Ungaretti
la poetica
Da Il Porto sepolto a L'Allegria
Nel riordinare le sue poesie, dando loro un titolo complessivo, Ungaretti volle sottolineare il carattere autobiografico, proponendole come una sorta di nuova e versificata recherche (il riferimento al titolo del capolavoro di Proust non è casuale, se si pensa che Ungaretti fu forse il primo scrittore a parlare dell'opera di Proust in Italia, nel 1919). Egli stesso, del resto, aveva affermato: «Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un'opera d'arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione». Ma la componente autobiografica riscontrabile nella poesia ungarettiana è assai diversa da quella di un Saba. Il rapporto fra letteratura e vita è piuttosto quello che verrà codificato a proposito dell'Ermetismo, attribuendo all'arte il significato di un'esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile.
Se le poesia pubblicate su «Lacerba», nel 1915, hanno ancora cadenze discorsive e cronachistiche, le liriche del Porto sepolto, uscite alal fine dell’anno successivo, assumono un andamento completamente diverso, che brucia ogni residuo puramente descrittivo o realistico. È questa la fase decisiva della ricerca poetica ungarettiana, esemplificata dai testi che confluiranno poi nell’Allegria (1931). Ricollegandosi alla lezione del Simbolismo, Ungaretti porta alle estreme conseguenze il procedimento dell'analogia, ricollegandosi in questo anche alle indicazioni di Marinetti (del quale respinge tuttavia ogni presupposto di dinamismo meccanicistico). Ecco quanto scriveva in proposito: «Se il carattere dell'800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo, il poeta d'oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all'innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno». Ungaretti usa qui alcuni termini essenziali per intendere la natura del suo linguaggio poetico: se la «memoria» è il fardello dei ricordi personali e storici che l'uomo porta con sé, e che lo collegano alla dimensione contingente della vita, l'«innocenza» rappresenta la ricerca di una purezza edenica (cfr. Girovago, vv. 24-25), la riconquista dell'identità perduta, che metta l'uomo a contatto con la dimensione originaria dell'essere. Ma la «lontananza da varcare» (ritorna il motivo del viaggio) deve essere bruciata «in un baleno», proprio per liberarsi da ogni impurità, portando il contingente nella sfera dell'assoluto. La poesia assume anche, di conseguenza, un valore metafisico e religioso, come afferma ancora Ungaretti: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio, anche quando è una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l'invisibile nel visibile».
Sul piano tecnico (che coincide, in ultima analisi, con quello metafisico) l'operazione consiste nella distruzione del verso tradizionale, che, con la sua sintassi ancora naturalistica (in quanto, con evidente ripresa di una terminologia positivistica, stabilisce «legami a furia di rotaie e di ponti» ecc.), è distratto dal vero obiettivo della ricerca poetica. L'innovazione ungarettiana venne certo favorita dalla rivoluzione futurista delle parole in libertà, di cui è tuttavia rifiutato il movimento caotico, ancora immerso nel cuore della materia, con il suo analogismo onomatopeico e naturalistico. La strada da percorrere era quella additata da Mallarmé, nella suprema e più ardua delle sue prove poetiche, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso. E la direzione che attribuisce alla poesia un significato magico ed esoterico, collocandola nell'oscura zona di confine che sta a ridosso dell'inconoscibile e dell'inesprimibile. Resta fondamentale, in questo senso, il significato della «parola», che assume il valore di una improvvisa e folgorante "illuminazione"; essa si identifica con l'«attimo » in cui, attraverso l'immediatezza del rapporto analogico, la poesia sfiora la totalità e la pienezza dell'essere. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza (o, se si vuole, nella sua «innocenza»), inserita, in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà.
In questo senso va inteso l'autobiografismo su cui lo stesso Ungaretti ha posto l'accento, riscoprendo anche la dimensione della sua preistoria poetica: dall'infanzia e dalla giovinezza trascorse ad Alessandria, con le impressioni di un paesaggio affidato poi alle testimonianze della memoria, fino all'incontro con l'Italia, la «terra promessa» dei suoi genitori. Da questi riscontri sono tratti i temi e i motivi dell'esordio poetico: il deserto, il miraggio, le cantilene arabe, come ricordo degli anni egiziani; il mare, il porto, il viaggio, legati alla vicenda dell' emigrante. Il discorso si approfondisce nel motivo dell'esilio (cfr. In memoria) e dell'estraneità, proprio di Girovago. Un temporaneo -seppure decisivo - momento di approdo è costituito dall'esperienza del fronte, che offre a Ungaretti gli spunti per alcune delle sue liriche più crude e sofferte, spoglie di ogni retorica (Veglia, I fiumi). Ma la guerra gli consente anche di stabilire un contatto con la propria gente e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato (cfr. I fiumi). La guerra, infine, costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte (cfr . Soldati), dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all'improvviso; essa traduce così in immagini concrete, in cui ci si può imbattere in ogni momento, quella " poetica dell'attimo" che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti.
Non a caso la sua ispirazione si definisce proprio in questo periodo, saldando le ragioni dell'autobiografismo esistenziale con la conquista (avvenuta molto rapidamente) della nuova tecnica espressiva, capace di rendere l'assolutezza di una aspirazione metafisica. In questo senso il poeta recupera anche, nell'edizione definitiva de L’Allegria, alcuni testi precedenti (datati Milano 1914-15), dove già si delineava l'oscillazione dialettica tra essere e nulla, realtà e mistero, presenza e assenza, gesto e immobilità (cfr. la lirica che introduce anche l'edizione definitiva delle poesie e che si intitola Eterno: «Tra un fiore colto e l'altro donato / l'inesprimibile nulla»). Particolarmente indicativi risultano, allora, i titoli delle prime due raccolte pubblicate, nel 1916 e nel 1919. Il porto sepolto allude a «ciò che segreto rimane in noi, indecifrabile», ed ha una fonte precisa nel racconto favoloso di due amici francesi: «Mi parlavano di un porto, di un porto sommerso, che doveva precedere l'epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro, che già prima di Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s'annienta d'attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d'ogni era d'Alessandria». Il «porto sepolto» equivale così al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un «abisso» nel quale deve immergersi il poeta. Per quanto riguarda Allegria di naufragi, lo stesso Ungaretti, in una nota, ha spiegato il carattere ossimorico del sintagma, parlando dell'«esultanza d'un attimo», di un'«allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare». Una sorta di più pregnante spiegazione poetica è data dalla lirica del 1917 dal titolo omonimo: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare». Non a caso il motivo del «naufragio» (che richiama subito quello dell'«abisso» ) era stato sviluppato da Mallarmé nell'ultima parte di Un colpo di dadi); esso si collega inoltre al motivo del «viaggio», come simbolo di una presenza della «morte» sempre latente (come dirà Ungaretti in un verso di Lindoro di deserto: «Sino alla morte in balia del viaggio»). Il significato religioso di questa ricerca poetica è suggellato dalla lirica Preghiera, un'invocazione che, richiamandosi allontano esempio del Petrarca, conclude L 'allegria: «Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di , quel giovane giorno al primo grido».
Il Sentimento del tempo
Le poesie scritte a partire dal 1919 e inserite nel Sentimento del tempo (1933) rappresentano un sostanziale mutamento delle prospettive, anche per quanto riguarda le soluzioni stilistiche e formali. Alla poetica dell'attimo si sostituisce una diversa percezione del tempo, che viene adesso inteso come continuità e durata, non per il venir meno del ruolo del soggetto, ma per attuare il recupero di una dimensione più complessa e problematica dell'esistenza. Nella collocazione all'interno del canzoniere, la raccolta appare come la seconda tappa del viaggio ungarettiano o, per usare le parole stesse del poeta, come «secondo tempo d'esperienza umana». Sul piano tecnico, la sua novità essenziale consiste nel recupero delle strutture sintattiche e, soprattutto, delle forme metriche tradizionali (in particolare l'endecasillabo, sulla cui «difesa» Ungaretti scriverà un apposito saggio). Si comprende così il vero significato dell'operazione compiuta ne L’Allegria: una distruzione del verso non polemica e fine a se stessa, ma condotta consapevolmente allo scopo di risentirlo come nuovo, ingenuo, per poi ricomporlo e farlo rinascere dall'interno. Non a caso l'operazione presuppone la rilettura e la rimeditazione di Petrarca e Leopardi, oltre a coincidere con il soggiorno a Roma, che sembra riunire e simboleggiare la loro esperienza: alla base dell'atmosfera romana e della poesia petrarchesco-leopardiana esiste infatti un'analoga percezione della rovina, della decadenza. Leopardi sente la fine di una civiltà giunta al culmine della sua evoluzione; Petrarca si trova di fronte a un mondo da ripristinare: quello della classicità, attraverso la memoria. Ma la memoria, come rinnovata presa di possesso, si identifica in qualche rudere e forma mutilata, in un sentimento dell'esistenza che Roma riassume in quanto città barocca. Per comprendere il suo mistero occorre risalire a Michelangelo e alla sua arte, che è unione di contrari, fusione di Giustizia e Pietà, di Dio e Uomo, in Cristo, giudice e vittima al tempo stesso. In questo senso il Barocco agisce anche a livello religioso: la vita, come incessante processo di distruzione e creazione, genera, per l'uomo, il dramma dell'antinomia tra «l'infallibilità fantastica del facitore» e la «precarietà della propria condizione». La lezione romana, inoltre, induce Ungaretti a registrare i cambiamenti della natura e a ricomporre le fratture in un nuovo mosaico, dal momento che il Barocco distrugge e ricompone dopo l'esplosione.
Nasce di qui la poesia del tempo e delle sue metamorfosi, nell'incessante travaglio delle ore e delle stagioni: dal mattino alla sera, dalla primavera all'autunno. Lo stesso Ungaretti ha dichiarato come la sua attenzione fosse volta, fino a11932, a osservare il paesaggio: soprattutto paesaggi d'estate, essendo l'estate la stagione a lui più congeniale e anche «la stagione del barocco». Ma Roma vale anche in quanto suscitatrice di immagini mitologiche. Nel grande e composito affresco ungarettiano, le figure del mito (da Crono ad Apollo e Giunone) diventano le «voci del vocabolario accorse a evocare i fantasmi», colmando così quella sensazione di vuoto, anch'essa tipicamente barocca, che si prova ad esempio davanti al Colosseo, «enorme tamburo con orbite senz'occhi». Complesse ragioni di poetica sono alla base, come si è visto, della seconda raccolta dei versi ungarettiani. Più in particolare, in un intervento del 1963, Ungaretti commenta Ungaretti, il poeta ne ha così individuato le strutture profonde: «Ci sono tre momenti nel Sentimento del tempo del mio modo di sentire successivamente il tempo. Nel primo mi provavo a sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica; nel secondo, una civiltà minacciata di morte mi induceva a meditare sul destino dell'uomo e a sentire il tempo, l'effimero, in relazione con l'eterno; l'ultima parte del Sentimento del tempo ha per titolo L'amore, e in essa mi vado accorgendo dell'invecchiamento e del perire nella mia carne stessa».
La sezione centrale, quasi interamente composta da poesie de11925, si intitola La fine di Crono (Crono, padre di Zeus, è il simbolo del tempo) ed esemplifica più direttamente gli intendimenti dell'intera raccolta, secondo cui «la parabola dell'anno e quella del giorno sono forse eterne figure dell'armonia universale, mentre l'uomo non è che un punto fra due infiniti oblii. Il silenzio della tomba è uguale a quello di prima della culla. È l'eternità. Ma l'uomo in vita, non s'affanna che a volere, invano, percorrer da vivo, cosciente, colla sua intatta persona, la sua patria silenziosa, l'eternità. Ho voluto dire che l'uomo, creatura, fatto temporale, si porta, morendo, con sé il mondo, il quale con lui era nato, cresciuto, con lui era giunto, quando ci arriva, all'apice della salita, e poi, appiè del declivio». Il succedersi di un tempo che è insieme assoluto e individuale si sviluppa dalla Nascita dell'aurora alle immagini apocalittiche della Morte di Crono, fino a riprendere, nella lirica conclusiva Pari a sé, il motivo del viaggio e della nave: « Va la nave sola / nella quiete della sera» (in un simile contesto si colloca anche L'isola, in cui l'andamento mitico-paesaggistico è tutto intessuto di preziosi riferimenti alla tradizione letteraria). Personali rielaborazioni e variazioni di spunti leopardiani si possono considerare L'inno alla morte e Notte di marzo, dove Ungaretti riprende il tema di amore-morte e il motivo dell'invocazione alla luna. Le poesie mitico-primaverili come Apollo e Aprile preludono poi alla violenza paesaggistica delle liriche estive (Di luglio, D'agosto), il cui vitalismo distruttore si risolve, in Giunone, nel torbido grido dei sensi. Il tormento della carne si placa negli inni, che pongono il problema religioso come esigenza decisiva e totale, investendo di una nuova luce le ansie più profonde della poesia ungarettiana. I motivi della preghiera e gli stilemi dell'invocazione a Dio appaiono così come lo sforzo di liberare una tensione contraddittoria (tra la giustizia e la legge, la purezza e il peccato, lo spirito e la materia), per rimarginare una ferita aperta dalle tentazioni, dalle angosce e dalle colpe. Non a caso il sogno ricorrente è quello di una purezza edenica, ormai compromessa dalla memoria (Caino) e sostituita da un perenne destino di espiazione.
Le ultime raccolte
A interrompere la parabola delle stagioni, con gli ardui simboli in cui si compendia la «vita di un uomo», e a farne precipitare gli eventi, interviene nel 1947 la pubblicazione di Il dolore, in cui sono comprese le poesie dell'ultimo decennio. La raccolta si fa voce del tormento personale (la morte del fratello e del figlio di nove anni) e collettivo (la guerra). Per la sofferta partecipazione a queste esperienze, i testi non sono accompagnati da alcuna nota dell'autore, che si limita ad osservare: «So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d'essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi». Entro quest'ottica, Il dolore può essere definito come il libro più petrarchesco, quello che rivela con maggiore evidenza la sua struttura di diario patetico, risolvendosi, quale specchio di vita, in immediata confessione autobiografia. Alle due poesie scritte nel 1937 in memoria del fratello, riunite sotto il titolo della prima, Tutto ho perduto, seguono le sezioni Giorno per giorno (1940-46) e Il tempo è muto (1940-45), dedicate al figlio scomparso. La prima è concepita alla stregua di una cronistoria del proprio dolore, misurato nelle minime ripercussioni. L'assenza della persona fisica è compensata da segni («il volto già scomparso», «gli occhi ancora vivi», «le fiduciose mani», «l'ombra che mi si pone a lato», «l'ingenua voce», «il tuo felice volto»), cui si attribuisce la possibilità di proseguire un colloquio che, nonostante lo strazio («E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...»), si vuole mantenere in vita: «Passa la rondine e con essa l'estate, / e anch'io, mi dico, passerò... / Ma resti dell'amore che mi strazia / non solo segno un breve appannamento / se dall'inferno arrivo a qualche quiete... ». La trasfigurazione del figlio, in una luce di purificazione e di speranza religiosa, diviene così anche sinonimo di innocenza: « Fa dolce e forse qui vicino passi / dicendo: "Questo sole e tanto spazio / ti calmino. Nel puro vento udire / puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l'aurora e intatto giorno"». Con i versi di Roma occupata (1943-44) e I ricordi (1942-46), la tragedia individuale si risolve in quella dell'intera nazione. Le immagini della guerra danno la dimensione di uno sconvolgimento apocalittico, in cui gli stessi toni biblici ed evangelici del linguaggio ripropongono il valore di una fede religiosa o la richiesta di una umana solidarietà, ora offesa e conculcata, cui affidare le sorti di un'intera civiltà minacciata (cfr . Non gridate più).
La raccolta successiva, La terra promessa, pubblicata nel 1950, comprende i «frammenti» di un più ampio progetto, iniziato nel 1935 ma rimasto a uno stadio di abbozzo: la composizione di un melodramma, con personaggi, musica e cori. La vicenda avrebbe dovuto rappresentare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l'amore di Didone e la morte dell'eroina, con un disegno allegorico capace di riflettere le tematiche di fondo della poesia ungarettiana (la ricerca di una nuova «terra» per sfuggire alla legge del tempo, il contrasto tra il dovere e la passione, con l'approdo finale nella morte). I diciannove Cori descrittivi di stati d'animo di Didone intendono raffigurare «il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, perché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono», attraverso il «delirare di una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta». Il taccuino del vecchio (1961) comprende le poesie del periodo 1952-60 ed è per la maggior parte composto dagli Ultimi cori per la terra promessa, che stabiliscono un ideale rapporto di continuità con l'opera precedente. L’opera è tuttavia mutata: da un lato, la «terra promessa» tende sempre più ad identificarsi con la fine delle stagioni e della vita; dall’altro, la proiezione mitica viene a cadere, per lasciare nuovamente il posto alla prima persona del poeta, che, collocato, fra il tempo e la morte, cerca un bilancio definitivo della propria esperienza umana e poetica.