoro, e i conti paschi;
E comune hanno ancor la prole e i figli,
Che non son nati in doloroso parto
D'amor lascivo, il qual congiunge e mesce
L'affaticate insieme immonde membra,
Ma con la bocca fuor succhiati e scelti
Da gli odorati e rugiadosi fiori.
Poi tutte insieme in bella schiera accolte
Sotto un ordine solo, un solo impero
Seguon d'un re, ch'è venerato a prova.
E non sostiene alcuna uscire a' prati,
D'erbe vestiti e di bei fior dipinti,
Se prima il re non incomincia il volo.
E non è questo re per caso eletto,
O per fortuna, che sovente inalza
A somma podestà l'indegno e 'l vile;
Nè per giudicio de l'errante volgo,
Nè come erede de l'antico regno
Degli avi antichi nel superbo soglio
S'asside, gonfio del paterno fasto,
E 'ntenerito da lusinghe e vezzi,
Ne l'arti peregrine incolto e rozzo.
Ma per natura il nobil regno acquista,
E da natura ha le reali insegne
D'oro lucenti, onde s'adorna e splende;
E gli altri di grandezza e di figura
E di costumi mansueti avanza.
È ben d'aculeo il re pungente armato,
Ma l'aculeo non usa in far vendetta:
Perchè son leggi, non in breve carta,
Od in aride foglie o 'n frale scorza,
O 'n durissima pietra impresse e scritte;
Ma da natura entro le menti infisse,
Ch'ove è più di possanza e di valore,
Più vi sia di clemenza e di pietate.
Ma qualunque de l'api il re non segue
O pur si mostra in obedir ritrosa,
Del temerario ardir tosto si pente
O di sua tracotanza, e sente il colpo
Del proprio aculeo, ond'è trafitta e more:
Fiero castigo in se medesmo ed aspro,
Che già soleano usar gli antichi Persi,
Dando a se stessi volountaria morte.
Nïun barbaro re di Persi o d'Indi,
O di Sarmati pur, o nuovo o prisco,
Con tanta riverenza al regio scettro
Vide inchinarsi i popoli devoti,
Quanti ne vede nel minuto stuolo
Il fortunato re de l'api industri,
Che l'arme, onde natura il fece adorno,
Non opra ne' soggetti e negli umíli.
    Odan di Cristo i servi, a' quali è imposto

Che non si renda mai per male il male,
Ma che nel bene il mal s'avanzi e vinca.
Odan de l'api caste il santo esempio,
Nè d'imitarlo alcun si prenda a sdegno:
Ch'ella nel procurarsi il proprio vitto
Non guasta l'altrui cibo e nol corrompe,
Ma di cera si finge i dolci alberghi,
La qual da varj fiori accoglie e mesce.
E pur di fiori l'ingegnosa, e d'erbe
D'ogn'intorno spiranti il vario odore,
Loca a la sua capace angusta reggia
I primi fondamenti, e sovra asperge
D'umor celeste rugiadose stille,
Liquido prima, e poi tenace e denso.
E con cera sottil divide e parte
Minutissime celle, a cui di sovra
La somma parte, ch'è pendente e cava,
Fa testudini e volte; e l'una all'altra
S'appressa in guisa tal ch'aggiunte e scevre
La vicinanza lor distringe e lega
Più forte insieme la tenace mole,
E fa non ruinoso a lei sostegno:
Sì che può sostenere il dolce peso,
E ritener che giù non caggia il mele.
E ben si mostra l'ingegnosa pecchia
Architetto nell'opra e nel lavoro
Maraviglioso, e saggia, e dotta a pieno
Di quanto il geometra insegna e trova.
Perchè formò le celle in giusto spazio
Con sei angoli tutte e fianchi eguali,
E non per dritto l'uno all'altro appoggia,
Ma quelle infime sedi in guisa adatta
Alle sovrane sue concave parti,
Che nulla ne patisce il sommo e l'imo.
    Ma come annoverar potrò narrando

De' cari augelli le sì varie vite?
L'estrane gru dentro l'adunco piede
Portano il sasso, onde si folce e libra
Tra l'aure incerte l'agitato volo,
Mentre ne' giorni nubilosi e brevi,
Lasciando a dietro il Termodonte o l'Ebro,
Passano i larghi mari; e 'n su l'apriche
Sponde soglion vernar de l'ampio Nilo.
Tal per savorra in mar tra' venti e l'onde,
Altre rive cercando ed altre parti,
Regge il suo corso la spalmata nave.
Queste han di notte sentinelle e scorte,
Che mentre l'altre in placida quïete
Dormon sicure, van girando intorno;
E le notturne insidie e i venti e l'aure
Spian da tutte parti impigre e pronte.
E poi fornita quella guardia, e 'l tempo
Di lor vigilia, al suon quasi di tromba
Destan gli addormentati; e gli occhi al sonno
Danno per breve spazio, e 'n quella vece
Altri succede al faticoso ufficio.
Una precede l'altre, e quasi avanti
L'alte insegne precorre; e poi si volge
Nel tempo dato, e la sua sorte e 'l loco
Che si conviene al duce, altrui concede.
Dimostran molto di ragione e d'arte
Le cicogne, e 'n tal guisa al tempo istesso
Quasi a spiegate insegne in queste parti
Vengon da più lontano ignoto clima.
E le nostre cornici amica guardia
Lor fanno intorno, in ampio stuol congiunte.
E son fidata scorta al lungo volo
Contra la forza de' nemici augelli,
Come soglion guerrieri inglesi e scoti,
O germani ed iberi uniti in lega.
Ed in quella stagione in loco alcuno
Non ci appar la cornice, e poi ritorna
Tinta le piume d'onorate piaghe,
E del già dato aiuto i segni mostra.
    Deh chi descrisse lor sì certe leggi

Di sì pietoso officio? o chi minaccia
Sì grave accusa o pur sì giuste pene
A chi gli ordini fermi, e 'l proprio loco
Per viltate abbandona in guerra o 'n campo?
Quinci prendete esempio, egri mortali,
E l'uomo impari da gli augei volanti
Quai degli ospiti sian le giuste leggi,
Nè chiuda avaro albergator superbo
Le dure porte a' peregrini erranti
A mezzanotte, o lor dinieghi il cibo;
Se per gli estrani augelli i nostri augelli
Non ricusan d'espor la vita in guerra,
E de' perigli altrui si fan consorti.
E qual altra cagion di fiera morte
In Sodoma versò di fiamme ardente
Dal ciel turbato spaventosa pioggia,
Che la ragion del violato albergo
Sprezzata e rotta, e quell'iniquo oltraggio?
Ma la pietosa Providenzia e cara,
La qual delle cicogne a' vecchi è mastra,
Destar ben può de' figli il dolce amore
Verso gli antichi loro e stanchi padri.
Quelle d'intorno al genitor languente,
A cui per lunga età cadere a terra
Sogliono i vanni e le minute piume,
Stanno pietose. E le già afflitte membra,
E nude di pennate e lievi spoglie,
Scaldano al volator lassato e grave
Soavemente con le proprie penne;
E gli portano il cibo ond'ei si pasca,
E sollevano ancora e quinci e quindi
Con l'ali il tardo veglio, e 'n questa guisa,
Le disusate membra all'uso antico
Già richiamanti, danno aiuto al volo.
    Ma qual fra noi di sollevar l'infermo

Padre non sembra fastidito e lasso?
Chi n'impone a le spalle il grave pondo?
Quel ch'è creduto nell'istorie a pena.
E non più tosto disdegnoso e schivo
A l'altrui braccia le caduche membra
Commette, e 'l mal locato officio a' servi?
Ora prendiam lodato e caro esempio
Di materna pietate, e non si dolga
Di povertate o di miseria alcuno,
Nè della vita sua dispere e pianga,
Mentre riguarda il magistero e l'opre
Della pietosa rondinella industre.
La rondinella di minuto corpo,
Ma di sublime egregia e chiaro affetto,
Povera e bisognosa, il proprio nido
Ella medesma pur compone e finge,
Prezioso via più di gemme e d'auro:
Perchè d'ogni tesoro è vile il pregio
A lato a quell'albergo, in cui s'annida
La sapienza. E ben è saggia e scaltra,
Mentre ella del volar mantiene e serba
La vaga libertate, e nutre e cresce
I pargoletti ancor teneri figli,
Securi dall'insidie e dagli assalti
Degli altri augei, sotto i sublimi tetti
Là dove l'uom ricovra, e per usanza
Al conversar uman così gli avezza.
È mirabile ancor l'ingegno e l'arte,
Onde a se stessa le sue proprie case
Fa senz'aita d'architetto o fabro;
E le festuche pria prepara e sceglie,
E le cosparge di tenace fango
Per congiungerle insieme, e se coi piedi
Non può in alto portar tenero limo,
L'ali d'acqua si sparge, e poi di polve
Arida e leve, ond'ella fa di nuovo
La fangosa materia all'umil casa.
Con questa, quasi colla, aggiunge insieme
Le già scelte festuche, e di lor forma
Il nido a' figli; a cui se gli occhi accieca,
Pungendo alcuno, ella il perduto lume
A' ciechi rende con la medica arte.
Or chi di povertà si lagna e plora,
Miri la rondinella, e grazia speri
Da quel Signor, ch'a lei sì larga dote
Diede, e sì ricco don d'arte e di ingegno,
Onde di povertate e di fortuna
Ogni sciagura, ogni difetto adempie
In sì lodata e sì felice inopia.
L'alcione, del mar picciol augello,
Forma di palla in guisa il dolce nido
D'arido fior, che 'l mare in sè produce:
E i pargoletti figli a mezzo il verno
Dalla tenera scinde e frale scorza
Ne l'arenoso lito, in cui depone
De l'ova il caro suo portato peso.
E questo avien quando da fieri venti
Il mare a terra si percote e frange,
E biancheggiando di canuta spuma
Sparge le molli arene e i duri scogli.
E de l'alcione al desïato parto
È sopito il furor d'orridi venti,
Son quete l'onde tempestose, e 'ntorno
Sgombre le nubi, e serenato il cielo
In sì tranquillo e sì felice aspetto
De' fidi augelli a la progenie arride.
E 'n sette prima di sì lieti giorni
Suol covar l'ova la pennata madre,
Ne gli altri sette nutre i nati figli.
Ed a questi ed a quelli ha imposto il nome
Da l'alcïone il navigante esperto,
Ed al candor del lucido sereno
Da tutti gli altri li distingue e segna.
Questo ci rassicuri e ci conforti,
Perchè chiediamo a Dio le grazie e i doni;
Lo qual, se 'n grazia d'un minuto augello
L'orribil placa e grande e vasto mare
In mezzo al tempestoso ed aspro verno,
E lo ritiene e 'l fa tranquillo e piano,
Che farà, s'egli intende al nostro scampo?
O se provede all'uom suo figlio eletto,
Di sua divinità sembiante immago?
    La tortorella dal suo amor disgiunta

Non vuol nuovo consorte e nuovo amore,
Ma solitaria e mesta vita elegge
In secco ramo, e 'n perturbato fonte
La sete estingue; e del marito estinto
Così rinuova la memoria amara.
A lui sua castità conserva e guarda,
A lui di moglie ancora il caro nome,
Perchè solver non può l'iniqua morte
Le sante leggi di vergogna, e i patti
A cui s'astrinse voluntaria in prima.
Quinci la vedovella esempio prenda,
Nè baldanzosa a le seconde nozze
S'affretti, e tuffi nell'oblio profondo
L'amor suo primo e la sua prima fede.
    L'aquila in allevar la nobil prole

È via più d'altro disdegnosa e 'ngiusta:
Chè di tre figli i duo percote e scaccia
Con gli aspri colpi de' suoi duri vanni,
E 'l terzo alleva, a cui non manchi il cibo,
Che suol rapire il predator volante.
E forse altra cagion più bella e giusta,
Non avarizia del nutrir la spinge,
Ma severo giudicio, onde riprova
(Com'a lei non convenga) indegno parto,
Perchè volge i suoi figli inverso il sole
Sospesi in aria nell'adunco artiglio;
E quel che non dechina a' raggi ardenti
La ripercossa vista e 'l debil guardo,
Ma intrepido nel sol l'affissa e ferma,
È scelto a prova, e gli altri aborre e sdegna
Pur come indegni di reale onore,
Con quel suo generoso e gran rifiuto.
Ma gli scacciati entro 'l suo nido accoglie
Quella che rompe l'ossa, e quinci il nome
Prende, od aquila sia bastarda, e nata
Di genitor diforme, od altro augello;
Nè gli lascia perir d'orrida fame,
Ma co' suoi figli lor nutrisce e serba.
E tali son quei duri acerbi padri,
Che espongono i bambini, o sono iniqui
Nel compartir fra' suoi l'avere e l'esca.
E tutti quei c'hanno l'artiglio adunco,
Allor ch'i figli timidetti il volo
Tentan primiero, e spiegan l'ale a pena
Con mal sicure ancora e 'ncerte penne,
Gli spingon tosto dal paterno nido;
E s'alcuno al partir è tardo e lento,
Con l'ali sue percosso e ripercosso
Precipitando 'l caccia il fiero padre.
Ma verso i figli suoi l'amore e 'l zelo
Della cornice assai di laude è degno,
Che 'n atto di pietosa e fida madre
Conduce nel lor primo ardito volo
La debil prole; e lor ministra 'l cibo
Lunga stagion, perchè s'avanzi e cresca.
E molti sono ancora e varj augelli,
Cui non fa d'uopo, in generare, il maschio,
Come gravidi sian di vento e d'aura.
Ma son poscia infecondi i nati figli,
Nè fan perpetua la ventosa prole
D'Euro i nepoti, o pur di Noto e d'Austro.
Ma senza mescolarsi, e senza coppia
Di maritale amor concepe e figlia
L'avoltoio, che sì tardi a morte giunge
Meraviglioso al mondo e raro mostro,
E col secolo suo la vita agguaglia.
    Or se deride alcun gli alti misteri

Della nostra divina invitta fede,
Nè creder può che da' virginei chiostri
De l'intatta Regina il figlio uscisse,
Di sua virginità servando il fiore,
Miri qual dia famoso e certo esempio
A le cose divine alma natura.
E quel che può nell'aria augel volante,
Possibil creda a Dio, che puote il tutto.
E i medesmi avoltoi presagio e senso
Hanno quasi divino, ond'è prevista
De' guerrieri la morte; anzi talvolta
Sogliono accompagnar l'armate squadre,
Antevedendo la sanguigna strage
De l'orrida battaglia e 'l fin dolente.
Ma chi potria delle locuste a pieno
Gli spaventosi eserciti narrarti?
Ch'ad un quasi di guerra orribil segno
Sogliono a schiere sollevarsi in alto,
Ed accamparsi ed ingombrar d'intorno
Quanto è 'l largo paese; e i dolci frutti
Pria non toccar, che dal sovrano impero
Lor sia permesso il depredare i campi?
Debbo anco dir come al meriggio estivo
Le canore cicale i verdi boschi,
Quasi nel petto avendo interna lira,
Faccian sonar con quei continui accenti?
O come incontra al sol ripari e schermi
Di luoghi tenebrosi e d'ore tarde
Cerchi l'augel, che dall'antica Atene
A la sua diva fu nutrito e sacro?
E come ei solo infra gli augei volanti
Adopri i denti, e in quattro piè si fermi,
Benchè due n'abbia l'africano augello,
C'ha sì gran corpo e di sì grave peso?
Sovra due tanti egli il leggiero appoggia,
E l'ali sue quasi di cuoio dispiega;
E come penda l'un dall'altro avvinto,
Quasi catena inanellata e lunga,
E 'n questa guisa pur, natura, insegni
Di scambievole amore i fermi nodi.
E come gli occhi de l'augel notturno
Sian somiglianti ad uom, che tutto intenda
D'umana sapienza a' vani studi?
Perchè di quello in tenebroso orrore
La vista è forte, e poscia ha lumi infermi
Là dove il sol le tenebre disperda.
Così di questi appare acuto ingegno
Nel vano contemplar, ma in vera luce
La debil mente imbruna e tutta adombra.
Debbo anco dir come ti svegli all'opre
Di canoro augelin l'acuta voce,
Che lunge intuona e 'l sol richiama, e desta
Il peregrin e 'l buon cultor de' campi,
L'uno al suo faticoso aspro vïaggio,
L'altro a secar le già mature spighe?
O dir come ne rompa il dolce sonno,
E n'inviti a vegghiar con fida guardia
Contra l'insidie d'avversario antico
Il tardo augel, che già sottrasse al rischio
La gran città, del mondo alta regina,
A lei scoprendo la notturna fraude,
E 'l barbaro crudel nell'ombra occulto,
Che per oscure vie saliva in alto
A quel suo trionfale altero monte,
Ove già sorse in maiestate augusta
Alta rocca all'imperio, a Giove il tempio?
O descriver deggio io del bianco cigno
Il divino presagio e 'l dolce canto
Anzi l'antiveduta e lieta morte,
Onde l'alma immortal s'affida e spera
Farsi là sovra 'l ciel per grazia eterna?
O del verme indiano, a cui natura
Mirabilmente fa le corna e l'ali,
Espor sì varie e sì cangiate forme?
Però voi che sedendo, illustri donne,
Tessete e ritessete in tronchi e 'n fiori
E 'n più maravigliose altre figure
Prezïoso lavoro, e cari stami
Da lunge a voi mandati infin da gl'Indi,
Per adornar di vaga e molle veste
Le care membra; voi nell'opra, o donne,
Dovete richiamar nell'alta mente
Quel che altre volte ragionare udiste:
Che risorger debbiam, ripreso il manto
Di nostra umanitate, e farci eterni.
Tutte vestite allor di luce e d'auro
Risplenderete al Sol che l'alme illustra,
Assise in gloriosa ed alta sede,
E d'altro ornate che di perle e d'ostro.
    Or a te mi rivolgo, e tu supremo

Fra gli altri onore avrai ne gli alti carmi,
Immortal, rinascente, unico augello.
E questo fia quasi odorato rogo
Di chiare laudi, in cui la fama antica
Si rinnovi nel mondo e l'ali spanda,
E per questo sereno e puro cielo
Lieta si spazj e gloriosa a volo,
A scherno avendo omai gli arabi monti.
    Dio fra gli altri dipinti e vaghi augelli

Quel dì che prima dispiegar le penne
Per l'aria vaga al suon dell'alta voce,
Fè la fenice ancor, come si crede,
Se pur degna di fede è vecchia fama.
E 'n sì mutabil forma il Padre eterno
Di mortal, rinascente, unico augello
Figurar volle quasi in raro esempio
L'immortal, e rinato, unico Figlio,
Che rinascer dovea, come prescrisse,
Quando ei ne generò l'eterno parto.
    Loco è nel più remoto ultimo clima

De l'odorato e lucido Orïente,
Là dove l'aurea porta al ciel disserra
Uscendo il sol, che porta in fronte il giorno.
Nè questo loco è già vicino all'orto
Estivo, o pur all'orto onde si mostra
Il sol cinto di nubi a mezzo il verno;
Ma solo a quello ond'ei n'appare ed esce
Quando i giorni e le notti insieme agguaglia.
Ivi si stende negli aperti campi
Un larghissimo pian; nè valle o poggio
In quell'ampiezza sua dechina o sorge,
Ma quel loco è creduto alzare al cielo
Sovra i nostri famosi orridi monti
Sei volte e sei la verde ombrosa fronte.
E quivi senza luce al sole è sacra
Opaca selva, e con perpetuo onore
Di non caduche fronde è verde il bosco,
Che l'ondoso Oceán circonda intorno.
E quando de l'incendio i segni adusti
Nel ciel lasciò nel carreggiar Fetonte,
Securo il loco fu da quelle fiamme.
E quando giacque in gran diluvio il mondo
Sommerso, ei superò l'orribili acque.
Nè giungon quivi mai pallidi morbi,
O pur l'egra vecchiezza o l'empia morte,
Non cupidigia o fame infame d'oro,
Non scelerata colpa, o fiero Marte,
O pure insano amor di morte iniqua.
Sono l'ire lontane e 'l duolo e 'l lutto,
E povertà d'orridi panni involta,
E i mal desti pensieri, e le pungenti
Spinose cure, e la penuria angusta.
Quivi tempesta o di turbato vento
Orrida forza il suo furor non mostra,
Nè sovra i campi mai l'oscure nubi
Stendono il negro e tenebroso velo,
Nè d'alto cade impetuosa pioggia.
Ma in mezzo mormorando un vivo fonte
Lucido sorge e trasparente e puro,
E d'acque dolci e cristalline abonda,
E ciascun mese egli si versa e spande,
Talchè dodici volte il bosco irriga.
Quivi alza i rami da sublime tronco
Arbor frondoso, e non caduchi e dolci
Pendono i pomi tra le verdi fronde.
Tra queste piante e 'n quella selva alberga
Appresso il fonte l'unica fenice,
Che della morte sua rinasce e vive:
Augello eguale a le celesti forme,
Che vivace le stelle adegua, e 'l tempo
Consuma e vince con rifatte membra.
E come sia del sol gradita ancella,
Ha questo da natura officio e dono,
Che quando in cielo ad apparir comincia
Sparsa di rose la novella aurora,
E dal ciel caccia le minute stelle,
Ella tre volte e quattro in mezzo all'acque
Sommerge 'l corpo, e pur tre volte e quattro
Liba quel dolce umor del vivo gorgo.
Poscia a volo s'inalza, e siede in cima
De l'arbore frondosa, e quinci intorno
La selva tutta signoreggia e mira.
Ed al nascer del sole indi conversa,
Del sol già nato aspetta i raggi e 'l lume.
Ma poichè l'aura di quel lucido auro,
Onde fiammeggia il sol, risplende e spira,
A sparger già comincia in dolci modi
Il sacro canto; e la novella luce
Con la mirabil voce affretta e chiama.
A cui voce di Cinto, o di Parnaso
Dolce armonia non si pareggia in parte,
Nè di Mercurio la canora cetra
L'assembra, nè morendo il bianco cigno.
Ma poichè Febo del celeste Olimpo
Trascorre i luminosi aperti campi,
E per quell'ampio cerchio intorno è volto,
Ella tre volte ripercossa al petto
L'ali d'oro e dipinte, al sol applaude
Con non errante suon la notte e 'l giorno.
E la medesma ancor parte e distingue
L'ore veloci, e quella accesa fronte,
Venerata tre volte, alfin si tace,
Pur come sia del sacro oscuro bosco,
E di que' tenebrosi ed alti orrori
Sacerdote solinga, a cui son conti
I secreti del cielo e di natura:
Però di riverenza e d'onor degna.
Ma poi forniti cento e cento lustri,
Ne la vetusta età più grave e tarda,
Ella che già passare a volo i nembi
Poteva e le sonore atre procelle,
Per rinnovar la stanca vita, e 'l tempo
Chiuso e ristretto pur da spazi angusti,
Fugge del bosco usato il dolce albergo.
E di rinascer vaga, i lochi sacri
Addietro lascia, e vola al nostro mondo,
Ove ha suoi regni l'importuna morte.
E già drizza invecchiata il lento volo
In quella di Soria famosa parte,
A cui diede ella di Fenice il nome.
E di selve deserte ivi ricerca
Per non calcate vie secreta stanza,
E si ricovra nell'occulto bosco.
Ed allor coglie de l'aereo giogo
Forte palma sublime, a cui pur anco
Compartì di fenice il caro nome;
Cui romper non potria co' feri denti
Serpe squammosa o pur augel rapace,
Od altra ingiurïosa orrida belva.
E chiusi allor ne le spelunche i venti
Taccion fra cavernosi orridi chiostri,
Per non turbar co' lor torbidi spirti
Del bell'aer purpureo il dolce aspetto.
Nè condensata turbo i vani campi
Del ciel ricopre, ed al felice augello
Toglie la vista de' soavi raggi.
Quinci il nido si fa, sia nido o tomba
Quello in cui pere, onde rinasca e viva
L'augel, che di se stesso è padre e figlio,
E se medesmo egli produce e cria.
Quinci raccoglie della ricca selva
I dolci succhi e i più soavi odori,
Che scelga il Tiro o l'Arabo felice,
O Pigmeo favoloso od Indo adusto,
O che produca pur nel molle grembo
De' Sabei fortunati aprica terra.
E quinci l'aura di spirante amomo,
Con le sue canne il balsamo raguna;
Nè cassia manca o l'odorato acanto,
Nè de l'incenso lagrimose stille,
E di tenero nardo i nuovi germi,
E di mirra v'aggiunge i cari paschi.
Quando repente il varïabil corpo,
E le già quete membra alluoga e posa
Nel vital letto del felice nido,
E nel falso sepolcro ardente cuna
Al suo nascer prepara, anzi la morte.
Sparge poi con la bocca i dolci sughi
Intorno, e sovra a le sue proprie membra.
Ivi l'essequie sue si fa morendo,
E debol già con lusinghieri accenti
Saluta il sole, anzi l'adora e placa.
E mesce umil preghiera all'umil canto,
Chiedendo i cari incendi, onde risorga
Col nuovo acquisto di perduta forza.
Fra varj odori poi l'alma spirante
Raccomanda al sepolcro, e non paventa
L'ardita fede di sì caro pegno.
Parte di vital morte il corpo estinto
S'accende, e l'ardor suo fiamme produce,
E del lume lontan concepe il foco,
Ond'egli ferve oltra misura e flagra,
Lieto del suo morir, perchè veloce
Al rinascer di nuovo egli s'affretta.
Splende quasi di stelle ardenti il rogo,
E consuma il già lasso e pigro veglio.
La luna il corso suo raffrena e tarda,
E par che tema in quel mirabil parto
Natura, faticosa e stanca madre,
Che non si perda l'immortale augello;
Ma di gemina vita in mezzo il foco
Posto il dubbio confin distingue e parte.
Nelle ceneri aduste alfin converso,
Le sue ceneri accolte egli raduna
In massa condensate, e quasi in vece
È l'occulta virtù d'interno seme.
E quinci prima l'animal ci nasce,
E 'n forma d'ovo si raccoglie in giro.
Poi si riforma nel primier sembiante,
E dalle nuove sue squarciate spoglie
Alfin germoglia l'immortal fenice.
Già la rozza fanciulla appoco appoco
Si comincia a vestir di vaga piuma,
Qual farfalla talvolta, a' sassi avvinta
Con debil filo, suol cangiar le penne.
Ma non ha per lei cibo il nostro mondo,
Nè di nutrirla alcun si cura intanto,
Ma celesti rugiade intanto liba,
Dall'auree stelle e dall'argentea luna
Cadute in cristallina e dolce pioggia.
Queste raccoglie, e fra ben mille odori,
Sin che dimostri il suo maturo aspetto
Nelle cresciute membra, indi si pasce.
Ma quando giovinetta omai fiorisce,
Fa volando ritorno al primo albergo.
E quel ch'avanza del suo corpo estinto
E de l'aduste e 'ncenerite spoglie,
Unge di caro ed odorato succo,
In cui balsamo solve e incenso e mirra,
E con pietosa bocca indi l'informa,
E tondo 'l fa, sì come palla o sfera,
E portandol co' piedi, al lucido orto
Si rivolge del sole, e 'l volo affretta.
E l'accompagna innumerabil turba
D'augei sospesi, e lunga squadra e densa,
Anzi esercito grande intorno intorno
Fa quasi nube, e 'l volator circonda.
Nè di tanti guerrieri alcuno ardisce
Al peregrino duce andare incontra,
Ma de l'ardente re le strade adora.
Non il fero falcone ardita guerra
Gli move, o quel ch'i folgori tonanti
(com'è favola antica) al ciel ministra.
Qual le sue barbaresche orride torme
Scorgea dal fiume Tigre il re de' Parti,
Di preziose gemme e d'aurea pompa
Altero, e di corona il crine adorno,
Purpureo il manto, ch'è dipinto e sparso
Dal lago di Soria di perle e d'oro,
E col fren d'oro al suo destrier spumante
Regger soleva il polveroso corso
Per la città d'Assiria alto e superbo,
Ov'ebbe fortunato ed ampio impero;
Tale ancor va maraviglioso in vista
L'augel rinato, e con reale onore
E real portamento i vanni ei spiega.
Il color è purpureo, onde somiglia
Il papavero lento, allor ch'al cielo
Le sue foglie spargendo al sol rosseggia.
Di questo quasi velo a lui risplende
Il corpo, la cervice, il capo e 'l tergo.
Sparge la coda che di lucido oro
Rassembra, e d'ostro poi macchiata e tinta.
Nelle sue penne ancora orna e dipinge
Pur come in rugiadosa e curva nube,
L'arco celeste, in cui si varia e mesce
Verdeggiante smeraldo a' bianchi segni,
Ed a gli altri cerulei e vaghi fiori.
Ha duo grandi occhi eguali a duo giacinti,
E riluce da lor vivace fiamma,
E pur gemma somiglia il rostro adunco.
La testa le circonda egual corona,
Come la cinge al sol co' raggi ardenti.
Son le gambe squammose, e d'or distinte
L'unghie rosate, e la sua forma illustre
Tra quella del pavon mista simiglia,
E dell'augel che 'n riva al Fasi annida.
Grande è così, ch'a pena augello o fera
Nata in Arabia, sua grandezza agguaglia;
Pur non è tarda, ma veloce e pronta,
E con reale onor nel ratto volo
La regia maiestate altrui dimostra.
    Del verde Egitto una cittate antica

Ne' secoli primieri al sol fu sacra:
Quivi sorger solea famoso tempio
Di ben cento colonne altero e grande,
Già svelte dal tebano orrido monte.
E quivi, come è fama, il ricco fascio
Repor solea sovra i fumanti altari;
E 'l caro peso destinato al foco,
A le fiamme credea, tre volte e quattro
Adorando del sol l'ardente immago.
Fiammeggia il seme acceso, e 'l sacro fumo
Con odorate nubi ondeggia e spira,
Tal ch'egli aggiunge a gli stagnanti campi
Di Pelusio, e spargendo odori intorno,
Di sè riempie gli Etiòpi e gli Indi.
Meravigliando a la mirabil vista
Tragge l'Egitto, e 'l peregrino augello
Lieto saluta, e festeggiando onora
Repente. È la sua forma in sacri marmi
Scolpita, e in lor segnato il nome e 'l giorno.
O fortunato, e di te padre e figlio,
Felice augello, e di te stesso erede,
Nutrito e nutritor, cui non distingue
Il vario sesso, e lunga età vetusta
Non manda, come gli altri, al fine estremo;
Nè Venere corrompe, o 'l suo diletto
Non cangia indebolito, e van dissolve;
Cui di Venere in vece è lieta morte,
Onde rinasci poi l'istesso, ed altri,
E con la morte immortal vita acquisti.
Tu, poichè la vecchiezza i mari e' monti
Cangiato ha quasi e variato il mondo,
Perpetuo ti conservi e quasi eterno
A te medesmo ognor pari e sembiante.
E tu sei pur del raggirar de' tempi,
E de' secoli tanti in lui trascorsi,
Di tante cose e di tante opre illustri
Sol testimonio, o fortunato augello.
E felice via più perchè a noi mostri,
Quasi in figura di colori e d'auro,
L'unico Figlio del suo Padre Iddio,
Dio, come 'l Padre, a lui sembiante e pari.
E la natura col tuo raro esempio
Insegna pur all'animosa mente
(S'ella dubita mai) com'ei risorga
Dalla sua morte e dal sepolcro eterno.
E benchè nostra pura e invitta fede
Abbia lume più chiaro onde ci illustri,
Te non disprezza, e con perpetuo onore
Il tuo bel nome al tuo fattor consacra,
Ch'è sommo sole, onde ha sua luce il sole.
    Fatto avea tutti omai gli umidi campi,

Ch'agitar suole il vento obliquo o l'onde,
Co' proprj abitatori il Padre eterno,
S'abitatori pur de l'aria vaga
I volatori augelli, e non più tosto
Son della terra, onde hanno il cibo e 'l volo.
Quando egli vide il suo lavoro, e l'opre
Tutte esser buone, e gli animai feroci
Buoni pur anco, e sua bontate impressa
In lor, qual nota del suo mastro o segno,
Però gli benedisse, e 'n questa guisa
Disse: Crescete, e numerosa prole
Tutte le acque riempia, e 'n su la terra
In gran numero ancor s'avanzi e cresca
Ogni progenie de' volanti augelli.
E della santa voce il santo impero
Ancora è certa e 'nviolabil legge.
Perchè dopo tanti anni e tanti lustri,
Tanti secoli a volo omai trascorsi
Da' princìpi del mondo a questa estrema
E tarda etate, in cui s'appressa il fine,
Nè progenie di lor, nè fera stirpe,
O per diluvio o per incendio ardente,
O per lunga mortale orrida peste,
O per lor feritate o per l'insidie
D'umano ingegno, o per le orribili armi
Estinta non rimase o scema unquanco,
Ma quasi eterna si perpetua e serba.
Tanta della divina e santa voce
È la virtù che lor difende e guarda,
Perchè sia a pieno, e 'n ogni parte adorno
Questo che tutti abbraccia e tutti accoglie
Ne l'ampissimo sen capace mondo.
Così fu fatto. Ed al mattino il vespro
Giungendo, impose fine al quinto giorno.



TORQUATO TASSO  -  LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
All’ Ornatissimo
Sig. Cavaliere
Vincenzo Antinori
l’Editore

Con molto convenienza, mi sembra, s’intitola il Poema del MONDO CREATO ad uno de’ più diligenti cultori delle Scienze Naturali, come Ella è, Pregiatissimo Signor mio. E colgo con piacere questa occasione per offrirle un pegno della stima che le professo, non tanto per le virtù che l’adornano, quanto per l’amore ch’Ella porta alle lettere. Fu il MONDO CREATO l’ultima delle Opere di quel Grande, che avea già prodotto il Poema, chiamato dal Parini

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   . ardito scoglio

Contro alla Francia d’ogni vanto altera.
Angelo Ingegneri, com’egli stesso ci dice, nella Lettera che precede la prima edizione di Viterbo del 1607, ebbe cura di «trascriverlo, riuscendo all’Autore (non che ad altri) malagevolissimo il leggere il proprio suo originale: poscia con più d’una copia di sua mano lo ridusse alla vera sua intelligenza, secondo il sentimento di chi ’l compose se, raccolto in diverse fiate dalla sua viva voce. ». Ognun sa che poco piacevole, generalmente parlando, riuscì sempre questo componimento alla lettura, sopra tutto per l’architettura dei versi, i quali, essendo mancanti della rima, vogliono differente artifizio: ma sa d’altronde chiunque cerca nello studio de Classici modelli la poetica eloquenza, quanto ricca messe incontrasi sempre in ogni benché minima produzione del Tasso.
L’edizione presente, oltre la somma diligenza con la quale è stata eseguita, comparisce adorna di varie postille di mano del celebre nostro Benedetto Menzini, tratte da una edizione del 1607 posseduta già dal Chiarissimo Sig. Giovanni Lessi, passata in proprietà del Sig. Conte di Bouturlin, munificentissimo raccoglitore di rarità bibliografiche, dalla cui somma gentilezza si sono ottenute.
Ella accolga dunque, Pregiatissimo Signor mio, questo picciolo dono, con quella cortesia, ch’è propria d’ogn’animo gentile, e che non va scompagnata pressoché mai dai veri amici delle Lettere.
GIORNATA PRIMA

NELLA QUALE DIO CREO' IL CIELO, LA TERRA E LA LUCE, E LA DISTINSE DALLE TENEBRE

ARGOMENTO

Fatta l’invocazione alla SS. Trinità, spiegandone il mistero, l’Autore propone di cantare della creazione del mondo, e del riposo di Dio dopo quella. Principia la narrazione, riprovando la moltiplicità degli Dei: descrive l’eternità della divina Sapienza e mostra come per essa fu creato il tutto. Manifesta il fine della creazione essere la diffusione della bontà e la manifestazione della gloria di Dio: le cose sensibili essere state, insieme col tempo create; e riprova l’opinione di alcuni circa i principj della produzione del mondo, non essendo, eterna la materia, ma creata con le forme. Accenna il caos; e dichiara che l’arte umana, operando intorno alle cose create, imita l’arte divina; descrive i quattro elementi: e quindi la terra nuda, e coperta d’acque, e il cielo senza ornamento: e le tenebre e gli abissi. Dice Dio non esser causa del male della colpa e spiega che cosa sia tal male, ed in cui sia, e da cui provenga. Dimostra che la luce fu innanzi alle tenebre, e quale fosse. Pone la creazione degli Angeli secondo l’opinione di S. Gregorio Nazianzeno. Descrive la produzione della luce corporale, ed i suoi effetti, e come ogni luce deriva dal Cielo Empireo ch’è tutto luce e come fu separata dalle tenebre. Così avere avuto termine il primo giorno e pel settemplice giro di quello si compierà la settimana: terminando  con le lodi di quel primo giorno della creazione, simbolo del giorno dell’Eternità alla quale dobbiam tutti aspirare.

Padre del cielo, e tu del Padre eterno
Eterno Figlio, e non creata prole,
De l’immutabil mente unico parto,
Divina immago, al tuo divino esempio
Egual; e lume pur di lume ardente;
E tu, che d’ambo spiri e d’ambo splendi,
O di gemina luce acceso Spirto,
Che se’ pur sacro lume e sacra fiamma,
Quasi lucido rivo in chiaro fonte,
E vera immago ancor di vera immago,
In cui se stesso il primo esempio agguaglia
(se dir conviensi), e triplicato Sole,
Che l’alme accendi e i puri ingegni illustri;
Santo don, santo messo e santo nodo,
Che tre sante Persone in un congiungi,
Dio non solingo, in cui s’aduna il tutto,
Che ’n varie parti poi si scema e sparge;
Termine d’infinito alto consiglio
E de l’ordine suo divino Amore;
Tu dal Padre e dal Figlio in me discendi,
E nel mio core alberga, e quinci e quindi
Porta le grazie, e inspira i sensi e i carmi,
Perch’io canti quel primo alto lavoro,
Ch’è da voi fatto, e fuor di voi risplende
Maraviglioso, e ’l magistero adorno
Di questo allor da voi creato mondo,
In sei giorni distinto. O tu l’insegni,
Che ’n un sol punto chiudi i spazi e ’l corso,
Che per oblique vie sempre rotando
Con mille giri fa veloce il tempo.
Piacciati ancor che del tuo foco all’aura
Canti il settimo dì, soave e dolce
Riposo eterno, in cui prometti e rendi
Non pur sedi lucenti, e gioia e festa;
Ma di breve, terrena, incerta guerra
Alfin certe lassù corone e palme,
E trionfo celeste. O pure intanto
Questa quiete, in cui m’attempo e piango
(se quiete è qua giù fra ’l pianto e l’ira),
Somigli quella, a cui n’invita e chiama
D’infallibil promessa alta speranza,
Ch’al suon d’eterna gloria il cor lusinga.
Tu le cagioni a me del nuovo mondo
Rammenta omai, prima cagione eterna
Delle cose create inanzi al giro
De’ secoli volubili e correnti.
E qual pria mosse te, cui nulla move,
Motor superno, a la mirabil opra,
Già nuovissima, esterna, omai vetusta,
Che tutto aduna e tutto accoglie in grembo,
E serba ancor le prime antiche leggi,
Mentre risplende pur di luce e d’oro,
E di varj colori e varie forme
Mirabilmente figurata a’ sensi.
Dimmi qual opra allora o qual riposo
Fosse nella divina e sacra mente
In quel d’eternità felice stato.
E ’n qual ignota parte e ’n qual Idea
Era l’esempio tuo, celeste Fabro,
Quando facesti a te la reggia e ’l tempio.
Tu, che ’l sai, tu ’l rivela; e chiare e conte,
Signor, per me fa l’opre, i modi e l’arti.
Signor, tu sei la mano, io son la cetra,
La qual, mossa da te, con dolci tempre
Di soave armonia risuona, e molce
D’adamantino smalto i duri affetti.
Signor, tu sei lo spirto, io roca tromba
Son per me stesso a la tua gloria, e langue,
Se non m’inspiri tu, la voce e ’l suono.
Tu le tue maraviglie in me rimbomba,
Signore, e fia tua grazia il nuovo canto:
Perchè non pur s’ascolti in riva al Tebro,
Al bel Sebeto, all’Arno, al re dei fiumi,
Al Mincio, al Brembo, al Ren gelato, all’Istro,
Ma dove il Nilo i suoi vicini assorda;
E quei, che fa più sordi errore e colpa,
Desta per tempo o tardi a’ sacri accenti.
    Pria che facesse Dio la terra e ’l cielo,

Non eran molti Dei, nè molti regi
Discordi al fabricar del nuovo mondo.
Nè solitario in un silenzio eterno
In tenebre viveasi il sommo Padre,
Ma col suo Figlio e col divin suo Spirto
In se medesmo avea la sede e ’l regno,
De’ suoi pensati mondi alto monarca:
Perch’opra fu il pensier divina, interna.
Nè d’uopo a lui facean le schiere e l’armi,
Nè teatro a la gloria, in cui risplende
Solo a se stesso, e parte altrui s’involve.
Ma narrar non si può, nè ’n spazio angusto
Cape de l’intelletto umano e tardo,
Come ’n se stesso e di se stesso il verbo
Generasse ab eterno; e ’l sacro modo
Di sua progenie; e l’inefabil parto
Del suo Figliuol, che in maestà sublime
A se medesmo adegua assiso a destra.
Taccia l’antica omai Grecia bugiarda
La progenie di Celo e di Saturno,
E de’ cacciati dei le tronche parti;
E i Giganti e i Titani al fondo avvinti
Della tartarea e tenebrosa notte;
E gli usurpati seggi, e ’l figlio ingiusto
Contaminato dal paterno oltraggio;
E quella, che dal capo ei fuor produsse,
Dea favolosa, con lo scudo e l’asta;
E con Osiri e co ’l latrante Anubi
Taccia i suoi mostri il tenebroso Egitto,
Che d’antiche menzogne il vero adombra.
O, se n’è degno, il chiaro suono ascolti
Di lei, ch’uscio dalla divina bocca
De l’altissimo Padre inanzi al tempo
Delle cose create; e seco alberga
D’antica eternità gli eccelsi monti:
Primogenita sua nell’alta luce,
A cui la mente umana aspira indarno.
Questa, nata di lui, figliola eterna
Sempre fu seco; e ’l raggirar de’ lustri
Non l’è vicino o ’l variar degli anni.
E non erano ancor gli oscuri abissi,
Nè rotto avean la terra i primi fonti,
Quando fu conceputa, e l’erto giogo
Non alzavano ancor Pirene ed Alpe,
Ossa, Pelio ed Olimpo e ’l duro Atlante,
O gli altri monti, o dall’aperto fianco
Non correano ondeggiando al mare i fiumi
Dalle quattro del mondo avverse parti,
Quando lei partoriva il sommo Padre.
Seco era allor ch’ai ciechi abissi intorno
Egli facea l’oscuro cerchio e ’l vallo.
Seco era allor che ’n ciel le stelle affisse,
E l’acque sue, librando, appese in alto.
Seco era allor ch’all’ocean profondo
Termine pose, e diè sue leggi all’onde;
E quando ei collocò de l’ampia terra
I fondamenti, era pur seco all’opre.
Seco ’l tutto formò di giorno in giorno
Quasi scherzando, e fu l’oprar diletto.
Ma questo fatto avea l’aurato albergo
Di chiare stelle, e d’oro adorno e sparso,
A la creata sapienza, e ’n parte
Lei de l’eternità felice e lieta.
Ma quello albergo in disusate tempre
Per sua natura si trasmuta e cangia;
E nel suo variar già quasi algente
Pur diverrebbe ottenebrata in parte,
E qual caduca e ruinosa mole
Vacillar già potria: però s’appressa,
E giunge a lui, che gli è sostegno, e ’l folce,
E tutto del suo amor l’illustra e ’nfiamma,
Tal che non si dissolve, e non paventa
Morte o ruina mai, nè caso o crollo
Per vicenda di tempo o per rivolta,
Benchè pur d’Ission la ruota, e ’l pondo
Del Mauritano stanco altri racconti.
Ma in lui s’acqueta, e ’n contemplar s’eterna
La celeste magion, che ’n sè n’accoglie,
E quella dal principio a Dio presente,
Pria ch’ei facesse il suo lavoro adorno,
Seco era nel principio, allor che ei volle
Formar co’ detti le mirabili opre.
È buono Iddio, tranquillo e chiaro fonte,
Anzi mar di bontà profondo e largo,
Che per invidia non si scema o turba.
Ma quel, ch’è buono e ’n sè perfetto a pieno,
La sua bontate altrui comparte e versa.
Dunque ei, di sua bontà fecondo e colmo,
La sparse, quasi un mar, che l’onde sparge;
La spiegò come un sol che spiega i raggi,
E volere e natura in un congiunse.
E quinci fur quasi germogli o parti
Le cose poi create, in cui si scorge
Più e men chiaramente, e dall’eccelse
In fin all’ime ancor riluce e splende.
E ’n tutte il creatore alto vestigio
Di lei c’impresse, e figurolle a dentro.
Ma della sua bontà la vera immago
In altre appare, e con sembianza illustre
Son degne d’inalzare al ciel la fronte,
Di sua divinità parte mostrando.
Anzi non è sì vil di pregio, o ’n vista,
Cosa fra le create; o sì lontana
Dalle pure del ciel lucenti forme
Per faticosa via non move o serpe;
O non s’appiglia ’n terra; o ’n dura pietra,
Che bagni il mar, non si rimira affissa;
O non giace in palude, o in ima valle,
In cui non si ritrovi e non si mostri
Mirabil arte del suo mastro eterno,
Che fè di nulla il magistero e l’opre.
Questa fu l’una del creato mondo
Alta cagion, ch’i varj effetti adempie
Di se medesma; ed infinita avanza;
E non mai de’ suoi doni avara o parca
Sua largità comparte. A questa arroge
La gloria sua che star non debbe occulta.
Ma come in ciel fra gli stellanti chiostri,
In quel sacro al suo nome eterno tempio
È chi l’adori, e con perpetuo suono
D’alta voce immortale il lodi e canti:
Sì che de l’onor suo lieto rimbomba
L’Orto, l’Occaso e l’Aquilone e l’Austro;
E de l’eternità gli antichi monti
Risuonan tutti all’armonia superna;
Così debbe qua giuso aver la terra
Adoratori, e chi in sonoro carme
Sacrificio di laude a Dio consacri.
Perchè quanto adempiè suprema ed alta
Bontà divina, ancor sua gloria adempia;
E colmi il tutto; e co’ suoi raggi illustri
Per le parti di mezzo e per l’estreme.
    Già di quel ch’ab eterno in se prescrisse

Dio, ch’è senza principio e senza fine,
Era giunto il principio, e giunto il tempo
Co ’l principio del tempo. E qual di gorgo
O di pelago pur tranquillo ed alto,
Che senza ’l moto e l’onde e posi e stagni,
Esce talvolta il rapido torrente:
Tal dall’eternità che ’n sè raccolta
Si gira, e di se stessa è sfera e centro,
Omai prendeva il tempo il moto e ’l corso;
Quando il suo creator lo spazio al passo,
E la misura diè, lo stato eterno.
Gl’invisibili oggetti a pena intesi
(se lece dire avanti) erano avanti;
E l’origin degli altri esposti a’ sensi.
Già cominciava allor che ’l sommo Padre
(Che ’l suo Figlio e ’l suo Spirto all’opre esterne
E communi fra lor non lascia a dietro)
Diè ’l pensato principio al nuovo mondo,
Più d’ogni creatura antico e prisco,
Il sommo ciel creando e l’ima terra.
Ma come di sublime e chiaro albergo,
Che pareggi le cime a gli erti colli,
E gli aurei tetti infra le nubi asconda,
Il principio, che ’n lui si loca e fonda,
Non è l’albergo ancora, e ’n calle obliquo
Non è ’l principio suo l’istesso calle:
Così lo stabil punto, onde si volge
Il tempo in sè, non è il suo spazio o ’l tempo,
Che parte dal principio e ’n lui ritorna.
Dio fece nel principio il cerchio estremo;
E quella, ch’a noi par costante e salda
Sede, pur fece in mezzo all’ampio giro;
Nè fu del suo poter, che sia disgiunto
Dall’eterno volere, ombrato effetto:
Come talor del corpo opaco e denso
È l’ombra, e del lucente il lume e ’l raggio.
E ’l voler fu poter, ed opra eletta.
Ma sì come di creta in Lesbo o ’n Samo
Mille vasi compone, e ’n mille guise
Il suo buon mastro gli colora e pinge,
Nè consuma il poter con l’arte insieme,
L’arte infinita, onde pon fine all’opre:
Così del mondo il Fabro, eguale a un mondo
Non ha la possa, chè soverchia il tutto;
E mille mondi e l’infinito eccede.
Quel che ne’ varj e smisurati campi,
In cui trovar non lece il sommo o l’imo,
Nè ’l manco ivi segnar, nè ’l lato destro,
Dal vago incontro di minuti corpi
Commossi a caso e ’n lungo error volanti,
Simili a quei, ch’ove risplende il sole,
Talor veggiamo in varia turba e mista,
Fa varj mondi, e gli riforma e guasta,
E di sito diversi e di figura,
Mentre egli insieme gli congiunge o parte,
Tela forma d’Aracne e fral contesto,
Che leggiermente poi disperde o solve
Della fortuna errante il soffio e l’aura
O ’l dubbio respirar del corso incerto.
Ma queste (se dir lece) alte colonne
Ferma in ben salda base, e ’n lor s’appoggia,
Come a lui piace, la profonda terra;
E crollar non la può tempesta o turbo,
Ma solo il suo voler la move, e scote
Il suo voler, che d’infiniti abissi
Ha tenebrose, oscure, alte latebre.
In cui s’aperti avesse i ciechi lumi
Quel, ch’i termini tolse al vasto mondo,
Le fiammeggianti mura a terra sparse,
E ’l vano immenso col pensier trascorse,
Non avria dato a dea fallace ed orba
Della terra e del ciel lo scettro e ’l regno.
Folle, che non conobbe il modo e l’arte,
Per cui creato è il mondo al primo esempio,
Che ’l divino architetto in sè dipinse,
Maggior de l’opra assai, che poscia offerse
Quasi da contemplar oggetto a’ sensi.
Ma qual mastro terren scolpisce e forma
Di preziosa gemma in giro angusto
Il cielo, e i suoi lucenti e vaghi segni:
Tal il Fabro immortal in queste impresse
Sparse di varie luci erranti sfere,
L’interna idea, cui non è pari il mondo;
E dallei stanca è la materia, e perde.
La qual creata fu dal primo mastro,
Che fece l’opra, e non eletta altronde:
Ch’altra origine a lei si cerca indarno.
Ella al suo creator si volge e veste
Vaga di sua beltade, e ’n rozzo grembo
Mille forme colora, e mille lumi
Dalla sua luce in varie guise accende.
Chi pone i due princìpi e ’l doppio fonte,
E quinci i beni sol deriva, e quindi
Origina di mali ampi torrenti;
O divide l’imperio, o ’n due l’adegua,
E di tenebre un re si finge ed orna,
E fa di sua malizia a lui corona.
E, se ciò fusse, in contrastar rubella
La materia sarebbe, o schiva e tarda
Si mostreria sotto il contrario manto
A quel che la ’nvaghì pur dianzi, e piacque.
Ma noi veggiam ch’ella bramosa e pronta
Le forme accoglie e le trasmuta e varia,
Come piace a colui che sì l’adorna;
Forse nelle più belle è più costante,
Ed in guisa di lor sue brame adempie,
Che spogliar se ’n ricusa, anzi che ’l mondo
Ruinoso vacilli, e ’l corso obliquo
Cessi del sole e de l’erranti stelle.
Ma sia pur questa in ciel materia, od altra
D’altra ragion, d’eternità superba
La materia non vada; e non s’agguagli,
Per antica vecchiezza e veneranda,
A quel degli altri, e suo, vetusto Padre,
E vetusto Signore e Dio vetusto.
Dunque lo spirto suo non poscia, od ante,
Ma con le forme la creò spirando;
E di bellezza e di bontà divina
Spirolle al seno un desiderio interno,
Un vago instinto, anzi un leggiadro amore,
Ch’a la natia diè fine orrida guerra:
Per cui ritrosa e fella e ribellante
Era a se stessa in suo furor discorde,
Se dir si può che mai la terra al foco
Fosse confusa in quella orribil mischia.
Nè foco era, nè terra, e l’aria e l’onda
Si distruggean nelle contrarie tempre.
E ciascuna di lor nel dubbio acquisto
Se medesma perdeva, e fiera morte
Era la sua vittoria; e l’imo al sommo
Male adeguato e mal confuso appresso.
Onde quella incomposta e rozza mole
Nè tutto era, nè nulla, e nulla apparve.
Fu questa forse immaginata guerra
E d’altra guerra pure immago ed ombra.
E simolacro di tenzon maligna,
Che fè natura al suo fattore avversa.
Ma l’alto Dio creò quasi repente
La materia e le forme; e qual sia prima,
O queste, o quella, io non mi glorio e vanto
Già di provare in periglioso arringo,
Dall’Academia uscito e dal Liceo.
Ma pur l’arte divina è prima, e vince
L’altre per dignitate, e vince il tempo.
Ma l’arte umana pargoleggia e sembra
Ne gli scherzi fanciulla all’opre intorno.
Prima vestia le mansuete agnelle
La bianca lana, e poi la tesse e tinge
Il buon testore; e ’n rugiadosa conca
Porpora coglie pur Sidone e Tiro,
Quasi marini fiori. E l’alto pino
Pria con acute foglie in verde monte
Frondeggia, o pur l’abete o l’orno o ’l cerro,
Poscia l’arte ne fa le navi e l’aste.
Prima nell’ampio sen la terra avara
Nasconde il ferro, e quinci il tragge e forma
L’industria umana o spada o lucido elmo,
Od innocente a duri campi aratro.
Ma quella inanzi al tempo e inanzi al mondo
Arte divina, fè la terra e ’l cielo;
Ed intiero ciascun, nè parte adietro
Lasciò, ma riempì gli estremi e ’l mezzo,
E ’n lor dispose il foco e l’aria e l’onda,
Ch’a la terra, gravosa e ferma sede,
Stese le braccia mormorando intorno;
Vaga instabil, ma grave; e ’n giro cinta
Fu dall’aria più vaga e più leggiera.
E levissimo il foco a lei corona
Fece, e vicino al ciel suo loco scelse.
Così l’arte divina insieme avvinse,
Quasi catena inanellata e salda,
Gli elementi fra lor varj e discordi.
E fra gli estremi, per natura avversi,
Pose in parte contrari, in parte amici,
I duo di mezzo; e fè constante e fermo
In questa guisa e ’ndissolubil nodo.
Invisibile ancor la nuda terra
Era dianzi creata, e non adorna,
Quasi nuovo teatro, e voto i seggi
In cui non sia chi miri, o pur contenda:
Chè nati ancora i miseri mortali
Non erano a vederla; e vasta ed erma
Solitudine inculta i campi e i monti
Empiea d’orrore, e le deserte arene.
Non spiegavano ancor l’ombrosa chioma
Gli alberi eccelsi, e di lor fronde e d’ombra
Non facean vaga scena a’ verdi colli.
Non fiorivano ancor rose e ligustri,
E i giacinti e i narcisi e gli altri fiori,
Nè dipingeano il seno a’ prati erbosi,
Nè fean lieta ghirlanda a’ chiari fonti.
Era quasi coperta ancor de l’acque,
Chè parea tenebroso e fosco il velo
Onde ascosa tenea l’orrida faccia,
E le squallide membra e ’l rozzo grembo,
Quasi attonita ancor l’antica madre.
E ’l ciel sublime ancor non era adorno,
Nè ’l mirabil lavoro in lui distinto
Splendea d’un bel sereno e d’aurei fregi
E di segni lucenti. E ’l sol, rotando,
Non scotea l’immortale ardente lampa.
Nè la candida luna in colmo giro
Gli s’opponeva, o con argentee corna
Per distorto camin volgeva il corso.
Mancavan le carole e ’l suono e i cori,
E delle fisse stelle e de l’erranti
Lui non cingeano ancor l’alte corone.
Nè creata era ancor la vaga luce,
Ma su la faccia degli oscuri abissi
Eran tenebre oscure. In tale aspetto
Nascendo ancor non si vedeva il mondo.
Ma quai fur (se spiarlo a noi conviene)
Quelle tenebre antiche e quelli abissi?
Quando non anco il sole ad altre genti
Portando il giorno, a noi la notte e l’ombra
Algente uscia del grembo opaco e denso
Della terra, e giungeva insino al cielo?
Nè già molte potenze incontra opposte
Gli abissi fur, com’altri estima a torto.
Nè le tenebre furo al bene avverse,
E di gran forza podestà maligna,
Perchè se fosse pari al bene il male
Di possa e di valor, perpetua guerra
Saria fra loro, anzi perpetua morte,
Morendo insieme i vincitori e i vinti.
Ma se ’l ben di potere avanza e vince,
Perchè non si distrugge il male e sterpa?
Deh sarà mai che senza mali il mondo
Solo di beni abondi? e parte o loco
Più non si lasci all’importuna morte?
Ma trionfi la vita, e morte ancida
Ne la vittoria; e de l’antica fraude
Non rimanga fra noi vestigio od orma?
Or non ardisca ingiuriosa lingua,
Che si rivolge in Dio profana e lorda,
E le bestemmie in lui saetta e vibra;
Non ardisca affermar che ’l mal derivi
Generato da lui, ch’è largo fonte
Ond’ogni bene a noi si sparge e spande.
Perchè niun contrario (omai distingui)
Si genera dall’altro o si produce,
Benchè, se cade l’uno in terra estinto,
Pur l’altro dopo lui risorge e vive.
E dal simìle anzi è prodotto e nasce
Il suo simìl, come dal foco il foco.
Ma dalla chiara luce indarno uom tenta
Dar principio alle tenebre maligne,
E dalla morte originar la vita,
O pur da’ morbi la salute a gli egri
E miseri mortali. Or non c’inganni
Falsa di verità sembianza e larva.
Non è natura il mal, non vera essenza,
Nè di lui ricercar lontane parti,
Nè pur d’intorno a te risguarda o fuori,
Come sia cosa in sè fondata e salda;
Ma in te stesso il ritrova, e ’n mezzo all’alma
Rimira lui, pur quasi macchia od ombra
Di volontaria colpa e di gradita.
A te medesmo sei perpetuo fabro
De’ proprj mali, e gli colori ed orni;
E ’nvaghito di lor, con vano affetto,
Pur com’idoli amati, in te gli adori.
Ma la vergogna e l’infelice essiglio,
E l’odiosa povertate e quella,
Che tanto ne spaventa, orrida morte,
Veri mali non sono (or cessi, o lunge
Vada il timor!), ma i veri beni indarno
Ne’ contrari qua giù ricerchi o speri,
Benchè sia mal, quando più i beni agogni,
L’esser privo di lor. Il loco adunque,
Che privato è del bene, il male adombra,
E le tenebre furo (o ch’io vaneggio)
Ne l’aria che di luce è priva e cieca,
Qualitate od affetto antico o nuovo.
Ma se più antiche fur del nuovo parto
Dell’universo, il male è prisco e veglio;
Ma non convien che sia più vecchio il peggio.
Dunque era luce eterna inanzi al mondo,
E le tenebre esterne ond’egli è cinto,
Luce, che luce a le beate menti,
A’ sensi no, ma quel ch’i sensi illustra.
E questa a’ sensi esposta adorna mole,
Visibil lume, è sol di luce immago:
Imago, che s’adorna al primo esempio:
Esempio, da cui lunge il Sole è raggio,
Che si perturba spesso in nube e ’n ombra.
Era luce increata avanti al mondo,
Forse, e creata luce; e mille e mille
Lustri non solo e secoli volanti
Erano inanzi a lui rivolti in giro.
Ma quasi eternità (se dir conviensi)
Precedevano ancora il mondo e ’l tempo,
Da che furon creati al primo lume
I secondi splendori Angeli santi.
Nè già deveano i Principi celesti,
Le Dignitati e le Virtù sublimi,
Tante armate lassù d’oro e d’elettro,
Gloríose, immortali, elette schiere,
Tanti eserciti suoi, vita sì lunga
In tenebre menare oscura e fosca.
S’eran dunque primier create menti,
Era creata luce; e’ n festa e ’n canto
Elle già si vivean lucida vita,
A sembianza di lui, ch’è vita e luce,
Facendo i sacri balli e i lieti cori,
E i sacrifici di sovrana laude
A lo splendor della sua gloria eterna
In quel sereno e luminoso tempio.
E questa luce da gli antichi Padri
Fu già promessa a i giusti; e i giusti avranno
Sempre luce immortal, sortiti a parte
Della luce de’ Santi. Avranno incontra
Pene in tenebre esterne iniqui spirti.
    Nelle tenebre allor de’ ciechi abissi

Lo spirito divino, e sovra l’acque
Era portato, e l’umida natura
Già preparava. Anch’ei presente all’opra
Spirando già forza e virtute all’onda,
D’uccello in guisa, che da frale scorza
Col suo caldo vital covata e piena,
Trae non pennato il figlio, e quasi informe.
E disse: "Fatta sia la luce", ed opra
Fu il detto, al comandar del Padre eterno.
Ma ’l suo parlar, suon di snodata lingua,
Nè percossa fu già che l’aria imprima
Di se medesma e di sua voce informi,
Ma del santo voler, ch’all’opre inchina,
Quell’inchinarsi è la parola interna.
    Così la prima voce e ’l primo impero

Del gran Padre del ciel criò repente
La chiarissima pura e bella luce,
Che fu prima raccolta, e poi divisa
E ’n più lumi distinta il quarto giorno.
Sgombrò l’orror, le tenebre disperse,
Illustrò da più lati il cieco mondo,
Manifestò del cielo il dolce aspetto,
Rivelò con serena, alma sembianza
L’altre forme leggiadre; e d’ogni parte
Egli indusse la cara e lieta vista,
Gioia della natura, almo diletto
Della terra e del ciel, piacere e gloria
Della mente e del senso, e quasi a prova
Delle cose mortali e de l’eterne.
Ed in un punto l’Aquilone e l’Austro,
E parimente ancor l’Occaso e l’Orto,
Tutto irrigato fu dall’aurea luce.
E rapido sembrò mirabil carro,
Via più del tempo e del pensier veloce,
Che divina virtù cosparga e porte.
E qual carro più bello e più veloce,
O bellissima luce, o luce amica
Della natura e della mente umana,
Della divinità serena immago,
Che ne consoli e ne richiami al cielo,
Potea intorno portar virtuti e doni
Celesti in terra a’ miseri mortali
Da quei tesori e da quei regni eterni,
Ch’a noi dispensa con sì larga mano
De’ lumi il Padre, e ’l donator fecondo?
    Come possente re di Persi o d’Indi

Dal grembo oscuro de l’avara terra
Preziosi metalli insieme accoglie,
E dall’arene pur d’oro cosparte,
E dal profondo mar le perle e gli ostri
Aduna, e i bei rubini a questi aggiunge,
E i bei smeraldi e i lucidi giacinti,
E qual pregiata più s’indura e ’mpetra
Nell’oriente luminosa gemma;
Così de l’universo il Re superno
Nel cielo empireo ascosto a’ vaghi sensi,
E ignoto al contemplar degli alti ingegni
Che misurar degli astri i giri e ’l corso,
Ha di luce divina eterni ed ampi
Tesori, e quinci poi gli parte o serba.
Anzi l’istesso cielo è pura luce,
In cui nulla giamai si turba o mesce.
Luce è ’l suo tempio adorno e l’alta reggia;
E son di luce le corone e l’armi,
Onde gli eletti suoi circonda e veste.
    Ma vedendo qua giù creata luce,

Disse ch’è buona; e ’l testimonio aggiunse
Della sua voce, anzi il giudicio espresso.
E perchè è buona e bella, e non si vanti
Per bellezza di parti aggiunte insieme,
E con giusta misura in un composte
La natura terrena, o la sublime;
Nè ricerchi in frondosa ed ima valle
Di mal cauto pastor giudicio errante
E fallace sentenza. Espero in cielo,
Espero miri in ciel lascivo sguardo,
Che Lucifero è poi recando il giorno,
E la sua desíata e chiara luce,
E di sua puritate i sensi appaghi,
Perch’ascenda la mente a’ primi oggetti.
Però Dio separò la chiara luce
Dalle tenebre oscure; e i nomi impose,
Queste notte chiamando, e giorno quella.
E fece solo un dì da mane a sera,
Fra tenebrosi e lucidi confini
Quinci e quindi ristretto, a cui rotando
Il sol non stabilì l’eccelsa meta,
Mentre in se stesso pur ritorna e gira,
Chè non aveva ancor la forma o ’l corso.
Ma quel che fu del tempo eterno Fabro,
Gli diè lo spazio e la misura e i segni;
E col quattro e col tre rivolse in giro
Le sue misure, e riempiè d’un giorno,
Che sette volte in sè si volge e riede,
Con tal numero pur lo spazio intiero.
Questa figura ha in sè principio e fine,
Ed all’eternità, non solo al tempo
Conviensi, anzi del tempo è quasi un capo:
Però d’esser primiera ancor si sdegna,
Perchè il suo creator scacciata e scura
La scompagnò dall’altre, e quasi impresse
Della sua nota, onde se ’n va solinga.
Questa è dì del Signor, da lui s’appella,
Chè nomarsi dal sole a sdegno prende;
E da sè scaccia i miseri profani
Intenti all’opre fatigose e ’ndegne.
Questa è dì del Signor, grande ed illustre;
Alfin, quando che sia, sarà disgiunta
Dal numero de’ giorni, anzi degli anni,
E de’ lustri e de’ secoli correnti;
Ned’altra a lui sarà seconda o terza.
    Ma voi, che del Signor cercate il giorno,

Deh non seguite i sogni antichi, e l’ombre
Di questo dì nell’orrida tenèbra.
Seguite omai, ch’a voi riluce e splende,
La chiara dell’ottava e nuova luce;
La qual non corre faticosa al vespro,
Non ha sera o confin di fosco e d’ombra;
Ned altro a lei succede in giro alterno
Giorno finito da nimica notte;
E costante sarà felice stato
Alfine, e resterà solinga ed una.
Giorno, o secolo sia, che pur s’eterni.
Questo a voi dimostrò ne’ primi tempi
Del profetico spirto il chiaro suono.
Questo poi dimostrò, quando risorse
In guisa di leone, il Re celeste,
E trionfò del tenebroso inferno.
E quella, che per lui guerreggia e vince,
Santa Chiesa di Roma a voi l’insegna,
E la celebra in sacri accenti, ed orna
Di ben mille sacrate ed auree spoglie.
E d’altissimo seggio, in cui s’adora,
Pur anco a voi la benedice e segna
Quegli, al cui sacro regno in cielo e ’n terra
Non è confine o meta. E ben conviensi
Che l’ottavo Clemente il giorno ottavo
Della divina luce i cori illustre,
    E i rozzi, tenebrosi e tardi ingegni.
GIORNATA SECONDA

NELLA QUALE DIO CREO' IL FIRMAMENTO, CON LE STELLE, E DIVISE LE ACQUE SUPERIORI DALLE INFERIORI.

ARGOMENTO

Rassomiglia la terra, dove abitiamo, all’atrio del Tabernacolo, e ’l cielo stellato  al luogo, dov’era il candelabro. Accenna la creazione del cielo e degli Angeli, e la loro cognizione e beatitudine. Narra la creazione del cielo stellato, e pone il suo effetto e nome. Dice Dio aver preparata la materia innanzi alla distinzione delle parti dell’universo. Riprova alcune opinioni circa l’unità, e pluralità del mondo, e prova essere un solo: descrive l’Empireo e gli altri cieli. Numera, varie opinioni circa la materia loro. Pone la produzione del cielo cristallino; e proponendo, ed opponendo, investiga quali acque sieno sopra il cielo ed a che effetto. Dice la terra esser molto minore delle acque, e poco apparir fuori di quella, le quali sopra di lei scorrono per vari fiumi, e conservano gli altri corpi dall’ardore del fuoco, il quale abbrucierà il mondo nel dì del Giudizio finale. Assegna la figura del cielo, il suo ornamento, il moto sopra due poli, il partimento in cinque zone. Descrive i circoli celesti e i loro siti; il Zodiaco, i suoi dodici Segni, e le altre imagini celesti. Riprende coloro che statuirono tai figure in cielo, e che sottopongono la volontà umana all’influenza loro, e quelli che le adorarono, i quali dovevano invece dalla cognizione delle stelle ascendere alla cognizione di Dio, che solo le numera, e diè loro il nome; nè formò in cielo tali imagini, ma bensì il Segno della Croce, che apparve a Costantino, ed è sempre favorevole; notato dagli Egizj e figurato nelle quattro parti dell’universo. Prova dalle stelle non provenire le maligne influenze, né per variare di sito divenir esse buone, o triste. Riprova gli aspetti loro e dimostra che non passono costringere, nè nuocere, ma giovare. Confuta l’Astrologia giudiciaria intorno alla vita umana; ed i prognostici sopra di essa; e termina con gli inconvenienti, che derivano dal tenere che la vita umana dipenda dalle stelle.

Anzi le porte del mirabil tempio
Che si portava d’una ad altra parte,
I lochi aperti, e nell’aperto cielo,
Cui tetto non ricopre o velo adombra,
Erano esposti a le pruine, al ghiaccio,
Al torbido spirar d’orridi venti,
E del fervido Cane a’ raggi estivi;
E ’n lor già s’accogliea profana turba,
E destinate al ferro armenti o greggie.
Tai son pur quelli, in cui n’alberga il mondo
Ne la profonda sua parte più fosca.
Di lui parlando, e di terreni obietti,
Or da caliginose alte tenebre
Già trapassati a la serena luce,
Siam dove in sette lumi appar distinto
Il candelabro, e ’nestinguibil lampa
Lieta e sicura del soffiar de l’Austro,
A Dio s’accende, e qui d’immondo affetto,
O di bruto desio le parti sacre
Non ha contaminate il puro albergo.
Lunge, o lunge, o profani, ite in disparte.
O chi rimove a’ gran misteri il velo,
Sì che n’appaia fiammeggiando in alto
L’alato Cherubin, qual prima apparse?
    Già nel suo Figlio avea creato il Padre,

Nel Figlio, ch’è principio, il primo cielo,
Ch’è fuor degli stellanti e vaghi giri;
Già si godea tranquilla e stabil pace,
Cui non perturba o varia ’l corso a destra,
Od a sinistra pur volgendo intorno;
Già con l’empireo ciel di pure menti
Gli angelici splendori insieme accensi,
Eran del sommo Sol diffusi i raggi.
E s’altri fur creati in altre parti,
Fur di grado men alto, e men eccelse
Ebber le sedi e i loro offici e l’opre.
Già rivolgeasi da mattino a vespro
Lor conoscenza; e quasi in lucida alba
Ciascun in Dio mirando al ver s’illustra.
Ma nelle cose quel saper l’adombra,
E quasi assera, e già la grazia e ’l merto
Gli fa beati e gli riempie ed orna.
Quando continuò di giorno in giorno
Le sante maraviglie il Fabro eterno.
Facciasi, disse e sia costante e fermo,
In mezzo all’acque, il ciel sparso di stelle,
Lo qual divida pur l’acque dall’acque.
E fece un chiaro ciel di stelle sparso,
Incontra il tempo di robusta forza,
E saldo al raggirar d’un lungo corso:
Perch’egli al variar degli altri erranti
Sia quasi certa norma e certa legge.
E col denso di lui l’acque distinse
Vaghe, rare, sottili e preste e snelle,
O di ondeggiante o di gelata e salda
Natura in sè raccolta. E dipartille,
Altre sotto lasciando, altre di sovra.
    Così Dio fece, e ’l nome imposto al cielo

Da sua fermezza, il firmamento appella
Quel che l’uom chiamò poi stellante sfera,
O pur giri stellanti. E fatto insieme
Fu da mattino a sera il dì secondo.
    Come Dedalo o Scopa, od altro antico

D’artificio gentil famoso mastro,
Prima raccoglie i peregrini marmi
E i lucidi metalli e i cedri eletti,
I quai del tempo e de l’età vetusta
L’invido dente non consumi e roda;
Poi forma il tutto, e la superba mole
Comparte e compie; e le sue volte e gli archi
Fonda sovra marmoree alte colonne,
O pur di Caria a’ simulacri appoggia;
E fa teatri e loggie entro e d’intorno
Con lavori di Ionia o di Corinto;
Così di sua materia il Fabro eterno
Pria l’universo informa, e poi distingue
Le varie parti, e l’abbellisce ed orna.
Nè vero è quel che si descrive e mostra
Da’ saggi, ondella Grecia ancor si vanta:
Che tutta la materia al far d’un mondo
Consumasse ei nell’opra, e quinci avvenga
Che ne facesse un sol, che ’l tutto cinge,
E tutto accoglie ancor nel vasto grembo.
Ned’infiniti sono i mondi e i cieli
com’altri afferma, che d’opposta parte
Il furor letterato adduce in guerra.
Ma Dio, che generò la forma, e ’nsieme
La materia del mondo allor produsse,
Molti far ne potea di bolle in guisa,
Che di spumoso umor riempie il vento.
Perchè a lato al poter che tutto avanza,
Son quasi gonfie bolle i mondi e i cieli.
Ma pur ne fece un solo il Fabro eterno,
Perch’uno era l’esempio, ed uno il mastro;
E della sua virtù formollo impresso.
Uno è l’ordine ancora; e ’n un si volge,
Ma in molte sfere si comparte e gira.
La somma delle spere, o ’l sommo cielo
Che non ha moto, onde conosce il senso
Umano e ’nfermo le sostanze eterne,
Corpo ancora non è, ma pura forma
Che di serena luce arde e fiammeggia,
E questo empireo ciel fra noi s’appella.
L’altro, ch’è pur corporea e vaga mole,
E conosciuto ancor da’ sensi erranti,
In nove giri si divide e volve;
E della sua materia è lite e guerra,
Per cui la dialettica faretra
S’empie d’acuti sillogismi a prova
E n’arma le nemiche avverse parti.
Altri pur di mistura informe e rozza,
Onde uscir gli elementi, il forma e finge
Ruinoso e caduco, esposto a morte.
Ma con la forma sua, che tutto adempie,
Un suo desio leggiadro il tiene in vita
Eterna quasi, ed alle cose eterne
Il fa sembiante in sì mirabil vista.
Altri degli elementi il sommo e ’l puro
Dall’immondo e feccioso aduna e scieglie;
E ne figura gli stellanti chiostri,
C’hanno dal foco la serena luce
E dalla terra il suo costante e ’l saldo.
Questi libera ancor d’orrida morte,
Quasi giudice amico, il nato mondo;
Non per natura, che soggiace a forza
Di tenebrosa morte al duro Fato,
Ma perchè il suo fattore il regge e ’l folce;
E sol per suo volere eterno il serba.
Altri, via più vicino a’ primi tempi,
De’ suoi quattro princìpi, in sè diversi,
Alternando le volte, il face e guasta,
Ma come vuol discordia o vuole amore.
E se discordia è vincitrice in guerra,
Ma vinto amor, nasce il sensibil mondo;
E s’all’incontro la discordia è vinta,
Amor vittorioso il suo riforma
A gli intelletti, e ’n lui trionfa e regna.
Altri un vano intelletto affanna e stanca
Nella confusion turbida, e mischia
Dell’infinite parti; e quinci indarno
La mente pazza s’argomenta e ’ngegna
Di separarle. Altri corporea mole
Genera di figure in varj aspetti:
Di piramide acuta il sottil foco,
Di quadre forme poi la stabil terra,
Di venti quasi faccie il vago e leve
Spirante aer sublime egli compone,
E d’otto l’acqua, e vuol che peso e corpo
Vane figure, e senza moto e pondo,
Diano a’ quattro elementi in varie guise.
Altri una quinta essenza al cielo assegna,
Sciolta da tutte qualitati umane,
E da morte il difende, e d’ogni oltraggio
Mortale il guarda, e nel suo corso eterno,
Ch’egli volge e rivolge in varj giri
Al suo motor, come bramoso amante.
Ma che? nostra ragion ha corti i vanni
Dietro il senso fallace, e strada incerta
Il vario moto ne dimostra e segna.
E perchè al mezzo pur s’inchini il grave,
Ed inverso l’estremo il leve ascenda;
E ’l corpo non leggiero e non gravoso
D’intorno al centro si raggiri e volga;
E quinci e quindi a’ non veduti oggetti
Non trova ingegno umano aperto il varco;
E ne’ veduti ancor sovente adombra;
Ne gli altri, al troppo lume, i lumi abbaglia.
Di qual materia sian le stelle e ’l cielo
Dicalo quel che lui spiegò d’intorno,
Qual picciol velo, o quasi leggier fumo
Fermare il volle; e ’l fè costante e fermo
Più di cristallo assai, ch’al giel s’induri,
E lucido divenga in aspro monte;
Più di metallo, che s’impetri e stringa,
E renda come specchio altrui l’immago.
Di sembiante materia il Padre eterno
Fece ancor di cristallo un puro cielo,
Se le cose terrene a le celesti
Tanto pon simigliare; e questo ancora
Girò d’intorno a le stellanti sfere,
Confine estremo del sensibil mondo,
E sovra l’acque vi ripone o serba.
Quali acque, o Dio, sovra le stelle e ’l lume
Del sol ponesti? ed a qual uopo, o quando,
Come a te piace le riserbi e versi?
Son le sostanze spiritali e pronte,
Onde il tuo nome glorioso, eterno,
Di chiarissime laudi ivi risuona?
Ma che? ti lodalla pruina e ’l foco?
Son l’acque forse la materia informe?
Ma da principio tu l’imprimi e fingi?
Son l’acque gravi, ove non giunge il leve,
Che vola appresso al ciel, nè passa inanzi?
Dunque a natura in ciel mutata è legge?
Ma del turbato ciel l’orride porte
Tu apristi all’acque, e le spargesti a terra,
Lei ricoprendo e i più superbi monti;
Quando sommerso in gran diluvio il mondo,
A pena ricovrossi a’ monti Armeni
Il seme de’ mortali in fragil legno.
Sono adunque di pena e di spavento
L’acque lassù nel ciel ministre eterne
A’ miseri mortali; o pur sono anco
Incontra ’l foco refrigerio e scampo,
Onde ha sua vita ’l mondo in varie tempre?
S’è necessario il foco all’uso, all’arte
Del viver nostro, e di natura amico,
Necessarie son l’acque, e ’n varie sedi
L’uno dall’altro si difende e guarda.
E ’n paragon de l’acque ha seggio angusto
La terra, antica madre, e picciol giro.
Però nel grembo degli oscuri abissi
Già nascosa si giacque; a pena or mostra
Parte delle sue membra, a pena inalza
Dalle spumose braccia al ciel la fronte.
Ma gran parte del mare anco è sommersa.
Nè solo accolte in uno oscuro fondo
Son l’acque ascose entro perpetua notte,
O fan sotterra un tenebroso corso;
Ma sovra il volto suo diffuse e sparte.
Quinci vedi stagnar paludi e laghi,
E sorger mormorando i chiari fonti,
E l’alte rive empier torrenti e fiumi.
Corron dall’orïente Idaspe ed Indo,
E degli altri maggior trascorre il Gange,
Ed il Caspio ed Arasse e Ciro e Battro.
La Tana ancor, cui l’onde ’l ghiaccio astringe,
Ne la salsa discende alta palude,
E dal Caucaso il Fasi al mare Eussino.
Dall’occidente ancor Tarteso ed Istro;
Quegli oltra le colonne in mar si sparge;
Questi nel Ponto, e pria divide e parte
I popoli d’Europa e i campi e i regni.
Oh quanti ancor da gl’iperborei monti
Corron veloci, e da Pirene ed Alpe,
Distinguendo Germani e Belgi e Celti?
Dal mezzo giorno l’Etiopia inonda
Il Nilo, e i campi impingua al verde Egitto,
E ’l Cremete e l’Egon e ’l Nisio e ’l Negro.
Altri nel nostro mar si spande e mesce,
Altri si vota all’Oceano in grembo.
E l’ondoso Ocean superbo in vista
L’umil terra percote e lei circonda.
E fu secreta providenza ed alta
Che di tante acque e tanti umori occulti,
Tanti palesi, assecurò la terra
Dal foco violento, a lei nemico:
Perch’ei, che signoreggia il tutto, vince
D’impeto e d’ira e di contraria possa,
Non signoreggi ancor quasi tiranno
Usurpando degli altri i regni e i seggi,
Sin a quel spaventoso estremo giorno,
Da giudizio divino a lui prescritto.
Tempo certo verrà, come rimbomba
Sacra fama in più lingue, e già vetusta,
Che ’l foco infiammerà la terra e l’onde,
E tutto in uno incendio avolto il mondo
Caderà sparso in cenere e ’n faville.
Allor tutti fian secchi i fiumi e i fonti,
Nè fian sicuri i tenebrosi abissi
Dal foco vincitor. N’affida intanto
Quel che dispose in più soavi tempre
Le cose tutte insin dal sommo all’imo;
E quelle acque da queste allor distinse.
    Acque son dunque; e la stellante sfera,

Che sette giri in sè contiene e copre,
Soggiace all’acque. E ’l suo maestro eterno,
Quando gli fece così adorni in vista,
Quadrata lor non diè costante e salda
Figura, over simìle a turbo acuto;
Nè piramide volle, o pur cilindro
Assomigliar nel magistero antico;
Ma l’un nell’altro giro intorno ei volse
In guisa tal che i più sublimi ed ampi
Cingon gli altri e men ampi e men sublimi.
E come quel che pria disegna e fonda,
E nelle parti sue dispone il tutto,
E poi l’adorna e di colori e d’auro,
Fa varj fregi al magisterio illustre
Ed immagine aggiunge e simolacri;
Così tutte ei facea del mondo intiero
Le parti ornate; e la sublime spera
Non figurava già di stelle ardenti
In varj modi, e le sue note e i segni
Poi di sua mano impresse il mastro eterno
Quel dì ch’ei fece i bei stellanti chiostri,
Il quarto dì, quando l’accolta luce
In due gran lumi e ’n altri ancor distinse.
E non sol fece Arturo ed Orïone,
Ma tutte l’altre onde s’adorna il cielo,
Imagini lucenti a’ vaghi sensi,
A cui l’età futura i nomi impose.
E la rota al girar leggiera e pronta
Sovra due punti in sè contrari affisse;
E i due poli nel ciel costanti e fermi.
L’un mai sempre si mostra ed erge in alto;
L’altro s’inchina a la profonda Stige,
E si rimane ognor sotterra ascoso.
Questo Dio fece, e poi l’umana gente
Nel cielo immaginando i varj cerchi,
Col pensiero il distinse; e ’n cinque zone
Partillo; e ’n altrettante impari fasce
Sotto il ciel dipartì l’opaca terra.
E ’l maggior cerchio, che ’n due parti eguali
Seca per mezzo il cielo, e quinci e quindi
Lascia i duo fissi poli incontra opposti,
Fu nomato Equator, perch’egli adegua,
Allor che il sol vi giunge, il giorno e l’ombra.
L’altro, ch’obliquo si rivolge intorno
Sino a’ duo punti, onde ritorna il sole
A ritesser di nuovo il giro stesso,
Cerchio degli animali o della vita,
E de’ segni appellar future genti.
E i duo minori intorno al punto affissi,
Onde il torto viaggio il sol converte,
Tropici fur chiamati; e gli altri duo
Fatti da’ poli, ebber di Poli il nome.
E i duo cerchi imperfetti anco nomaro
Dalle rivolte del pianeta illustre.
E quel che terminò l’umana vista
Ne i tenebrosi e lucidi confini,
Orizonte fu detto; e dal meriggio
Quello, a cui giunge a mezzogiorno il sole,
Ch’a’ varj abitator si cangia e varia.
Ma quell’obliquo, in cui distinto calle
Fecer poscia girando erranti lumi,
Seca in due parti eguali il largo cinto,
Che parte il mondo, e notte a giorno agguaglia;
Ed a’ Tropici aggiunto è quindi e quinci,
Tal ch’egli solo è con tre cerchi affisso.
E la metà di sè dimostra ogn’ora
Con sei di stelle adorni, ardenti segni
Sovra la terra, e l’altra parte ascosa
Con altrettanti pur sotto rimansi;
E ciascun spazio eguale in cielo ingombra,
Ma con tempo inegual or nasce, or cade,
Veloce o tardo; e sei la notte oscura
Si fuggon di là su cadenti segni;
E sei riveggon poi tornando il cielo
Imagini di stelle accese e d’auro,
Come le figurar gl’ingegni audaci
Che già produsse il tenebroso Egitto.
E la Grecia i suoi mostri ancor ci finse,
E di favole vane il ciel ripieno,
Più adorno il fece di menzogne illustri.
    Primo (come si scrive e si figura)

Senza l’aurate spoglie oscuro lume
Dimostra il portator di Frisso e d’Elle,
Che dopo il verno primavera adduce.
Poi col ginocchio ripiegato il Tauro
Distende il corpo, e dall’accese corna
Gravido fa di sua feconda luce
L’umor terrestre; e i duo Gemelli aggiunti
Spargon da chiare stelle ardente foco.
E l’infiammato Cancro al sole indugio
Par che sia quasi, e gli ritardi il corso.
E ’l superbo Leon con torvo aspetto
Fiammeggia, e ’nsin dal cielo ancor minaccia.
La Vergine vicina a lui risplende
Con l’aurea Spiga; e poi la luce e l’ombra
L’alta Libra celeste agguaglia in lance.
Indi lo Scorpion del cielo usurpa
Più del suo giusto spazio; e par ch’ei faccia
Con le branche ad Astrea lucida libra.
Il Sagittario ha nell’orribil destra
L’arco piegato; e ’l Capricorno il segue
Con fier sembiante, e del gran sole al corso
Par ch’egli sia lassù di nuovo intoppo,
E ritenga le notti algenti e pigre.
Risplende dopo lui con lucida urna
Il fanciullo troiano; e ’n una stella
Luminosa catena ed aureo nodo
Fan di squamosa coda umidi Pesci.
Così nel cerchio obliquo i segni ardenti
Poi figurò nel cielo il secol prisco.
    Altre immagini a destra, altre a sinistra

Verso il freddo Aquilone o ’l nubilo Austro
Collocò poscia, e i chiari nomi impose.
Vicina al Polo, che s’inalza e scopre,
Con brevissimo giro intorno ruota
L’Orsa minor, che già fu scorta e segno
Della Fenicia a’ naviganti audaci.
Di sette stelle poscia adorna il vello,
L’Orsa maggior fa brevi giri e lenti:
L’Orsa, ch’a’ Greci in tempestoso mare
Fu già fidata duce e segno amico.
Par ch’ei le gridi appresso ad alta voce
Il suo pigro Boote, e ’l fiero Drago
Fra l’Orsa fiammeggiando orrido serpe.
Cefeo poser non lunge, e d’Arianna
La stellata corona, e ’l grande Alcide,
E la Cetra col Cigno, e l’altro figlio
Del favoloso Giove in ciel sublime,
Cui d’Aquilone il fiato aspira e d’alto
Il fiede, a Cassiopea la destra ei tende,
E i piedi alati vincitore al cielo
Porta, quasi di terra alzato a volo,
Polveroso e repente, e ’ntorno al manco
Ginocchio con tremante e debil luce
Le stelle picciolette anco locaro,
Che Virgilie chiamò l’età vetusta:
Segno nel ciel d’oscuro e picciol lume,
Ma pur di nome ancora e chiaro e grande,
Perchè i princìpi della state illustra,
E gl’industri mortali all’opre invita:
Perch’è già tempo ch’all’antica madre
Confidi il buon cultore il seme sparso.
Qui insieme collocar sublime Auriga,
Che di serpente i piè nel carro ascose;
Ed Esculapio (o così parve) all’Angue
Raffigurato; e la Saetta accesa
Di cinque stelle, e l’Aquila superba
E ’l guizzante Delfino e ’l gran Pegaso,
Che già portò Bellorofonte a volo.
E la figlia di Cefeo e ’l Delta appresso,
O quella immago che figura e segna
L’Isola, che tre monti inalza in mare;
E del nudo Monton l’oscura testa
Del suo splendore infiamma, e ’n quella parte
A le vie degli erranti è più vicina.
Dall’altra, verso il Polo opposto all’Orse,
Presso il torto viaggio è il fiero mostro,
A cui fu ignuda esposta in riva all’acque
Andromeda legata al duro scoglio.
E par che ’n cielo ancor di lei ricerchi
Già lontana, sicura in parti eccelse,
Ricoverata d’Aquilone e l’aure.
Ed Orïon di fiamme armato e d’auro
V’immaginar, che nella notte estrema
Allor che nasce Scorpio, egli s’asconde.
E l’immagin del Fiume ivi risplende
D’eterno foco; e timidetta Lepre
Fuggir di Can veloce i fieri morsi
Vi figuraro; e ’l minor Cane ardente
Di rabbia il cielo ancor nascendo attrista
Con l’infelice lume e i campi infiamma,
E dopo l’altro a noi sorgendo appare,
Ma prima a quei, ch’oltre l’obliquo cinto
Abitatori son di terra adusta.
Argo, conversa in ciel, si volge a dietro
Con proda oscura, e fa ritroso corso;
Ma l’altra parte ha luminosa, illustre.
Qui l’Idra e ’l Vaso e ’l Corvo e ’l gran Centauro;
E qui risplende il Lupo e qui l’Altare.
Altra Corona ancor di stelle adorna
Da questo lato il cielo, ed altro Pesce
In più lontana parte in lui risplende.
Il Pesce, ch’adorò ne’ proprj alberghi,
Sì come proprio Dio, l’antica gente
Di Siria abitatrice; a cui non basta
Farlo in magion terrena e divo e nume,
Ma nel cielo il figura e ’n ciel l’adora,
Fatto, come stimò, nel cielo eterno.
    Oh delle pazze genti antico errore,

E prisca fraude e mal nutrito inganno,
Che torse il mondo al culto iniquo ed empio!
Oh di cerchi e di stelle in un congiunte
Vane figure, immaginate indarno
Contra la providenza e contra il vero!
Oh vana sapïenza e vano ingegno
Della natura umana in Dio superba!
Van pensier, vano ardire e vano orgoglio,
Che ’n ciel presume annoverar le stelle,
E qua giù le minute inculte arene;
E misurar gli smisurati campi
Della terra, del mar, del ciel profondo;
E terminar de gl’infiniti abissi
L’altezza e ’l fondo; e por costante meta
A questo spazio della vita incerto;
E prescriver de’ fati eterna legge,
Serva facendo la natura a forza,
E ’l libero voler, libero dono,
Cui non vince, nè sforza o stella od astro.
Egli all’incontra signoreggia e vince;
E può rapire il gran regno celeste
Con vïolenza, se d’amor s’infiamma.
Ma d’altro amor più santo, e d’altre fiamme
Di quelle, onde l’età vetusta e folle
Con l’immagini sue mentite e false
Tentò di far quasi profano e immondo
Del cielo il luminoso e puro tempio.
Poco era adunque del lascivo Cigno
Furto amoroso, o d’Aquila ministra,
Non di folgori più, nè d’ire ardenti,
Ma di piaceri, la rapina ingiusta?
E la corona d’Arïanna, e mille
Favole vaghe, e favolosi amori,
Che Grecia aggiunse a le menzogne antiche
Di Babilonia e del superbo Egitto,
Se d’Alessandro il successor novello
Non aggiungeva ancor la tronca chioma
Di Berenice all’altre stelle ardenti?
Tanto lece a’ mortali adunque in terra,
Ch’osan di far, non sol di rozza pietra,
O di ruvido pur selvaggio tronco,
Lor dei terreni ed idoli superbi,
Ma fanno oltraggio a le nature eterne,
Ed a la gloria de’ celesti giri?
Chè delle stelle è gloria il chiaro lume,
Ond’è stella da stella in ciel diversa.
Ma quei già non devean sì pure forme
Farsi cagion di sì dannoso inganno,
E ’n tenebre cader da pura luce,
Precipitando negli oscuri abissi;
Anzi salire a Dio di lume in lume,
E riconoscer lui nell’opre eccelse,
Che son del suo splendor faville e raggi.
Dio solo è quel che numerare a pieno
Nel mar puote le stille e ’n ciel le stelle.
E Dio pose a ciascuna il proprio nome,
Onde, chiamata, al suo Signor risponde,
Pronta al servizio del sublime impero.
E quai fidi guerrier locati in guardia
Ne la più tenebrosa oscura notte
Giran le mura vigilando attorno,
Tai circondano ancor notturne e preste
L’alte parti del ciel le stelle ardenti,
Come lor pria dispose il Re superno.
Lo qual non Orso e non Leone o Drago,
Non Aquila sublime in ciel dipinse
D’eterni lumi e di perpetue fiamme;
Non altra forma, che nel mar profondo,
O ’n fiume si rimiri o ’n monte o ’n bosco;
Ma quella Croce, ove il suo Figlio estinto
Trïonfar poi dovea de’ regni stigi,
In cielo impresse, e ne formò l’esempio
Con quattro luminose e chiare stelle;
Le quai non rimirò l’etate antica
In questo polo, in cui Boote e ’l Carro
Imaginossi e l’altre forme illustri,
Ma la nuova le scorge in ciel sublimi;
E l’altro Polo, a’ nostri sensi ascoso,
Ad altri abitatori in sè l’esalta.
E di certa vittoria è segno eterno
Al giusto Re, nella pietosa guerra,
Quella, che fiammeggiando in aria apparse
D’Elena al figlio glorïoso invitto,
Che ’l nuovo Faraon sommerso in Tebro
Fece cader dal ruinoso ponte,
E Roma liberò dal giogo oppressa,
E gli idoli superbi a terra sparse.
E quella poi, che folgorando in alto
Pur dimostrossi al successore indegno,
Si dissolvea, come vapori accesi
In quei de l’aria tempestosi campi.
Ma questo in ciel di lumi eterni e fissi
È trofeo non caduco, e stabil segno
(Se sperar lece) di costante impero,
E quasi nota, onde sue leggi inscrisse
Il Re superno a’ vincitori, a’ vinti:
Chè gloria a gli uni, e dà salute a gli altri.
Ben se n’avide ancor l’antico Egitto
Nelle tenebre sue più fosche e dense,
Onde fra l’altre sue figure e note
De’ suoi misteri, ancor la croce impresse.
E figurò la croce il Fabro eterno
Nelle quattro del mondo avverse parti:
Talchè la forma sua divide e segna
L’Orto e l’Occaso e l’Aquilone e l’Austro.
Son dunque segni di salute i segni
Ch’impresse Dio nel magistero eterno.
Nè cosa feo lassù malvagia o fella,
O di morte cagione o d’altro danno
A’ miseri mortali. Ah, cessi or l’empio,
Cessi il superbo, che saetta e vibra
Incontra il ciel l’ingiuriosa lingua!
Non son maligne le serene stelle,
Nè pon nocer altrui con fiero aspetto
Nè per elezion, nè per natura.
Non per elezïon: chè senso ed alma
Avrian le stelle, e d’animali in guisa
Perturbate sarian da’ nostri affetti.
Non per natura ancor, se Dio creolle:
Che non è creator di mali Iddio,
Nè mai d’opra non buona è mastro o fabro.
Nè mai, per variare il loco e ’l sito,
Potrian di buone divenir maligne,
O pur buone di ree, chinando ’l guardo,
O mutando figura o pur sembiante:
Come si dice che più lieta in vista
Alcuna si rallegra allor che nasce,
E inanzi al suo cader si duole e turba.
Altra all’incontro è lieta anzi l’occaso,
E dogliosa nell’orto; altra si sdegna,
E poi si placa nel cangiare il grado.
Chè se ciò fusse, la natura umana
Saria men variabile e ’ncostante
Della celeste, e ’n quelle eterne leggi
Certezza non saria, ma vano errore.
Nè già convien che ’l messaggier di Giove,
(Come animal da’ luoghi a cui s’appressa
In mille guise si colora e varia,)
Così mille colori e mille forme
Prenda ei da’ suoi vicini. Adunque in cielo
Non si perde bontà per grado, o scema:
Che ’l cielo è tutto buono, e ’n ogni grado
La divina bontà diletta e giova.
    Tacciansi ancor delle sublimi stelle

Gli odi celesti e i lor celesti amori,
Ma non degni del cielo, e i varj aspetti,
Ch’altri si miri da contraria parte,
Altri congiunto, altri girando intorno
Tre segni, o quattro, o sei, si trovi in mezzo,
Mentre riguardalla sua amica stella,
O la nemica: chè discordia in cielo
Esser non può, nè ingiurioso sdegno.
Ne’ cinque aspetti soli, e ’n altre guise
L’una potria ver l’altra esser conversa
Benigna stella in placido sembiante.
E se dimostra pur dal cielo e segna
Quanto schivar, quanto seguir conviensi,
In questo spazio della vita incerto,
Non ci costringe a forza e non ci offende,
Ma giova sempre, o ’l bene o ’l mal predica.
    Giova al nocchiero entro al securo porto

La nave ritener, se ’l vento e l’onda
Spaventosa tempesta a lui minaccia,
Ed armato Orïon guerra gli indice.
E giova al peregrin volgendo il passo
Fuggir la noia d’importuna pioggia,
E ricovrarsi in solitario albergo.
E giova a gli egri l’osservar de i giorni
Giudici della vita e della morte.
E ’l buon cultor de’ campi, o i semi sparga
O piante, osserva pur nell’opre usate
Il nascere o ’l cader di stelle amiche,
Ed opportuna la stagione e ’l tempo.
Ma che? l’alto Signore a noi predisse
Ch’appariran gli spaventosi segni
Del mondo, che ruina alfin minaccia,
Nel sole e nella luna e nelle stelle.
Ci negherà la luna il lume e i raggi,
E fia converso il sol turbato in sangue,
E questi fian della ruina estrema
Orridi i segni. Or chi trapassa il guado,
Di nostra vita le ragioni assegna;
E quasi avvinta con non saldo stame
Al fatal fuso di severa Parca,
La fa soggetta al varïar de’ cieli;
E loda de’ Caldei gl’ingegni e l’arti.
    Ma concedasi pur che ’n ciel descritti

I segni sian non di tempesta o nembo,
O de l’incerto varïar de’ tempi,
Ma della vita, e di sue varie sorti:
Che ne diran? che delle stelle erranti,
E de l’affisse nell’obliquo cinto
Congiunte insieme, gl’implicati nodi,
E le varie figure, e i varj incontri
Sien di felice aventurosa vita
Alta cagione a chi lo ciel sortilla?
O di contraria pur dogliosa sorte?
    Ma pur dirò, per illustrare ’l dubbio,

Quel che degli altri è detto, e i detti in prova
Pur addurrò contra gl’istessi in lite.
Gl’inventori de l’arte in poco spazio
Vider molte figure e ’n breve tempo,
Chè disparian troppo veloci inanzi
A gli occhi loro: onde raccolte e chiuse
Fur da gl’istessi entro misure anguste,
Quasi in un solo indivisibil punto,
Che ’n un sol batter d’occhio altrui disparve.
Quinci di quei che da’ materni chiostri
Nascer deveano a la serena luce,
Nel primo punto o ’n quel che segue appresso,
Molta varietà d’ingegno e d’arte
Notaro, e di possanza e di fortuna.
Ch’altri ci nasce pur Cambise o Ciro,
Od Alessandro o fortunato Augusto,
A scettro, a regno, a glorioso impero,
A l’onor de’ trionfi e di vittoria.
Altr’iro a ricercar di porta in porta
Quel che sostegna la noiosa vita
In vergognosa povertate e grave.
Però in dodici parti il cerchio obliquo
Diviser prima, ed ogni parte in trenta:
Chè ’n tanti giorni un segno il sol trascorre
Di que’ dodici in lui segnati e impressi.
E poi secar le trenta, e risecaro
Le sessanta in sessanta, e ’n sì minute
Parti distinte fur gli aspetti e l’ore,
Per trovar quella di chi nasce al mondo.
E non fur certi de l’instabil punto:
Perchè sparire e dileguar repente
In cielo il vedi co ’l volar del tempo.
    È nato a pena il fanciulletto ignudo

Che si riguarda il sesso, e poi s’aspetta
Il pianto, segno de l’umana vita
Lacrimoso e dolente, a lei conforme:
Predice indi il Caldeo le varie sorti.
Quanti punti trascorsi intanto a volo
Son nell’indugio? e chi descrive appunto
La figura del cielo? e quale ascenda
Sublime stella, e signoreggi intanto,
E prescriva al fanciullo il proprio fato?
Però nelle figure, e varie e vaghe,
È certo inganno e nel volar de l’ore.
    Nasce costui di grazïoso aspetto,

Placido e grave e lento, e crespo il crine;
E l’ora sua dall’animal di Frisso
Aver si crede; e questi è d’alto core
E magnanimo ancor, chè tal si mostra
L’animal, che degli altri è quasi il duce,
Ardito al cozzo ed al ferir di corno,
E mansueto poi, mentre si spoglia
Senza dolor la molle e bianca lana,
Di cui Natura poi l’orna e riveste
Agevolmente. E quel ch’i lumi aperse
Mentre ha nel Tauro il sol lucido albergo,
È faticoso, e tolerante all’opre,
Ed in atto servil se stesso ei doma,
Però ch’avezzo è ’l Tauro al grave giogo.
Quegli a cui Scorpio in ciel lucente ascende,
Altrui percote disdegnoso e fere,
Come la fera che le piaghe attosca.
Ma Libra, che le cose agguaglia in lance,
Giusto fa l’uomo e di giustizia amico.
    Or tieni il riso? Il segno in via distorta,

Onde prendi a la vita alto principio,
O sia il Monton, che già le notti adegua
Co’ dì sereni, o pur lucida Libra,
Poca è del cielo e più lontana parte.
E dalle fiere e dalle greggie immonde
I costumi de l’uom figuri e formi?
E ferina per te, non pure immonda,
È la natura umana? al cielo ancora
La feritate assegni? il ciel dipende
Dalle contaminate e lorde mandre?
E fai soggette le celesti spere
A le terrene belve? Oh sciocca e stolta
Sapienza mondana, ond’uom si gonfia
Di vano fasto e di superbo orgoglio,
Simile a tela d’infelice aracne,
Che nella sua testura a pena involve,
E ’ntrica l’ali all’importuna mosca;
Ma se peso più grave in lei s’incappa,
Non si ritien, ma la dissolve e frange.
    Oh piaccia a lui, che ne distringe e lega,

Com’a lui piace, e talor solve e snoda
I lacci del peccato e i duri nodi,
Onde il fato qua giù tien l’alme avvinte;
Oh piaccia, dico, a lui, cui tanto aggrada
Il libero voler, celeste dono,
Anzi divino, e non soggetto al cielo:
Di squarciar de’ contesti antiqui inganni
La fragil tela, e peso aggiunga a detto
Liberator de gl’infelici ingegni.
Dunque dirò che nel continuo corso
De’ sette erranti, altri al suo centro intorno
Fan più veloce il giro, altri più tardo;
Ed in un’ora altri guardarsi insieme
Sogliono, altri celarsi; e mille e mille
Fanno di sè negli stellanti chiostri
Varie figure, e da minuto inganno
Nel suo principio, che s’avanza e cresce,
Un infinito errore alfin deriva.
E s’in ogni momento il ciel si cangia
E muta in un sol dì mille sembianze,
Perchè non ogni giorno il re ci nasce?
O perch’al padre nel paterno regno
Succede il figlio nato in vario clima
Sotto varia del ciel figura e d’astro?
Perchè non tutti i regi e i grandi augusti
Regia figura in ciel, reale aspetto,
Attendono de’ figli al nuovo parto?
E qual nel generarli almeno elegge
L’ora opportuna? e di bramata prole
Chiede il consiglio alle fatali stelle?
Ebbe forse nel ciel reale immago
Di fortunate luci, allor che nacque
Gige, che re di servo alfin divenne?
O Servio, che di Roma al regno ascese?
O ’l Tartaro, che l’Asia e vinse e corse?
Creso all’incontra con servile aspetto
Nacque di fiera stella e di maligna.
E Perseo e ’l fier Iugurta e gli altri regi,
Che ’l trionfo onorar di Roma invitta.
E come gli altri l’infelice Augusto
Preso dal re de’ Persi, e l’altro avvinto
Dal barbarico orgoglio ha pari scempio.
Ma nell’estremo, quel che tutto avanza,
Ponga omai fine a le question profonde:
Perchè vane sarian le sacre leggi,
Vani i giudìci, onde virtù s’onora
Col guiderdone, e ’l vizio ha pena e scorno,
Se i gran princìpi derivati altronde
Fosser de l’opre giuste e de l’inique,
E non in noi medesmi; e ladro il ladro
Non fora, e non faria col furto oltraggio,
Nè, percotendo, il micidiale ingiusto,
Se non potesse la sua errante destra
Quel dall’oro astener, questi dal ferro,
Sospinto a forza dal destino avverso.
Vani sariano i magisteri e l’arti,
E le fatighe ancora; e i campi indarno
Segneria con l’aratro il buon cultore,
O domeria col rastro e col bidente,
Aguzzando talor l’adunca falce,
Se dall’ira del ciel matura messe
Fosse negata, o dal voler del fato.
E ’nvano altri solcando il mare Eussino
O ’l Caspio o l’Eritreo travaglia e merca,
Se ’l fato le ricchezze accoglie e sparge.
E quella de’ fedeli antica speme,
Ch’al gran regno del cielo invitta aspira,
Perir potrebbe, ove il suo premio al giusto
Non si conceda, e la sua pena all’empio.
Chè dove il fato signoreggia e sforza,
La dignitate e la virtù sublime
Non han loco fra noi conforme al merto.
Ma temer non debbiam che il ciel non serbi
A le buon’opre alfin corona e palma.
GIORNATA TERZA

NELLA QUALE PER COMANDAMENTO DI DIO SI CONGREGARONO LE ACQUE IN UN LUOGO, E LA TERRA APPARVE, E PRODUSSE LE ERBE E LE PIANTE CO' FRUTTI.


ARGOMENTO

Dall’attenzione, che si mostra a’ vani piaceri, argomenta doversi considerare le opere divine. Descrive la disposizione del cielo, della terra, dell’aria e dell’acqua: la congregazione dell’acque, lo scoprimento della terra, il corso di quelle al basso; quali sieno nocive, e quali salutifere; e dichiara che fu necessario il comando divino allo scender loro. Esplica il flusso e riflusso del mare, il quale dice non essere uniforme in tutti i luoghi. Narra varie opinioni della causa di tal movimento; e diverse forme dei seni di mare, che, che non è mai quieto; e conclude la cagione esserne il precetto di Dio, come anco dello scaturir dei fonti, dell’uscita e ritorno delle acque al mare, e che quello non trapassi i suoi confini. Descrive la terra prima Che fosse scoperta: dice che alle acque furono da Dio stabilite le rive, e riprova un’opinione contraria. Rassomiglia l’acqua nella sua adunanza e divisione al fuoco e all’aria; descrive molti laghi e le loro condizioni e proprietà: dice le opere di Natura essere opere de Dio: assegna il luogo dell’elemento dell’acqua, e prova un solo essere il mare e tutti i mari congiungersi in uno. Dice, che la terra fu detta arida, perchè l’aridezza è sua proprietà. Narra come Dio si compiacque del mare, e l’approvò; per quali cagioni sia bello, e l’espone con allegoria. Pone il comandamento di Dio che la terra germogli e produca, e l’esecuzione: riprova l’opinione  che di ciò fosse causa il Sole. Dichiara onde nascano le piante, e come per esse la terra apparisca bella. Rassomiglia la vita umana al fieno. Dice la terra produce anco piante, mortifere, nè ciò esser male, anzi trarsene utile, ed esserne principio Dio, il quale senza impedimento ha prodotte tutte le piante molte delle quali egli le enumera: e dice alcune esserne sterili, altre feconde, e molte non utili servire a diversi artificj. Tocca varie loro condizioni, e maraviglie: insegna la Cultura di alcune: ragiona delle fruttifere e d’alcune loro proprietà, e le applica moralmente. Tratta di alcune, da cui stillano liquori e conclude che dalle qualità loro si deva considerare la possanza e la perfezione di Dio il quale comandò che la terra le producesse e fu obbedito.

Sono  città  del  suo  valor  superbe,
E  di  bellezza  e  d'arti  varie  e  d'opre
Maravigliose,  e  di  edifici  eccelsi,
Od  onorate  pur  di  gloria  antica,
Che  dal  nascer  del  giorno  al  sol  cadente,
E  talor  anco  insin  che  gira  intorno
La  fredda  notte  il  suo  stellato  carro,
Empion di turba lieta e di festante
Piazze, campi, teatri adorni e logge,
Ove a' diletti varj intende e passa
L'ore del dì fugaci e le notturne
Lunghe ed algenti; e nel volar del tempo
Pur se medesma volontaria inganna.
    Altri dall'apparente e vana fraude

D'arte fallace, ond'è schernito il senso,
Deluso pende, e ne' prestigi incerto
Maravigliando quasi il falso afferma.
    Ed altri all'armonia di varj accenti,

O pur al dolce suon di cetra o d'arpa,
Che l'alme acqueta e il cor lusinga e molce,
E gli tien lieti o mesti in varie tempre,
Oblia le cure. Altri carole e balli
Lieto rimira, e d'impudica donna,
Che 'n varie guise, e quasi in varie forme
Le pieghevoli membra e muove e cangia,
Mira i lascivi salti e i modi e l'arti
Lusinghieri e vezzosi, e parte agogna.
    O dove splende pur dipinta scena

Di colori e di lampe, e quinci inalza
Gli archi e le mete, e 'ntorno a' sacri tempi
Con marmorei giganti alte colonne,
Piange i casi d'Edippo o di Tieste;
E 'n finto cielo il finto sol gli appare
Tornar turbato a dietro in mezzo il corso;
O con Davo e con Siro allegro ride
Degli scherniti vecchi i falsi inganni.
    Altri i destrier feroci e pronti al corso,

A destra ed a sinistra in giro volti
Risguarda, o 'n chiuso arringo o n'largo campo
I simolacri pur d'orrida guerra
Al chiaro suon della canora tromba
Contempla, e de i guerrier l'insegne e l'arme.
E lor virtù con lieti gridi essalta.
    Ma noi, che 'l Re del ciel, fattore e mastro

D'opre meravigliose invita e chiama
A contemplare il magistero e l'arte
Divina, e questo suo lavoro adorno,
Ch'è di cose celesti e di terrene
Con sì diverse tempre in un contesto,
Sarem pigri a mirarlo? o pur languenti
Ascolterem come l'eterno Fabro
Fè di sua man le maraviglie eccelse?
E non più tosto rimirando intorno
Questa sì varia e sì mirabil mole,
Ciascun per sè con la sua mente indietro
Ritornerà, pensand'al primo tempo
Ch'ebbe principio il tempo e 'l nuovo mondo?
    In guisa di gran volta il ciel ricopre

Le somme parti e gli stellanti chiostri,
Onde con tante faci altrui risplende
Questo sacrato a Dio sereno tempio.
E 'n se medesma si riposa e fonda
La gravissima, vasta e rozza terra;
E l'aer vago si diffonde intorno
Tenero e molle, in cui non trova intoppo
Chi si move per lui, sì pronto ei cede,
E ch'altri il fenda di leggier consente.
Senza contesa egli si sparge a tergo,
Umido nutrimento a chi respira
Porgendo, e dolce refrigerio interno,
Tanto è l'aer amico al vago spirto.
L'acqua ancor nutre; ed opportuna a gli usi
Della vita mortal nel mondo immondo
Ordinata lor fu dal Padre eterno.
Ma non contenta già d'incerta sede
Ebbe termine proprio e certo loco
Tra suoi certi confini, in cui s'accolse
Ubbidïente, e ragunossi insieme
Al comandar della divina voce.
    Disse il gran Dio: L'acqua, ch'è sotto al cielo,

In una ragunanza omai s'accoglia,
Perchè l'arida fuori indi si veggia.
E così fatto fu. L'acqua repente,
Ch'è sotto i giri del sereno cielo,
Nelle sue ragunanze allor s'accolse,
Onde veduta fu l'arida parte;
E l'eterno fattor per proprio nome
L'arida chiamò terra, e l'acque ondose
Mare nomò negli ampi spazj accolte.
E come suol talor ceruleo velo,
Che gran teatro ricoprendo adombri,
Quinci e quindi ritratto in sè raccorsi,
E discoprir della dipinta mole
Archi, statue, colonne, altari e tempî:
Così al raccor de l'umida natura,
Ne l'arida appariro il piano e i colli,
E gli altissimi monti alzâr la fronte,
(Dianzi coperti), imperiosi in vista.
E 'l mare ondoso mormorando a pena
Lavava i piedi al mauritano Atlante,
E del gran Tauro e di Parnaso e d'Ato,
Ch'allungar può la breve e fragil vita
De' mortali egri, e d'Apennin nevoso
L'ime parti bagnava, e quinci e quindi.
E correvano al chin dal seno alpestro
Degli aspri monti i rapidi torrenti,
E con rimbombo impetuoso, al corso
Precipitando gian le torbide onde;
Correano a basso i quieti e lenti fiumi,
E 'n giù correano i lucidi ruscelli.
Però che Dio con la parola eterna,
Che scendesser correndo all'acque impose,
E da principio l'affrettare il passo
Fu comandato all'umida natura
De l'acque vaghe. E lor negò quïete
Della divina voce il santo impero.
Perchè nell'ozio l'acqua è pigra e torpe;
E là dove ella s'impaluda e stagna,
Da neghittoso grembo esala intorno
Vapor grave e nocente, e fieri spirti
D'aure maligne, onde perturba il cielo
E quasi l'aria infetta, e parte in seno
Malsano nutrimento accoglie e serba
Nel suo limo tenace, onde sovente
Lo sfortunato abitatore ammorba.
Ma l'acqua che veloce in giù discende,
Da qual parte il suo corso ella rivolga,
Salubre i sani in su l'erbose rive
Nutre, e i tesori suoi lieta dispensa:
Pesci con auree squame e molle argento,
O liquidi cristalli onde s'estingua
L'ardente sete a' miseri mortali.
Ma più salubre è, se tra vive pietre
Rompendo l'argentate e fredde corna,
Incontra il nuovo sol che 'l puro argento
Co' raggi indora, i passi in bene avanza,
Quasi rimembri obediente ancella
De l'alta voce ancora il suon celeste,
Che pria la mosse e la fè pronta al corso.
    Ma s'è natura pur ch'è propria all'acque,

L'andare a basso e 'l non fermarsi in alto,
Ricercando quïete in umil parte,
A che fu d'uopo la divina voce?
Bastar potea la sua natura al corso,
E fu soverchio il commandar severo
Che le tolse il riposo, e 'n moto eterno
La fè inquïeta, instabile e vagante.
E pur fu necessario il santo impero,
Però che 'l suon della parola eterna,
Se criò l'acque, creatore insieme
Fu della mobil sua natura errante,
Che la conserva; e nel suo moto eterna
Quasi la rende, e l'assomiglia al cielo.
Onde la sua natura è certa legge
De l'immutabil verbo, e certa sede
Dopo il suo lungo corso a lei prescrive.
Ma quivi ancor dalle superne rote
Agitata si move, e torna indietro,
Cedendo intanto all'arenosa terra
Gli usurpati confini. E 'n questa guisa
Segue del sole e delle stelle erranti,
Ma più della vicina e bianca luce,
Il certissimo errore e 'l vago giro;
E da sei ore in sei s'avanza o scema.
Peròcchè quando all'orizonte ascende
La vaga luna, in riva al mar sonante
Cresce il canuto flutto, e i lidi inonda
Vittorïoso, e parte o copre o sparge
D'arida terra, insin ch'al sommo cielo
Aggiunga della luna il freddo carro.
Quinci mentre ella all'orizonte estremo
Declina in ver l'occaso, il mar decresce,
E 'n se medesmo si raccoglie e scopre
Di bianchissima spuma i lidi aspersi.
Ma ferve il mar di nuovo, e 'n fera vista
Gonfia l'onde spumanti, e spazio ingombra
Ne l'occupata terra, allor che torna
Ella a quel punto de l'opposta parte,
E nell'altro emispero ad altre genti
Altissima risplende in mezzo al cielo.
Di nuovo cala il mare, e 'n umil faccia
L'onde, fervide dianzi, appiana e queta,
E par che fugga ed abandoni il lito,
Quando la luna fa ritorno in alto
Nel suo orïente, ond'ella a noi si mostra.
Ma non serba ogni mar l'istessa legge,
Quando egli cresce o scema, e varia 'n parte
L'ordine e 'l moto, e 'n altri modi ondeggia.
Presso i Tauromitani assai più spesso,
E nell'Eubea (come si legge) il mare
Ben sette volte il dì s'avanza e scema.
Gran maraviglia, onde sublime ingegno,
Affaticato e vinto, a morte aggiunse,
Mentr'ei cercando la cagione occulta,
Si dolse che natura a noi l'asconda
Nel suo profondo e tenebroso grembo.
Ma tre fiate il giorno assorbe e mesce
L'onde la tempestosa empia Cariddi,
Da cui latra non lunge orrida Scilla.
Altri mari vi son (come s'afferma)
Che nello spazio pur d'un mese integro
Soglion due volte alzar l'onde spumose
E due volte inchinarle in sè ripresse.
Anzi nel mar degli Etïopi adusti
Non v'ha flusso e reflusso. E più lontano
Sotto un altro emispero e un altro polo,
In cui non splende il pigro Arturo e l'Orsa,
Solca un gran mar d'una perpetua pace
L'ardito navigante. E quel ch'intorno
La terra mormorando ognor circonda
Indomit'ocean, respinge e caccia
Lunge nel crescer suo torrenti e fiumi:
Talchè pajon, fuggendo, i porti e 'l lido
Lasciar per tema, e le deserte arene,
E tornarsene indietro a' proprj fonti:
Tanto è il poter che gli reprime e sforza
De l'ocean, che mugge alto e superbo!
Ma 'l Ligustico seno, e quel de' Toschi,
Ch'ondeggia appresso a la novella Pisa,
Ch'a più onorati studi i premi serba,
E le corone a le più dotte fronti,
Non ha quasi de l'onde il moto alterno.
    Ma se da prima l'acque al chiaro suono

Fur mosse già dalla divina voce,
Perchè cercare in terra o 'n mezzo all'onde
Altra cagion del lor perpetuo moto,
O pur lassù fra li stellanti chiostri?
Come fer molti, il cui pensiero ondeggia
Pur quasi d'acqua il tremolante lume.
    Altri al moto divino, onde sí gira

La spera più sublime, assegna e rende
L'alta cagione; altri a le stelle erranti,
A quelle più della più bassa luce,
Ch'è più vicina, a quinci ha maggior forza
Nelle cose mortali a lei soggette.
E di questi, altri vuol ch'obliquo o dritto
Il bianco raggio inalzi l'onde o spiani;
Altri che della luna il pieno aspetto
Riempia il mar di tempestoso flutto
E scemando lo scemi; ed altri afferma
Che per consentimento di natura
Tacito imiti il mar del cielo il corso;
Ma sono questi in ciò quasi concordi.
    Altri de' venti al respirare obliquo,

E 'n se stesso ritorto, il corso all'onde
Ritorce, e le commove or quinci or quindi.
Altri fu, che seguendo antica fama,
Disse che 'l mar, quasi spirante e vivo
Grande animal, che del gran mondo è parte,
Manda fuori e raccoglie il corso e le onde,
Spirando e respirando in varj modi.
Altri nell'inegual suo letto angusto
Non vuol che trovi il mar riposo o pace,
E quinci sempre egli si mova e lagni
Con roco pianto; e l'inquieto regno
Gli sia di guerra pur turbato campo.
Ma più si mova fra le parti eccelse,
Che son quelle rivolte al freddo Carro,
Là dove sempre di gelato umore
Gravidi e pieni son gli orridi monti,
Lo qual compresso in mar si stilla e versa.
E perchè la gelata alta palude,
Che l'Aquilon superbo astringe e 'ndura,
È più sublime assai, però discende
Ne l'inospite Eussino. E quel trascorre
Nel mar Egeo col suo veloce flutto.
Ma poi respinto d'arenosa piaggia
Fa l'Egeo nell'Eussin ritorno, e riede
L'Eussin nella Meotica palude.
Quinci hanno i mari ognor flusso e reflusso.
    Alcun vi fu di più sublime ingegno,

Ch'a non giuste bilance il mar somiglia,
Ed una parte sua solleva in alto,
L'altra deprime all'arenoso fondo;
Ma da quel favoloso antico varco,
Ove Alcide inalzò le mete e i segni,
(Come si disse), e dall'ondose porte,
(Se pur sue porte ha l'ocean profondo),
In guisa di torrente il mar si sgombra
Di seno in seno; e con diversi aspetti
Egli se stesso pur figura e stringe
Tra' curvi lidi e l'arenose sponde.
Anzi fu l'alta man del mastro eterno,
Che 'n tante forme figurollo e finse,
Or facendo il mar lungo, or tondo, or quadro
E 'n guisa di piramide e di croce
Anco formollo, e di mirabil vaso:
Sì come là, dove il Tireno inonda
Di Partenope bella i lidi e i colli,
Gran tazza colma di spumoso umore.
    Ma qual si sia del mar la forma o 'l moto,

Posa diurna mai, posa notturna
Non trova, nè silenzio in chiaro tempo
Od in turbato, ed in orror profondo,
Benchè i silenzi nell'amica notte
Abbia la luna. Io la cagion primiera
Non reco al sole o a le stelle erranti,
Non a' raggi di luna obliqui o dritti,
Non al ritorto respirar la rendo
De gl'inquieti venti o al vario fondo,
In cui s'appende il mar sospeso in lance.
Chè la prima cagion fu l'alta voce,
Movendo il cielo in giro e i mari insieme.
Da' (quai com'altri disse) in giro parte
L'onda, ed al suo principio in giro torna.
Deh, se giamai sovra una viva fonte
Che d'acqua intorno larga copia spande,
Sedesti lasso, e nel pensier t'occorse
Chi è colui, che fuor del seno algente
Della profonda e tenebrosa terra
Manda fuor l'acqua, e chi la spinge avanti,
Perch'ella mai non cessi e non s'arresti?
Quai sono i vasi e le spelonche interne
Da cui deriva? ed a qual loco affretta
Mai sempre il corso? ed onde aviene e come
Che questa mai non manchi e quel non s'empia?
Questi effetti sì ascosi al nostro senso
Pendon da quella prima e chiara voce,
Ch'all'acque indulse, e le fè pronte al corso.
    Tu, che volgesti pur le carte antiche

E spesso volgi le moderne illustri,
Ricorda pur fra te come rimbombi
Di quella prima voce il chiaro suono:
"Si ragunino l'acque". E quinci inalza
Il tuo pensiero a le cagioni eterne.
    Il correr pria fu necessario all'acque,

Per occupar la certa ed ampia sede:
Giunte nel proprio loco, a lor convenne
In se stesse fermarsi, ed oltre il corso
Non affrettar con un perpetuo errore.
E quinci certo avien ch'al fin si scorga
Ogni torrente in mare, e 'l mar non s'empie:
Perchè fu dato in sorte all'acque il corso,
E circonscritto entro a' confini il mare,
Come impose il buon Re che fece il mondo.
E quel suo comandar fu prima legge:
Legge eterna e comune, a cui rubella
Non è natura, e tra gli spazi angusti
Queta il mar violento il fiero orgoglio.
Se ciò non fosse, ei già diffuso e sparso
Coperto avria con un dilluvio eterno
La bassa terra ch'ei circonda e parte.
Nè quel di lei, che fuor de l'acque appare,
Picciolo spazio, ei lascerebbe intero
A' faticosi e miseri mortali.
    Quando agitato è più fra tuoni e lampi

Dal gran furor de' procellosi spirti,
E volge al lido e sino al cielo inalza
Gran monti d'onda rapidi e spumanti,
A pena tocca l'arenose rive,
Che 'l suo furor si frange; e 'n lieve spuma
D'impeto si dissolve, e rotti e sparsi
Caggion i monti, ond'ei ritorna indietro:
Qual de l'arena più minuta o vile
O debil cosa più trovar potreste?
O qual più violenta e più superba
De l'orgoglioso mare? E pure a freno
L'arena tien del mar l'orgoglio e l'ira.
    E non temerem noi quel Re superno,

Che pose al mar con sì mirabil arte
Per terminell'arena? e perch'uom pensi
Al magistero, egli medesmo il dice.
    Qual potrebbe altro intoppo o qual divieto,

Qual podestà terrena o legge o forza
Tenere il Rosso mar, sublime e gonfio,
Ch'all'Egitto, di lui più cavo e basso,
Fatto avria prima impetuoso assalto,
E lui sommerso entro i suoi vasti abissi?
Già con l'Indico mar si fora aggiunto
Senza fatica e senza ingegno od opra
Degli industri mortali e senza il vanto
De' superbi tiranni. Il gran Sesostre,
Ch'i regi catenati al duro giogo,
Quasi cavalli o buoi, soggetti a forza
Tenne, e tragger gli fece il proprio carro
Per le già dome e soggiogate genti,
Quel Sesostre, dich'io, terrore e scempio
De' regni d'Aquilone, ov'egli in alto
Pose la sede (e ben di ciò si gloria
Con fama antica il favoloso Egitto),
Quell'istesso Sesostre il mar de gl'Indi
E l'Eritreo tentò d'unire insieme
Con quel d'Egitto, e la mirabile opra
Il re possente abbandonò, temendo
Che sommersa dal mar la verde terra
Non rimanesse. E quella istessa tema
Poscia ritenne il successor di Ciro.
    Eran, quando fu dato il corso all'onde,

Pieni di cavernosi e curvi monti
Gli antri e le tenebrose atre spelunche,
E le valli palustri in varie forme
Pendenti, ed ime in fra montagne e colli.
E, quasi eguali al mare, i larghi campi
Eran già colmi di argentato umore,
E tutti insieme si votar repente
Al comandar della divina voce.
Da cui l'acque fur mosse, e in giù sospinte
Dalle quattro del mondo avverse parti,
E 'n una ragunanza insieme accolte.
Anzi nel tempo istesso allor costrutti
Per opra fur della divina destra
I larghissimi vasi, i fonti e l'urne,
E gli altri lochi, in cui s'accoglie o versa.
Non era ancor di là del varco angusto
Che divide con l'onde Abila e Calpe,
Anzi Libia ed Europa, il mar d'Atlante,
Nè quel sì spaventoso a' naviganti
Tempestoso ocean, che 'ntorno inonda
Di Gerione i fortunati regni,
E l'Inghilterra e la vicina Irlanda;
Ma fur di quella voce al gran rimbombo
Fabricate le rive e 'l vasto letto,
In cui si radunar l'acque correnti.
    Nè 'ncontra il vero insuperbire ardisca

L'esperienza de' mortali erranti
Fallace e vana, a cui di pochi lustri
Il brevissimo spazio orgoglio accresce.
Perchè, dico io, se ben riguardi e pensi
Il numero de' secoli volanti,
A lui non giunge esperienza umana.
E non adduca incontra noi l'esperto
Che del mondo cercò le parti estreme,
Fosse, stagni fangosi, imi e palustri
Laghi, in cui si raccoglie il pigro umore,
Che Dio stimò di sì gran nome indegni,
E mari egli chiamò sol l'ampie e grandi
Ragunanze de l'acqua, anzi quell'una
Grandissima e perfetta, in cui s'accoglie,
Come in suo luogo, il liquido elemento.
    E come il foco, che diviso e scevro

In parti minutissime, risplende
Qui per nostro uso in verde legno, e 'n esca
Arida, in forma di carbone acceso,
O di lucida fiamma o di fumante,
Per cui si sparge in cenere e 'n faville,
Ma sotto il ciel, ch'è men sublime ed ampio,
Nel cavo spazio si raccoglie insieme;
O come l'aria, che si spande e spira
Per varie parti, e nell'occulto grembo
Passa de l'onda, onde gorgoglia e spuma,
E fra spelunche e cavernosi monti
Penetra ancora, e nell'interne vene
Della profonda e tenebrosa terra,
Ma pure insieme il proprio loco ingombra;
Così l'acqua non men s'aduna e sparge
In vario letto e tra confini angusti,
Ma poi raccolto in voto spazio e vasto,
Empie il salso elemento il proprio sito.
L'altre acque in varie parti insieme accolte,
A questa somiglianza anco sortiro
De' mari il nome sì famoso e illustre.
Sì come là, dove Aquilone algente
Versa mai sempre le pruine e 'l gelo
E i larghi campi e gli aspri monti agghiaccia,
Che son canuti di perpetua neve.
Ivi (come la fama a noi divolga),
Sono ampissimi stagni, e nel profondo
Letto e fra le superbe orride rive,
Quasi emule del mar alte paludi;
E in gel converse, anzi indurate e strette,
Quasi in lucente adamantino smalto,
Delle veloci rote il corso e 'l pondo
Sostengon del gravoso ed ampio carro
Che gli animali ignoti a' nostri sensi
Soglion tirar, la fronte alta e superba
Di più ramose armati e lunghe corna,
Facendo lunga strada al grave plaustro
Là 've dianzi correa spalmata nave.
Ma di tutti maggior candido lago
Là sotto i sette gelidi Trioni
Biancheggia, e quasi eguale al mare Ircano
Molte ha d'intorno a le sue algenti sponde
Città, provincie, regni, ignote genti,
Popoli barbareschi; e questi a caccia
Van per le rive, chè gli augei volanti
O su per l'onde e dentro all'onde istesse
Cercan l'umida preda e 'l cibo usato
Degli animai squamosi e degli alati.
Botmia, Botmia pescosa, assai vicina
A i più lontani ed ultimi Biarmi,
Intra que' suoi gelati orridi monti
Ha molti quasi mari; e nutre e pasce
Pur di quell'esca le propinque genti,
E potria mezzo nutricarne il mondo.
Nè di Venere il lago in altra parte,
Che sotto l'Orse si dilata e spande,
E nel suo spazioso e largo seno
Per ventiquattro porte i fiumi accoglie,
Ch'entrano in lui; ma solo aperto un varco
Lascia al precipitoso uscir de l'acque,
Che per sassoso calle al mar sonante
Corrono, e 'l suono i suoi vicini assorda.
Ei molti accoglie nell'ondoso grembo
Isole e tempi sacri al Re celeste,
In cui s'adora con pietoso culto.
Quivi il lago di Melce anco vi stagna
Fra 'l regno di Suezia e quel de' Goti.
Quel di Vetere appresso ivi mareggia,
E di fulmine il tuono, o di metallo
Imitator del fulmine, rassembra
Con quel de l'acque, allor che d'alto il corso
Move precipitando: onde sovente
Tonar diresti e fulminare il ferro,
Che l'alte mura impetuoso atterra.
E l'uno e l'altro di metalli abonda,
Sì ricche son l'aventurose rive
Di gran vene d'argento e di ferrigne.
Ha 'l regno di Norvegia il proprio lago,
Che 'n vece di prodigio in sen si nutre
Orrido, spaventoso, empio serpente.
L'ha quel d'Ibernia, ov'uom languente ed egro
Non può stanco spirar lo spirto e l'alma,
Se quinci non è tratto. E fra' Britanni
Si vede un lago, che pur scema e cresce
Con ordine contrario al mar sonoro:
In cui, quando egli cala, il lago inonda,
Ma l'onde a sè raccoglie e torna indietro,
Quando più ferve l'ocean superbo.
Ha Scozia il Latio di famoso grido,
E la maravigliosa alta palude,
Che quando è più sereno e puro il cielo,
Nè si movon per l'aria o venti od aure,
Si gonfia, non so come, e l'onde accresce.
Molti Germania e Francia, e quel famoso,
Da cui il Rodan si parte e 'n mar trascorre.
Alla palude Lagia, onde si vanta
La nobil Carnia, lunga età vetusta
Non ha scemato ancor l'onore e 'l grido:
Quivi si pesca prima; e poi ch'è fatta
Secca ed asciutta, in lei si sparge il seme
E si raccoglie; e tra le verdi piante
Prende l'abitator gl'incauti augelli.
E 'n tal guisa divien che 'n varj tempi
L'istessa sia palude e campo e selva.
E di Tracia e d'Arcadia ancor son conte
Le maraviglie; e nell'avversa parte
Del mondo, dove il sole asciuga ed arde
La terra, sono ancor nel suolo adusto
Di mirabil virtù paludi e stagni,
A cui di mar non fu negato il nome.
    In Giudea per miracolo s'addita

Quello in cui piovve già dal cielo ardente
La giusta fiamma, e l'altro a lui vicino,
Onde prima il Giordan si move e scende.
Fra Palestina giace e 'l verde Egitto
Ne' deserti d'Arabia un ampio lago
Detto di Simoite. Or perchè narro
O d'Arabi o di Siri acque stagnanti?
S'ancor la terra d'Etiópi e d'Indi,
Via più soggetta al sol, s'irriga e bagna
De' suoi laghi famosi? e si racconta
Che d'alcuni bevendo uom folle e stolto
Tosto diviene, e pur dal sonno oppresso
Si giace e da mortifero letargo.
Oltra le mete ancor d'Alcide e i segni,
Fra 'l tropico del Cancro e l'ampio cinto
Che la spera maggior divide e fascia,
Ne' regni dianzi ignoti un lago ondeggia,
Lo qual non d'ora in ora o scema o cresce
Nè d'uno in altro giorno, e non s'avanza
Di stagione in stagione o d'anno in anno.
Ma in guisa d'uom terren, che tardi aggiunga
Al suo perfetto stato, e tardi ancora
Declinando di sè minor divegna,
Per cinquanta anni egli s'accresce e colma,
Ed altrettanti poi si scema e vota.
    Ma dove, Italia bella, omai tralascio

I laghi tuoi descritti in mille carte
E chiarissimi ancor di fama e d'onde?
Chi tace il Trasimeno? o quel ch'accoglie
Nel dolce seno la città di Manto?
O 'l grandissimo Lario o 'l gran Benaco,
Ch'assomiglia del mar l'orgoglio e l'onde?
O tanti altri, onde lieta ancor t'inondi?
Perchè taccio io le maraviglie antiche
De' stagni di Rieti, in cui vedeansi
L'isolette ondeggianti ir quasi a nuoto?
O nel lago Tarquinio i boschi ombrosi
Ir su per l'onde, e variar sovente
Forma e sembianza or con ritondo giro,
Or con tre lati, e fare il terzo acuto?
    Ma de l'opre di Iddio chi mi trasporta

A narrar di natura i varj effetti
Antichi e nuovi? e riempir le carte
Sacre a la maestà del Re superno
D'altro onor, d'altra istoria e d'altro nome,
O d'altre rare maraviglie eccelse,
Che delle sue medesme? o pur son anco
L'opere di natura opre divine?
E 'l magistero di natura è l'arte
Del fattor primo, ond'è fattura e figlia
La gran madre natura; e 'n lei s'onora,
E 'n lei si riconosce e si contempla
Il saper e 'l poter che tutto avanza
De l'alto Re, ch'è suo fattore e Padre.
Lo qual de' mari diè l'immago e 'l nome,
E l'ondeggiar con tempestoso flutto
A l'acque insieme accolte. E pur di tante
Fece un sol mar con magistero illustre,
Ma pur in parte occulto a' sensi erranti,
Ed uno sol de l'acque ampio elemento;
A cui fra la gravosa e stabil terra
E l'aer leve e vago egli prescrisse
La sede e 'l proprio loco, e quinci e quindi
Pose i fermi confini e quasi eterni.
    Un solo adunque è il mare insieme aggiunto

D'acque infinite e d'infiniti abissi,
Come affermâr quei che di sole in guisa
Lustrâr la terra o circondarla intorno,
Peregrinando dall'occaso all'orto
O da' regni di Borea a' regni d'Austro.
Bench'alcun sia che stimi il mar Ircano
Da ciascun altro mar scevro e disgiunto,
Perchè tutto di rive intorno è cinto.
Nè dimostra altrimenti il vago senso,
Come ben dimostrò l'antico errore
Di chi pensò che nell'istessa guisa
Separato ancor fosse il mar Vermiglio
E quel de gl'Indi. Ma non senso o certa
Esperienza di mortali industri
Può dimostrar ch'a gli altri mar unite
Sian l'onde caspie, che divise e 'ntorno
Son circondate da sì lunga terra.
Ma sol il peregrino ed alto ingegno,
Ch'ascende al cielo, e gli stellanti chiostri
Di spera in spera alfin trapassa, e varca
I confini del mondo e i spazj angusti,
Esposti a sensi, e con eterna pace
Si congiunge a le pure eterne menti.
Il medesimo ingegno i letti e 'l fondo
Cerca de' mari ondosi, e va sotterra
Spiando le più occulte e interne parti,
Che ne' secreti suoi natura asconde:
Questo osò d'affermar del Caspio mare
Che sotterra con gli altri ancor s'aggiunga,
Come del greco Alfeo, come del Tigre,
Come degli altri fiumi ancor si legge.
Perocchè Iddio, qual fondatore antico
D'alta cittate, od architetto illustre,
Che per uso di lei profonde e lunghe
Strade faccia sotterra al corso occulto
De l'acque vaghe, e le conduca altronde
O da fonte o da fiume o da palude:
Tal de' mari forò le vie nascoste
Dentro la tenebrosa e fredda terra;
E da' suoi fonti le rivolse in giro
Il Dedalo divin (se dir conviensi),
Sicchè non sol congiunto al mar di Gade
È l'Africano insieme e quel de' Sardi,
E 'l Ligustico appresso e 'l mar Tireno,
L'Adriano, l'Ionio e pur l'Egeo
Con tante isole sue, con tanti porti,
E 'l Mirteo suo vicino, e seco il Ponto
Con l'Ellesponto, e la palude amara.
Ma d'Arabi e di Persi e d'Indi adusti
I larghi seni all'ocean profondo
Son pur congiunti, e 'n più mirabil modo.
Il Caspio mar, che si rinchiude e copre
Per tanto spazio, e poi da gli altri appare
Diviso, e quasi peregrin solingo,
L'alta unione e 'l gran principio asconde.
    Non disse allora Iddio: La terra appaia :

Ma L'arida si veggia. Arida volle
Chiamar la terra, e dimostrar col nome
Ch'arida fu la terra avanti il sole,
Avanti che nascendo il sole in cielo
La seccasse co' rai, e 'n membra asciutte
L'antichissima madre arida apparve.
Però ch'al suon della divina voce
Corsero tutte l'acque in giù repente,
Ond'ella ne restò fangosa e mista
D'acque stagnanti in male adorno aspetto.
Ma fu sua prima qualità vetusta
L'esser arida; e secca è nota antica
Che la disegna e sua sostanza adempie.
    Come è proprio dell'acqua il freddo, e 'l caldo

Del foco, e l'aria è d'umida natura,
Così a la terra l'arido conviensi.
E sì come al muggire è noto il tauro,
E 'l fier leone al suo ruggir superbo,
E 'l cavallo al nitrir, così la terra
Per l'arido s'informa e si distingue.
    Ma de' primi elementi ancora immisti

Ciò solo intender può l'accorta mente
Contemplatrice degli obietti eterni.
Ma poi che a' nostri sensi omai soggetti
Son delle cose instabili e caduche
I gran principj, onde perpetua guerra
È sotto il giro de l'algente luna,
In lor nulla di puro o, di sincero,
O di semplice vedi o di solingo;
Ma son mischiati insieme, e 'n lor s'accoppia
L'una con l'altra qualità primiera.
Onde la terra insieme è secca e fredda,
Fredda ed umida l'acqua, umida e calda
L'aria, ma sovra lei vicino al cielo
È caldo e secco per natura il foco.
Così le qualitati a coppia a coppia
Ne' primi corpi son congiunte insieme,
Per cui l'uno con l'altro in un si mesce
In breve pace. E come aviene in danza,
Che alcuno in mezzo è con due mani avvinto,
E con due mani avvince, e quinci e quindi
L'intrecciata carola in lungo giro,
Mentre ella si rivolge, 'n sè ritorna;
Così degli elementi il coro e 'l ballo
Si gira in cerchio ed in se stesso ei riede,
Però che l'acqua col suo freddo unita,
Quasi con una mano, al suolo algente
È della fredda terra, e d'altra parte,
Con altra quasi mano umida tocca
L'aria, che posta pur fra l'acqua e 'l foco,
Sè per l'umido suo con l'acqua implica,
E col suo caldo sè accompagna al foco.
E delle due nature in sè discordi
E guerreggianti, la contesa e l'ira
Divide e parte, e lor congiunge in lega.
    Oh mirabil del mondo, in un congiunta

Con varie tempre e con tenaci nodi
Catena indissolubile e più salda
Che duro ferro o lucido adamante,
Per magistero del superno Fabro!
Oh delle cose instabili e caduche
Ordin fermo, costante e quasi eterno!
Che nel tuo variar perpetuo osservi
Leggi incorrotte, universali, antique,
Che note sono all'Etiope adusto
Ed al gelido Scita; e parte assembri
Nelle vicende e nel tuo moto incerto
Le certe leggi, e sovra 'l ciel divine.
    Ma poichè fur nel suo profondo sito

De l'acque scorse i gran diluvi accolti,
Vide Dio ch'era bello il nuovo mare,
Con gli occhi no, ma con la mente eterna,
Onde il fatto da lui nobil lavoro
E l'opre sue medesme egli contempla.
Lieta vista e gioconda, e vago aspetto
Quello è del mar, quando tranquillo e piano
Biancheggia mormorando appresso il lito.
E bella vista ancor, se 'l dorso inaspra
Lenta e piacevole aura, e l'onde increspa,
Quando ei ceruleo over purpureo appare
A' riguardanti, e non percote irato
Con violenza la vicina terra.
Ma dolcemente le distende intorno
L'amiche braccia, e le si avvolge in seno.
Ma non in questa guisa o bello o caro
Fu il sembiante del mare al Re celeste;
Nè qui della beltà giudice è il senso,
Ma la ragion della mirabile opra
Nel giudicio divino è bella, e piace.
    In prima il mare all'ampia terra intorno

È d'ogni umor di lei perpetuo fonte,
E per oscure e tenebrose strade
Sotto la cavernosa e rara terra
Se medesmo egli pur divide e parte,
Quasi per mine occulte assai profonde.
E poi che da se stesso in lor s'è chiuso,
Con gli obliqui suoi corsi ascende in alto:
Da lo spirto che 'l move alfin sospinto,
Rotto de l'aspra terra il duro grembo,
Fuori se n'esce. E de' purgati umori
Il terrestre amaror cangiato ha in dolce.
E, trapassando, da i metalli ei prende
Qualità via più calda, onde sovente
Con fervide acque egli s'accende e bolle
Ne l'isole, che 'l mar circonda e bagna,
E ne' lochi vicini al salso lido,
Talvolta in quei che son fra terra e lunge.
    Bello il mar dunque è nel giudicio eterno,

Perchè sotterra ha 'l suo profondo corso.
Bello, perchè nel salso ed ampio grembo
Tutti raccoglie e d'ogni parte i fiumi,
E ne' termini suoi se stesso affrena.
Bello, perchè 'l principio e quasi il fonte
È delle pioggie, e d'ogni umor che versi
L'aria ristretta in brina o 'n neve o 'n gelo;
E riscaldato da gli ardenti raggi,
Le sue parti più lievi esala in alto,
Le quali arrivan poi nel loco algente,
Ove di raggi ripiegati e torti
Non giunge il caldo. Ivi ristrette insieme
Sono dal freddo che circonda intorno
E caggiono in gravoso e denso umore.
Tal che l'arido seno indi s'impingua
Della terra, che poi concepe e figlia
Tante e sì varie e sì leggiadre forme
Di piante, d'animai, di fiori e d'erbe.
    E chi negar può fede al ver ch'io parlo,

Veggendo come ferve al foco ardente
E fuma il vaso che d'umore è colmo,
Sì che le parti sue sottili e levi
Spirando in aria, egli si vota o scema?
Ma de l'istesso mar l'onda sovente
Nelle spugne raccolta e cotta al foco,
Degli assetati naviganti e lassi
Serve al bisogno, e gli consola in parte.
    Ma bellissimo è il mare inanzi a gli occhi
   
Della divina ed immutabil mente,
Perchè con le spumose e torte braccia
Tante isole nel sen raccoglie e stringe.
E perch'ei le remote e varie parti
Della terra congiunge, e i lidi opposti
Dalla natura; e largo e piano il varco
Porge al nocchier, che lui trapassa e corre
Care portando e preziose merci
E quindi e quinci: onde il difetto adempie
De l'una gente, all'altra il peso alleggia
Scemando quel che di soverchio abonda.
E porta insieme ancor di cose occulte,
Anzi d'ignote maraviglie e strane
Moderna istoria e peregrina fama.
    Ma da qual alto e in mar pendente scoglio

E da qual più sublime eccelsa rupe,
Da qual sommo di monti alpestre giogo
Che signoreggi d'ambe parti il mare,
Vedrò la sua beltà sì chiaro, e tanto,
Quant'ella innanzi al suo fattor s'offerse?
    Ma se pur è sì bello e sì lodato

Anzi il divin cospetto il mare ondoso,
Più bella assai festante e folta turba
È de' fedeli suoi raccolta e mista,
Ch'anzi le porte e dentro il tempio ondeggia,
Ed offre i voti; e le preghiere al cielo
Devota sparge: onde s'ascolta un suono,
Pur come d'onda che si rompa al lito.
    Così quel suo pietoso e lieto aspetto

Nelle maravigliose e sacre pompe,
E la serena sua tranquilla pace
Conservi il gran Clemente; e 'l culto accresca
Nelle quattro del mondo avverse parti,
Mentre apre il cielo e i suoi tesori eterni,
E le sue grazie altrui comparte e dona;
Nè faccia me di rimirarlo indegno.
Poi disse Dio: La terra ancor germogli
L'erba sua verde, e 'l suo fecondo legno,
Che produca i suoi frutti; e questo e quella
Conforme al seme che nel seno asconde.
Così diss'egli. E la gran madre antica,
Che scosso avea de l'acque il grave peso,
Già respirava, ed alleggiata in parte
Parea, quando fuor diede i nuovi parti.
Perchè la voce del soprano impero
Costante e certa ed immutabil legge
Fu quasi di natura; e 'n parte alcuna
Ella non varia al variar de' lustri,
Ma si conserva ancor di tempo in tempo.
Però della pregnante e grave terra
Quasi la prima prole è il verde germe;
E poi che dal suo freddo umido seno
Egli s'inalza alquanto, erba diviene,
E vigore e fermezza alfin acquista,
Talchè fien si dimostra, o 'n altra forma
Perfetta appare, e 'n sua cresciuta etade
Ha ciascuna di lor l'erboso e 'l verde.
Per cui, quasi sorelle e nate insieme,
Non ci paion l'istesse, e non diverse
Molto; ma l'una assai somiglia l'altra.
E senz'ajuto altrui la vecchia madre
Queste produsse, e non fu d'uopo altronde
Strana virtute, oltre il divino impero.
    Fu chi pensò ch'alta cagione il sole

Fosse di ciò che 'n lei s'appiglia o nasce,
Lo qual la scalda con gli ardenti raggi,
E 'l suo natio vigor dal suo profondo
Con quel vital calore attragge in alto;
Ma dietro sua ragion s'inganna e falle,
Perchè la madre terra è più vetusta,
E nata pria che 'n ciel nascesse il sole.
Non gli perturbi adunque un vano errore
E lascin d'adorar del sole il lume,
Come di vita sia cagione eterna.
Cessin le maraviglie antiche e nuove,
Cessino i preghi, i sacrifici e i voti;
Cessin non pur marmorei alti colossi,
Ma con gli altari i simolacri e i tempi.
E cessi ogni fallace ed empio culto,
Onde ancor quella sciocca e rozza gente,
Ch'oltre le mete e le colonne alberga,
Sotto l'ignoto ciel, la terra ignota
Che l'ocean da noi scompagna e parte,
Adora il sole, e come a Dio supremo
Gli idoli suoi bugiardi a lui consacra.
E sappia, scorta omai da santa voce,
Per cui del nato mondo in lei rimbombi
La maraviglia, e del celeste Fabro
L'opra e 'l lavoro e 'l magistero adorno:
Sappia ella, dico omai, s'inganno o dubbio
In que' semplici petti ancor rimane,
Sappia che quel lucente ardente sole
Che tutto del suo lume il mondo illustra,
E tutto il corre, e lui circonda intorno,
Quell'aureo fonte di serena luce,
Quel grand'occhio del ciel, quell'alto padre
Della vita mortal, quel duce eccelso,
Lo qual co' raggi suoi ne guida e scorge,
Nuovo e giovane più di fieno e d'erba,
Cede lor di vecchiezza il primo onore!
Ma che! Fu prima alle lanute gregge
Ed a' cornuti armenti il verde pasto
Preparato dell'erbe! e 'l cibo umano
Fu d'ogni providenza allora indegno!
E quel Signor, ch'a' tardi e pigri buoi
Ed a' cavalli rapidi e correnti
Il facil nutrimento anzi dispose,
Dolci apparecchi a te care vivande,
Onde tu goda e ricca mensa ingombri.
Quel che le mandre tue ti nutre e pasce,
O pur le torme in prato erboso impingua,
In gran vasi d'argento o di fin oro
Condisce il cibo, e ti nutrisce e giova,
E co' sapori ti lusinga il gusto.
Ma 'l germogliare ancor di seme sparso
Altro non è ch'un prepararti avanti
Quel che la vita ti mantenga e servi.
E l'erbe ancor son nutrimenti umani,
E l'altre che produce il suol fecondo,
Quasi fra l'erbe e le frondose piante
In mezzo poste, e di natura incerta.
Benchè non tutti dall'erbosa terra
Nascon di semi sparsi i germi e i parti;
Nè la gramigna, onde corona illustre
Ebbe ne' tempi antichi il buon romano;
Nè la canna, che tempra in dolce suono
Spesso al pigro pastore i rozzi amori;
Nè la menta, nè 'l croco, e mille e mille
Senza altro seme ancor produce e cria
La terra, umida il volto e pingue il seno:
Perchè nella radice o pur nel fondo
Quasi è virtù di seme. E 'n questa guisa
La vota canna, poi ch'un anno intiero
Cresce vestita di sue verdi spoglie,
Da sua radice manda e sporge in fuori
Un non so che, lo qual di seme ha forza
O pur ragione, e l'è di seme in vece.
Nè della canna già l'oliva è nata,
Ma dalla canna pur nasce la canna,
L'oliva dall'oliva: onde s'adempie
Quel che da prima Dio di lor dispose.
E quel che fu nel primo antico parto
Generato di terra e fuor prodotto
Dalle tenebre oscure in chiara luce,
Di stagion in stagion, di tempo in tempo,
Nel simil suo rinasce e si rinuova,
E nella sua progenie è quasi eterno.
    Deh pensa come al suon di pochi detti

E di comandar breve allor repente
La raffreddata e secca e steril terra
Sentì del partorir la pena e 'l duolo.
E i cari frutti a generar commossa,
Aprì del chiuso ventre i verdi chiostri.
Come donna pur dianzi egra e dolente,
Deposto il negro manto e 'l vel lugubre,
Veste di ricche spoglie e d'aurei fregi,
Con arte vaga oltre l'usato adorna;
Così la terra, che 'n dogliosa vista
Mesta appariva e 'n squallido sembiante,
D'erbe e di fiori e di frondose e liete
Piante novelle all'abbellite membra
Fece la verdeggiante e ricca veste,
Tessendo al lungo crin varie ghirlande.
    Deh pensa teco ancor di parte in parte,

Quante fè maraviglie Iddio creando;
E perchè resti al cor profondo affisso
L'alto miracol suo, dovunque giri
Gli occhi e 'l pensier nell'opere create,
Ti sovvenga di lui, che fece il tutto.
Perchè non è sì vile e rozza pianta,
O sì minuta in terra erba negletta,
Che rinnovar non possa al cor l'immago
E la memoria del fattore eterno,
E richiamarne i miseri mortali.
    Prima del fien veggendo i fiori e l'erba,

Pensa fra te che pur di fieno in guisa
L'umana carne si disfiora, e perde
Il suo natio colore, arida in vista,
E la gloria mortal troncata in erba
Cade repente. Oggi leggiadro amante
È nel più verde e più sereno aprile
Della felice sua gioiosa vita,
Nudrito di pensier dolci e soavi,
E di speranze giovenili altero,
E di purpurei adorno e d'aurei fregi,
Sparso d'arabo odor la chioma e 'l volto,
Robusto per l'età, raggira intorno
Un gran destriero, e lo sospinge al corso;
O con estrania pompa in finto aspetto
Appare altrui sotto mentite larve,
Gravi lance rompendo in chiuso arringo.
Domani è tinto di pallor di morte,
Con occhi nella fronte oscuri e cavi,
O con le membra debili e tremanti
Preme odiose piume, e ferve e langue
Con interrotte voci a pena intese.
    Quegli di sue ricchezze antiche e nuove,

Da sè raccolte o pur da gli avi illustri,
Della sua fama e del suo onor superbo,
E da folta seguito ed umil turba,
Anzi da numerosa e lunga greggia
De' proprj servi e de' ministri eletti,
O pur de' lusinghieri e finti amici,
Esce dall'alto suo dorato albergo,
E torna poi con orgoglioso fasto;
Ed uscendo e tornando, invidia e sdegno
Muove nel primo e nell'estremo occorso;
E d'ogni intorno vede all'alte porte
Accorrer gente, ch'ivi adduce e tragge
Grazia, prezzo, favor, mercede e cibo.
A le ricchezze alta possanza arroge
Di libera città governo, impero
D'armate squadre, e da gl'invitti regi
Onor concesso e potestà sublime,
E peregrina guardia in lucide armi
Temuta e fiera, e 'n disusata foggia:
Quinci il timore o di gravoso essiglio,
O della povertà spogliata e nuda,
O di tenebre oscure in carcer tetro,
Di gravi ceppi o pur d'orrida morte,
La plebe e i cavalier perturba ed ange.
Ma che? lo spazio di una breve notte,
Fianchi, stomaco, febre ardente e grave
L'assale e doma; e da sì lieto stato,
Da sì sublime altezza, anzi dal mondo
L'infelice signor rapisce a forza,
Dispogliando repente a lui d'intorno
Di questa vita la dipinta scena.
E tanta maiestà sparir confusa
Ratto si vede, e quasi in sogno e 'n ombra.
Così rassembra un fior languente e vile
La gloria de' mortali: alta e superba
Pur dianzi, è di fortuna gioco e scherno.
    Ma colle cose, onde la vita e 'l pasto

Aver poscia devean gli egri mortali,
Prodotto fu micidiale il tosco.
Nacque col grano la cicuta insieme,
Con gli altri cibi immantinente apparve
L'elleboro, e 'l color fu bianco e negro.
Apparve noto a la matrigna ingiusta
Poi l'aconito, e non rimase occulta
La mandragora in terra, e non s'ascose
Il papaver, che sparge il grave succo.
Debbiam dunque accusar la mano eterna
Che fece il mondo, e vi produsse in terra
Quel che la vita poi guasti e corrompa?
Ma pensar non debbiam ch'al ventre ingordo
Tutto debba servire empendo il sacco,
O lusingar con sua dolcezza il gusto?
Perch'ogni cibo preparato od esca
Nota s'offerse ed opportuna e pronta.
Ed ha ciascuna e la ragione e il modo
Ond'ella giovi. E se del tauro il sangue
Fu già veneno a te, famoso duce,
Che pria vinto fugasti il re de' Persi,
Poi te medesmo al suo poter soggetto
Far non sdegnasti e la tua patria antica,
Devea però quell'animal robusto,
Che si destina al giogo ed all'aratro,
E 'n molti usi ci giova e 'n mille modi,
Non esser nato? od esser nato essangue?
Non hai ragione, onde tu schifi o fugga
Quel che ti noce, e 'l tuo migliore elegga?
Le mansuete e semplicette agnelle,
O pur le capre, abitatrici alpestri
Degli aspri monti e de l'inculte rupi,
Sanno schivar quel che l'affligge e noce
Discernendo col senso. A te s'aggiunge
Col senso la ragion, celeste dono,
E lunga insieme esperienza ed arte.
Ma da quel che ci noce, anco sovente
Util si tragge, e 'n pro si volge il danno,
E giovevole altrui sovente appare
Quel ch'è dannoso a gli altri. E 'n questa guisa
Il mar col bene si contempra e mesce,
Tal che nulla è da Dio creato indarno.
La cicuta a gli storni è caro cibo,
Nè, benchè freddo, noce al caldo corpo
Del picciolo animal. Ricerca ancora
La pernice il veratro, indi si pasce.
Tai son le tempre, onde si schifa il danno.
La mandragora e l'oppio il sonno allice,
Ma giova ancora a la virtù languente
Delle famose donne, e degli eroi
Vinti dal mal, benchè dall'armi invitti.
Del buon veratro il buon remedio antico
È nella filosofica famiglia
In pregio ancor, perch'egli punge e desta
L'ingegno usato a le question profonde:
Come di Preto già sepper le figlie,
E 'l forsennato Alcide, e quel famoso
Ch'al buon Pericle fu maestro e duce.
E la cicuta ancor rabbiosa fame
Rintuzzando reprime. Or volgi adunque
L'accuse in grazie, e Dio ringrazia e loda,
Che deriva dal mal sì pronto il bene,
E dalla morte ancor la vita ei trasse.
E non pensar ch'oltre l'impero e 'l suono
Della sua voce, generare ardisca
Disdegnosa la terra audace parto;
Benchè la folle antichità la finga
Madre de' fieri mostri e de' giganti.
Ma l'infelice e sventurata felce,
Che non produce mai frutto nè fiore,
E l'infecondo loglio uscir produtti
Dal suo proprio principio, e non altronde
Corrotti e trasmutati in altra forma.
E di coloro ebber sembiante immago,
Di cui devean poi le parole e i sensi
Germogliar nelle sacre antiche carte
Inutilmente, e mescolati al vero
Farlo men puro e men sincero in parte:
Sì come avien, quando a progenie illustre
L'illegittima prole insieme è mista.
Anzi il Signore istesso i suoi perfetti,
Ch'ebbero in lui costante e salda fede,
Poi rassomiglia a quel cresciuto seme,
Ch'abbia prodotto al fin maturo il frutto.
    E già per adempir l'eterna legge

Della sua voce e 'l suo sovrano impero,
In un momento avea la madre antica
Maturati nel grembo i cari germi;
Eran fecondi già gli erbosi prati,
E 'n guisa omai di tempestoso mare
Ondeggiavan di spighe i verdi campi.
Ogn'erba, ogni virgulto, ogni arboscello,
Ogni umil pianta, e con le spoglie eccelse
Ogni arbor più frondoso e più sublime,
E ciò che per nutrirne o per altro uso
Della vita mortal germoglia e cresce,
Era già sorto, e verdeggiando in alto
Con larga copia empieva il fertil grembo
De l'ampia terra, e d'importuna pioggia
Non si temea, nè d'improviso turbo,
O di sonora e torbida tempesta.
Chè non potea de l'inesperto e pigro
Neghittoso cultor l'indugio e l'ozio,
O la sua tracotanza, od aria impura
E stemperata, o fulmine o procella,
Od altro sdegno pur del cielo irato
Nuocere al già maturo e dolce frutto,
O danno fare all'ondeggianti spighe.
Nè de l'aspra sentenzia il gran divieto
Della terra impedia la copia ancora:
Ch'erano allor più antichi i varj frutti
Del peccar nostro e di vetusta colpa,
Onde a sì duro e faticoso culto
Siam condennati, ed a ritrarne il cibo
Con lo sparso sudor del proprio volto.
E tutti ancora al suon de l'alta voce
I boschi verdeggiar con denso orrore
Di folte piante e d'intricati rami.
E quelli, che drizzar la verde cima
Sogliono al ciel con più sublime altezza,
Cedri odorati, abeti e pini, palme
Premio de' vincitori, o pur cipressi
Imitatori delle antiche mete.
L'umili ancor, come i ginepri e i salci,
Dispiegavano omai la verde chioma,
E quelle piante ancor di cui s'ordiva
Nobil corona all'onorate fronti,
Dico le rose e i sacri allori e i mirti,
Sorgendo insieme frondeggiar repente,
Con sua propria virtù distinte e scevre,
Quasi di varie note in varj modi
Da mano eterna a lor notizia inscritte.
Ma solamente allor ne' primi tempi
Senza que' suoi pungenti ispidi dumi
Spiegò le foglie la purpurea rosa.
A la bellezza poi del vago fiore
Aggiunta fu la dura acuta spina,
Perchè al nostro piacer sia appresso il duolo
E ci rammenti il peccar nostro antico,
Per cui fu condannata (e ben convenne)
A partorir la terra ortiche e spine.
Ma come avien ch'a quel divino impero
Molte, quasi ritrose e ribellanti,
Neghino obedienza in fare il frutto,
E non sian nate ancor del proprio seme?
L'arbore, onde già cinse il crine incolto,
(Siccom'è vecchia fama) il forte Alcide,
Or biancheggiar si vede, or negra appare;
Ma pur frutti non fanno o queste o quelle.
Son infecondi ancora il salce e l'olmo,
Ma ciascun ha di lor suo proprio seme,
Come vedrai, se ben riguardi e pensi
Che soggetto a le foglie è un picciol grano,
Misco nomato già dal Greco industre,
Che pose lungo studio e molta cura
In fare i nomi, e fabricolli e finse.
E questo ha forza pur di seme occulto,
Come hanno l'altre ancor, che da radice
Sogliono germogliar. Ma legge impose
L'eterna voce a le più degne e conte,
Di cui far volle Iddio memoria illustre.
Come la vite e la tranquilla oliva,
Di cui l'una produce il dolce vino,
E l'altra l'olio; e 'l vin conforto e gioia
È de' più dolorosi afflitti cori,
L'olio ci fa lucente e lieto 'l volto.
    Ma chi potrebbe annoverar, parlando,

Tante e sì varie di virtù secreta
E di sembianza, e da sì varie parti
Translate piante e peregrine illustri,
O nostre pure, e sotto il nostro cielo
Cresciute od in selvaggia orrida parte,
O tra le mura pur del proprio albergo,
Che fanno istoria sì famosa e lunga?
Basta la vite sol, che in alto estende
Le torte braccia, e con frondosi giri
All'olmo amico s'avviticchia e lega.
Basta la vite solo a farci accorti
Di nostra vita; e di natura esempio
A noi si mostra, anzi è più degna immago
Di immagin naturale o di celeste.
E rassomiglia umilemente altera
Della madre natura il Padre eterno,
Padre del cielo; o pur l'eterno Figlio,
Ch'a se stesso di vite il nome impose,
E cultor nominò, parlando, il Padre,
E noi, per fede nella Chiesa inserti,
Di chiamar si degnò sarmenti e tralci:
Però ch'a noi, come a la fertil vite,
Conviensi, o come a la feconda oliva,
Producer largamente i dolci frutti,
Senza spogliar giamai per tempo o caso
Della speranza non terrena il verde;
Ma con sempre fiorito e lieto aspetto
Rassomigliarla, e verdeggiar nell'opra
Ed offerirne a Dio la gloria e 'l merto,
Ch'è divino cultor di pura mente.
    Ma sono in dignità vicine a queste

Quelle felici piante aventurose,
Che della Madre sua son quasi immago:
La qual è nel cipresso e nella palma
Rassomigliata, e d'odorato cedro
E di platano ancor non prende a sdegno,
O pur di mirra la sembianza e 'l nome.
Ma pur queste medesme ed altre ancora
Utili sono a' magisteri, all'arte
Di nostra vita, e quasi a ciò prodotte
Dalla natura, anzi dal Fabro eterno
Con la natura insieme allor create.
Altra par nata a gli edifici eccelsi,
Altra a tesser di sè le navi o i carri,
Altra a far lance o pur saette ed archi,
Armi temute nell'orribil guerra,
Altra ci nacque destinata al foco,
Altra a far ombra a' peregrini erranti
Nel mezzo giorno, od a coprir d'intorno
Con le ramose braccia i dolci fonti,
O pur le mense fortunate a pieno.
Ma che sia proprio di ciascuna, o come
L'una dall'altra si distingua e parta,
O quai dentro a la rozza orrida scorza
Siano amori secreti e odi occulti,
È studio forse d'ozioso ingegno.
E 'l ricercar qual nel profondo grembo
De l'ampia terra le radici estenda,
Qual nel sommo di lei s'appigli a pieno,
Qual dritta nasca, e sovra un saldo tronco
Lieta s'avanzi e s'avvicini al cielo,
E qual cresca le braccia, e più distorta,
E in molti rami si divida e parta,
E qual umil serpendo, a terra inchina
Le verdi fronde, e non ardisca alzarsi
Senza il fido sostegno a cui s'apprenda,
Cura oziosa è pur di vana mente.
Ma quelle che divise e quasi sparse
Per l'aria son con molti rami intorno,
Sogliono aver ancor profonde a dentro
Le sue radici assai distese in giro,
Perchè natura stabilisce e fonda
Delle superne parti il grave peso
Incontra il mormorar di Borea o d'Austro.
Ne la nativa ancora inculta scorza
È gran divaro. Altra l'ha rozza ed aspra,
Altra men dura, altra più molle e liscia,
Altra d'una corteccia appar contenta,
Altra di molte si ricopre e veste.
Ma quel che maraviglia in vero apporta,
È che ritrovi in lor, se ben riguardi,
I diversi accidenti e i varj essempi
Di gioventute e di vecchiezza umana,
Perchè le piante ancor novelle e verdi
Han polita la scorza e quasi estesa;
Ma s'adivien che per molti anni invecchi,
S'empie di rughe ed increspata inaspra.
Ed altre germogliar recise e tronche
Sogliono. Ad altra, nel troncar, il ferro
Apporta quasi inevitabil morte.
Altra già fu che impetuoso turbo
Dalle radici sue divelse, e poscia
Ella risorse, e s'appigliò di nuovo
Nel duro grembo de l'antica madre,
Sì come ben due volte almeno avvenne
Ne' campi di Farsaglia; e 'n altra parte
Altra non pur, come si scrive e conta,
Ne la medesma terra anco s'apprese;
Ma fu talvolta che reciso ed arso
Il pino trapassò di selva in selva,
E verdeggiò tra le robuste querce:
Miracol raro di natura e grande,
Se maraviglie fa l'alma natura.
    Ma chi riguarda come il buon cultore

I vizi curi dell'inferme piante,
E de l'egra natura in lor corregga
Varj difetti e gli trasmuti in meglio,
Di curar se medesmo apprenda il modo.
Il bel pomo african, che in molle scorza
Mille quasi purpuree e bianche gemme
Asconde e copre, e poi le sparge aperte,
Onde l'arida sete estingua in parte,
L'acido suo sapore in dolce succo
Cangia sovente. E 'l mandorlo d'amaro
Dolce diviene, e l'amaror maligno
Affatto lascia, se forato è il tronco
A le radici, e dentro il foro infitto
Di pece un cuneo ei ricevendo accoglie
Ne la pingue midolla. E l'orzo ancora
È medicina a le frondose piante,
E le fa belle oltre misura e liete,
Tanto può l'arte del cultore industre.
Ma s'egli è neghittoso e pigro all'opre,
Per negligenza di coltura e d'arte
Gli alberi vanno ognor di male in peggio.
    Altri mutano ancor colore e forma,

Senza l'aiuto di coltura amica.
E la candida pioppa in negro tinge
Le bianche foglie, e si trasmuta in loglio
Sovente il lino, ed il sisimbrio in menta
Per soverchia coltura ancor si volge.
Così l'animo ancor, se studio o cura
Delle sue macchie nol polisce e terge,
Perde il natio candore, e tutto annera,
O pur di grande egli diviene angusto,
E d'alto basso, e se medesmo inchina;
Ma per culto s'inalza, e lieto aspira
Già quasi al cielo, e se medesmo avanza.
Dunque di coltivar l'umana mente
Apprendano i mortali, e i varj morbi
Sanar de l'alma in sè languente ed egra.
    Or chi potrebbe annoverar, parlando,

I varj frutti, e dimostrar distinti
I colori, i sapori, i proprj effetti
E la propria virtù mal nota al gusto?
Non sol mille maniere e mille forme
D'arbori fanno i frutti in mille guise,
Ma in una sorte istessa, e 'n una parte
Molta varietà s'osserva e mira
Di color, di figura o pur di sesso.
Sì come nella palma altri ritrova
Dalla femina sua distinto il maschio,
Perchè, come ella sia commossa e spinta
D'interno amor, quasi le braccia estende,
E brama al suo marito esser congiunta.
Ed il medesmo avien tra fico e fico,
Perchè 'l selvaggio a quel ch'alberga e nasce
Tra le ben chiuse e ben guardate mura,
Si pianta appresso, o pur si lega e stringe
L'uno con l'altro frutto; e 'n questa guisa
L'infirmità si cura; e si ritiene
Ch'egli non caggia al fin disperso e guasto.
Qual di natura è questo oscuro enigma?
Forse in tal modo ella c'insegna e mostra
Che da gli strani ancora a noi congiunti
Virtù s'acquista a le buone opre, e ferma
Costanza. Adunque Italia omai rimiri,
Italia ancor languente, ancora inferma,
Via più che 'n guerra, in neghitosa pace,
Che l'interno suo mal non vede o sente;
Miri gli orridi monti, e 'n loco alpestre
Cerchi la gente orribile e selvaggia:
Quinci il tenero suo, che langue e cade,
Anzi il morbido suo confermi e 'nduri
Per unione o per esempio almeno.
Ma in niun peggior modo e più spiacente
Traligna, e perdella robusta pianta
Il suo vigor e la sua prima forza,
S'egli adivien, come sovente incontra,
Che in femina di maschio egli si cangi.
E quinci l'uomo ancor si guardi e schivi
D'ammollir, quasi donna, il cor robusto
Che natura gli diè, tra i vezzi e gli agi,
Per ozio, per diletto o per lusinga.
Ma fra le piante ancor distinte e scevre
Natura amica amor vi pose e pace;
Pose fra l'altre inimicizia ed ira.
Il bel pomo gemmato e 'l verde mirto,
O pur il mirto e la feconda oliva
Son per natura amici, e in breve spazio
Piantati appresso senza oltraggio e danno.
Ma pur la dolce vite e 'l dolce fico
Avversi sono oltra misura e 'nfesti.
Chi 'l crederebbe? e tu, natura, insegni
Che tra' buoni talvolta è sdegno e guerra.
Ma si marita ancor la vite e 'l fico,
Come adivien quando fra regno e regno
Quetan le nozze l'odiosa guerra.
E chi 'l marito allor disbarba e svelle,
Langue la sua consorte in breve e more.
Nobile esempio de l'amore umano
E di fè marital costante e salda.
Ma 'l caulo, s'a la vite s'avvicina,
Tempra quel generoso e grande spirto,
Onde poscia il suo vino avampa e ferve;
E giova a gli ebri: in cotal guisa ammorza
L'interna fiamma fervida e fumante.
Ma d'innocenza han sovra gli altri il vanto
Il bel pomo granato e 'l dolce melo,
Nè fanno ad altra pianta oltraggio ed onta.
Ed innocente il pino inalza e spande
La chioma al cielo, ed ampio spazio adombra
Con larghi crini e con le braccia estese;
Picciol loco sotterra ingombra e prende
Con le radici. E sotto all'ombra amica
Verdeggiano securo il mirto e 'l lauro.
Sotto l'ombra così di re possente,
Che di tesoro ingordo o di terreno
Non si dimostra, e non si usurpa a forza
De' suoi vicini l'occupata parte,
Crescon molti sovente in lieta pace,
E fiorisconvi ancor gli studi e l'arti
De l'eloquenza, e i meritati onori.
Vi sono piante di natura incerta
E di gemina vita in acqua e 'n terra.
La mirica è fra queste. E spesso abonda
Ne' solitari luoghi e ne' deserti;
Ne' laghi e ne gli stagni ancor ci nasce,
Sembiante a quei che variar sovente
Soglion le parti, e d'uno all'altro campo
Seguir fortuna, e d'un signore all'altro,
Per natura maligni e per costume.
Ma delle piante al fin chi tace il pianto?
Chi tacer può le lagrime stillanti
Delle ruvide scorze? e i vivi umori,
Lucidi, trasparenti, insieme accolti?
Sparge dal legno suo tenace e lento
Sue lagrime il lentisco, e 'l dolce succo
Fuor versa ancor di lagrime odorate
Il balsamo, arboscel pregiato e caro
Nel regno degli Ebrei. Ma 'l verde Egitto
E l'Africa arenosa ancora il pianto
Della ferula vide. Il chiaro elettro
È lagrimoso umor, che scarso cade
D'arbor fumosa, e 'n un bel pianto impetra.
    Ma pur troppo il parlar s'avanza e cresce,

E ne gli aperti e smisurati campi
Della terra e del mar confine o freno
Non trova al corso: ond'ei disperso, errante
Per le cose minute andria vagando,
In cui sì grande appare e sì possente
Dio creator che fece ancor l'eccelse.
Dunque fia d'uopo di fermarlo, avvinto
Dalla necessità, ch'è dura e salda,
Prima ch'a la fatica il breve giorno
Manchi di questa mia vita caduca.
Voi che mirate le diverse piante
Ne gli orti, nelle selve o pur ne i monti,
Nelle paludi ancora e ne gli stagni,
O pur de l'Eritreo nel rosso grembo,
E vagheggiate i verdi tronchi e i rami,
E le fiorite lor frondose chiome,
Nel poco ormai riconoscete il molto,
E col pensiero a brevi e scarsi detti
Gran maraviglie ancor giunger potrete,
Pensando a quel Signor che fece il mondo
Maraviglioso di lavoro e d'arte.
Lo qual disse: Germogli ancor la terra
Il legno, che produca il dolce frutto
Sovra la terra. Allor all'alta voce,
Come paleo che nel suo ferro affisso
A la prima percossa ei va rotando,
E con molte sue rote in sè ritorna,
Così la terra va girando a cerchio
Le sue stagioni, onde si spoglia e veste,
E i cari frutti suoi produce e serba.
Chè pur la sferza con divina voce
Quel che comanda a la natura, al cielo,
Perch'ella d'anno in anno i certi giri
Volga sembianti al primo. Alfin gli adempia,
Quand'avrà fine il tempo e fine il mondo,
Ned ella sola avrà quiete e pace,
Ma i cieli avranno ancor riposo eterno.

GIORNATA QUARTA

IN CUI FURON CREATI IL SOLE E LA LUNA E LE STELLE

ARGOMENTO

Con bella similitudine dice che dal mirar le cose celesti deve la mente inalzarsi a considerar la creazione loro, ed a narrarla; che ciò ardisce di fare, scorto da Mosè. Mostra il desiderio che ha di narrar molte cose onde s’innalzerebbero gli uomini a conoscere Dio, e i beni celesti. Epiloga le opere de’ primi tre giorni, e cominciando a narrare quelle del quarto, nella creazione del Sole e della Luna allegoricamente tocca il mistero dell’incarnazione. Mostra che fu la luce innanzi al Sole ed alle stelle, da cui la divide, coll’esempio del fuoco, la natura del quale sarà divisa nel giorno del Giudizio. Segue colla dissomiglianza tra il Sole e la Luna, e perchè Dio li dipartisse nel giorno, e nella notte. Mostra come diversamente risplendano questi due Pianeti: come tutte le stelle insieme sono ad essi inferiori; come di quelli fosse da Dio temprato l’ardore, e discendendo alla Luna, applica l’instabilità di lei alle ricchezze, agli onori terreni, ec. adduce, e riprova la somiglianza del Sole e della Luna alle due parti dell’anima: e mostra come la parte agente fosse creduta Dio. Dice la varietà della Luna esser giovevole, da essa derivando la causa della commozione de’ venti, e l’agitazione del mare. Prosegue a dire che nel tempo stesso furono fatte le stelle, e reca la differenza tra quelle e le comete. Riprova l’opinione degli antichi sulla via lattea; assegna breve tempo alla Cometa regia; nè vuole che in ogni luogo appaia, e che sempre sia nocevole. Afferma che la stella de’ Magi fu opera nuova di Dio. Narra la separazione fatta tra il Sole e le Stelle, alle quali ascrive diverso corso e fine: confuta il parere d’Aristotele circa il numero e l’ufficio delle Intelligenze, e con l’esempio dei re terreni, mostra che debbono essere infinite; e che di continuo s’accrescono le anime in cielo per mezzo del Battesimo. Segue, descrivendo il corso de’ cieli: forma l’anno, costituito di dodici mesi, ed espone che cosa esso sia, variandosi le sue parti dal vario corso del Sole: il quale, or con allontanarsi, ora con farsi vicino, cagiona non meno l’arsura, ed il freddo, che la diversità de’ giorni e delle notti. Descrive l’Eclittica, da cui dice non uscire il Sole, indicando la dritta via della virtù. Paragona il mancamento di luce talvolta nel Sole allo splendore della Fortuna; e dicendo che Dio solo non patisce tal difetto, accenna l’eclissi nella sua morte. Adduce le opinioni di varie Sette intorno al nascere, al cadere, ed al variare del corso di ciascun Pianeta, le quali tutte riprova. E concludendo da alcuni segni del Sole e della Luna prevedersi la condizione de’ tempi, ascrive il tutto alla volontà di Dio.

Quel che rimira le contese e i pregi
De' lottatori, o di chi leve al corso
Le membra ignude in dì solenne affretti,
O de' guerrieri pur l'imprese e l'armi
Diverse in largo campo o 'n chiuso arringo,
E i duri incontri in torneamento e in giostra,
Sente in se stesso un movimento interno,
Ond'è commosso e concitato insieme
Con quei che fan tra lor duro contrasto,
E col suo proprio affetto inchina e pende
Più sempre ad una parte, e brama e spera
La vittoria da quella, e spesso inalza
Per rincorar i suoi la voce e 'l grido.
Così chi di celesti obietti eterni
E delle cose smisurate e grandi
Mira le maraviglie, o pure ascolta
Quel ch'ogni estima, ogni giudizio avanza
Dell'inerrabil sapïenza ed arte,
Convien che seco, anzi in se stesso apporti
Gl'impeti interni e 'l vivo ardore, e 'l zelo
Fervido, a contemplar rivolto e fisso
Tai cose e tante, in pochi giorni al suono
Fatte della divina, eterna voce.
E dee con ogni forza insieme accolta,
Come compagno e come fido amico,
Trovarsi nel contrasto e darne aita,
Perchè non si nasconda e non s'adombri
La verità; ma senza inganni o falli
Risplenda e di sua luce i cori illustri.
Ma che dico? ed a chi ragiono e parlo?
Mentre in sì faticosa e giusta impresa
Quasi ardisco di porre i cieli in lance
E pesar l'universo appeso in libra,
Le prime opre narrando e i primi giorni
E i natali del mondo; e i primi e gli alti
Principj suoi non ricercando a caso
Fra le menzogne della Grecia antica,
Dove per suo voler s'accieca e perde
Altri, filosofando, il dritto lume;
O pur nell'Accademia e nel Liceo,
O nell'error del tenebroso Egitto,
Ma da colui, che fuor ne trasse, e scorse
I fidi suoi per mezzo al mar sonante:
Egli mi tragga ancor securo a riva
Da questo sì turbato e sì profondo
Mar d'ignoranza e di superbia umana.
Anzi pur tu, che lui rassembri, o Padre
Sommo, e rinuovi il primo e santo esempio:
Tu, che somigli lui, somigli ancora
Il Re del cielo, ond'ei fu quasi immago,
Ma pur nascosa fra gli orrori e l'ombra
Del secol prisco; e tu sei l'altra or vera
Spirante immago e simolacro illustre
De l'alta gloria sua, che nulla adombra,
Onde co' raggi suoi riluci e splendi;
Piacciati tanto al mio turbato ingegno
Compartir di quel santo e puro lume,
Che transfuso da te, conduca e scorga
L'alme gentili e i pellegrini spirti.
E se giamai gli occhi levaro in alto
In bel sereno, lucido, notturno
A l'immortal beltà dell'auree stelle,
Pensando all'opre del fattore eterno,
Chi è colui che fece il cielo adorno
E tutto il variò, quasi dipinto
Con sì diversi fior di luce e d'auro?
E come nelle cose esposte a' sensi
Necessità tanto il piacere eccede?
E se 'n tal guisa fur mirando apprese
Del sommo Dio le maraviglie eccelse,
E da quel che si vede e scopre agli occhi
Fur note poi l'altre invisibil forme,
Posson ben questi empier le sedi intorno
Di questo sacro a Dio teatro, e i gradi
Ove la gloria sua si narra e canta.
O possa io pur, sì come guida e scorta,
Ch'ignoto peregrin conduce intorno,
E gli edifici e le mirabili opre
Di famosa città gli addita e mostra,
Così condur le peregrine menti
De' mortali qua giù mai sempre erranti
A le sublimi maraviglie occulte
Di quest'ampia città, di questa io dico
Città celeste, ove è la patria antica
Di noi figli d'Adamo e l'alta reggia,
In cui gli eterni premi il Re comparte.
Ma poi cacciati in doloroso essiglio
Fummo dal micidial demon superbo,
Che pria dolce n'adesca e poi n'ancide
D'eterna morte, e 'n servitù n'adduce
A' duri lacci del peccato avvinti
Co' nodi di fortissimo adamante.
E qui potran veder securi e certi
Della nostra immortale e nobile alma
L'alto principio e la celeste origo.
E quella, che repente indi n'assalse,
Orrida e spaventosa e fiera morte,
Che del peccato è dolorosa figlia:
Del peccato, ch'è prole e primo parto
Del superbo demonio a Dio rubello,
Principe di malizia, e quasi fonte
Ond'ogni mal fra noi si versa e spande.
Qui conoscer potran se stessi ancora,
Chè per natura son terreni e frali,
Ma pur della divina e santa destra
De l'eterno Signor fattura ed opra.
E conoscendo se medesmi alzarsi
A conoscer Iddio, che fece il tutto,
Ed adorar il creator del mondo
E servir al Signor, dar gloria al Padre,
Amar quel che ci nutre e ci conserva,
Lodar quei ch'i suoi beni a noi comparte,
Principe a noi de l'una e l'altra vita
Caduca ed immortale, in terra e 'n cielo,
Apprender qui potranno, e sazi e stanchi
Non saran mai di celebrarlo a prova:
Perch'ei co' doni, onde arricchisce e illustra
E fa lieti qua giù gli egri mortali,
Conferma ancor le sue promesse antiche
De' tesori celesti e de l'eterno
Regno divino, ove ne chiama a parte
E l'umana speranza inalza e folce,
Che sempre per se stessa a terra serpe.
Ma se le cose, al variar de' tempi
Qua giù soggette, son pur tali e tante,
Quali e quante fian poi l'eterne in cielo?
E se quel che si vede a gli occhi nostri
Piace cotanto, or quai saranno al fine
Gl'invisibili oggetti all'alta mente?
Se del ciel la grandezza in guisa avanza
Ogni misura de l'umano ingegno,
Chi la natura senza fine eterna
Fia che comprenda? e s'egli è pur sì bello,
O pur sì grande e sì veloce il sole,
E sì ordinato ne' suoi obliqui giri,
Sì moderato al mondo e sì lucente,
In guisa d'occhio che l'adorni e illustri;
Se mai della serena e chiara vista
Non ci lascia partendo a pien contenti,
Bench'egli pur soggiaccia a tarda morte,
Quando che sia, deh qual bellezza eterna
Nel gran Sol di giustizia altri contempla?
Se sol non veder questo al cieco è pena,
Qual sarà pena al peccator ingrato
L'esser privo d'eterna e vera luce?
    Era già fatto innanzi il primo cielo

E la terra, e la luce ancor creata,
E già distinta era la notte e 'l giorno,
Ed era fatto ancor quel cielo appresso,
Che dalla sua fermezza il nome prende,
Confine estremo del sensibil mondo.
E l'arida, pur dianzi occulta e immersa
Tutta nell'acqua, era scoperta in parte
Dall'ondeggiante umore. E 'nsieme accolte
Eran già l'acque nel lor proprio loco.
Pieno la terra omai de' propri parti
Aveva il grembo, e di fecondi germi
Tutto d'erbe e di fior dipinto e sparso.
E frondeggiava dell'ombrose piante
La verde chioma; e pur ancor non era
Il sole, over la luna; e quel nomato
Non era della luce eterno padre
E padre delle cose, e quasi fabro,
Di quelle, dico, che produce e nutre
La madre terra; e 'l vano e falso errore
De' mortali che il senso inganna e guida,
Quasi fallace e lusinghiera scorta,
Non l'avea fatto Dio. Ma l'opre illustri
Avea fornito Dio del terzo giorno,
E dava ormai lieto principio al quarto.
E sian fatti (diss'egli) i duo gran lumi
Del fermo cielo; e questo e quel risplenda
Sopra la terra, e sia diviso e scevro
In disparte del giorno, ed in disparte
La metà della fredda oscura notte.
Così diss'egli, e fece i duo gran lumi.
Ma chi disse? e chi fece? Or non intendi
Della doppia persona il grande, occulto,
Ineffabil mistero e infuso e sparso,
La sacra istoria di saper profondo
Rivelato per grazia a' vecchi Padri,
Che nell'antiche carte ancor s'adombra,
Quasi per nube, e ne si vela in parte?
E non conosci ancor de l'alta voce
Quanto giovi a' mortali il santo impero?
Risplendan, disse Iddio, sovra la terra
Per illustrarla, e l'agghiacciate membra
Riscaldar col vital temprato foco.
Così disse egli; ed ab eterno impose
Che 'l sole i raggi suoi spargesse al giusto
Ed all'ingiusto; ch'all'ingiusto ancora
Volle giovar, chi di giovar insegna.
E negli iniqui ancora ei spande e versa
I suoi beni, e le grazie in ciel cosparte,
E transfuse dal sole e dalle stelle,
Nè fu nelle parole o pur nell'opre
Discorde a se medesmo il Padre eterno
Perch'ei primier creò la bella luce,
E poscia il sol. Fu senza il sole adunque
La chiara luce, e senza sole o stelle
Fu certo prima. E come il corpo all'alma,
E come serve il carro al proprio auriga,
Così a la prima luce i duo gran lumi
Fur dati, ond'ella risplendendo apparse.
Perch'ella da se stessa a gli alti ingegni
Prima risplende ed a le pure menti,
Intelligibil parto e quasi eterno;
Poi sovra il doppio carro a' vaghi sensi
Nel dì riluce e nell'ombrosa notte,
Nè mai di carreggiar è stanca o tarda
Per le strade là suso oblique e torte.
Fu dunque pura luce inanzi il giorno,
Che poi di raggi adorno il sol distinse.
Anzi Dio stesso separar la luce
Dalle tenebre volle e dipartirla,
Ma comandò che separasse il sole
Il chiaro giorno dalla notte oscura:
Perch'a la nobil mente egli distingue
I puri oggetti, e poscia al sol comanda
Che gli mostri divisi a' sensi erranti;
Ed a la bianca luna ancor ministra
Del suo splendore; e vuol che questo e quella
Il tempo e l'ore in spazio egual comparta.
Osiamo adunque senza inganno o tema,
Almen con l'animoso alto pensiero,
A separar dalla sua luce il sole,
Come nel foco si divide e parte
Quel di lui che n'infiamma e quel ch'illustra.
E già il divise con mirabil vista
Iddio, quando egli al rubo il foco impose,
Lucido assai, dal suo splendor disgiunta
L'altra propria virtù, quella ch'incende,
Che rimane ozïosa, allora occulta:
Tanto è il poter della divina voce,
Che può del foco risecar la fiamma.
Anzi quando avverrà ch'i premi eterni
E le pene comparta, allor del foco
Fia la natura alfin divisa e scevra;
E fia la luce destinata al giusto,
Perchè ne goda, e l'altra ardente forza
A punir l'empio giù nel cieco inferno.
E 'l varïar de l'incostante luna
Il medesimo ancora insegna e mostra
Con le cangiate sue diverse forme.
Perchè mentr'ella scema e 'l lume perde,
Tutto già non consuma il bianco volto,
Ma de' suoi rai la candida corona
Con varia immago ora ripiglia, or lascia:
Onde conoscer puoi ch'assai diverso
Il suo corpo è da quello, ond'ei s'illustra.
Il somigliante ancor nel sole avviene,
Ma 'l sole il lume suo, ch'è preso altronde,
Poi ch'una volta ei se n'adorna e veste,
Mai non depone. Ella del lume altrui
S'ammanta spesso, e spesso ancor si spoglia
Con umil vista, e la sua vece alterna.
In questa guisa a' duo gran lumi impose
Che da lor fosse dipartito il mezzo
Del chiaro giorno, e della notte il mezzo.
Perchè 'nsieme non sian confusi e misti,
Nè compagnia, ned amicizia al mondo
Fra la luce e le tenebre rimanga.
Ma qual nel giorno luminoso è l'ombra,
Tal ne lo spazio de l'oscura notte
La tenebrosa ed orrida natura
L'ombra de' corpi cede opaci e densi
A lo splendor de' più lucenti opposti.
E in sul mattino all'occidente è stesa,
E verso l'oriente a sera inchina,
E 'l mezzo giorno si raccorcia e stringe,
E contra l'Orse si dispiega a pena.
La notte volta dal contrario lato
Cede a' lucidi raggi, e 'n sua natura
Altro non è che l'ombra oscura algente,
Ch'esce dal grembo della terra opaca.
E sempre avanti a lo splendor diurno
Fugge a la parte opposta e si dilegua.
In questa guisa impose il Padre eterno
Le misure del giorno al chiaro sole,
E fè la bianca luna, allor che tutto
D'argento il cerchio e di splendor riempie,
Principe della fredda oscura notte.
Eran quasi per dritto allor conversi
L'un contra l'altro i due bei lumi in cielo,
Perchè nascendo il sol imbruna e perde
De l'alma luna la ritonda immago.
E se precipitando il sol tramonta,
Ella all'incontra in orïente appare
Sorgendo, e fuor dimostra ornato il viso.
Ma in altre sue figure, in altre forme,
Con la notte sparir non suole insieme,
Benchè nel suo perfetto intero stato,
Quando ha colmo di luce il vago giro,
Incoronata de' suoi bianchi raggi,
Regina è della notte, e tutte avanza
Di luce e di beltà l'aurate stelle,
Ed in vece del sol la terra illustra.
Ma 'l sole è re del luminoso giorno,
E come sposo dal celeste albergo
Esce tutto di raggi e d'oro adorno,
Di più lucente e di maggior corona
Circondata la chiara accesa fronte.
E 'n guisa di gigante alto e superbo
Trascorre il cielo e 'l signoreggia intorno,
Tanto egli è grande e di tal luce è ardente.
È grande ancor la via men calda luna,
Ma come è grande? o per rispetto altrui,
(Se pur riguardi a le minori stelle)
Od in se stessa pur descritta e chiusa
Dalle sue linee entro il suo puro cerchio,
Sì come è grande il mare e grande il cielo?
O perchè basti il suo splendor sereno
Ad illustrar gli smisurati campi
Della terra, del mar, del ciel profondo?
Però d'ogni sua parte egual si mostra,
Quando è ritonda, agli Etiòpi e agl'Indi,
A' freddi Sciti, agl'Iperborei ignoti,
O sia in oscuro occaso o 'n lucido orto,
O del ciel tenga più sublime parte.
Nè giunge o toglie a la grandezza alquanto
De l'ampia terra il largo seno o 'l dorso,
Onde minor per lontananza appaia,
Maggior, perchè s'appresse e s'avvicini,
Come de l'altre cose in terra incontra.
Ma giamai dal gran sole è più remoto,
Nè più vicino alcun; ma in spazio eguale
Son gli abitanti in ogni clima estremo.
Pensa fra te, se mai d'eccelso giogo
D'orrido monte rimirando a basso,
Umil campo vedesti od ima valle,
Quanto i gioghi de' buoi sembrano in vista,
O quanto grandi gli aratori istessi!
Di minute formiche ebber sembianza
Senza alcun dubbio, entro misura angusta
Così accorciarsi e rannichiâr le membra;
O tanto si consuma e si disperde
Della vista mortale il senso incerto
In mezzo a così grande e lungo spazio,
Ch'a pena giunge a que' remoti oggetti!
Ma se da vetta o da sublime scoglio
Volgesti il guardo al mar con gli occhi intenti,
Quante l'isole in lui diffuse e sparse
Ti si mostraro in vista? o negra nave
Di care merci e preziose onusta,
Spiegando in alto le sue bianche vele,
In guisa d'ale, dalla salda antenna,
Sovra il ceruleo suo spumante dorso?
Certo minor di candida colomba
S'offerse a gli occhi la minuta immago,
Tanto nel vano e ne gli spazi immensi
L'umana vista indebilisce e perde.
Già gli alti monti a le profonde valli
Credesti eguali, e di ritonda forma,
Chè non apparve in mezzo antro o spelonca,
Ned altra sua inegual scoscesa parte;
Ma tutto si nasconde il cavo e il voto
Per lontananza, e con aperto inganno
Ogni disugguaglianza in lei s'adegua.
E rotonde le torri ancor diresti,
Bench'abbian quattro lati e quattro facce,
E sian rivolte all'Aquilone e all'Austro,
Ed all'altre del mondo avverse parti.
Però senz'alcun dubbio esperto credi
Che 'n lungo spazio ogni lontana immago
Si confonde e s'inganna il senso errante
In molte guise. Adunque è grande il sole,
Ma quel di sua grandezza è certo segno,
Che, perchè sian stelle infinite in cielo,
Da ciascuna di loro il lume sparse;
E 'n un raccolto a discacciar non basta
La mestizia e l'orror d'oscura notte;
Ma solo il sol, che l'orizzonte ascende,
Anzi, mentre s'aspetta, e pria ch'ei s'erga
Sovra la terra e sparga i primi raggi,
Le tenebre dissolve, e l'auree stelle
Supera di splendore; e l'aria densa,
E dal freddo notturno in gel ristretta
Diffonde e sparge; e 'l liquido sereno
Con via più dolci tempre illustra e scalda.
Onde l'aure odorate inanzi al giorno
Spirano mormorando: e piove intanto
Il rugiadoso e cristallino umore.
E quinci apprendi del maestro eterno
L'arte divina, che lontano il sole
Dispose, e in guisa moderò l'ardore
Che per soverchio non infiamma il suolo,
Nè per difetto ancor l'agghiaccia, o lascia
Languido e mesto ed infecondo al parto.
E della bianca luna intendi o pensa
Cose conformi e somiglianti a queste.
Perchè (sì come dissi) il corpo è grande,
E (se ne traggi il sol) lucente e bello,
Più d'altro appare che nel ciel risplenda;
Ma non sempre si vede, e non riluce
In ogni tempo con egual sembianza;
Ma riempie talora il voto cerchio,
Talvolta scema si dimostra in parte.
Anzi, mentre ella cresce, oscura e fosca
Divien da un lato, e nel calar imbruna
Dall'altro; e de l'eterno e saggio Fabro
Dir non possiamo il magistero e l'arte,
Perchè dar volle in cielo un chiaro esempio
Col varïar dell'incostante luna
A l'incostanza umana, al modo incerto
Di nostra vita instabile e vagante,
Ch'un perpetuo tenor giamai non serba,
Nè 'n fermo stato si mantiene e dura.
Ma cresce prima e se medesma avanza,
Sin che di sua grandezza aggiunga al sommo;
Dechina poscia e si consuma, e cade
Sin ch'al fin pur s'estingue e torna in nulla.
Dunque nè di sua gloria in vista altero
Alcun sen vada, o mostri orgoglio e fasto
Per gran tesoro accolto, o 'n sua possanza
Troppo confidi, oltra ragion superbo;
Nè per corona antica ed aureo scettro
Altrui rassembri imperïoso e grave.
Ma di sè la caduca e fragil parte
Disprezzi, e solo estimi i beni interni
E l'anima immortal, cui nulla estingue;
E delle cose umane i giri incerti
Pensi e ripensi; e 'l suo pensier affisso
Tenga all'eterne pur, come a suo centro.
E se la luna impallidita e scema
Col perturbato aspetto unqua l'attrista,
Più de l'anima sua si dolga e gema,
Ch'acquista la virtù, tesoro e dono
Prezioso del cielo, onde s'avanza,
E poi la perde, e 'l primo onore antico
E la sua dignitate in sè non serba.
E veramente a' vaghi e lunghi errori
De l'instabil pianeta uom folle e stolto
Vaneggiando somiglia; e 'n varj modi,
Come la luna, si trasmuta e cangia.
    Alcun vi fu, che della mente umana

C'ha due potenze o pur due parti insieme,
E l'una a far, l'altra a patir acconcia,
Quella ch'illustra rassomiglia il sole,
Questa, ch'illuminata indi rischiara
Il tenebroso e fosco, ei fa sembiante
A la luna, ch'altronde il lume prende
E de l'altrui splendor lucente appare.
Perchè la parte in noi soggetta a morte,
(Se l'intelletto ha parte a morte esposta)
Pur col lume de l'altra alluma ed orna
In sè mille leggiadre e chiare forme.
Ma quella ch'i suoi raggi altrui comparte,
Temer non può di morte il duro fato,
Talchè Dio la credea nel secol prisco
Filosofando l'ingegnosa turba.
Altri Dio no, ma creatura e parto
Da Dio prodotto, a cui di sole il nome
Per l'alta luce sua concede e dona.
Ma 'n disparte si stia di acuto ingegno
L'animosa ragione, e ceda intanto
A quel che più conferma antica fede,
Ed animosa pur, che meglio il vero
D'ogni primo intelletto in Dio conosce.
    Or dimostram come l'errante luna

Giovi col varïare, e parte accresca
Le cose che la terra in sen produce,
O nudre il mar nel salso umido grembo:
Perocchè il crescer suo riempie e colma
D'umor i corpi, e 'l suo scemar gli scema,
E quasi vota: in sì soavi tempre
L'umido e 'l caldo ella congiunge e mesce.
Perchè fredda non è la bianca luna,
Com'altri estima, e solo algente appare
A paragon del sole, onde si scalda.
Però, quando ella col suo cerchio intero
Mostra dall'alto cielo il pieno aspetto,
Emula vaga del fratello ardente,
E (se dir lece) quasi un sol notturno,
Allor le notti tepide e serene
Son più de l'altre, in cui d'adunca falce
Mostra l'immago, o con argentee corna
S'incurva avanti il sole o pur da tergo.
Allor viepiù germoglia il verde tronco
Con nuove frondi e rami, e più s'impingua
L'umida sua midolla entro la scorza.
E più ripiena è in mar la dura conca
Di prezioso cibo; e pur aviene
Ch'altri dormendo sotto il cielo aperto,
La testa grave del suo umor riempie.
Lascio or da parte come l'aria e i venti
Ella commova, o 'l mar perturbi e queti.
E tanto basti aver narrato omai
Di sua grandezza e de' suoi varj effetti,
Ond'ella giova. E non dee senso umano
Esser giamai di mensurarla ardito,
Chè quivi il suo giudizio è incerto e falso.
Cotanto è grande, e 'n cotal guisa illustra
Gli abitatori e le città disgiunte
Dal vastissimo mar, dall'ampia terra.
O sian in parte ove dechina il sole,
O pur ne' regni della bella Aurora,
O sotto l'Orse e nella zona algente,
O pur nella fervente arida fascia
Che per mezzo il terren divide e cinge,
Gl'illustra, dico, e quasi al modo istesso,
Non altri con obliqui e torti raggi,
Altri con dritti; e questa è vera prova
Ch'ella sia grande e 'nvan repugna il senso
O la falsa ragion, che 'l falso afferma,
E non v'ha luogo ingegno di sofista.
Ma quel che fece a noi sì caro dono
Della mente immortal, c'insegni ancora
A conoscer il vero. E quella eterna
Sua sapienza, ond'egli fece il mondo,
Grande in picciole cose ancor dimostra,
Maggior nelle maggiori a noi la scopre,
Sì come è il sole e la ritonda luna.
Benchè (se quello o questa in parte agguagli,
O paragoni al suo fattor sovrano)
Verso di lui, ch'ogni grandezza accoglie
In se medesmo, e come cosa angusta
L'universo nel pugno astringe e serra,
E quello e questa avran sembianza e forma
D'avido pulce o di formica industre.
    Fece nel tempo istesso ancor le stelle

Quel che prima avea fatto il fermo cielo
Nel dì secondo, e non a pieno adorno.
Bench'altri stelle di nomar presuma
I sublimi non pur celesti lumi,
E quasi eterni, nel suo giro affissi,
Ma le comete e le figure ardenti,
Che in varie forme fiammeggiar nell'alta
Aria veggiamo o nel sublime foco,
Che sotto il giro della luna accolto
Con lei s'aggira di perpetuo moto.
Ma queste colassù mai certo loco
Aver non ponno o pur grandezza e forma,
Od ordine costante; e 'n breve tempo
Sparir da gli occhi, e dileguarsi in tutto
Soglion per l'aria dissipate e sparse,
Sì come quelle che dal sen fumante
Han della terra 'l nutrimento e l'esca.
O se la madre gli diniega il cibo
Arido, che diviene in breve adusto,
Viver non ponno, onde tra spazi angusti
La vita loro è terminata e chiusa.
Talor non passa un giorno, anco talvolta
Nel punto che s'infiamma ella s'estingue.
Onde quell'animal che 'n riva nasce
Dell'Ipani sonante e vede a pena
Un solo e breve sol nato con l'alba,
Giungendo inanzi sera al fato estremo:
Quell'animal, dico io, ch'avara e scarsa
Ebbe più d'altro la natura e 'l cielo,
Con sorte via migliore in terra ei nasce,
Che nel ciel queste varie accese forme.
E stelle pur altri le appella e noma,
Altri stelle cadenti. Onde sì spesso
Agogna rimirando il volgo errante,
Se morir ponno, o se cader le stelle,
Ch'esser devrian per dignitate eterne
O quasi eterne, e trapassar vivendo
De' secoli volanti il lungo corso.
Ma così parla chi ragiona a' sensi
Del volgo infermo, e 'l suo parlar gli adatta.
Ma tra queste figure in cielo accese
E quasi impresse, e di sua nota aduste,
Han loco alcune sì costante e certo
E così lunga e così stabil vita,
Ch'altri le stima del sublime cielo
Parte non pur, ma bella e cara parte:
Sì come è quella via lucente e bianca,
Che del latte al candor i lumi aggiunge
Di tante fisse stelle ivi cosparse;
La qual è via, ch'adduce all'alta reggia
De' favolosi divi; e strada ancora
Onde all'animo umano è aperto il varco,
Per cui discenda nel corporeo albergo,
E poi ritorni rivolando in alto
A la sua pura e sua fatale stella.
Così credeano, e questa è fama antica.
Ma la cometa di possente aspetto,
Ch'i purpurei tiranni e i regi invitti
Ancide fiammeggiando, e muta i regni,
Breve spazio ha di vita a tanta possa,
E di due anni il corso a pena adempie.
Così nel tempo de l'infanzia umana
Invecchia e more la terribil luce,
Che dà spavento a' miseri mortali.
Questa giamai tra 'l Capricorno e 'l Cancro
Apparir non ci suole, o pur di rado
Ivi si può mostrare, e pria ch'avampi
Con sua gran forza la dissolve il sole.
Ma oltre quella obliqua e torta strada
Per cui fanno i pianeti eterno giro,
S'infiamma, e splende tra quel cerchio e l'Orse;
Indi spiegando la sua ardente chioma,
O pur la barba di sanguigna fiamma
Accesa e sparsa, e spaventosa in vista,
Con annunzio di morte altrui minaccia.
E questa ancor, benchè dannosa e fera,
Sortì di stella il glorioso nome,
Che non conviene a sì maligno aspetto;
Nè d'innocente luce unqua si vanta,
Bench'altri dica ch'a Nerone Augusto
Innocente apparisse, e in ciò lusinga:
Perch'ella nocque col lasciarlo in vita
Al mondo tutto e fu nocente ed empia
Più nel salvar sì dispietato mostro,
Che in occider altrui sembrasse unquanco.
Ma se di queste fu la pura e bella
E santa luce, fida e cara scorta
De' peregrini regi d'Oriente,
Sallo colui, che di sua mano eterna
Formolla in prima, e le diè luce e moto
Che parer volontario allor potea,
Come s'ella intelletto avesse ed alma.
Ma questa fu della divina destra
Opra novella, e fatta a sì grande uopo.
L'altre create già nel quarto giorno
Furon (come si stima) e mente e vita
Ebbero dal celeste eterno Fabro.
Vita non già, che si nutrisca e prenda
Forza dal cibo, e per digiun languisca,
Cercando col suo corso il vitto e l'esca
Dalla terra e dal mar, che sempre esala,
Come alcuni affermar del secol prisco,
Ch'ebber di sapienza ingiusta fama;
Ma lieta e gloriosa e pura vita,
Che in Dio sempre mirando, in lui s'eterna,
E di sapere e del suo amor si pasce.
    Queste divine e glorïose menti

Furon da Dio create il dì primiero
Innanzi al sole e' bei stellanti giri.
E poi da lui divise il giorno quarto
Ne' proprj luoghi, come accorto duce
I suoi fidi guerrier distingue e squadra,
E 'n guardia lor dispone, e lor confida
Città forte ed alpestra o torre eccelsa.
Parte fu messa a raggirar nel corso,
Non faticoso e non costretto a forza,
Quelle sublimi sue lucenti rote;
E parte ancor fin dal principio eterno
A la difesa delle genti umane
Fur destinate da quel Re supremo,
E poi dovean, quai messaggier volanti,
Far manifesto il suo voler in terra,
Portando e riportando or grazie, or preghi:
Grazie divine ognor veloci e pronte,
E preghi umani spesso e lenti e tardi.
Altri mai sempre al suo servizio intenti
Stanno fidi ministri appresso e 'ntorno,
E sembran quasi innumerabil prole.
Nè da quel dì che prima gli occhi aperse
Il padre Adamo a la serena luce,
Tanti del suo corrotto e impuro seme
De' faticosi e miseri mortali
Fur già produtti a travagliar nel mondo,
Quanti di quei divini alati spirti
Fur destinati a quella eterna pace,
A quel piacer, che non ha fine o tempo,
Che gli fa sempre neghittosi e lieti
D'un ozio eterno e senza officio ed opre,
E senza cura de' terreni affanni.
E chi gli astringe e quel gravoso impaccio
Dei girar senza posa i cieli a forza,
Quasi animali a la marmorea rota
Legati, o 'n guisa d'Ission penoso,
Ch'avvinto giace e sempre è mosso in giro,
Erra egualmente, e 'n sua menzogna adombra.
    E 'l gran maestro di color che sanno,

Quel che in tante sue scole insegna il mondo,
Seguendo il moto e 'l senso, infide scorte,
Erra egli ancor, ma con men grave errore,
Quando ei quelle divine eterne menti
Filosofando annoverar presume;
E 'n numero sì breve accoglie e stringe
I cittadini del celeste regno.
Però che quanti sono i varj moti,
Onde con varj modi è mosso il cielo,
Tanti motori all'alte spere assegna.
Ed oltra questi non adora e placa,
O non conosce nel divino impero
Altri offici, altri numi ed altri dei.
E senza proprio ministero ed opra
Non estimò che 'n oziosa vita
Vivesser pigri e neghittosi indarno.
Dunque sol tanti, al suo giudicio errante,
Esser potean quanti a' celesti giri
Potesser poi bastar. Gli altri soverchi
Tutti estimava, ed adorati invano,
Finti di Grecia numi o pur d'Egitto.
E non s'avide il pellegrino ingegno
Che nella glorïosa eterna reggia
Altri esser denno ancor gli officj e l'opre,
Che quella sol di raggirare attorno
Le eterne spere nel contrario moto.
E conoscer non volle, o pur s'infinse,
Che più alto e più degno e nobil fine
Si conveniva a gl'intelletti eterni,
Di quello, senza cui soverchie estima
Le nature divine, e quasi invano.
Chè 'l mover sempre le stellanti rote
È fin corporeo, e quasi a' corpi affisso,
E ne' corpi occupato, e basso ufficio,
Verso di quel de' più sublimi spirti,
Che stanno appresso e 'ntorno al Re superno.
Altro fin dunque più sublime ed alto,
Altro più degno ed onorato oggetto,
Altro più santo ministero e sacro,
Numero via maggior ricerca e vuole
Delle menti immortali. E già non debbe
Il Signor de' signori e 'l Re de' regi
In solitaria reggia e 'n voto regno
Regnar quasi solingo; e 'l basso mondo
Empier d'abitatori, onde s'accresca
De l'imperio terren l'orgoglio e 'l fasto.
Nè devea dare a' gloriosi augusti
Ed a gli altri qua giù corona e scettro,
Tante genti, tante arme e tante squadre,
Ed eserciti tanti, e 'n tante guise
Ne la terra e nel mar raccolti e sparsi;
Nè riserbar per sè schiera o falange,
Bench'egli basti solo. Ah troppo indegno
Era della sua gloria, e troppo anguste
Son le misure a la materia affisse.
Troppo i numeri scarsi, onde si conta
Tutto ciò che la terra e 'l mar profondo
Nel grembo accoglie o 'l cielo esposto a' sensi.
Altro numero è ancor, che non s'accresce
Per secare il continuo, e tutti avanza
I numeri qua giuso. Or chi presume
D'annoverar le pure eterne menti?
Deh non vedete or quanti raggi intorno
Sparga questo corporeo instabil sole,
Lo qual del sommo Sole è quasi un raggio?
Or quanti sparger dee raggi lucenti,
Quante fiamme là suso e quanti ardori
Quel primo della luce eterno fonte?
Ma nol cape il pensier, nè lingua esprime,
E quel che sovra 'l ciel si conta e segna,
Innumerabil sembra a' sensi umani.
E certo alta ragion, giudicio eterno
Mosse il sommo Signor, che fece il mondo,
A far più numerosi i più perfetti,
Perchè ne gl'imperfetti ei non abonda.
Quinci adivien che le feroci belve
Son poche e rare in solitaria selva,
O 'n monte ermo e selvaggio; e d'altra parte
Pascono i campi i numerosi armenti,
E copiose ancor le greggie umili
Seguono del pastor la fida scorta.
Ma de' figli d'Adamo il seme sparso
Riempie Europa, e l'altre parti ingombra
Della terra, ch'è stretta e bassa mole
S'al ciel la paragoni ampio e sublime.
E 'l ciel de' proprj abitatori illustra,
Più che di stelle assai, le parti eccelse.
E non contento de' suoi primi antichi
E quasi eterni abitator celesti,
I peregrini ancora in sè raccoglie,
E nati in terra di terrestre limo.
E l'alte sedi a la straniera turba
Lieto prepara e l'accompagna, e giunge
A l'angeliche squadre, e quasi agguaglia.
Benchè d'Adamo i mal concetti figli
Non sian affatto all'ampio cielo esterni,
Perchè celeste è l'alta e bella origo
De l'alma umana; e lieta al ciel ritorna,
Sì come a vera patria, e patria antica,
Da questa della terra ombrosa chiostra,
Ove ella visse peregrina errante.
E se l'uom cinto di corporee membra
Nacque d'Adam, che di fangosa terra
Fu generato, ei pur di Dio rinacque
Rigenerato poi d'acqua e di spirto,
E come erede de' paterni regni
Aspira a le celesti alte corone.
    Ma dove mi trasporta inanzi al tempo

L'umano amor, che 'n noi sì dolce inesta
Nostra natura? Ora il mirabil corso
Seguiam del cielo e delle stelle erranti,
A cui quasi motrici il Padre eterno
Assegnò quelle eccelse e pure menti;
Non quasi forme in sua materia immense,
Ma quasi auriga al suo veloce carro.
E quinci incominciâr del cielo i moti,
L'un dalla destra a la sinistra parte,
L'altro dalla sinistra in ver la destra.
E chiamo destra il lucido orïente,
Onde si move il primo ciel rotando,
Che tutti gli altri seco affretta e tragge,
E dal proprio cammin quasi distorna.
Sinistra parte l'occidente appello,
Onde si muovon gli altri, e 'l sole istesso,
Che pur dall'oriente a noi si mostra
Con l'altrui moto, e nello spazio integro
D'un giorno è ricondotto, ond'ei si parte.
Perchè in un dì, che in sè la luce e l'ombra
Contenga, compie il suo perfetto giro
La prima sfera, e l'altre in vario tempo
Col proprio moto fan contrario il corso,
Qual minuta formica o picciol verme,
Che da rota corrente è tratto intorno,
Ed egli intanto a la contraria parte
Da se medesmo move assai più lento.
    In trenta anni sen va correndo a cerco

Quel che rassembra a noi pigro, Saturno,
Più veloce degli altri, e più corrente;
Ed in due volte sei placido Giove,
Ed in due anni appresso il fiero Marte
Chè 'n questa guisa ei si conosce e noma
Dal volgo in terra: e 'n un sol anno il sole,
E 'n poco men la grazïosa stella,
La qual lieta si leva inanzi all'alba,
E Lucifero ha nome; e poi n'appare
Espero detta allor che 'l sol tramonta.
E 'n quasi pari spazio in sè ritorna
Quel già creduto messaggier volante.
In venti giorni poscia e 'n sette appresso
Fa il suo viaggio la più tarda luna,
Che più veloce assembra, e questo aviene
Perchè in giro minor si volge, e riede
Colà più tosto, onde si mosse in prima.
E questa fu quasi maestra antica
Di partir l'anno, che 'n sei mesi e 'n sei
Divise a' suoi Romani il vecchio Numa.
Però che tante volte il sol raggiunge,
Tornando a quel principio onde partissi.
Ma prima in questa guisa i Greci ancora
L'avean partito e i più vetusti Ebrei.
Romolo poi, meno al celeste corso
Ch'al guerreggiare intento, e quasi rozzo
Delle cose divine, in diece parti
L'avea diviso. E questo error corresse
Il saggio re sabin, canuto il mento.
In questo modo i duo pianeti illustri,
Da chi gli scorge nel perpetuo corso
Furo ordinati col lor giro all'anno.
Anno è il ritorno del corrente sole
Dal segno istesso nel medesmo segno
Onde si parte; anzi nel punto affisso
Nel segno, quasi a termine costante.
Perchè tornando a la medesma stella
Onde partissi, dilungata alquanto
La trovarebbe, e trasportata a cerco,
Dal primo ciel col suo veloce ratto.
Ma chi gli scorge a far la state e 'l verno?
Questi l'Italia e tutta Europa appella
Col nome degli dei bugiardi e falsi,
Ma pur angeli sono, e pure menti
De l'alta providenza in ciel ministre;
La qual dispose per camino obliquo
I sette erranti, e 'n mezzo a gli altri il sole,
Perch'ei ci varj le stagioni e i tempi;
E 'n questa guisa sia cagione al mondo
Ch'altri nasca, altri muoia, e vita in morte
Trasmuti, e morte in vita in giro alterno.
Perchè, mentre lontano il sol dimora
In quel lato, onde spira il nubilo Austro,
Di lunghissime notti il nostro adombra,
E l'aria si raffredda, e si perturba
D'ogni intorno a la terra, e in folta pioggia
Condensati vapori, e in larghe falde
Caggion di neve, che poi stretta in gelo
Ricopre il dorso degli alpestri monti,
E frenando a' gran fiumi il ratto corso,
Tardi gli rende, e quasi in saldo vetro
Converte paludi e i pigri stagni.
Ma quando ei dal meriggio a noi ritorna,
In mezzo quasi del camin ritondo,
Parte la notte e 'l giorno in spazio eguale
E l'aria scalda con soavi tempre.
Allor Zefiro spira, allor se 'n riede
La primavera verdeggiante e lieta
Con l'erbe e i fiori, sua dolce famiglia,
E gravida la terra il sen fecondo,
Che pur dianzi chiudea la neve e 'l ghiaccio,
Apre soavemente a' nuovi parti.
Germoglian le fiorite ombrose piante,
Nascono gli animali in terra e 'n acqua,
E si conserva la perpetua prole,
Insin che il sol, quanto più può, s'appressa
A' freddi regni d'Aquilon nevoso.
Dove ei nel Cancro si ritiene e ferma
Quasi il suo corso, e fa più lungo il giorno,
E con più tardi passi omai per dritto
Sul capo nostro quasi egli si spazia,
E l'aria d'ogn'intorno a noi riscalda.
Arida fa la terra e i semi sparsi,
E degli arbori i frutti ancor matura.
In questo mese è fiammeggiante il sole
Oltre misura, e meno obliqui raggi
Spiega più d'alto ad illustrar la terra.
Son lunghissimi allora i giorni estivi
E brevissime l'ombre; ed all'incontro
Ne' brevissimi giorni il corpo opaco
Lunghissime fa l'ombre opposto al sole.
E questo avviene a noi che abbiamo albergo
Infra quel cerchio onde ritorna Apollo,
E l'altro che dall'Orse il nome prende,
Poste non lunge a' gelidi Trioni.
E noi mai sempre solo al destro lato
L'ombre mandiamo inverso Borea e 'l Carro;
Ed altri sono in più fervente clima,
I quai de l'anno uno e duoi giorni interi
Ombra non fanno, allor che gira il sole
Nel cerchio del meriggio, e d'altra parte
Con dritti raggi gli rischiara e scalda.
Ed allora adiviene in quelle parti
Che per l'angusta bocca i cavi pozzi
Illuminati siano insino al fondo,
Come in Siene e 'n Berenice ancora,
E più lontan nell'onorata reggia,
C'ha due rami del Nilo, e quinci e quindi,
E dalla suora di Cambise estinta
Ebbe già il nome e la famosa tomba.
Ed oltre l'odorata aprica terra
Degli Arabi felici, ha strana gente,
Che sparge l'ombra (e ne sortisce 'l nome)
D'entrambi i lati, incontra 'l Borea e l'Austro.
E questo avien, mentre vicino il sole
A' freddi regni d'Aquilon trapassa,
E già lieto n'accoglie il nuovo autunno
Ricco di pomi e del suo vin spumante,
Con verde ancora e pampinosa spoglia.
Allora tempra i rai del sole estivo,
Scema gli ardori e l'ombra amica accresce,
E la notte co' giorni in Libra agguaglia;
Ed innocente ne conduce al verno,
In cui di nuovo il sol da noi si parte,
E s'avicina a gli Arabi ed a gl'Indi.
Questi sono del sole il moto e 'l corso,
Queste del tempo le vicende e i giri,
Per cui qui si governa umana vita.
    Ma degna ancor di maraviglia è l'arte

Del Fabro eterno, e la sublime ed alta
Sua providenza, ch'a le strade oblique
De' sette erranti il termine prescrisse,
E via più angusta via ristrinse al sole.
Però che solo il sol giamai non varia
La torta linea, che divide e fende
Il cerchio della vita in parti eguali.
Gli altri escon fuor, o l'una o l'altra parte,
Qual più, qual meno; e la feconda luna
Vagar per tutto il cerchio ardita suole.
Esce Venere fuor del cerchio istesso,
Più della luna audace, e più feconda;
E quinci avien che ne' deserti inculti
Sia l'africa arenosa e l'India adusta,
Di sì varj animai nudrice e madre.
Nè qui biasmar la providenza eterna,
Ch'all'ordine del mondo, al sommo, al colmo
Di tutte l'altre cose in lui produtte
Giungon le dispietate e strane belve
Maraviglia e decoro, e i fieri mostri.
Or mentre il sol per l'alta via rotando
Giamai non esce dal camin prescritto,
Mostra con questo chiaro illustre esempio
Al monarca del mondo il calle angusto
Da virtute e da legge a lui prefisso.
E s'egli ha incontra dall'opposta parte
La tonda luna, ch'al superbo Drago
Preme la testa o pur la coda ingombra,
Le niega i dolci raggi e 'l chiaro lume,
E 'n mezzo si frapon l'arida terra,
Perchè la luna impallidita adombra.
E se la vaga luna a lui s'aggiunge,
Il che due volte ne' Gemelli aviene,
Il sole in parte a noi s'oscura e vela.
E quinci avisa che s'imbruna e perde
Per difetto lassù celeste luce,
Non è luce mortal nel basso mondo,
Non splendor di fortuna, onde s'abbaglia
L'inferma vista de l'errante volgo,
La qual talvolta non si turbi e manchi.
E solleva il pensiero all'alta e prima
Santa luce divina, e luce eterna,
Che lassù non conosce occaso od orto,
Nè difetto giamai, nè scema o langue.
Ma già di nostra umanità vestita
Fece seco ecclissar turbato il sole,
Oltre suo stil, con maraviglia e scorno
Della natura lagrimosa e mesta,
Nè la cagion conobbe umano ingegno.
    Ma come appressi e s'allontani il sole,

Perchè da sera la incostante luna
Nasca sempre, e 'n su l'alba ella s'asconda;
Perchè Saturno, Giove e 'l fiero Marte
Serbin ordin contrario, inanzi il giorno
Tutti nascendo, e poi caggendo a sera;
E d'altri effetti sì diversi e tanti
Ch'appaion colassù di spera in spera,
Varie fur le cagioni addotte in prova
Da varie sette in contemplar discordi.
Altri, osservando i duo contrari moti
Ne' cieli, e dal primier conversi e ratti
I men sublimi incontra 'l proprio corso,
Disser che d'ogni cielo il proprio centro
Centro è del mondo, e 'ntorno a lui si volge
Pieno e perfetto il lor ritondo giro.
Nè questi sovra a gli stellanti chiostri
Han locato altro corpo ed altro cielo,
Ma poser sotto lor que' sette erranti,
Che fan sì varia l'armonia superna,
E l'ammirabil sua celeste lira,
Molte dando a ciascun rotanti spere,
Come rote diverse o molti carri
Si danno ad un signor per varj effetti,
De' quali il porta alcuno, altro il riporta
Per contrario sentiero, onde partissi.
E de' globi volgenti e rivolgenti,
Qual più, qual meno, il lor giudizio abonda.
Ma tre delle portanti e vaghe spere
Concede prima al sole il vecchio Eudoso.
Tre similmente all'incostante luna,
Quattro a gli altri pianeti. E di que' giri,
Che riportano indietro, un meno assegna
Fuor che a la luna, a cui nel loco estremo
Uopo non è chi la riporti o torni.
Ma due poscia Calippo al sol n'aggiunse
Delle portanti; e due portanti ancora
Giunse al servigio del notturno lume.
Sinchè in tutto cinquanta oltre le cinque
Fur numerate da gli antichi ingegni.
Tanti carri, di stelle e d'or cosparsi,
Tante fervide rote e tanti ordigni,
Tanti e sì varj moti e tanti giri
Servono a la suprema eterna mole,
Che 'n se medesma si raggira e volge.
E 'l gran maestro di color che sanno,
Quel che 'n mille sue scole insegna il mondo,
Seguì costoro, allor che 'n alto intese,
Forse con doppio error, che i corpi accrebbe
Molto, e molto scemò le pure menti.
Ma la novella età via più conturba
L'ordine antico, e sfere aggiunge a sfere,
E moti a' moti; anzi tremante il cielo
Primo ci finge, e quasi infermo e stanco,
Mentre ch'egli s'appressa, o fa lontano.
E 'n questa guisa baldanzosa ardisce
Vincer d'arte e d'ingegno il secol prisco,
Volgendo pur e rivolgendo intorno
Al proprio centro, che del mondo è centro,
I varj cieli a lor giudicio eterni.
Altri per altra via seguiro Iparco,
E Tolomeo, ch'a le stellanti sfere
Fa quasi oltraggio, e 'n lor divisa o finge
I moti, e i cerchi assai distorti e strani.
Mirabil mostro! e mentre al sol concede
Tre sfere erranti, senza dubbio afferma
Che quella, che fra l'altre in mezzo gira,
Non fa centro del mondo il proprio centro,
L'ultima in parte ancor distorce e piega.
Afferma ancor che mentre il sol rotando
Va in questa guisa, or più s'appressa al centro
De l'universo, or sen fa più lontano.
Nel maggior cerchio ancora un picciol cerchio
Va immaginando, il qual si mova intorno
Sovra i poli suoi proprj, e lasci il centro
Del mondo fuor del mezzo; e 'n lui ripone
Il sole, ora in sublime ed alto sito,
Ora in più basso, ora appressar la terra,
Or dilungarsi, or con distorto corso
Contra gli ordin de' segni andar errando,
Ora seguirlo; e nell'istesso modo
Fa ritrosa la luna, e 'l suo bel cerchio
Finge ineguale, e non ritondo a pieno;
E la figura le distorce e 'l corso.
Così di queste due discordi sette
L'una ben non dimostra e non ci appaga,
L'altra, mostrando, è ingiuriosa ed empia
Contra i celesti giri, a cui la forma
E ritonda e perfetta invidia e toglie,
E 'l lor semplice moto. Onde natura
Disdegnosa sen duole e sen richiama.
E la filosofia seco ripugna
A l'apparenza, e con ragioni invitte
Le ribellanti scole a terra sparge.
Ma 'l senso ancora a la ragione amico
Mostrar si può, s'altri in lontane parti
Peregrinando, a gli Etiòpi adusti
Giungerà mai nella fervente zona,
Dov'è 'l cinto maggior che fascia il mondo.
Ivi, se 'l sole in quel suo picciol cerchio
Inegual si movesse, egual non fora
Il dì più lungo a la più lunga notte.
E se la luna, pur nel cerchio impari,
E non ritondo, si girasse attorno,
Uopo saria mutar talvolta il sito
A quella macchia, ond'è 'l volto asperso.
Dunque più non presuma ardito ingegno,
Incontra il vero, incontra il ciel superbo,
Finger nuove lassù figure e mostri.
    Ma che? ci afferma ancor l'età vetusta

Le non credute maraviglie antiche.
E de' suo' mille e mille e mille lustri,
E mille e mille il favoloso Egitto
Par che si vanti; e 'n più moderne carte
Delle menzogne sue famose e conte
La già vecchia memoria ancor non langue.
E si ragiona ancora, ancor si scrive
Che nel girar de' secoli volanti
La prima spera si rivolge intorno,
Non dall'orto lucente al nero occaso,
Ma dal settentrione al mezzogiorno.
E quinci dimostrar (s'io dritto estimo),
Come il veloce sol più e più si affretti,
Mentr'ei declina pur dal cerchio obliquo.
E gl'istessi affermar (crescendo ardire),
Che il sol due volte dal lucente occaso
Nacque, e due volte ancor morì nell'orto,
Portando a noi dall'occidente il giorno,
E lui chiudendo nell'avversa parte.
E 'l mutar di quel punto, in cui fermarsi
Ci sembra il sole, e far più lungo il corso,
Che solstizio nomò l'antica Roma,
Di tanto varïar cagione esterna
Forse credeano; e fu da gli altri ascritto
A l'alto ingegno degli Egizi industri.
E mutato il solstizio ancor si narra,
Perchè fu già ne' lucidi Gemelli,
Or è nel Cancro. È dunque instabil punto
Quel che sembra lassù sì forte affisso?
Nè costante è del ciel l'ordine e l'arte,
Nè costanza è ne' corpi, o sian d'immonda
Rozza materia o di più scelta e pura.
E se pur questo è ver, è vero ancora
Che del settentrion l'eccelsa parte
Fia nel meriggio alfin cangiata e volta;
E quella in questa, e 'l sol che gira errando
Per le distorte vie d'obliquo cerchio,
Allor farà più dritto alto viaggio
Per quella fascia ond'è partito il mondo.
Tante varietati e sì discordi
Vedrà, quando che sia, l'età futura,
Ne gli ordini supremi; e pur son queste
Del ciel le veci, ov'è chi 'l crede e 'l pensa?
E di ciò la cagion si adorna e finge,
Mutando i regni, anzi pur regi al cielo,
Da cui l'un fu scacciato e l'altro impero
Già prese, delle stelle alto monarca.
E regnando il primier, che fu Saturno,
Dalla parte or sinistra il ciel si mosse.
Poscia usurpando Giove alto governo,
Repente il volse dal contrario lato;
E mutando del cielo il moto e 'l giro,
Tutte insieme cangiò le cose a forza
Qua giù soggette al variar de' cieli.
Allor, come si finge uom curvo e bianco
E nell'ultima età vicino a morte,
Rivolse indietro a gli anni il proprio corso,
E ritornò verso l'età matura,
E già perfetta; e quinci passo passo
Vago giovin divenne, e poi fanciullo,
E con tenere membra alfine infante;
E dall'infanzia giunse al fine estremo
Di questa vita, e si nascose in grembo,
Pargoleggiando, de l'antica madre.
Oh di favole antiche ombroso velo,
Per cui traluce l'incostanza incerta
De' corpi tutti, e de' supremi ancora!
A' quali ha dato Dio perpetua legge,
E lunghissima ancor, ma non eterna.
Però, quando che sia, quiete averanno,
Cessando il lor continuo e certo corso.
E ben di ciò vedransi in cielo i segni
Anzi il gran dì de l'ultimo spavento,
In cui deve cadere accesa ed arsa
Questa del mondo ruinosa mole.
Allor vedrassi il sol converso in sangue,
Ed altri segni spaventosi e fieri
Nel volto mostrerà l'orrida luna.
Però disse (creando) il Fabro eterno:
Siano i segni ne' tempi, e sian ne' giorni,
E sian ne gli anni i segni. E i segni or sono
Pur quasi note nella luna impresse,
E 'n fronte al sol medesmo, ond'ei ci mostra
Ciò che fa d'uopo a la terrena vita
De' faticosi e rigidi mortali.
Spesso in turbata vista anunzia il cielo
Venti e procelle e tempestosa pioggia.
E l'arida stagion conosce ancora
L'uom già canuto e per lungo uso esperto.
Ed una pur di tante cose insegna
Quel ch'è vero Signore e vero mastro,
Quando egli disse: Rosseggiando il cielo
Già si contrista, onde sarà tempesta.
E questo avien, quando si move il sole
Per entro fosca e tenebrosa nube
De l'aer denso e 'mpuro, onde traluce,
Quasi per colorato e grosso vetro.
Però sanguigno, quasi involto ei sembra,
O quando intorno al sol si gira e volge
Gemino sole, e pur tre soli insieme
Fan di sè spaventosa e fiera mostra,
Sì come vide già l'antica Roma,
Ed ora a' nostri tempi avien sovente
Là sotto i sette gelidi Trioni.
Talor veggiam entro l'oscure nubi
Distese in lungo varïar le verghe
I colori de l'Iri, e fiero turbo
Quinci ancor si dimostra e pioggia e nembo,
Almen d'aria mutata indizio aperto.
L'instabil luna ancora a noi predice
Col vario aspetto il variar de' tempi.
Perchè sottile e pura il terzo giorno,
Stabil serenità promette e segna.
Ma s'ella ingrossa mai l'un corno e l'altro
Quasi vermiglia, allor altrui minaccia
Gran pioggia e folta, e pur di torbido Austro
Il violento impetuoso assalto.
Ma i varj segni in ciel via più distingue
Ne' regni d'Aquilon, canuto e scaltro
Per lunga esperienza il buon nocchiero.
E se giamai quella che il sol circonda,
Nubilosa corona, o l'auree stelle,
In se medesma si dilegua e cade,
Quasi egualmente al suo sparir s'attende
Un placido sereno e 'l mar tranquillo.
Ma quando ad una parte ella si frange,
Da quella, onde si rompe il bel contesto
De l'aerea corona, attende il vento.
Se da più parti ella si squarcia e solve,
Nascono da più lati i feri spirti
Quasi repente, e fan contesa e guerra
In cielo e 'n mar, ch'è tempestoso campo
Delle sonore e torbide procelle.
Ma questi segni fa costanti e varj
L'alto voler di lui, che move il tutto.
    Così li piaccia a noi pace tranquilla

Mostrar dall'alto, e disgombrar d'intorno
Quel che sovrasta minaccioso e grave
A questa vita procellosa e 'ncerta.

GIORNATA SETTIMA

NELLA QUALE, TRATTANDOSI DEL GIUDICIO FINALE, E DELLA GLORIA ETERNA, SI DIMOSTRA IL FINE PER CUI FU DA DIO CREATO L'UOMO.

ARGOMENTO

S’introduce l’Autore dalle maraviglie degli Anfiteatri di Roma a quella del mondo; mostrando che la cognizione degli antipodi e d’altri ignoti paesi, la quale aver non si può dal girar de’ Cieli, si ottiene dalla mente, che contempla Iddio. Epiloga le opere de sei giorni passati; ed asserendo che Dio si riposò nel settimo, in niuna altra delle cose create, nelle quali assegna il continuo moto, pone il divino riposo, fuorché nell’uomo, in cui viene figurata la morte di G. Cristo, prima della quale doveva egli umanarsi. Mostra che niuna cosa s’acqueta in se medesima, ma in Dio; adducendo il perchè Dio riposasse nell’uomo, terminando in lui la creazione de’ sei giorni; e disprezzato gli aritmetici, passa all’uso degli antichi circa il numero settenario, mostrando, la dignità di esso numero, indi la riverenza tenutagli dagli Ebrei, e con altre ragioni conclude che il settimo è giorno di perdono e di riposo, che terminerà con l’incendio di tutto il mondo, e col Giudicio finale, che descrive, Quindi col paragone di Roma distrutta dai Barbari, e risorta col pontificato, mostra che il mondo dopo le sue ruine sarà da Dio ridotto a miglior forma: che i Cieli più non s’aggireranno, che i Santi e i Beati avranno riposo, e gloria conforme alle fatiche ed al merito e che Dio spiegherà il trofeo della Croce e che ne’ lor pensieri s’acqueteranno le menti, il cui riposo fa l’intelligenza del tutto, e la grazia, per lo cui acquisto spronandoci alla sofferenza de’ travagli, si esorta l’uomo con l’esempio del pontefice Clemente VIII, a fare a Dio il sacrificio del cuore. Tornasi al giorno, in cui l’uomo fu di pura materia creato, il quale per difetto proprio si fece soggetto alla fatica ed agli stenti; e soggiungendo che di niuna delle cose create formata fu l’anima dell’uomo, riprova l’opinione di chi la stimò parte di Dio stesso. Con l’esempio di Fidia nel ritrarre Alessandro Magno, dice che Dio formò la faccia dell’uomo rivolta ol cielo, acciò egli vi aspiri come al suo fine; esortando i superbi per deporre il loro orgoglio, a mirar la terra, di cui son composti, ed in cui si devon risolvere. Mostra l’arte maravigliosa di Dio nel formar l’uomo non consistere solamente nell’aspetto, ma nelle altre parti ancora; perciò dopo aver descritto ciascun senso, scende al cuore, indi alle anime, che tre son congiunte in una, costituendo diverso luogo a ciascuna. Descrive il Paradiso terrestre, assegnato all’uomo per albergo; indi il fiume del piacere, che si divide in quattro, cioè nel Gange, nel Nilo, nel Tigri, e nell’Eufrate. Fa quindi invocazione a Dio, acciò gli rilevi dove sia, e che cosa sia il Paradiso, che paragona all’anima: e mostrando per qual fine fosse in lui da Dio posto Adamo, dice che per antica fama degli Ebrei le piante d’esso Paradiso avevano senso e mente: ch’esso era una città, in cui sicuramente abitava il primo padre, davanti al quale condusse Iddio tutti gli animali, onde imporre a ciascuno il nome conforme alla propria natura. Soggiunge che col trasgredire Adamo il divieto dell’albero della Scienza, aprì la strada nel mondo alla morte, di cui non si chiama Dio l’autore, ma quel peccato di disubbidienza. Mostra come Dio dalla costa dell’uomo formò per compagnia dell’istesso la donna, che fu il fine delle divine opere; e spiegando che allora da tutte le cose create, e adesso da’ sacerdoti si danno lodi a Dio pel gran beneficio della Creazione introduce il Mondo invecchiato, a pregar lo stesso Dio, da cui ebbe l’essere ed il mantenimento, acciò gli conceda finalmente il riposo.

Roma, da poi che 'l glorïoso impero
Ebbe disteso dall'occaso all'orto
E per le parti d'Aquilone e d'Austro,
Al popol vincitor mirabil vista
Di duo teatri in un sol giorno offerse,
I quai si congiungean volgendo a torno.
Sì che le genti in lor divise e scevre,
Di cui l'una pur dianzi all'altra parte
Si stava occulta, con l'unirsi insieme
Nell'ampia forma d'un perfetto giro,
Si vider tutte, e non rimase ascosto
Alcun di loro, anzi mirando a cerco
Ripieni i gradi de l'assisa turba,
Maraviglia e diletto ebber repente
Pur dell'aspetto inusitato e nuovo.
Ma in questo ch'allor fece il mastro eterno
Gran teatro e volubile e rotante,
Ch'anfiteatro di sua gloria assembra,
Bench'una spera sola in sè congiunti
Duo rinchiuda diversi ampi emisperi,
Pur l'uno all'altro si nasconde e cela
E dell'opposte in lor divise genti
Questa mai quella non rimira o scorge.
E già nulla n'intese, e 'n dubbio visse
Se pur altri abitanti avesse il mondo,
O fosse in parte solitaria ed erma
La terra ignuda, o sotto l'onde ascosa.
Nè perchè sempre intorno il ciel si volga,
Sarà giamai che la girante scena
Mostri i popoli a noi c'han fissi incontra
I lor vestigi nell'aprica terra,
O noi co' nostri alberghi a lor discopra
In questi quasi pur distinti gradi,
Per cui s'inalza o si dechina il polo.
Ma quel che far non può volubil giro
Di tanti cieli e 'nfaticabil corso,
Fa della mente che si volge e riede
In se medesma il rapido pensiero,
Ch'è quasi un suo perpetuo e vario moto.
Perchè dinanzi a lui si toglie il velo
Della terra interposta, e 'n Dio mirando
Scorge nel suo gran lume il mondo accolto,
Che divien quasi angusto all'alma accesa,
Che fuor del mondo è rapta, e nulla adombra
I popoli co' regni a' lumi interni.
Talchè ne' gradi lor disposti intorno
Sol contemplando, il pellegrino ingegno
Scopre i Finmarchi e gli ultimi Biarmi,
E scopre insieme gli Etiòpi e gli Indi.
E d'un lato gli appare il freddo Carro
E 'l pigro Arturo, e pur nel tempo istesso
Altro polo, altri lumi insieme ei scorge.
Non perchè il mondo a lui s'accorci e stringa,
Ma perchè la sua mente in Dio s'avanza,
E divien ampia sì ch'a lei soggetto
L'universo in un guardo accoglie e mira.
Come già vide il Benedetto Padre,
Ch'all'alto ciel di mille accese lampe
Segnò morendo il luminoso calle,
Parte seguendo il suo pensier sublime.
Ricerca pur dove il cultor eterno
Il paradiso a maraviglia adorno
Facesse, e 'n quale istranio ignoto clima
Fiorisser le felici e nuove piante,
Quando pria fu creato il padre Adamo.
    Era dunque compiuta omai la terra,

Compiuti i cieli, e gli ornamenti e fregi
L'opere di sei giorni avean distinte,
E quel maraviglioso alto lavoro,
Quando cessando Dio d'opra novella
E dal creare, ebbe nel dì seguente,
Che fu settimo giorno, alto riposo.
Nè fu poi creator di nuova prole,
Ma le prodotte conservando in vita,
Di lor prese il governo; e di quetarsi
Nelle cose create a lui non piacque.
Già fece il cielo, ed acquetarsi in cielo
Non prese in grado, e i bei stellanti giri
Fece, e col vago sol l'errante luna,
Nè volle riposar nell'auree stelle
O nella sfera del sovran pianeta,
Over nel cerchio della luna algente.
Fece la terra ancor, ch'è ferma e salda,
Nè riposò nella gravosa terra
Che in se medesma si mantiene e giace.
Dove adunque ed in chi quiete e posa
Ebbe il fattor di cose eterne e magne?
Ben è ragion che le costanti e gravi
Sian quelle sole, in cui non prenda a sdegno
Di riposare, anzi quiete o moto
Non fu giamai senza la stabil parte.
Però sempre si move il ciel rotando
Sovra i suoi poli quinci e quindi affissi.
E non si moveria, se stabil centro
Ei non avesse al suo perpetuo corso.
Onde si finge il favoloso Atlante,
Che 'ntorno a' poli opposti il ciel rivolge,
E nella ferma terra i piedi appoggia.
E gli animali ancor mobili e vaghi
Mover non si potrian, se 'n lor non fosse
La stabil parte che s'acqueta e posa.
E però quella che si curva e piega
Nel movimento, è lor di centro in vece.
Dunque se mover debbe il motor primo,
Non sol convenne ch'egli immobil fosse,
Ma che 'n non mobil parte il moto eterno
Fermasse ancora. E di fermarlo in terra
Ei non degnò. Dove fermollo adunque?
Qual della terra è più costante mole?
Nell'uom quetollo, e l'uom alfin dell'opre
Volle crear, perchè cessasse il moto,
E se moto non fu, l'arte divina
Restasse di crear l'opre moderne.
Più della terra adunque è l'uom costante,
Sì come quel che de l'eterno esempio
È vera immago, e il suo caduco e grave
    Spogliar si deve; e 'ncorruttibil forma
Rivestendo, là suso alfin s'eterna
Ne la quiete d'invisibil regno.
In questa guisa volle Iddio creando
Mostrar della sua morte alto mistero,
Quasi in figura. Anzi predir da lunge,
Ch'anzi i tormenti della morte, il Figlio
Devea nell'uom quetarsi, e 'n membra umane,
A guisa di mortale, al dolce sonno
Conceder gli affannati e lassi spirti.
Dunque s'acquetò Dio nell'uom terreno,
E l'uomo in sè non ha quiete o pace?
Non han quïete in sè gli egri mortali,
Ned opra di natura in sè riposa.
Ma gira il foco nel perpetuo corso
Del ciel sempre inquieto e sempre vago,
L'aria agitata da contrari venti
È da se stessa ognor divisa e sparsa,
L'acqua trascorre e senza pace ondeggia.
E questa, ch'a noi par gravosa e ferma,
Terrestre mole ancor si scote e crolla
Da' fondamenti, e ruinose atterra
Le cittati e le terre eguali a' monti,
E i monti istessi, e scissa il petto e 'l grembo,
Talor nelle voragini profonde
Scopre i regni di Pluto e i ciechi abissi,
E l'ultima ruina altrui minaccia.
    Ma nel suo creator pace e riposo

Han le create cose. E 'n se medesmo
Egli s'acqueta, nè d'esterna gloria,
Nè d'altro ben fuor di se stesso ha d'uopo,
Ch'è sommo bene, e con riposo eterno
Governa l'immortal felice regno
Là 've dal travagliar ne chiama a parte.
E se 'n terra nell'uom quetarsi eci volle,
Fu perchè l'uomo in Dio s'acqueti al fine.
Però quand'egli in sì mirabil tempre
L'umanitate al suo divin congiunse,
Pose a la vita faticosa e stanca
In se medesmo alfin dolce restauro;
E gloria e grazia onde s'adempia e bea
Nostra natura ch'essaltar cotanto
In lui si vide. Adunque il sesto giorno
A l'opre nuove fin sul vespro impose,
Nè poi nuova progenie o nuova stirpe
Egli devea creare. E ben convenne
Che del gran mondo producesse il parto,
E di tutte le specie in lui raccolte
Col numero di sei ch'è più fecondo.
    Ma dica quel c'ha la scïenza e l'arte

Del numerar, come pregnante il sei,
E nelle parti sue perfetto e pieno
Generar poi di sè varie figure
Di numeri egli possa, e tutto aggiunga
Ciò che nelle sue scole insegna il mondo.
Dicavi ancor come è infecondo il sette,
Perch'egli di sè nulla alfin produce,
E di nulla è produtto, e poi sen vanti
Come ei faria di gran tesoro occulto.
Or tralasciam, quasi sprezzando, a dietro
Quello onde tanto va gonfia e superba
Mondana sapienza, e sol ci caglia
De l'uso de' fedeli antico e sacro,
Onde al settimo dì s'aggiunse onore;
L'onoraro i Giudei nel sesto giorno,
Quando lieti inalzar frondose tende,
E ricovrar sotto i selvaggi alberghi.
E l'onorar nel dì famoso ancora
Che per le trombe e celebrata pompa
È sonoro e festante, e pregio al sette
Non men degli altri il dì propizio accrebbe.
E 'l settimo anno fra gli antichi Ebrei
Fu d'ogni riverenza e d'onor degno:
Perchè ne' sei ch'eran trascorsi avanti
Lecito era a ciascun fender la terra
Con duro aratro e ne' solcati campi
Sparger con larga mano il fertil seme.
Ma nel settimo poi contento e pago
Ei raccogliea dal non arato grembo
Sol quanto volontaria ella produce.
E sei anni serviva il prisco Ebreo;
Libero da fatica e da servaggio
Era il settimo poscia. E 'l duro giogo
Degli Assirj superbi oltre l'Oronte,
Oltre l'Eufrate, in Babilonia oppresse
Anni sessanta i miseri captivi,
E nuove appresso; e candida refulse
L'antica libertate al popol servo
Quando il sette col diece ha pieno il giro.
Or trapassiam senza dimora a' nostri.
Ben sette volte il dì cade e risorge
Il giusto, cui d'Adamo il grave incarco
E la natura sua caduca atterra;
Ma la grazia il solleva, e 'n questa guisa
Di tal numero noi consorti andremo.
Settimo Enoch dal genitor primiero
Morte non vide; e 'l gran misterio adombra
Questa ch'or vive, ed all'imperio estinto
Sorvive ancor, Chiesa immortale e santa.
E settimo Mosè dal padre Abramo
Prese la legge. E la cangiata vita,
L'iniquità scacciata e 'l varco aperto
A la giustizia, e Dio ch'a noi discende
Con membra umane, e s'avvicina e giunge,
E più santa virtute insegna al mondo
Mirabilmente, e nuova legge apporta,
Pur da Mosè son figurate in parte.
Ed aggiungendo pure al diece il sette,
E 'l sette appresso, dal vetusto Adamo
Il figlio di Maria produtto apparve.
E poi conobbe ancora il vecchio Pietro
Del numero del sette alto mistero,
Che di perdono e di quïete è segno;
Ma nol conobbe a pien, chè dubbio e 'ncerto
Prima ne parve, e poscia ei pur l'intese,
Chè rivelollo il suo Signore e mastro,
Lo quale in perdonando aperse il grembo
Delle sue grazie e de i tesori eterni.
Nè sette volte sole, anzi settanta
Sette fïate a perdonare insegna.
Onde a la pena di Caino ingiusto
E già macchiato del fraterno sangue
Il perdono di Pietro allor risponde,
Quasi dall'altra parte al fallo opposto.
Ma 'l perdon del Signore adegua e passa
Di Lamech condannato antica colpa:
Perchè di leve error perdono angusto
Par che si dia; ma se 'l peccato abonda,
Ivi la grazia oltra misura avanza.
Ed a chi molto si perdona e 'ndulge,
Molto concede di fervente amore
Quel ch'è verace amante, e non l'infinge.
È di perdono adunque e di riposo
Segno il settimo giorno, in cui cessando
Il Padre eterno, di cessare esempio
Diede all'antico Ebreo, che indarno or cessa
D'opre e di fede neghittoso e tardo.
E quel settimo dì mattino ed alba
Ebbe, nè vide poi la sera e 'l vespro,
Ch'ancor non giunge, e non adombra il giorno,
Lo qual s'illustra di perpetua luce;
Ma le veci del tempo e 'l corso e i giri
Chiudono i nostri dì fra mane e vespro,
In cui ciascuno ancor s'adopra e cessa,
E col riposo le fatiche alterna.
Insin che giunga spaventoso in vista
Quel, che dee consumar la terra e 'l cielo,
Settimo giorno minacciato inanzi
Orribilmente. Allor le mura eccelse
Di questa luminosa antica mole
Espugnate faranno alte ruine.
E 'l foco vincitor, predando intorno
Gli umidi regni, e i già fumanti e negri
Campi della fervente arida terra,
Parrà che tutto abbia converso in fiamma,
Sì che a pena del mondo omai disfatto
Vedransi l'arse e incenerite spoglie,
Quasi trofeo della giustizia eterna.
Ma nel principio de l'orribil giorno,
In aspettando i minacciati incendi,
Nozze non si faran, nè liete pompe.
E non si cambieran le care merci
Fra l'Indo e 'l Mauro, o fra lo Scita algente
E l'Etiòpo, anzi il timore adusto
Ne la coltura de' fecondi campi
De' mortali sarà studio e fatica.
Ma d'un nuovo stupor la terra ingombra
Attonita parrà, parran tremanti
Tutte l'opre di Dio create in prima,
Per l'improvviso insolito spavento.
E i giusti ancor della sentenza estrema
Timore avranno. Allora il padre Abramo
Temerà non di foco o di tormento,
Ma del grado d'onore a cui sortillo
La providenza del suo Re superno,
E 'n qual ordin de' giusti a lui riserba
La giustizia divina i premi e 'l loco,
O sia il primo o 'l secondo o siasi il terzo.
E 'l Re del ciel folgoreggiando in alto
Dimostrerassi in bianca nube avvolto;
E come nube ch'è squarciata o velo,
I cieli a lui dinanzi aperti e scissi
Vedransi rivelar l'alta possanza.
E mille appariran e mille ardenti
D'esercito divin falangi e squadre,
Risplendendo lassù di luce e d'armi.
Fiammeggerà coll'oro il fino elettro
Entro le spaventose oscure nubi,
E vedransi ir vagando a nembo a nembo.
E più di tuoni spaventosi udransi
Terribilmente le canore trombe.
Crollati e scossi i bei stellanti chiostri
Tremar tutti vedransi al gran rimbombo;
Tremerà nell'orror confusa e vinta
La natura creata; avran temenza
Gli angeli stessi, e riverenti in alto
Al fulminante Re staranno intorno.
Qual re di Persi mai, d'Assiri e d'Indi
Sì coronato fu d'orride schiere
Entro presa città, che 'l foco e 'l sangue
Correndo inonda orribilmente e 'ngombra,
E di recise membra e di cosparte
Ruine il ferro ancor riempie e colma?
O qual immago d'Ilïon superbo,
Che fu dal greco incendio arso e combusto,
Qual de l'imperiosa alta Cartago
Ruinosa caduta, o di Corinto
O di Numanzia pur ruina e scempio,
Quai di tutti, dico io, confusa e mista
Lacrimosa, sanguigna, orrida immago
Potrà rassomigliarsi al già distrutto
Entr'a fumanti incendj e vasto mondo,
Che di se stesso a sè fia rogo e tomba?
Allor rapiti fian a volo i giusti,
E le nubi saran carri volanti
Che porteranli. E i duci angeli eletti
D'auriga in vece, al nubiloso carro
Ciascun farà veloce ed alto il corso.
Risplenderan come lucenti stelle
Allora i giusti. E dal gravoso pondo
Di lor peccati e di lor colpe avvinti,
Cadranno i rei nel precipizio eterno
Oppressi, e non sarà ch'indi risorga
Alcun giamai dall'odioso incarco.
Oh grande, spaventoso, orrido giorno!
E fia pur ver ch'abbia mattino ed alba,
Nè fine imponga a tanto orrore il vespro?
O pur termine fia pur anco affisso
A quel gran dì de' premi e delle pene
In quell'ultima sera? e nuova luce
Risplenderà maravigliosa eterna
Nel giorno ottavo, onde le menti illustri?
Qual Roma, già famosa e nobil opra
Del gran Quirino e del nepote Augusto,
Del nuovo imperio fondatore e padre,
Da barbarica man percossa e vinta,
Cadde in se stessa e fra ruine e morti
In se medesma poi sepolta giacque;
Col vicario di Cristo indi risorse
Più bella a gli occhi della mente interni,
E maggior di se stessa, anzi del mondo,
Che capace non è del santo e sacro
Suo regno già fondato in salda pietra;
Tal (s'agguagliar si può la parte al tutto)
Avrà suo fin questa caduca mole
De l'universo, e col girar del tempo
Il girevol teatro a terra sparso
Cader vedrassi in cenere e 'n faville.
Poi rifatto sarà dal Fabro eterno,
E risorgendo in più mirabil forma
Non fia suggetto al variar de' lustri,
Nè mai più temerà ruina o crollo.
Ma questo ora del ciel volubil tempio
Fermo sarà col sole, e 'l torto corso
Fermo ancor fia de l'altre stelle erranti.
Talchè i beati avran costante albergo
Là dove eterna fia pace tranquilla,
E non commossa da tempesta o turbo
Pura invisibil luce e stabil giorno,
Cui termine non fia l'orrida notte.
Nè correr si vedrà da mane a vespro,
E non avrà con l'ombra il giro alterno,
Nè con varia stagion vicenda e corso;
Ma premio avran lassù le nobili alme
Di riposo e di gloria in un congiunti,
E fia somma quiete il sommo onore.
Là dispensate fian corone e palme
A' gloriosi, e seggi alti e lucenti.
E quei che guerreggiâro in lunga guerra,
Quanto è la vita de' mortali erranti
Sovra la terra, e riportar vincendo
Del nemico Satàn in duro campo
Mille vittoriose e sacre spoglie,
Lassù vedransi trionfando a schiera
Nel gran trionfo eterno, e 'l gran vessillo
Coronati seguir del Re possente
Degli altri regi. E la divina destra
In quel d'eternità lucido tempio,
Onde precipitando angel rubello
Cadde, sospenderà le spoglie eccelse
E i trofei della Croce. Oh lieto giorno,
Giorno sacro e felice, in cui s'eterna
La pompa trionfal, la gloria e 'l canto
E la quiete! Allor quiete e pace
Avran le menti rapide e rotanti,
C'han sì varj pensier, sì vario il moto;
Ed or fuor di se stesse un dritto corso
Fanno, a le cose pur caduche e basse
Quasi inchinando e con distorti giri
Corron talvolta oblique, e 'n se medesme
Si rivolgon talora e fanno il cerchio,
O 'ntorno a quel divino immobil centro,
Di cui l'anima vaga è quasi spera.
E di fortuna ancor l'instabil rota
Ferma allor fia, s'ella col ciel si volge.
Riposo avranno ancora i nostri affetti
Che incontra la divina eccelsa mente
Fanno ritrosi passi e torto calle,
Sì come opposti al più sublime cielo
Soglion volgersi ancor Giove e Saturno,
E la stella di Marte e di Ciprigna.
E giusto è ben che s'allor fine avranno
I moti delle stelle erranti e fisse,
L'abbiano quelli ancor di mente e d'alma
Umana, ch'assembrar del cielo il corso.
Tutti avran pace allor nel fisso punto
Della Divinità. Riposo eterno
Sarà l'intender nostro e 'l nostro amore,
Che in tante guise ora si varia e cangia,
E con tante volubili rivolte.
Riposo eterno fia la grazia e 'l merto,
E 'n seggio eterno. Or chi fra noi s'attempa
In aspettando il giorno, e soffra e speri,
E del tempo e del fato i duri colpi
Vinca sol tolerando, e giusto oltraggio
Faccia a la dispietata orrida morte.
E mentre il gran Clemente al primo esempio
La Chiesa informa ed all'idea celeste,
Seco ciascuno ancor nel puro tempio
Della mente serena Iddio raccoglia,
E gli figuri il simolacro interno
Di sua pietà. Sia l'alma il sacro altare,
Vittima l'innocente acceso core,
Amor di carità sia foco e fiamma.
Così prepari in sè l'interno albergo,
Pur volubile ancora e pur costante
Ne' giri incerti, insin che 'l nudo spirto
Voli a quella sublime eterna reggia
Là dove è 'l sacerdozio aggiunto al regno.
    Ma dove, oh dove mi trasporta il corso

Del fervido pensier? Dal giorno estremo
Torniamo a quello, in cui creato in prima
Fu dal celeste il genitor terreno.
Dio sparsa non avea la pioggia ancora
Sovra l'arida faccia e 'l secco grembo
De l'ampia terra, e 'l buon cultor de' campi
Nato non era faticoso all'opre.
Ma sorgea dal terreno un chiaro fonte
Che tutto l'irrigava, e i monti alpestri
Talvolta ancor bagnava e l'aspre rupi,
Sì come il Nilo il verde piano inonda
De l'Egitto fecondo, e i lieti campi
Di negra arena ricoperti impingua.
E fosse quello o nube aerea o fonte,
Era sublime sì ch'a gli erti gioghi
Mormorando spargea l'onde correnti.
Fonte, fonte fu quella, e d'alta parte
Ne' princìpi del mondo ancor novello
Fu a' monti in vece di piovosa nube,
Non pur al polveroso ed umil suolo.
Formò dunque il Signore e 'l Padre eterno,
Eterno Dio, l'uom di terrestre limo.
Ed in far questa della specie umana
Quasi statua vivente, ei pura elesse
E sincera materia, allor di nuovo
Dall'acque separata; e 'l misto umore
Colonne e spresse, e quinci e quindi il meglio
Della terra ei v'aggiunse a prova scelto:
Sì che in sè non avea o colpa o vizio
Quella prima materia, in cui l'albergo
Fabricar volle a la più nobile alma
Fornita di ragione, e quasi il tempio.
Fu la malizia poi difetto e colpa
Ne la materia del corrotto seme,
Onde la fame e l'importuna sete,
E di languidi morbi esangue schiera,
E la pallida morte alfin deriva.
Buono era il Fabro, e la materia e l'arte
Fu buona anch'ella, onde leggiadre ed alte
E ben formate fur le nuove membra
A maraviglia, e forti insieme e belle
Del padre Adamo, e da vermiglia terra
Preser vago color le guance e 'l pelo.
E 'l nome egli medesmo indi sortio,
Misterioso nome in cui s'espresse
Ch'egli in terra nascea signore e donno
De l'oriente e del contrario occaso,
E delle parti d'Aquilone e d'Austro.
Ne l'alma ancora usò mirabile arte,
Nè 'n farla riguardò creato esempio,
Ma 'n se medesmo e nel suo proprio Verbo,
Di cui fece nell'uom divina immago.
E 'n faccia gli spirò spirto di vita,
Non di se stesso già divina parte,
Come altri stima, ma creato spirto,
E soffiato da lui, perch'egli avvivi
Ed animato faccia il nobil corpo.
Sì come Fidia d'Alessandro invitto
Dopoi facendo il simolacro illustre,
La magnanima fronte al ciel rivolse,
E ripiegando la cervice altera
Gli alti di lui costumi in guisa espresse,
Ch'ei non contento del terreno impero
Par ch'aspiri a le stelle e chieda il cielo;
Così il Fabro primier la fronte e gli occhi
Alzò de l'uomo a le stellanti spere,
Perchè là guardi, onde celeste origo
Ebbe l'alma immortal, ch'eterno regno
Par che chieda per grazia al Padre eterno.
Ma tutti altri animali a terra ei volse
Pendenti e proni, a rimirar costretti
Pur sempre la commune ignobil madre,
Come sian nati obbedienti al ventre,
Perchè 'l lor fine è pure il pasto e 'l cibo,
E terreno piacer gli alletta e molce.
Ma se talora oltra ragione in alto
Intende l'uomo, e senza grazia o merto
Aspira al cielo e superbisce ed osa,
Miri la terra, e 'n sè rivolga e posi,
Ch'egli nato di polve, alfin in polve
Sarà converso, e 'n cor superbo appiani
Ogni pensier che di se stesso il gonfia.
E come quel che serva ignobil madre
Di nobil genitor produsse in vita,
Spira il paterno orgoglio e l'ire e 'l fasto
Della progenie antica, e 'n alte imprese
Generoso talor s'arrischia e tenta,
Poi ripensando a la materna stirpe
Al soverchio ardimento ei stringe il freno;
Così l'uom de l'antica e bassa madre
L'umil principio suo contempli e guardi
Il seno ond'egli uscì, ch'ei preme e calca
Con piè superbo irriverente audace,
Come s'egli dal ciel recato avesse
Di materia celeste aspetto e membra.
Pensi fra sè ch'egli è animal terrestre,
Che per terra ei camina, e 'n terra ei cerca
Il nutrimento e si riposa in terra,
E per la terra ancora è in lite e in guerra
Sovente, e corre forsennato all'armi.
E non fa grande mai nè lieve impresa,
Se non sovra la terra, e l'ire estingua,
E gli ardenti desiri ammorzi e queti.
Questo pensier ch'all'umiltà l'inchina
Alcune volte, altre il solleva al cielo
Il suo spirto immortal, che 'l fine affisso
Non loca in terra o pur nell'auree stelle,
Ma nel Signor, al cui sublime seggio
Il ciel del cielo è quasi terra umíle,
Tanto è lontano a la divina altezza.
    Ma non sol nell'aspetto e nella fronte

Mirabile arte fu del mastro eterno,
Che 'n ogni parte ella trapassa a dentro,
E le celate ancor figura e forma.
Ma pur sì come in rocca e 'n torre eccelsa
Son disposte le guardie intorno intorno,
Onde sicura da notturna insidia
Il nemico lontan si scopre e vede;
Così a guardia i veloci e desti sensi
Collocò nella testa il Fabro eterno.
Fè quasi vallo le palpebre a gli occhi,
E le ciglia pilose; e 'l varco aperse
A le sonore voci, onde trapassa
Di messaggiero in guisa, a dentro il suono,
E di fuor le novelle al cuor apporta.
Ma fece all'altre cose il passo angusto,
E quell'umide vie rivolse in giro,
Qual laberinto; e più spedito calle
Per doppia strada a' dolci odori aperse.
Umida e molle diè la lingua al gusto,
Che distingue i sapori; e sparse il tatto
Per ogni membro umano, e 'ntorno al capo
Fece delle sue proprie e vaghe chiome
Quasi natia corona, ond'ei s'adorna
Questa mole, che l'ossa intera avvinse
Co' nervi, che son quasi i lacci e i nodi
Tenaci e lenti, ond'ei s'incurva e piega.
Fece quasi di sangue un vivo fonte
Il core, ed altre fonti interne appresso.
E quasi rivi di corrente umore
Le vene, che dal core all'altre membra
Portano il sangue onde s'irriga il corpo.
E tutta in tutto lui diffuse e sparse
L'ama, che 'n ogni parte è tutta ancora,
Benchè tre sian in una, e sian congiunte
Le due mortali all'immortal sorella.
Perch'ella avolta entro i corporei chiostri
Non sdegni d'abitar terreno albergo,
Sin che 'l Signor la si richiami al cielo
Da quella guardia, ov'ei la pose in terra.
Ne l'alta adunque della nobil testa
Rocca fondolla, e quasi in propria reggia.
Ivi de l'uom, ch'è quasi un picciol mondo,
A lei concesse l'onorato impero.
L'altre, come soggette al giusto regno,
Nelle più basse parti il Fabro eterno
Dispose, e rimovendo i lochi e i seggi,
Dalle profane separò la sacra
Potenza. E l'ira, che di fiamme ardente
E di vendetta ingorda avampa e ferve,
Precipitosa pose in mezzo al petto,
Ed albergolla nel sanguigno core,
Nè rinchiusa starà ne' seni angusti,
Ma spesso per timor s'agghiaccia e stringe.
E 'l ventoso pulmone appresso ei giunse,
Che di mantice in guisa accoglie e rende
L'aure di fuori, e quel calore interno
Col dolce respirar tempra e rinfresca.
La cupidigia le supreme parti
Altrui concesse, e quasi a forza spinta,
Si ritirò nell'ime: ivi ricovra.
E quel cinto che l'uom traversa e fascia,
La divise dall'altra, e quasi belva
Al suo presepio ivi rimase avvinta.
Avidamente ivi si nutre e pasce,
Anzi mille rabiose ardenti brame
Empier non può famelica e vorace.
Ch'ora avaro pensier la fiede ed ange
Con dura sferza, or della face avampa
Di mille amori, e tutto è foco e fiamma.
Questo ora avien che l'una e l'altra a punto
Della ragione ha scosso il giogo e 'l freno
E nemica si mostra e ribellante.
Ma quando pria creolle il Padre eterno,
Nè tumulto nè guerra era nell'alma,
Ma somma pace, e 'n sommo amor concordi
Ubidian della mente al giusto impero.
E 'l suo volere era costante legge
A l'alma, di giustizia ancora amica.
    In questa guisa la divina destra

Formò l'uom primo non soggetto a morte,
Ma per grazia immortal, non per natura,
Come l'angelo fu ch'è pura mente.
E lui formò là sovra il suolo aprico
De l'antica Damasco, e vecchia fama
(Se degna è pur di fede) ancor l'afferma.
Poi trasportollo entro l'ameno e lieto
Suo paradiso, che d'ombrose piante
E di feconde a maraviglia adorno
Fè l'arte e l'opra del cultore eterno.
    Loco è nell'Orïente, ove percossa

Dal sol vicino più s'accende e flagra
Quella maggior del cielo adusta fascia
Posta in mezzo fra 'l cerchio onde rivolge,
Quasi fermato, il sole il corso errante
Dall'albergo del Cancro, e l'altro giro
In cui dal Capricorno indietro ei torna.
Quivi di piante coronato e d'ombre
Un altissimo sorge e sacro monte,
Là dove nè vapor ristretto in nebbia
O 'n nube ascende o condensato in pioggia,
E non vi spira ancor procella o turbo
Obliquo e denso o fulmine tonante.
Nè vi giunge del sol ritorto il raggio
In guisa ch'egli l'aria infiammi e scaldi.
Però benchè nel pian la terra avampi,
E tepidisca le frondose falde
Del vago monte, al molle erboso tergo
Col soverchio calor non toglie il verde,
Variando stagione, o noia apporta,
Nè a la sua fiorita e lieta fronte.
Ma l'odorate sue dipinte spoglie
Fioriscon sempre e le corone eccelse.
E rugiada dal ciel, che 'n perle accolta
Stilla più larga, le corone ingemma,
E d'argento le fa le spalle e 'l seno.
Però ch'ivi l'algente ed umida ombra
Sempre col chiaro dì lo spazio adegua,
Onde quanto le scema il caldo giorno,
Tanto la fresca notte indi l'accresce.
Arroge il cristallino e chiaro fonte,
Lo qual di largo umor l'irriga e sparge,
E versa di piacer ampio torrente.
E vi s'aggiunge ancora il rezzo e l'aura,
Ch'aura non è, che di vapor terreno
Fumante e grave esali impura e mista,
E col torbido volo i vaghi spirti
Disperda per quell'aria e cresca e scemi,
E talor cessi e perda il moto e l'ali.
Ma (se creder ciò lece) aura celeste
Fatta è dal giro del sereno cielo,
E move d'Oriente, e 'nchina e piega
Le fronde e i rami a la contraria parte
Dolce spirando e con perpetue tempre.
    Qui pose il Padre eterno il padre Adamo.

E degno il fè di quel felice albergo,
In cui produsse ogni più bella in vista
Stirpe frondosa o più soave al gusto.
Del paradiso ancor piantò nel mezzo
Il legno della vita, e 'l legno insieme
Ch'a distinguer dal bene insegna il male.
E 'l fiume del piacer le piante asperge,
Poi fuor del paradiso inonda e corre
Rapidamente, e si divide in quattro.
Fison fu detto il primo, or detto è Gange,
Quasi emulo del mare, il qual circonda
De gl'Indi la feconda aprica terra,
Ove le vene son del lucido oro,
Ove il carbonchio pur fiammeggia e vince
Col suo splendor le tenebre notturne.
E, lieto, il prasio ancor verdeggia e splende
Con mille altre lucenti e care gemme.
E somigliante a la più nota oliva
Vi sorge il Bdelio, e frondeggiando adombra
E lacrime odorate instilla e sparge
Lacrime amare, ma lucenti in vista.
E Gebon il secondo, or Nilo appella
Nova non pur, ma già vetusta etate.
Questo a la terra d'Etiopia intorno
Corre, ed impingua i campi al verde Egitto.
Il terzo si chiamò dal corso il Tigre,
Perch'ei nel corso la saetta assembra,
E serba ancor l'antica gloria e 'l nome.
Corre contra gli Assiri Eufrate il quarto.
E l'uno e l'altro pria congiunto, e scevro
Poscia, e di nuovo alfin confuso e misto,
Della Mesopotamia il suol rinchiude.
    Santissimo cultor di sacro monte,

A lato a cui Parnaso umile e basso
Sarebbe in vista, e 'nchinerebbe a prova
La sua gemina fronte e 'l doppio giogo,
Benchè di lauri s'incoroni ed orni;
Non dirò, siami tu d'Apollo in vece,
Ma tu discopri del fallace Apollo
Mille menzogne, e tu rivela il vero,
Che nell'antichità si sta sepolto,
E ne' profondi tuoi misteri ascoso.
Tu, che 'l tuo paradiso adorno e lieto
Facesti, in lui spargendo il rezzo e l'ombra,
Tu, che versasti l'urne a' puri fonti,
Ed apristi a' gran fiumi occulto il varco;
Tu il sito scopri e 'l gran principio ignoto,
E 'l non costante lor cangiato corso.
Tu 'l facesti, e rifar la terra e 'l cielo
Potresti ancora, e del tuo ardente spirto
Spira a gran pena a me l'aura celeste.
È ver che 'l terzo cielo, ove fu rapto
Già Paulo col pensier levato a volo,
Sia terren paradiso? è terra in cielo?
E nella sfera de l'opaca Luna
È pura terra forse? e spechi e selve
Vi sono? e veri seggi e verdi chiostri
Cingon lassù selvaggi ombrosi tempi?
E se terra non è confusa e mista
Col cielo, ondella luna il volto adombra?
O pur onde l'adombra errante ingegno,
Che terra e paradiso in ciel ricerca?
L'audace peregrino indarno agogna
Mentre di qua del Cancro ei pur ne chiede,
O pur di là del Capricorno opposto,
In più temprata zona; e 'ndarno i fonti
Ei spia del Nilo, ove la fama antica
Già riporli solea nel vasto grembo
De' monti della luna, o quei del Gange
Nel Caucaso gelato, o 'n monti Armeni
Quelli ond'escon veloci Eufrate e Tigre?
E s'ivi pure ei lor ritrova e scorge,
Come il tuo paradiso il vivo fonte
Ha di quattro famosi e chiari fiumi?
Forse il tuo paradiso il giro integro
De l'inarata ancor terra feconda
Fu in quel de l'innocenza antico stato?
O variaro i fiumi il letto e 'l corso?
E dal primiero or fan lungo viaggio?
Cotanto può mutar l'età vetusta?
Forse nel paradiso i primi fonti
Sorgono mormorando e chiari al cielo,
E poi sommersi entro 'l profondo grembo
Della caliginosa oscura terra
Van sotterra girando i ciechi regni,
Sin che di nuovo apparsi in chiara luce
Altri fonti di sè nell'erte rupi
Fan de l'aspre montagne esposte a' sensi?
Ma i primi fonti ancor nascondi e copri
Al vano studio de' mortali erranti,
Non pur all'animosa e debil vista.
Occulto è dunque il gran principio interno
Del puro fonte, onde il piacer si versa.
E quando tutta ne' diluvj accolti
Giacque sommersa la gran madre antica,
Quel fonte sol non si diffuse e sparse.
E fu dall'acque allor sicuro il sacro
Monte di paradiso, e 'l loco eletto
A l'umana natura e 'l fido albergo,
Ch'al cerchio della luna è sì congiunto.
Ma qual di ciò sia l'ombra antica, o 'l vero
Ch'illuminar può le moderne carte,
Rivelal tu. Tu, che le menti illustri,
Santissimo cultor del nostro ingegno,
Che fai de l'alma un paradiso adorno,
In cui le piante son pensier sublimi
In contemplar di te nutriti e colti.
E d'una fonte istessa i quattro fiumi
Son le quattro virtuti in sè distinte.
Ma quel fonte se' tu: tu vivo fonte,
Che d'eterno piacer le menti aspergi,
Ond'ogni alta virtù deriva e nasce.
Or te stesso dimostri all'ombra, all'aura,
Or nel rubo fiammeggi, e in viva fiamma
Altrui ti manifesti e 'n luce ardente.
    Dio l'uomo in guisa di traslata pianta,

Chè pianta è l'uom, nel paradiso ameno
Locò portato dal fecondo suolo,
Ove prima creollo; e quivi in guardia
Il pose di quel lieto e dolce loco,
Perch'egli oprasse, e già creato indarno
Egli non era a neghittosa vita.
Bench'uopo non facea fatica od opra
A quella antica e più feconda madre,
Madre da' parti non lassata e stanca,
Ch'avea di mamme in vece i fiumi e fonti,
Onde versava umor sì largo e dolce.
Certa, maravigliosa, alma Pandora,
Che l'ampio vaso avea ripieno e colmo
Di tutti i doni, onde diletta e giova.
Ma più belle opre, e di più belle parti
A l'uom si convenia l'alta coltura.
Perch'adornar devea la nobil mente
Di cari fregi e di virtù sublimi,
Fra cui tiene pietà le sedi eccelse.
Pietà, ch'è vero culto onde s'adora
Ne l'alma riverente il Re del cielo.
    È tra gli antichi Ebrei canuta e sacra

Fama, ch'al figlio ereditaria il padre
Lasciò quasi per mano, indi s'accrebbe,
E vola e spazia ancor canora e grande.
E questa afferma al suon di varie lingue,
E con mille ali il suon divolga e porta,
Che mentre l'uom vivea sciolto e solingo,
Senza la fragil sua consorte errante,
Non ancora creata, il dolce loco
De' suoi diletti, il paradiso ameno
Del suo piacer non fu sembiante a' nostri.
Perchè fra' nostri la non colta selva
Lieta frondeggia, e non ha senso il bosco
D'arbori pieno, e con perpetuo onore
Serbano alcuni ognor le frondi e 'l verde.
Altri sol verdeggiando i cari germi
Mandano allor che giovinetto è l'anno,
E la stagione in giovenil sembianza
Di sue ghirlande va superba e lieta.
Altri soglion produrre i dolci frutti
Sì cari all'uomo, altri a le fere il cibo.
Ma 'l paradiso del Signore adorno
Animate avea già l'altere piante,
E tutte avean favella e senso o mente.
O maraviglie del Signore eccelse,
In cui nulla è di falso, o 'l finto adombra
Quel che di vero si nasconde e cela.
    E disser questi ancor che 'l nuovo mondo

Era all'uom, che pur dianzi in terra nacque,
Quasi un'ampia città, ch'ignobil mastro
Non fè di rozzo legno e rozza pietra,
Nè circondolla di caduche mura,
Nè di stagnante umor fosse palustri
Cavolle intorno. Ivi sicuro e lieto
L'uom si vivea, come signore e donno
Degli animai che 'l suolo e 'l mar produce,
Che tutti ad obedir eran costretti.
Molti apprendean sotto il soave impero
A servir volontari in lieta pace.
Avea l'ampia città divine leggi,
Assai più salde che 'n metalli e 'n marmi,
Scritte nella natura. Avea gli antichi
Suoi cittadini illustri, anzi celesti:
Gli angeli dico, e le superne menti,
Che sortir colassù sì larghi campi
Di pura luce e di splendore eterno,
Ed abitar negli stellanti alberghi.
L'uom felice vivea tranquilla vita,
Sincerissima ancor, qual nuovo figlio
Ed erede immortal del Re del cielo,
Del suo zelo ripieno e del suo spirto,
Formando a suo piacer la mente, e i passi
Per le vestigia sue drizzando in alto,
O per le vie della virtù sublime,
Per le quai solo è di poggiar concesso
A l'alme che sen fanno a Dio ritorno.
E perchè all'uomo ereditario il regno
Si deveva qua giù nel basso mondo
Sovra gli altri animai c'han vita ed alma,
Ed al re nominare i suoi conviensi
Soggetti e servi, e conosciuti a nome
Separarli nell'opre e negli offici,
Come la virtù lor richiede e 'l merto,
Tutti condusse il suo Signore e Padre
Insieme gli animali a lui davanti,
Perch'ei pensasse imporre a tutti i nomi
Proprj, e quai conveniansi a lor natura.
E fè come il maestro allor ch'ei sveglia
Ne l'alma giovenil l'abito interno,
E prova fa del suo veloce ingegno:
Però che allor non traviò dal vero
Tanti nomi imponendo il padre Adamo,
Anzi l'occulte qualitati espresse
Degli animali, e' lor costumi interni,
In guisa tal ch'al primo suon distinto
De l'umana favella era compresa
Di ciascun la natura; anzi commossa
E placida obedia veloce e pronta
A quelle imperiose alte parole.
Ma se tanti animai che 'l mar produce,
E 'l fiume e 'l lago nell'ondoso grembo,
Tanti che l'ampia terra in seno alberga,
Fur noti all'uom primiero, e mossi e tratti
Sol dalla voce, e mansueti umili
Venian, deposto il lor superbo orgoglio,
La natia ferità, gli sdegni e l'ire,
Obedienti e chini al giusto impero,
Qual maraviglia fia s'altri racconta
De' suoi tardi nepoti illustri esempi?
E Temistocle pur n'adduce, e Ciro
Imperator de' Persi, e 'l duce mauro,
A cui non di cameli o d'elefanti
E di mille africane orride belve,
Varie di forme, di natura e d'opre,
Ma di fidi guerrieri i nomi a pieno
Fur noti. Tanto da quel primo esempio
La natura miglior traligna e perde.
Ma perchè nulla è mai costante e ferma
Cosa mortale, e si trasmuta e cangia
Ivi più spesso, ove reale altezza
L'animoso pensier solleva ed erge,
Convenne che l'uom primo e 'l re primiero,
Ch'espressa aveva in sè del nuovo mondo
Quasi l'immago e 'l simulacro esterno,
Anzi l'immago pur del Re del cielo,
Da cui formate avea la mente e l'alma,
Convenne, io dico, all'uomo, anzi fu d'uopo
Ch'egli d'errore e di miseria umana
Fosse a' nepoti il primo esempio in terra.
Femina fu cagion di tanta colpa,
Di tanti mali e de l'istessa morte.
Femina a disprezzar l'alto divieto
Del Re celeste lusingando il mosse.
    Poich'ebbe collocato il Padre eterno

L'uomo in quel vago paradiso ameno,
Sin ch'ei, come doveva, alfin traslato
Fosse a la gloria del celeste Regno,
Gli comandò, non per ministro o 'n sogno,
O traendol di sè, nè l'alta voce
Risonò in rubo acceso o 'n vaga nube,
Ma parlò per sè stesso al padre Adamo
Come a gli angeli suol, se pur capace
Era di sua divina alta favella.
E la sua mente in sì mirabil modo,
Ch'esprimer non si puote, allor commosse.
Prendi (gli disse) Adamo, il caro cibo
D'ogni pianta che sia nel paradiso,
Chè le concedo tutte, e solo io vieto
Quella della Scïenza, onde s'apprende
E si distingue poi dal bene il male.
Perchè in qual giorno sia che di lei gusti,
Morrai di morte. Oh minaccioso impero!
Oh terribil sentenza! oh grave pena!
Ma l'uom semplice ancor nel puro stato
Di quella pura e candida innocenza
Il non commesso male, occulto, ignoto,
Non conobbe ab experto, e non s'accorse
Che Dio vita è de l'alma, e 'n preda a morte
L'abbandona partendo, ond'ella pere
Nel suo peccato e nella colpa ingiusta.
Ma doppia minacciava e fiera morte
Ne l'aspro suo divieto il Re del cielo.
Come la bianca e semplice colomba
Nata di nuovo, e non avezza ancora
A' perigli mortali, in mezzo all'alma
Porta seco un natio timore interno,
Che la spaventa della fiera morte,
Onde visto da lunge augel rapace
Spiega l'ali volanti, e si dilegue;
Così nell'uom fu di natura in vece
La voce minacciosa e 'l gran divieto,
Per cui non conosciuta omai paventa
La morte; arroge poi la propria colpa
Nata da quel sapere, anzi de l'opra,
Chè non è nel sapere o colpa o vizio.
Ma pur fu da piacere e da lusinga
Vinta alfin quella tema, ond'egli osando
De l'ignoto sapere il dolce gusto
Provar, poi violò la prima legge.
E col peccato allor dischiuso il varco
Trovò la morte, ond'ella entrò nel mondo
Per ampissima porta; e 'n guisa ingombra
Or le sue parti, che la terra e 'l mare
Son un regno di morte atro e funesto.
E qui l'imperio trionfando a forza
Non pur ella usurpò nel padre Adamo
E nella stirpe che traligna e perde,
Ma 'n tutti gli animai che 'l mondo accoglie
Sin che la Vita le non giuste prede
Ritolse a morte, e trionfò d'inferno.
Sì come egro languente è spesso ingordo
Di caro cibo, che soave al gusto
A la salute è reo, talchè s'avanza
L'ardente febbre, ond'ei morendo alfine
È della morte sua cagione e colpa,
Perchè male ubedì severa legge,
Che 'l medico prescrisse a' vaghi sensi;
Così dal dilettoso e dolce inganno
Fu vinto Adamo, e la cagione antica
Egli a se stesso fu d'orrida morte.
Non Dio: chè non creò la morte e i mali
La divina bontà, ma i nostri errori,
E del nostro peccar previde il fallo,
E 'l consentì. Chè se 'l peccar non fosse,
Non sarebbe virtù di mente o d'alma.
E perch'alma ondeggiante in questo amaro
Mar della tempestosa e dubbia vita
Non s'affondasse alfin tra scogli e sirti,
Quasi governo, onde rivolga il corso,
Legge a lei diede, e dirizzolla al porto
Della salute e della pace eterna.
Ma vide Dio che scompagnato e scevro
L'uom non dovea menar sì lunga vita
In guisa pur di solitaria belva.
Però pensò di fare all'uom solingo
La compagna e l'aiuto a lui simìle.
Ed in Adamo infuse il dolce sonno,
Ed irrigò di placida quiete
Tutte le membra a sonnacchioso e lento.
E quinci d'una costa il molle corpo
Edificò della consorte; e poscia
La nuova sposa gli condusse inanzi.
E disse Adamo in placido sembiante:
Osso de l'ossa, e di mia carne è carne
Questa fatta da me donna e virago.
Però lasciando l'uom la madre e 'l padre,
A la consorte sua sarà congiunto.
L'uno e l'altro era allor le membra ignudo,
E non avea di ciò vergogna ancora:
Perchè non anco era in caduche membra
Legge, a quella sublime e giusta legge
Della ragione avversa e ribellante.
Però nulla bramaro il velo o 'l manto
A quelle nude alfine ascose parti,
A cui la nuova età poi d'oro e d'ostro
Cercò le vesti, e ricca e varia pompa
Con mille preziosi ed aurei fregi.
In questa guisa fece il Padre eterno
Questa del mondo sì mirabil mole,
E l'uom creò, ch'è quasi un picciol mondo,
E la compagna sua formò da sezzo,
E pose fine a le sue nobili opre.
    Allor non solo le superne menti,

Gli angeli dico e le virtù celesti,
Essaltando lodar l'eterno Padre,
Ma i cieli anco il lodaro, e 'nsieme a prova
L'acque ch'ei sovra i cieli avea raccolte,
Il celebrar con alto e chiaro suono.
Lodollo il sole, e voi lucenti stelle,
E tu 'l lodasti ancora, o bianca luna.
O nubi, e voi, voi nubi oscure e nembi,
E voi nevi e pruine, e voi tonando
Il celebraste ancor folgori ardenti.
E 'nsieme risonar la notte e 'l giorno
Del suo gran nome, e 'l gran rimbombo accolto
S'udì nella serena e chiara luce
E nell'oscure ed orride tenèbre.
La terra ancor sovra se stessa al cielo
Essaltava il Signor con lodi eccelse.
E l'essaltar sovra il lor giogo i monti
Alpestri e duri, e i verdi ombrosi colli,
E mormorando insieme il mar sonante.
E mormorar i fonti e i vaghi fiumi
S'udian del glorioso e santo nome.
E gli augelli nell'aria, e i vaghi pesci,
E le selvagge e mansuete belve
Facean delle sue lodi un chiaro canto.
Lodarlo poscia entro gli adorni tempi
I sacerdoti ne' sonori carmi.
E l'anime de i giusti, e i nudi spirti
Non tacquer le divine eterne lodi.
Talchè a lui di tre mondi un sol concento
Della sua eccelsa gloria ognor rimbomba,
Ma pur questo corporeo e veglio e stanco,
E seco l'altro che s'invecchia e langue,
Dopo sì lungo raggirar de' lustri,
Già de' secoli al fine il loda e canta.
E dice: O mio Signore e Padre eterno,
Che già di nulla mi creasti adorno
Mirabilmente, e mi servasti in vita
Poscia nel gran diluvio e negli incendi,
Io per me son caduca e grave mole,
E ruinosa alfin, non pur tremante.
Ma la tua destra mi sostiene e folce
Sì ch'io non caggio. E 'n me rivolge 'l corso
Perpetuo ancor sopra la stabil terra.
Talchè 'n sì lunga età, lasso e vetusto,
A me stesso fanciullo ancor somiglio,
E gli ornamenti miei non vario o perdo,
Nè di tanti lucenti ed aurei fregi
Manca pur uno. E s'io da te disgiunto,
Senza indugio sarei converso in nulla.
Quanto m'è dato, a te mi unisco amando,
E nelle parti mie ti adoro e cerco
Umilemente, e te sospiro e bramo.
E ti piango talor, e in folta pioggia
Quasi mi stillo, e 'l mio fallire incolpo.
E nel pianto e nel canto a te consacro,
Quanto lece, me stesso, acciò che a sdegno
Non prenda in me la tua divina immago,
E 'l simolacro di tua mano impresso.
Ma fuor di me pur ti ricerco e piango.
Dove sei? dove sei? chi mi ti asconde?
Chi mi t'invola, o mio Signore e Padre?
Misero, senza te son nulla. Ahi lasso!
E nulla spero: ahi lasso! e nulla bramo.
E che posso bramar se 'l tutto è nulla,
Signor, senza tua grazia? A te di nuovo
Sovra me stesso pur rifuggo, e prego
Teco sovra me stesso unirmi amando.
Già mi struggo d'amor, languisco amando.
E s'altro incendio mi consuma e strugge,
L'amor tuo più lucente, e 'n altra forma
Poi mi rifaccia, e le fatighe e 'l moto
Tolga a la mia natura egra e languente.
Abbia riposo alfin lo stanco e veglio
Mondo, che pur s'attempa, e 'n te s'eterni
Sin che sempre non sia volubil tempio,
Ma di tua gloria alfin costante albergo.
Così ragiona il mondo. E sorda è l'alma
Che non ascolta i suoi rimbombi e 'l canto,
E seco non congiunge il pianto e i prieghi.


GIORNATA SESTA

NELLA QUALE CREÒ DIO OGNI SPECIE DI BRUTI, E L'UOMO

ARGOMENTO

S’introduce l’Autore, dai giuochi dell’antica Pisa, ne’ quali era l’ultimo giorno di maggior fatica e pericolo degli altri, a dir che l’istesso avviene a lui in questo ultimo giorno della creazione del mondo. Perciò dopo avere assomigliato il Pontefice a Dio nel giudicar sopra le opere umane, chiede aiuto agli amici per ispiegar quest’ultima azione divina; e con invitarli ad inalzar per loro mezzo la mente all’eterna gloria, dice non moversi egli per avidità d’onore terreno, dovendo trattar della natura de’ bruti, e di quella dell’uomo. Epiloga le opere passate, e riprova l’opinione di chi assegnò l’anima alla terra, dimostrando la diversità delle nature della terra e dell’acqua. Passa a parlare dell’anima de’ bruti, e riprovando le opinioni circa l’identità d’essa anima con quella dell’ uomo, addduce vari pareri d’antichi filosofi. Con la similitudine d’una palla percossa dimostra che la natura opera del continuo conservando nel proprio essere ciascuna specie; e descrive indi la natura del leone, della pantera, dell’orsa, nella quale siccome in altri animali ancora, narrando la diligenza nel curare le proprie infermità, biasima la trascuraggine dell’uomo ne’ rimedi dell’ anima. Narra come la natura insegna ai bruti certi presagi dei futuri tempi; e mostrando la Provvidenza di Dio uguale nelle grandi e nelle piccole cose, ci stimola con l’esempio della formica a pensare alla futura vita. Si diffonde quindi intorno all’accortezza della cerva nel partorire, e sulla natura della femmina e del maschio, e mostrando l’amor de’ figli esser non meno che nell’uomo potentissimo ne’ bruti, passa a dimostrare l’acutezza del cane; indi la sua gratitudine e la fedeltà, di cui narra un caso avvenuto in Antiochia. Passa alla lode del cavallo, ed esagerando la sua gloria ed alterezza, lo pospone all’asinello, mostrando che più ne viene dal Cielo gradita l’umiltà che la superbia. Ritorna alla Provvidenza di Dio nel creare tanta diversità d’animali; e discorrendo succintamente della natura d’alcuni, si diffonde intorno all’elefante, e mostra come tutti sono all’uomo sottoposti. Dice che non deesi biasimare la Divina Provvidenza nell’aver creato gli animali velenosi; dai quali con l’esempio di S. Paola mostra non rimanere offeso chi confida in Dio. Parlando quindi d’alcune specie di essi, si trasferisce agli atomi volanti, e agli animali nascenti da putridi corpi, affermando che non solo i bruti, la piante e l’erbe, ma il mondo anch’esso fu creato perfetto. Reca la cagione, onde vengano prodotti i mostri, e perchè il concetto sia or maschio, or femmina. Indi, numerando alcuni mostruosi parti, accenna le idolatrie degli antichi, e mostra che  le nature numerose  ne’ parti, li producono talora confusi; ed accennando l’idra apparsa in sogno a San Giovanni, soggiunge diversi mostri creduti dagli antichi, i quali dice essere alle volte segni delle minacce di Dio, da cui afferma non essere stati creati i muli, e le mule, ed essere illegittima prole: indi, recando varie opinioni di filosofi intorno alla loro generazione, assegna in qual parte più si ritrovino, soggiungendo che non solo essi, ma dalla congiunzione di diverse specie altri bastardi animali si concepiscono, di breve successione però, perchè non creati da Dio, che fece perpetua la stirpe d’ogni animale. Accenna alcune altre specie di bruti, che finge d’aver tralasciate inavvedutamente; e trasportandosi alla creazione dell’ uomo, colla similitudine d’un figlio, che trattenutosi in giorno di festa tra la bassa plebe, vedendo presso il re assiso il padre, a lui sen corre, dice che anch’egli, dopo aver dimorato fra le meraviglie di tante altre cose create, scorgendo l’uomo nel Paradiso, lascia il tutto, e si rivolge a lui solo, come somigliante a Dio. Indi, asserendo che l’umana mente non conosce se stessa, se non viene illuminata dalla grazia, n’esorta a purgar con essa le sue macchie. Spiega come Dio nella creazione dell’uomo consigliò se medesimo, riprendendo la cecità de’ Giudei in non conoscere la SS. Trinità, la quale ci figura nelle tre potenza dell’anima: la cui bellezza conseguita nella creazione, soggiunge esser contaminata dalle colpe. Mostra come Dio fece l’uomo superiore a tutte le cose; e biasimando perchè di Re nato nel mondo, si faccia servo degli affetti e del peccato, narra la felicità del primo padre, mentre egli era nello stato d’innocenza; e termina concludendo che anco dopo la trasgressione al divino precetto restò all’uomo l’impero sopra gli altri animali.

Là dove inalza il celebrato Olimpo,
Creduto degli dei lucente albergo,
Sovra tutte le nubi e sovra i venti
Ne l'aria queta la serena fronte;
E dove Alfeo nelle sue lucide onde
Portar solea già l'onorata polve
De' vincitori, a cui le membra asperse,
Propose i varj premi a' giochi illustri
L'antica Pisa; e i più veloci e i forti
Vide sovente in dubbia lotta o 'n corso
Affaticarsi, e i cavalieri e i carri
Con le fervide ruote all'alta meta
Girarsi intorno, e 'n varie altre contese
Ricercar pregio e fama e chiaro grido;
E vide a prova ancor sublimi ingegni
Far di sè paragone, e 'n dolce canto
O con soave pur faconda lingua
Gli udì maravigliando; e ben conobbe
Che pari non avea mercede o palma.
Ma i primi dì nelle tenzoni antiche
Talvolta sen passâr dubbiosi e 'ncerti
Senza corona, e sol nel giorno estremo,
In cui maggior fu la fatica e 'l rischio
Del contrastare, o 'l vergognoso scorno
Di ceder vinto, diede i cari pregi
Fermo giudicio al vincitor felice,
E rimbombar d'intorno il chiaro nome
Udissi al suon della canora tromba.
    Ma in questo quasi agone e quasi campo

Di sapïenza, ove adoriamo assiso
In altissima sede, a Dio sembiante,
Quel cui permise il giudicarne in terra
Giudice non severo, anzi Clemente,
Più sollicita ancora e più gravosa
Cura incerta d'onor ne preme e 'ngombra
Nel giorno estremo e nell'estremo corso,
In cui di faticosa aspra contesa
Quasi corona, o premio è posto inanzi;
Dura pena all'incontra altrui minaccia.
Già non è pari il gioco, e pari il frutto
Tra quel che lotta col nemico, o canta
Al dolce suon delle sonore corde,
E 'l mio (se lece dir) contrasto indegno,
Ch'ivi il periglio è sol fastidio e scherno
Degli uditori, e 'n questo è danno e morte.
    Amici, adunque a me pietoso aiuto

Date, vi prego, e quasi lena e spirto.
E di par meco entrate in questo adorno
Maraviglioso grande ampio teatro
Delle cose create, in cui mirando
Il magistero del gran Padre eterno,
Quasi per gradi alziam la pura mente
A l'invisibil suo felice regno,
Ove gli ultimi premi altrui riserba.
Nè già ricerco io qui verde ghirlanda
D'allor frondoso, che si sfronda e perde
In breve tempo la vaghezza e 'l pregio;
O di pallida pur famosa oliva,
Qual da' gran fonti già del gelido Istro
La riportò d'Anfitrione il figlio.
Ma siano i pregi miei salute e pace
In terra, e più ne gli stellanti chiostri.
Intanto a voi questa corona eccelsa
È posta inanzi, e voi medesmi al vostro
Puro giudicio di lodevole opra
Bramo di coronare. Udite adunque
Con pietosa audienza, o fidi amici,
L'aspra natura de l'estranie belve,
De l'umil gregge e de i terreni armenti,
E de l'uom, cui di terra il Padre eterno
Creò da sezzo, e da principio umile
Formollo imperioso a scettro, a regno,
E di vita immortal, se propria colpa
Non era a lui di faticoso esiglio
Dura cagione e d'odïosa morte.
    Poich'ebbe il grande Iddio spiegato il cielo

Sovrano, e stesa ancor l'infima terra,
E fermato il ritegno in mezzo all'acque,
Che sovra e sotto le distingue e parte;
E comandato che s'aduni insieme
Quella natura instabile e vagante,
E 'mposto al mare ed a la terra il nome,
E l'arida di piante ornata e d'erbe,
Indi si volse a far più bello il mondo.
E diede al giorno ed all'algente notte
I duo lumi maggiori e più lucenti,
E tutti variò di stelle e d'auro
Con diverse figure e vaghi giri
I primi corpi, e con perpetue tempre
Maravigliosa fè la vista e 'l corso.
Poscia prodotti entro l'ondoso grembo
De l'acque amare o dolci i varj pesci,
E nell'aria i volanti e levi augelli,
Disse Dio creator (e 'l sacro detto
Fu certo impero e 'nviolabil legge):
L'anime de' viventi ancor produca
D'ogni sorte la terra, e 'n quattro piedi
Altri appoggi il corporeo e grave pondo,
Altri nel suol disteso il porti e serpa;
E la progenie ancor produca e figli
Di qualunque altro va rependo; e insieme
Con le fere produca armenti e gregge.
Così Dio fece le terrene belve
E le cornute o pur lanose mandre
De' mansueti, e quei ch'al suol congiunti
Strisciando se n'andar col giro obliquo.
Dunque animata è questa antica madre?
Dunque anima ha la terra, ond'ella al parto,
Quasi femina, fu bramosa e pronta?
E loco han pur i Manichei superbi
Di saper vano, e le menzogne antiche
Di chi filosofando e mente e spirto
Diede a questa mondana ed ampia mole?
Lo qual per entro lei trapassa e spira,
Com'a lor parve; e 'l cielo e l'ima terra,
E la spera del sol lucente e vaga,
E 'l globo della luna e l'auree stelle,
E de l'aria e del mare i larghi campi
Nutre; e misto al gran corpo in varj modi
Move agitando le diverse membra?
    Ma chi vestire osò d'alma spirante

La terra, o volle dar sua mente al mondo,
E farlo Dio, non che spirante e vivo
Animal, che tutti altri accoglie in grembo,
Male intese di Dio que' sacri detti,
E 'n peggior parte la sentenzia ei torse.
Perch'alma non avea l'arida terra,
Ma chi le comandò, largille ancora
La virtù di produrre i nuovi parti.
Nè quando detto fu: Germogli il fieno,
E ferace di frutti il verde tronco,
Ella il produsse allor, sì come occulto
Il si tenesse nel profondo seno.
Nè palma o quercia o bel cipresso od elce,
Pur come ascoso dal fecondo ventre
Di fuor mandò sovra l'inculto suolo.
Ma delle cose, che si fanno o fersi,
È il divino parlar natura e vita.
Dunque quando il Signor disse: Germogli,
Intese in sua divina alta favella:
Non cacci fuor quel che raccoglie in grembo,
Ma quel ch'ella non ha di nuovo acquisti.
E la forza a lei diede il Padre eterno.
E 'n questa guisa or le comanda e dice:
produca l'alma; e non de l'alma innata
Intender vuol, ma di virtù largita
Con la mirabil sua divina voce.
Ma non comanda all'acque al modo istesso,
Sol l'impone il produr chi serpe e striscia
Con alma viva; ed a la terra impone
Che partorisca l'anima vivente.
E così disse Dio, se dritto estimo,
Perchè nell'acque a gli umidi notanti
Compartir volle men perfetta vita,
E men degna natura. E quinci avviene
Ch'entro il denso elemento e 'mpuro e misto
Abian via men acuti e puri i sensi.
Grave è l'udire, e 'l lor vedere ottuso,
E memoria non hanno, e non s'imprime
Nel senso interno immaginata immago,
Nè contezza è fra loro o per lungo uso
Notizia alcuna: onde in sì rozza vita
La carne e 'l ventre signoreggia e regna.
Ma ne' terrestri imperatrice e donna
È l'alma in guisa, che talor si crede
Che di ragione e d'immortale ingegno
Ella abbia larga parte e ricca dote.
Interi sensi, e ne' presenti oggetti
Acuti sono, e del passato impressi
Alti vestigi, e non dubbiose o 'ncerte
Son le memorie; e lor virtù non langue.
E con la voce non oscura i segni
Sogliono dar di loro interni affetti.
E quinci in lieto o 'n suon dolente e mesto
L'allegrezza si mostra o 'l duolo appare,
O di cibo il desio di fuor si scopre,
O rimbomba l'amor ch'entro gl'infiamma,
E non può starsi in fero petto ascoso
Sotto tenera lana, o duro ed aspro
Ispido vello: onde 'l belar de l'agne,
E 'l nitrir e 'l ringhiar son quasi note,
E 'l latrar, l'ulular in monte e 'n bosco,
O pur lungo un corrente e chiaro fiume,
E 'l muggire e 'l ruggir d'affetto interno.
Mille altri affetti ancor con mille voci
Suol variando dimostrar natura.
    Dall'altra parte degli ondosi regni

L'errante abitator non solo è muto,
Ma immansueto, e dall'usanza aborre
Di nostra vita, e per lusinga o vezzo
Mai non s'avvezza, e nulla apprende o prende
Di nostra umanità. Ma schiva e fugge
D'esser consorte all'animal che regna.
    In questa guisa Dio creò nell'acque

Corpi animati, e nella terra ei volle
L'alme crear da cui si regge il corpo.
Quinci il suo possessor fu noto al bue,
Conobbe l'asinel l'umil presepio
Del suo Signor, ma non conobbe il pesce
Il nutritor. Tale entro l'acque e tanto
Fu lo stupor di tardo e grave senso.
Conobbe l'asinel l'usata voce,
E conobbe la via ch'egli trapassa,
E fu duce talora all'uomo errante
Ne l'incerto sentier ond'ei travia.
Nè di più acuto udire o più sottile,
Se 'l ver si narra, altro animal terrestre
Vantar si può sotto sì rozze membra.
Ma nel camelo portatore estrano
Di gravi pesi e d'african deforme,
È de l'ingiurie alta memoria e salda,
Ed ira grave al vendicar costante.
E, percosso talor, l'ira profonda
Lunga stagion riposta in sen riserba
Pur come estinta, e la ripiglia a tempo,
    Rendendo il male e 'l ricevuto oltraggio.

Udite voi, che di virtute in guisa
La memoria de l'onte in voi, di sdegno
E d'astio e di rancor nutrite occulta.
Udite il paragone, a cui sembianti
Fate voi stessi, mentre l'ire ascose
Tenete pur, come faville ardenti
Sotto ingannevol cenere sepolte,
Che accendendosi poscia in secco legno
O 'n arida esca, fiammeggiar repente
Sogliono, e rinuovare il foco estinto.
In cotal guisa l'anima superba
Fu ne' bruti prodotta; e voi l'esempio
Seguite pur delle sdegnose belve.
    Ma qual si fosse già nel primo parto

L'alma vostra immortal, fia noto appresso;
Or de l'alma ferina a voi si parla.
L'alma d'animal fero è vita e sangue,
Ma 'l sangue in carne si condensa e cangia,
E la carne corrotta alfine in terra
Pur si risolve: onde mortale è l'alma
Di feroce animale, anzi più tosto
Un non so che di morto. Udite adunque
Perch'a la terra Iddio produrre impose
L'anima de' viventi, e come segua
Che l'alma in sangue si trasmuti e volga,
E 'l sangue in carne, e quella carne in terra.
E per le stesse vie si volge e riede
La terra in carne, e poi la carne in sangue,
E 'l sangue in alma, onde ritrovi e vedi
Che l'anima de' bruti è sangue e terra.
E non pensar che più del corpo antica
Sia l'alma fera onde rimanga in vita
Poscia che 'l suo mortale estinto giacque.
Ma riconosci le cangiate forme
E i variati giri, e fuggi intanto
Degli ingegnosi le canore ciancie,
Che starian meglio in lor silenzio occulte.
    Non hanno questi pur rossore e scorno

Di far che l'alma, ond'uom ragiona e 'ntende,
Sia quella stessa, onde latrando il cane
Sen corse, e sibilando empio serpente.
E fingon se medesmi in varie forme
Esser mutati; e non pur servi e regi
Sotto varj sembianti e varie membra
Esser già stati, ma vezzose donne,
O pur marini pesci o piante o sterpi.
E ciò scrivendo, più di pesce o tronco
Si mostrar di ragione ignudi e d'alma.
    Ma fra tanti superbi e varj ingegni

Non sorse alcuno in quella età vetusta,
Che l'anima stimasse o limo o terra.
Ma seguendo del moto o pur del senso,
Incerti duci, le vestigia e i segni,
Altri la credea spirto ed aer leve,
Altri foco sottile e viva fiamma,
Altri pur la stimò nativo umore,
Altri vapor da quei fumante e misto:
    Terra nessun. Così la madre antica,

La terra dico, che produce e figlia
L'alma de' vivi, quasi inculto germe,
Fu defraudata allor del proprio onore
Da que' superbi e 'n contrastar costanti,
E discordi fra lor ritrosi ingegni.
Ma noi rendiamo alla gran madre antica
L'onor devuto del suo nobil parto,
E sua figlia chiamiam l'alma spirante
Di feroce animal. Or non ci caglia,
Se nulla ora di nuovo o di vetusto
Delle figure della vasta terra
Osiamo d'affermar con certe prove,
Quasi giudici giusti in tanta lite.
Perch'altri vuol ch'ella figura e forma
Abbia di spera; altri la varia e finge
Quasi un cilindro, e somigliante al disco.
Altri la fa, come sia cesta od aia,
Vacua e cava nel mezzo, e d'ogni parte
Pur egualmente la polisce ed orna.
E quel che rapto, immaginando, al cielo
Fu, come scrisse ne' toscani carmi,
Indi pur vide, o di veder gli parve,
La terra che ci fa tanto feroci,
Quasi una bassa aiuola in vil sembianza,
Ma pur in giro ei la circonda e forma.
Ed altri ancor nelle due estreme fasce
E nell'ampia di mezzo e larga zona
La privò d'abitanti e nuda ed erma,
E con squallido aspetto orrida in vista
La ci dipinse; e 'n alta neve e 'n gelo
Sepolte figurò le parti estreme.
E 'l maggior cinto dalle fiamme acceso,
Sol due zone lasciò soggette al sole,
Che mai per dritto non l'infiamma e scalda,
In due grandi emisperi, e sempre avverso
Fa con obliqui rai più dolci tempre.
E noi l'una abitiam, che quinci e quindi
Viviam ristretti in breve spazio angusto
Dal gel perpetuo o dall'ardor soverchio.
L'altra sotto altro ciel barbare genti
Accoglie, a cui sparito è il Carro e l'Orsa.
Ma la novella età discopre e mostra
Ch'ogni di lei gelata o accesa parte
L'uom dalla prima sua terrena stirpe
Duro animal costante alberga e pasce.
Talchè non sembra l'abitata terra
Timpano più, com'affermando insegna
Il gran maestro di color che sanno,
Nè 'n forma di lorica a gli occhi appare;
Ma pur in cerchio si rivolge e gira
Di pomo in guisa che si fende ed apre.
Isola no, chè non si giace in seno
Al gran padre Oceaàn, ma 'l tiene in grembo
Come osa d'affermar l'età novella,
Che per troppo veder men alto intende.
Ma sia di ciò quel che ragione e senso
Può dimostrar ne' più vicini obietti.
Or tacciam sue figure, e i larghi spazi
Non misuriam qual geometra in giro,
E non vogliam superbi al Re del cielo
Di sapere agguagliarci e di possanza.
Perch'ei la terra nella man rinchiuse,
E misurò pur con la mano i mari,
E tutte l'acque insieme e 'l ciel col palmo.
Chi pose i monti spaventosi in libra?
E 'n giogo i boschi, e l'aspre rupi in lance?
Chi tien de l'ampia terra il largo giro,
E 'n guisa di locuste in lei dispose
Gli sparsi abitatori, e 'l ciel sublime
Quasi camera sua si fece in volta,
Se non il Re, che lui sostiene e folce?
Non affermiamo ancor con vano orgoglio
Quanto l'opaca e tenebrosa terra
L'ombra fosca ed algente inalzi e stenda.
Nè come privi di splendor l'errante
Luna, quando ella giunge incontr'al sole,
Nè s'ella di Ciprigna ancora adombri
Il vago aspetto, e la sua luce imbruni,
Ma tutti siam per maraviglia intesi
Alla voce di Dio, che corre e passa
Alle cose create, e compie il mondo
Nelle parti di mezzo e nell'estreme.
    Qual ampia spera o pur marmorea palla,

Ch'è da robusta man percossa e spinta,
Giunge in loco pendente, ed indi a basso
Dal sito che s'avvalla e 'n giù dechina,
E dalla propria sua volubil forma
Con veloci rivolte in giù rotando
Portata va, sinchè l'arresta il corso
La piana terra, in cui si giace e posa;
Tal della santa voce al suon commossa
La natura trascorre, e passa a dentro
In tutto quel che nasce e si corrompe,
E va servando ogni progenie e stirpe
Simile a sè, finch'ella al fine aggiunga.
E del cavallo il successor corrente
Fa che ci nasca, e pur sembiante al padre;
Dal tauro il tauro con sue dure corna;
Dal superbo leon villoso il tergo
Nasce il leone, ed ha pungente artiglio;
E 'nsieme col leon l'impeto e l'ira
Nacque, e quel suo magnanimo disdegno,
Onde l'umil nemico a terra steso
Trapassa alteramente, e non l'offende.
Nacque l'amor di solitaria vita,
Per cui sprezza i compagni e quasi aborre,
E per deserte arene, o 'n alta selva
De' Mauritani e de' Numidi errante
In caccia e ne i perigli, ei va solingo,
O pur fra 'l Nesso e l'Acheloo corrente,
Dove i leoni producea l'Europa.
E 'n guisa di possente aspro tiranno,
E per natura indomito e superbo,
Nè degna egual, nè de l'esterno cibo
Pascer la cruda sua fame profonda.
Cotanto schiva il disdegnoso gusto
L'avanzo di non presa e immonda preda.
Sì larghe canne ancor le diede in sorte
Natura, e grande è sì l'orribil voce,
Che l'alto suo ruggir di tema ingombra
I più veloci e più leggieri al corso,
E sbigottiti alfin gli arresta e prende.
Ma dopo il pasto egli è giocoso e lieto,
E festeggiando con gli amici ei scherza,
Quasi di nulla tema, e non sospetti.
Poi fatto grave nell'età vetusta
E tardo in caccia, osa il feroce veglio
A le città far periglioso assalto,
E gli uomini infestar fra le alte mura.
Ma questa così fiera orrida belva,
Quando più superbisce e 'n maggior rabbia
Divenuta crudel, lo sdegno accende,
Teme d'ardente face e fugge il foco;
E sbigottito ancora ei fugge il gallo,
E 'mpaurito è più dove biancheggia
Il bel candor delle spiegate penne.
E la pantera, impetuosa belva
E repente agitata, a' varj moti
De l'alma sua veloce ha 'l corpo acconcio,
E le membra pieghevoli e leggiere.
E delle macchie sue quasi dipinto
Mostra il bel pardo varïata pelle,
Ed ascondendo il suo feroce aspetto,
Con la pittura delle spoglie allice
I semplici animali e troppo incauti.
Così gli prende, e 'nsidiosa fraude
Le giova più nella selvaggia preda,
Che 'l suo corso veloce o 'l leggier salto.
Ma l'orsa è neghittosa e pigra e tarda,
E di costumi occulti e 'n alto ascosi,
E di simil figura ammanta e veste
L'alma feroce; ha grave e rozzo il corpo
Quasi indistinta e mal composta mole,
Ch'entro l'algente ed orrida spelunca
Ha sue latebre, ove s'agghiaccia e torpe.
Ma poscia nel furor s'infiamma e ferve,
E cerca d'ogni ingiuria aspra vendetta.
E 'ncontra il ferro ella s'avventa e rota
Ne' monti alpestri, e piaga aggiunge a piaga,
Correndo quasi a volontaria morte.
Ma pur con lingua industre informa e finge,
Di fabro in guisa, i suoi deformi orsacchi.
    E tu, più rozzo assai d'orsa silvestre,

I costumi de' figli inculti ed aspri,
Mentre è l'etate ancor tenera e molle,
Non formi e non polisci e non adorni?
Nè in pietosa opra hai lusinghiera lingua,
Ma 'n officio crudel pungente e dura?
    E l'orsa ancora a le sue proprie piaghe

Sa, com'insegna la natura industre,
Ritrovare il rimedio onde risana:
Perchè quando più son profonde e gravi
Col verbasio le tura, e l'arida erba
Terge la parte sanguinosa, e secca.
E la serpe d'inferma e scura vista,
Di finocchio si nutre, e così scaccia
Quell'infelice umor che gli occhi appanna.
L'aquila ancor con la lattuca agreste
Conferma il vacillante, il debil lume.
La testudine allor che 'l fiero tosco
Della serpe l'ancide, e dentro serpe
Il pasciuto velen, salute e vita
Dall'origano cerca, e non indarno.
E l'egra volpe in discacciar la morte
Che le sovrasta, usa nel proprio male
Due lacrimette di stillante pino.
E la montana capra, allor ch'affisso
Di pennata saetta in mezzo al fianco
Ha 'l duro ferro, medicar se stessa
Sa con quell'arte che natura insegna;
E 'l dittamo pascendo, il duro strale
L'esce per dall'interna e grave piaga.
Della scimia il leon languente ed egro
Avidamente cerca il fero pasto,
E beve 'l pardo della capra il sangue,
E pasce i ramoscei d'oliva il cervo.
    E tu de l'alma tua languida a morte

Il rimedio non trovi, e non conosci
La vera medicina, e non delibi
Succo vital dalle sacrate carte?
E i presagi del tempo ancora insegna
Mastra natura, e 'l variar del cielo
Dal caldo al freddo, e dal sereno al fosco;
E qual tempesta indi minacci o turbo.
Tal che 'n antiveder la pioggia e i venti
E le procelle torbide e sonanti
Talor men dotti son gli umani ingegni.
La pecorella all'appressar del verno
Di largo cibo si provvede e pasce:
Quasi antivede la futura inopia,
Che l'oscura stagion gelando apporta.
E i buoi rinchiusi nel più freddo tempo
Entro le calde loro immonde stalle,
Quando la primavera a noi ritorna,
Mossi dal lor nativo e certo senso,
La domita cervice e 'l collo irsuto
Stendono oltre i presepi, e pur guardando
Braman d'uscire al tepido sereno.
L'istrice ancor nelle sue proprie lustre
Fa doppia quasi porta onde respiri,
E di lor una è volta al nubilo Austro,
E l'altra al fiato d'Aquilone algente,
E se teme di Borea il fiero spirto,
Contra il settentrion si tura il varco;
Ma se 'l vento african l'offende e turba,
Quel suo foro ventoso incontra chiude,
E si ricovra a la contraria parte.
    E quinci chiaramente a' sensi appare

Che l'alta Providenza in ogni lato
Trascorre e passa, e 'l tutto adempie ed orna;
E per le cose eccelse e per l'illustri,
Non mette ella in non cal l'oscure e basse;
Ma nel vile animale un certo senso
Suol destar del futuro, onde provveggia
Egli a se stesso. E l'uom mai sempre intento
Si starà nel presente e quasi a bada,
Senza pensar nella futura vita?
Deh rimiri il lodato e raro esempio
Della formica faticosa e 'ndustre,
Che 'l vitto onde si pasca al freddo verno,
Ripon la state. E benchè lunge ancora
Sian di stagion molesta i giorni algenti,
Neghittosa non cessa e non s'allenta
La negra turba, anzi se stessa avezza
Nelle fatiche; e per gli adusti campi
Ferve l'opra, non men che l'ora e 'l giorno,
Sin che abbia ne' suoi spechi il gran riposto.
Essa con l'unghie proprie incide e sega
I cari frutti, e inumiditi, al sole
Gli asciuga e secca; e 'l bel tempo sereno
Spiando, già prevede i lieti giorni.
Talchè quando ella i grani a' raggi espone,
Pioggia non stilla dall'oscure nubi,
E di serenità l'indizio è certo.
Quinci ripon nelle sue celle anguste
L'asciutta messe, e poi la serba e parte,
Custode e dispensiera, e 'ntenta all'opre.
E non sol mentre il sole accende i campi,
Ma le fatiche sue notturne ancora
Dal ciel rimira la ritonda luna;
E quelle più serene e calde notti
Tolte al dolce riposo, al queto sonno,
E giunte al travagliar continuo e lungo:
Tanta in minuto corpo industria e lena
Di spirto infaticabile e 'ngegnoso
Pose natura, ch'è mirabil madre;
Anzi della natura il sommo Padre
Tanta virtù le diede in raro dono.
    Oh come grandi sono e come eccelse,

Come maravigliose, o mastro eterno,
Tutte l'opere tue, che tu facesti
Con infinita sapienza ed arte!
    Ma noi nepoti del vetusto Adamo,

Pur quasi doni di natura e doti,
Abbiam molte virtù, che proprie e nate
Con l'ignudo bambin d'un seme stesso
Sono, ed uscite da' materni chiostri.
Nè legge od arte o pur antica usanza,
O nuovo esempio le dimostra e 'nsegna
A l'alma ancora simplicetta e vaga
Che pargoleggia entro le molli membra.
Ma sua propria vaghezza e suo desio
L'inchina e move con amico affetto.
Chi n'insegna d'odiar la febre e i morbi
Seguaci e gravi, ond'è languente ed egra
L'umanitate? e d'aborrir la morte
Senza maestro e senza altrui consiglio?
Non arte, non ragion, non uso o legge,
Ma quella che ne fa cotanto amici
A noi medesmi, lusinghiera e dolce
Nostra natura a noi l'insegna e detta.
In questa guisa ancor la nobile alma
Dechina il vizio, e volontaria il fugge
Senza altra cura o magistero od uso.
E veggendo virtù, ch'è bella in vista,
Se n'invaghisce e la ricerca e segue,
Talch'è fuga del vizio il primo passo,
Ond'ella i suoi vestigi indrizza al cielo.
Ed ogni vizio è male interno, e morbo
De l'alma inferma e 'n van desire accesa.
E la virtù, ch'è sempre al vizio opposta,
È sanità de l'alma: ond'è nell'opre
E ne gli offici suoi costante e salda.
E quinci a tutti la giustizia è cara,
E cara la prudenza, e grazie e laude
Ha la modestia; e 'n più mirabil vista
La fortezza, virtù de l'alma invitta,
Mal grado di fortuna empia e superba,
S'onora e cole; e simolacri ed archi
Le sono alzati, e sacri altari e tempi.
E queste ha per fedeli e care amiche
L'alma domesticata, e se n'adorna
Più che di sanità le membra e 'l corpo.
    Amate i padri, o voi pietosi figli,

E voi pietosi padri i figli amate,
Senza irritar il giovenile sdegno,
Chè natura il v'insegna e ve 'n costringe.
S'ama la leonessa, orrida belva,
I pargoletti suoi, se 'l fero lupo
Difende i lupicini, e insino a morte
Per lor combatte, avrà suoi nati a scherno,
Più crudel delle fere, il crudo padre?
Tanto rigor, tanto odio e tanto oblio
Di natura sarà nel petto umano?
Oh del materno amor soave e dolce
Forza, che pieghi la feroce tigre,
E dalla preda, a cui vicina e stanca
Corre anelando, la rivolgi indietro
A la difesa de' suoi cari parti!
Com'ella trova depredato e sgombro
Il suo covil della gradita prole,
Repente corre, e le vestigia impresse
Preme del cacciator, che seco porta
La cara preda. E quel rapido inanzi
Fugge portato dal destrier corrente,
E per sottrarsi a la veloce belva,
Ch'altra fuga non giova od altro scampo,
Con questa fraude d'ingegnoso ordigno
Delude la rabbiosa, e sè difende.
Perchè di trasparente e chiaro vetro
Una palla le gitta inanzi a gli occhi,
Onde schernita dalla falsa immago
La si crede sua prole, e ferma il corso
E l'impeto raffrena, e 'l dolce parto
Brama raccôr nel solitario calle,
E riportarlo a la sua fredda tana.
E ritenuta pur dal falso inganno
Delle mentite forme, anco ritorna
Via più veloce assai, ch'ira l'affretta,
Dietro a quel predator ch'inanzi fugge,
E gli sovrasta omai rabbiosa al tergo.
Ma quel di nuovo col fallace obietto
De lo speglio bugiardo affrena e tarda
Il corso della tigre, e si dilegua.
Nè della madre per oblio si perde
La sollecita cura e 'l pronto amore,
Ma l'infelice si raggira intorno
A quella vana e ingannatrice immago,
Quasi dar voglia a' proprj figli il latte.
E 'n questa guisa la schernita belva
La cara prole e la vendetta ancora
Perde in un tempo, ch'è bramata e dolce.
E se 'n tal guisa suole amar la tigre
E la consorte del leon superbo,
Od il famelico orso i proprj figli,
Qual maraviglia fia s'amar vedrassi
La mansueta ed innocente agnella,
E la cerva selvaggia e fuggitiva
Il dianzi nato ancor tenero parto?
Fra molte pecorelle in ampia mandra
Il simplicetto agnel scherzando a salti,
Esce dal chiuso ovile, e di lontano
Ei riconosce la materna voce,
E ricercando del suo proprio latte
I dolci fonti affretta il debil corso,
E dove sian le desiate mamme
Vote del proprio umor ei se n'appaga,
Nè fugge l'altre più gravose e piene,
Ma le tralascia, e 'l suo dovuto cibo
Sol dalla madre sua ricerca e brama.
La madre 'l dolce pargoletto figlio
Fra mille e mille al suo belar conosce.
In questa guisa di ragion sublime
Ogni difetto un largo senso adempie,
Che per natura in umil greggia abonda,
Forse acuto via più del nostro ingegno.
Ma nel suo partorir solinga cerva
Mostra via più d'accorgimento e d'arte
D'altro animal, ch'abbia alcun seme o parte
Di providenza e di ragione industre.
Però più tosto a la pietate umana
De' suoi cerbiatti cede il nuovo parto,
Delle fere temendo; e l'aspre rupi,
E le selvagge lustre, e i lochi inculti
Fugge la paurosa; e dove scorge
De' piedi umani le vestigia impresse,
Presso le vie da lor calcate e corse,
Ivi secura il suo portato espone,
E de l'erba siselia ivi si pasce;
O nelle stalle poi ricovra e scampa
Gli artigli e i denti di selvaggia belva;
O dura cuna in rotta pietra elegge
Là dove s'apre un solo e un picciol varco,
E i pargoletti suoi difende e guarda;
E lor da quattro mamme il latte istilla,
E da due mamme quelle a cui natura
Fu di tal nutrimento avara e parca.
E perch'ella di fele amaro è priva,
Ha lunghissima vita, onde talvolta
Candida appare, e nel candor senile
È venerata dall'amiche genti:
Sì come quella che sen giva errando
Libera e sciolta la solitaria chiostra,
Che liberolla il suo felice augusto.
La vaga fama a la famosa cerva
Le corna d'oro ancor figura e finge,
E le circonda di monile il collo;
Ma de l'onor delle ramose corna,
E di questa nativa altera pompa
La natura privolle, avara madre,
E ne fu più cortese e larga ai cervi,
I quai le soglion rinnovar sovente,
E lasciando le vecchie a terra sparse
Dal proprio peso, onde son piene e dense,
Rifar le nuove a la superba fronte.
E ciascuno anno un lungo e nuovo ramo
Aggiungon pur delle ramose corna.
Dalle quali anco germogliò talvolta
L'edra seguace frondeggiando in alto.
Oh maraviglia, onde natura accrebbe
Vaghezza e pompa all'animal fugace,
Ch'è pur fugace e paventoso e vile
In così altero e così fero aspetto,
Armato di sue lunghe e 'nutili arme.
E 'l suo gran core, onde 'l formò natura,
Non è d'orgoglio o d'orgoglioso ardire,
Ma di viltate e di timore albergo.
E 'n guisa pur di timidetta lepre
Il suo liquido sangue a pena ha fibre,
E quinci avien che non l'accoglie e stringe
Tenace e saldo, ma simiglia il latte
Mal senza caglio appreso, ond'ei trascorre.
Ma talvolta d'amore acceso e punto,
Ne la stagion che intepidita il grembo
Apre la verde terra, e 'l pigro gelo
Già si dilegua, e per disfatta neve
Corron turbati i rapidi torrenti,
Risveglia il cervo al cor guerriero spirto,
E fa battaglia e di ferire ardisce,
S'alcun per alta selva a caso incontra.
Ed allora non pur le tigri e i lupi,
E gli orsi informi o la dipinta lince,
E 'l cinghial, che fregando al duro tronco
L'orride coste, di tenace fango
Fassi a le dure spalle aspra lorica;
Ma cupida d'amor la fiera madre
Erra, obliando i pargoletti inermi,
Che non han fatto ancor gli artigli e 'l vello:
E i più timidi ancora in furia e 'n foco
Sospinti son da stimoli pungenti.
Smisurato furor conduce e porta
Oltre il sonante Ascanio, e i gioghi alpestri
D'Ida sublime, oltre l'Eufrate e 'l Tauro
L'avide madri del guerriero armento.
Passano i monti, e gli alti fiumi a nuoto,
Fuggon tra sassi dirupati e scogli,
E per valli profonde, e non incontra,
O sole, al nascer tuo, nè contr'ad Euro,
Ma verso Borea e Cauro, e donde attrista
D'oscura pioggia i cieli il nubilo Austro.
Quinci lento veneno alfin distilla,
Che ippomane chiamò la prisca lingua
Degli antichi pastori. E fu sovente
Scelto già dall'iniqua empia matrigna,
E con erbe maligne, e con parole
Non innocenti, fu adoprato e misto.
Tanto potea l'amore e 'l dolce zelo
Di più tenera prole in fero petto,
Tanto ardente desio di nozze immonde,
Che per natura si risveglia e 'nfiamma,
E ne gli orridi boschi ad aspra guerra
Move non pur le dispietate belve,
Ma i duci ancor de' mansueti armenti
Pendon sospesi a la battaglia incerta,
Che di piaghe e di sangue il petto irsuto
Lor empie e sparge, e la superba fronte,
Le mute spose e le cornute torme,
Di cui debban seguir l'audace impero,
E la vittoriosa altera scorta.
E non osan partir la fera zuffa
Maravigliando i lor maestri istessi.
    E se l'amor de' figli, o quel ch'aggiunge

Insieme a generar cupida coppia,
Può tanto in cor ferino e 'n rigida alma,
In quei che fa di sè vaghi e superbi
Nostra ragione e 'l nostro umano orgoglio,
Quanto potrà? Qual maraviglia adunque,
S'una e due volte, anzi tre volte e quattro
Per l'istessa cagion s'accese ed arse
De l'odio antico inestinguibil fiamma?
E l'Asia e incontra la superba Europa
Di ferro e di furore armata in guerra,
Strage e ruine, e fieri incendi ardenti
Meschiando, ne 'ngombrar la terra e l'onde.
    Nel fido cane ancor, se dritto estimi,

Dove manca ragione il senso abonda;
E quel che a pena i più sublimi ingegni,
Filosofando nell'antiche scole
Conobber degli acuti sillogismi,
Mentre varie figure in varie guise
Tessean di lor con intricati nodi,
Quello istesso, dico io, subito il cane
Per sua natura agevolmente apprende.
Perchè trovando le vestigia impresse
Della timida lepre o pur del cervo,
Arriva là dove si fende e parte
Una strada in più strade; e 'ntorno a' primi
Princìpi delle vie s'avolge e gira,
Odorando i sentieri o i passi sparsi.
E fra se stesso in questa guisa intanto
Sembra sillogizzar: La vaga fera
O 'n quella parte o 'n questa ha volto il corso,
O per quest'altra almen s'indrizza e corre,
Ma non sen va per questo o quel sentiero:
Dunque per questa calle i passi affretta.
Così conchiude argomentando il cane,
E 'l pronto senso è di lunga arte in vece,
Per cui rifiuta il falso e trova il vero.
Nè più ne ritrovar le varie sette,
Scrivendo con lo stile o con la verga
Ne l'arena del lido o 'n secca polve,
Degli argomenti le diverse forme.
E di tre varie cose ivi descritte
Due condennando, come false, a morte,
L'altra approvâro, in cui rimase impressa
La verità, che nel soffiar dell'Austro
Poi si cancella o nel gonfiar dell'onda.
E non s'avvedella superba mente
Degli orgogliosi e miseri mortali
Che in polve è scritta ed in minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin, che l'alme illustra.
Onde nell'imbrunir d'un breve giorno
La si porta e disperde il mare e 'l turbo.
E benchè antica età si glori e vanti
Di sacre note e di colonne eccelse,
In cui descritte fur le nobili arti
In quel sacro a Mercurio adorno tempio,
E sian per fama ancora illustri e conte
L'altre colonne in cui serbar credeva
Da' diluvj sicure e da gli incendj
Mille antiche memorie a terra sparte;
In queste e quelle e nel cangiar del tempo
Non rimane di lor vestigio o polve,
Sì lunga notte involve i nomi e l'opre.
Ma contra il senso de' veloci cani
I timidi animali han senso ed arte,
Onde sovente i lor vestigi istessi
Soglion guastar, perchè la fuga occulta
Segno palese non discopra e mostri.
E conoscono ancora i venti e l'aure,
Ond'è portato a gli odoranti cani
Il noto odor che gli tradisce e perde.
Così la Providenza in ogni parte
Trapassa e giunge; ed al fugace scampo
De' paurosi ella talora intende,
E spesso lor concede in giusta preda
A gli animosi, e la virtù ferina
Con le spoglie de' vinti onora, e pasce
Pur di rapina le robuste forze.
Ma qual memoria è sì tenace e salda,
Com'è quella talor del fido cane?
O qual d'animo grato e di costante
Altri può meritar più chiara laude,
S'ardisce il fido can con fiero assalto
Scacciar empio latron dal caro albergo,
Vietando i furti al predator notturno?
Ed al pugnare ed al morire è pronto
Con l'amato signore, o per l'amato
Signore almeno, e conservarlo in vita,
Se stesso offrendo a glorïosa morte.
Spesso inanzi al sublime altero seggio
De' giudici severi il fido cane
Fu de' nocenti accusator latrando,
E spesso il muto testimonio indegno
Non fu di fede; e cade in giusta parte
Sovra il reo la temuta orrida pena.
In Antiochia già (come si narra)
In solitaria parte estinto giacque
Un uom, ch'un fedel cane avea compagno,
Ne l'ora che, tra 'l lume incerta e l'ombra,
La queta notte dal sonoro giorno
Strepitosa divide, e desta all'opre
I mortai faticosi, e gli richiama
Dalle fatiche al lor riposo amico.
E l'uccisor ch'ebbe mercede in guerra,
Era uom crudel di sangue e di corrucci,
Che si pensò celar la fiera morte
Sotto l'oscuro e tenebroso manto
Della caliginosa e fredda notte;
E dal medesmo manto andò coperto
In più lontana e più secura parte.
Giacea nell'atro sangue il corpo estinto,
Squallido, immondo e pien di morte il volto.
Sparso era intorno a rimirarlo il volgo.
Il can gemendo in lagrimabil suono
Piangea del suo signor l'orrida morte.
Intanto quel che de l'iniquo fatto
Dianzi contaminato indi partissi,
Per non esser sospetto e 'ntiera fede
D'innocenzia acquistarsi, ivi con gli altri
A parlar de l'atroce orribil caso
Facea ritorno con sicura fronte,
(Tanta è la fraude de l'umano ingegno).
Entrando in quella folta ampia corona
Del popol vario, assai pietoso in vista
S'appressava a colui ch'anciso giacque.
Allor cessando alquanto il fido cane
Dal lamentabil gemito dolente,
Prese della vendetta orribil armi,
E preso il tenne con gli acuti denti,
E mormorando in miserabil verso
Tutti converse in doloroso pianto.
E fede ei fatta a la mirabil prova,
Solo il tenne fra molti, e non lasciollo,
Nè rallentollo da' tenaci morsi;
Alfin turbato il reo dal certo indizio,
Ritorcer in altrui la grave colpa
Non potea più de l'odio e de lo sdegno
E de l'ingiurioso e grave oltraggio,
Nè 'l sospetto estirpar del proprio fallo
Ne l'altrui mente infisso. E 'n questa guisa
Far vendetta potea, ma non difesa,
Da un quasi muto accusator latrante.
È preso e vinto, e condannato a morte.
    Ma chi potria le maraviglie antiche

Narrar de' cani e i rari illustri esempi?
E chi sepolti entro l'istessa tomba
Mostrarli col signore? o 'n rogo ardente
Co' medesmi onorarli accesi ed arsi?
O 'n guerra pur tra folte schiere ed armi
Celebrar la nativa e invitta fede?
Chi de' tiranni e de' nemici estinti
Oserà di sacrar sanguigne spoglie
A la gloria de' cani, e 'n viva pietra
Scolpirli, e 'n lei segnar l'imprese e i nomi
Di quei famosi, che da lunga guerra
E lungo esilio trionfando insieme
Co' fidi amici, ritornaro alfine
Nell'alta patria che circonda il mare?
Seppelo ben la Grecia antica e 'l vide,
Che tante isole in seno inonda e chiude.
Taccio ne' monti e nell'alpestri selve
Tante vittorie loro antiche e nuove,
Taccio i capi recisi e 'n alto affissi,
E taccio di feroci orride belve
In guisa di trofei sospese spoglie.
    Ma dove ancora io voi tralascio a dietro,

O 'n brevissimo dir astringo e premo,
Destrier veloci e portatori illustri
De' cavalieri in glorïosa guerra
E 'n polveroso arringo, e 'n largo campo
Degli onori compagni e del periglio?
Sete guerrieri voi, che mossi a prova
Al chiaro suon della canora tromba
Avete parte in sanguinosa preda,
E 'n auree spoglie e 'n onorata palma.
E 'l vide già non pur l'antica Pisa
Ne' varj giochi, e 'l celebrato Olimpo,
Ma Tebe e Troia, anzi gli spazi e i lustri
Ch'ebber d'Olimpo misurato il nome,
E Maratona e Leutria, e poscia ed ante
Della nobil Farsaglia i piani e i monti,
Ove portando pria sul forte dorso
Nelle battaglie il cavalier novello,
Miracol nuovo e non veduto mostro,
Somigliaste il biforme alto centauro.
Chi potrebbe di voi le spoglie e i pregi
Narrare a pieno e le fatiche e i merti?
Voi spargeste non pur nell'alte imprese
Col piagato signore il largo sangue,
Ma, se creder ciò lece, il largo pianto
Ancor versaste con affetto umano,
Lagrimando sua dura, acerba morte.
Voi parte in gran trionfo e 'n nobil tomba
Co' regi aveste e con gli eroi vetusti,
E deste 'l nome a la città famosa
Sepolta, e serba ancor la fama il grido.
E voi non di tridente, onde percossa
Partorisca la terra, altera prole
Foste, nè vi formò terrena destra.
Ma l'alta voce del Signore eterno,
Più di tromba sonante, al nascer vostro
Principio diè, pria che di terra in terra
La sua possente man formasse Adamo.
E questa, che più chiara ognor rimbomba
Nella natura ubbidïente ancella,
Di voi perpetua la progenie e 'l nome.
Ma quel guerriero in voi superbo spirto,
Ch'all'uom quasi vi fa d'onor congiunti,
Umilii con l'esempio il Re celeste,
Che fra ben mille olive e mille palme
Premer degnò d'un asinello il tergo,
E voi concesse a' gloriosi augusti,
A' magnanimi regi, a' duci invitti.
In guisa tal che l'alterezza e 'l fasto
Ed ogni altra mondana illustre pompa
A l'umiltà conceda i primi onori,
Ed a quell'umil sofferenza e queta
Ch'al mansueto gli omeri prepara,
E nel presepio ha più sublime luogo
E più vicino al Regnator celeste,
Che 'n ciel tra' favolosi e vani onori
Non ha il destriero, o sua fallace immago.
Ma qual mi porta spazïando e tarda
Studio o vaghezza oltre il prescritto giro?
Torniamo a contemplar de l'opre estreme
Fatte da Dio la providenza e l'arte.
Chè providenza fu, non sorte o caso,
Che de l'atroci e immansuete belve
Fè la progenie indomita e superba
Quasi infeconda, e la ristrinse in pochi.
Fece all'incontra fertile e feconda
De' timorosi la fugace prole,
Di cui suol farsi agevolmente in caccia
Larga e diversa preda. E quinci aviene
Che molti figli suol produrre al parto
La timidetta lepre. A coppia a coppia
Gli parturisce la selvaggia capra,
E de' gemelli ancor l'agna silvestre
Suol andar grave, e generarli insieme,
Perchè non manchi da vorace fera
Consumata la stirpe. E d'altra parte
La fiera leonessa a pena è madre
D'un figlio sol, che 'l lacerato ventre
S'apre co' duri artigli; e 'n questa guisa
Ancidendo la madre allor ch'ei nasce,
Al nascer suo fa sanguinoso il varco.
E la vipera ancor fiera mercede
Rende a la genitrice, e fuor se n'esce
Rodendo l'alvo a la pregnante serpe.
Se de' varj animali ancor rimiri
Le varie parti, a te non fia nascosto
Il magistero del fattore eterno,
Che nulla fece in lor soverchio o manco.
Perchè volle adattare acuti denti,
E quinci e quindi, a le feroci belve
Devoratrici di sanguigno pasto.
Ma d'una parte sola armaro i denti
Quelle c'han vario cibo e varj paschi
Ne' verdi prati, e 'l ruminar concesse
Alle innocenti in ozïosa vita.
E le gole e le pelli e i ventri e i seni
E le reti con l'altre incerte parti
Ove s'accoglie, onde trapassa il cibo,
Onde nutrisce le diverse membra
Il puro e leve, e l'altro impuro e grave
Poi ritrova all'uscir aperto il varco,
Non son vani artifici, o fatti indarno,
Ma necessari; e di ciascuno appare
E l'uso e 'l pro per cui mantiensi in vita,
O breve o lunga, l'animal terrestre.
Del cammello Affricano è lungo il collo
In guisa tal ch'a' piedi egli s'adegua,
E giunge all'erbe onde si pasce e vive.
Quasi a le spalle il breve collo inesta
L'orsa e 'l leone e la vorace tigre,
E gli altri tali che di frutti e d'erba
Non hanno il caro nutrimento usato,
Nè son costretti d'inchinarsi a terra,
Ma sol vivon di sangue e di rapina.
A qual uso è prodotto e che ricerca
Quel de' grandi elefanti orribil naso,
Che proboscide ancor l'Italia appella?
Ad animal sì grande, e quasi vasto,
Che di grandezza ogni terrena avanza
Bestia superba, gli fu dato ad arte,
Perchè dar possa altrui tema e spavento.
Quasi di collo ancor l'officio adempie,
Però che breve ha 'l collo, e non l'agguaglia
A' piedi, e se l'avesse ancor più lungo
Mal sostener potria la mole e 'l pondo.
Però col naso ei si provede, e prende
Col naso il cibo, e 'n guisa è cavo a dentro
L'estranio naso, che raccoglie e serva
Nel voto suo del ragunato umore
I quasi laghi onde la sete estingua.
Di fiume in guisa poi gli irriga e sparge,
Come lucido fonte in bianco marmo
Scolpito da maestra e dotta mano.
E d'urna in vece effigiata belva
Con estrania sembianza orrida in atto,
La qual dal naso o dall'aperta bocca,
O d'altra parte d'acqua infonde e versa
I larghi rivi, e 'l suol n'asperge intorno.
Così la smisurata indica fera
Del pria raccolto umor fa larga copia
Mirabilmente: onde il suo naso assembra
Fontana di natura emula e d'arte.
Ma con l'istesso naso ancor sovente
Suol far l'officio di pieghevol mano,
In tante guise egli il ritorce e stende,
E col medesmo ancor placido e queto
Ed innocente, ei suol passar per mezzo
Le mansuete e semplicette gregge
Senza noiar le pecorelle umili,
Che le cedono il passo e quinci e quindi.
Ma i più feroci impetuoso afferra
E leva in aria, e poi gli spinge a forza
Precipitando orribilmente a terra.
Così gran sasso, ancor levato in alto
Da machina, talor ruina a basso
Da lei sospinto o dal suo proprio pondo.
Ma come il collo e la cervice è breve,
Altrimenti saria soverchio peso
Del vasto corpo, che s'appoggia e ferma
Sovra i suoi mal composti e rozzi piedi,
Che non mostran giuntura onde distinti
Siano, e le gambe son di travi in vece,
O di colonne a la gravosa mole.
E 'n guisa d'uomo ei sol l'incurva e piega
Mentre egli siede, ma si volge e pende
Sempre o sul manco lato o pur sul destro,
Perchè impedito dal soverchio pondo,
Sovra entrambi non può star dritto e pari:
Però si vede ognor pendente e chino
Ne l'un de' lati allor che siede e posa.
Anzi delle ginocchia ei sol ripiega
Le diretane, e l'uomo in ciò somiglia;
L'altre rigide stansi e dure e salde,
Onde s'appoggia ad un selvaggio tronco
D'orrida pianta. Ivi riposa e dorme
Un suo duro profondo e pigro sonno;
Ma la pianta si piega al peso e frange.
Talvolta ancora ella recisa e tronca
Dal cacciator, che dei suoi lunghi denti
Cerca l'avorio, ch'è si cara merce
Onde si faccia poi mirabil opra
E di barbara man raro lavoro,
Cade al cader del suo rotto sostegno
La fera belva ruinosa a basso,
Come edificio che di scossa terra
Il moto crolla, e vacillando adegua
Al suol ch'è di ruine ingombro e sparso.
Nè potendo ella poi levarsi in alto,
È dal gemito suo tradita a morte,
Chè gli passan con l'armi il molle ventre;
Nè potean penetrar l'irsuto dorso
Con lance e strali, e l'altre esterne parti
De l'elefante, che si lagna e more.
Ma sovra le sue grosse orride spalle
Ei suol portare in perigliosa guerra
Torre che grave appar d'armate genti;
E portando il gran peso ei tutto atterra
Ciò che rincontra, e par volubil monte
Od animata rocca il fero mostro,
Onde solean già gli Africani e gl'Indi
Perturbar le nemiche avverse schiere,
E l'armi sanguinose a terra sparse
Calcar sovente e le abbattute squadre.
Questa gran fera, se non more o cade
In lacrimosa guerra o 'n fera caccia,
Anni trecento vive; e senso e spirto
Ha di pietà, talchè devota adora
L'algente luna che le notti illustra.
Un'altra fera è là nel freddo clima,
Dove l'Orsa dal cielo i fiumi agghiaccia,
Nè di pietà, nè di grandezza eguale.
La qual pensando a la futura fame,
Conserva fa del divorato pasto
In un proprio nativo e largo vaso
Ove il ripone, e al maggior uopo, e serva.
Trattone 'l poscia, indi si ciba e pasce.
Così di cibo l'un, d'umore e d'onda
Provido l'altro, non patisce inopia,
In guisa di città ch'assedio e guerra
Aspetta, e 'ntanto si provede, ed empie
Di ciò ch'al vitto uom chiede, i cari alberghi
E i larghi vasi e le profonde fosse.
Ma pur questo animal sì fiero e grande,
Cui Roma vide trionfante e lieta
Quando Leon sedea nell'alta sede,
Domato all'uom soggiace. E 'n questa guisa
Volle mostrarne Dio, che tutto fece,
I feroci animali all'uom soggetti,
A l'uom sua viva e sua diletta immago,
A l'uom che 'n guisa d'immortale erede
Delle cose divine elegge e chiama
A l'alta gloria del celeste regno.
E non sol lece contemplar mirando
Ne gli animali più feroci e grandi
Quella divina provvidenza ed arte.
Chè ne' piccioli ancora ella si mostra,
Sì come ancor non men de l'alto monte
Che vicino a le nubi al ciel s'inalza,
Mirabil sembra la profonda valle,
Dove si schivi il fiero orgoglio e l'ira
De' venti usati a ricercar mai sempre
L'eccelse parti, e si ricovra e scampa
In queta parte e sotto un puro cielo
Che 'n sè conserva tepido, sereno.
A l'elefante, ch'è sì fero e grande,
Spavento dà con paurosa vista
(chi 'l crederebbe?) il vile e picciol topo.
Lo scorpio ancora orrido appare a' grandi,
D'armi pungenti e di veleno armato.
    Ma non però la temeraria lingua

Il suo veleno in Dio rivolga e versi,
Nè le dia colpa che 'l serpente e 'l drago
Egli facesse e 'l verme e 'l picciol angue,
Che lunge saettando amaro tosco
Ancide l'uom con dolorosa morte.
Chè 'n questa guisa ancor s'accusa il mastro,
Se dalla temeraria età proterva,
Che ribellando a la ragion contrasta,
Temer si fa con la severa sferza,
E con dure percosse e dure piaghe.
E 'l medico in tal modo ancor s'incolpa,
Ch'indi ricerca medicina a' mali.
Tu, se confidi in Dio, securo ascendi
Il basilisco venenoso e l'aspe,
E 'l leone e 'l dragon supprimi e calca,
Che sopporran al piè securo e giusto
La domita cervice e 'l collo a forza.
E di Paulo t'affidi il chiaro esempio,
A la cui santa e inviolabil destra,
(Mentr'ei disceso nell'apriche rive
Di Malta raccogliea materia al foco),
La vipera non diè tormento o morte,
Nè quel che di leggier s'appiglia e serpe
Tosco micidïale a lei s'apprese,
Tanto la grazia può d'alma innocente.
Ma debbo io far noiosa e fiera istoria
Di vipere crudeli e di ceraste?
D'idre, che di colubri un folto vallo
Sibilando si fan d'intorno al collo
Ceruleo e gonfio, ed all'orribil testa?
O pur d'aspidi sordi al forte carme?
O di faree, di cencri e di chelidri?
D'alfasibene, o del serpente acceso,
Che dardo sembra, e come dardo il tosco
Uccisor de' mortali avventa e lancia?
O pur di te, che più famosa palma
Fra le pesti africane ancor t'acquisti
Nocendo altrui? nè sol lo spirto e l'alma,
Ma 'l cadavero istesso a morte involi,
Anzi il rapisci, e gliel consumi a forza?
    Come il pittor che delle membra estinte

Il pallor, lo squallor dipinge, ed orna
Di colori di morte esangue aspetto,
Parte ci aggiunge orride fere e mostri
Spaventosi, e gli fa sembianti al vero,
Ma dove il vero di spavento ingombra,
Delle pinte sembianze il falso inganno
Altrui diletta e 'l magistero adorno;
Così con questi miei colori e lumi
Di poetico stil, con queste insieme
Ombre di poesia, terribil forme
Fingo, e fingendo di piacer m'ingegno
A gli alti ingegni, e dal profondo orrore
Trar quel diletto che i più saggi appaghi.
Ma pur ischivo altrui fastidio e scherno,
E per questa di fere e di serpenti
Arida, adusta e spaventosa arena
Più non mi spazio; ed a più lieti obbietti
Quasi nuovo Caton mirando io varco.
    Ma i frettolosi passi anco ritarda

Larga schiera di estrani orridi mostri,
E di varj animai volanti a stuolo,
Che da putride membra estinto corpo
Produsse; o senza seme e senza padre
L'antica madre ancor produce e figlia
Dal riscaldato e 'nsieme umido grembo.
E queste innumerabili e vaganti
Danno anzi noia che terrore o doglia.
Quante, oh quante ne veggio in nubi o 'n ombra
Volarmi intorno ed oscurarne il cielo!
Ma chi gli scaccia in trapassando e sgombra?
Il tuo lume gli scacci, o Padre eterno,
Ch'io chiedo a te, dove dal santo il santo
Par che discordi e fu contrario in parte,
Se tu Dio fosti creator di mosche.
Io, quanto lece per ragione umana,
Ch'al tuo lume divin si illustri e 'nformi,
Oso affermar che tu creasti allora
In lor perfetta età maturi i parti.
E la progenie e le diverse stirpi
Di piante e d'animai perfette usciro
Nel bel paese della chiara luce
A l'alta voce del suo santo impero;
E non fu alcuna tralasciata a dietro
Delle selvaggie ed infeconde piante,
O pur delle feconde; e già nascendo
Sin dal principio erano adorne e gravi
Di sue frondi ciascuna e de' suoi frutti.
E non, come oggi aviene, oggi a vicenda;
Mentre sue volte ogni stagione alterna,
Son generate, e non già tutte insieme.
    Prima il fecondo seme è sparso in terra,

O pur la stirpe in suol profondo affissa,
E poi nascer veggiam le piante e l'erbe,
Ed avanzar crescendo; e d'una parte
Le radici mandar sotterra a dentro
Di fondamenti in guisa, e d'altro lato
Verso il cielo inalzare il tronco e i rami,
E poscia germogliar le fronde e i fiori.
Ultimo nasce il frutto, e 'nchino ei pende,
Ma non maturo nè perfetto ancora
A poco a poco ei si trasmuta, e cangia
Molti varj sembianti e molte forme.
Prima minuto è sì che gli occhi inganna,
E quasi dalla vista egli s'invola,
E rassomiglia gli atomi volanti
Che ci appaion del sole a' chiari raggi;
Da poi nutrito de l'umor terrestre
Ed irrigato da rugiade ed aure,
Si nutre e cresce e si colora e tinge,
Come opra ei fusse di pittore illustre.
    Ma quando Dio creò di nuovo il mondo,

Tutte le selve di frondose piante
Perfette egli produsse, e i dolci frutti
Tra' rami si vedean, non mica acerbi
Quasi a pena cominci, anzi maturi
Faceano invito a' non ancor prodotti
Animali, e devean la fame e 'l gusto
Lusingar tosto a le dolcezze ignote.
Gravida ancora a quel sovrano impero
La terra partorì la stirpe e l'erbe
E dolci frutti, in cui virtù nativa
Era nascosta di fecondo germe
E di seme immortal, che quasi eterno
Devea poi rinuovar le cose estinte.
E gli animali poi creati insieme
Vestiti fur delle sue pelli irsute,
O di candida, molle e pura lana,
E di sue corna e di pungenti artigli
Ciascun apparve immantinente armato
Ne l'età sua perfetta e già matura.
Nè della prima infanzia allor conobbe
Alcuno il tempo, e in non cresciute membra.
    Anzi questa gran mole ancor novella,

Questo grande, dico io, mirabil mondo
Non conobbe l'infanzia, e tutto insieme
Perfetto apparve, e nell'aspettto adorno.
Ma non fur opre tue gli orridi mostri?
Opre tue non fur già, maestro e padre
Della natura, ma sol vizio e colpa
Della materia a dismisura ingiusta,
Ch'or ha difetto, or nel soverchio abonda.
E s'adivien giamai che 'l maschio seme
Debole e raro sia del veglio stanco,
O sparso dal fanciul, nè vincer possa
Con quella sua virtù ch'informa e move
Ne' chiostri occulti del femineo ventre
L'indigesta materia umida e informe,
Femina nasce; e ch'ella nasca è d'uopo,
E se non caro, è necessario il parto.
Ma d'uopo già non è che sia prodotto
Orrido mostro al mondo; e non ci nasce
Per grazïoso fin, ma grazia o fine
Non ha nascendo, e la materia invitta
E ribellante a la miglior natura,
Ch'al meglio è sempre in operando intenta,
È impossente cagion del nato mostro.
Ma la materia vinta, e non ribella
Nè 'n contender ritrosa, accoglie in grembo
Le forme obedïente, e quinci nasce
Maschio il figliolo, e di bellezze adorno
E di fattezze al genitor sembiante.
E chiunque traligna, al proprio padre
Ed a la stirpe de' maggior antica
Dissimil fatto, è quasi al mondo un mostro.
E spesso avien ch'egli traligni in guisa
Degenerando da progenie illustre,
Che dall'umanità quasi è diverso.
Ned uomo è più, ma d'odioso aspetto
Del male sparso e mal concetto seme
Un mal nato animal ci nasce e vive
Ch'è detto mostro. E la natura istessa
Lo schiva ed odia, e disdegnando abborre.
E già, come divolga antica istoria,
Con testa di monton nacque un fanciullo,
E con testa di bue poi l'altro apparse.
Ed un vitello ancora ebbe nascendo
Il capo di fanciul, l'ebbe di toro
Un'umil pecorella e mansueta.
Ma chi non sa la mostruosa forma
Della chimera, in cui la capra aggiunta
Era al leone e 'l leon giunto al drago?
E chi non sa sì come accoppia e mesce
L'istessa fama a la giumenta il grifo
Là fra le nevi d'iperborei monti
O de' Rifei, dove ei difende e guarda
L'or sì bramato da' mortali erranti?
E forme sono ancora illustri e conte
Quelle che figurò l'antico Egitto,
O l'Africa arenosa. E questa affisse
A l'uom di bue la spaventosa fronte,
E col vel ricoprì l'altere corna,
Giove Amon nominando il falso nume,
Ed adorollo in suo famoso tempio,
Ch'un tempestoso mar d'arene intorno
Cinger solea ne' solitari campi.
Quel con faccia di cane altrui dipinse
O pur impresse il suo latrante Anubi,
Oltre mille altri idoli suoi bugiardi.
E la Giudea dall'africano inganno
Non fè diverso il simulacro o 'l mostro,
Quando a Moloc i sacrifici offerse.
Ed a questo fallace e vano errore
Origin prima diè natura, errando
Oltre il suo fin nel mostruoso parto.
Suol partorir ancor di molte membra
Confusi i mostri, e sul medesmo busto
Molte giungere insieme orride teste,
O molti piè supporre al corpo istesso.
E quinci preso ardir la Fama audace
Briareo fece ed Egeòn gigante,
E gli armò cento mani e cento braccia.
E di corone ancora ornò la fronte
Di Gerione, e nell'antica Spagna
Collocollo in sublime ed alta sede.
Ma in questa guisa forse ella dipinse
L'anima umana imperïosa altera
In cui son tre potenze insieme aggiunte.
    Or lasciando da parte occulti sensi

E di favole antiche ombre e misteri,
Onde sua luce al vero ancor s'adombra,
Simigliante cagion produce i mostri,
E d'offeso animal confonde e guasta
Dentro al materno sen tenere membra,
O sia difetto di confuso seme
O di materia pur maligna colpa
E vizio innato; e ciò più spesso incontra
In quei che fan sì numeroso il parto.
Tal è del gallo la pennata madre,
E tale ancor la semplice colomba,
I cui figli talor confuse e miste
Ebber le membra. E con due teste ancora
Fu già veduto un orrido serpente.
Ed al buon servo di Gesù diletto
In quel sogno divin con sette apparse
L'estrania belva, a cui lasciva donna
Premendo assisa alteramente il tergo,
Attrasse i regi a gli impudici amori.
Con sette è finto l'animal di Lerna,
Orrida peste, e rinascenti al ferro
Fur creduti que' capi e 'ndarno tronchi.
Tralascio alfin de l'animal rinchiuso
Nel laberinto la dubbiosa forma,
E tralascio di Sfingi e di Centauri,
Di Polifemo e di Ciclopi appresso,
Di Satiri, di Fauni e di Silvani,
Di Pani e d'Egipani e d'altri erranti,
Ch'empier le solitarie inculte selve,
L'antiche maraviglie; e quello accolto
Esercito di Bacco in Orïente,
Ond'egli vinse e trionfò de gl'Indi,
Tornando glorioso a' greci lidi,
Sì com'è favoloso antico grido.
E lascio gli Arimaspi, e quei ch'al sole
Si fan col piè giacendo e schermo ed ombra;
E i Pigmei favolosi in lunga guerra
Con le gru rimarransi, e quanto unquanco
Dipinse in carte l'Africa bugiarda.
Perchè vero non è che mai prodotti
Fosser sì mostruosi e varj aspetti
Dalla natura; e s'è pur vero in parte,
Dio non produsse allor creando i mostri.
Però che mostro è quello in cui s'incolpa
Difetto di materia o pur soverchio,
Onde al suo genitor dissimil nasce;
Ma rade volte, e 'n odiosa vista
È di natura vergognoso scorno.
O pur è segno onde il gran Re superno
Sgomenta gli egri e miseri mortali,
E minaccia lor pena, morte e scempio.
Non fece allor creando il Fabro eterno
I muli o pur le mule, e quelli e queste
Illegittima prole e dubbio parto
Fur poscia d'animai ch'aggiunse insieme
Desio sfrenato di natura, e nacque
D'asino il forte mulo e di giumenta,
E di pronto destrier veloce al corso
La mula, ma di pigra e tarda madre.
E somigliando il generoso padre,
Corse talvolta nell'Olimpo a prova
E riportò correndo il caro pregio.
Ed or si gloria di portar sul dosso
Sacri purpurei padri in Vaticano
In dì festo ed altero, e nobil pompa,
E incontra muove a' messaggieri eletti
Degli altri regi e de' famosi augusti.
Nacque talvolta del destrier corrente
Il mulo ancora, e l'asina si vanta
Pur anco di veloce e nobil madre.
Ma l'uno sparge non fecondo il seme,
L'altra l'accoglie in non fecondo ventre.
Però nascer non suol del mulo il mulo,
Come dall'un veggiam nascer sovente
L'altro cavallo, e nel guerriero armento
Succeder generoso al padre il figlio,
E la cagion di ciò varia s'adduce.
A' corrotti meati il cieco veglio
La reca, quel, dico io, per fama illustre,
Ch'al vaneggiar de' miseri mortali
Rider soleva, e le sciagure e i danni
Del suo dotto ei degnò continuo riso.
Ma quel che si lanciò nel foco ardente
D'Etna sublime, e la sua vita (ahi folle!)
Volse finir nella fumante fiamma,
Giudicò poi che mal s'apprenda insieme
Il liquido col liquido commisto,
E si mescoli meglio il molle e 'l denso:
Come adiviene a chi disface e fonde
I metalli diversi, e lor confonde,
Che lo stagno e l'argento in un condensa.
Altri di più sublime e chiaro ingegno,
Che fu maestro di color che sanno
Quanto in mille sue scole insegna il mondo,
Della sterilità più tosto assegna
La più vera cagione al freddo seme.
Perch'è freddo animale e pigro e tardo
L'asino, e intolerante al freddo verno:
Però di Scizia nel gelato clima
Ei non ci nasce fra le nevi e 'l gelo,
Benchè tra' Franchi ei nasca e fra' Britanni.
E de l'asino nato è freddo il mulo,
Però sembiante al padre il freddo seme
Il figlio non produce in freddo grembo.
Ma se addita talor per raro mostro,
Meravigliando, della mula il parto;
E 'l mulo ancor, quando sette anni ei compie,
Si mesce alla giumenta, ed ella espone
Nuovo portato del mirabil figlio.
Ma dove ardente sol la Siria accende
Sovra Fenicia, già ne' tempi antichi
Solean le mule partorir sovente
E de' muli nascean sembianti i muli,
Talchè passò ne gli ultimi nepoti
La memoria degli avi, e lungo tempo
La bastarda progenie in pregio fue.
Or mancata è la stirpe, e spento il nome
Tra nuovi Siriani e tra Fenici,
Nè vantar se ne può Sidone o Tiro.
Nascer soleva ancor ne' primi tempi
Di cavallo e di cervo il figlio misto,
Che prendeva l'onor di lunga chioma
E le vaghe ramose altere corna
D'entrambo suoi parenti insieme aggiunti:
Illegittimo sì, ma bello e grande
Mirabil figlio, e leve e presto al corso.
E poi crescendo gli pendeva al mento,
Pur come barba fosse, il lungo vello.
Fra gli Ajaceti già l'antiche selve
Libera già pascendo errante fera,
Dove pascer soleano i buoi selvaggi,
Con muso adunco e con ritorte corna,
Con nero pelo e con robuste membra.
Or non so chi più 'l veggia o dove appaia,
Benchè ne' climi algenti orridi boschi
Sogliano anco nutrire i buoi silvestri,
E sian fra noi famosi e gli uri e l'alce.
Ma del cavallo e del corrente cervo
Par che non sia più noto il misto figlio;
Nè 'l feroce destrier si giunge al pardo
In guisa tal che ne veggiamo il figlio,
Sì come il rimirò l'età vetusta,
Tanto l'onor della bastarda prole
Manca, volgendo gli anni, e 'l nome e 'l grido.
E questo avien perchè fatture ed opre
Non fur di quel celeste eterno Fabro,
Il qual perpetue fa le varie stirpi
Degli animali, e lor rinnova e serba.
Mancate son ancor l'estranie e miste
Forme confuse d'animai feroci,
Che presso a' fiumi accoppia Africa adusta,
D'orribil nuovità fiera e superba.
O van mancando, chè serbarsi in vita
Lungamente non può di vario seme
La progenie illegittima ed incerta.
Sol legittima stirpe è quasi eterna,
Sì come piacque al suo fattor creando.
    Ma già vicino all'alta e nobil meta,

A cui lasso cursor m'affretto e corro,
Del bonaso m'avveggio e dell'iena
Lasciata adietro, e de l'orribil fera
Che l'ossa umane trae d'oscura tomba,
E la voce de l'uomo assembra e finge.
Veggio il rinoceronte adunco il naso,
E veggio te, che d'un bel corno altero,
Purghi del tosco le turbate fonti.
Veggio che fra le nevi e l'alto ghiaccio
Il rangifero, occulto al nostro mondo,
Porta correndo le veloci rote.
Veggio mille altri, e nell'algente zona
E 'n quella che più ferve e più s'infiamma,
Qui non visti animai, ma chiari e conti
Per lungo grido di perpetua fama.
Ma però non ritardo il lento corso,
Già stanco e grave, e là m'appresso e giungo
Dove tra le fiorite ombrose piante,
E tra mille vaghezze e mille odori,
L'uom creato da Dio m'aspetta e chiama.
    Quale esperto figliuol che 'n festa e 'n pompa

Spazïò per città calcata e piena
Della minuta errante e bassa plebe,
Se vede alfine in più sublime parte
Del caro padre il venerato aspetto
Là dove adorno di lontan risplende
Un re possente di corone e d'ostro,
Sdegna la varia turba e l'umil volgo,
E là ricovra ove l'affida e 'nvita
Presso l'altera maiestate augusta
Del genitore antico il lieto cenno
O pur l'imperïosa e nota voce;
Tal per questo creato adorno mondo,
Ch'è città di mortali e d'immortali
Grande e sublime, in cui perpetue leggi
Son prefisse ab eterno al viver nostro,
Pur dianzi io m'avolgea bramoso e vago
Di tante maraviglie a parte a parte,
Tutte cercando e rimirando intorno,
Onde fermai talvolta i tardi passi
Fra gli animai, che son l'ignobil volgo.
Or che mi s'offre in venerabil fronte
Nel paradiso il genitor vetusto,
Non diviso anco dal suo Re sublime,
Obliando tutto altro, a lui mi volgo,
Ed odo voce che nel cor rimbomba,
Non già da statua del bugiardo Apollo,
O da ruvida quercia o da spelunca,
Nè d'idolo scolpito in legno o 'n marmi,
Ma sin dal cielo e ben celeste assembra:
Uom, conosci te stesso! Oh santa scorta
Che per questo sentiero a Dio conduci,
Perchè la nostra mente a Dio s'inalza
Sovra se stessa, e lui conosce e intende,
Nè contemplando i bei stellanti chiostri
E 'l gran giro del sol che tutto illustra,
Così possiam nell'invisibil luce
Conoscere il gran Dio che fece il mondo,
Come dal contemplar la nostra mente
A conoscer la sua leviamo in alto
L'ali del pronto e fervido pensiero,
Che non si ferma ne gli umani obietti.
Ma qual luce degli occhi, ove si giri,
Ove si fermi, ivi rimira e scorge
Prati, selve, campagne e mari e fiumi,
Aspri monti, erti poggi ed ime valli,
Pur non vede se stessa, e 'n chiaro speglio
Sol di sè può veder la vera immago:
Tal mente umana, che tutto altro intende,
Quanto di fuor di lei dipinge ed orna
La mano e l'arte del gran mastro eterno,
Non intende se stessa, e non conosce
Quel ch'ella sia, se non s'illustra al sole
Di verità, quasi cristallo ardente;
Ed illustrata non rimira e guarda
Come in ispeglio pur la propria forma,
E quel Signor che della propria immago
La fece adorna, e di beltà sembiante.
S'ella è dunque di macchie orride aspersa,
Tergasi, e puro in sè raccoglia il raggio
Della divinità, che in lei fiammeggia.
    Poich'ebbe fatti gli animai terrestri,

L'opre sue buone Dio conobbe e disse:
Facciam noi l'uom, come è la nostra immago
Simil'a noi. Fece la terra e 'l cielo
Pur dianzi, e 'l sole e gli stellanti chiostri,
Nè chiese aiuto o dimandò consiglio;
Ed or creando l'uomo Ei si consiglia.
Tanta opra fu! Giudeo protervo ed empio,
Odi la voce del Signor che parla.
Ed a chi parla? A se medesmo e seco.
Tu, che di verità sol vedi il lume,
Sì come per fenestra acceso raggio,
Ritroso e ribellante ancor ripugni?
Nè tre varie persone in Dio conosci,
Quasi sotto un bel velo a noi dimostre?
Qual sollecito mai notturno fabro,
O qual maestro di men nobile arte,
Solo sedendo fra' suoi proprj ordigni
Là dove niuno altro insieme adopra,
Dice a se stesso, e se medesmo affretta
Con importuno e frettoloso impero:
Facciam la spada, o pur l'adunca falce
Facciamo immantinente, o 'l curvo aratro?
Ciance son queste, anzi calunnie espresse
Di falsa lingua a le menzogne avezza.
E s'infinge il giudeo, mentre figura
A se medesmo pur mentite larve.
E come orride belve all'uomo infeste,
In angusta prigion ristrette e chiuse,
Non potendo adempir l'ardente rabbia
Fremono in quel serraglio, e 'n fero suono
Dimostran l'amaror de l'ira accolto,
E la natia lor feritate interna;
Così gli Ebrei sospinti a passi angusti
Osano d'affermar che 'l Padre eterno
Con gli angeli ragioni in questa guisa,
Con gli angeli che stanno a lui d'intorno,
E gli angeli ministri all'opre inviti.
Quasi egli chiami del consiglio a parte
I servi suoi, che sono all'uom conservi,
E gli faccia signori in sì grande opra
In cui l'uomo è creato a Dio sembiante.
Qual magistero al suo maestro eguale
Esser potrebbe? Oh sorda e cieca mente,
Oh sciocchezza, oh follia d'alma profana!
Molti servi raccorre e farli degni
Di tanto officio, e rifiutare il figlio?
Pensa a quel che poi segue: A nostra immago
L'uomo facciam. Forse una immagin sola
Ha con gli angeli Dio, come una forma
Istessa è necessaria al Padre, al Figlio?
Ma nell'uomo ed in Dio l'alta sembianza
Non è figura o qualità del corpo,
Ma solo è proprio a la divina mente
L'immago, onde l'umana ancor s'informa,
E 'n tre potenze interne Iddio figura.
Perchè, sì come Dio se stesso intende,
E se stesso intendendo ama se stesso,
E quinci nasce l'intelletto eterno,
E d'ambo quindi e quinci eterno Amore
Spira, e tre lumi sono e non tre dei,
Ma tre persone in un sol Dio congiunte;
Così la nostra mente in noi produce
La volontate e la memoria appresso
Di questa e quella si figura e forma.
In guisa tal che la natura umana,
Bench'una sia da tre virtù distinta,
In sè dimostra la divina immago
Ed in se stessa Dio conosce ed ama.
Fece ancor somigliante il Padre eterno
L'anima e la ragion, ch'è l'uomo esterno,
A se medesmo, ch'è divino amore,
E de l'esterno Adam vestito intorno,
Il tenne occulto e ricoperto a' sensi.
E però ch'egli è buono e saggio e giusto,
Pietoso e forte in tolerar gli oltraggi,
Lunga stagion ne soffre, e non s'affretta
A vendicarsi, e poi si placa e molce.
Tale ei creò l'uom primo, e 'l feo sembiante
Nel puro amor, ch'è la virtù primiera,
E d'ogni altra virtù divina e sacra
Impresse in lui mirabilmente i segni.
Come il pittore a la sua bella immago
Col suo leggiadro stil colori e lumi
Varj e diversi ognora aggiunge e sparge,
Ed ombreggiando anco la va d'intorno,
Sin ch'è perfetta la figura e l'arte;
Così il pittor di nostra umana mente
Colorò l'alma, e de' suoi raggi illustre
Tutta la fece, e del color distinto
Sempre accrescendo a lei splendori e lumi.
E come lo scultore al bianco marmo
Col duro ferro e toglie sempre e scema
Quel ch'è soverchio, e dall'incisa pietra
Spira alfin quasi viva e vera forma,
Così togliendo a la materia il Fabro
Della natura, glorïoso, eterno,
Quel ch'avea di più duro e di terrestre,
L'uman sembiante in viva terra apparve:
Talchè divenne l'uom sembiante immago
Della divinità che in Dio risplende.
Ma que' colori e la mirabil luce
D'altri falsi colori asperge e macchia
La progenie ch'ognor traligna e perde
Le sue prime sembianze, e tutto adombra,
Talchè Dio non somiglia, e quasi assembra
Pittura tinta col pennel d'Averno
Ed affumata in Flegetonte o in Lete,
La nostra umanità macchiata e lorda.
    Dunque in se stesso l'uomo omai conosca

Contaminate le divine forme,
E, mentre può, si ripolisca e terga,
E sempre all'alma aggiunga e toglia al corpo,
Perchè simil si veggia al primo esempio;
E l'uom figliolo al Re del ciel si mostri
E degno erede del celeste regno.
    Poi benedisse Dio la cara immago

Di sè, da sè creata, e disse appresso:
Crescete in numerosa e bella prole,
Riempite la terra, e lei soggetta
Fate all'arbitrio vostro, al vostro impero.
Signoreggiate in mar gli umidi pesci,
E ne i campi de l'aria i vaghi augelli,
E qualunque animal si move in terra
Soggetto sia non meno al vostro regno.
In questa guisa tu creato a pena,
Uom, creato re fosti, e l'alto impero
E la sublime potestate impressa
Non ti fu data in secco o 'n fragil legno,
O nelle pieghe pur di breve carta,
Perchè la roda alfin putrido verme,
Ma la natura scritta in sè riserba
L'alta voce divina, e 'l chiaro suono
Comandi, e 'l naturale e giusto impero
In terra estenda e dentro il mar sonante,
E nel sublime ancor de l'aria vaga.
Imperioso tu nascesti in prima.
Or perchè dunque servi a proprj affetti
E la tua dignità disprezzi e perdi,
Ligio omai fatto del peccato e servo?
Perchè te stesso prigionier cattivo
Fai di Satanno, in sue catene avolto,
Se già nascendo sei principe detto
Delle cose create e re terrestre?
Perchè, quasi gittando, a terra spargi
Quel che nostra natura ha in sè più degno
Di riverenza e di sublime onore?
Qual all'imperio tuo prescritto in terra
È fine, o pur nell'aria o 'n mar profondo?
Se ben te stesso e lui misuri e scorgi,
Non hai tu penne da volar nel cielo?
Ma l'ardita ragion nulla ritiene.
Questa con l'ali sue trapassa a volo
Non pur dell'aria i più ventosi campi,
Ma del ciel gli stellanti ed aurei chiostri.
E via men cupo e men profondo il mare
È del suo peregrino e vago ingegno,
Che va spiando dentro a' salsi regni
I secreti de l'onde, e i seni, e i fondi,
E le sue occulte maraviglie, e quindi
Vittorïoso alfin ritorna in alto,
Di saper ricco e d'immortal tesoro.
Così per arte de l'umano ingegno
Prende tutte le cose e fa soggette.
E disse Dio di nuovo: Ecco a voi diedi
Ogni erba che da seme in terra sparso
Germogli, ed ogni pianta, in cui semenza
È di sua stirpe. E quinci 'l cibo e l'esca
Avrete, e 'l vitto insieme ancor n'avranno
I volanti del ciel sublimi augelli,
E i più gravi animai che in su la terra
Move e trasporta l'anima vivente.
E 'n questa guisa nell'antico stato
De l'innocenza, anco innocente il cibo
Non macchiato di sangue e d'empia morte
Contaminato, o da rapina ingiusta,
Fu conceduto all'uomo, e dato insieme
A l'animal, che senza sdegno ed ira
Era soggetto al mansueto impero.
Non uccideva ancor d'erba nocente
Maligno tosco o pur d'orribil angue,
Ma tutto quel che producea nel grembo
La madre terra era salubre e caro.
Nè tinto ancor si avea l'artiglio e i denti
L'affamato leone o 'l lupo o l'orso;
Nè l'avoltoio allor da corpo estinto
Cercava il cibo, perchè morto ancora
Non era alcuno, e delle morte membra
Non era ancor molesto e grave il lezzo.
Ma pascolar ne' verdi erbosi prati,
In guisa di canori e bianchi cigni,
E sì come veggiam talvolta i cani,
Cui la natura è mastra, andar pascendo
E ritrovar la medicina occulta,
Così pascevan quei l'erbe novelle
Ch'or son voraci di sanguigno pasto.
Non si faceva ancora ingiuria in caccia,
Non eran tese ancor l'insidie ascoste
A la selvaggia e solitaria vita.
E i feroci animali all'uomo amici,
Tutti con lieto e con benigno aspetto,
Placidi, umili, ivano errando intorno
Obedienti a quel sì giusto impero.
Perchè non solo re d'orride belve,
E di serpenti o pur d'augei sublimi,
E di volanti in mare umidi pesci
Era l'uom primo; ma signore e donno
Ne' proprj affetti avea lo scettro e 'l regno,
E suoi proprj pensier teneva a freno
Saldo e costante, imperioso e grave.
Ma poichè ribellante al santo impero
Del Creator sprezzò l'alto divieto,
A lui mostrarsi ancor ribelle in guerra
L'orride belve; e le caduche membra,
Che strugger poi devea l'orrida morte,
Altro cibo nutria di sangue asperso,
Cibo mortale, a' miseri mortali
Dato per esca in men felice stato,
Da poi che l'acque nel diluvio accolte
Ondeggiando coprir le piagge e i monti.
    Ma perchè l'uom, divina e sacra immago,

L'alta origine prisca anco riserba,
Non perde il natural suo primo impero
Sovra le fiere, e può con giusta legge,
Anzi con giusta e conceduta guerra,
Farne preda e rapina e cibo e veste
A le sue faticose e dure membra.
Nè questa legge è ingiuriosa ed empia,
Ma di natura, anzi del Re superno,
Che fece serve all'uom l'orride belve,
E le greggia e gli armenti e i vaghi augelli
E gli abitanti ancor del mare ondoso.
Così fu fatto. E Dio conobbe e vide
L'opere sue perfette. E 'l sesto giorno
Ebbe qui fine, ed egli in sè riposo.

SECONDA GIORNATA
PRIMA GIORNATA
TERZA GIORNATA
QUARTA GIORNATA
QUINTA GIORNATA
SESTA GIORNATA
SETTIMA GIORNATA