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ALESSANDRO TASSONI



OCEANO
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
IL POEMA EROICOMICO
NELL’ITALIA BAROCCA
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ALESSANDRO TASSONI  - OCEANO
Il genere dell’epica nel Seicento si collega in gran parte al Cinquecento di Tasso in cui da un lato troviamo la riscoperta della Poetica aristotelica e dall’altro, con la Gerusalemme liberata (1575), abbiamo una coerente e piena espressione dei valori culturali, morali e ideologici dell’età del Manierismo e della Controriforma uniti al rigore strutturale e finalistico propugnato nei libri della Poetica. Il Seicento presenta una ricca produzione di poemi eroici; molti scrittori si rifanno alla mitologia o a fatti legati al conflitto tra Chiesa e Medioriente (come la battaglia e la presa di Lepanto, 1603), ma si accontentano di imitare, senza produrre nulla di originale e la qualità resta modesta. Autori come Chiabrera (La Gotiade, 1582), Bracciolini (La croce riconquistata, 1605-1611) e Lalli (La Gerusalemme desolata, 1630) si cimentano nella stesura di opere eroiche ma nessuno dei poeti epici del Seicento diede vita a qualcosa di valore lasciando il modello tassiano in evidente declino. L’epica, senza aver prodotto in Italia un grande poema seicentesco, cede il posto alla poesia eroicomica, vera rivoluzione originale nel campo delle opere di ampio respiro. Il rifiuto di un classicismo cieco rende una della caratteristiche principali del secolo il rovesciamento radicale dei criteri costitutivi.  Da un punto di vista dell’evoluzione letteraria venivano ormai sentiti come antiquati coloro che si sforzavano di rispettare le regole che Tasso aveva fissato nei Discorsi del poema eroico (1587) e messo in atto nella Gerusalemme liberata. Valori come l’imitazione del vero, o della superiorità dell’argomento storico rispetto a quello di fantasia, non sono più sentiti come valori fondamentali. Il poema eroicomico assumeva lo stesso metro del poema eroico, l’ottava, e ne riprendeva i temi, stravolgendoli però nel ridicolo ed eliminando dunque il principio tassiano di un poema epico di argomento “virtuoso e pietoso” in linea col “miscere utile dulci” di Orazio. Da questo contesto nasce la parodia del genere epico, di cui Tassoni fu iniziatore insieme al contemporaneo Bracciolini (Lo scherno degli dei del 1618 che però, più che un poema eroicomico, è un poema gioioso in cui si fa un’allegra parodia di miti conosciuti e poco ricercati). Fra gli altri poemi eroicomici, non mancò neppure la parodia dell’Eneide di Giovan Battista Lalli (L’Eneide travestita, del 1634).
Tassoni nelle biografie è descritto come un uomo dal  carattere stravagante, amante del paradosso e ricco di contraddizioni, polemico, dall’ingegno vivace ed estroso; ne è una prova l’abbondante produzione saggistica. Per fare qualche esempio, del 1602 è la stesura delle Considerazioni sopra le «Rime» del Petrarca (pubblicate nel 1609), la prima espressione della rivolta secentesca contro la riproduzione pedissequa del modello petrarchesco e il dogmatismo degli aristotelici. 
Al contrario di quanto si aspettava, la fama di Tassoni è affidata proprio alla Secchia rapita, poema in ottave di endecasillabi (ABABABCC) pubblicata a Parigi nel 1621, e ritoccata per soddisfare le richieste del­la Congregazione dell’Indice. L’edizione romana del 1624 infatti presenta due lezioni: una, in pochi esemplari, destinata al papa e una seconda destinata al grosso pubblico e corrispondente alle scelte originali dell’autore. L’edizione definitiva uscirà a Venezia nel 1630, ma il poema era già conosciuto al pubblico prima del 1618, anno in cui uscì l’opera di Bracciolini Lo scherno degli dei; tra i due, rispetto alla cronologia di pubblicazione, nacque una polemica riguardo la paternità del genere eroicomico, che però va senza dubbio attribuita a Tassoni se non altro per la qualità compositiva decisamente inferiore e la scarsa inventiva dell’ “avversario”.
Nella Secchia la volontà  dissacratoria appare già dal titolo; il riferimento al rapimento di Elena è evidente. L’Iliade, modello autorevole della produzione epica cinquecentesca, viene qui rovesciata e messa in parallelo con una guerricciola medievale. Il trattamento solenne di una materia “irrilevante” e il trattamento umile di vicende serie sono le costanti stilistiche del poema. La contaminazione tra alto e basso implica un rovesciamento delle regole che comporta la degradazione, attraverso la parodia, del modello stesso del poema eroico e la distruzione dell’ideale di ordine e di eroismo che a questo si collega.
A partire dall’incipit del primo canto “Vorrei cantar quel memorando sdegno/ ch’infiammò già ne’ fieri petti umani /un’infelice e vil Secchia di legno /che tolsero a i Petroni i Gemignani” Tassoni esprime il suo intento di rovesciamento del modello. Se lo confrontiamo con l’incipit della Gerusalemme Liberata “Canto l’arme pietose e ‘l capitano /che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo. /Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano, /molto soffrì nel glorioso acquisto” possiamo notare già alla prima lettura le macro diversità. I primi due versi sono per entrambi gli scrittori dedicati all’auto presentazione come poeti: “canto” e “vorrei cantar”. Tassoni utilizza il verbo al condizionale, verbo dell’insicurezza; non si presenta affatto come un poeta sicuro di sé, portavoce di una grande tradizione o consapevole dispensatore di alti valori. Quasi ci dice che vorrebbe trattare la materia tipica dell’epica, se potesse, ma in realtà la sua è una storia che parla di una secchia di legno e di una piccola guerra medievale, che di eroico ha ben poco. Sempre nei primi versi, infatti, abbiamo l’esposizione della materia: Tasso ci presenta un capitano (Goffredo di Buglione) al comando di una pia impresa come la liberazione del sepolcro di Cristo (prima crociata, 1096-1099). Tassoni anche ci presenta un soggetto che sembra degna di trattazione epica: lo sdegno memorando che addirittura infiammò fieri cuori, ma tutta la tensione epica dei primi due versi viene fatta precipitare nella rima “sdegno-legno” già al terzo verso perché la lotta che infiammò i cuori aveva per oggetto una secchia “infelice e vil” (tutto l’opposto di quel “gran sepolcro” di cui narra Tasso). Il parallelismo formale viene così ribaltato dal rovesciamento dei contenuti e crea il conseguente svuotamento del modello, la cui presenza è facilmente riconoscibile grazie a semplici espedienti di recupero (come il verbo “cantare” nella stessa posizione iniziale,o l’esposizione della materia nei primi due versi). La differenza, oltre che nella materia trattata e nella caduta (meccanismo che diventerà costante nel testo), risiede anche nella coralità del testo tassoniano rispetto a quello tassiano; in Tassoni non c’è un vero e proprio eroe principale e la vox populi è molto più presente. Nel suo incipit non c’è spazio per un unico protagonista in cui identificarsi o che si faccia portavoce di grandi valori.
La struttura, poi, è quella che si richiede per un poema epico perfetto: ottave di endecasillabi, come codificato da Tasso, ma la narrazione è affidata al meccanismo, vitale e cardine per l’opera, del rovesciamento delle situazioni. L’imprevedibilità diventa irrinunciabile e ogni situazione si risolve con la costante disillusione delle aspettative. Il meccanismo di creazione dell’elemento divertente per lo più si basa sull’accostamento di elementi incongrui; il comico, come dice l’autore nella prefazione, deve nascere dal vivo contrasto che deriva dal «mescolare il piccante e il ridicolo con il grave e il serio ». In questo Tassoni risulta nuovo, distaccandosi da altri poeti che avevano cantato «una materia tutta burlesca con versi gravi o una materia tutta grave con versi burleschi ». Lo scopo dichiarato dal poeta fu quello del divertimento e non un’elevazione morale o religiosa del lettore; il suo strumento è la sperimentazione di una nuova costruzione letteraria, e lui stesso si dice mossa da «..curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e burlesco; imaginando che, se ambidue dilettavano separati, avrebbono dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà  tanto i dotti quanto gli indotti [gli ignoranti] avessero potuto cavarne gusto» (introduzione alla Secchia). Tassoni aggiunge inoltre, con estrema varietà  di materiali e di stili, episodi cavallereschi, lirici, idilliaci e pa­rodie mitologiche (come la batracomiomachia dello Pseudo Omero, libro II lassa 43). Lo schema dell’azione proposta dal poema ripropone l’impalcatura del poema eroico, ma Tassoni opera su questa un innesto di elementi destinati a svuotare dall’interno il significato alto e assoluto del genere eroico, sintesi dei massimi valori civili e religiosi del secondo Cinquecento.
Pure l’argomento è storico, come codificato; viene però scelto secondo un criterio ben diverso da quello seguito da Tasso, che aveva rappresentato lo scontro tra la Cristianità e gli “Infedeli”. Come afferma l’autore nell’introduzione, firmandosi Accademico Umorista di Roma: «La secchia rapita, poema di nuova spezie inventata dal Tassone, contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su l’istoria della guerra che passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo dell’imperador Federico secondo […] Il poema della Secchia Rapita ha per tutto ricognizione di Istoria e di Verità. L’impresa è una e perfetta, cioè con principio, mezzo e fine». Se i singoli fatti (di portata limitata) sono dunque storicamente provati, e il fatto narrato, anche se corale, è uno soltanto (dunque rispetta il precetto aristotelico di unità), l’autore parla di un’impresa “mezza eroica” e si prende la libertà  di invertirne l’ordine: il furto della secchia, che nel poema dà  l’avvio alla guerra, avvenne in realtà  alcuni secoli dopo i fatti che nel poema concludono il conflitto.
L’azione si svolge nel secolo XIII al tempo dell’imperatore Federico II e del suo alleato Ezzelino III da Romano, ma i riferimenti alla contemporaneità sono numerosi come pure non mancano riferimenti polemici di carattere personale che contribuiscono a vivacizzare i personaggi. Il poeta trae ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1325, quando i Bolognesi, fatta irruzione nel territorio di Modena, furono respinti ed inseguiti fino alla loro città dai Modenesi, che, fermatisi presso un pozzo per dissetarsi, portarono via come trofeo di guerra una secchia di legno. Tassoni immagina che, al loro rifiuto di riconsegnare la secchia, i bolognesi dichiarino guerra ai modenesi. Alla fine il conflitto si conclude con l’intervento del legato pontificio a queste condizioni: i Bolognesi si tengano prigioniero re Enzo, i Modenesi si tengano la secchia.
Alla guerra partecipano, distribuiti tra le due parti, gli dei dell’Olimpo. A favore dei modenesi combattono personaggi storici come re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II, e personaggi immaginari, come la bella guerriera Renoppia, che comanda una schiera di donne, ed il conte di Culagna. Così come fonde insieme personaggi storici e personaggi immaginari, Tassoni rappresenta insieme, anacronisticamente, vicende fantastiche, fatti storici della lotta tra Modena e Bologna e avvenimenti di altre epoche (come la battaglia di Fossalta del 1249). La guerra per la secchia rapita si protrae a vicende alterne, fra battaglie, duelli, tregue e tornei, intercalati da episodi comici e burleschi, che hanno spesso come protagonista il conte di Culagna.
La bellezza del testo è da ricercarsi, tra le altre cose, proprio nella caratterizzazione di personaggi come il Conte. Nonostante Tassoni non approfondisca mai l’aspetto psicologico, soprattutto a causa dell’azione frenetica e costante che domina il testo, i personaggi restano comunque interessanti; soprattutto la figura del conte, che ben rispecchia il carattere polemico di Tassoni. L’autore infatti lo identifica con il conte Alessandro Brusantini; tra i due si era creata una lunga polemica letteraria e attraverso allusioni nemmeno troppo velate Tassoni fa trasparire il parallelismo, dipingendo il suo “avversario” come un “filosofo, poeta e bacchettone; / che fuor de’ perigli un Sacripante / ma ne’ perigli un pezzo di polmone/ Spesso ammazzato avea qualche gigante / e si scopriva poi ch’era un cappone / onde i fanciulli dietro di lontano / gli solean gridare – viva Martano!” (vv 97-100 lassa XII, canto III). Sacripante è un eroe dalla corporatura e dalla forza gigantesche ma Martano è il più vigliacco dei personaggi dell’Orlando Furioso.
Nel Conte di Culagna forse Tassoni volle  dare una sorta di  discendente a don Chisciotte, ma i due eroi non hanno nessuna parentela nonostante la vicinanza cronologica e l’inserimento in opere entrambe varie per stile e tono. L’eroe di Cervantes ha nobiltà d’animo ed è sorretto da una fede profonda, vagabonda per il mondo in cerca di un ideale; eroe a Lepanto sempre in lotta con l’avversa fortuna non si spoglia mai di una fiera dignità che lo rende nobile anche quando è coperto di stracci. Messo a dura prova dalle sofferenze, dopo aver visto svanire tutte le sue speranze e crollare le sue illusioni, rimane sereno, non impreca alla sorte; esce dalle bufere della vita con l’animo puro, e dal suo sorriso spunta un’ironia serena e malinconica che sa di bontà, di compassione e di perdono. Tassoni invece è uomo che nelle vesti di cortigiano e di ecclesiastico si lamenta sempre del suo stato ed è sempre inquieto. Don Chisciotte, ritto sul magro Ronzinante, attira la simpatia del lettore, è uomo di fede tutto immerso nel suo sogno contrastante con la realtà,  è un allucinato ma è un eroe. Il Conte di Culagna invece è un personaggio che non ispira nessun affetto, e Tassoni quasi si compiace di tratteggiare un personaggio indegno di qualunque sentimento dolce.
Possiamo vedere questa caratterizzazione antimitica dell’ “eroe” della Secchia come il riflesso e l’eco dell’intero poema. Si prenda ad esempio la scena presente nel decimo libro, lasse 50-57) in cui la moglie del conte, resasi conto che il marito la voleva avvelenare per fuggire con Renoppia, scambia i piatti e sostituisce il veleno con del potentissimo lassativo. Il conte mangia con ingordigia e scende in piazza per non vedere la moglie morta e per vantarsi davanti a tutti di imprese inesistenti. Ad un certo punto, però, il lassativo fa effetto, e dai suoi calzoni esce “..un’improvvisa cacarola” che fa allontanare tutti a causa del suo “..tristo vapor”, persino gli speziali. L’unico che gli resta accanto è un confessore “ch’avea perduto il naso in un incendio” e dei suoi servi accorre soltanto una vecchia “con un zoccolo in piede e una scarpetta”.
Ancora un volta le aspettative del lettore vengono disattese e una situazione che si prospettava tragica (l’uxoricidio) o quanto meno cavalleresca (la fuga d’amore) precipita nel comico più triviale. La caratteristica che sembra definire sia il poema che l’atteggiamento dell’autore sembra essere proprio la sua sistematica imprevedibilità . Il critico Bàrberi Squarotti (Le strutture della Secchia Rapita, Studi Tassioniani, atti e memorie per il IV centenario della nascita di A. Tassoni, Modena, 1965) concentra l’attenzione sull’effetto di svuotamento dei materiali tradizionali operato dall’interno della tradizione attraverso il loro accostamento in un miscuglio spesso esilarante, comunque sempre nuovo e dissacrante. Ibid. : “La novità  del Tassoni sta nel trattamento dei materiali, [... ] in quella mescolanza di stili [... ] di cui egli stesso si vanta: è la scoperta della rela­tività  di tutti i linguaggi: eroico, comico, lirico, burlesco, dotto, cavalleresco, per una “congiunzione”che è la scoperta di un punto di vista diverso da quello assoluto che tutte quelle forme poetiche e quelle strutture avevano fino ad allora, preteso». Ovvero: ognuno è libero di trattare qualunque argomento nel modo che più ritiene opportuno, secondo l’estro del momento, ignorando il codice delle “convenienze”. Di fatto, l’oscillazione tra parodia del poema eroico, satira delle misere condizioni dell’Italia e invettiva personale nasce dalla necessità di toccare tutti i tasti, senza mai giustificare il cambiamento di argomento e di tono. È l’ultimo dei rovesciamenti del genere epico; la tensione epico eroica è sostituita dal distacco, dalla continua caduta, dalla risata che diventa il vero fine ultimo dell’opera.





























Lettera a N.

AL SIGNOR N.


Signor mio, V. S. m’ha mandati due Canti del suo Poema, i quali non sono nè i primi, nè seguiti. L’uno contiene la descrizione d’una battaglia, e l’altro un accidente amoroso. Quanto al Poema, io non posso giudicare quello ch’ egli sia per essere; mentre non veggo nè principio, nè mezzo, nè fine. Ma poichè Ella ne mostra un braccio e una gamba, io discorrerò di quel braccio e di quella gamba per quello che sono, e forse dalle qualità loro si potrà anche venire in qualche cognizione della riuscita di tutto il corpo; come si narra, che già al tempo antico i savi di Egitto, veggendo una scarpa sola di Rodope, fecero giudicio della bellezza di tutto il corpo suo.

La prima cosa adunque, lo stile a me pare assai buono e corrente, e credo che l’uso continuo gliel farà anco migliore. Sonovi alcuni pochi luoghi espressi stentatamente, ma nella revisione V. S. avrà più facile e franca la vena da poterli mutare in meglio. Le comparazioni sono poche, e potrebbono esser alcune di loro più nobilmente spiegate; l’arditezza dei translati alle volte ha qualche difficoltà, e sonovi alcune [p. 228]voci e frasi poco toscane segnate in margine. Ma quello che più importa, V. S. secondo l’uso moderno ha premuto più nei concetti inutili, che nelle cose essenziali: e seguita (per quant’io posso giudicare) la via degli altri, che trattano questa benedetta materia del Mondo Nuovo, che non sono pochi. Perciocchè oltre il Cavaliere Stigliani (che n’ha di già dati fuora venti Canti (e’l Villifranchi) ch’avea ridotto a buon segno il suo Poema, quando morì) io so tre altri che trattano anch’essi eroicamente l’istesso soggetto, e tutti danno in questo, di voler imitare il Tasso nella Gerusalemme, e Virgilio nell’Eneide; e niuno ricorda dell’Odissea, la quale, s’io non m’inganno, dovrebbe esser quella che servisse di Faro a chi disegna di ridurre a Poema Epico la navigazione del Colombo all’India Occidentale.

Già per pubblica fama e per istorie notissime a tutto il mondo si sa, che i popoli dell’India occidentale non avevano all’arrivo del Colombo in quelle parti nè ferro, nè cognizione alcuna di lui, e che andavano tutti nudi, oltre l’essere di natura pusillanimi e vili; se non vogliamo eccettuare i Cannibali, i quali, benchè andassero ignudi anch’essi, avevano nondimeno più del fiero, e combattevano con archi e saette di canna, con punte avvelenate.

A che dunque voler formare un Eroe guerriero, dove non si potea far guerra? O facendosi, si faceva contra uomini disarmati, ignudi e paurosi? Non vede V. S. che questo è un confondere l’Iliade con la Batracomiomachia, e introdurre un Achille, che divenga glorioso col far macello di rane? V. S. mi risponderà, che i suoi Indiani gli finge armati e bravi; e questo è forse ancor peggio, perciocchè ognun sa certo, che non aveano armi, e che non erano tali: onde esce apertamente del verisimile: e l’intelletto [p. 229]non può gustare di cosa seria, che abbia fondamento di falsità sì evidente: perchè la fantasia dalle cose notissime non estrae fantasmi diversi da quel che sono (ragione che intese anche, ma non la disse Aristotile) oltre che parimenti sa ognuno, che ’l Colombo fu piuttosto gran prudente, che gran guerriero.

Essendo adunque tutti gli altri popoli di quelle parti ignudi e vili, a me non pare che si possa far combattere il Colombo, eccetto che co’ Cannibali, i quali, benchè andassero anch’essi nudi, erano nondimeno tanto fieri e gagliardi, che combattendo con archi grandi, e saette con punte di pietra avvelenate, si poteva dalla vittoria acquistar onore. Ma bisognerebbe avvertire di non introdurre, come gli altri, il Colombo con un esercito: perciocchè oltre l’esser chiaro ch’ei non condusse se non tre caravelle con poca gente; mentre si mette in campo con un battaglione di cinque o sei mila fanti o cavalli armati contra una moltitudine di gente ignuda, non gli si può fare acquistar fama eroica, sebbene i nemici fossero centomila; essendo cosa ordinaria, che i pochi armati e bravi vincano i molti disarmati e inesperti. E per questo l’Ariosto quando introdusse il suo Orlando contra moltitudine vile, l’introdusse sempre solo. Però anche il Colombo, se non si vuole introdur solo, si deve almeno introdurre con sì pochi compagni, che a que’ compagni ed a lui sia glorioso ed eroico il vincere.

Quanto agli amori, ognun sa parimente che le donne ritrovate dal Colombo erano brune, e andavano anch’esse ignude; però era vanità il fingere in loro bellezze diverse dal colore e dal costume di quelle parti. L’introdurre poi in India altra gente d’Europa diversa da quella del Colombo, che combatta con lui, è il maggior errore che si possa fare, venendosi [p. 230]contra l’Istoria a levare a lui la gloria della vera sua azione eroica, che fu d’essere stato il primo senza controversia a tentare e scoprire il Mondo Nuovo.

Però quanto all’imprese gloriose ed eroiche del Colombo, io mi restringerei, come fece Omero, quando egli cantò gli errori d’Ulisse, a fortune di mare, a contrasti e macchine di Demoni, a incontri di Mostri, a incanti di Maghi, a impeti di genti selvaggie, e a discordie e ribellioni de’ suoi, che furono in parte cose vere. E negli amori andrei molto cauto, per non uscire del cerchio, e fingerei piuttosto le Indiane innamorate de’ nostri, che i nostri di loro, come nell’Istorie si legge d’Anacaona. E quanto all’invenzione che hanno trovata alcuni di trasportare donne d’Europa in quelle parti sulle navi del Colombo, io l’ho per debole assai. E tanto maggiormente, sapendosi che ’l Colombo a fatica ritrovò uomini che ’l seguitassero in quel suo primo passaggio.

Ma perchè pensai anch’io una volta a questo soggetto, e ne feci così all’infretta un poco d’abbozzamento del primo Canto, che contiene quello che occorse al Colombo dallo stretto di Gibilterra fino alle Canarie, dette l’Isole Fortunate; vegga V. S. s’egli potesse servire a lei per quello ch’ella disegna di fare, che gliene mando qui congiunta una copia, e le bacio le mani.


Servitore di V. S.
Alessandro Tassoni.
CANTO PRIMO

I.

Cantiam, Musa, l’Eroe di gloria degno,
     Ch’ un nuovo Mondo al nostro Mondo aperse,
     E da barbaro culto e rito indegno
4   Vinto il ritrasse, e al vero Dio l’offerse:
     La discordia de’ suoi, l’iniquo sdegno
     Dell’inferno ei sostenne, e l’onde avverse;
     E con tre sole navi ebbe ardimento
8   Di porre il giogo a cento regni e cento.

II.

Dai termini d’Alcide avea già sciolte
     Le vele il domator dell’Oceano,
     E con le prore all’Occidente volte
12  Si lasciava alle spalle il lito ispano:
     Tutte d’intorno a lui parean sepolte
     Le tempeste nel mar placido e piano,
     E invitata da un ciel puro e sereno
16  Gli apriva Teti al gran disegno il seno.

III.

Un fresco venticel da terra usciva,
     Ch’ invigorendo il cor de’ naviganti
     Faceva di lontan fuggir la riva,
20  E da tergo sonar l’onde spumanti.
     Era nella stagion che l’Alba apriva
     Cinta di rose il cielo e d’amaranti,
     E affacciata al balcon dell’Orìente
24 Parea languir mirando il Sol nascente.





IV.

Salutavan le trombe il nuovo giorno,
     E i delfini a scherzar correan sull’onde;
     Sedeva in poppa il Capitano, e intorno
28 Cinte de’ suoi degni eran le sponde;
     Ei con parlar ferocemente adorno,
     E con voci magnanime e faconde,
     Diceva lor: Oggi, compagni, è il punto,
32 Che ’l nostro Sole all’Orìente è giunto.

V.

Oscura abbiamo e neghittosa vita
     Fin qui dormito; or s’incomincia l’ora,
     Che fuor dalla vulgar nebbia infinita
36 Usciamo al dì lucente; ecco l’Aurora.
     Questa via, ch’altri mai non ha più trita,
     Vi conduco a solcar del Mondo fuora,
     Acciò che fuor della comune schiera
40 Usciate meco a fama eterna e vera.

VI.

E s’alcuno di voi con maggior cura
     D’oro e di gemme a faticar s’invoglia,
     Io spero di trovar tal avventura
44 Che ne potrà saziare ogni sua voglia,
     Che la via che facciam, non sia sicura
     Il vedermi con voi dubbio vi toglia;
     Che pazzo è chi desia per cangiar sorte
48 D’espor se stesso a temeraria morte.




VII.

Così parlava; e già trascorsi tanto
     Erano i legni suoi nel mare immenso,
     Che del lito affrican da nessun canto
52 Non appariva più vestigio al senso;
     Quando rivolse al glorìoso vanto
     Gli occhi il superbo Re dell’aer denso,
     E antiveduto il suo periglio sorse
56 Dal nero seggio, e l’empie man si morse.

VIII.

E chiamando i Ministri, a’ quai commessa
     L’aria avea d’Occidente e ’l mar profondo,
     Grida lor furìando: E chi concessa
60 Al Colombo ha la via del nostro Mondo?
     Dunque d’un uomo vil l’audacia oppressa,
     E sommersa del mar nel cupo fondo
     Esser non può con tre legnetti frali?
64 O ignominia degli Angioli immortali!

IX.

Se tornate quaggiù, spiriti indegni,
     Senz’ averlo affogato entro a quell’onde,
     O distornato almen sì ch’ a quei regni
68 Non giunga mai che l’Oceano ascende,
     Io vi farò provar l’ire e gli sdegni
     Ch’ io serbo alle perdute anime immonde,
     E legherovvi di catene eterne
72 Tra ’l foco e ’l giel delle paludi inferne.




X.

Sì disse il Re dell’ombre, e ’l guardo fiero
     Volgendo a Buccifar terror de’ venti,
     Mostrò, ch’ a lui del suo crudele impero
76 Toccassero le basi e i fondamenti.
     Come nottole uscian per l’aer nero
     Gli spiriti mal-nati ai rai lucenti,
     E pareva che ’l Sole a quell’uscita,
80 Ritirasse la luce impallidita.

XI.

Liete se gían le tre famose navi
     Col vento in poppa in alto mar sicure;
     Quand’ ecco si turbar l’aure soavi,
84 E l’onde si turbar placide e pure
     All’apparir degli empi spirti e pravi;
     Parve ascondersi il ciel fra nubi oscure,
     E i venti che dormian sopra l’arene
88 Del mar, ruppero i ceppi e le catene.

XII.

Scatenato Libeccio Africa lassa,
     E verso Tramontana i vanni spaccia;
     Euro al fondo del mar corre e s’abbassa,
92 E le tempeste in ciel Volturno caccia.
     Vede il periglio il Capitano, e passa
     A confortare i suoi pallidi in faccia;
     Fa calare ogni vela in un momento,
96 Fuor che ’l trinchetto, e piglia in poppa il vento.




XIII.

Nè provveduto ancor del tutto ei s’era,
     Che riversò la maledetta gesta
     Dalla faccia del ciel torbida e nera
100Grandine e pioggie e fulmini e tempesta:
     Sparve il giorno col Sole, e innanzi sera
     Notte si fe’ caliginosa e mesta;
     Nè rimase altro lume ai naviganti,
104Che quel ch’uscia dai folgori tonanti.

XIV.

Crescono l’onde a tant’ altezza, ch’ elle
     Perdon la forma e la sembianza d’onde:
     Le navi ora salir verso le stelle,
108E sulle nubi alzar paion le sponde:
     Or traboccar fra l’anime rubelle
     Sembran nelle voragini profonde;
     E al romper dell’antenne e delle sarte
112Han già i nocchieri abbandonata l’arte.

XV.

Tutto quel dì, tutta la notte appresso
     Per le vie della morte errar dispersi.
     Sembra la pioggia al cader folto e spesso
116Che giù nel mare un altro mar si versi;
     Crescono i venti, a memorando eccesso
     Stretti a soffiar degli Angioli perversi;
     E già comincia il Capitan co’ suoi
120Forte a temer che l’Ocean l’ingoi.




XVI.

Ciò che saggio nocchier, ch’ antiveduto
     Potea fare o soldato, o capitano,
     Tutto fe’ il valoroso, e fu veduto
124Ne’ più vili bisogni oprar la mano;
     Ma quando indarno alfin vide ogni aiuto,
     Ogni fatica, ogni consiglio vano;
     Fermossi immoto, e pien d’ardente zelo
128Rivolse gli occhi e le parole al Cielo.

XVII.

E disse: Ecco, Signor, che vinto cede
     Alla possanza tua mio frale ingegno;
     Se non è tuo voler che la tua fede
132Portata sia da un peccatore indegno,
     Dove non pose mai, ch’ io creda, il piede
     Alcun della tua legge e del tuo regno;
     Perdona a questi almen che non han colpa
136E del soverchio ardir me solo incolpa.

XVIII.

Ma se questi del mar fieri contrasti
     Vengono a noi dalla Tartarea corte;
     Tu, che d’Egitto all’empio Re mostrasti
140L’alto valor della tua destra forte,
     E d’Israel il popolo salvasti,
     Oggi salva ancor noi con egual sorte;
     E vegga dell’Inferno il seme rio
144Che ’n cielo, in terra e ’n mar tu sol sei Dio.




XIX.

Salì questa preghiera al ciel volando,
     E fermò l’ali ai piè del Redentore.
     Mirolla, e ’l guardo in Urrìel girando,
148Che dell’Ispano regno è protettore;
     Va’ tu, gli disse; e quegli al gran comando
     Tosto s’armò di lampi e di terrore,
     E dove perigliar vede il Colombo
152Trasse la spada e già lanciossi a piombo.

XX.

I miseri guerrier prostrati al suolo
     Stavano orando in atto umile e pio;
     Quando si scosse l’uno a l’altro Polo,
156E tremò il mondo, e un fiero tuon n’uscio;
     Ed ecco di lontan videro a volo
     Folgorando venir l’Angel di Dio,
     E parve ai lampi e alle fiammelle sparte
160Che giù cadesse il Sole in quella parte.

XXI.

Qual digiuno falcon, che d’alto veda
     Di storni, o d’altri augei schiera che passa,
     Piomba dal cielo e la disperge e fiede
164Con l’artiglio e col rostro, e la fracassa;
     Cotal l’Angel di Dio dall’alta sede
     Sovra gli empi demoni i vanni abbassa;
     Gli percuote e gli caccia e gli disperge,
168E ’l nubiloso ciel colora e terge.




XXII.

Fra i nembi che fuggian da’ suoi sembianti
     Tralucevano i rai con lunghe spere;
     Fuggiano i venti e i turbini sonanti,
172E le procelle e l’ombre oscure e nere:
     Egli in atti sdegnosi e fulminanti
     Con la spada ferir l’inique schiere,
     E cacciarle del ciel visibilmente
176Veduto fu dalla smarrita gente.

XXIII.

Allor levossi il Capitan gridando:
     O fortunati, ecco un guerrier celeste,
     Che combatte per noi lassù col brando,
180E discaccia i demoni e le tempeste.
     Chi vuol segno più lieto e memorando?
     Ecco il ciel che s’allegra e si riveste
     D’azzurro, e ’l mar che placa il gonfio seno:
184Mirate là più avanti, ecco il terreno.

XXIV.

Così parlava, e di lontan vedea
     Molt’ Isole nel mar fra se distinte.
     Onde le prore a quel sentier volgea,
188Dove parean dal vento esser sospinte:
     Eran l’Isole queste ove credea
     L’antica età, che delle genti estinte
     Volassero a goder l’alme beate,
192E le chiamò felici e fortunate.




XXV.

Porto in una di lor sicuro stassi,
     Ch’entra nel lido e forma un ampio cinto;
     E fuor, là dove ad imboccarlo vassi,
196Stretto è di foce e d’alti scogli è cinto:
     Nella tempesta il mar da’ cavi sassi
     Spumeggiando ritorna indietro spinto;
     Ma non può l’ira mai del vento audace
200La cheta onda turbar, che dentro giace.

XXVI.

Quivi il Colombo entrò con le sue navi,
     E stanza vi trovò dolce ed amena,
     Praticelli, boschetti, aure soavi,
204Fonti, rivi, e d’amor la terra piena;
     Fiorite l’erbe e gli arboscelli gravi
     Di frutti, e intorno una continua scena;
     E tra le frondi augelli e per le valli,
208Persi, verdi, vermigli, azzurri e gialli.

XXVII.

Ma non s’offerse cosa a riguardanti
     Più gradita da lor, nè più gioconda,
     Ch’ un vezzoso drappel di Ninfe erranti,
212Che gían danzando infra le piagge e l’onda:
     Come alzaron la vista ai naviganti,
     S’imboscar tutte alla più chiusa fronda;
     Solo ritenne il piede una di loro,
216E dall’arco avventò due strali d’oro.




XXVIII.

Parve Cintia costei, che a vendicarse
     Del temerario ardir fosse restata:
     Folgoraron le chiome all’aura sparse,
220E la faretra d’oro, ond’era armata,
     E ’n succinto vestir leggiadra apparse
     Bianca la gonna, e ’l vago piè calzata
     D’aurei coturni, e nella faccia bella
224Qual tremolante e mattutina stella.

XXIX.

E volgendo alle navi i lumi irati,
     E chi, gridò, cotanto ardir vi diede?
     Uomini vili alle miserie nati,
228Tenete fuor di questa riva il piede.
     Qui solo hanno gli Eroi fai beati,
     E le Ninfe immortali albergo e sede;
     E ’n questo dir scoccando il terzo strale,
232Ratta si rinselvò com’ avesse ale.

XXX.

Poi che sparita fu la bella arciera,
     Stette sospeso il Capitano un poco,
     Se doveva smontar sulla riviera,
236O procacciarsi porto in altro loco.
     Stimando alfin che della donna altiera
     Fossero i gesti e le parole un gioco,
     Per ristaurar le navi in terra scese
240Co’ suoi compagni, e un padiglion vi tese.




XXXI.

Quivi rifece antenne, arbori e sarte,
     E rivide le poppe e le carene;
     Ma de’ compagni suoi la maggior parte
244Cercando andar per quelle piagge amene,
     E trovar le vallette in ogni parte
     Di cannemele e zuccari ripiene,
     E di starne e fagiani e daini e lepri,
248Che scherzavan fra i mirti e fra i ginepri.

XXXII.

Era ancor Primavera, e dalle viti
     Pendean l’uve mature; i rami tutti
     Parevano inchinarsi a fare inviti
252Ch’altri cogliesse i lor maturi frutti:
     Ma fra i gusti più cari e più graditi
     (Che divennero poscia amari lutti)
     Era il veder fra le selvette ombrose
256Or mostrarsi, or fuggir le Ninfe ascose.

XXXIII.

La vaga gioventù focosa e ardente
     Correa per abbracciarle, e correa in vano,
     Ch’elle si nascondeano immantinente,
260E sull’avvicinar fuggian di mano:
     Ecco una n’apparía bella e ridente,
     E sembianze d’amor fea di lontano,
     Fingendo d’aspettar, ma poi dappresso
264Scoccava l’arco e fuggia a un tempo stesso.




XXXIV.

Gli strali eran d’oro, e piaga mai
     Nel suo colpire alcun di lor non fea,
     Ma sentiva il percosso acerbi guai
268Per l’arciera crudel che ’l percotea;
     Nè di seguirla e di cercarla ai rai
     Della Luna e del Sol si ritenea;
     Ed ella ad or ad or gli si mostrava
272Nell’aspetto gentil ch’ ei più bramava.

XXXV.

A cui piacea la tenerella etate,
     Donzellette apparian di primo fiore,
     Lascivamente in varie guise ornate,
276Che pareano al sembiante arder d’amore;
     E quando s’accorgean d’esser mirate,
     Or s’ascondeano, or si mostravan fuore,
     Baciandosi tra lor sì dolcemente,
280Ch’avrebbon fatto un cor di tigre ardente.

XXXVI.

S’altri l’età più ferma avea più cara,
     Ecco forme più adulte in più maniere,
     Or saettar con le compagne a gara,
284Or cantar sole, or carolare a schiere;
     Chi nude le chiedea, nell’onda chiara
     Notar da lunge le potea vedere;
     Se in abito virile, in poco stante
288Satollava il desio cupido amante.




XXXVII.

Una di lor che sotto un verde alloro
     Chiusa d’un fresco rio d’onde correnti
     Temprava al suon d’una grand’arpa d’oro,
292Che fra le mani avea soavi accenti,
     Lo spirto velocissimo e canoro
     Or con tremule note, or con languenti,
     Or con liete alternando e disciogliendo,
296Da una rupe cantò, così dicendo:

XXXVIII.

Quand’ Amor nacque, sue dolcezze eterne
     Stillarono dal Ciel sovra i mortali,
     Che da prima correan tutti a goderne
300Confusamente in un volere uguali,
     Fin che il desio di maggior copia averne
     Instigò i primi artefici de’ mali,
     A nasconder la loro, e trovar arte
304D’usurparsi e goder dell’altrui parte.

XXXIX.

Sdegnato Giove a provveder s’accinse;
     Mandò l’Onore, e l’Onestade in terra;
     Le dolcezze d’Amor l’una restrinse,
308E l’altro mosse all’appetito guerra.
     Così del gusto il puro fonte estinse,
     Fuor che ’n questa del Mondo unica Terra,
     Che serba ancor delle dolcezze il fiore,
312Come le distillò nascendo Amore.




XL.

Voi fortunati alla beata sede
     Giunti a goder delle delizie antiche,
     Non affrettate oltre il suo corso il piede,
316Ch’ a tempo volgeran le stelle amiche:
     Come all’estivo ardor l’Autun succede
     Co’ frutti a ristorar l’altrui fatiche;
     Così frutti d’Amor verran fra poco,
320Ma non si geli poscia il vostro foco.

XLI.

Primavera d’Amore, aura gentile
     Par che spirando ai dolci scherzi alletti;
     Passa della stagione il vago Aprile,
324E s’infiamman d’arsura estiva i petti:
     Tempra l’Autunno Amor l’arco e ’l focile
     Co’ dolci frutti suoi, co’ suoi diletti.
     Ma non sì tosto poi sazio è il desio,
328Ch’ un freddo Verno Amor caccia in oblio.

XLII.

Godete, amanti lieti e avventurati,
     Di Primavera i fiori e la verdura;
     Soffrite della State i caldi fiati,
332Che più gradita fia vostra ventura:
     Succederà l’Autun co’ frutti amati;
     Ma non s’estingua poi la vostra arsura:
     Che ’n noi nato il desio diventa eterno,
336Nè State il cangia, nè lo spegne il Verno.




XLIII.

Così cantò la Ninfa, e ’n tal maniera
     Mosse la gioventù cupida e sciolta,
     Che per selve andar mattina e sera
340Si vedea folleggiando e di se tolta:
     Vincere a lungo andar la prova spera,
     Se ben non succedea la prima volta:
     Perocchè suole ogni principio sempre
344Ritrovare in amor contrarie tempre.

XLIV.

Ma il Capitan, che ’l suo periglio intese,
     E vide ciò che ne potea seguire,
     Di tosto provveder consiglio prese,
348E fe’ intimar che si volea partire:
     Ma gli ordini e i comandi indarno spese,
     E i preghi indarno e le minacce e l’ire:
     Che non credeva alcun, nè gli era avviso
352Che fosse in altra parte il Paradiso.
    
XLV.

Blasco d’Arranda, uom già d’età matura,
     Ma saettato di saetta d’oro,
     Fisso di rimaner, per la paura
356Che non partisser gli altri, ei dicea loro:
     E qual nuova cercar miglior ventura
     Vogliam noi sciocchi, o in mar vano tesoro,
     Se la stanza e ’l possesso ora lasciamo
360Dell’Isola beata ove noi siamo?
    



XLVI.

Noi non sogniam questa felice vita,
     Nè son dipinti questi frutti e fiori.
     Ma il Capitan ch’a dipartir n’invita,
364Sa ch’hanno come gli altri, e sugo e odori:
     Quest’Isola sì bella e sì gradita,
     Albergo delle grazie e degli amori,
     Mostra che qui non giunga mai la morte,
368O che si viva almen con miglior sorte.
   
XLVII.

E non senza ragion l’antica etate,
     Che ’l tutto seppe, in questa parte volle
     La sede por dell’anime beate,
372Che ’l pregio di natura all’altre tolle:
     Qui Primavera è sempre, Autunno e State
     Senz’alcun Verno; e non è piano o colle
     Che di frutti non sia pieno e fecondo;
376E noi vogliam cercar d’un altro Mondo?

XLVIII.

Torni il Colombo a prender nova gente,
     E la conduca ove s’ha dato il vanto:
     Ei troverà compagni agevolmente,
380E noi godremo qui felici intanto.
     Dell’infiammato petto il dire ardente
     L’incauta gioventù commosse tanto,
     Che già la maggior parte ha stabilito
384Di non partir dall’amoroso lito.
   



XLIX.

Con trecento guerrier dal porto ispano
     S’era partito il gran Colombo; e cento
     Nati su ’l Tago avean per Capitano
388Il superbo Pinzon gonfio di vento;
     D’Aragon cento ne traea Roldano,
     Uom di feroce e indomito ardimento;
     E cento già d’Italia i più fidati,
392Tolomeo suo fratel n’avea guidati.
   
L.

Seco il minor fratello e ’l maggior figlio
     Conduceva il Colombo a quell’impresa,
     Che della gloria sua, del suo periglio
396Fosser consorti entrambi e ’n sua difesa:
     O se venisse a lui del suo consiglio
     Da morte o rio destin l’opra contesa,
     Potesse uno di lor seguirla tanto,
400Che ne portasse il desiato vanto.
   
LI.

Diego avea nome il figlio, in cui fioriva
     Sua speme, ancor fanciul d’età crescente,
     Che già sprezzando il mar col padre giva
404A cercar nuovi regni in Occidente.
     Quantunque volge l’una e l’altra riva
     Dalla Liguria all’Austro e al Sol nascente,
     Non vide Amor fanciullo in quell’etade
408Meglio disposto, o di maggior beltade.




LII.

E questi e assai poch’altri eran restati
     Seco nel porto a rispalmar le navi.
     Egli poi che mandò messi iterati
412Attorno, e delirar vide i più savi,
     Andò egli stesso al fine, e gli ostinati
     Smover con dolci e con parole gravi
     Cercò; ma poco frutto i suoi ricordi
416Fer predicando agli appetiti sordi.
    
LIII.

Soldati, ei dicea lor, quest’Isoletta
     Non può mancarne mai, venite, andiamo;
     Che ’n così poco ciel non è ristretta
420Quella felicità che noi cerchiamo.
     Tutto ciò che più gusta e più diletta,
     Se dentro a questo mar più ch’ingolfiamo,
     Ritroveremo e donne e frutti e fiori,
424E quel ch’importa più, gioie e tesori.
    
LIV.

Se v’arrestano qui vani diletti,
     Che diranno i Re vostri al mio ritorno?
     Voi foste meco all’alta impresa eletti,
428E fate alla lor fede oltraggio e scorno.
     Così dicea; ma gli ostinati petti
     Non si movean però dal lor soggiorno,
     Follia stimando a quel sicuro lido
432Le speranze antepor del mare infido.
 



LV.

Ond’ei tornò tutto dolente e mesto
     Fra se volgendo il non pensato caso:
     E di perder temendo ancora il resto,
436Che vacillando seco era rimaso,
     L’ancore svelse e uscì del porto presto,
     E le vele spiegò verso l’Occaso,
     Gridando dalla poppa in alto suono:
440Poi che m’abbandonate, io v’abbandono.

LVI.

Ma che farà con così poca gente?
     Egli stesso nol sa, nè si sgomenta;
     L’Isola gira, e di lontan sovente
444Manda uno schifo e gl’ animi ritenta;
     Ma sorda sempre ai preghi suoi più sente
     Farsi ogni orecchia; ogni speranza è spenta:
     Onde alfin parte, e i legni in alto mare
448Porla il vento, nè più l’Isola appare.

LVII.

Qual Tortore che i figli abbia guidati
     Fuora del nido in non sicura parte,
     Poi che s’accorge de’ vicini aguati,
452O del periglio lor sospetta in parte,
     Gli stimola a fuggir con dolci usati
     Susurri, e va girando e torna e parte,
     E quando vede alfin che nulla vale,
456S’allontana da lor spiegando l’ale;




LVIII.

Tal il Colombo infino all’altra aurora,
     Col vento in poppa a piene vele corse;
     Pregavanlo i compagni a far dimora,
460E gían piangendo e di lor vita in forse,
     Quando calò le vele, e la sua prora
     Tutto in un tempo all’Orìente ei torse,
     Prese il vento per fianco, e diede segno
464Ch’ all’Isola tornar facea disegno.

LIX.

Ma del Settentrion la rabbia avversa
     S’oppone, e ritornar non gli concede:
     O se ritorna pur, sì l’attraversa,
468Che va girando, e tardo e lento ei riede.
     Vince l’industria alfin l’aura perversa,
     E già sicuro ha sovra il vento il piede;
     Ma il vento ch’ottener non può la palma,
472Subito cessa e resta il mare in calma.

LX.

Alzano i marinai le vele e vanno
     Cercando aura che spiri, e nulla giova:
     Senz’aura il cielo, il mar senz’onda stanno;
476Perduto è quaggiù il moto, o non si trova:
     Gettar gli schifi, e con fatica e affanno
     Cercan di rimorchiar le navi a prova;
     Ma sì stentata è l’opra e così lunga,
480Che troppo ci vorrà pria che si giunga.




LXI.

Il Capitano allora in se raccolto
     Levò le mani e le preghiere a Dio,
     E disse: Alto Signor, tu che m’hai tolto
484A custodir dal tuo avversario e mio;
     Tu che rompesti dianzi il nembo folto,
     E frenasti del mar l’impeto rio;
     Tu dammi or vento, e fa ch’io trovi il core
488De’ cari servi tuoi tratto d’errore.

LXII.

Sull’ali della Fede in un momento
     Saliro i prieghi alla magion celeste;
     E ’l messaggier divin che stava intento
492Al rio pensier della tartarea peste,
     L’aurate piume giù dal firmamento
     Spiegò succinto in luminosa veste,
     E ritrovò che gli angioli dannati
496Nelle spelonche i venti avean legati.

LXIII.

Gli spiriti perversi avean creduto,
     Che sen gisse il Colombo all’Occidente,
     E che più non tornasse a dare aiuto
500Alla perduta sua misera gente;
     Ma poi che ritornar l’ebber veduto
     Contra il furor che l’Aquilone algente,
     Nelle caverne lor frigide e vote
504Legaro i venti e restar l’aure immote.




LXIV.

E avean lo schernitor di scherno vinto,
     Se l’Angelo di Dio non discendea
     A disserrare il tenebroso cinto,
508Che chiuso il vento in sua magion tenea.
     All’Isola felice il Duce spinto
     Sull’ora nona il quarto dì giungea.
     E ritrovava in orrida sembianza
512Tutta cangiata già sì lieta stanza.

LXV.

Corsero al lito i suoi compagni mesti,
     Tosto che di lontan videro i legni,
     E con le mani alzate e con le vesti
516Feron chiamando ai naviganti segni;
     E all’approdar delle tre navi presti
     Si lanciar giù da que’ dirupi indegni,
     Che di prati fioriti e piagge amene
520S’eran cangiati in nudi sassi e arene.

LXVI.

Fuvvi di lor che per desio d’uscire
     Fuor di quel luogo inospite e diserto,
     Corse nell’onda a rischio di morire,
524Ch’eran le navi ancor nel mare aperto:
     Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
     Blasco nel danno suo già fatto esperto,
     Con vergognose luci e ’n terra fisse
528Chiese perdono al Capitano, e disse:




LXVII.

Quel dì, Signor, che ’n alto mar spiegando
     Le vele di partir festi sembianza,
     Stemmo tutta la notte amoreggiando
532Fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza.
     Ogni tristo pensier fuggito in bando
     N’era in sì bella e sì gioconda stanza;
     Godevamo ugualmente, e n’era avviso
536D’esser trasumanati in Paradiso.

LXVIII.

Ma poi che il Sol nell’Ocean s’immerse
     E fu la luce sua del tutto estinta,
     Ombra caliginosa ne coperse
540Di spaventose immagini dipinta;
     Nè mai sì fiera illusion s’offerse
     All’agitato Oreste e d’orror cinta,
     Che s’agguagliasse a quella, onde la notte
544Ne furo il sonno e le speranze rotte.

LXIX.

Di rauche trombe e di tamburi il suono
     L’orecchie ad or ad or ne percotea:
     Or tremava la terra, or s’udia il tuono
548De’ lampi, or del furor della marea,
     Parean fuggir le fere in abbandono,
     E ’n vece delle ninfe a noi parea
     Ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
552Orribili, tremendi e spaventosi.




LXX.

Nè le sembianze lor del lutto vane
     Erano ai sensi oppressi e conturbati;
     Ma d’urti fieri e di percosse strane
556Sentimmo i colpi da diversi lati;
     E le piagge vicine e le lontane
     Mugghiar d’urli feroci e di latrati:
     Così senz’aver mai riposo un’ora
560Fummo agitati in fin ch’uscì l’Aurora.

LXXI.

Quando alfin l’alba in Orìente apparve,
     E le sue stelle in ciel la notte ascose,
     S’ascosero e fuggir tutte le larve
564E le finte bellezze insidìose;
     Frutti, fior, fronde, ogni delizia sparve,
     Gli ameni prati e le selvette ombrose,
     E l’Isola restar vedemmo piena
568D’orridi sassi e d’infeconda arena.

LXXII.

Tre giorni siamo in sì solinga stanza
     Senza riposo e senza cibo stati,
     Di rimedio non pur, ma di speranza
572Da tutti gli elementi abbandonati.
     Questo spirto, Signor, per te n’avanza:
     Che se tu ti scordavi i tuoi soldati,
     O più tardi giugnevi in lor soccorso,
576Di nostra vita era finito il corso.




LXXIII.

Qui tacque Blasco, e lo smarrito aspetto
     Degli altri confirmò le sue parole.
     Li conforta il Colombo, e con affetto
580Paterno di lor mal seco si duole;
     Fa ristorargli, e ascolta con diletto
     I lor vaneggiamenti e le lor fole,
     E l’Isola diserta intanto lassa,
584E a prender acqua alla vicina passa.

LXXIV.

Vede rustici alberghi e abitatori,
     E d’acqua chiede, (maraviglia strana!)
     Trova il terren che non produce umori,
588Ma un grand’ arbore in vece è di fontana:
     Stringonsi intorno a lui tutti i vapori
     Del luogo, e fuor d’ogni credenza umana
     La virtù di quell’arbore gli scioglie,
592E gli distilla giù dalle sue foglie.

LXXV.

Quivi egli empiè a grand’ agio i vasi voti,
     E tolse al dipartir rinfrescamenti,
     E veggendo del mar già queti i moti,
596Di nuovo fe’ spiegar le vele ai venti.
     Musa, cui sono i gran perigli noti
     Nel girar ch’ ei fe’ il mondo a nuove genti,
     Tu d’intelletto fior dammi e di senso,
600Qual si conviene all’Oceano immenso.







CANTO SECONDO

I.

Vagheggiata dai rai del sol nascente
     L’Aurora uscia della magion divina,
     E le finestre apria dell’Oriente,
4   Mirando il tremolar della marina;
     Quando il Ligure Eroe sorse repente,
     L’ancore svelse, e all’aura mattutina
     Là, dove cade il Sol piegando all’Orse,
8   Dall’Atlantico mar le vele torse.

II.

Splendeva il Ciel d’un bel sereno e puro,
     E tacevan del mar l’ire e gli sdegni,
     E ’l vento dianzi sì perverso e duro
12 Spirava in poppa ai fortunati legni.
     ........................................................
    .........................................................



FINE.








V - Bella mendicatrice

Dei tesori d'amor ricca e felice
ma di quei di fortuna ignuda e priva,
cinta in vii gonna e sospirosa giva
bella dei cori altrui mendicatrice;
poco chiedea la lingua allevatrice
mentre i suoi mali in dolci modi apriva,
ma il guardo peregrin l'alme rapiva
con occulta virtù che dir non lice.
O ricchezze d'amor povere e sole,
che giova aver di perle e di rubini
la bella bocca e ne le luci il sole?
Che giova l'ambra e l'oro ai crespi crini,
se poi fortuna ingiuriosa vuole
che a si vile mercé costei s'inchini?
VI - O me beato allor che vissi amante

O me beato allor che vissi amante
de l'italico Reno in su le sponde,
che più bella di questa ivi s'asconde
quasi un'altra d'amor Roma spirante.
Veggio ben io qui, pellegrino errante,
le spumose del Tebro e tumid'onde,
lá quelle chiome inanellate e bionde
quasi un fiume vid'io d'oro ondeggiante.
Qui la porpora abbonda, e lá roseggia
un dolce labbro e di natio colore
una guancia riluce e purpureggia.
Veggio degli archi il trionfale onore,
ma, lasso, altri colá mira e vagheggia
l'arco d'un ciglio ove trionfa amore.


VII - Dunque è pur ver che la mia donna

Dunque è pur ver che la mia donna in letto
inferma giace e come vago fiore
dal sol percosso e già privo d'umore
in mesto va cangiando il lieto aspetto!
Ahi tanto osò ria febre! che il bel petto,
cui dianzi per suo seggio elesse Amore
e per dolce prigion diede al mio core,
offender volle col suo duro effetto;
e i bei rai oscurar, onde sovente
movea virtù, che più di giorno in giorno
mi scorgea al cielo per sentier non torti!
Amor, ben a ragion cieco la gente
t'appella: ché non vedi il grave scorno:
e se tu 'l vedi, perché te 'l comporti?
XXV - Sopra un avaro ricco

Questa mummmia col fiato, in cui natura
l'arte imitò d'un uom di carta pesta,
che par muover le mani e i piedi a sesta
per forza d'ingegnosa architettura, 5
di Filippo di Narni è a figura,
che non portò giamai scarpe né vesta
che fosser nuove o cappel nuovo in testa,
e centomila scudi ha su l'usura.
Vedilo col mantel spelato e rotto,
10ch'ei stesso di fil bianco ha ricucito,
e la gonnella del piovano Arlotto.
Chi volesse saper di ch'è il vestito,
che già quattordici anni ei porta sotto,
non troveria del primo drappo un dito. 15
Ei mangia pan bollito
e talora un quattrin di calde arrosto
e il Natale e la Pasqua un uovo tosto.
I - Alle signore Orsi

Quell'orse, che nel ciel paion sì belle,
cinte di raggi d'oro e fiammeggianti,
a voi sono, mie dee, sì somiglianti
che l'orse voi e voi siete orse e stelle.
Due in terra siete voi, due in ciel son elle
e prole e madri entrambe; ai naviganti
scorta son elle, e voi scorta agli amanti
nel mar d'amor fra i nembi e le procelle.
Che più? Giove de l'una arso e ferito,
per dar vita a quell'una, al polo intorno
le pose ambo nel ciel puro e sublime;
io de l'una son arso e incenerito
e, per dar vita a lei, spero anco un giorno
di porre entrambe in ciel con le mie rime.


II - Ad Elena...

Ragion è ben, chiara mia lampa estinta,
che illuminasti i miei terreni errori,
che se d'Asia il tuo nome arse già i cori
allor che fu del sangue d'Ilio tinta,
or ne resti l'Italia in guisa vinta
che a lo sparir de' chiari tuoi splendori
sparga da gli occhi in tanta copia umori,
che ne ondeggino i mari ond'ella è cinta.
Si disse il mondo allor ch'ei vide, ahi lasso,
de la seconda Eléna i lumi spenti,
ed al suo proprio orror s'ascose in grembo;
velò di nubi il sol versando al basso
lagrime amare in doloroso nembo
e sospiri esalò con tutti i venti.


III - Donna sdegnata, amante pauroso

Veri celesti angelici sembianti
dove folgora e tuona amore irato,
qual core è cosi duro e si gelato
che incontro a voi di sua virtù si vanti?
Il mio non già, che, al balenar di tanti
lampi di sdegno, in cenere cangiato,
null'altro più ritien del primo stato
che laceri vestigi ancor fumanti.
Però, se innanzi a voi pallido e privo
di voce io resto, il mio difetto ammende,
donna crudele, un più gentil costume;
ché, inaridito tronco, altro di vivo
in me non ho che il foco che m'incende,
e, s'apro in voi questi occhi, è vostro il lume.


IV - Ad una fanciulla

Bella sei tu né sembri altera in volto
più di quanto adornar può tua beltade;
semplice mostri il cor com'è l'etade,
né sdegno scorgo in quei bei lumi accolto.
Ma non posso io però viver disciolto
da un rio timor che nel pensier mi cade,
rammentando che sol finta pietade
ha spesso altrui fra duri lacci involto.
Ben m'allettano l'alma i dolci sguardi
e gli atti vaghi ove ogni grazia ride,
ma sono i moti miei sospesi e tardi;
che l'augellin, che dianzi in aria vide
rimanere il fratel su l'esca morto,
teme la fraude e sta su l'ali accorto.
ALESSANDRO TASSONI  - ALCUNE RIME