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Giuseppe Ungaretti - L'ALLEGRIA












































Ungaretti
la poetica



Da Il Porto sepolto a L'Allegria
Nel riordinare le sue poesie, dando loro un titolo complessivo, Ungaretti volle sottolineare il carattere autobiografico, proponendole come una sorta di nuova e versificata recherche (il riferimento al titolo del capolavoro di Proust non è casuale, se si pensa che Ungaretti fu forse il primo scrittore a parlare dell'opera di Proust in Italia, nel 1919). Egli stesso, del resto, aveva affermato: «Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un'opera d'arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione». Ma la componente autobiografica riscontrabile nella poesia ungarettiana è assai diversa da quella di un Saba. Il rapporto fra letteratura e vita è piuttosto quello che verrà codificato a proposito dell'Ermetismo, attribuendo all'arte il significato di un'esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile.
Se le poesia pubblicate su «Lacerba», nel 1915, hanno ancora cadenze discorsive e cronachistiche, le liriche del Porto sepolto, uscite alal fine dell’anno successivo, assumono un andamento completamente diverso, che brucia ogni residuo puramente descrittivo o realistico. È questa la fase decisiva della ricerca poetica ungarettiana, esemplificata dai testi che confluiranno poi nell’Allegria (1931). Ricollegandosi alla lezione del Simbolismo, Ungaretti porta alle estreme conseguenze il procedimento dell'analogia, ricollegandosi in questo anche alle indicazioni di Marinetti (del quale respinge tuttavia ogni presupposto di dinamismo meccanicistico). Ecco quanto scriveva in proposito: «Se il carattere dell'800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo, il poeta d'oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all'innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno». Ungaretti usa qui alcuni termini essenziali per intendere la natura del suo linguaggio poetico: se la «memoria» è il fardello dei ricordi personali e storici che l'uomo porta con sé, e che lo collegano alla dimensione contingente della vita, l'«innocenza» rappresenta la ricerca di una purezza edenica (cfr. Girovago, vv. 24-25), la riconquista dell'identità perduta, che metta l'uomo a contatto con la dimensione originaria dell'essere. Ma la «lontananza da varcare» (ritorna il motivo del viaggio) deve essere bruciata «in un baleno», proprio per liberarsi da ogni impurità, portando il contingente nella sfera dell'assoluto. La poesia assume anche, di conseguenza, un valore metafisico e religioso, come afferma ancora Ungaretti: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio, anche quando è una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l'invisibile nel visibile».
Sul piano tecnico (che coincide, in ultima analisi, con quello metafisico) l'operazione consiste nella distruzione del verso tradizionale, che, con la sua sintassi ancora naturalistica (in quanto, con evidente ripresa di una terminologia positivistica, stabilisce «legami a furia di rotaie e di ponti» ecc.), è distratto dal vero obiettivo della ricerca poetica. L'innovazione ungarettiana venne certo favorita dalla rivoluzione futurista delle parole in libertà, di cui è tuttavia rifiutato il movimento caotico, ancora immerso nel cuore della materia, con il suo analogismo onomatopeico e naturalistico. La strada da percorrere era quella additata da Mallarmé, nella suprema e più ardua delle sue prove poetiche, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso. E la direzione che attribuisce alla poesia un significato magico ed esoterico, collocandola nell'oscura zona di confine che sta a ridosso dell'inconoscibile e dell'inesprimibile. Resta fondamentale, in questo senso, il significato della «parola», che assume il valore di una improvvisa e folgorante "illuminazione"; essa si identifica con l'«attimo » in cui, attraverso l'immediatezza del rapporto analogico, la poesia sfiora la totalità e la pienezza dell'essere. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza (o, se si vuole, nella sua «innocenza»), inserita, in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà.
In questo senso va inteso l'autobiografismo su cui lo stesso Ungaretti ha posto l'accento, riscoprendo anche la dimensione della sua preistoria poetica: dall'infanzia e dalla giovinezza trascorse ad Alessandria, con le impressioni di un paesaggio affidato poi alle testimonianze della memoria, fino all'incontro con l'Italia, la «terra promessa» dei suoi genitori. Da questi riscontri sono tratti i temi e i motivi dell'esordio poetico: il deserto, il miraggio, le cantilene arabe, come ricordo degli anni egiziani; il mare, il porto, il viaggio, legati alla vicenda dell' emigrante. Il discorso si approfondisce nel motivo dell'esilio (cfr. In memoria) e dell'estraneità, proprio di Girovago. Un temporaneo -seppure decisivo - momento di approdo è costituito dall'esperienza del fronte, che offre a Ungaretti gli spunti per alcune delle sue liriche più crude e sofferte, spoglie di ogni retorica (Veglia, I fiumi). Ma la guerra gli consente anche di stabilire un contatto con la propria gente e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato (cfr. I fiumi). La guerra, infine, costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte (cfr . Soldati), dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all'improvviso; essa traduce così in immagini concrete, in cui ci si può imbattere in ogni momento, quella " poetica dell'attimo" che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti.
Non a caso la sua ispirazione si definisce proprio in questo periodo, saldando le ragioni dell'autobiografismo esistenziale con la conquista (avvenuta molto rapidamente) della nuova tecnica espressiva, capace di rendere l'assolutezza di una aspirazione metafisica. In questo senso il poeta recupera anche, nell'edizione definitiva de L’Allegria, alcuni testi precedenti (datati Milano 1914-15), dove già si delineava l'oscillazione dialettica tra essere e nulla, realtà e mistero, presenza e assenza, gesto e immobilità (cfr. la lirica che introduce anche l'edizione definitiva delle poesie e che si intitola Eterno: «Tra un fiore colto e l'altro donato / l'inesprimibile nulla»). Particolarmente indicativi risultano, allora, i titoli delle prime due raccolte pubblicate, nel 1916 e nel 1919. Il porto sepolto allude a «ciò che segreto rimane in noi, indecifrabile», ed ha una fonte precisa nel racconto favoloso di due amici francesi: «Mi parlavano di un porto, di un porto sommerso, che doveva precedere l'epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro, che già prima di Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s'annienta d'attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d'ogni era d'Alessandria». Il «porto sepolto» equivale così al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un «abisso» nel quale deve immergersi il poeta. Per quanto riguarda Allegria di naufragi, lo stesso Ungaretti, in una nota, ha spiegato il carattere ossimorico del sintagma, parlando dell'«esultanza d'un attimo», di un'«allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare». Una sorta di più pregnante spiegazione poetica è data dalla lirica del 1917 dal titolo omonimo: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare». Non a caso il motivo del «naufragio» (che richiama subito quello dell'«abisso» ) era stato sviluppato da Mallarmé nell'ultima parte di Un colpo di dadi); esso si collega inoltre al motivo del «viaggio», come simbolo di una presenza della «morte» sempre latente (come dirà Ungaretti in un verso di Lindoro di deserto: «Sino alla morte in balia del viaggio»). Il significato religioso di questa ricerca poetica è suggellato dalla lirica Preghiera, un'invocazione che, richiamandosi allontano esempio del Petrarca, conclude L 'allegria: «Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di , quel giovane giorno al primo grido».

Il Sentimento del tempo
Le poesie scritte a partire dal 1919 e inserite nel Sentimento del tempo (1933) rappresentano un sostanziale mutamento delle prospettive, anche per quanto riguarda le soluzioni stilistiche e formali. Alla poetica dell'attimo si sostituisce una diversa percezione del tempo, che viene adesso inteso come continuità e durata, non per il venir meno del ruolo del soggetto, ma per attuare il recupero di una dimensione più complessa e problematica dell'esistenza. Nella collocazione all'interno del canzoniere, la raccolta appare come la seconda tappa del viaggio ungarettiano o, per usare le parole stesse del poeta, come «secondo tempo d'esperienza umana». Sul piano tecnico, la sua novità essenziale consiste nel recupero delle strutture sintattiche e, soprattutto, delle forme metriche tradizionali (in particolare l'endecasillabo, sulla cui «difesa» Ungaretti scriverà un apposito saggio). Si comprende così il vero significato dell'operazione compiuta ne L’Allegria: una distruzione del verso non polemica e fine a se stessa, ma condotta consapevolmente allo scopo di risentirlo come nuovo, ingenuo, per poi ricomporlo e farlo rinascere dall'interno. Non a caso l'operazione presuppone la rilettura e la rimeditazione di Petrarca e Leopardi, oltre a coincidere con il soggiorno a Roma, che sembra riunire e simboleggiare la loro esperienza: alla base dell'atmosfera romana e della poesia petrarchesco-leopardiana esiste infatti un'analoga percezione della rovina, della decadenza. Leopardi sente la fine di una civiltà giunta al culmine della sua evoluzione; Petrarca si trova di fronte a un mondo da ripristinare: quello della classicità, attraverso la memoria. Ma la memoria, come rinnovata presa di possesso, si identifica in qualche rudere e forma mutilata, in un sentimento dell'esistenza che Roma riassume in quanto città barocca. Per comprendere il suo mistero occorre risalire a Michelangelo e alla sua arte, che è unione di contrari, fusione di Giustizia e Pietà, di Dio e Uomo, in Cristo, giudice e vittima al tempo stesso. In questo senso il Barocco agisce anche a livello religioso: la vita, come incessante processo di distruzione e creazione, genera, per l'uomo, il dramma dell'antinomia tra «l'infallibilità fantastica del facitore» e la «precarietà della propria condizione». La lezione romana, inoltre, induce Ungaretti a registrare i cambiamenti della natura e a ricomporre le fratture in un nuovo mosaico, dal momento che il Barocco distrugge e ricompone dopo l'esplosione.
Nasce di qui la poesia del tempo e delle sue metamorfosi, nell'incessante travaglio delle ore e delle stagioni: dal mattino alla sera, dalla primavera all'autunno. Lo stesso Ungaretti ha dichiarato come la sua attenzione fosse volta, fino a11932, a osservare il paesaggio: soprattutto paesaggi d'estate, essendo l'estate la stagione a lui più congeniale e anche «la stagione del barocco». Ma Roma vale anche in quanto suscitatrice di immagini mitologiche. Nel grande e composito affresco ungarettiano, le figure del mito (da Crono ad Apollo e Giunone) diventano le «voci del vocabolario accorse a evocare i fantasmi», colmando così quella sensazione di vuoto, anch'essa tipicamente barocca, che si prova ad esempio davanti al Colosseo, «enorme tamburo con orbite senz'occhi». Complesse ragioni di poetica sono alla base, come si è visto, della seconda raccolta dei versi ungarettiani. Più in particolare, in un intervento del 1963, Ungaretti commenta Ungaretti, il poeta ne ha così individuato le strutture profonde: «Ci sono tre momenti nel Sentimento del tempo del mio modo di sentire successivamente il tempo. Nel primo mi provavo a sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica; nel secondo, una civiltà minacciata di morte mi induceva a meditare sul destino dell'uomo e a sentire il tempo, l'effimero, in relazione con l'eterno; l'ultima parte del Sentimento del tempo ha per titolo L'amore, e in essa mi vado accorgendo dell'invecchiamento e del perire nella mia carne stessa».
La sezione centrale, quasi interamente composta da poesie de11925, si intitola La fine di Crono (Crono, padre di Zeus, è il simbolo del tempo) ed esemplifica più direttamente gli intendimenti dell'intera raccolta, secondo cui «la parabola dell'anno e quella del giorno sono forse eterne figure dell'armonia universale, mentre l'uomo non è che un punto fra due infiniti oblii. Il silenzio della tomba è uguale a quello di prima della culla. È l'eternità. Ma l'uomo in vita, non s'affanna che a volere, invano, percorrer da vivo, cosciente, colla sua intatta persona, la sua patria silenziosa, l'eternità. Ho voluto dire che l'uomo, creatura, fatto temporale, si porta, morendo, con sé il mondo, il quale con lui era nato, cresciuto, con lui era giunto, quando ci arriva, all'apice della salita, e poi, appiè del declivio». Il succedersi di un tempo che è insieme assoluto e individuale si sviluppa dalla Nascita dell'aurora alle immagini apocalittiche della Morte di Crono, fino a riprendere, nella lirica conclusiva Pari a sé, il motivo del viaggio e della nave: « Va la nave sola / nella quiete della sera» (in un simile contesto si colloca anche L'isola, in cui l'andamento mitico-paesaggistico è tutto intessuto di preziosi riferimenti alla tradizione letteraria). Personali rielaborazioni e variazioni di spunti leopardiani si possono considerare L'inno alla morte e Notte di marzo, dove Ungaretti riprende il tema di amore-morte e il motivo dell'invocazione alla luna. Le poesie mitico-primaverili come Apollo e Aprile preludono poi alla violenza paesaggistica delle liriche estive (Di luglio, D'agosto), il cui vitalismo distruttore si risolve, in Giunone, nel torbido grido dei sensi. Il tormento della carne si placa negli inni, che pongono il problema religioso come esigenza decisiva e totale, investendo di una nuova luce le ansie più profonde della poesia ungarettiana. I motivi della preghiera e gli stilemi dell'invocazione a Dio appaiono così come lo sforzo di liberare una tensione contraddittoria (tra la giustizia e la legge, la purezza e il peccato, lo spirito e la materia), per rimarginare una ferita aperta dalle tentazioni, dalle angosce e dalle colpe. Non a caso il sogno ricorrente è quello di una purezza edenica, ormai compromessa dalla memoria (Caino) e sostituita da un perenne destino di espiazione.

Le ultime raccolte
A interrompere la parabola delle stagioni, con gli ardui simboli in cui si compendia la «vita di un uomo», e a farne precipitare gli eventi, interviene nel 1947 la pubblicazione di Il dolore, in cui sono comprese le poesie dell'ultimo decennio. La raccolta si fa voce del tormento personale (la morte del fratello e del figlio di nove anni) e collettivo (la guerra). Per la sofferta partecipazione a queste esperienze, i testi non sono accompagnati da alcuna nota dell'autore, che si limita ad osservare: «So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d'essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi». Entro quest'ottica, Il dolore può essere definito come il libro più petrarchesco, quello che rivela con maggiore evidenza la sua struttura di diario patetico, risolvendosi, quale specchio di vita, in immediata confessione autobiografia. Alle due poesie scritte nel 1937 in memoria del fratello, riunite sotto il titolo della prima, Tutto ho perduto, seguono le sezioni Giorno per giorno (1940-46) e Il tempo è muto (1940-45), dedicate al figlio scomparso. La prima è concepita alla stregua di una cronistoria del proprio dolore, misurato nelle minime ripercussioni. L'assenza della persona fisica è compensata da segni («il volto già scomparso», «gli occhi ancora vivi», «le fiduciose mani», «l'ombra che mi si pone a lato», «l'ingenua voce», «il tuo felice volto»), cui si attribuisce la possibilità di proseguire un colloquio che, nonostante lo strazio («E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...»), si vuole mantenere in vita: «Passa la rondine e con essa l'estate, / e anch'io, mi dico, passerò... / Ma resti dell'amore che mi strazia / non solo segno un breve appannamento / se dall'inferno arrivo a qualche quiete... ». La trasfigurazione del figlio, in una luce di purificazione e di speranza religiosa, diviene così anche sinonimo di innocenza: « Fa dolce e forse qui vicino passi / dicendo: "Questo sole e tanto spazio / ti calmino. Nel puro vento udire / puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l'aurora e intatto giorno"». Con i versi di Roma occupata (1943-44) e I ricordi (1942-46), la tragedia individuale si risolve in quella dell'intera nazione. Le immagini della guerra danno la dimensione di uno sconvolgimento apocalittico, in cui gli stessi toni biblici ed evangelici del linguaggio ripropongono il valore di una fede religiosa o la richiesta di una umana solidarietà, ora offesa e conculcata, cui affidare le sorti di un'intera civiltà minacciata (cfr . Non gridate più).
La raccolta successiva, La terra promessa, pubblicata nel 1950, comprende i «frammenti» di un più ampio progetto, iniziato nel 1935 ma rimasto a uno stadio di abbozzo: la composizione di un melodramma, con personaggi, musica e cori. La vicenda avrebbe dovuto rappresentare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l'amore di Didone e la morte dell'eroina, con un disegno allegorico capace di riflettere le tematiche di fondo della poesia ungarettiana (la ricerca di una nuova «terra» per sfuggire alla legge del tempo, il contrasto tra il dovere e la passione, con l'approdo finale nella morte). I diciannove Cori descrittivi di stati d'animo di Didone intendono raffigurare «il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, perché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono», attraverso il «delirare di una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta». Il taccuino del vecchio (1961) comprende le poesie del periodo 1952-60 ed è per la maggior parte composto dagli Ultimi cori per la terra promessa, che stabiliscono un ideale rapporto di continuità con l'opera precedente. L’opera è tuttavia mutata: da un lato, la «terra promessa» tende sempre più ad identificarsi con la fine delle stagioni e della vita; dall’altro, la proiezione mitica viene a cadere, per lasciare nuovamente il posto alla prima persona del poeta, che, collocato, fra il tempo e la morte, cerca un bilancio definitivo della propria esperienza umana e poetica.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Ultime
Milano 1914-1915

ETERNO
Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla

NOIA
Anche questa notte passerà

Questa solitudine in giro
titubante ombra dei fili tranviari
sull’umido asfalto

Guardo le teste dei brumisti
nel mezzo sonno
tentennare

LEVANTE
La linea
vaporosa muore
al lontano cerchio del cielo

Picchi di tacchi picchi di mani
e il clarino ghirigori striduli
e il mare è cenerino
trema dolce inquieto
come un piccione

A poppa emigranti soriani ballano

A prua un giovane è solo

Di sabato sera a quest’ora
Ebrei
laggiú

portano via
i loro morti
nell’imbuto di chiocciola
tentennamenti
di vicoli
di lumi

Confusa acqua
come il chiasso di poppa che odo
dentro l’ombra
del
sonno
TAPPETO
Ogni colore si espande e si adagia
negli altri colori

Per essere piú solo se lo guardi

NASCE FORSE
C’è la nebbia che ci cancella

Nasce forse un fiume quassú

Ascolto il canto delle sirene
del lago dov’era la città

AGONIA
Morire come le allodole assetate
sul miraggio

O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha piú voglia



Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato

RICORDO D’AFRICA
Il sole rapisce la città

Non si vede piú

Neanche le tombe resistono molto

CASA MIA
Sorpresa
dopo tanto
d’un amore

Credevo di averlo sparpagliato
per il mondo

NOTTE DI MAGGIO
Il cielo pone in capo
ai minareti
ghirlande di lumini

IN GALLERIA
Un occhio di stelle
ci spia da quello stagno
e filtra la sua benedizione ghiacciata
su quest’acquario
di sonnambula noia

CHIAROSCURO
Anche le tombe sono scomparse

Spazio nero infinito calato
da questo balcone

al cimitero

Mi è venuto a ritrovare
il mio compagno arabo
che s’è ucciso l’altra sera

Rifà giorno

Tornano le tombe
appiattate nel verde tetro
delle ultime oscurità
nel verde torbido
del primo chiaro

POPOLO
Fuggí il branco solo delle palme
e la luna
infinita su aride notti

La notte piú chiusa
lugubre tartaruga
annaspa

Un colore non dura

La perla ebbra del dubbio
già sommuove l’aurora e
ai suoi piedi momentanei
la brace

Brulicano già gridi
d’un vento nuovo

Alveari nascono nei monti
di sperdute fanfare

Tornate antichi specchi

voi lembi celati d’acqua

E
mentre ormai taglienti
i virgulti dell’alta neve orlano
la vista consueta ai miei vecchi
nel chiaro calmo
s’allineano le vele

O Patria ogni tua età
s’è desta nel mio sangue

Sicura avanzi e canti
sopra un mare famelico

Il Porto Sepolto

IN MEMORIA
Locvizza il 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva piú
Patria

Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva piú
vivere

nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

IL PORTO SEPOLTO
Mariano il 29 giugno 1916
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde


Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

LINDORO DI DESERTO
Cima Quattro il 22 dicembre 1915
Dondolo di ali in fumo
mozza il silenzio degli occhi

Col vento si spippola il corallo
di una sete di baci

Allibisco all’alba

Mi si travasa la vita
in un ghirigoro di nostalgie

Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l’orientamento

Sino alla morte in balia del viaggio

Abbiamo le soste di sonno

Il sole spegne il pianto

Mi copro di un tepido manto
di lind’oro

Da questa terrazza di desolazione
in braccio mi sporgo
al buon tempo

VEGLIA
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

A RIPOSO
Versa il 27 aprile 1916
Chi mi accompagnerà pei campi

Il sole si semina in diamanti
di gocciole d’acqua
sull’erba flessuosa

Resto docile
all’inclinazione
dell’universo sereno

Si dilatano le montagne



in sorsi d’ombra lilla
e vogano col cielo

Su alla volta lieve
l’incanto s’è troncato

E piombo in me

E m’oscuro in un mio nido

FASE D’ORIENTE
Versa il 27 aprile 1916
Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio

Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse

Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa

TRAMONTO
Versa il 20 maggio 1916
Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore



ANNIENTAMENTO
Versa il 21 maggio 1916
Il cuore ha prodigato le lucciole
s’è acceso e spento
di verde in verde
ho compitato

Colle mie mani plasmo il suolo
diffuso di grilli
mi modulo
di
sommesso uguale
cuore

M’ama non m’ama
mi sono smaltato
di margherite
mi sono radicato
nella terra marcita
sono cresciuto
come un crespo
sullo stelo torto
mi sono colto
nel tuffo
di spinalba

Oggi
come l’Isonzo
di asfalto azzurro
mi fisso
nella cenere del greto
scoperto dal sole
e mi trasmuto
in volo di nubi


Appieno infine
sfrenato
il solito essere sgomento
non batte piú il tempo col cuore
non ha tempo né luogo
è felice

Ho sulle labbra
il bacio di marmo

STASERA
Versa il 22 maggio 1916
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia

FASE
Mariano il 25 giugno 1916
Cammina cammina
ho ritrovato
il pozzo d’amore

Nell’occhio
di mill’una notte
ho riposato

Agli abbandonati giardini
ella approdava
come una colomba

Fra l’aria
del meriggio
ch’era uno svenimento
le ho colto
arance e gelsumini
SILENZIO
Mariano il 27 giugno 1916
Conosco una città
che ogni giorno s’empie di sole
e tutto è rapito in quel momento

Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limio
delle cicale

Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell’aria torbida
sospesi

PESO
Mariano il 29 giugno 1916
Quel contadino
si affida alla medaglia
di Sant’Antonio
e va leggero

Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima

DANNAZIONE
Mariano il 29 giugno 1916
Chiuso fra cose mortali


(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

RISVEGLI
Mariano il 29 giugno 1916
Ogni mio momento
io l’ho vissuto
un’altra volta
in un’epoca fonda
fuori di me

Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta


E si sente
riavere

MALINCONIA
Quota Centoquarantuno il 10 luglio 1916
Calante malinconia lungo il corpo avvinto
al suo destino

Calante notturno abbandono
di corpi a pien’anima presi
nel silenzio vasto
che gli occhi non guardano
ma un’apprensione

Abbandono dolce di corpi
pesanti d’amaro
labbra rapprese
in tornitura di labbra lontane
voluttà crudele di corpi estinti
in voglie inappagabili

Mondo

Attonimento
in una gita folle
di pupille amorose
In una gita che se ne va in fumo
col sonno
e se incontra la morte
è il dormire piú vero

DESTINO
Mariano il 14 luglio 1916
Volti al travaglio
come una qualsiasi

fibra creata
perché ci lamentiamo noi?

FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

C’ERA UNA VOLTA
Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916
Bosco Cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona

Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa 10
di questa luna
SONO UNA CREATURA
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Come questa pietra
del S. Michele
cosí fredda
cosí dura
cosí prosciugata 5
cosí refrattaria
cosí totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto 10
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

IN DORMIVEGLIA
Valloncello di Cima Quattro il 6 agosto 1916
Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come le lumache nel loro guscio

Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato

di pietra di lava
delle mie strade
ed io l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia

I FIUMI
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso

Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua

Mi sono accoccolato
vicino al miei panni
sudici di guerra

e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole

Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo

che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre

PELLEGRINAGGIO
Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba


Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

MONOTONIA
Valloncello dell’Albero Isolato il 22 agosto 1916
Fermato a due sassi
languisco
sotto questa
volta appannata
di cielo
Il groviglio dei sentieri
possiede la mia cecità

Nulla è piú squallido
di questa monotonia

Una volta
non sapevo
ch’è una cosa
qualunque
perfino
la consunzione serale
del cielo

E sulla mia terra affricana
calmata
a un arpeggio

perso nell’aria
mi rinnovavo

LA NOTTE BELLA
Devetachi il 24 agosto 1916
Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle

Quale festa sorgiva
di cuore a nozze

Sono stato
uno stagno di buio

Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio

Ora sono ubriaco
d’universo

UNIVERSO
Devetachi il 24 agosto 1916
Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza

SONNOLENZA
Da Devetachi al San Michele il 25 agosto 1916
Questi dossi di monti
si sono coricati

nel buio delle valli

Non c’è piú niente
che un gorgoglio
di grilli che mi raggiunge

E s’accompagna
alla mia inquietudine

SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese piú straziato

ATTRITO
Locvizza il 23 settembre 1916
Con la mia fame di lupo
ammaino
il mio corpo di pecorella

Sono come
la misera barca
e come l’oceano libidinoso
DISTACCO
Locvizza il 24 settembre 1916
Eccovi un uomo
uniforme

Eccovi un’anima
deserta
uno specchio impassibile

M’avviene di svegliarmi
e di congiungermi
e di possedere
Il raro bene che mi nasce
cosí piano mi nasce

E quando ha durato
cosí insensibilmente s’è spento

NOSTALGIA
Locvizza il 28 settembre 1916
Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa

Su Parigi s’addensa
un oscuro colore
di pianto
In un canto
di ponte
contemplo
l’illimitato silenzio
di una ragazza
tenue


Le nostre
malattie
si fondono

E come portati via
si rimane

PERCHÉ?
Carsia Giulia 1916
Ha bisogno di qualche ristoro
il mio buio cuore disperso

Negli incastri fangosi dei sassi
come un’erba di questa contrada
vuole tremare piano alla luce

Ma io non sono
nella fionda del tempo
che la scaglia dei sassi tarlati
dell’improvvisata strada
di guerra

Da quando
ha guardato nel viso
immortale del mondo
questo pazzo ha voluto sapere
cadendo nel labirinto
del suo cuore crucciato

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione
ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione


Guardo l’orizzonte
che si vaiola di crateri
Il mio cuore vuole illuminarsi
come questa notte
almeno di zampilli di razzi

Reggo il mio cuore
che s’incaverna
e schianta e rintrona
come un proiettile
nella pianura
ma non mi lascia
neanche un segno di volo

Il mio povero cuore
sbigottito
di non sapere

ITALIA
Locvizza l’1 ottobre 1916
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni

Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia

E in questa uniforme
di tuo soldato

mi riposo
come fosse la culla
di mio padre

COMMIATO
Locvizza il 2 ottobre 1916
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

Naufragi

ALLEGRIA DI NAUFRAGI
Versa il 14 febraio 1917
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare


NATALE
Napoli il 26 dicembre 1916
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi cosí
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

DOLINA NOTTURNA
Napoli il 26 dicembre 1916
Il volto
di stanotte
è secco

come una
pergamena

Questo nomade
adunco
morbido di neve
si lascia
come una foglia
accartocciata

L’interminabile
tempo
mi adopera
come un
fruscio

SOLITUDINE
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
del cielo

Sprofondano
impaurite

MATTINA
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
M’illumino
d’immenso

DORMIRE
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
Vorrei imitare


questo paese
adagiato
nel suo camice
di neve

INIZIO DI SERA
Versa il 15 febbraio 1917
La vita si vuota
in diafana ascesa
di nuvole colme
trapunte di sole

LONTANO
Versa il 15 febbraio 1917
Lontano lontano
come un cieco
m’hanno portato per mano

TRASFIGURAZIONE
Versa il 16 febbraio 1917
Sto
addossato a un tumulo
di fieno bronzato

Un acre spasimo
scoppia e brulica
dai solchi grassi

Ben nato mi sento
di gente di terra

Mi sento negli occhi
attenti alle fasi
del cielo
dell’uomo rugato


come la scorza
dei gelsi che pota

Mi sento
nei visi infantili
come un frutto rosato
rovente
fra gli alberi spogli

Come una nuvola
mi filtro
nel sole

Mi sento diffuso
in un bacio
che mi consuma
e mi calma

GODIMENTO
Versa il 18 febbraio 1917
Mi sento la febbre
di questa
piena di luce

Accolgo questa
giornata come
il frutto che si addolcisce

Avrò
stanotte
un rimorso come un
latrato
perso nel
deserto


SEMPRE NOTTE
Vallone il 18 aprile 1917
La mia squallida
vita si estende
piú spaventata di sé

In un
infinito
che mi calca e mi
preme col suo
fievole tatto

UN’ALTRA NOTTE
Vallone il 20 aprile 1917
In quest’oscuro
colle mani
gelate
distinguo
il mio viso

Mi vedo
abbandonato nell’infinito

GIUGNO
Campolongo il 5 luglio 1917
Quando
mi morirà
questa notte
e come un altro
potrò guardarla
e mi addormenterò
al fruscio
delle onde
che finiscono

di avvoltolarsi
alla cinta di gaggie
della mia casa

Quando mi risveglierò
nel tuo corpo
che si modula
come la voce dell’usignolo

Si estenua
come il colore
rilucente
del grano maturo

Nella trasparenza
dell’acqua
l’oro velino
della tua pelle
si brinerà di moro

Librata
dalle lastre
squillanti
dell’aria sarai
come una
pantera

Ai tagli
mobili
dell’ombra
ti sfoglierai

Ruggendo
muta in
quella polvere

mi soffocherai

Poi
socchiuderai le palpebre

Vedremo il nostro amore reclinarsi
come sera

Poi vedrò
rasserenato
nell’orizzonte di bitume
delle tue iridi morirmi
le pupille

Ora
il sereno è chiuso
come
a quest’ora
nel mio paese d’Affrica
i gelsumini

Ho perso il sonno

Oscillo
al canto d’una strada
come una lucciola

Mi morirà
questa notte?

SOGNO
Vallone il 17 agosto 1917
Ho sognato
stanotte
una
piana

striata
d’una
freschezza
In veli
varianti
d’azzurr’oro
alga
ROSE IN FIAMME
Vallone il 17 agosto 1917
Su un oceano
di scampanellii
repentina
galleggia un’altra mattina
VANITÀ
Vallone il 19 agosto 1917
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità

E l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra

Cullata e
piano
franta
DAL VIALE DI VALLE
Pieve Santo Stefano il 31 agosto 1917
Nettezza di montagne
risalita
nel globo
del tempo
ammansito

Girovago

PRATO
Villa di Garda aprile 1918
La terra
s’è velata
di tenera
leggerezza

Come una sposa
novella
offre
allibita
alla sua creatura
il pudore
sorridente
di madre

SI PORTA
Roma fine marzo 1918
Si porta
l’infinita
stanchezza
dello sforzo
occulto
di questo principio


che ogni anno
scatena la terra

GIROVAGO
Campo di Mailly maggio 1918
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

SERENO
Bosco di Courton luglio 1918
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle

Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo

Mi riconosco
immagine
passeggera

Presa in un giro
immortale

SOLDATI
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie


Prime
Parigi - Milano 1919

RITORNO
Trinano le cose un’estesa monotonia di assenze

Ora è un pallido involucro

L’azzurro scuro delle profondità si è franto

Ora è un arido manto
L’AFFRICANO A PARIGI
Chi trasmigrato da contrade battute dal sole dove le donne nascondono polpe ubertose e calmo come reminiscenza arriva ogni urlo,
Chi dall’esultanza di mari inabissati in cieli scenda a questa città, trova una terra opaca e una fuligine feroce.
Lo spazio è finito.
Concesso mai non mi sarà piú un allarme spregiudicato né in quel sole che scatenava e accomunava felici cose, incantevoli soste?
L’uomo lunatico che ora s’incontra, per innumerevoli strade disperso deve inquietarsi a mutare stupori
dall’abbaglio fatuo che lo circonda e tutte le volte gli rinveniranno nell’animo la derisione tutt’al piú, e le ferite della sua impazienza.
Non saprebbe piú mettergli paura, snaturato, la morte, ma senza scampo scelto a preda dall’assiduo terrore del futuro, tornerà sempre a lusingarsi di potersi conciliare l’eterno se a furia di noiosi scrupoli un giorno indovinata nel brevissimo soffio la grazia fortuita d’un istante raro, vagheggi che in mente gliene possa a volte restare un qualche emblema non offensivo.
Meno tanto puntiglio, non gli dura piú nulla.
Anche il corpo alla costante misura d’un tempo avaro, s’è fatto temerario e, troppo tesa corda musicale, dilaniante...
...
Dopo tutto tendono al caos.
Ah, vivre libre ou mourir!

IRONIA
Odo la primavera nei rami neri indolenziti. Si può seguire solo a quest’ora, passando tra le case soli con i propri pensieri.
È l’ora delle finestre chiuse, ma questa tristezza di ritorni m’ha tolto il sonno.
Un velo di verde intenerirà domattina da questi alberi, poco fa quando è sopraggiunta la notte, ancora secchi.
Iddio non si dà pace.
Solo a quest’ora è dato, a qualche raro sognatore, il martirio di seguirne l’opera.
Stanotte, benché sia d’aprile, nevica sulla città.
Nessuna violenza supera quella che ha aspetti silenziosi e freddi.

LUCCA
A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata.
La città ha un traffico timorato e fanatico.
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell’osteria con della gente che mi parla di California come d’un suo podere.
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti.
Ho preso anch’io una zappa.
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere.
Addio desideri, nostalgie.
So di passato e d’avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane piú nulla da profanare, nulla da sognare.
Ho goduto di tutto, e sofferto.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo la vita.
Ora che considero, anch’io, l’amore come una garanzia della specie, ho in vista la morte.
UN SOGNO SOLITO
Il Nilo ombrato
le belle brune
vestite d’acqua
burlanti il treno

Fuggiti

PREGHIERA
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera

Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore 5
di quel giovane giorno al primo grido
SCOPERTA DELLA DONNA
Ora la donna mi apparve senza piú veli, in un pudore naturale.
Da quel tempo i suoi gesti, liberi, sorgenti in una solennità feconda, mi consacrano all’unica dolcezza reale.
In tale confidenza passo senza stanchezza.
In quest’ora può farsi notte, la chiarezza lunare avrà le ombre piú nude.
Sulla soglia della Galleria della Cometa. Si riconoscono, da sinistra, Mirko, Corrado Cagli, Sibilla Aleramo, Anna Laetitia Pecci Blunt, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, un’amica, Libero de Libero.
 
GIUSEPPE UNGARETTI